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BATTAGLIA DI CORBIONE

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A Corbione, nel 446 a.c. si svolse alle porte di Roma un'importante battaglia dei Romani contro i loro antichi nemici, Volsci ed Equi.



I VOLSCI

Spesso alleati con gli Equi, vennero descritti da Tito Livio: «ferocior ad rebellandum quam bellandum gens» "I più feroci tanto a ribellarsi quanto nella guerra."
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VII)

L'ESPANSIONE ROMANA (INGRANDIBILE)
Già nel 495 a.c., era stata distrutta dai romani la loro città più estesa e popolosa, Suessa Pometia, si che la capitale del territorio era diventato Anzio, già oppidum latino. I Volsci abitavano un'area un po' collinosa e un po' paludosa nel sud del Latium, oltre alla maggior parte della Valle del Sacco , della Valle del Liri e della Valle di Comino, tutti in provincia dell'attuale Frosinone.
Intanto a Roma il Senato si era schierato contro i consoli, pur essendo entrambi patrizi. Infatti il trionfo decretato ai consoli Valerio e Orazio non era stato concesso dal Senato, ma dall'assemblea del popolo romano.

Finita l'era degli scellerati Decemviri, che aveva visto l'esercito romano combattere svogliatamente o non combattere affatto, Roma si era risollevata con i consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato con una sequenza di gloriose di vittorie. 


LUCIO VALERIO POTITO
Lucio Valerio fu eletto con console nel 449 a.c. insieme al collega Marco Orazio Barbato.
Sotto il loro consolato, dopo che erano stati ripristinati il diritto d'appello e il potere dei tribuni della plebe, furono rafforzati i diritti della plebe con la promulgazione delle Leges Valeriae Horatiae che, tra gli altri diritti, stabilivano l'inviolabilità dei tribuni della plebe e le modalità delle loro elezioni, e riconoscevano valore giuridico ai plebisciti. Appio Claudio e Spurio Oppio Cornicene si suicidarono in carcere (dopo l'assassinio di Virginia), mentre gli altri ex-decemviri vennero condannati all'esilio.

SECESSIO PLEBIS

MARCO ORAZIO BARBATO

Dopo la morte di Verginia, uccisa da suo padre per sottrarla ai desideri sessuali di Appio Claudio Sabino, membro estremamente influente del decemvirato, scoppiarono dei tumulti che portarono l'esercito, accampato fuori Roma, a marciare sulla città e a prendere possesso dell'Aventino. Orazio e Valerio, posti a capo della rivolta popolare, vennero inviati dal senato sul Mons Sacer, dove la plebe si era ritirata, con l'obiettivo di sedare pacificamente la rivolta.
Nel frattempo Equi, Volsci e Sabini presero le armi contro Roma e prima di partire per la guerra, i due consoli fanno incidere nel bronzo le leggi delle XII tavole. Mentre Marco Orazio si marciò contro i Sabini, Valerio andò contro Volsci ed Equi sopraffacendoli, mentre Marco Orazio, dopo una prima fase incerta, riuscì a vincere l'esercito sabino.
I due consoli avevano donato a Roma due vittorie. Ma il Senato, memore delle misure da essi adottate a favore della plebe, si rifiutò di concedere loro il trionfo. Tuttavia, per la prima volta nella storia di Roma, i comizi tributi, ignorando la volontà del Senato, decretarono il trionfo per i due consoli.

«Non enim semper Valerios Horatiosque consules fore, qui libertati plebis suas opes postferrent»
«Non capitano spesso consoli come Valerio e Orazio, che antepongono la libertà delle persone ai propri interessi»
(Livio, Ab urbe condita, Libro III, 64, 3)
Così l'elezione di consoli e tribuni privilegiò uomini coraggiosi, abili e fedeli all'Urbe, si che Volsci ed Equi, per due anni non attaccarono Roma permettendo alla città di ricomporsi socialmente ed economicamente. Nel 446 a.c. però ripresero le ostilità ripresero.



