SACERDOTI FEZIALI |
"la loro origine viene fatta risalire al primo periodo monarchico, a Numa Pompilio (754 a.c. – 673 a.c.), forse a Tullo Ostilio ( ... – 641 a.c.) o ad Anco Marzio (675 a.c. – 616 a.c.), ma si sa che un analogo Collegio era attivo anche ad Alba Longa (città del Latium vetus, a capo della confederazione dei popoli latini)"
Secondo Livio (I, 32, 1 – 5), fu il re Numa Pompilio a porre il rituale sacro nelle dichiarazioni di guerra, prendendo esempio da quello del popolo degli Equicoli, una frazione della stirpe degli Equi, cosicchè Roma avesse anche in questo l'approvazione degli Dei:
"Ut tamen, quoniam Numa in pace religiones instituisset, a se bellicae caerimoniae proderentur, nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequicolis, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur."
MONETA CON SACRIFICIO DI UN MAIALINO PER MANO DI UN FEZIALE |
Tito Livio, la guerra contro gli Equi (V sec. a.c.):
«Il console Valerio, che aveva marciato col suo esercito contro gli Equi, non riuscendo a provocare il nemico a battaglia, s'accinse ad assalirne l'accampamento. Glielo impedì una spaventosa tempesta che si rovesciò dal cielo con grandine e tuoni. Il suo stupore crebbe poi quando, dato il segnale della ritirata, il tempo ritornò così calmo e sereno che, come se il campo fosse difeso da qualche divinità, gli parve un sacrilegio assediarlo di nuovo».
BELLUM IUSTUM
Livio aggiunge che quando Roma riteneva di aver subito un torto si inviavano due rappresentanti dei feziali presso il popolo ritenuto manchevole. Si trattava del "pater patratus", ossia colui che parlava (patrabat) a nome di Roma e del "verbenarius", portatore di una zolla di verbena presa dall’arce capitolina che garantiva la loro incolumità in veste di ambasciatori, in quanto rappresentanti del suolo di Roma. Pertanto se non si rispettavano gli ambasciatori era guerra immediata.
Giunti i due feziali al confine della città straniera, il pater patratus recitava una preghiera a Giove a testimoniare la giustizia delle sue intenzioni:
"Legatus ubi ad fines eorum venit unde res repetuntur, capite velato filo – lanae velamen est – “Audi Iuppiter”, inquit, “audite fines” – cuiuscumque gentis sunt nominat – “audiat fas: ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit”. Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: “Si ego iniuste impieque illos nomine illasque res didier … mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse."
"Giunto l’ambasciatore al confine del popolo a cui si chiede soddisfazione, col capo cinto da una benda di lana pronuncia: “Ascolta Giove, ascoltate confini, (e nomina il popolo a cui appartengono), ascolti la volontà divina: io sono il nunzio ufficiale del popolo romano; vengo delegato giustamente e santamente e alle mie parole sia prestata fede”. Dopo aver esposto le richieste, invoca Giove a testimone: “Se ingiustamente ed empiamente chiedo che mi siano consegnati gli uomini e le cose … non lasciare che mai più io sia rientri nella mia patria”.
Pronunciata la formula i due feziali entravano nella città e ripetevano le stesse parole, con qualche variante, a chiunque incontrassero finché non arrivavano nella piazza, per assicurarsi che tutta la cittadinanza fosse a conoscenza dell'accadimento e della legittimità del loro operato.
Giunti nella piazza principale il pater patratus di Roma chiamava a gran voce il "pater patratus" della città e illustrava la richiesta della quale era latore, cioè la restituzione del mal tolto, lconcedendo 30 giorni per prendere una decisione. A questo punto il loro compito era terminato e i due feziali tornavano in patria.
Anche Servio (Aen. 9, 52) narra che il pater patratus, dopo aver recitato il rituale del "justum bellum", esponeva la richiesta di Roma, con l'invocazione agli Dei:ù
"pater patratus, hoc est princeps fetialium, profiscebatur ad hostium fines, et praefatus quaedam sollemnia, clara voce dicebat…"
"Il pater patratus, cioè il capo dei Feziali, si spingeva ai confine dei nemici e, dopo aver detto alcune formule solenni, a chiara voce diceva…"
Trascorsi i trenta giorni i due feziali tornavano nella città e ascoltavano la risposta: se fosse stato deciso di riparare al danno arrecato, allora i due legati stipulavano un patto (foedus ferire) mediante il sacrificio di un maiale che veniva immolato usando un coltello di pietra che poi veniva scagliato lontano.
