FUNERALE ROMANO |
Avevano del resto il retaggio etrusco che festeggiava la morte come un lieto evento, con banchetti e giochi. Detti giochi funebri furono soprattutto gladiatorii, ma i romani usarono detti ludi non per i funerali ma per il piacere del popolo. Le tombe furono all'inizio modeste, probabilmente nella nuda terra, talvolta delimitate da ciottoli, lastre di pietra o sassi. In alcuni casi con coperture dette alla cappuccina, realizzate con tegole e mattoni, una sorta di tetto a spioventi.
Le sepolture erano segnalate da piccoli tumuli di pietre o terra, dalle pietre di delimitazione o da vasellame posto al di sopra della fossa; rare le stele funerarie. Il rito funebre più praticato nei primi secoli dell’Impero fu la cremazione indiretta. Il defunto veniva bruciato in un’area apposita, detta ustrinum; i suoi resti venivano poi raccolti, riposti in un contenitore e sepolti.
Che l’uso sia stato antichissimo, e prima anche di quello che sostiene Plinio, l’attesta Geronimo Mercuriale nel cap. ultimo del libro De decoratione "Quo tempore inventa fuerint unguenta invenio"
LA PIETAS ROMANA
A Roma era importante il funerale, tanto più ricco quanto erano importanti il defunto e la sua gens. La Pietas riguardava anche il rispetto dei defunti, se un cadavere non veniva sepolto o senza le esequie dovute, la famiglia era colpevole e l’anima del defunto vagava sulla terra perseguitando i discendenti. Il primo atto del dopo morte era l’ultimo saluto, il bacio che uno dei familiari dava al morto chiudendogli gli occhi e ripetendo per tre volte il suo nome.
Nell’impresa di pompe funebri, i libitinarii preparavano la salma per l’esposizione, lavando il corpo, profumandolo con unguenti, vestendolo della toga e componendolo sul letto funebre nell’atrio della casa. Era uso mettere nella bocca del morto una moneta, l’obolo di Caronte, il traghettatore dell'Ade.
" VESPIGLIONI ovvero vespillones in latino. Quest'è il nome che i Romani davano a coloro che avevano cura di trasportare la sera i cadaveri de poveri. Eglino servivano anche nei sacrifizi che si facevano ai Mani "
(G.J. Monchablon - 1832)
L’esposizione durava alcuni giorni, durante i quali le donne piangevano e gridavano il loro dolore, a volte aiutate da donne che lo facevano a pagamento: le prefiche.
Seguiva la processione, organizzata dal dissignator se il defunto era una persona importante: davanti al feretro un gruppo di uomini in toga da parata con le maschere, che rappresentavano gli antenati del defunto. Intorno alla bara i littori col mantello rosso cerimoniale e i fasci, poi i suonatori di flauto, mimi e danzatori, i familiari in lutto e le donne piangenti.
Ogni famiglia nobile conservava nei tabernacoli posti negli atri delle case le maschere degli antenati. Gli Etruschi chiamavano gli Dei Cerere, Pale e Fortuna con il nome di Penati, il che la dice lunga.
Il fascio, che si ritiene originario etrusco, come fascio di betulle legate con una scure, è la derivazione più antica dal fascio del cereale di Cerere (cereale da Cere, cioè Cerere), adorata dagli etruschi fin dal VI sec. a.c., al cui centro stava la bipenne, simbolo lunare sia etrusco che cretese, il labris, della vita e della morte. Il fascio era dunque l'antico legame degli uomini con la terra, con la Dea Madre Cerere che forniva il nutrimento. In ultimo venivano i portatori di cartelli, che ricordavano i fatti illustri della vita del defunto.
La processione percorreva tutta la città e sostava nel Foro dove nei rostra, la tribuna degli oratori, aveva luogo l’elogio funebre pronunciato dal figlio o dal parente stretto. E qui si mostrava l'abilità dell'oratore a commuovere la folla per parteciparla all'evento doloroso. Poi il morto veniva accompagnato al cimitero fuori dal pomerio, visto che la legge vietava la sepoltura dentro la città.
A Roma era importante il funerale, tanto più ricco quanto erano importanti il defunto e la sua gens. La Pietas riguardava anche il rispetto dei defunti, se un cadavere non veniva sepolto o senza le esequie dovute, la famiglia era colpevole e l’anima del defunto vagava sulla terra perseguitando i discendenti. Il primo atto del dopo morte era l’ultimo saluto, il bacio che uno dei familiari dava al morto chiudendogli gli occhi e ripetendo per tre volte il suo nome.
Gli addetti alle cerimonie dei cadaveri si chiamarono Pollinctores Libitinarj. Le donne invece
ungevano il cadavere del morto, ed erano dette "Funerae". Se però mancavano le Funerae subentravano gli uomini, gli assistenti delle Funzioni Funebri detti Libitinari da Libitina, Dea dei funerali, a cui si pagava un denaro per ognuno che moriva, e siccome si pagava a Lucina per ognuno che nasceva, secondo la legge fatta da Servio Tullio, si potevano calcolare ogni anno quanti morivano e quanti nascevano.
ungevano il cadavere del morto, ed erano dette "Funerae". Se però mancavano le Funerae subentravano gli uomini, gli assistenti delle Funzioni Funebri detti Libitinari da Libitina, Dea dei funerali, a cui si pagava un denaro per ognuno che moriva, e siccome si pagava a Lucina per ognuno che nasceva, secondo la legge fatta da Servio Tullio, si potevano calcolare ogni anno quanti morivano e quanti nascevano.
