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IL TESORO DI REGGIO EMILIA

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IL TESORO DI VIA CRISPI
Verso la fine del V secolo l'impero romano soffrì una forte instabilità politica fino alla deposizione di Romolo Augusto, l'ultimo imperatore dell'Impero Romano d'Occidente, nel 476 d.c.. In questo drammatico periodo venne nascosto un tesoro, che sarebbe ritornato alla luce nel 1957 in via Crispi, nella città di Reggio Emilia, a 5 metri sotto al piano stradale.

Un segmento di tubo da acquedotto in piombo, chiuso ad una estremità da due coppe in argento, racchiudeva sessanta monete in oro (solidi) delle zecche di Costantinopoli, di Tessalonica e di Ravenna, tutte datate al 495 d.c. e molti ornamenti in oro, sia maschili che femminili. Un anello nuziale con i nomi dei coniugi potrebbe essere di pertinenza a una famiglia germanico-orientale.

La natura degli oggetti piuttosto alla rinfusa e la provenienza della maggior parte delle monete hanno fatto pensare al bottino di un mercenario che avesse combattuto e razziato nelle zone Orientali. Secondo altri si sarebbe invece trattato del deposito di un orafo, che avrebbe riunito prodotti degli artigianati tardo-romani, bizantini e ostrogoti.

Più recentemente il deposito è stato collegato invece alle dure vicende della guerra greco-gotica della seconda metà del VI secolo, quando anche Reggio fu preda di un conflitto endemico, durante il quale la ricerca di risorse per le esigenze militari e per la sopravvivenza stessa degli abitanti può aver indotto razzie su larga scala. Dopo il saccheggio dei Visigoti di Alarico nel 410 seguì la guerra greco-gotica con l'assedio da parte degli Ostrogoti di Totila nel 549.



ISABELLA BALDINI LIPPOLIS - JOAN PINAR GIL 
OSSERVAZIONI SUL TESORO DI REGGIO EMILIA 

Il tesoro di Reggio Emilia venne rinvenuto nel 1957 in via Crispi, a 5 m di profondità, all’interno di una cavità coperta da tre blocchi lapidei:
- vennero estratte due coppe in argento che fungevano da coperchio per un frammento di fistula plumbea, probabilmente proveniente da un ramo pubblico dell’acquedotto, contenente gioielli aurei maschili e femminili e sessanta solidi databili entro il 493. Le monete erano emissioni delle zecche di Costantinopoli (56), Ravenna (3) e Tessalonica (1).

- L’insieme degli oggetti era stato sepolto all’interno di un’abitazione privata che faceva parte di un più ampio isolato residenziale, in prossimità di un asse stradale. Le tre domus dell’isolato, meglio note oggi da scavi successivi della Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna, erano sorte su precedenti livelli tardo-repubblicani e presentavano elementi archeologici chiaramente attribuibili dall’età proto-imperiale al IV secolo.

Le fasi più recenti erano testimoniate da materiale numismatico di età costantiniana; forse alla stessa fase risalivano anche specifici interventi edilizi di ristrutturazione in uno degli edifici, il cui peristilio colonnato era stato chiuso per mezzo di un muro ricavando in questo modo un ambiente absidato: si tratta di una prassi attestata anche in altri casi, databili generalmente dopo il V secolo, evidentemente per rispondere ad istanze rappresentative e funzionali meglio rispondenti a nuovi modelli sociali del periodo.

Il termine d’uso delle domus non può essere datato con certezza per la mancanza di elementi stratigrafici sicuri. Ad esempio, il rinvenimento di una sepoltura infantile viene segnalato da Mario Degani senza alcuna informazione sulla tipologia dell’inumazione e sull’eventuale rinvenimento di oggetti di corredo.

FIG. 5
Bisogna tuttavia considerare che a Reggio Emilia non sembrano documentate sepolture intra urbem prima del III secolo e che gli edifici all’interno dei quali si sarebbe impostata la tomba infantile mostrano segni di ristrutturazione ancora nel III-IV secolo, epoca alla quale è attribuito anche uno dei mosaici pavimentali a carattere geometrico.

