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SETTEMBRE

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I Romani avevano 45 giorni di feriae publicae e 22 giorni di festività singole obbligatorie. Inoltre avevano 12 giorni di ludi singoli e 103 di ludi raggruppati su più giorni. Insomma circa la metà dell'anno era non lavorativa. Il calendario delle festività era proclamato al popolo dai sacerdoti all'inizio di ogni mese. Se due feste cadevano nello stesso giorno si annunciava quale festività era operante, ma talvolta se ne festeggiava più di una insieme.

Settembre per i romani aveva due valori importanti: nelle campagne si terminava la raccolta l'uva, che tuttavia per la maggior parte avveniva in agosto. Uva che nel suolo italico era prodotta in grande abbondanza, non a caso era chiamata Enotria, "terra del vino". Montanari (Identità culturale e conflitti religiosi nella Roma repubblicana, Roma, 1988), sulla base del mito ovidiano relativo alla lotta fra Enea e Mezenzio (Fast. 4, 879-896), nota che a Roma non esiste il rapporto tra vino, o comunque sostanza inebriante e virtus guerriera, come avviene in tutte le altre culture indoeuropee. Lo scontro vede vincitore Enea, che vota a Giove i musta della vendemmia ventura, sottraendoli al consumo umano in funzione guerriera, cui sarebbero invece stati destinati per scelta di Mezenzio.

Ciò vuol dire che egli rinuncia a un uso della bevanda favorente il furor bellico, e che consegue la vittoria grazie a questa rinuncia. In effetti i romani basavano la loro capacità guerresca più sull'addestramento  e l'organizzazione che sul furor, semmai espresso in forma più razionale e pacata coll'amor di patria e la ricerca della gloria per la propria gens.

L'ebbrezza del vino viene qui sostituita, per il piacere dei romani, dal festeggiamento dei Ludi Magni, che infiammavano i cuori e che duravano praticamente tutto il mese. Per assistervi veniva gente non solo da Roma, non solo dal suolo italico, ma pure dai possedimenti extraitalici dell'impero, tanto erano fastose e uniche al mondo.

E in effetti si narra che Cerere le messi e Libero la bevanda
prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali;
eppure la vita avrebbe potuto durare senza queste cose,
come è fama che alcune genti vivano tuttora.
Ma vivere bene non si poteva senza mente pura;
quindi a maggior ragione ci appare un dio questi
per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni,
le dolci consolazioni che della vita placano gli animi
.”
(Lucrezio)

- 4 al 19 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Questa festività ebbe inizio nel 366 a.c. e aveva cadenza annuale; tipicamente si tenevano dal 12 al 14 settembre, ma poi furono estesi dal 4 al 19 settembre. Si svolgevano nel Circus Maximus, l'edificio più grandioso per spettacoli pubblici mai costruito, ornato di statue, di metalli nobili, di fregi rari, con 150.000 posti a sedere, che dopo la ristrutturazione di Traiano divennero 350.000. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 5 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 6 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 7 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 8 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 9 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 10 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 11 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 12 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 13 settembre - Cereris - 
Festa in onore di Cerere. Si festeggiava il tempio ai piedi dell'Aventino, votato nel 496 a.c., ad opera del dittatore Aulo Postumio, in seguito al responso dei Libri sibillini, forse per spingere la classe plebea a combattere, alla vigilia dell'importante Battaglia del Lago Regillo. Il tempio infatti assunse fin dalla sua dedica, avvenuta nel 494 ad opera di Spurio Cassio Vecellino, connotazioni plebee. Vi si adoravano la triade Cerere, Libero e Libera (corrispondenti a Demetra, Dioniso e Kore). Secondo Cicerone le sacerdotesse dedite al culto provenivano solo ed esclusivamente dal sud.

- 13 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 13 settembre  - Epulum Iovis -
Festa celebrata in onore di Iuppiter, Giove. Si ricordava la fondazione del Templum Iovis in Capitolio. I triumviri epulones organizzavano l' epulum, ossia il sacro banchetto. Il collegio degli epulones venne istituito nel 196 a.c. e fu ampliato successivamente.

