RICOSTRUZIONE DI UNA POMPA ROMANA RINVENUTA NEGLI SCAVI DELLA METRO DI LONDRA |
GLI ACQUEDOTTI
In epoca antica, i maggiori progressi nelle arti e nelle tecniche si ebbero in epoca romana, quando si unirono lo spirito speculativo astratto del mondo greco, che riguardava non solo la filosofia ma pure matematica e geometria, con la razionalità organizzativa ed esecutiva tipica dei romani.
Anche la metallurgia ebbe un notevole impulso, soprattutto con il ferro, il bronzo, ed il piombo, per la decorazione anche l'ottone ed i metalli preziosi. Ebbe grande sviluppo anche l'idraulica, con i rubinetti in bronzo, i tubi in piombo e in terracotta, il tutto per portare l'acqua nelle case cittadine.
Basilare per l'idraulica fu la costruzione degli acquedotti:
Plinio il Vecchio (23-79 d.c.): "Chi vorrà considerare con attenzione la quantità delle acque di uso pubblico per le terme, le piscine, le fontane, le case, i giardini suburbani, le ville; la distanza da cui l'acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto il mondo è mai esistito di più meraviglioso".
L'acqua da indurre negli acquedotti veniva scelta per diversi fattori: la posizione delle sue sorgenti, la sua purezza, il suo sapore, la sua temperatura, e talvolta persino per delle medicamentose, non a fantasia ma a causa dei sali minerali che conteneva. Infatti quando la fonte era nuova, i campioni venivano analizzati in contenitori di bronzo di buona qualità per accertare la capacità di corrosione, l’effervescenza, la viscosità, i corpi estranei e il punto di ebollizione.
Servendosi di una complessa ricostruzione dell'altezza dell'acqua nei condotti, gli studiosi hanno concluso che і quattro principali acquedotti di Roma fornissero circa 600.000 mз di acqua al giorno, il che coincide con la portata complessiva indicata da Frontino (14.000 quinarie per circa 560.000 mз), eccezionale dato i mezzi di cui disponeva. Pertanto і Romani erano in grado di effettuare misurazioni di portata abbastanza precise, sia pure basate soprattutto sull'esperienza e l'intuizione.
La speciale creatività degli ingegneri romani, la cui principale scuola era l'apprendistato, visto che in genere erano militari, era questa capacità di unire una forte razionalità a una continua ricerca del nuovo, talvolta copiando ma soprattutto innovando con intuizioni geniali.
Un altro personaggio speciale per la sua capacità di previsione ingegneristica fu Agrippa, distinguendo per la prima volta con esattezza tra necessità pubbliche e private e valutandole anche quantitativamente. Poteva quantificare l'esigenza delle varie terme e fontane pubbliche nonchè quelle dei privati cittadini delle varie insule e domus. Questi dati e protocolli furono usati e migliorati per tutta l'età imperiale, finchè la barbarie non ebbe il sopravvento sulla civiltà distruggendola pezzo a pezzo. Il sopravvento della superstizione religiosa fece il resto.
Il primo acquedotto fu quello Appio, costruito il 312 a.c. e a seguire, Anio Vetus, Marciano, Tepulo, Iulio, Virgo, Alsietino, Claudio, Neroniano, Anio Novus, Traiano e Alexandrino.
Durante la repubblica, dal 509 a.c. fino al 27 a.c., anno in cui salì al potere l'imperatore Augusto, gli acquedotti romani erano inadeguati ai bisogni dei romani, anche perchè l'acqua scorreva continuamente, con grande spreco, ed erano frequenti le perdite dei tubi, cosicchè si decise di concedere ai privati l'utilizzo dei punti di perdita.
Questo fece si che ogni insula o insieme di insule, avesse la sua fontana da cui attingere acqua, anche perchè in genere solo i primi piani ne erano provvisti. Coll'impero la cosa si estese e si ritiene che la Roma imperiale ricevesse oltre un milione di mc d'acqua al giorno, che per la maggior parte rifornivano sia le domus che le insule, nonchè le varie botteghe, per mezzo di condotte di piombo.
A Roma confluivano almeno una dozzina di acquedotti a cielo aperto, con una vasta rete sotterranea, eccettuati gli ultimi 16 km in pianura dove si preferirono gli acquedotti sopraelevati che, assicurando una maggiore pressione all'utenza finale, facilitavano la distribuzione.