La frequentazione finale della zona, comunque, corrisponde certamente al l'occultamento del tesoro, segnalato, come si è già accennato, da tre grandi blocchi posti a copertura della cavità che conteneva gli oggetti preziosi.

Gli elementi del tesoro sono databili tra l’età imperiale e la metà del VI secolo, ma è ben distinguibile un nucleo molto consistente, cronologicamente omogeneo: proprio la composizione dell’insieme e il confronto tra gli oggetti può facilitarne almeno in parte la comprensione.

- Per quanto riguarda le coppe argentee di chiusura, quella con alto piede troncoconico, vasca decorata a baccellature e orlo con kyma lesbio schematizzato può essere confrontata con due esemplari del tesoro di Canicattini, Bagni in Sicilia, datato alla metà del VI secolo, una delle quali con analoga decorazione dell’orlo; inoltre, con due esemplari dotati di coperchio dei tesori di Canoscio in Umbria, di Cartagine, con l’orlo non decorato, e di Kostolac (Serbia).

Anche la coppa con piede troncoconico, orlo leggermente estroflesso e iscrizione graffita all’interno del piede SVR, considerata da Degani l’abbreviazione del nome dell’artigiano esecutore dell’oggetto, trova stretto riscontro tipologico in tre manufatti del tesoro di Canoscio.

Rimandando ad altra sede un’analisi sistematica del tesoro, si anticipano qui alcune riflessioni sugli oggetti di ornamento che ne fanno parte: questi, infatti, sono particolarmente importanti sia per ragioni tipologiche che per la datazione del rinvenimento.



I GIOIELLI

- Tra i gioielli sono attestati cinque orecchini in oro con almandini, di cui uno solo è completo (fig. 1), a cerchio di filo godronato con elemento poligonale; gli  altri (una coppia e due singoli) sono pendenti originariamente montati in orecchini di dimensioni maggiori.

La tecnica e la tipologia dell’orecchino con elemento poligonale avvicinano il primo esemplare alle produzioni tradizionalmente considerate goto-orientali, databili tra la metà del V e gli inizi VI secolo: la diffusione di questi ornamenti è in realtà estesa in tutto il bacino del Mediterraneo e nella sua periferia, comparendo anche in Italia settentrionale e centrale, in particolare nelle Marche, in Piemonte e Lombardia.

- La coppia a doppio pendente, con perle e paste vitree (fig. 2), ricorda invece lo stile della celebre fibula ‘a vortice’ da Villa Clelia (Imola), come anche, per la complessità della forma, gli orecchini dei tesori di Olbia e Domagnano. Questo tipo di pendenti compositi a decorazione cloisonné, anche se poco numeroso, viene documentato in un’ampia zona che va dal Mediterraneo occidentale fino all’Iran. I dati per ora disponibili suggeriscono una datazione tra la metà del V e l’inizio del VI secolo.

- Un’altra coppia di orecchini, di cui si conserva solo il pendente di filo aureo decorato a granulazione, con due perle e uno smeraldo, rientra invece in un tipo piuttosto diffuso nel VI secolo sia in Oriente che in Occidente.

Lo stesso si può dire per tre esemplari completi a cerchio con pendente applicato di filo aureo con una perla (fig. 3), uno dei quali privo della chiusura ad innesto, confrontabili con produzioni di area greco-orientale e anche in una coppia di orecchini di VI-VII secolo dalla necropoli apula di Belmonte (Puglia).

- Le tre collane d’oro presenti nel tesoro hanno caratteristiche tipologiche piuttosto semplici e sembrano omogenee stilisticamente, trovando confronto in manufatti datati nella seconda metà del V secolo:

- La prima è una catena loop in loop con fermaglio circolare in filigrana a volute.
- La seconda alterna segmenti di treccia e di catena loop in loop con segmenti di filo aureo con perle, smeraldi e un almandino; il fermaglio cuoriforme con almandini e una perla è molto simile a quello di una collana del tesoro di piazza della Consolazione a Roma, datato tra la fine del V e gli inizi del VI secolo.
- La terza collana, infine, presenta una catena di segmenti loop in loop, smeraldi e perle; in questo caso i fermagli sono ovali e includono almandini.