Nell’impresa di pompe funebri, i libitinarii preparavano la salma per l’esposizione, lavando il corpo, profumandolo con unguenti, vestendolo della toga e componendolo sul letto funebre nell’atrio della casa. Era uso mettere nella bocca del morto una moneta, l’obolo di Caronte, il traghettatore dell'Ade.
" VESPIGLIONI ovvero vespillones in latino. Quest'è il nome che i Romani davano a coloro che avevano cura di trasportare la sera i cadaveri de poveri. Eglino servivano anche nei sacrifizi che si facevano ai Mani "
(G.J. Monchablon - 1832)
L’esposizione durava alcuni giorni, durante i quali le donne piangevano e gridavano il loro dolore, a volte aiutate da donne che lo facevano a pagamento: le prefiche.
Seguiva la processione, organizzata dal dissignator se il defunto era una persona importante: davanti al feretro un gruppo di uomini in toga da parata con le maschere, che rappresentavano gli antenati del defunto. Intorno alla bara i littori col mantello rosso cerimoniale e i fasci, poi i suonatori di flauto, mimi e danzatori, i familiari in lutto e le donne piangenti.
Ogni famiglia nobile conservava nei tabernacoli posti negli atri delle case le maschere degli antenati. Gli Etruschi chiamavano gli Dei Cerere, Pale e Fortuna con il nome di Penati, il che la dice lunga.
Il fascio, che si ritiene originario etrusco, come fascio di betulle legate con una scure, è la derivazione più antica dal fascio del cereale di Cerere (cereale da Cere, cioè Cerere), adorata dagli etruschi fin dal VI sec. a.c., al cui centro stava la bipenne, simbolo lunare sia etrusco che cretese, il labris, della vita e della morte. Il fascio era dunque l'antico legame degli uomini con la terra, con la Dea Madre Cerere che forniva il nutrimento. In ultimo venivano i portatori di cartelli, che ricordavano i fatti illustri della vita del defunto.
La processione percorreva tutta la città e sostava nel Foro dove nei rostra, la tribuna degli oratori, aveva luogo l’elogio funebre pronunciato dal figlio o dal parente stretto. E qui si mostrava l'abilità dell'oratore a commuovere la folla per parteciparla all'evento doloroso. Poi il morto veniva accompagnato al cimitero fuori dal pomerio, visto che la legge vietava la sepoltura dentro la città.
IL DOPO MORTE
Tra il I sec. a.c. e il I d.c., la diffusione del pensiero stoico ed epicureo aveva minato la convinzione della sopravvivenza dell'anima, che sarebbe stata riassorbita da un'energia universale e privata di ogni individualità. Lo dimostrano negli epitaffi espressioni come:
- Sumus mortales, immortales non sumus (CIL XI, 856),
- Non fui, non sum, non curo (formula abbreviata NFNSNC),
- Nil sumus et fuimus.
- Mortales, respice, lector, in nihil a nihilo quam cito recidimus (CLE II, 1495).
Non tutti però la pensavano allo stesso modo. Tuttavia si pensava che gli spiriti dei morti, che stranamente mantenevano la loro individualità, potessero tornare alle dimore dei viventi e andassero onorati con vari rituali per tenerseli buoni. L'immortalità consisteva nel vivere nei ricordi dei posteri, per cui non si lesinava sulle decorazioni del sepolcro e sulle iscrizioni che narravano la vita del defunto, di alto o modesto lignaggio che fosse.
A volte la decorazione del sepolcro illustrava il lavoro o la professione del defunto, ne lodano le qualità e le sue virtù romane. Tra le religioni misteriche che alludono alla vita oltre la morte, il ciclo dionisiaco è il più frequente, con un viaggio verso le isole dei beati, tema ripreso poi dalla tradizione cristiana.
· L’esposizione pubblica del cadavere;
· Il corteo;
· L’elogio funebre;
· La cerimonia del rogo;
- "Qualora alcuno stava già già per morire i Parenti e gli Amici tutti lo baggiavano in bocca", lo attesta Ausonio al verso 23 143, Suetonio nella vita di Cesare Augusto cap. 89 144 e Seneca, nel De Brevit. vitae, dicendo: "Caesar patruus meus Drusum intima Germaniae recludentem et gentes ferocissimas Romano imperio subiacentem in complexu et osculis suis amisit"
E ciò facevano per due cause, una forse per far sì che l’anima restasse tuttavia anche un poco nel corpo del moribondo, poichè credevano tenergli serrata l’uscita alla loro bocca, onde ne venne che tal funzione chiamossi da’ latini Abitio. Altri lo facevano per approntare il passaggio a quell’anima ne’ loro corpi, credendo senza meno la trasmigrazione; così Cicerone nella V Verrina dice:
"Matresque miserae pernoctabant ostium carceris ab extremo complexu liberorum quae nihil aliud optabant; nisi ut filiorum extremum alitum excipere; liceret".