Gli acquedotti romani erano delle opere ingegneristiche enormi: per costruire l'acquedotto Claudio fu necessario trasportare per ben 14 anni quarantamila carri di tufo all'anno. Tanto per fare un paragone nel Medioevo le condutture e i tubi vennero eseguiti scavando dei tronchi di olmo a cui veniva lasciata la corteccia, ed erano collegati da giunti con raccordo a cuneo rafforzati in ferro. Col medioevo si distrusse la civiltà più avanzata che sia mai esistita nel mondo, per certi versi superiore anche a quella attuale.
ACQUEDOTTO NERONIANO |
I SIFONI
Dovendo traversare depressioni piuttosto profonde o lunghe, i romani utilizzavano il sifone rovescio; il sifone è una tubazione fatta ad "U" che si inserisce in un condotto, che si usa ancora oggi per creare un ostacolo (un "tappo idraulico") al passaggio dei cattivi odori data la presenza di acqua residua nella sua ansa
Il sifone rovescio si basa sul principio dei vasi comunicanti. Se in un tubo fatto ad U si introduce da uno dei due lati del liquido, questo risale nell’altro lato del tubo ad un livello pari a quello dell’altro lato.
Negli acquedotti ‘a canaletta’, se si incontrava una valle troppo larga o con dislivello tra le sommità della valle e la sottostante piana, si ricorreva al sifone rovescio.
L’acqua dal canale veniva immessa in tubi in piombo che discendevano nella valle (ventre del sifone) per risalire l’altro versante anche se ad una quota leggermente più bassa per le perdite di carico.
In questo modo il gradiente complessivo veniva rispettato e la velocità diminuiva in modo che non premesse troppo sulle tubature. Insomma il sifone evitava negli acquedotti che i tubi si rompessero per la pressione e nelle case perché non giungessero i cattivi odori.
Da un punto di vista tecnico sembra che il sifone romano sia stato concepito di solito come un semplice sifone invertito (c.d. tubo a U); ciò semplifica il suo funzionamento, essendo necessaria solo una adeguata perdita di carico. Il sifone di Barratina nell'area di Termini Imerese dimostra però che si costruivano anche veri e propri sifoni come quelli odierni, che richiedevano però una maggiore manutenzione.
Le tubazioni dei sifone erano solitamente di piombo saldato, a volte rinforzato da rivestimenti in calcestruzzo o da manicotti di pietra. Meno spesso, i tubi stessi erano in pietra o ceramica, articolati come maschio-femmina e sigillati con il piombo.
Vitruvio descrive la costruzione di sifoni e dei problemi di blocco e aerazione ai loro livelli più bassi, dove le pressioni erano più forti. Gli ingegneri idraulici moderni usano tecniche simili per far superare depressioni a fognature e alle tubazioni di acqua.
I SERBATOI
Le condutture corrono spesso all'interno di gallerie o di condotti impermeabilizzati in tutta la superficie o sono alloggiate entro la massa cementizia dei piani inclinati. Il tutto inizia con un serbatoio di partenza, che talvolta anche per innalzare il piano di carico del sistema, mentre può mancare il serbatoio di arrivo.
Per evitare che tratti troppo lunghi della conduttura fossero soggetti a troppa pressione o per consentire repentini cambiamenti di direzione, in molti sifoni vi erano alloggiati serbatoi intermedi, identificati con i colliviaria di Vitruvio; ma per taluni і colliviaria sono delle valvole.
Il collegamento tra il serbatoio, o cisterna, o castellum, e la rete di distribuzione, era realizzato con uno o più calici in bronzo o piombo saldati a tubi di piombo. le fistulae, collegati a una chiave (saracinesca) in bronzo che permetteva la regolazione o la chiusura del flusso. Calice e tubo erano messi in opera direttamente nel muro con il quale erano pertanto solidali, impedendo qualsiasi perdita.
Nei sistemi più antichi il ventre della conduttura è sostenuto infatti da un muro, oppure è interamente sotterraneo. Il ventre innalzato su un ponte viene adottato a partire dal II sec. d.c. (vedi gli Arcus Neroniani del Palatino). E' un'innovazione romana quella di alloggiare la conduttura in galleria e di assicurare l'orizzontalità del ventre per mezzo di una sostruzione. prima a muro, e poi a ponte. L'adozione del ponte non solo per il ventre dei sifoni, ma in genere per accorciare il percorso attraversando valli anche larghe e profonde, è anch'essa del tutto romana.
Nelle province spesso gli acquedotti attraversavano profonde vallate, come a Nîmes, dove il Pont du Gard lungo 175 m ha un'altezza massima di 49 metri, e pure a Segovia (in Spagna) dove un ponte/acquedotto di 805 metri è ancora in funzione.