IL DISCORSO DI QUINTIO (ADLOCUTIO)

Narra Tito Livio che furono i Volsci e gli Equi a rompere la pace saccheggiando le campagne e depredando bestiame attorno a Roma, nel territorio dei latini, e poi vedendo che i romani non accorrevano cominciarono a sbeffeggiare gli abitanti indicando loro le campagne devastate, evidentemente approfittando del dissidio tra patrizi e plebei..

Dopo che si furono ritirati impuniti procedendo a passo di marcia e giungendo fino alla porta Esquilina, e con il bottino bene in vista alla testa dello schieramento, si acquartierarono a Corbione (Oppidum Corbione). Fu allora che il console Quinzio convocò l'assemblea del popolo.

Tito Quinzio Capitolino, eletto console per la IV volta nel 471 a.c. con il collega Appio Claudio Sabino Inregillense, prese finalmente in mano la situazione e in un lungo e accorato discorso ricordò ai romani che le discordie venivano pagate da tutti e che il nemico andava fermato sul campo di battaglia.

«Benché io sia conscio di non aver alcuna colpa, o Quiriti, ciononostante è con estrema vergogna ch'io mi presento al cospetto di questa assemblea. Voi sapete, e un giorno verrà tramandato ai posteri, che, durante il quarto consolato di Tito Quinzio, Volsci ed Equi, un tempo appena all'altezza degli Ernici, sono giunti impunemente fin sotto le mura di Roma con le armi in pugno. Benché ormai da tempo la situazione sia tale da non lasciar presagire nulla di buono, ciononostante, se solo avessi saputo che l'anno ci riservava un episodio così funesto, avrei evitato questa ignominia, anche a costo di andare in esilio o di togliermi la vita, ove non mi restassero altri mezzi per sottrarmi a questa carica. 

Se fossero stati uomini degni di questo nome quelli che si sono presentati con le armi in pugno di fronte alle nostre porte, Roma avrebbe potuto esser presa sotto il mio consolato! Avevo avuto onori a sufficienza e vita a sufficienza, anzi fin troppo lunga: avrei dovuto morire durante il mio terzo consolato. Ma a chi hanno riservato il loro disprezzo i nostri più vili nemici? A noi consoli, oppure a voi, o Quiriti? 

Se la colpa è nostra, allora privateci di un'autorità della quale non siamo degni. E se poi questo non basta, aggiungete anche una punizione. Se invece la responsabilità ricade su di voi, l'augurio è che né gli Dei né gli uomini vi facciano pagare i vostri errori, ma siate soltanto voi stessi a pentirvene. I nemici non hanno disprezzato la codardia che è in voi, ma nemmeno riposto eccessiva fiducia nel proprio coraggio. 

A dir la verità è toccato loro molte volte di essere sbaragliati e messi in fuga, privati dell'accampamento e di parte del territorio, nonché di passare sotto il giogo, e conoscono voi e se stessi! No, sono la discordia delle classi e gli eterni contrasti. vero veleno di questa città, tra patrizi e plebei, che hanno risollevato il loro animo, perché noi non moderiamo il nostro potere e voi la vostra libertà, voi siete insofferenti nei confronti dei patrizi e noi nei confronti delle magistrature plebee. 

Ma in nome degli Dei, cosa volete? Morivate dalla voglia di avere dei tribuni della plebe, in nome della concordia sociale ve li abbiamo concessi. Desideravate i decemviri: ne abbiamo autorizzato l'elezione. Vi siete stancati dei decemviri, li abbiamo costretti ad abbandonare la carica. Continuavate a odiarli anche quando erano ormai tornati dei privati cittadini, abbiamo tollerato che uomini molto nobili e onorati venissero condannati a morte e all'esilio. 

Poi vi è di nuovo venuta la voglia di eleggere dei tribuni, li avete eletti, e di nominare consoli dei membri della vostra parte e noi, pur sembrandoci ingiusto nei confronti dell'aristocrazia, siamo arrivati al punto di vedere quella grande magistratura patrizia offerta in dono alla plebe. L'intromissione dei tribuni, l'appello di fronte al popolo, i decreti approvati dalla plebe e imposti al patriziato, i nostri diritti calpestati in nome dell'eguaglianza delle leggi, tutto abbiamo sopportato e sopportiamo. 