- 13 settembre - Templum Iovis Optimi Maximi in Capitolio -
Detta pure da Livio e da Festo :Clavus annalis.
Festa celebrata in onore di Iuppiter Optimus Maximus, ossia Giove Ottimo Massimo, di Iuno, ossia Giunone, e di Minerva. Si ricordava la dedicatio del tempio sul Capitolium effettuata da Horatius Pulvillus nel primo anno della repubblica 509-510 a.c. Il tempio era stato deciso da Tarquinius Priscus e portato quasi a compimento da Tarquinius Superbus. Il tempio aveva tre celle. Al centro Iuppiter, sulla destra Minerva e a sinistra Iuno. Il cerimoniale prevede, tra l'altro, che il console in persona pianti un chiodo nella parete del tempio.
Il particolare del chiodo, secondo Livio, sarebbe di origine etrusca e risalirebbe al tempo in cui, non essendo così diffusa la scrittura, ci si serviva di chiodi per segnare il passare degli anni. Così anche Festo, che aggiunge che la legge che istituisce questo rito a Roma sarebbe scritta nel tempio di Minerva, inventrice dei numeri.

- 13 settembre -  Equorum probatio 
una sorta di carosello equestre che durava due giorni. Praticamente una cerimonia da parata a cui partecipavano generali famosi o eroi distinti nelle battaglia che avevano guadagnato importanti onoreficenze.


- 14 settembre -  Equorum probatio
una sorta di carosello equestre, come
il 13.

- 14 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 15 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 16 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 17 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 18 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

- 19 settembre - Ludi Romani vel Ludi Magni -
I Ludi Romani, anticamente denominati Ludi Magni, si svolgevano, in età augustea, in onore di Iuppiter, Giove. Si svolgevano nel Circus Maximus. Erano stati istituiti da Tarquinius Priscus. Dal 366 a.c. divennero annuali. Dal 347 a.c. furono organizzati dagli aediles curules, magistrati patrizi.

20 settembre - Natalis Romuli -  
Festa del giorno della nascita di Romolo. Il suo tempio origine venne costruito come vestibolo circolare di accesso al Tempio della Pace nel 75, considerando Romolo colui che portò gloria e pace a Roma, per questo venne divinizzato sin dai tempi della monarchia.

- 23 settembre - Templum Apollinis in Campo Martio -
Festa celebrata in onore di Apollo. Si ricordava la dedicatio del tempio di Apollo in Campus Martius avvenuta nel 431 a.c. da parte del console Cneus Iulius. La costruzione del tempio era stata decisa nel 433 a.c. a seguito di una epidemia che aveva colpito la città. Era anche chiamato Apollo Medicus. Era il più antico tempio di Apollo in Roma.

- 26 settembre - Templum Veneris Genetricis -
Festa celebrata in onore di Venus Genetrix, Venere Madre. Si ricordava la dedicatio del tempio. Il tempio era stato deciso da Iulius Caesar in occasione della battaglia di Pharsalus. Venne costruito nel Forum Iulium ed inaugurato nel 46 a.c. L'eponimo Genetrix si riferisce alla divina origine della famiglia Iulia.

27 settembre - Fortuna Redux 
Festa in onore della Dea Fortuna che fa tornare i soldati in patria sani e salvi.


LETTI E DIVANI

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Qualcuno può credere che i divani siano un'invenzione abbastanza recente, e che i romani, conoscendo letti e triclinii, non conoscessero certamente poltrone e divani.

Nulla di più errato. Nel soggiorno della domus la famiglia romana ospitava divani, poltrone e tavolini vari, e pure in una certa quantità e qualità.

Quando i padroni di casa, e pure gli stessi gli ospiti, volessero accomodarsi per fare una conversazione, magari accompagnata da un buon bicchiere di vino italico, c'erano divani e poltrone ad accoglierli.

I romani usavano anche dei divanetti senza spalliera ma con braccioli, in genere erano in legno ma talvolta anche in pietra e servivano a far accomodare un paio di persone per una conversazione informale.


LETTO GENIALE -  LUCERNA ROMANA


TRICLINII  E  DIVANI

Letti e divani nelle opulente domus venivano riccamente intagliati, e sembravano troni allungati.

Poggiavano su gambe di legno tornite, pitturate a vivaci colori o intarsiate con legni contrastanti, o con avori, o con pietre dure, o piccoli inserti in ottone dorato, rifinite in metallo sulle estremità degli zampi e sugli angoli.. 

In genere i divani, come i letti, erano costituiti da 4 zampi che sostenevano una cornice di legno con stanghe anch'esse di legno. come si osserva qui sopra, su cui poggiavano il materasso.

Quest'ultimo (torus), era riempito di fieno, paglia, foglie secche o alghe per i più poveri, in seguito di lana, e per i più ricchi di piume di oche o di altri uccelli.  In origine era coperto con la pelle capra, pecora o altro, mentre più tardi con lenzuola o coperte, chiamate toralia. 