I romani scavarono anche canali per migliorare il drenaggio dei fiumi in tutta Europa e per la navigazione, come nel caso del canale Reno-Mosa, lungo 37 km, che eliminava il passaggio per mare. In questo campo la loro opera più grande rimase il tentativo di prosciugare il lago Fucino, realizzato costruendo all'interno della montagna una galleria di 5,5 km.
Porto era il golfo artificiale costruito dopo quello di Ostia al tempo dei primi imperatori: il suo bacino interno esagonale aveva un fondale di 4–5 m, una larghezza di 800 m, banchine di mattoni e calcestruzzo e un fondo di blocchi di pietra per facilitarne il drenaggio.
LE FOGNATURE
La prima cloaca romana di cui si abbia notizia risale al VII secolo a.c. e fu progettata per bonificare gli acquitrini che occupavano le vallate alla base dei colli dell'Urbe, e far defluire verso il Tevere i liquami del Foro Romano, di Campo Marzio e del Foro Boario.
La realizzazione più importante fu però la cloaca massima, edificata nel VI secolo a.c. sotto il VI re di Roma, l'etrusco Tarquinio Prisco. La cloaca, dapprima un canale a cielo aperto ma successivamente coperto e allungato con varie diramazioni, ha ancora dei tratti visibili, altre allo sbocco sul Tevere. Con la caduta dell'impero, non vennero più costruite nuove fogne e spesso quelle esistenti furono abbandonate.
Per l'impermeabilizzazione delle fogne, che ancora oggi si mantiene da 2000 là dove l'opera dell'uomo non le ha distrutte, esistono due tipi di opus signinum: il primo è costituito dell' 80% di tegole frantumate e il 20% calce: il secondo tipo, oltre all' 80% di tegole frantumate e il 20% calce, aggiunge sabbia silicea e ceneri (carbonato di potassio) che ne migliorano le proprietà idrauliche, ed è il tipico opus signinum adoperato in età imperiale, almeno a partire dal II sec. d.c.
Inoltre, per impermeabilizzare le giunture dei tubi i romani usavano un legante ad alto coefficiente di assorbimento a base di calce pura stemperata con olio, come prescritto da Vitruvio.
Le prime importanti opere d’ingegneria dell’antica Roma, fogne comprese, risalgono alla seconda parte del periodo monarchico, quando erano già al potere i Tarquini che essendo etruschi, erano già esperti di idraulica e bonifiche dei territori. L’esempio più importante è la Cloaca Massima la cui realizzazione ebbe appunto inizio sotto Tarquinio Prisco, realizzata in muratura a secco in grossi blocchi di pietra gabina o di tufo con spessori che raggiungevano i 4 metri.
Il fondo era in basalto sistemato a selciato, la volta nei tratti più antichi di tufo o di peperino, mentre in quelli più recenti di travertino o di scaglie di selce a secco. Alla foce sul Tevere, nei pressi dell’attuale Ponte Palatino (il ponte immediatamente a valle dell’Isola Tiberina), le dimensioni libere della sezione (speco) sono di 3.30 m (di larghezza) per 4.50 m di altezza, nel tratto iniziale esse rispettivamente si riducono a 2.12 m per 2.70 m.
L’importanza della costruzione della cloaca per i Romani deve essere stata tale che nei pressi della foce venne eretto il tempio ed il sacello di Venere Cloacina di cui tuttora esiste la fondazione. La Venere sotterranea che proteggeva il suolo profondo di Roma nonchè il profondo dell'anima dei romani, era la base della grande civiltà. E non è da meravigliarsi che fosse proprio Venere ad occuparsi delle fogne, perchè anche in epoca preromana e ovunque nel mondo, le acque comunque siano sono state sempre appannaggio della Dea primordiale.
Le fogne che confluivano nella Cloaca Massima, in genere più recenti (periodo repubblicano od imperiale) hanno speco di dimensioni 0.60 m per 1.20 m. Tali fogne secondarie sono le più antiche in tufo e quelle più recenti in muratura di mattoni.
I Romani costruirono fogne non solo a Roma, dove oltre la Cloaca Massima e relative diramazioni esistono anche altri sistemi fognari indipendenti, con propria foce sul Tevere, ma in tutto l’Impero. D'altronde la Cloaca Massima, di molto ampliata da Agrippa e da Silla, è tuttora in esercizio.
