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PIANTE SACRE ROMANE

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FICUS RUMINALIS
Qui sopra, nel Foro Romano, le piante sacre di Roma, le più famose, quelle che nel Foro non dovevano mancare mai: il fico, l'ulivo e la vite. Se una di esse moriva veniva immediatamente ripiantata, e se morivano precocemente era segno di sventura.
Ancora oggi queste piante prosperano nel Foro Romano, accanto al Lacus Curtius e all'Arco di Settimio Severo.



FICUS RUMINALIS - Fico Ruminale

La leggenda di Romolo e Remo narra che i due gemelli nacquero da Marte e Rea Silvia dopo che il Dio della guerra aveva posseduto con la forza la giovane vestale di Alba Longa. Essendo prole illegittima, i gemelli vennero quindi strappati alla madre per essere uccisi, ma un servo pietoso li sottrasse a morte sicura adagiandoli piuttosto in una cesta, che fu affidata alle acque del Tevere.

Trasportata dallo straripamento del fiume, la cesta si fermò in una pozza sotto il fico ruminale, nel punto in cui la lupa sarebbe venuta ad allattarli. Secondo alcune fonti, il fico si ergeva alle pendici del colle Palatino, nei pressi della grotta chiamata Lupercale, mentre nell’iconografia è spesso rappresentato con un picchio appollaiato sui suoi rami.

L’etimologia dell’epiteto “ruminale” non è chiara e su di essa fin dall’antichità molti autori classici (tra gli altri Plinio il Vecchio, Tito Livio, Varrone, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso) hanno formulato varie interpretazioni. Secondo alcuni deriverebbe dal latino “ruma” (mammella), parola che starebbe all’origine dei nomi di Romolo e Remo (così come, secondo Herbig, del nome della città di Roma, col significato di “prosperosa, generosa, potente”); secondo altri, al contrario, il fico prese il nome da Romolo, tant’è che gli stessi autori latini lo chiamavano talvolta ficus Romularis. Altri infine ipotizzano un’etimologia etrusca.

Ad ogni modo, fin dall'antichità il fico fu collegato alla fondazione di Roma e considerato un albero fausto; era venerato soprattutto dai pastori, che vi si recavano con offerte di latte. Più tardi vennero create due nuove divinità, Jupiter Ruminalis e Rumina.

Sebbene il fico ruminale fosse in origine solamente quello in riva al Tevere presso il quale si era fermata la cesta con i gemelli abbandonati, nel corso dei secoli successivi e fino in epoca imperiale altri alberi di fico furono oggetto di venerazione, talvolta con l'epiteto di "ruminale".

Tra questi il Fico Navio (ficus navia), che secondo la leggenda sorse spontaneo in un luogo colpito da un fulmine (Plinio, Nat. Hist. 15.77) oppure nacque da un virgulto del fico ruminale ivi piantato da Romolo. Lo stesso albero sarebbe poi stato trasferito dal sito originario al Comitium, nei pressi di una statua dell'augure Atto Navio dal quale prese il nome.



ATTO NAVIO

Atto ebbe fin da giovane capacità divinatorie e, dopo aver studiato presso gli Etruschi, divenne il più famoso augure dei suoi tempi. Il re propose di raddoppiare il numero di equites, creando delle nuove centurie e chiamandone tre col suo nome ed altre due con il nome dei suoi sostenitori. Atto Navio, poichè Romolo aveva posto l'ordine equestre sotto l'autorità degli aruspici, negò il consenso ai nomi.

Re Tarquinio allora gli chiese di divinare se le sue intenzioni potessero essere realizzate. Navio, consultato il cielo, dette risposta affermativa. Allora il re fece portare una pietra per affilare ed un rasoio con cui tagliarla: Navio miracolosamente tagliò la pietra e Tarquinio dovette chiamare le centurie Ramnes, Titienses e Luceres posteriores. Una statua di Atto con una pietra da affilare fu posta nel Comizio sulle scale del Senato, proprio da da Tarquinio Prisco.



I GEMELLI E LA LUPA

Se Tito Livio afferma che nel 296 a.c. gli edili Gneo e Quinto Ogulnio avevano eretto "ad ficum ruminalem" un monumento che rappresentava i gemelli e la lupa, Ovidio racconta che alla sua epoca (43 - 18 a.c.) del fico non rimanevano che le vestigia. Plutarco e Plinio (Naturalis Historia 15.77) narrano invece che un fico fu piantato nel Foro Romano in quanto ritenuto di buon auspicio, e che ogni qual volta la pianta moriva veniva prontamente rimpiazzata con una nuova. Tacito aggiunge (Ann. 13.58) che nel 58 d.c. l'albero ruminale iniziò a inaridire: ciò fu visto come un cattivo presagio, ma la pianta risorse con gran sollievo della popolazione.