Oppure al posto delle stanghe c'erano delle strisce di cuoio pesante, anche cucito per raddoppiarlo e renderlo più resistente. Un po' come le cinghie che si mettono spesso sotto le poltrone in tappezzeria.
 Ovviamente i materassi erano più bassi e più duri di quelli di oggi, per divanetti e divani, o gli stessi letti non erano comodi come quelli odierni, però le abitudini contano molto.

Se si è abituati a sedere o a dormire sul  duro i muscoli si adeguano e si rinforzano, più sul morbido avviene il contrario. Però i romani usavano molto le pellicce degli animali, ne poggiavano dappertutto, sui materassi, sui divani, sulle poltrone, sulle sedie e sulle panchine di marmo, ma anche per terra.

Nella figura (2) c'è la foto di un divano originale di Pompei, annerito ma non bruciato dalla lava, che ha reso al contrario il legno durissimo. Pompei era una piccola Roma, uguale nel lusso e nell'arte, in quanto la migliore nobiltà romana si riversava sulle coste campane dove avevano fatto edificare "le ville degli ozii", splendide domus splendidamente arredate e affrescate.

DIVANO IN LEGNO DORATO (3)
I divani erano usatissimi, spesso tipo lettino, senza spalliere nè braccioli, interamente in legno magari dorato o comunque dipinto, usato anche su terrazzi e porticati. Vi si ponevano sopra dei materassini che venivano assicurati alla base di legno con cinghie colorate, come si vede appunto nell'immagine qua sopra, la n° (3).

Naturalmente i lettini o divanetti che dir si voglia, venivano approntati all'aperto nella buona stagione che nel sud Italia era ed è molto lunga, salvo recuperale all'interno in caso di pioggia. Questi materassini venivano rivestiti di belle stoffe, di cotone o di seta, se non di damaschi variamente colorati.

Ed ecco infatti, nella figura (4) la ricostruzione di un divanetto romano del I sec. d.c., quello stesso da cui i francesi deriveranno, in linea con lo stile impero copiato da Pompei, la famosa chaise-longue.

Come si vede il divanetto ha due spalliere-braccioli, che potevano appunto fungere in un senso o nell'altro, con un basso materassino avvolto in un drappo di seta gialla operata.

RICOSTRUZIONE DIVANETTO I SEC. A.C. (4)
Indubbiamente il divanetto romano (4)  ha ispirato questo ritratto di Madame Recamier come si vede qui sotto nella immagine n° (5). Trattasi dello stile impero voluto da Napoleone dopo la scoperta di Pompei e dello stile romano.

Le spalliere sono più alte e gli zampi un po' più bassi ma sempre a cipollotti. Anche qui c'è un materassino e dei cuscini.

MADAME RECAMIER (5)
Ma non dimentichiamo neppure il famoso ritratto del Canova di Paolina Borghese, perfetta ricostruzione di un letto romano, diremmo di un lettino triclinare, dove la bella principessa, in posa di Venere Vincitrice, poggia le sue candide membra.

La statua è di marmo ma il letto è in legno con inserti in bronzo dorato. Il modello è decisamente pompeiano cioè romano, anche se gli zampi sono stati raddrizzati per lo stile impero, ma talvolta anche i letti romani avevano zampi diritti con piedi di animali.

PAOLINA BORGHESE (6)
Esistevano anche i divani veri e propri, cioè con una spalliera e due braccioli, il tutto regolarmene imbottito di lana, e non mancava la bella abitudine di corredare il tutto con pellicce e stoffe pregiate.

I romani amavano la compagnia, ovvero in epoca imperiale le menti si aprirono e le donne smisero di stare segregate tra figli e mercato. Così scoprirono il salotto, cioè l'abitudine di ospitare le amiche per fare conversazione e pettegolezzi, ma anche per ascoltare poesia e musica.

DIVANO (7)
L'ospitalità non era molto diversa da quella di oggi, si offriva dell'ottimo vino caldo e speziato d'inverno o fresco d'estate, ma pure gelati (c'erano i portatori di neve e di ghiaccio presi dai monti), e le spremute di frutta, le limonate, la frutta secca, quella esotica e i dolci fatti in casa.

La figura (7) illustra un modello di divano romano molto simile a un letto, sorretto a terra da due stanghe di legno laterali, ma con una spalliera anatomica e due braccioli, anch'essi ricurvi.