"Li cavavano in tanto, con mesto rito, dalle dita l’anelli," lo attesta Suetonio nella vita di Tiberio al Cap. 73; Valerio Massimo al lib. 7, e Plinio per tutti al libro 33 con tali parole:
"Gravis somno, aut morientibus
religione quadam annuli detrahuntur."
Spirato appena, o anche spirante, chiudevano gli occhi ai moribondi, rito usato non solo dai romani, ma pure dai greci e dai barbari. Ne scrive Omero, che fa lamentare Agamennone della trascuratezza della moglie Clitennestra nel non serrargli gli occhi mentre moriva. -
DALLA MORTE ALLA SEPOLTURA
In epoca romana erano presenti sia focacce lievitate (offa) che non lievitate (placenta). Nei riti solenni e più arcaici si usavano le placenta, cioè le focacce non lievitate. Si chiamavano africia le focacce usate per il sacrificio al morto, focacce non lievitate e profumate con rametti di rosmarino che era simbolo dell'immortalità dell'anima.
Presso il sepolcro del defunto si poneva un piccolo altare su cui i parenti o gli amici del morto bruciavano dei profumi, ogni giorno per una luna e in seguito negli anniversari. Qui si mangiavano le africia e se ne offriva al morto, e si beveva vino versandone sull'altarino. Questo altare aveva lo stesso nome del piccolo cofano in cui si racchiudevano di solito i profumi usati dagli abitanti della casa, soprattutto dalle donne, cioè "acerra".
· Il corteo;
· L’elogio funebre;
· La cerimonia del rogo;
FLAMINIO VACCA
- "Qualora alcuno stava già già per morire i Parenti e gli Amici tutti lo baggiavano in bocca", lo attesta Ausonio al verso 23 143, Suetonio nella vita di Cesare Augusto cap. 89 144 e Seneca, nel De Brevit. vitae, dicendo: "Caesar patruus meus Drusum intima Germaniae recludentem et gentes ferocissimas Romano imperio subiacentem in complexu et osculis suis amisit"
E ciò facevano per due cause, una forse per far sì che l’anima restasse tuttavia anche un poco nel corpo del moribondo, poichè credevano tenergli serrata l’uscita alla loro bocca, onde ne venne che tal funzione chiamossi da’ latini Abitio. Altri lo facevano per approntare il passaggio a quell’anima ne’ loro corpi, credendo senza meno la trasmigrazione; così Cicerone nella V Verrina dice:
"Matresque miserae pernoctabant ostium carceris ab extremo complexu liberorum quae nihil aliud optabant; nisi ut filiorum extremum alitum excipere; liceret".
"Li cavavano in tanto, con mesto rito, dalle dita l’anelli," lo attesta Suetonio nella vita di Tiberio al Cap. 73; Valerio Massimo al lib. 7, e Plinio per tutti al libro 33 con tali parole:
"Gravis somno, aut morientibus
religione quadam annuli detrahuntur."
Spirato appena, o anche spirante, chiudevano gli occhi ai moribondi, rito usato non solo dai romani, ma pure dai greci e dai barbari. Ne scrive Omero, che fa lamentare Agamennone della trascuratezza della moglie Clitennestra nel non serrargli gli occhi mentre moriva. -
IL CORTEO FUNEBRE
La processione era organizzata e diretta dal “Dissignator”, cioè un maestro di cerimonie ai funerali, che organizzava, assoldava e controllava tutti i personaggi che dovevano agire nello spettacolo funebre, perchè di spettacolo si trattava. (Orazio Ep. 1, 7, 5.) Lo spettacolo, era di grande magnificenza e solennità: il corteo era preceduto da suonatori di flauto, mimi e danzatori, ma anche da donne che levavano altissime grida e pianti per esprimere pubblicamente il dolore dei familiari.
Davanti al feretro andava un gruppo di uomini, che rappresentavano gli antenati del defunto. Ogni famiglia conservava in appositi tabernacoli negli atri delle loro case le maschere degli antenati morti.
Polibio, Storie VI, 53 “Chi può esservi, che vedendo riunite le immagini, per così dire vive e animate, di quei grandi uomini onorati per il loro merito, non venga stimolato da un tale spettacolo? Si può vedere qualcosa di più bello?”
Immediatamente dietro le maschere seguiva la bara con il morto, circondata da littori con fasci e vestiti di nero, e seguita dai familiari in lutto. In ultimo, a chiudere il corteo, venivano i portatori di cartelli, che ricordavano ai passanti con grandi scritte i fatti illustri della vita del defunto.
DALLA MORTE ALLA SEPOLTURA
In epoca romana erano presenti sia focacce lievitate (offa) che non lievitate (placenta). Nei riti solenni e più arcaici si usavano le placenta, cioè le focacce non lievitate. Si chiamavano africia le focacce usate per il sacrificio al morto, focacce non lievitate e profumate con rametti di rosmarino che era simbolo dell'immortalità dell'anima.