Il nome di Roma, secondo alcuni deriverebbe da "ruma", cioè mammella, dato che nel mito di Romolo e Remo si narra del loro allattamento da una lupa. In più il fico quando non è maturo secerne una specie di latte. Rumina, la Dea dei poppanti, era venerata in un tempio vicino al ficus ruminalis e a lei si dedicavano libagioni di latte. Inoltre la parola ruma è etrusca, e sembra che gli etruschi non siano stati estranei alla presenza nell'Urbe fin dall'inizio.



ATENA, CHIRONE E L'ULIVO

OLIVUM - Ulivo

I greci antichi consideravano l’olivo una pianta sacra e la usavano per fare delle corone con cui cingevano gli atleti vincitori delle olimpiadi. A quel tempo la pianta non era ancora l’olivo coltivato ma il genere selvatico: l’oleastro.

Secondo il mito ci pensò Atena a trasformare la pianta selvatica in pianta coltivata e da quel momento essa divenne sacra alla Vergine Atena e di conseguenza divenne anche simbolo di castità. Per i Romani venivano dotati di un ramo o meglio di una corona di ulivo gli uomini illustri e a
Roma è una delle tre pante più sacre: Ficus, Olea, Vitis, coltivate nel Foro della  Roma Repubblicana.

Plinio il Vecchio racconta che l’olivo venne introdotto a Roma sotto il regno di Tarquinio Prisco, nel 581 a.c., per diffondersi poi in tutta la Penisola. La prima spremitura, fatta con le olive ancora verdi, e senza rompere i noccioli, dava un prodotto di qualità eccellente. Una seconda spremitura, che schiacciava tutto il resto, forniva un olio ricco di morchia. I residui del frantoio, infine, venivano utilizzati per vari scopi, anche come combustibile per le lucerne, come racconta lo spagnolo Columella.

La tradizione della spremitura a freddo si è conservata inalterata dal mondo romano fino ai tempi nostri e si può trovare ancora, nelle campagne, macine analoghe a quelle descritte da Plinio. In epoca imperiale, Roma importava gran parte dell’olio dalla Spagna e navi cariche di dolia e anfore olearie solcavano il Mare nostrum. Ma i benestanti usavano olio del suolo italico, molto più buono e aromatico.

La cucina romana antica usava come grasso di cottura solo l'olio d'oliva e detestava il burro usato dai popoli nordici barbari e tanto più detestava il grasso di maiale, ambedue caratteristici dei popoli celti.
L'olio era usato anche per le lucerne che venivano accese, oltre che nelle case, nei templi, a onorare le statue degli Dei, ne più ne meno come si accende oggi una lampada a San Gennaro.

Comunque l'ulivo fu simbolo di pace in Grecia perchè la popolazione scelse il dono dell'ulivo di Atena e non il cavallo da guerra di Poseidone, per cui fu una vittoria della pace sulla guerra. Anche a Roma si inneggiava alla pace, soprattutto alla Pax Augusta, tanto che venne eretta anche un'Ara Pacis. Ma, secondo il detto romano: "Si vis pacem para bellum", cioè: Se vuoi la pace preparati alla guerra.

BACCO E L'UVA

VITIS VIVIFERA - Vite

Fin dalla comparsa delle prime civiltà questa pianta ha ricevuto dall’uomo la più grande venerazione, tanto che le fu dedicato uno specifico protettore divino, Dionisio per i Greci e Bacco per i Romani.

La sua coltivazione fu importata nella Magna Grecia dai primi colonizzatori e diffusa in tutta l'Italia probabilmente ad opera degli Etruschi, come testimoniano le raffigurazioni di viti nelle loro tombe, mentre furono poi i Romani a trasferire la coltura della vite a tutte le popolazioni conquistate e fin dove il clima lo permetteva.

BACCO
A Bacco (Bacchus), Dio del vino, della vite e della vendemmia, venne dedicato un culto e una specifica festività: il Baccanale.

Sembra però che non fosse proprio così e che la vite fosse già diffusa in Italia nei popoli preromani, in particolare in Toscana, dove, secondo Giovanni Dalmasso, la vite esisteva da prima della comparsa degli Etruschi; lo proverebbero i reperti di travertino affiorati nella zona di San Vivaldo, dove furono ritrovate impronte fossili (risalenti a circa 3.600.000 anni fa), della "Vitis vinifera" la quale cresceva spontanea.