Con la caduta dell’Impero non solo non vennero costruite nuove fogne ma spesso neppure mantenute quelle già esistenti, tant’è che una grossa fogna (4 metri di larghezza per 3 di altezza) fatta costruire da Agrippa, nel Campo Marzio, fu rinvenuta solo nel XVI secolo
ACQUEDOTTO DI CHELVA IN SPAGNA |
POMPEI
La migliore visibilità della rete di distribuzione dell'acqua è ovviamente quella di Pompei, la meglio conservata. Dal castello situato presso la porta vesuviana, alla quota di m 42,5, la quantità d'acqua disponibile era distribuita, secondo le prescrizioni di Vitruvio, mediante tre sistemi indipendenti: il primo riforniva le fontane pubbliche, il secondo gli edifici pubblici (terme, palestre, teatro, ecc.), il terzo era destinato ai privati.
TUBO ROMANO |
Alla prima rete erano collegate le 50 fontane disposte lungo le strade della città, per lo più agli incroci, in modo che і cittadini non dovessero percorrere in media più di 50 m per procurarsi l'acqua potabile.
La rete che invece serviva gli edifici pubblici andava dal castello lungo la Via Stabiana fino al teatro, con diramazioni per Via Nolana a ovest e Via dell'Abbondanza a est, alimentando le terme, le palestre, il teatro, l'anfiteatro, la caserma dei gladiatori, e altro.
La rete destinata ai privati serviva invece sia case signorili, sia stabilimenti come lavanderie, tintorie, panetterie, fabbriche di vestiti, ecc. Il servizio era costoso, per cui spesso i commercianti si associavano in consorzi per dividere le spese.
CASTELLO DI NIMES IN FRANCIA |
CASTELLUM AQUAE
Esso è un «complesso architettonico avente la funzione di raccolta, di depurazione e di distribuzione dell’acqua necessaria per l’antico centro urbano» (E. De Felice, op. cit., p. 55), detto Castellum aquæ, sorta di bacino terminale all’interno del quale un acquedotto scaricava le sue acque. Il complesso si trovava nella parte più alta dell'area.
L’acqua vi veniva immessa da falde acquifere sotterranee, convogliate attraverso condutture, di cui pure abbiamo tracce archeologiche superstiti, pozzi, cunicoli, cisterne, e da qui l’acqua necessaria alla popolazione cittadina era distribuita mediante altri canali sotterranei, e in tutte le direzioni, per alimentare i diversi castella secondari.
I castella fungevano da raccolta delle acque provenienti dagli acquedotti extraurbani, posti a un livello più alto rispetto ad essi, eretti con caratteristiche arcate, sulle quali scorreva il condotto (specus), in grado di dare al flusso dell’acqua (aquæ pensiles) una pendenza quasi costante (1:200/1:1000), spesso quasi irrilevante, ma che i Romani sapevano perfettamente valutare anche su grandi distanze.
Gli acquedotti sopraelevati necessitavano di una continua opera di manutenzione e riparazione, a motivo di qualche improvvisa vibrazione del terreno; ragion per cui sovente i tecnici romani ricorrevano ai più costosi condotti scavati nella roccia.
Il castellum, un serbatoio costruito al termine dell’acquedotto, presentava alla fine tre cannelle, che gettavano acqua in tre vasche, costruite in modo che, soverchiando nelle vasche laterali, l’acqua potesse traboccare in quella centrale. Di qui partivano le condutture per il rifornimento delle fontane, delle terme e dei pubblici edifici, ove il condotto terminava con numerose cannelle quasi tutte a forma di testa di animale.
Dai castella però non era possibile attingere acqua, nemmeno quella che vi fuoriusciva, che era anzi necessaria per lavare le strade e le cloache. Ancora oggi a Parigi si usa il rivolo d'acqua bilaterale che pulisce strade e fogne, come era d'uso nelle città romane.
Prima però di essere distribuita alla popolazione, l’acqua veniva immessa in appositi bacini a due scomparti e con piani di fondo inclinati, nei quali subiva un rallentamento del flusso: in tal modo le particelle insolubili in sospensione nel liquido cadevano verso il fondo (fenomeno della decantazione o sedimentazione), rendendo l’acqua più depurata e limpida.
A Roma solo l’Aqua Virgo (lunghezza 20 km ca., portata 100.000 m³) voluta da Agrippa nel 19 a.c. per alimentare le sue Terme e il vicino Stagno, e l’Aqua Marcia (lunghezza 91 km, portata 187.000 m³ ca.), voluta dal pretore Quinto Marcio Re nel 144 a.c., captando le acque dell’Aniene, entrambe estremamente limpide, non necessitavano di decantazione. Tutti gli altri acquedotti ne necessitavano e ne usufruivano.
PISCINA ROMANA DI SILOAM (Gerusalemme) |
LA PISCINA (LIMARIA)
La piscina limaria era un contenitore atto ad accogliere le acque, posta lungo il corso o al termine d'un acquedotto, serviva a chiarificare e purificare le acque per la loro distribuzione. Infatti era detta limaria perchè oltre all'acqua accoglieva il limo, cioè il fango che vi si depositava.