CERIMONIA FUNEBRE ROMANA |
I Romani tenevano in casa il morto sette giorni. Nell'ottavo si bruciava e si seppelliva. Questo riguardava i funerali indictivi, non i taciti nè gli acerbi. Il trasporto del feretro si faceva di notte e questo in qualunque funerale. I Romani in seguito trasportarono però i morti di giorno, anzi alle prime ore del mattino e fu detto di Silla che fu trasportato portato tardi perchè non si potè che alla nona ora a causa della pioggia. Negli epitaffi più diligenti se ne annotava l'ora. Fiaccole e ceri accompagnavano il morto alla tomba.
Il letto del morto si diceva pheretrum o latura o capulum. Un vecchio vicino alla morte fu detto da Plauto capularis. Esistevano due tipi di feretri: lectica e sandapila. I nobili in lectica e i plebei in sandapila. La sandapila era portata da quattro persone. La lettica da sei o da otto e fu detta hearaphoros ed octophoros.
Chi moriva di morte naturale e non l'avesse deforme conservava la faccia scoperta. Nerone fece ingessarla a Britannico perchè non si scoprisse il veleno con cui l'aveva fatto assassinare ma la pioggia il disciolse in mezzo del foro lasciando scoprire il misfatto. Venivano imbellettate anche le donne e le fanciulle defunte. Se era deforme il volto si copriva con un velo. Si usò pure nei morti la maschera come quando aveano la faccia fracassata in guerra o in qualche incidente.
Accompagnare il funerale si diceva in latino: sequi, prosequi, erequi, comitare, funus, ire, venire, erequias. Tutti accorrevano volentieri ai funerali indictivi di qualunque genere o grado, anche i sacerdoti (come all'esequie di Numa). Negli altri funerali pochi accorrevano fuorchè i parenti nè si lodava chi accompagnasse un privato. Una legge dava facoltà ai moribondi d'invitare gli amici ed i parenti all'esequie con qualche legato, forse intendendo chi era lontano dalla città. Donne e fanciulle accompagnavano il cadavere.
Segni esterni di dolore:
- Lagrime e singhiozzi,
- tosatura o strappatura di capelli,
- graffiatura di guance,
- lacerazione del petto e dei fianchi fino a sangue (il quale costume fu vietato dai decemviri ai Romani, ma le donne non vollero mai stare a tali leggi e coll'unghie si deturpavano il volto)
- Imprecazioni e lamenti contro gli Dei ingiusti.
- Tirar sassi contro i templi,
- rovesciare gli altari etc
- Davano segni di lutto col lasciarsi ondeggiare il crine sugli omeri, uomini e donne ma più le donne.
- Si gettavano la cenere sul capo. (Cosi Achille e Priamo in Omero, Elettra in Euripide, Latino in Virgilio).
- Le femmine Romane lasciavano la chioma sparsa sopra le spalle. Gli uomini la tosavano non interamente.
- I capelli tosati si riponevano sul petto del morto, "ultimo dono" dice Massimo Tirio.
- In Sofocle in Euripide in Plutarco in Omero in tutti gli scrittori romani: presso i Romani i figliuoli col capo coperto e le figliuole col capo scoperto accompagnavano i genitori alla tomba.
Chi moriva di morte naturale e non l'avesse deforme conservava la faccia scoperta. Nerone fece ingessarla a Britannico perchè non si scoprisse il veleno con cui l'aveva fatto assassinare ma la pioggia il disciolse in mezzo del foro lasciando scoprire il misfatto. Venivano imbellettate anche le donne e le fanciulle defunte. Se era deforme il volto si copriva con un velo. Si usò pure nei morti la maschera come quando aveano la faccia fracassata in guerra o in qualche incidente.
Accompagnare il funerale si diceva in latino: sequi, prosequi, erequi, comitare, funus, ire, venire, erequias. Tutti accorrevano volentieri ai funerali indictivi di qualunque genere o grado, anche i sacerdoti (come all'esequie di Numa). Negli altri funerali pochi accorrevano fuorchè i parenti nè si lodava chi accompagnasse un privato. Una legge dava facoltà ai moribondi d'invitare gli amici ed i parenti all'esequie con qualche legato, forse intendendo chi era lontano dalla città. Donne e fanciulle accompagnavano il cadavere.
Segni esterni di dolore:
- Lagrime e singhiozzi,
- tosatura o strappatura di capelli,
- graffiatura di guance,
- lacerazione del petto e dei fianchi fino a sangue (il quale costume fu vietato dai decemviri ai Romani, ma le donne non vollero mai stare a tali leggi e coll'unghie si deturpavano il volto)
- Imprecazioni e lamenti contro gli Dei ingiusti.
- Tirar sassi contro i templi,
- rovesciare gli altari etc
- Davano segni di lutto col lasciarsi ondeggiare il crine sugli omeri, uomini e donne ma più le donne.
- Si gettavano la cenere sul capo. (Cosi Achille e Priamo in Omero, Elettra in Euripide, Latino in Virgilio).
- Le femmine Romane lasciavano la chioma sparsa sopra le spalle. Gli uomini la tosavano non interamente.
- I capelli tosati si riponevano sul petto del morto, "ultimo dono" dice Massimo Tirio.