Era considerata da queste popolazioni simbolo di forza, di capacità di adattamento e di trasformazione, visto che l'uva viene torchiata e distrutta, ma deposta poi nei tini fermenta una nuova vita e crea la bevanda inebriante che consola e rallegra il cuore degli uomini: il vino.

Bacco aveva il capo incoronato di pampini e grappoli, e recava in mano una coppa di vino.

Come spesso accade nei miti, la bevanda che all'inizio veniva usata in modo rituale, dette poi origine all'usanza di bere, ma pure all'alcolismo, in persone o molto fragili o particolarmente colpite dalla sorte. Il vino faceva dimenticare gli affanni.


Altre piante:

Ma c'erano molte altre piante che per gli antichi romani erano sacre, usate nelle cerimonie religiose o civili, ma pure in area più privata, quella che i romani esecravano e temevano, talvolta fosse nociva, ma che parecchi praticavano, in genere le donne: la magia.



LAURUS NOBILIS - Alloro

Considerata in antichità la pianta della metamorfosi e dell’illuminazione, l'alloro è il simbolo della sapienza divina e pertanto consacrata al Dio Apollo. I contadini romani solevano legare tre ramoscelli d’alloro con un cordoncino rosso per propiziare l’abbondanza del raccolto, soprattutto del grano.

Dafne, figlia e sacerdotessa di Gea, la Madre Terra e del fiume Peneo (secondo altri del fiume Lacone), era una giovane ninfa che viveva serena nei boschi correndo e cacciando, ma un giorno Apollo, fiero di avere ucciso a colpi di freccia il gigantesco serpente Pitone alla tenera età di quattro giorni, (naturalmente il Pitone apparteneva alla Dea Terra) incontra Eros intento a forgiare un nuovo arco e si burlò di lui, del fatto che non avesse mai compiuto delle azioni degne di gloria.

Un adulto che si burla di un bimbo lascia perplessi, ma comunque Eros, ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso, prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l'amore, che lanciò nel cuore di Dafne ed un'altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo.

Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, finchè non la trovò ma Dafne appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche del dio che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionarla.

CESARE LAUREATO
Dafne scappava ma Apollo la incalzava sempre più da vicino, così invocò la Madre Terra che per aiutarla la trasformò in un albero di lauro, un bell'aiuto non c'è che dire.

Nelle Metamorfosi Ovidio racconta in modo un po' diverso la saga di Apollo e Dafne, e cioè che il Dio del sole, innamorato della ninfa Dafne, non era da lei corrisposto.

Questa, esasperata dai tentativi di stupro del Dio, perchè poi questo era in realtà l'innamoramento, e sfinita dalle fughe per sottrarsi alla violenza, chiese l’aiuto di suo padre Penèo, che impietosito decise d’aiutare la figlia trasformandola in una pianta di alloro.

In realtà l'alloro aveva la sua Dea, come il rosmarino, il finocchio selvatico ecc., tutti attributi della Dea Terra che cambiava nome a seconda della zona o del pagus e dell'attributo, come suo attributo era il serpente (che sia Apollo che Ercole ammazzano appena aprono gli occhi), e pure l'omphalos era il suo attributo, che passa sia ad Apollo che a Mitra. La Dea Dafne viene trasformata nei miti prima in ninfa e poi in albero (che poi l'alloro è un cespuglio) e quindi il suo attributo passa ad Apollo e agli uomini potenti o illustri.

Gli antichi romani coltivavano l'alloro ritenendola pianta nobile per eccellenza e ponevano sul capo dei poeti e dei generali vittoriosi un ornamento di forma circolare fatto con ramoscelli di alloro (lauro) come simbolo di gloria e di vittoria. I greci anticamente chiamavano l'Alloro Dafne, in ricordo della Ninfa. Considerata pertanto una pianta nobile per eccellenza era normale coltivarla nei giardini imperiali e gli imperatori romani si cingevano la testa di alloro durante i trionfi e le cerimonie come fosse una corona.

In realtà la corona d'alloro apparteneva alla Musa Clio ( da kleos - gloria) che celebrava la storia delle grandi imprese, cioè l'epica. Poichè però Apollo, ovvero i suoi seguaci, i cosiddetti iperborei, presero il potere in Grecia, le Muse vennero detronizzate ma non cacciate, bensì vennero passate al servizio del Dio Apollo, formandone un corteo artistico.