Essa poteva raggiungere alti livelli di complessità, tali da garantire contemporaneamente la possibilità di effettuare opere di manutenzione senza interrompere il flusso idrico; inoltre, erano essenziali quando la captazione avveniva direttamente da un fiume. Qui sotto un esempio di piscina limaria ancora in funzione, eseguita dai romani a Gerusalemme. Le colonne tagliate sostenevano in genere delle statue votive.
CISTERNA ROMANA |
LE CISTERNE
Al tempo dei romani l’approvvigionamento idrico veniva costantemente garantito dalla presenza, nelle zone abitate, di serbatoi in cui veniva convogliata, mediante vasche di raccolta e canali di immissione, l’acqua piovana. Erano di solito dei serbatoi d'acqua con volta a botte e rivestimento in cocciopesto.
La tecnica costruttiva è sempre stata caratterizzata da uno o più invasi impermeabili comunicanti tra loro, muniti a seconda dell'importanza da canali di raccolta delle acque, piscine limarie, canali afferenti ed efferenti, boccagli, lumine e vere da pozzo di prelievo. Spesso queste cisterne erano un capolavoro di muratura, dove i mattoni erano posti con una precisione incredibile, si che ancora oggi sarebbe difficile uguagliarli.
L'alimentazione delle Cisterne avveniva sia attraverso i pozzetti (o lumina) in cui era convogliata l'acqua piovana accumulata nel bacino della soprastante piazza o via, quella degli scoli dei tetti e degli impluvi naturali, sia attraverso una serie di tubi di piombo (fistula acquaria), mentre l'attingimento dell'acqua da parte della popolazione avveniva attraverso i vari pozzi.
PIPE ROMANE ESPOSTE A MAINZ (Germania) |
LE CONDUTTUREE E I TUBI
Erano di legno (per gli orti), pietra (anelli per sifoni), terracotta (tubuli, per irrigazione e scolo delle acque), piombo (fistulæ aquariæ, per gli acquedotti in genere), bronzo (per raccordi ovvero tubi per alimentare edifici di pregio). Si diramavano dal castellum aquæ primario, per portare acqua ad altri castella secundaria, i quali a loro volta alimentavano numerosi serbatoidislocati nei diversi quartieri
Anzitutto sfatiamo la leggenda: nell'acqua che bevevano gli antichi romani: secondo una ricerca dell'Università francese di Lumière, Lione, pubblicata sulla rivista scientifica USA Proceedings of the National Academy of Sciences, c'era una quantità di piombo almeno 100 volte superiore rispetto all'acqua delle sorgenti locali. notevole ma assolutamente ininfluente sulla salute dell'epoca.
Del resto l'acqua di allora era molto più pura di quella che beviamo oggi, diciamo che era come l'acqua minerale che acquistiamo oggi nei negozi, senza la negatività che la plastica può dare se conservata a lungo. Pertanto il fenomeno del cosiddetto "saturnismo", malattia provocata dal piombo presso i romani era inesistente.
Le condutture di questi acquedotti avevano una tale perfezione tecnica che ancora oggi sono in grado di funzionare. Dal punto di vista costruttivo le tubazioni venivano incassate dentro un alveolo detto specus, cioè un lungo canale a sezione quadrata, scavato nella roccia, se il terreno lo consentiva, oppure costruito in muratura.
Le tubazioni impiegate erano solitamente costruite in terracotta, materiale più usato per ragioni pratiche ed utilitarie. Vitruvio preferiva questo tipo di tubi perché, scriveva, sono i più economici, possono essere riparati con facilità, e l'acqua trasportata è molto più salutare di quella passante per i tubi di piombo. Quasi sempre le tubazioni portano impresso un marchio che può corrispondere sia al nome del proprietario sia a quello dell'idraulico sia effettua l'impianto; a volte figura il nome dell'imperatore.
Spesso però i tubi erano di piombo ma poichè non era conosciuta la tecnica della trafilatura (fu impiegata dall'XI sec. in poi), i plumbari partivano da lamine lunghe secondo la misura stabilita, che arrotondavano attorno ad un'anima di legno di forma cilindrica. Alle estremità, sui giunti longitudinali, colavano piombo fuso o una lega di piombo e stagno.