- In Sofocle in Euripide in Plutarco in Omero in tutti gli scrittori romani: presso i Romani i figliuoli col capo coperto e le figliuole col capo scoperto accompagnavano i genitori alla tomba.
Per quel che riguarda l'età, giovani non aveano pompa funebre. Quanto alle sostanze, non si permetteva che nei funerali dei poveri si onorasse il proprio stato come si abbondava nei ricchi. Quanto alla dignità, non si sopportava che un uomo morto in alto grado della repubblica avesse un ignobile funerale, si legge che Valerio Publicola venne sepolto usando le pubbliche elemosine.
C'era poi l'ultima volontà defunto che doveva essere rispettata nel tipo di esequie che questi desiderava, purchè compatibili con tutto ciò che si è detto.
LA SEPOLTURA DEI BAMBINI
Nel IV secolo Servio ricordava che il costume romano imponeva che gli immaturi fossero sepolti di notte alla luce di fiaccole «ne funere immaturae subolis domus funestaretur» (SERV., Ad Aen., 11.143). Tacito riferisce dell'editto emesso da Nerone per limitare le celebrazioni in occasione della morte di Britannico «subtrahere oculis acerba funera neque laudationibus aut pompa detinere» (TAC. , Ann., 13.17.5).
La morte degli immaturi era un evento nefasto: le loro anime, accomunate a quelle degli innocenti deceduti per cause violente, rimanevano escluse dagli inferi, in attesa del compimento del legittimo, prestabilito e "naturale" momento di morte. Anche per questo, lo svolgimento delle esequie doveva avvenire velocemente e di notte (SEN. , Breu Vit., 20.5).
I fanciulli romani, anche se liberi, non godevano di alcuna dignità giuridica, invisibili a tutti e per i quali, se deceduti prima del compimento del terzo anno di età, non era necessario neppure portare il lutto (PLUT., Num., 12.3). In realtà era effetto dell 'altissimo tasso di decessi infantili, nel tentativo di rendere meno sensibile l'intera società al frequente dolore per il figlio perduto (SEN. , Cons. ad Marciam, 9.5).
Prima del dies lustricus, la cerimonia durante la quale il bambino era riconosciuto attraverso l'assegnazione del nome (a 8 giorni dalla nascita per i maschi e 9 giorni per le femmine), i neonati erano considerati impuri e non appartenenti alla famiglia. Ma anche il decesso successivo alla cerimonia non garantiva al bambino il rito funebre.
Il lutto riguardava esclusivamente la sfera strettamente familiare, un dolore comprensibile ma non condivisibile per un essere invisibile, che tornava a svanire come non fosse mai nato. Anche se nulla vietava la loro tumulazione nelle necropoli delle comunità a cui appartenevano, è attestato dalle fonti e documentato archeologicamente l'uso di deporre nelle case i bambini morti non oltre i 40 giorni.
Numa volle che i fanciulli minori di tre anni non venissero pianti. Poi il divieto di piangere per la morte del figlio venne fissato a dieci mesi.
Malgrado il divieto di seppellire in città, asserito nelle XII tavole, i dati archeologici confermano la presenza di sepolture di infanti all 'interno o presso i muri perimetrali delle abitazioni. Veniva detta la pratica dei suggrundaria, che consisteva nel porre il corpicino in un vaso come quelli che si usavano per le grondaie, inserendolo nel muro perimetrale dell'abitazione.
Quindi il divieto di seppellire in città non si usò nè coi fanciulli che si seppellivano intatti nei suggrundaria nè coi percossi dal fulmine che si seppellivano dove erano morti, purchè non fossero luoghi pubblici come templi, teatri, circhi, strade e così via ma sempre senza alcuna pompa di funerale.
(G.J. Monchablon - Università di Parigi - 1832)
C'era poi l'ultima volontà defunto che doveva essere rispettata nel tipo di esequie che questi desiderava, purchè compatibili con tutto ciò che si è detto.
LA SEPOLTURA DEI BAMBINI
Nel IV secolo Servio ricordava che il costume romano imponeva che gli immaturi fossero sepolti di notte alla luce di fiaccole «ne funere immaturae subolis domus funestaretur» (SERV., Ad Aen., 11.143). Tacito riferisce dell'editto emesso da Nerone per limitare le celebrazioni in occasione della morte di Britannico «subtrahere oculis acerba funera neque laudationibus aut pompa detinere» (TAC. , Ann., 13.17.5).
La morte degli immaturi era un evento nefasto: le loro anime, accomunate a quelle degli innocenti deceduti per cause violente, rimanevano escluse dagli inferi, in attesa del compimento del legittimo, prestabilito e "naturale" momento di morte. Anche per questo, lo svolgimento delle esequie doveva avvenire velocemente e di notte (SEN. , Breu Vit., 20.5).
I fanciulli romani, anche se liberi, non godevano di alcuna dignità giuridica, invisibili a tutti e per i quali, se deceduti prima del compimento del terzo anno di età, non era necessario neppure portare il lutto (PLUT., Num., 12.3). In realtà era effetto dell 'altissimo tasso di decessi infantili, nel tentativo di rendere meno sensibile l'intera società al frequente dolore per il figlio perduto (SEN. , Cons. ad Marciam, 9.5).