Ciò dimostra l'antichità dell'usanza, che poi venne assimilata da Roma insieme alle divinità greche e pure al suo glorificante alloro, di cui si cinsero anzitutto i suoi imperatori.

L'alloro veniva masticato dalle pitonesse greche per vaticinare il futuro, in quanto le foglie della pianta sono un po' velenose e un po' inebrianti. Nella magia romana l'alloro non era usato granchè, se non per consacrare corone di alloro benedetto che poi venivano bruciate. Infatti consacrare una corona di alloro a un generale gli auspicava la vittoria, ma dall'altro caso avrebbe portato sventura attirando gli spiriti avversi, per cui veniva consacrata e bruciata subito dopo.

Tale corona, chiamata 'laurea'è rimasta nelle epoche successive come iconografia nella rappresentazione pittorica di poeti ed imperatori, vedi Napoleone che amava farsi ritrarre con l'alloro e ne deriva anche il termine "laurea" e "laureato", cioè cinto di alloro.


PROSERPINA E IL MELOGRANO

MALUM PUNICUM o MALUM GRANATUM - Melograno

Dai tempi più antichi il suo frutto, ricco di semi di un accattivante colore rosso, è considerato simbolo di fertilità ed espressione dell'esuberanza della vita. Il frutto fu chiamato così da malum cioè mela e punicum, cioè cartaginese, perchè così lo chiamò il naturalista romano Plinio il Vecchio, ma solo perchè a Roma venivano importati dalla città di Cartagine, da cui venne prima importata e poi trapiantata sul suolo italico. La sua origine sembra però asiatica.

Nell'antica Grecia la pianta era consacrata ad Era, moglie di Zeus, e ad Afrodite, Dea dell'amore. Ma da Era ad Atena e a Persefone, molte Dee greche e romane portavano in mano questo frutto.
Le spose romane solevano intrecciare tra i capelli rami di melograno, come simbolo di ricchezza e di fertilità.

Il melograno però fu soprattutto legato ai culti dei Sacri Misteri, tanto è vero che nel mito greco arcaico Persefone mangia nell'Ade sette chicchi di melograno, cosa che la obbliga a vivere sei mesi nel mondo dei morti prima di trascorrere altri sei mesi nello splendore dell'Olimpo.

In tutte le antiche religioni la discesa nell'Ade era considerata una presa di coscienza della vita in generale da parte dell'uomo che esplorava così le sue profondità inconsce. Pertanto il significato misterico del melograno era la consapevolezza della vita, e della vita oltre la vita.

In magia erano usatissimi i semi di melograno che avevano funzione di rafforzativo dell'incanto creato, sia per fare guarigioni sia per procurare del male ad altri.



MINTHA - Menta

Ovidio narra nelle sue “Metamorfosi” delle origini della menta. che all'origine era una bellissima ninfa figlia del fiume infernale Cocito. Plutone se ne innamorò ma sua moglie Proserpina, scoperta la storia trasformò la ninfa in una pianta.

NINFA
Come si vede anche se i miti rimaneggiati perdevano il significato originale, qualcosa contengono ancora e qui si comprende il nesso della menta con il mondo dell'aldilà, visto che compaiono gli Dei dell'Ade e che il padre della ninfa era un fiume infernale.

Sempre Ovidio narra che Mercurio e Giove in sembianze umane vagavano attraverso  la Frigia.
chiedendo ospitalità ovunque, ma ogni volta venne negata.

La trovarono in un’umile capanna abitata da Filemone e Bauci, due sposi poverissimi ma innamoratissimi, che strofinarono sulla loro povera tavola foglie di fresca menta per renderla piacevolmente odorosa.

Giove punì i i Frigi per non averlo accolto, ma risparmiò i due coniugi, trasformando la loro povera capanna in un tempio lussuoso e offrendosi di esaudire qualunque loro desiderio. Filemone e Bauci chiesero di diventare sacerdoti del tempio di Gioves e di poter morire insieme.

Quando Filemone e Bauci furono prossimi alla morte, Zeus li trasformò in una quercia e un tiglio uniti per il tronco, ambedue alberi dotati di lunga vita. Questo albero meraviglioso, che si ergeva di fronte al tempio, fu venerato per secoli.

Un’altra leggenda narra che fu Giove a trasformare la ninfa Mintha, che l’aveva rifiutato, nella pianta della menta.

Nell'antica Grecia la menta era dedicata ad Afrodite, però nel suo aspetto ctonio, quindi connessa alla morte.

