RIPRODUZIONE DELLA LEX SPOLETINA SUL BOSCO SACRO |
LEX SPOLETINA - LA I NORMA FORESTALE
All'ingresso del bosco è posta infatti una copia lapidea della cosiddetta Lex spoletina, primo esempio di norma forestale: iscrizioni su pietra del tardo III secolo a.c., scritte in latino arcaico, che stabiliscono le pene per la profanazione del Bosco sacro dedicato a Giove.
Gli originali, due iscrizioni incise su cippi parallelepipedi entrambe scoperte da Giuseppe Sordini, archeologo spoletino (1853-1914), nel 1876 e nel 1913, sono conservati nel Museo Archeologico di Spoleto.
La "Lex spoletina" o "Lex luci spoletina"è un documento epigrafico (catalogato: Lex spoletina, CIL, XI, 4766) scritto in latino arcaico su pietra calcarea (pietra locale) datata dagli ultimi decenni del III sec. a.c. ai primi del II sec. a.c.. È composto da due iscrizioni che impongono dei regolamenti sull'utilizzo dei boschi considerati sacri.
Entrambe sono conservate a Spoleto nel Museo archeologico nazionale. Il documento è noto come una delle più importanti e antiche testimonianze concernenti i luci nel mondo romano, essendo stato ritrovato e quindi per conoscenza diretta e non tramite fonti.
Nell'antico documento è scritto:
Nel 241 a.c. Spoleto divenne una colonia romana e successivamente municipio, con il nome di Spoletium, facendosi ben presto fiorente e ricca di monumenti, e rimase fedele alleata di Roma anche durante le guerre puniche, quando respinse vittoriosamente l'esercito di Annibale dopo la battaglia del Trasimeno nel 216 a.c. Augusto apprezzò la zona e il lucus cui si recò per fare sacrifici rituali, amante com'era dei vecchi culti romani e pure preromani o italici.
Infatti il bosco di Giove fu sicuramente più antico del culto romano, perchè il suolo italico era pieno di boschi sacri, in genere riservati alle Grandi Dee Madri del passato, come il Lucus Feronia, Lucus Angizia, Lucus Fagutale, lucus Libitinae, lucus Maiae ecc. I boschi sacri furono i primitivi santuari, posti in genere non lungi da una fonte.
Di solito il lucus veniva festeggiato una volta l'anno e per l'occasione i sacerdoti addetti ne tagliavano dei rami per donarli alla popolazione che li portava in processione e poi a casa ponendola nel larario o bruciandola sacralmente. nel bosco poi si usava porre nastri colorati sui rami con offerte di acqua, di vino o di focacce per gli abitanti visibili e invisibili del lucus.
«Sebbene antichissima, conteneva tutti i concetti che servivano per rispettare la natura», dice Bianca Maria Landi, dottore in progetti ambientali e forestali a Firenze, a proposito della Lex Spoletina «In essa veniva detto cosa era vietato fare, la pena prevista in caso di inosservanza e chi era preposto al controllo e alla riscossione della multa stabilita». Testualmente si legge: «In questo bosco sacro nessuno osi portar via alcunché».
Tutto era intoccabile: gli alberi si potevano tagliare una volta all’anno in occasione di una sorta di sacrificio alla divinità. Chi non rispettava questo divieto doveva pagare 300 assi al dicator, il magistrato che secondo alcuni aveva una funzione esclusivamente religiosa mentre per altri era colui che doveva mettere in pratica la norma facente parte del diritto pubblico a tutti gli effetti.
Entrambe sono conservate a Spoleto nel Museo archeologico nazionale. Il documento è noto come una delle più importanti e antiche testimonianze concernenti i luci nel mondo romano, essendo stato ritrovato e quindi per conoscenza diretta e non tramite fonti.
Nell'antico documento è scritto:
«Questo bosco sacro nessuno profani,
né alcuno asporti su carro o a braccia ciò che al bosco sacro appartenga,
né lo tagli, se non nel giorno in cui sarà fatto il sacrificio annuo;
in quel giorno sia lecito tagliarlo senza commettere azione illegale
in quanto lo si faccia per il sacrificio.
Se qualcuno lo profanerà,
faccia espiazione offrendo un bue a Giove
ed inoltre paghi 300 assi di multa.
Il compito di far rispettare l'obbligo
tanto dell'espiazione quanto della multa sia svolto dal dicator.»
Il Lucus è oggi considerato un interessante patrimonio artistico e naturalistico tanto da essere inserito tra i luoghi osservati dal Comitato del Patrimonio mondiale UNESCO. Il Bosco sacro di Monteluco è caratterizzato dalla presenza del leccio sempreverde, una pianta abbastanza rara in luoghi così distanti dal mare o dai laghi.