Prima del dies lustricus, la cerimonia durante la quale il bambino era riconosciuto attraverso l'assegnazione del nome (a 8 giorni dalla nascita per i maschi e 9 giorni per le femmine), i neonati erano considerati impuri e non appartenenti alla famiglia. Ma anche il decesso successivo alla cerimonia non garantiva al bambino il rito funebre.
Il lutto riguardava esclusivamente la sfera strettamente familiare, un dolore comprensibile ma non condivisibile per un essere invisibile, che tornava a svanire come non fosse mai nato. Anche se nulla vietava la loro tumulazione nelle necropoli delle comunità a cui appartenevano, è attestato dalle fonti e documentato archeologicamente l'uso di deporre nelle case i bambini morti non oltre i 40 giorni.
Numa volle che i fanciulli minori di tre anni non venissero pianti. Poi il divieto di piangere per la morte del figlio venne fissato a dieci mesi.
Malgrado il divieto di seppellire in città, asserito nelle XII tavole, i dati archeologici confermano la presenza di sepolture di infanti all 'interno o presso i muri perimetrali delle abitazioni. Veniva detta la pratica dei suggrundaria, che consisteva nel porre il corpicino in un vaso come quelli che si usavano per le grondaie, inserendolo nel muro perimetrale dell'abitazione.
(G.J. Monchablon - Università di Parigi - 1832)
L'INCINERAZIONE
I romani presero dai Greci l'uso di cremare i cadaveri, mentre i vicini Etruschi, di importazione orientale, usavano l'inumazione. Gli Etruschi seppellivano i cadaveri in bellissimi sarcofagi istoriati, con l'immagine del defunto, o della coppia, perchè lo stesso sarcofago di solito accogliere entrambi. Se la famiglia era ricca, oltre a permettersi il sarcofago si concedeva le immagini dei defunti coricati sul sarcofago, a volte ritrattistiche, a volte con teste sovrapposte su corpi fatti in serie.
I Greci fanno risalire l'uso ad Ercole che venne bruciato attraverso la tunica donata con inganno alla moglie di Ercole, Deianira, dal centauro Nesso. Infatti la tunica, anzichè invitare l'eroe alla fedeltà, lo arse vivo, portato poi in cielo da Giove. Da allora gli eroi, e pure i non eroi, vennero bruciati sui roghi.
Ma si legge pure in Omero della cremazione al tempo della guerra troiana, in Tucidide nella peste di Atene e in Lucrezio, e in Luciano e in Silio Italico. La ragione filosofica del bruciare il corpo deriverebbe dalla purgazione dell'anima un po' corrotta dalla sua unione col corpo. Le leggi delle Dodici Tavole proibirono sia l'inumazione che il rogo dei corpi in città, nonchè la loro sepoltura entro le mura dell'Urbe. Plutarco narra che Numa vietò la cremazione dei cadaveri, ma col re successivo, Tullo Ostilio, la cremazione tornò legale.
Tra il IV sec. a.c. e il I sec. d.c. è prevalente il rito della incinerazione e raro quello dell'inumazione, dalla media età imperiale in poi l'inumazione si afferma maggiormente, fino ad essere proibita dal cristianesimo la cremazione. Ciò non influirà sul rituale e sul costume funerario, quanto sugli spazi delle architetture funerarie.
Prima che il morto fosse dato alle fiamme si faceva intorno ad esso grande schiamazzo detto in latino conclamatio. Ciò è per ritardar l'anima secondo la loro superstizione ad uscire dal corpo e perchè alcuno non fosse bruciato vivo. La cremazione del cadavere avveniva insieme con il letto funebre sul quale era stato trasportato e poteva aver luogo nel sito del seppellimento (bustum sepulcrum) oppure in luoghi approntati per lo svolgimento di questa pratica funeraria, detti ustrina.
Il luogo della cremazione del cadavere e del suo sepolcro si chiamava bustum. Se si separava l'incinerazione dalla sepoltura si chiamava il primo ustrina. Che si separassero questi due luoghi è provato dalle lapidi. Il rogo, a forma di ara, veniva innalzato con legni combustibili a cui si aggiungeva la pece. I legni, secondo la legge delle dodici tavole dovevano essere rozzi ed informi. Si attorniava il rogo di cipressi per temperare con questi il cattivo odore. L'altezza maggiore o minore dei roghi riguardava la ricchezza delle persone, minore per i poveri, maggiore per i ricchi.
Per legge delle dodici tavole si tenevano lontani i roghi dalle case sessanta piedi per timore d'incendio e dagli edifici pubblici almeno due miglia lontani dalla città. Si poneva nel rogo il morto col suo letto e il parente più prossimo dava fuoco ma colla faccia all'indietro. Il rogo di Augusto fu acceso dai centurioni e quello di Pertinace dai consoli. Si pregava che venisse il vento a consumar presto il rogo. Se si dovevano bruciare più cadaveri in una volta come in tempo di guerra o di peste ad ogni decina di cadaveri d'uomo si aggiungeva uno di donna, per maggior calore o pinguedine.