Era anche dedicata al Dio della guerra Ares e se ne bruciavano mazzetti sulle pire funebri dei soldati caduti in battaglia, ma per donare loro la pace.

I romani la consideravano rilassante e sedativa, tanto che, secondo Seneca, i soldati non dovevano mangiarla perchè gli avrebbe tolto vigore e forze. In effetti la menta era sedativa e tranquillizzante, ottima quindi per placare le passioni e per il mondo dell'aldilà. La menta era usata nella magia per placare le passioni ma soprattutto per connettersi con gli antenati o altri morti che si desiderava contattare.



MYRTUS COMMUNIS - Mirto

Gli antichi greci avevano consacrato il mirto alla Dea Afrodite, infatti durante i Giochi Elei, antichi giochi Olimpici dellVIII sec. a.c., il capo del vincitore veniva cinto da una corona di mirto. Pure nella fatale scelta di Paride, Afrodite vincitrice di bellezza si cinse la testa con una corona di mirto. D'altronde fu un ramo di mirto che coprì le nudità della Dea appena uscita dal mare.

Nell'antica grecia i nomi di molte eroine ed amazzoni avevano tutte la stessa radice: Myrtò, Myrsìne, Myrtìla. Myrtò era un'amazzone che aveva combattuto Teseo come Myrìne era la regina delle Amazzoni, in Libia. Si chiamava Myrsìne una profetessa del santuario di Dodona che per un responso nefasto morì tragicamente.

Il mirto è anche considerata una pianta di buon augurio e di buona fortuna tanto che quando si doveva partire per fondare una nuova colonia ci si cingeva il capo con una corona di mirto come augurio appunto di buona sorte.

Una corona di mirto posta sul capo era anche augurio di buona sorte, in particolare per le persone che si accingevano ad affrontare un lungo viaggio, ma anche i poeti latini che avevano cantato l’amore venivano incoronati con mirto, ma Plinio ricorda che talvolta il mirto sostituiva l’alloro nelle corone offerte ai comandanti vittoriosi. Si presuppone che questa usanza, almeno in Grecia, precedesse quella della corona di alloro.

Il mirto è stato sempre considerato simbolo di fecondità, tanto che Plinio lo aveva soprannominato "Myrtus coniugalis" in quanto si usava nei banchetti di nozze come augurio di una vita serena e ricca di affetti. Secondo la leggenda  romani e sabini, dopo il famoso ratto, si riconciliarono grazie alla forza purificatrice delle fronde di mirto.

Le donne che partecipavano alle feste in onore della Venere Mirtea se ne cingevano le braccia, il capo e le caviglie, ritenendolo un potente afrodisiaco in grado di sollecitare il desiderio e favorire gli incontri.

Tra gli amanti c’era l’uso di cogliere rami di mirto al solstizio d’estate per stringere un patto di reciproca fedeltà, e con una corona di mirto, simbolo dell’unione coniugale, chiamata "coniugalo" si soleva adornare le spose il giorno delle nozze.

Nell’antica Roma era una delle piante simboliche più importanti e secondo Tito Livio l’Urbe era nata nel punto dove era spuntato questo arbusto. Dai romani antichi era considerato una rappresentazione dell’amore

Il mirto però ha anche un significato funebre. Infatti nell'antica Grecia si raccontava che Dioniso, quando era sceso nell'Ade per liberare la madre Semele aveva dovuto lasciare in cambio una pianta di mirto. Da allora il mirto ha rappresentato l'oltretomba ed i defunti. Questa doppia valenza del mirto, esprime l'associazione vita morte che è l'eternarsi dei cicli. La Venere Mirtea era infatti anche Dea dell'Oltretomba.

In magia nell'antica Roma si usava il mirto per placare i morti prima o dopo averli evocati. Il mirto era legato agli antenati, per cui chi doveva intraprendere un viaggio o un'impresa rischiosa invocava col mirto la presenza protettrice degli antenati.



QUERCUUS - Quercia

GIOVE
Nell'antica Grecia era consacrata a Zeus, il padre degli Dei, e secondo alcune leggende un ramo di quercia piantato vicino ad una fonte dell'Arcadia serviva ad evitare i periodi di siccità.

Gli antichi romani la consideravano sacra, inserendola in un elenco di piante "che recano buoni auspici".

Come i greci anche i romani consideravano la quercia sacra a Giove, facendola assurgere simbolo di virtù, forza, coraggio, dignità e perseveranza.