- Tra gli elementi di collana si conservano anche tre pendenti in lamina d’oro, due emisferici (fig. 4) e uno cruciforme (fig. 5), con castone centrale circolare originariamente includente una pietra.
Questo insieme di gioielli, originariamente inseriti in una catena, oggi perduta, o con un laccio in materiale deperibile, può essere messo a confronto con tre elementi pertinenti ad una sepoltura del VI secolo della già citata necropoli di Belmonte.
La somiglianza tra questi esempi nell’associazione degli elementi suggerisce che si tratti di una sorta di insieme femminile distintivo, forse caratterizzante il ruolo sociale o la fascia di età della defunta sia all’interno delle comunità di riferimento che in un’area culturale evidentemente più ampia.

- La citata croce in foglia d’oro appartiene alla stessa famiglia degli enkolpia bizantini, con un periodo di produzione molto lungo che comprende una buona parte dell’età medievale: gli esemplari di piccole dimensioni (lunghi 2-2,5 cm), con castone centrale, sembrano invece avere una cronologia più ristretta, riconducibile ai secoli V-VI.

Tre rinvenimenti sono particolarmente rilevanti per datare questo tipo di croce: il primo proviene da una sepoltura della necropoli di Saint-Victor di Marsiglia, sicuramente databile tra la fine del V e l’inizio del VI secolo, sia per la decorazione scultorea del sarcofago che conteneva l’inumazione, sia per la stratigrafia del sito.

La croce è priva del castone centrale, in luogo del quale si trova un gruppetto di tre globetti; tuttavia la forma, le misure e la tecnica di esecuzione la rendono pienamente paragonabile ai manufatti con castone.

- Il secondo rinvenimento è un esemplare a castone centrale che costituisce il pendente di una collana a catena loop in loop conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Atene. Questa tipologia di catena è riferibile ai secoli V e VI.



- Infine, un’altra collana a catena loop in loop, conservata nel Museo di Arte del Michigan, presenta una croce dello stesso tipo, un pendente conico in foglia d’oro con decorazione granulata e una placchetta triangolare, sempre in oro, con decorazione di elementi semisferici e motivi a filigrana ‘ad S’.
Quest’ultimo elemento trova chiari confronti in diversi pendenti d’oro rinvenuti in ricche sepolture femminili dell’Europa centrale e occidentale, databili con certezza alla metà del V secolo.

Con rinvenimenti nella Gallia mediterranea, in Italia centrosettentrionale e meridionale, in Sicilia, in Dalmazia, nella Crimea e nel Levante mediterraneo (ai quali si devono ancora aggiungere quelli provenienti da località imprecisate del Mediterraneo orientale), questa tipologia di croci mostra una diffusione panmediterranea, concentrata in prossimità del mare, e abbastanza omogenea per quanto riguarda il numero di reperti occidentali e orientali.

Al contesto del tesoro appartengono anche tre fibule, una Zwiebelknopffibel aurea (fig. 6) e una coppia in argento ornata a Kerbschnitt (fig. 7). La fibula aurea a croce fa parte di un gruppo ben identificabile, le cui funzionalità e simbologia sono molto note sia grazie alle ricerche archeologiche che alla documentazione letteraria e iconografica: si tratta di insegne di rango legate all’autorità imperiale e usate anche da principi barbarici.

L’esemplare di Reggio Emilia appartiene al tipo Pröttel 749, in oro a decorazione traforata a girali con motivi vegetali, zoomorfi e una croce. I confronti rinvenuti in altri territori (principalmente gli esemplari dalle sepolture ‘reali’ di Childerico a Tournai e di Omharus ad Apahida) permettono di datare la fibula alla seconda metà del V secolo.

Nonostante il numero limitato di rinvenimenti, la distribuzione areale di questo tipo di manufatti mostra un modello comune a tutto il bacino del Mediterraneo. Attualmente sono note le provenienze precise solamente di quattro contesti: il Palatino a Roma, le già citate tombe di Omharus e Childerico e la stessa Reggio Emilia; un quinto esemplare è ricollegabile, con meno esattezza, all’Asia Minore.