POMPA IDRAULICA |
A volte invece si alternavano ai tubi di terracotta delle parti in pietra, come già in età ellenistica a Pergamo, o utilizzando condutture interamente di pietra, come in numerose città dell'Asia Minore (Aspendos, Laodicea, Patara, ecc.), soprattutto dagli inizi dell'età imperiale. Per controllare meglio le tensioni ogni cinque Km si faceva sfociare l'impianto in un serbatoio praticabile ove era possibile controllare le pressioni. Dunque la pressione dell'acqua di cui era fondamentale il controllo, veniva regolata dalle cisterne e dai sifoni.
Per gli allacciamenti si inseriva nella conduttura principale una scatola di derivazione, fatta di piombo, da dove, in direzione perpendicolare alla condotta madre, si dipartivano da un lato e dall'altro due tubi di derivazione di calibro inferiore, questo per avere più servizi in un solo punto di presa.
Ognuno di questi tubi di derivazione erano provvisti di valvola d'arresto, il che permetteva tutte le manutenzioni possibili.. Questi rubinetti erano a maschio cilindrico e si azionava per mezzo di un grosso chiodo o un tondino di ferro, da infilare a modo di chiave dentro un foro predisposto nella testa del maschio.
LE VALVULAE O RUBINETTI
I primi rubinetti archeologicamente attestati sono le "valvulae" di epoca romana. Si tratta di rubinetti del tipo “a maschio”, in cui la rotazione un cilindro forato consente o impedisce il passaggio dell’acqua.
Per il controllo degli acquedotti venne allora nominato un Curator. Uno dei più validi e geniali fu Frontino, che dopo aver controllato e mappato tutto il territorio decise di concedere le eccedenze d'erogazione, che prima venivano disperse, sia per nuove fontane sia per nuove concessioni private. Di conseguenza i romani impiegarono un maggior numero di rubinetti nella loro rete idrica urbana, e persino le fontane pubbliche dovevano avere, come appare nei bassorilievi d'epoca repubblicana, i loro rubinetti.
L'uso di valvole e rubinetti applicati alla rete idrica diveniva sempre più importante per ridurre lo spreco d'acqua, così nacquero le "valvulae" cioè i rubinetti di epoca romana. Si tratta di rubinetti del tipo “a maschio”, in cui la rotazione di un cilindro forato consente o impedisce il passaggio dell’acqua.
Si tratta di manufatti di 2.000 anni fa sostanzialmente molto simili alle valvole a maschio tuttora in uso nel settore enologico.
Le valvole degli antichi romani erano di bronzo ad alto tenore di piombo antifrizione, cioè che tiene senza guarnizioni, anticorrosione e duttile per una facile tornitura.
La valvola era di tre pezzi: il corpo, il maschio, il fondo. Il castello alloggiava una grossa leva per azionare il maschio che aveva una forte adesione al corpo.
Le valvole di notevole diametro erano costruite dalla grande industria codificate nelle misure e nei materiali per le condotte a pressione progettate dai centri di ingegneria.
Come si può notare in questo rubinetto in bronzo, il collegamento alle tubature in piombo che veniva effettuato tramite ribattitura ed era causa di frequenti perdite.
I rubinetti romani in genere erano a maschio cilindrico, raramente conico.
Il corpo ed il maschio venivano costruiti per fusione, quest'ultimo in un unico blocco con testa prismatica. Il corpo era un cilindro cavo con gli estremi allargati all'esterno, come una flangia ricurva.
Le guarnizioni erano in stoppa o cuoio, più usata la stoppa che durava meno ma presentava meno difficoltà per aprire o chiudere il sistema.
Nelle giunzioni non esistevano filettature, nonostante i romani le conoscessero però la precisione dei raccordi rendeva superabile l'ostacolo delle giunture. L'installazione si otteneva introducendo le bocche del rubinetto dentro il manicotto dei tubi e saldando in giro una fascia abbondante di piombo che assicurava la tenuta.
Il maschio generalmente cilindrico aveva nella parte inferiore una gola incisa nelle circonferenza, il fontaniere dell’epoca colpendo il corpo valvola in corrispondenza dell’incavo ne bloccava l’eventuale estrazione.
Alcuni rubinetti romani sono in voga ancora oggi, come quello a foggia di testa di drago qui sopra esposto, infatti i romani amavano spesso guarnire i giardini con rubinetti a foggia di uccelli, teste di leone, di lupo, di cinghiale, di orso e di pantera.
A seguito dello sviluppo dell’ampia rete di acquedotti che rifornivano le città e la numerosa popolazione, si sviluppò una fiorente attività industriale legata alla produzione di rubinetti (valvulae), di tubi di piombo (fistulae), ma anche di vasche, di stufe per riscaldare l’acqua (boiler), e di rubinetti da giardini, rubinetti da bagni e da terme, spesso veri capolavori di fonditura e cesellatura.