In che modo potranno mai avere fine i contrasti? Verrà mai il giorno in cui sarà possibile avere una sola città unita e considerarla la patria comune? Noi, che ne usciamo sconfitti, accettiamo la situazione con animo più sereno di quanto non facciate voi, che pure siete i vincitori. Non vi basta che noi dobbiamo temervi? 

Contro di noi è stato preso l'Aventino, contro di noi è stato occupato il monte Sacro. Abbiamo visto l'Esquilino quasi preso dal nemico e i Volsci apprestarsi a scalare le mura di Roma: nessuno ha avuto il coraggio di andarli a ricacciare indietro. Solo contro di noi voi siete dei veri uomini, solo contro di noi impugnate le armi».

Forza dunque: visto che siete riusciti ad assediare la curia, a trasformare il foro in una tana di insidie e a riempire le patrie prigioni di uomini eminenti, dimostrate la stessa audacia, uscite dalla porta Esquilina. Ma se non siete neppure all'altezza di un gesto del genere, allora andate a vedere dall'alto delle mura i vostri campi messi a ferro e fuoco, le vostre cose portate via e il fumo degli incendi che sale qua e là nel cielo dalle case in fiamme. 

Ma voi potreste obiettare che chi sta peggio è lo Stato, con le campagne che bruciano, la città assediata e la gloria militare lasciata solo ai nemici. E con questo? Credete che i vostri interessi privati non si trovino nella stessa situazione? Presto dalla campagna arriverà a ciascuno di voi la notizia delle perdite subite. Che cosa c'è qui in patria, in grado di risarcirle? Ci penseranno i tribuni a restituirvi quel che avete perduto? Vi prodigheranno a sazietà parole e chiacchiere, accuse contro cittadini in vista, leggi su leggi e concioni. 

Ma da quelle concioni nessuno di voi è mai tornato a casa più ricco di beni e di denaro. O c'è mai stato qualcuno che abbia riportato a moglie e figli altro che risentimento, antipatie e gelosie pubbliche e private dalle quali siete stati protetti non certo per il vostro valore e la vostra integrità, ma per l'aiuto ricevuto da altri? 

Ma, per Ercole, quando eravate al servizio di noi consoli e non dei tribuni, e nell'accampamento invece che nel Foro, quando il vostro urlo spaventava il nemico in battaglia e non i senatori romani in assemblea, dopo aver fatto bottino e dopo aver conquistato terre al nemico, tornavate a casa, ai vostri Penati, carichi di preda, coperti di gloria e di successi conquistati per la patria e per voi stessi! 

ADLOQUTIO
Ora invece permettete che i nemici se ne vadano carichi delle vostre ricchezze. Tenetevele strette le vostre assemblee e continuate pure a vivere nel Foro: ma la necessità di prendere le armi, da cui rifuggite, vi incalza. Vi pesava marciare contro Equi e Volsci? Ora la guerra è alle porte. Se non si riuscirà ad allontanarla, presto si trasferirà all'interno delle mura e salirà fino alla rocca del Campidoglio, perseguitandovi anche dentro le case. 

Due anni or sono il senato bandì una leva militare e poi diede ordine di condurre le truppe sull'Algido: noi ora ce ne stiamo qui oziosi, litigando come donnicciole, contenti della pace del momento e incapaci di prevedere che da questo breve periodo di tregua la guerra risorgerà mille volte più grande. So benissimo che ci sono cose molto più piacevoli a dirsi. Ma a parlare di cose vere anziché di gradite, anche se non mi ci inducesse il mio carattere, mi obbliga la necessità. 