In questo gruppo, molto ridotto e nel quale i motivi traforati sono diversi l’uno dall’altro, non pare che, per ora, possano essere individuati sottotipi da riferire ad ateliers specifici.
La coppia di fibule a staffa in argento appartiene, invece, al tipo eponimo detto Reggio Emilia (oppure Reggio Emilia-ŠlapaniceGispersleben), costituito da pezzi con una lunghezza di circa 10 cm e decorazione cesellata.

L’insieme dei rinvenimenti, a differenza della maggioranza dei componenti del tesoro, mostra una diffusione concentrata nell’area centroeuropea (Italia, Dalmazia, Norico, Rezia e i territori a nord dell’alto Danubio) piuttosto che nell’area mediterranea. La loro cronologia è da ascriversi agli ultimi anni del V secolo e ai primi decenni del VI, dato che si evince dall’associazione abbastanza frequente di questi elementi con piccole fibule ad uccello, come ad esempio nelle sepolture 184 di Monaco-Aubing e 146 di Altenerding-Klettham54, da datarsi al massimo alla fine del primo terzo del VI secolo.
Le zone di massima concentrazione di ritrovamenti di questo tipo sono ubicate all’area settentrionale del territorio controllato da Teoderico: nord dell’Italia (Reggio Emilia, Trento), Dalmazia, Norico e Rezia. È infatti probabile che ci sia una relazione tra questo tipo di fibula e l’insediamento ostrogoto.

Rimangono tuttavia alcune questioni da chiarire: nella Rezia, dove i rinvenimenti da sepolture ben documentate sono più numerosi, si osserva la frequente combinazione di queste fibule con piccoli esemplari che, invece, non si trovano spesso in Italia: le fibule di tipo Reggio Emilia vengono cioè inserite nella veste femminile tipica della zona, con caratteristiche abbastanza omogenee.

I rinvenimenti restituiscono una coppia di piccole fibule sullo sterno dello scheletro, una fibbia di cintura semplice, di solito con forma ovale, e una seconda coppia di fibule, generalmente due esemplari a staffa di medie o grandi dimensioni, collocati nella zona addominale dello scheletro, vicini alla fibbia.

Anche se conosciamo ancora troppo poco sull'abbigliamento di età gota in Italia, il contesto generale delle fibule di tipo Reggio Emilia è quello di un oggetto di prestigio che circola attraverso lunghe distanze, e che viene integrato nelle vesti locali a seconda delle diverse tradizioni di abbigliamento di ogni regione. J.P.G.

- Al tesoro di Reggio Emilia appartengono anche quindici anelli, alcuni con caratteri stilistici omogenei, tre dei quali con iscrizione:
- Il primo riporta un monogramma composto dalle lettere A N D58 (fig. 8), forse l’abbreviazione di Andreas, anche se non si può escludere un nome differente, anche di origine ostrogota;
- il secondo un monogramma più complesso inquadrato da due croci (fig. 9), in cui è stato riconosciuto ipoteticamente da Degani il nome Marcus: anche in questo caso, tuttavia, le lettere non permettono di escludere altre soluzioni, come ad esempio il nome ostrogoto Marcomirus.
- Il terzo esemplare, infine, a castoni sovrapposti, è un anello nuziale che ricorda i nomi degli sposi, Stafara e Ettila (fig. 10): la tipologia ricorda un anello del tesoro di Desana, con i nomi di Stefan(ius) e Valatru(di) e, per il castone ovale a forma di mandorla su due livelli, un manufatto da Pouan.

- Nello stesso contesto erano presenti, inoltre, numerosi elementi sparsi:
- un fermaglio a gancio in oro;
- cinque vaghi sferici in oro;
- 12 elementi in lamina d’oro;
- una terminazione triangolare da cintura in argento niellato;
- 11 ritagli in lamina d’argento, probabilmente ricavati da recipienti di forma aperta. Uno di essi è decorato ad incisione con un elemento curvilineo e gemmato, conservato solo parzialmente (fig. 11), che ricorda gli scudi del missorium di Teodosio o i particolari del piatto argenteo frammentario di Halle.