Purtroppo con l'avvento del cristianesimo si è distrutta ogni traccia dell'antico santuario, costruendovi sopra eremi, chiese e monasteri come a cancellare le tracce del passato.
Recenti studi sulla lecceta del ‘Bosco Sacro’ ne hanno evidenziato l’antica natura, numerose piante raggiungono un’età che varia dai 500 ai 200 anni, mentre alcune ceppaie potrebbero essere millenarie. Il bosco si estende per ben 504 ettari e geologicamente interessa un rilievo calcareo.
Purtroppo con l'avvento del cristianesimo si è distrutta ogni traccia dell'antico santuario, costruendovi sopra eremi, chiese e monasteri come a cancellare le tracce del passato.
Recenti studi sulla lecceta del ‘Bosco Sacro’ ne hanno evidenziato l’antica natura, numerose piante raggiungono un’età che varia dai 500 ai 200 anni, mentre alcune ceppaie potrebbero essere millenarie. Il bosco si estende per ben 504 ettari e geologicamente interessa un rilievo calcareo.
Infatti il bosco di Giove fu sicuramente più antico del culto romano, perchè il suolo italico era pieno di boschi sacri, in genere riservati alle Grandi Dee Madri del passato, come il Lucus Feronia, Lucus Angizia, Lucus Fagutale, lucus Libitinae, lucus Maiae ecc. I boschi sacri furono i primitivi santuari, posti in genere non lungi da una fonte.
Di solito il lucus veniva festeggiato una volta l'anno e per l'occasione i sacerdoti addetti ne tagliavano dei rami per donarli alla popolazione che li portava in processione e poi a casa ponendola nel larario o bruciandola sacralmente. nel bosco poi si usava porre nastri colorati sui rami con offerte di acqua, di vino o di focacce per gli abitanti visibili e invisibili del lucus.
«Sebbene antichissima, conteneva tutti i concetti che servivano per rispettare la natura», dice Bianca Maria Landi, dottore in progetti ambientali e forestali a Firenze, a proposito della Lex Spoletina «In essa veniva detto cosa era vietato fare, la pena prevista in caso di inosservanza e chi era preposto al controllo e alla riscossione della multa stabilita». Testualmente si legge: «In questo bosco sacro nessuno osi portar via alcunché».
Tutto era intoccabile: gli alberi si potevano tagliare una volta all’anno in occasione di una sorta di sacrificio alla divinità. Chi non rispettava questo divieto doveva pagare 300 assi al dicator, il magistrato che secondo alcuni aveva una funzione esclusivamente religiosa mentre per altri era colui che doveva mettere in pratica la norma facente parte del diritto pubblico a tutti gli effetti.
Coeva a quest’ultima era la Lex Luci Lucerina, che a un certo punto afferma: se il divieto viene violato, «chiunque ne abbia voglia» può richiedere un rimborso al trasgressore. «Sancisce il diritto della collettività che è un concetto incredibilmente attuale», dice Bianca Maria Landi. «Da poco tempo si parla infatti di diritti diffusi, di risarcimento ambientale e di ruolo della collettività come promotrice di azione e di risoluzione del danno».
Identificati i lecci sacri ai romani
nel bosco di Monteluco
Sono esemplari con ceppaie di oltre duemila anni e 3 metri di diametro. Nella zona tracce di culto antichissime
nel bosco di Monteluco
Sono esemplari con ceppaie di oltre duemila anni e 3 metri di diametro. Nella zona tracce di culto antichissime
MILANO -
DATAZIONE - La disposizione geometrica ha dato inoltre il suo contributo nel riposizionare storicamente quest’area. Alcuni fusti oggi isolati facevano infatti parte di uno stesso cerchio di alberi: lo dimostra il loro patrimonio genetico identico. Da qui a pensare che appartenessero a millenarie ceppaie ormai disgregate il passo è breve. Quanti anni hanno? Le indagini dendrocronologiche che studiano gli anelli dei tronchi, la loro ampiezza e variazione, sostengono che risalgono a circa 500 anni.
Segno che le ceppaie hanno un’età quattro volte superiore, intorno ai duemila anni. «La datazione con il C14 (carbonio-14), già usata per i fossili, costituirebbe la prova decisiva», dice Bartolomeo Schirone. «A tutt’oggi non è stato però possibile eseguirla per ragioni economiche». Si spera dunque nella sensibilità delle istituzioni che possano sovvenzionare questo ramo della scienza.
Segno che le ceppaie hanno un’età quattro volte superiore, intorno ai duemila anni. «La datazione con il C14 (carbonio-14), già usata per i fossili, costituirebbe la prova decisiva», dice Bartolomeo Schirone. «A tutt’oggi non è stato però possibile eseguirla per ragioni economiche». Si spera dunque nella sensibilità delle istituzioni che possano sovvenzionare questo ramo della scienza.