Vorrei davvero piacervi, o Quiriti, ma preferisco di gran lunga vedervi sani e salvi, qualunque sia il sentimento che nutrirete in futuro nei miei confronti. Dalla natura è stato disposto così: chi parla in pubblico per interesse personale è più gradito di chi ha invece al vertice dei suoi pensieri solo l'interesse dell'intera comunità; a meno che per caso non crediate che tutti questi adulatori del popolo e questi demagoghi che oggi non vi permettono né di combattere né di starvene tranquilli vi incitino e vi stimolino nel vostro interesse. 

La vostra agitazione è per loro titolo di merito o ragione di profitto; e siccome quando regna la concordia tra le classi essi sanno di non essere nulla, preferiscono mettersi a capo di tumulti e sedizioni, preferiscono fare azioni malvagie piuttosto che nulla. 

Se esiste una possibilità che alla fine tutto ciò arrivi a disgustarvi e che vogliate tornare alle vostre abitudini di un tempo e a quelle dei vostri antenati, rinunciando alle funeste innovazioni, vi autorizzo a punirmi se nel giro di pochi giorni non sarò riuscito a sbaragliare questi devastatori delle nostre campagne dopo averli sradicati dall'accampamento, e a trasferire da sotto le nostre mura alle loro città questa paura di un conflitto che ora vi paralizza!»

Raramente, in altre occasioni, il discorso di un tribuno popolare ebbe presso la plebe un'accoglienza più entusiastica di quella toccata allora alla durissima requisitoria del console. Perfino i giovani, che in situazioni così critiche avevano di solito nella renitenza alla leva l'arma più affilata contro il patriziato, guardavano invece con impazienza alle armi e alla guerra. E siccome i contadini fuggiti dopo essere stati depredati e feriti mentre si trovavano nella campagna riferivano di atrocità ben più gravi di quelle che erano sotto gli occhi, un'ondata di sdegno travolse l'intera città.

Quando si riunì il senato, tutti si voltarono verso Quinzio, guardandolo come il solo vendicatore della maestà di Roma. I senatori più autorevoli dichiararono che il suo discorso era stato all'altezza dell'autorità consolare, degno cioè dei molti consolati detenuti in passato e dell'intera sua vita, che era stata piena di riconoscimenti a lui spesso tributati e anche più spesso da lui meritati. 

Altri consoli avevano in passato o adulato la plebe tradendo la dignità dei senatori oppure, insistendo in un'accanita difesa dei diritti della loro classe, avevano esasperato la massa cercando a tutti i costi di soggiogarla; nel suo discorso Tito Quinzio aveva tenuto conto della dignità dei senatori, della concordia tra le classi e, soprattutto, della situazione di fatto. 

Implorarono lui e il suo collega di prendere in mano le redini dello Stato e pregarono i tribuni di predisporsi ad agire di conserva con i consoli, nel tentativo di allontanare la guerra dalle mura di Roma, supplicandoli anche di fare in modo che in circostanze così allarmanti la plebe accettasse di obbedire ai senatori. 

Dissero inoltre che la patria comune, vedendo le devastazioni nelle campagne e la città quasi stretta d'assedio, si rivolgeva ai tribuni invocandone l'aiuto. All'unanimità venne quindi decretata e subito messa in pratica la leva militare. Di fronte all'assemblea i consoli proclamarono che non c'era tempo per valutare i motivi per esentare dal servizio, e dunque i più giovani, nessuno escluso, dovevano presentarsi in campo Marzio all'alba del giorno successivo; solo a guerra finita si sarebbe trovato il tempo di valutare la giustificazione di chi non era andato ad arruolarsi; e quanti avessero addotto delle motivazioni poi giudicate non sufficientemente valide avrebbero ricevuto il trattamento riservato ai disertori.

La popolazione rispose unanime.

« E dunque i senatori pregavano lui e il collega di prendere in mano le redini della repubblica e pregavano i tribuni di voler collaborare, in unità di intenti, con i consoli. Il consenso fu unanime e la leva fu indetta e attuata. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libro III) 

Il giorno seguente si presentarono tutti i cittadini e vennero formate le legioni. Ciascuna coorte si scelse autonomamente i propri centurioni e due senatori vennero posti al comando di ognuna di esse. Furono aggiunte alcune coorti di veterani volontari, nel corso di quella stessa giornata, le insegne furono prelevate dai questori nell'Erario, trasferite in Campo Marzio e di lì, alla quarta ora del giorno si misero in movimento "ad decimum lapidem", un'antica postazione romana che distava a dieci miglia da Roma, raggiungendola entro sera. E il giorno dopo i Romani posero i loro accampamenti a Corbione, vicini a quelli degli avversari. Il giorno successivo avvenne la battaglia.