Si faceva un triplice giro degli assistenti al rogo intorno ad esso. Questi giri si facevano da sinistra a destra e in segno di lutto colle armi rivolte e talvolta gettate a terra. Il tutto a suon di tromba. Questo rito di correre attorno al rogo si osservava non solo nei funerali ma anche negli anniversari. Nel rogo si gettavano doni e pure vesti. Le leggi delle dodici tavole vietarono che più di tre non se ne gettassero. Ma l'abuso vinse e oltre quelle del morto si bruciavano anche le vesti delle mogli e degli amici. Oltre le vesti si consegnavano al fuoco dalle mogli i loro ornamenti e le armi del defunto.
Si ardevano nel rogo corpi odorosi e per lusso e per impedire il puzzo come incenso. croco. mirra. nardo. cassia. amomo. ed olio e vivande. Incenerito col rogo il cadavere si aspergevano gli avanzi con vino. Legge di Numa fu Vino rogum ne respergito e ciò o si deve intendere seriamente, con Plinio per iscarsezza del genere, o scherzevolmente con Lipsio e Scaligero notando che del vino non si doveva usare superfluamente coi morti. L'urna veniva poi depositata in un colombario con l’iscrizione del nome e spesso anche un busto in marmo.
Dalla metà del I sec. a.c. si diffuse l'edificio a colombario, che accoglieva le sepolture di una famiglia o di un collegio funerario. Il colombario si sviluppava in gran parte nel sottosuolo con una o più camere ipogee, ma pure sopra il suolo scavato in una collinetta di roccia. Esso presentava lungo le pareti interne una serie più o meno numerosa di nicchie, loci o loculi, disposte in file parallele, fino ad occupare tutto lo spazio disponibile. Talvolta conteneva anche edicole con frontone decorato a stucco. Le nicchie erano in genere semicircolari, ma ve n'erano anche di quadrate o rettangolari.
Dal IV secolo a.c. e fino al I d.c. prevalse l’incinerazione e l'edificazione dei colombari. Si raccoglievano le ceneri bruciate, dette "ossilegium", deponendole in urnette dette ossuaria o cineraria. Quelle dei ricchi erano di materia preziosa, talvolta d'oro e d'argento, di bronzo e di porfido, in marmo e in alabastro. I poveri, od i sepolti ad uso dei poveri, in urne di creta. Le urne avevano forme diverse: di vaso, di altare, di casa o di scrigno. A partire del regno di Adriano il rito funerario cambiò: l’inumazione prese il posto della cremazione e cominciò a fiorire l’arte della scultura dei sarcofagi.
Una volta conservate le ceneri la Prefica gridava "Ilicet!" cioè ire licet (si può andare via). I circostanti per tre volte si aspergevano d'acqua lustrale per purificarsi coll'aspersorio. Si dava quindi l'estremo addio al morto ripetendo tre volte "Salve" e "Vale" colla formula che si trova nelle lapidi.
Finalmente si augurava alle ossa che la terra fosse loro lieve. Era la nota formula in sigle STTL "Sit tibi terra levis". Ai morti si pregavano sempre il riposo e la quiete. Sulla lapide "Ossa tibi bene quiescant", trasformato dalla chiesa cattolica in "Requiescat in pace".
Tibullo descrive lungamente questa cerimonia. I parenti e gli amici facean quest'uffizio e prima di farlo si lavavano le mani. Coi piedi nudi e con veste distinta. Le ceneri raccolte si lavavano in vino, latte ed altri liquori odorosi mescolati con lacrime. Le donne le avvolgevano nel grembiule.
Legge era delle dodici tavole "homini mortuo ossa ne legito". Si vietava che nessuno raccogliendo le ceneri recasse a casa qualche osso. Era lecito farlo solo per un morto in battaglia. E malgrado un decreto del senato che ordinò che i morti in battaglia si seppellissero ove morivano si procurava d'aver l'ossa nella patria di chiunque moriva lontano. Se i parenti non potevano riavere nè le ossa nè le ceneri dei morti, si sforzavano di richiamarle colle grida per tre volte.
L'illustre famiglia patrizia dei Cornelii, ad esempio, non interruppe mai la pratica inumatoria, anche nel periodo di massima diffusione della cremazione, scelta da Silla, il quale per primo infranse la tradizione familiare.
Per legge delle dodici tavole si tenevano lontani i roghi dalle case sessanta piedi per timore d'incendio e dagli edifici pubblici almeno due miglia lontani dalla città. Si poneva nel rogo il morto col suo letto e il parente più prossimo dava fuoco ma colla faccia all'indietro. Il rogo di Augusto fu acceso dai centurioni e quello di Pertinace dai consoli. Si pregava che venisse il vento a consumar presto il rogo. Se si dovevano bruciare più cadaveri in una volta come in tempo di guerra o di peste ad ogni decina di cadaveri d'uomo si aggiungeva uno di donna, per maggior calore o pinguedine.
Si faceva un triplice giro degli assistenti al rogo intorno ad esso. Questi giri si facevano da sinistra a destra e in segno di lutto colle armi rivolte e talvolta gettate a terra. Il tutto a suon di tromba. Questo rito di correre attorno al rogo si osservava non solo nei funerali ma anche negli anniversari. Nel rogo si gettavano doni e pure vesti. Le leggi delle dodici tavole vietarono che più di tre non se ne gettassero. Ma l'abuso vinse e oltre quelle del morto si bruciavano anche le vesti delle mogli e degli amici. Oltre le vesti si consegnavano al fuoco dalle mogli i loro ornamenti e le armi del defunto.