Tanto più che se si stacca un ramo verde di quercia e si appende sui travi, il ramo si conserverà verde molto a lungo, praticamente si seccherà quando le querce, dopo aver perduto totalmente le foglie, le rimetteranno per il nuovo anno.

Inoltre, poichè ha delle radici molto profonde, la quercia se incendiata nel rogo di un bosco, conserva intatte le radici sotterranee, per giunta il suo tronco molto compatto difficilmente brucia troppo, ma si limita a danneggiarsi in superficie.

Pertanto anche ha perso rami e foglie e il suo tronco è tutto nero, l'anno seguente l'albero di quercia rimette le foglie, per cui ha pure il senso dell'indistruttibile, per questo in magia salvaguardava dal fuoco e dalla morte in battaglia.



ROSMARINUS OFFICINALIS - Rosmarino

Rami di questo arbusto erano impiegati nell'antichità nei riti propiziatori ed in quelli funebri (quasi come l'incenso nei giorni attuali), per le caratteristiche che le venivano attribuite di allontanare gli spiriti malvagi.

LEUCOTEA
Nell'antica Grecia era consacrato ad Ares, il Dio della guerra: rami di rosmarino venivano posti tra le braccia dei defunti come simbolo di immortalità dell'anima.

Secondo Ovidio, autore delle Metamorfosi, la prima pianta di rosmarino prese origine dal corpo della principessa persiana
Leucothoe, sedotta da Apollo ed uccisa dal proprio padre per essersi lasciata sedurre (anche se gli Dei difficilmente lasciavano scelta).

Quando i raggi del sole ne lambirono le spoglie lentamente si trasformò in una pianta dalla fragranza intensa, dalle esili foglie e dai fiori viola-azzurro pallido. Da qui l'usanza degli antichi Greci e Romani di coltivare il rosmarino come simbolo d'immortalità dell'anima. In realtà il rosmarino era consacrato alla Dea Leucotea, antica Dea greca e italica, la Dea dell'Alba, detta anche la Dea Bianca (R.Graves - I miti greci).

Il suo nome deriva dal greco rhops myrinos = arbusto profumato. I suoi rametti venivano bruciati nei templi dell’antica Grecia e a Roma, al posto del prezioso incenso arabo.
 
Nell'antica mitologia greca vi si associava Minerva e pure le nove figlie di Mnemosine (la memoria), spesso ritratte con ramoscelli di rosmarino in mano.
Gli studenti greci si coronavano di rosmarino, si dice per la memoria.  Greci e Romani lo bruciavano come l’incenso e ne facevano corone per le feste in onore di Afrodite Dea dell’Amore, finché non fu sostituito più tardi con il Mirto.

Si credeva che questa pianta avesse il potere di allontanare gli spiriti maligni. E' per questo che nelle culle dei neonati si metteva un rametto di rosmarino. Anche gli sposi novelli e i cortei nuziali si addobbavano con il rosmarino.

Nella magia dei romani (ma pure italica) si usava per spazzare il suolo dove si svolgeva l'incantesimo per togliere ogni influenza negativa e l'officiante se ne teneva un rametto in seno come protezione. Alla fine dell'operazione magica il rametto veniva bruciato.



FOENICULUM VULGARE - Finocchio

NINFA
Fu nel fusto cavo del finocchio che Prometeo portò agli uomini dall’Olimpo il fuoco, il dono più prezioso per i mortali.

Plinio sosteneva che il finocchio selvatico potesse curare ben ventidue malattie, tanto era conosciuto tra i romani, sia in cucina che in medicina.

Ma nel suolo italico il suo culto era più antico, perchè c'era la Dea del Finocchio selvatico, le cui sacerdotesse si cingevano il capo con i suoi rametti odorosi danzando nei campi e raccogliendo le erbe estive del finocchio.

Fin da allora usavano bere il vino sacro mescolandolo al finocchio selvatico che ne addolciva e ne migliorava il sapore, per avere infine una visione della Dea.

Da allora spesso gli esperti in vino (sommelier) usano masticare del finocchio tra un assaggio e l'altro. Il sapore del finocchio fa emergere l'autentico sapore del vino e cancella i sapori precedenti.

Però le sacerdotesse della Dea, o ninfa, del finocchio selvatico, maceravano i semi di finocchio nel vino e ne bevevano per inebriarsi e dare responsi, cosa che facevano in rima, perchè era la Dea che parlava in loro.

Tutto questo in ere molto antiche, prima che i romani proibissero il vino alle donne, ma sicuramente certi riti sopravvissero ai romani perchè in segreto si perpetuarono anche nel medioevo, come ben sapeva la chiesa cristiana a caccia di streghe.