La cerimonia si svolgeva avendo come testimone il lapis silex (pietra di selce) che essi portavano con sé dopo averlo preso dal tempio di Giove Feretrio. Si trattava di una pietra dura (forse un’ascia litica preistorica) considerata il simulacro aniconico del Dio, su cui i Romani facevano giuramenti di carattere sia pubblico (foedus) che privato.
Se invece, come riporta sempre Livio (I, 32, 10), la città straniera decideva di non dare soddisfazione, i due feziali, dopo aver chiamato a testimoni gli Dei, dichiaravano che sarebbero tornati a Roma per riportare la decisione al Senato che avrebbe deciso se muovere guerra.
"Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, diique omnes caelestes, vosque terrestres, vosque inferni, audite: ego vos testor populum illum” – quicumque est, nominat – “iniustum esse neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adispicamur”. Tum … nuntius Romam ad consulendum redit."
"Ascolta o Giove, e tu o Giano Quirino, e voi tutti dei del cielo, della terra e degli inferi, ascoltate: io vi invoco a testimoni che il popolo – e ne fa il nome – è ingiusto e non concede la riparazione dovuta. Ma su queste cose consulteremo i senatori in patria, su come far valere il nostro diritto. Poi…..il messaggero torna a Roma a riferire."
Se invece, come riporta sempre Livio (I, 32, 10), la città straniera decideva di non dare soddisfazione, i due feziali, dopo aver chiamato a testimoni gli Dei, dichiaravano che sarebbero tornati a Roma per riportare la decisione al Senato che avrebbe deciso se muovere guerra.
BELLONA |
"Ascolta o Giove, e tu o Giano Quirino, e voi tutti dei del cielo, della terra e degli inferi, ascoltate: io vi invoco a testimoni che il popolo – e ne fa il nome – è ingiusto e non concede la riparazione dovuta. Ma su queste cose consulteremo i senatori in patria, su come far valere il nostro diritto. Poi…..il messaggero torna a Roma a riferire."
Tornati a Roma i due legati riferivano al re e al Senato l'accaduto nella città nemica e i padri si riunivano quindi per decidere se entrare in guerra. In caso affermativo il re chiedeva a ciascuno dei presenti cosa pensasse della situazione e se fosse giusto o meno muovere guerra contro quella città.
Pertanto i feziali erano solo ambasciatori, ma non avevano voce in capitolo nella decisione finale.
Se il senato decideva la guerra, i due feziali tornavano alla città ora nemica portando con sé una lancia:
"Fieri solitum ut fetialis hastam ferratam aut sanguineam praeustam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: - Quod populi Priscorum Latinorum homines que Prisci Latini adverus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusve populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus Quiritium populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque -. Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat."
"Era usanza che il feziale portasse al confine nemico un’asta con la punta di ferro, oppure di corniolo rosso aguzzata nel fuoco, e dicesse alla presenza di almeno tre uomini almeno puberi: “Poiché i popoli dei Prischi Latini e gli uomini Prischi Latini agirono ingiustamente contro il popolo romano dei Quiriti, poiché il popolo romano dei Quiriti ha proposto, approvato, deliberato che si facesse la guerra con i Prischi Latini, io a nome del popolo romano dichiaro e muovo guerra ai popoli dei Prischi Latini e agli uomini dei Prischi Latini”. Detto ciò scagliava l’asta nel loro suolo."
Finché Roma si trovò a combattere con nemici “vicini” il rito rimase invariato ma quando iniziò la sua espansione al di fuori del suolo italico il rito cambiava. Livio narra che nella dichiarazione di guerra a Cartagine i due feziali vennero inviati in loco, ma fu un'eccezione. Quando, in seguito all’espansione romana, la distanza del territorio avversario rese difficile il compimento del rito, il tempio di Bellona divenne teatro della cerimonia: il feziale, in piedi su una colonnetta, detta columella bellica, scagliava il giavellotto verso lo spiazzo di terreno antistante il tempio, considerato simbolicamente territorio nemico perché fatto acquistare a un prigioniero.