PENDENTI IN LAMINA D'ORO
- Allo stesso contesto appartenevano infine:
- uno scarto di fusione in argento;
- due gemme incise di età imperiale,
- un opale con un erote vendemmiante e uno smeraldo con incisa una formica;
- una pietra blu a goccia, forse uno smeraldo;
- due vaghi cilindrici;
- un vago poligonale di granato;
- tre vaghi esagonali di smeraldo;
- 36 perle;
- 37 vaghi di smeraldo;
- due vaghi cilindrici in vetro.

Il carattere degli oggetti, la provenienza prevalentemente orientale delle monete, i nomi di Ettila e Safara sull’anello nuziale hanno suscitato nel tempo varie ipotesi sui proprietari del deposito e sulla sua storia: si sarebbe trattato del bottino di un mercenario, premiato con i beni razziati in Oriente, oppure degli oggetti posseduti da un orafo.

Ancora un’altra ipotesi segnala che il tesoro di Reggio Emilia sarebbe appartenuto ad una famiglia ostrogota, a causa della presenza di elementi d’abbigliamento sia maschili che femminili.

Allo stato attuale delle conoscenze, però, queste proposte rimangono di fatto ipotesi: la circolazione di modelli e manufatti, la complessità dei rapporti familiari e della struttura sociale rendono, infatti, difficile una identificazione certa dei proprietari e una loro collocazione etnica, soprattutto considerando che l’abbandono degli oggetti non dipende - in questo come in altri casi simili - da una specifica volontà di caratterizzazione dell’individuo nell’ambito della comunità di riferimento, come accade invece per i corredi funerari.

Mentre l’anello nuziale riporta quasi sicuramente ad una coppia di origine gota, rimane del tutto incerta l’origine dei proprietari dei due anelli aurei con monogramma, così come anche il personaggio cui fa riferimento l’iscrizione graffita su una delle coppe; è inoltre impossibile stabilire quali dei proprietari menzionati sugli oggetti ne sia stato l’ultimo detentore.

La molteplicità dei personaggi mostra, infatti, come la formazione del tesoro abbia avuto uno sviluppo articolato, con l’aggregazione di beni appartenuti originariamente a più persone forse etnicamente non omogenee, lungo un arco cronologico non definibile con certezza, ma probabilmente di alcuni decenni.

Considerando, invece, il luogo e le modalità di abbandono degli oggetti, si può osservare che il tesoro di Reggio Emilia si inserisce pienamente nella casistica riguardante i tesori tardo-antichi rinvenuti in Italia in contesti urbani, sia per la composizione, comprendente soprattutto vasellame in metallo, gioielli e monete, sia per il sito dell’occultamento, prossimo ad edifici e strade.

ZWIEBELKMOPFFIBEL
La scelta del contenitore plumbeo, modificato per accogliere gli oggetti, come anche la segnalazione del luogo del seppellimento mediante tre blocchi di protezione, mostra chiaramente che l’abbandono fu volontario, con l’intenzione di tesaurizzare i beni e di recuperarli in un secondo tempo.

Sembra importante, inoltre, rilevare che il tesoro è costituito solo parzialmente da manufatti effettivamente in uso e integri (le coppe in ottimo stato di conservazione, una coppia di orecchini), mentre la maggior parte degli oggetti sono incompleti o singoli rispetto alla parure originaria e tesaurizzati, quindi, essenzialmente per il proprio valore intrinseco, così come gli altri reperti in materiale prezioso (ad esempio, i ritagli di piatti argentei o le gemme sfuse) e le monete.

L’indicazione cronologica più tarda offerta da queste ultime coincide in maniera significativa con la fine del regno di Odoacre, termine che può corrispondere all’inizio della raccolta dei materiali che formano il tesoro, forse non a caso con materiale numismatico di prevalente provenienza costantinopolitana e ravennate.