In epoca romana sono attestati anche alcuni esempi di “miscelatori”, con cui era possibile erogare acqua fredda o, alternativamente, acqua calda. La miscelazione dell’acqua alla temperatura desiderata avveniva nella vasca sottostante, mentre dalla vasca l'acqua usciva fredda o bollente.
Questo avveniva soprattutto nelle terme, specie nelle più sofisticate, dove le vasche potevano essere calde o fredde a gradazioni diverse, anche per permettere il passaggio dall'acqua calda alla fredda con una certa gradualità. I medici dell'epoca sapevano e raccomandavano certi bagni a temperature diverse per la buona circolazione del sangue.
LE POMPE IDRAULICHE
PARTI DI UNA POMPA IDRAULICA |
Anche sotto l'impero di Caracalla si ebbero miglioramenti dell'acquedotto romano (212 d.c.).
Durante le invasioni barbariche però, gli acquedotti romani decaddero gravemente, ed in questo periodo vi fu il massimo deterioramento ed abbandono di un'opera così importante ed utile per la comunità del mondo antico.
Con la fine dell’impero romano e il collasso della rete degli acquedotti, in epoca medievale e moderna i rubinetti vennero utilizzati soprattutto per regolare il flusso dei liquidi da recipienti.
Delle splendide terme pubbliche e private se ne perse anche il ricordo, non solo per il taglio degli acquedotti che non sarebbe stato così difficile ripristinare, ma anche perchè la nudità delle terme era ritenuta peccato e il lavarsi troppo spesso un suggerimento del diavolo. Era bene occuparsi dell'anima e non del corpo.
RICOSTRUZIONE DELLA POMPA DI CTESIBIO
Il progetto di tale pompa venne ripreso in seguito da altri inventori (Vitruvio, Erone di Alessandria), che la migliorarono e la svilupparono. Erone di Alessandria creò i primi sistemi automatici usando la forza del vapore, inventò infatti la Eolipila, considerata la prima macchina a vapore, ma usando pure la forza del vento e delle corde.
A lui si devono le invenzioni dell’organo a vento, delle macchine teatrali programmabili tramite ingranaggi, l’Eolipila, dei primi distributori automatici di acqua e distributori di sapone per i templi, ecc. Scrisse inoltre molti trattati fra cui quello sulla pneumatica, sui “robot” (le sue macchine automatiche) e sulla meccanica.
Questo modellino in legno (in basso) raffigura la pompa idraulica a pistoni inventata da Ctesibio.
Gli antichi Romani, che la conoscevano bene, la trasformarono in pompa impiegata dai pompieri per spegnere le fiamme (tale dispositivo venne usato dai pompieri fino al novecento) e in pompa da usare in cantieri e in miniere (questo modellino riproduce una pompa a pistoni a doppio effetto, di epoca romana rinvenuta nella miniera di Huelva Valverde in Spagna) che serviva per aspirare l’acqua.
Era adatta a tale scopo in quanto riusciva ad erogare acqua in pressione.Per azionare questo tipo di pompa occorrevano due persone poste ai lati della leva. Tutto il modello è fatto in legno e i cilindri cavi e i pistoni sono stati costruiti con il tornio.
MACCHINARIO PER SOLLEVARE L'ACQUA |
MACCHINE PER SOLLEVARE ACQUA
Macchine per il sollevamento dell'acqua erano comuni durante il periodo romano e venivano utilizzate nelle profonde miniere sotterranee, ma pure quando si allagava un anfiteatro, artatamente come nelle naumachie o disgraziatamente per le troppe piogge. Diversi dispositivi sono stati descritti da Vitruvio, compresa la vite di Archimede.
Molti di questi dispositivi sono stati ritrovati nel corso di scavi presso le miniere di rame del Rio Tinto, in Spagna, e formavano un sistema che coinvolgeva sedici ruote impilate l'una sull'altra in modo da sollevare l'acqua a circa 80 metri dal fondo della miniera.
Altre parti di queste ruote sono state trovate nel 1930 a Dolaucothi, una miniera d'oro romana nel sud del Galles, quando la miniera è stata riaperta per un breve periodo di tempo.
Il meccanismo è stato trovato a circa 80 metri sotto la superficie, quindi doveva trattarsi di un sistema simile a quello scoperto a Rio Tinto.
Una recente analisi al carbonio ha datato i reperti intorno all'80 d.c., e poiché il legno da cui erano composti era più vecchio nelle parti più profonde della miniera, è probabile che i meccanismi ritrovati in profondità abbiano funzionato per 30-50 anni.
È chiaro da questi esempi che l'esistenza di sistemi di drenaggio delle gallerie sotterranee, fa suggerire che le ruote idrauliche erano comunemente utilizzate per usi industriali.