Diciamo che il salotto nacque dalla liberazione della donna, liberazione non completa, perchè le cariche politiche e di magistratura le erano interdette, ma certamente  molto superiore di quella di quella greca e di quella del medioevo. Basti pensare che le donne romane potevano rifiutare l'autorità maritale e potevano divorziare.

Il salotto è e fu appannaggio femminile, anche gli uomini amavano parlare ma lo facevano soprattutto nel Foro, dove incontravano amici e clienti, oppure alle Terme: gli uomini amavano parlare con gli uomini.

DIVANO (8)
Gli unici salotti dove gli uomini sedevano erano quelli letterari, dove potevano sedere anche le donne colte, e non ce n'erano poche, perchè le famiglie aristocratiche facevano studiare in privato anche le figlie.

Il divano poteva anche avere una sola spalliera laterale, cioè un unico bracciolo, esso serviva infatti per sdraiarsi poggiando un gomito, e in questo caso serviva come letto triclinare, cioè quello usato per mangiare, oppure per fare  un sonnellino, magari all'aperto in giardino.

Nella figura (8) il letto è in legno scolpito e dipinto di bianco, con un materassino ricoperto di prezioso damasco..

LETTO DI POMPEI (9)

LETTI 

I letti delle domus o delle ville erano spesso inseriti in alcove coperte a volta; nelle stanze a due posti erano accostati ad angolo retto; se c’era spazio sufficiente veniva poi inserito un armadio su un basamento di muratura. Ai piedi del letto c'era di solito un tappeto (toral) su cui poggiare i piedi nudi al risveglio perché i romani non usavano calze nè calzini. 

I letti delle case dei ricchi erano molto preziosi, e con lenzuola e coperte molto costose, generalmente di color viola, grazie a un pigmento estratto da una conchiglia, impreziosite da ricami in oro. Non risulta che i letti fossero protetti da tende, invece una sorta di baldacchino (aulaea) veniva utilizzato nel letto triclinare per proteggere i commensali dalla polvere, ma solo per i letti all'aperto, cioè in giardino e solo nelle giornate di vento.

Diversi letti o parti di essi sono stati rinvenuti a Ercolano e Pompei, trasformati in carbone un po' pietrificato, come quello della figura n° (9) in alto, rinvenuto in una villa pompeiana.

"Romani multas species lectorum habuerunt": (i romani avevano molte specie di letti)
  • lectus genialis (letto matrimoniale)
  • lectus cubicularis, dormiendi et quiescendi; (per dormire e riposare)
  • lectus discubitorius aut e Lingua Graeca triclinium, edendi; (per mangiare)
  • lectus lucubratorius, studendi; (per studiare)
  • lectus funebris, aut emortualis. (mortuario)
LECTUS GENIALIS

Lectus Genialis 

E' il letto nuziale, al quale la donna è condotta nel pomeriggio del matrimonio. Il marito la prende in braccio e la conduce nella casa senza farle varcare la soglia a piedi. Si dice che si faceva per evitare di toccare la soglia col piede sinistro, ma bastava evitarlo.

Del resto anche le donne quando varcavano la soglia di un banchetto stavano attente a usare il piede destro, perchè altrimenti portava sfortuna. Fa pensare invece a uno stato di bambina protetta ma pure comandata dal marito.

E ' un grande letto, riccamente decorato ed è piuttosto rialzato da terra come evidenzia l'ampio sgabello, a volte addirittura delle scale, ai piedi del letto.

E' un letto a due piazze, ma non usato spesso dai romani che preferivano i letti separati, magari disposti ad L nella stessa stanza, oppure due stanze separate, secondo i gusti.



Lectus cubicularis

Di fianco un letto di Ercolano e uno di Pompei (10). Erano molto simili a un divano dell'800, con spalliere diritte e quindi a puro uso ornamentale, ma pure per contenere materasso e cuscini.

Notare lo stile capitonnè, ovvero quello che in Francia prese questo nome, cioè una spalliera imbottita e trapunta, in questo caso in cuoio, ma non mancavano anche in stoffa.

Da notare che il letto cubicolare si chiamava così perchè si trovava nel cubicolo, la stanza da letto, così chiamata perchè era un piccolo cubo.

Infatti in genere non aveva finestre, niente luce e niente aria, se non quella delle stanze adiacenti.

A volte invece della porta aveva delle tende.

Poteva contenere massimo due letti posti a L, ma in genere ne conteneva uno, al massimo poteva contenere un piccolo armadio.