Pertanto i feziali erano solo ambasciatori, ma non avevano voce in capitolo nella decisione finale.
Se il senato decideva la guerra, i due feziali tornavano alla città ora nemica portando con sé una lancia:
"Fieri solitum ut fetialis hastam ferratam aut sanguineam praeustam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: - Quod populi Priscorum Latinorum homines que Prisci Latini adverus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusve populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus Quiritium populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque -. Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat."
"Era usanza che il feziale portasse al confine nemico un’asta con la punta di ferro, oppure di corniolo rosso aguzzata nel fuoco, e dicesse alla presenza di almeno tre uomini almeno puberi: “Poiché i popoli dei Prischi Latini e gli uomini Prischi Latini agirono ingiustamente contro il popolo romano dei Quiriti, poiché il popolo romano dei Quiriti ha proposto, approvato, deliberato che si facesse la guerra con i Prischi Latini, io a nome del popolo romano dichiaro e muovo guerra ai popoli dei Prischi Latini e agli uomini dei Prischi Latini”. Detto ciò scagliava l’asta nel loro suolo."
Finché Roma si trovò a combattere con nemici “vicini” il rito rimase invariato ma quando iniziò la sua espansione al di fuori del suolo italico il rito cambiava. Livio narra che nella dichiarazione di guerra a Cartagine i due feziali vennero inviati in loco, ma fu un'eccezione. Quando, in seguito all’espansione romana, la distanza del territorio avversario rese difficile il compimento del rito, il tempio di Bellona divenne teatro della cerimonia: il feziale, in piedi su una colonnetta, detta columella bellica, scagliava il giavellotto verso lo spiazzo di terreno antistante il tempio, considerato simbolicamente territorio nemico perché fatto acquistare a un prigioniero.
Infatti nella dichiarazione di guerra contro Pirro, narra Servio (Aen. 9, 52) che si costrinse uno dei prigionieri a comprare un fazzoletto di terra nella zona del Circo Flaminio, davanti al tempio di Bellona, dove venne consacrata una colonna dalla quale si scagliava la lancia: in tal modo quella porzione di città diventava il luogo ostile su cui veniva scagliata la lancia, e tale rimase per ogni guerra. Tale usanza venne poi continuata per tutte le altre guerre che si svolgevano al di fuori dell’Italia, conservando il rituale nei secoli successivi.
Il rito aveva dunque tre momenti principali:
- la rerum repetitio, durante la quale si chiedeva la restituzione del mal tolto;
- la testatio deorum, il ritorno dopo 30 giorni per apprendere la scelta e la chiamata a testimoni di tutti gli dei (solo se la richiesta non veniva accolta),
- la indictio belli, la dichiarazione di guerra ed il lancio dell’asta.
Secondo Varrone i feziali inviati erano quattro e non due, noi optiamo che la cosa variasse a seconda dell'importanza della guerra. Dionigi (Dionys. 2, 72, 8) spiega poi che il popolo ostile poteva chiedere 10 giorni per riflettere e decidere, e questo tempo poteva essere concesso per un massimo di tre volte, arrivando quindi ad un totale di 30.
Il sacerdozio dei Feziali cadde in disuso a partire dal IV secolo a.c., quando il loro ruolo venne svolto dai legati senatori. Ma poi Augusto, amante delle tradizioni, fece restaurare sia il rituale che l'arcaico collegio sacerdotale.
- la rerum repetitio, durante la quale si chiedeva la restituzione del mal tolto;
- la testatio deorum, il ritorno dopo 30 giorni per apprendere la scelta e la chiamata a testimoni di tutti gli dei (solo se la richiesta non veniva accolta),
- la indictio belli, la dichiarazione di guerra ed il lancio dell’asta.
Secondo Varrone i feziali inviati erano quattro e non due, noi optiamo che la cosa variasse a seconda dell'importanza della guerra. Dionigi (Dionys. 2, 72, 8) spiega poi che il popolo ostile poteva chiedere 10 giorni per riflettere e decidere, e questo tempo poteva essere concesso per un massimo di tre volte, arrivando quindi ad un totale di 30.
Il sacerdozio dei Feziali cadde in disuso a partire dal IV secolo a.c., quando il loro ruolo venne svolto dai legati senatori. Ma poi Augusto, amante delle tradizioni, fece restaurare sia il rituale che l'arcaico collegio sacerdotale.