Allo stesso nucleo iniziale potrebbe essere appartenuta anche la Zwiebelknopffibel, una tipologia per la quale si è ipotizzato tra l’altro un uso anche come donativo imperiale.

L’omogeneità del metallo e la scarsa usura delle monete sembrano confermare il carattere unitario e volontario di accumulazione del gruppo, avvenuta evidentemente in un periodo di normale gestione dei beni personali, come indicato dalle ricerche sui tesoretti monetali.

Il limite più tardo pare, invece, essere costituito dalla datazione delle coppe, probabilmente in uso all’epoca dell’occultamento anche per le ottime condizioni di conservazione, attribuibili alla metà del VI secolo. Esse furono forse prelevate appositamente per completare le operazioni di seppellimento, sottraendole alla disponibilità quotidiana.

In genere si tende a ritenere che la scelta del sito per l’abbandono del tesoro potesse essere stata giustificata dallo stato di abbandono in cui versava l’area, considerata ormai in rovina. In realtà nulla obbliga ad una tale considerazione, mentre al contrario proprio un persistenza della frequentazione può aver maggiormente giustificato la deposizione del tesoro, in una zona di proprietà e di facile e continuo controllo, come di solito avviene in questi casi.

Il fatto che non sia più stato possibile effettuare il recupero dei beni nascosti deve essere invece collegato al destino dei proprietari, forse coinvolti nelle vicende connesse all’affermazione del potere goto o ai conflitti successivi, eventi che possono giustificarne l’allontanamento definitivo.

La stessa decrescita dell’insediamento urbano di Reggio sembra peraltro essere successiva alla guerra greco-gotica, evento che incide profondamente su vaste aree, provocandone l’abbandono. L’insieme rivela quindi da un lato le disponibilità e le esigenze rappresentative dei proprietari, partecipi dello stesso orizzonte produttivo e culturale allargato testimoniato da altri contesti coevi, alcuni dei quali purtroppo di interpretazione problematica, come quelli di Canoscio e Canicattini Bagni.

Raccolta dei manufatti e associazione mostrano, inoltre, una situazione diversa e più complessa, in cui è soprattutto il valore intrinseco del materiale a costituire l’elemento essenziale nella scelta degli oggetti; il tesoro quindi, non è tanto espressione delle scelte comportamentali dei detentori degli oggetti o della loro provenienza etnica, quanto delle loro capacità di tesaurizzazione in un arco di tempo relativamente ampio.

La maggioranza degli oggetti raccolti è costituita da materiale frammentario o piuttosto appositamente diviso in pezzi: argento, gemme, pietre dure, parti di gioielli non utilizzabili di per sé stessi. Questi elementi, insieme alle monete, sembrano rispecchiare una prassi economica fondata sulla commercializzazione e tesaurizzazione del metallo pregiato e delle pietre a prescindere dall’uso e dal significato originario dei manufatti.

Anche gli anelli, pertinenti a più personaggi, possono almeno in parte rientrare nello stesso fenomeno, senza che per questo si debba necessariamente respingere la possibilità che uno dei nomi menzionati sui castoni sia pertinente all’ultimo proprietario del tesoro.

Il deposito, in sostanza, sembra essersi accumulato a partire dall’arrivo degli Ostrogoti in Italia, momento dell’acquisizione del gruzzolo di monete pregiate (forse un donativo?), accrescendosi nei decenni successivi attraverso l’acquisizione di oggetti diversi, che solo in parte possono essere stati effettivamente utilizzati in senso ornamentale o come espressione di status sociale dal proprietario o dalla sua famiglia, ma che per la maggior parte sembrano essere stati acquisiti attraverso lo scambio, volutamente commercializzati in forma frammentata o a peso.

Mentre l’abbandono del tesoro ben si spiega nel difficile contesto della guerra greco-gotica, la raccolta di beni misti e in materiale pregiato sembra appartenere più ad una prassi corrente che ad una situazione contingente, aprendo la riflessione non solo alle numerose possibilità di interpretazione dei contesti di questo tipo, ma anche alla loro possibile relazione tra la composizione del tesoro e le consuetudini economiche dell’ambito sociale di riferimento. I.B.L.


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