Si ardevano nel rogo corpi odorosi e per lusso e per impedire il puzzo come incenso. croco. mirra. nardo. cassia. amomo. ed olio e vivande. Incenerito col rogo il cadavere si aspergevano gli avanzi con vino. Legge di Numa fu Vino rogum ne respergito e ciò o si deve intendere seriamente, con Plinio per iscarsezza del genere, o scherzevolmente con Lipsio e Scaligero notando che del vino non si doveva usare superfluamente coi morti. L'urna veniva poi depositata in un colombario con l’iscrizione del nome e spesso anche un busto in marmo.
Dalla metà del I sec. a.c. si diffuse l'edificio a colombario, che accoglieva le sepolture di una famiglia o di un collegio funerario. Il colombario si sviluppava in gran parte nel sottosuolo con una o più camere ipogee, ma pure sopra il suolo scavato in una collinetta di roccia. Esso presentava lungo le pareti interne una serie più o meno numerosa di nicchie, loci o loculi, disposte in file parallele, fino ad occupare tutto lo spazio disponibile. Talvolta conteneva anche edicole con frontone decorato a stucco. Le nicchie erano in genere semicircolari, ma ve n'erano anche di quadrate o rettangolari.
All'interno di ognuna potevano albergare da una fino a quattro urne, contenenti le ceneri dei defunti. Spesso le urne erano fissate nella muratura, forando il piano di appoggio della nicchia, in maniera tale da non poter essere spostate. Di esse rimaneva visibile solo il coperchio, operculum, che poteva essere sollevato per versare nell'urna stessa le libagioni, così che il defunto potesse partecipare al banchetto funebre celebrato in suo onore.
Dal IV secolo a.c. e fino al I d.c. prevalse l’incinerazione e l'edificazione dei colombari. Si raccoglievano le ceneri bruciate, dette "ossilegium", deponendole in urnette dette ossuaria o cineraria. Quelle dei ricchi erano di materia preziosa, talvolta d'oro e d'argento, di bronzo e di porfido, in marmo e in alabastro. I poveri, od i sepolti ad uso dei poveri, in urne di creta. Le urne avevano forme diverse: di vaso, di altare, di casa o di scrigno. A partire del regno di Adriano il rito funerario cambiò: l’inumazione prese il posto della cremazione e cominciò a fiorire l’arte della scultura dei sarcofagi.
Una volta conservate le ceneri la Prefica gridava "Ilicet!" cioè ire licet (si può andare via). I circostanti per tre volte si aspergevano d'acqua lustrale per purificarsi coll'aspersorio. Si dava quindi l'estremo addio al morto ripetendo tre volte "Salve" e "Vale" colla formula che si trova nelle lapidi.
Finalmente si augurava alle ossa che la terra fosse loro lieve. Era la nota formula in sigle STTL "Sit tibi terra levis". Ai morti si pregavano sempre il riposo e la quiete. Sulla lapide "Ossa tibi bene quiescant", trasformato dalla chiesa cattolica in "Requiescat in pace".
Tibullo descrive lungamente questa cerimonia. I parenti e gli amici facean quest'uffizio e prima di farlo si lavavano le mani. Coi piedi nudi e con veste distinta. Le ceneri raccolte si lavavano in vino, latte ed altri liquori odorosi mescolati con lacrime. Le donne le avvolgevano nel grembiule.
Legge era delle dodici tavole "homini mortuo ossa ne legito". Si vietava che nessuno raccogliendo le ceneri recasse a casa qualche osso. Era lecito farlo solo per un morto in battaglia. E malgrado un decreto del senato che ordinò che i morti in battaglia si seppellissero ove morivano si procurava d'aver l'ossa nella patria di chiunque moriva lontano. Se i parenti non potevano riavere nè le ossa nè le ceneri dei morti, si sforzavano di richiamarle colle grida per tre volte.
TIPOLOGIE DI TOMBE ROMANE |
L'INUMAZIONE
Cicerone e Plinio affermano che il rito funerario più antico presso i Romani era quello dell'inumazione (Cic., Leg., II, 22, 56; Plin., Nat. hist., VII, 187: Ipsum cremare, apud Romanos non fuit veteris instituti: terra condebantur), comunque a Roma, fin dai tempi più antichi, venivano praticate sia la cremazione che l'inumazione. Infatti nelle XII Tavole è contenuto il divieto di inumare o incenerire adulti in città, testimoniando così entrambi i riti. I romani componevano i morti supini.
C'era poi, ricordata da Lucrezio e menzionata da Democrito, l'imbalsamazione di uso orientale, conservando il cadavere nel miele, ma fu usanza poco diffusa. Un eccezionale rinvenimento fortuito a nord di Roma, in località Grottarossa, ha restituito il corpo mummificato di una bambina di otto anni della metà del II sec. d.c. mediante bende di lino impregnate di sostanze odorose e resinose.