I letti cubiculari spesso avevano paratie, cioè pareti verticali, che in genere erano in legno, a volte dipinto, o intarsiato, o misto a legni di struttura e colore diversi, oppure erano in vimini intrecciati. Anche i vimini però avevano diversi tipi di intreccio, spesso nelle stesse paratie del letto, per crearvi un certo disegno. Era quasi sempre dipinto in genere in tinta unita, ma talvolta a due colori.

C'era poi il lettino vero e proprio, senza spalliera nè laterali, come questo dove la madre bacia il bimbo cui evidentemente ha fatto il bagnetto nelle piccole terme a fianco, terme private con lettino adiacente ove riposare o appoggiarsi.

Come si vede nella figura (11), il lettino ha una base di legno non troppo spessa con sopra un basso materassino fermato da cinghie di cuoio. I letti romani erano in genere piuttosto leggeri negli spessori e con materassi bassini.

(11)
Erano inoltre più corti e più stretti dei nostri, ma bisogna tener conto che i romani erano più bassi di noi italiani oggi. Da notare invece il tessuto prezioso che riveste materasso e cuscini.

I letti singoli fungevano pertanto sia per dormire che per sedersi o ospitare amici.

I materassini venivano rivestiti con stoffe che si intonavano alle tende e pure le cinghie di cuoio venivano tinte in vari colori per gli abbinamenti vari.

(12)
E' molto simile questo lettino a uso divano della seguente immagine, la n° (12), anch'esso coperto da un materassino sostenuto da cinghie di cuoio.

Nel quadro una pelliccia è gettata sul lettino e una analoga in terra. I romani amavano molto le pelli di animali come arredamento della casa. Avevano anche tappeti veri e propri intrecciati al telaio e non solo italici, ma orientali, quindi molto raffinati, di lana e di seta.

LECTUS TRICLINARES

Lectus Triclinares:

Era un letto usato per mangiare. Era di svariate fogge, talvolta tipo letto ma doppio o triplo per accogliere più persone, spesso però singolo ma più lungo della norma si che vi si potessero accomodare, semisdraiati, un paio di persone.

Altri invece erano letti normali con un poggia-gomito, di solito un po' più corti della norma. Anche questi potevano avere intarsi e dipinti, corredati con nappi, nastri e frange dorate. Si avvalevano di legno e bronzi, con inserti di argento, rame, madreperla, osso, avorio e pietre. Spesso avevano parti dorate.

Sovente erano ornati da statuine di animali fantastici, o putti, o teste di animali realizzati in fusione e ritoccati col cesello. Una cosa da far restare di stucco gli ospiti, per il costo delle realizzazioni quando si trattava di nuovi arricchiti, ma soprattutto per il buon gusto che in genere i romani avevano.

I letti potevano stare nel triclinio o nel giardino sotto la tettoia quando l'aria in casa era afosa. Nel giardino si potevano così avere triclinii fissi in muratura o lettini mobili da togliere quando mutava la stagione. Ma talvolta anche i letti del triclinio erano fissi, cioè si edificava all'interno della casa un ticlinio a tre lati, ma talvolta, anche se raro, a quattro lati, col passaggio per i servi e il cibo.

Il grande letto triclinare era sempre inclinato di modo che i commensali potessero avere la testa all'interno e parlare e guardarsi tra loro. Al centro del quadrato o del ferro di cavallo si ponevano i tavolinetti con i vari piatti.



LECTUS LUCUBRATORIS

Lectus Lucubratoris

Era un lettino usato per sedersi mentre si studiava. Quello della figura è una ricostruzione in legno borchiato e pelle. La forma era più o meno quella della figura qui sopra, potevano variare gli zampi o l'altezza dei braccioli, magari più stretti o più alti.

Di solito accoglievano più di una persona, nel senso che ci si potesse accomodare anche in due, ma di solito l'ampio spazio era destinato all'appoggio della tavoletta, del papiro, o per poggiare qualsiasi altro ingombro.

Ma si supponeva pure che lo studente, ragazzo o adulto che fosse. potesse aver voglia di stendere il corpo, e con questo lettino poteva farlo almeno in parte.

LETTO FUNERARIO (13)

Lectus funerarius

I romani usarono a fasi alterne, ma pure contemporanee secondo le zone e le usanze religiose, sia la inumazione che la incinerazione.

Questo capolavoro di letto mortuario è realizzato in osso scolpito, ma è un letto ad uso esclusivamente funerario, data la leggerezza del lettino e pure la sua ridottissima larghezza, che potrebbe sostenere giusto un defunto.