LA BATTAGLIA

Agrippa Furio Fuso, collega di Tito Quinzio Capitolino, riconoscendone le maggiori capacità, gli lasciò il comando dell'esercito, un atto non dovuto di cui Quinzio gli fu molto riconoscente, mettendolo al corrente dei suoi piani e dandogli molta libertà operativa. Quinzio si mise al comando dell'ala destra, Agrippa dell'ala sinistra, mentre ai due legati Spurio Postumio Albo e Publio Sulpicio furono affidati al primo il centro della formazione e al secondo il comando della cavalleria.

L'ala destra si battè con maggior valore della fanteria. La cavalleria di Sulpicio invece riuscì a sfondare le linee nemiche, e poi anzichè ritornare fra i ranghi scelse di attaccare i nemici alle spalle, ma venne attaccato dalla cavalleria degli Equi e dei Volsci. Ma in quell'istante Sulpicio gridò che non c'era più tempo da perdere e che sarebbero stati circondati e tagliati fuori dal resto dei compagni, se con tutte le loro forze non avessero concluso quello scontro tra cavallerie. Non sarebbe stato sufficiente mettere in fuga i nemici permettendo che ne uscissero incolumi: dovevano distruggere uomini e cavalli, in maniera tale che nessuno potesse rituffarsi nello scontro e dare nuovo vigore alla battaglia.

La cavalleria romana, per non essere circondata, dovette impegnarsi moltissimo e uccidere quanti più uomini e cavalli possibile per evitarne il ritorno alla battaglia e il possibile accerchiamento. I cavalieri romani ottennero il successo e Sulpicio mandò dei messaggeri ai consoli per avvisare della vittoria e informarli che avrebbe attaccato i nemici alle spalle.
Gli Equi e i Volsci, che già stavano retrocedendo, si demoralizzarono mentre i Romani si facevano più audaci. L'ala comandata da Quinzio fece arretrare l'ala nemica. Agrippa, che al comando dell'ala sinistra romana si trovava difficoltà, ispirato dai buoni risultati degli altri militari decise di afferrare alcune insegne e a gettarle nel folto dei nemici. Questa era una mossa critica e tragica per i romani, perchè lasciare le insegne ai nemici significava essere disonorati a vita. 
Così per disperazione i legionari si buttarono in avanti mentre Equi e Volsci cominciarono ad arretrare. E il vittorioso Agrippa raggiunse il collega vittorioso di fronte all'accampamento nemico e là ci fu uno scambio di congratulazioni. Messi in fuga in un baleno i pochi rimasti a presidiare il campo, i due consoli senza far uso delle armi irruppero nelle trincee e ricondussero in patria l'esercito carico di un ingente bottino.
Così fu e i due consoli, assieme, travolsero i pochi difensori dell'accampamento e riportarono a Roma non solo il bottino nemico ma anche i beni romani precedentemente saccheggiati.



NESSUN TRIONFO

Si narra che né i consoli richiesero il trionfo né il senato lo decretò; non ci viene tramandato il motivo per il quale un simile riconoscimento fu dai vincitori disdegnato o non sperato. Per quanto si può arguire, dopo così tanto tempo, siccome il trionfo era stato negato dal senato ai consoli Valerio e Orazio i quali, oltre ad aver sconfitto Volsci ed Equi, si erano coperti di gloria anche nella guerra contro i Sabini, Agrippa e Quinzio si vergognarono di chiederlo per un'impresa ch'era metà di quella; se lo avessero ottenuto, poteva sembrare che si fosse tenuto conto più degli uomini che dei meriti.


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