Completata rimozione tratto di acquedotto romano rinvenuto nel cantiere C. O. Reggio Emilia (2012)
Gli scavi nell'area dell'Ospedale intercettano uno degli acquedotti romani che alimentavano Regium Lepidi. Sono condotte idrauliche con pozzetto d'ispezione funzionali all'alimentazione di alcuni balnea (gli antichi bagni romani) o di fontane e giardini della zona, databili tra l’età augustea e quella giulio-claudia (fine I sec. a.c. - fine I sec. d.c.)
Un’area a rischio archeologico, che aveva già restituito in passato reperti di epoca romana riferibili a uno degli impianti idraulici che alimentavano Regium Lepidi.
POZZETTO D'ISPEZIONE DI UN ACQUEDOTTO |
Indagini che hanno puntualmente intercettato materiali e strutture di epoca romana e medievale. Nessuna sorpresa, quindi, né per gli archeologi né per l’azienda ospedaliera, e nessun blocco del cantiere che di fatto non poteva nemmeno partire finché non si fossero concluse le procedure di archeologia preventiva.
Le indagini archeologiche effettuate alla fine degli anni '90 del secolo scorso per la costruzione Polo Onco-ematologico dell'Ospedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia avevano già intercettato alcune strutture idrauliche riferibili all'età romana. Strutture analoghe, formate da due tubuli di terracotta paralleli tra loro, sono state trovate anche durante le indagini preventive effettuate nella primavera 2010 prima dell'apertura di un nuovo cantiere del medesimo polo.
Nel 2011 la Cooperativa ARS/Archeosistemi ha iniziato le verifiche preventive sotto la Direzione Scientifica della Soprintendenza Archeologia dell'Emilia-Romagna, nella persona dell'archeologo Marco Podini. Le conferme non si sono fatte attendere: poco prima di Natale, le indagini hanno individuato l'acquedotto già visto a suo tempo.
La novità è stata invece il rinvenimento di un secondo acquedotto (poco più a sud e a una quota superiore della doppia conduttura, e perciò forse riferibile a un periodo diverso, anche se non di molto), emerso a seguito dello sbancamento dell'intera area destinata alla costruzione dell'ospedale.
In questo caso si tratta di un impianto idraulico a una sola conduttura, dotato di pozzetti di ispezione come dimostra il rinvenimento di una struttura circolare a cui si innesta la tubatura fittile.
Questi pozzetti erano funzionali alla manutenzione del condotto e, in base a quanto trasmessoci dalle fonti storiche, erano posti a distanze regolari: secondo Vitruvio (De Arch. VIII 6, 3) uno ogni 35 mcirca, il doppio, cioè circa 70 metri, secondo Plinio il Vecchio (N.H. XXXI 57). Al momento questa struttura idraulica è stata messa in luce per circa 60 m.
Il dato certamente interessante è rappresentato dal fatto che già nel 1888, Giovanni Bandieri, all'epoca Conservatore del Civico Museo, aveva rinvenuto in un settore poco più a sud-est della città una struttura del tutto identica, incluso il relativo pozzetto di ispezione. Considerato l'orientamento della struttura emersa e le dimensioni degli elementi fittili (del tutto identiche a quelle riportate dal Bandieri) è plausibile che possa trattarsi del medesimo acquedotto.
I due acquedotti, verosimilmente riferibili alla prima età imperiale romana (fine I sec. a.c. - inizi II sec.), ci consentono comunque di formulare alcune osservazioni di carattere generale anche se del tutto preliminari.
In primo luogo, considerato che si tratta di strutture di portata limita e in terracotta (pertanto meno resistenti alla pressione dell'acqua rispetto ad esempio a condutture in piombo o a vere e proprie strutture in muratura), in entrambi i casi non può trattarsi dell'acquedotto principale di Regium Lepidi. Verosimilmente gli impianti in questione erano destinati a servire edifici privati a carattere residenziale, fontane di giardini o piccole terme ecc.
SEZIONE D'ACQUEDOTTO |
Il materiale archeologico recuperato durante gli scavi andrà in parte nei depositi e in parte presso ai Musei Civici di Reggio Emilia. Trattandosi di strutture in terracotta facilmente asportabili, stiamo pensando di rimuoverle e ricollocare una porzione di entrambi gli impianti all'interno dei Musei Civici. Al momento stiamo valutando gli spazi e le modalità di recupero, ma l'intento è certamente di renderli fruibili, dopo adeguato restauro, in uno spazio espositivo ad hoc e attraverso una pubblicazione che ne racconti la storia.