VERBENA OFFICINALIS - Verbena

VENERE
Gli antichi Romani consideravano la verbena come pianta sacra per eccellenza, con le cui fronde intrecciavano corone da usare nelle cerimonie religiose.

Però, avverte Servio (nel suo commento all'Eneide di Virgilio, XII 120): "Abusive tamen iam vocamus omnes frondes sacratas" cioè: sbagliamo se chiamiamo verbena tutte le piante con cui si fanno corone sacre, come l'alloro, l'olivo e il mirto.

Insomma, anche per i Romani la verbena era una pianta di cui tutti parlavano, ma la conoscevano in pochi. In realtà la verbena era una pianta sacra che faceva parte del Giardino descritto nelle Argonautiche orfiche.

Ebbe molti nomi tra cui ‘Lacrime di Iside, Lacrime di Giunone, Demetria, Persephonion’; il suo stesso nome la lega a Venere, in quanto 'herba Veneris'.
Santo chiamasi tutto ciò ch'è protetto e difeso contro l'ingiuria degli uomini. La parola santo è derivata dalla voce sagem che significa verbena. Le verbene sono certe erbe che i legati del popolo romano sogliono portare per rendere le loro persone inviolabili, come i legati della Grecia portano quelle si chiamano cerycia."
(Marcianus, lib. 4 Regularum)

Simmaco riferisce che: “quasi alle origini della città di Marte nacque l’uso delle strenne per iniziativa di Tazio, che per primo prese dal boschetto di Strenia delle verbene di arbor felix come auspicio dell’anno nuovo”.

In realtà con ‘verbena’ si indicava ogni ramo di arbor felix usato sia nei sacrifici sia per incoronare gli altari. A Roma si usava per purificare l’altare di Giove (e nelle cerimonie di purificazione in generale) e per le missioni dei Fetiales; tali verbene erano raccolte sulla Rocca Capitolina.

Plinio ci informa che i Druidi la coglievano ritualmente, poichè i druidi ne bevevano un infuso, prima di profetizzare, in grado di facilitare la visione di cose future o nascoste.

Lo studioso romano narra anche che le sue foglie e i suoi rami erano anche usati per purificare e profumare gli ambienti; il decotto di verbena veniva usato per profumare i pavimenti e i divani prima di un simposio, in modo da aumentare la gaiezza dei partecipanti..

Dioscoride, e sulla sua scia moltissimi naturalisti antichi, la riteneva un’erba miracolosa e una panacea in grado di curare tutti i mali. Alcuni fanno derivare il suo nome da Venere, per le sue proprietà afrodisiache, confermate da Ippocrate - che raccomanda il decotto di verbena per curare la sterilità delle donne- .

ARIANNA

TIMO

Sin da tempi antichissimi il timo è una pianta sacra, in quanto legato alla api, dalle quali è ricercatissimo, come già descritto dal poeta latino Virgilio nell'Eneide. L'ape in tempi arcaici era simbolo della Dea Ape che era Dea primigenia della natura. Le api non dipendono dai maschi ed hanno una gerarchia lavorativa tutta femminile.

La capacità del timo di fornire le api per la creazione del miele era visto come capacità di trasformazione quasi miracolosa.

Per gli antichi greci il timo era simbolo di vitalità (da thumos, soffio vitale): essi credevano che la pianta si fosse originata dalle lacrime di Arianna, emesse a causa dell'abbandono dell'amato Teseo.

Il pianto della bella Dea però attrasse le attenzioni di Dioniso che l'amò da subito e la prese in sposa con un sontuosissimo banchetto a cui parteciparono gli Dei tutti. Arianna stessa poi divenne partecipe della reggia dell'Olimpo, entrando a far parte degli dei immortali..

Il timo era usato nei riti delle cerimonie sacre per il suo fumo dalle proprietà ritenute disinfettanti. Le famiglie romane spesso ne cospargevano i pavimenti nei banchetti per profumare la stanza.
Il timo era piuttosto usato in magia per le fatture d'amore, insieme al miele e al vino.



NOCI

L'albero del noce, e pure il suo frutto, la noce, erano sacri al culto di Diana Caria, culto antichissimo ed esclusivamente femminile, tanto che il maschio che osava violare i Sacri Misteri collegati al culto veniva punito con la morte.

ARTEMIDE CARIA
Il culto, di origine greca, aveva tra la Laconia e l'Arcadia un famoso e splendido tempio di Artemide Karya, o Artemide Kariatys o Diana Caria, cui era sacro il noce e il suo frutto, e le fanciulle spartane danzavano e cantavano attorno alla statua di Diana Caria, così come le sacerdotesse cariatidi, danzavano intorno all’albero sacro e facevano le “cose loro” nel tempio.

Il noce ha un tardo frutto autunnale simile a un labirinto, ovvero ai meandri di un cervello, che quindi lo riguardava, avvolto dall’amaro mallo che si secca e muore scoprendo un guscio duro che avvolge il seme.

Il Mistero Sacro prevedeva che anche nell'uomo qualcosa si dovesse seccare e morire per scoprire il prezioso seme che giace in lui, ma questo non lo sapevano gli uomini, bensì lo sapevano le sacerdotesse: appunto le cariatidi.

Il rito era assolutamente proibito ai maschi, pena la morte, tranne un rito pubblico annuale a cui partecipava tutto il popolo, e di fronte a cui le sacerdotesse danzavano e cantavano, ma non facevano le “cose loro”. Anche le spartane danzavano intorno alla statua della Dea, la Dea del noce, che si ergeva in in ampio spazio aperto, il suo aedes sacro.

Il noce è un albero imponente e nodoso, che di per sè ha qualcosa di magico. Non solo fu sacro a Diana, ma pure a Dioniso perchè nei Misteri Dionisiaci le Menadi, o Baccanti che dir si voglia, cioè le sacerdotesse del Dio, danzavano sfrenate attorno ad un albero di noce, che nel frattempo era diventato sacro anche a Dioniso, Dio dell'ebbrezza e delle profondità  dell'anima.

Aveva, ed ha, il suo frutto, la noce, uno stranissimo frutto la cui unica parte commestibile è il seme all'interno. Questo però è ben custodito da una parte legnosa che lo riveste come un sarcofago, durissimo da aprire. A sua volta il guscio è custodito dal mallo, un rivestimento molle color verde brillante, bello a vedersi ma amarissimo nel sapore.

Per nutrirsi del seme, ottimo simbolo dell'essenza dell'anima, occorreva togliere l'amaro mallo e spaccare il guscio ligneo. Un lavoro simile al cosiddetto "Nosce te ipsum" o "Gnothi Seauton" del tempio di Delo, insomma Conosci te stesso.

Il cervello è lo strumento con cui pensiamo, il cuore lo strumento con cui sentiamo. Per giungere al cuore, e magari al ventre, agli organi sessuali e così via occorre partire dal cervello, cioè dalla mente, perchè è l'unico strumento che abbiamo all'inizio, e il gioco inizia quando la mente cessa di occuparsi solo dell'esterno e comincia ad occuparsi del suo dentro, cioè dell'anima.

Quando ci accorgiamo che la mente è uno strumento insufficiente per comprendere l'anima e di conseguenza pure il mondo esterno, inizia una seconda fase, in cui cerchiamo di mettere un po' da parte il cervello per sentire l'anima. A quel punto il cervello, cioè la mente, inizia a trasformarsi.

Questo sapevano le Cariti o Cariatidi, eredi di un'antica saggezza tramandata dagli antichi Greci quando gli Dei stavano in mezzo agli uomini e non nei cieli invisibili. I Titani, gli antichi Dei figli della Terra sapevano che è il femminile a sorreggere il mondo, il femminile come Natura, come Anima Mundi e come donna, per questo raffigurarono figure femminili che sorreggevano i tempi, e l'equilibrio del mondo.

I riti delle giovani Carie o Cariti bianco vestite, che danzavano selvaggiamente intorno al noce alla luna piena, spaventarono gli uomini, che le trasformarono in streghe danzanti attorno al noce di Benevento.

In poche parole il Sabba delle streghe, o rito del fiume Sabat, sabato, o del sabbath, quando emergono le energie della terra, divenne osceno, peccaminoso e infine diabolico. Di qui la magia, le streghe e la Santa Inquisizione.

Pertanto, la noce rimase a lungo un frutto sacro, che nella magia romana si usava quando si dovevano compiere operazioni magiche che riguardassero cervello e psiche, per esempio aiutare chi ha difficoltà psichiche o al contrario procurargli delle difficoltà mentali.

Nel rito il cervello rappresentava quello della persona su cui si operava la magia e spesso si frantumava nel mortaio insieme ad altre sostanze magiche per ottenere l'intruglio da benedire e poi propinare al soggetto,  a scopo terapeutico o al contrario di esso.


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