Come si vede nella figura (13) è un letto a due spalliere, con ricchissime decorazioni in bronzo. Vi figurano teste di muli e busti di satiri. Le superfici sono ageminate in argento con decorazioni floreali e scene di vendemmia. Un vero capolavoro di fusione e incisione.

Un altro magnifico letto funerario (14) è stato rinvenuto in una tomba di Amiterno in Abruzzo. Naturalmente la parte in legno è ricostruita con un lavoro di notevole precisione.

Ovviamente i letti funerari erano simili a quelli dei vivi, a parte talvolta i materiali, spesso più leggeri e stretti non dovendo sostenete i movimenti di un vivo.


Questo capolavoro è un letto ad uso esclusivamente funerario, data sua ridottissima larghezza, che potrebbe sostenere giusto un defunto.

Tuttavia è preciso a quello che si usava nella domus, con legno, e rivestimento in lamine di bronzo.

Queste lamine, che inquadravano tutto il telaio del letto, sono decorate con la tecnica ad agemina, una minuta connessione a intarsio di laminette di argento e di rame sulla superficie di bronzo.

Lo scopo era di alternare impercettibilmente i colori, giocando sul dorato del bronzo, sul  rossiccio del rame e sul chiaro dell'argento, producendo raffinate sfumature di colore alla luce del sole o delle torce. Come si vede il modello, pur ricopiando un letto di lusso ha ampiezza molto ridotta, che serviva cioè solo per accogliere la salma supina.

Come si usava di solito, gli zampi erano uniti i due davano tra loro e i due dietro tra loro mediante tavole di legno ad altezza terra. Talvolta il legno sottostava agli zampi e talvolta invece, come qui, era inserito in due basi di bronzo a cui erano avvitate.

Le coppe di bronzo superiori venivano poi avvitate alla tavola di appoggio del corpo e sopra vi si avvitavano con coppe analoghe il poggiatesta, o poggiagomito, secondo l'uso.



LETTO FUNERARIO (15)


Nel letto funerario n° (15),. di tipo dionisiaco, vi è inciso nell'osso un corteo di Menadi in danza frenetica culminante nel sacrificio di un animale selvatico, e la figura di Eros con la cetra, accompagnata dal suono del timpano mosso da una delle donne.

LUCTUS FUNERARIUS IN OSSO - II SEC. A.C. (16)
L'incisione è un vero capolavoro di maestria ma pure di eleganza, sottolineata dalle esili estremità degli zampi e della squisita lavorazione  dei poggiatesta con le figurette precise e proporzionate in ogni dettaglio. Sembra che l'osso del lettino fosse dipinto in diversi colori.

Qui a lato, (fig. 16), vi è un ulteriore letto funerario, realizzato anch'esso interamente in osso.

Probabilmente l'osso, oltre a prestarsi a una facile scalfitura che permetteva capolavori di incisioni e sculture, aveva una chiara allusione allo scheletro e quindi alla morte.

Qui sia gli zampi che i poggiatesta sono finemente scolpiti, e il materassino era sorretto da strette cinghie di cuoio chiaro dipinto, come tutto il lettino, in tinte chiare.

TRICLINII IN LATERIZIO DELLA CASA DELL'EFEBO A POMPEI

Triclinii in laterizio

Erano i triclini estivi, all'aperto e ricoperti da una tettoia per godersi il fresco. C'era così una sala triclinare invernale ed una estiva.Di solito erano eseguiti in muri a sacco, poi rivestiti in mattoni e intonacati.

Talvolta erano rivestiti in marmo o travertino, sovente invece avevano i muretti laterali dipinti. Sopra vi si poggiavano dei materassini dove si stendevano gli ospiti, in genere ri8vestiti da lenzuola che potevano essere cambiate durante la cena stessa, perchè magari imbrattate di cibo.


Sovente accanto ai triclinares estivi scorreva una fontanella o addirittura un ruscello. La tettoia era tenuta da colonne di marmo intonacato nella parte inferiore. Fra i triclini si ergeva uno o più tavolinetti, in genere uno di marmo e altri di legno.


Lectica romana

LECTICA ROMANA
Secondo Cicerone e Giovenale risalirebbe ai re di Bitinia, quindi di origine orientale. Fu usata dai Greci e dai Romani, detta lectica (da lectus), era una specie di barella coperta di materassi e cuscini, portata, per mezzo di cinghie, dagli schiavi (come appare da una terracotta del Museo di Napoli).

In seguito fu coperta da un baldacchino, velata di cortine e chiusa da vetri, i nobili, le dame e i senatori si facevano portare alle terme o al circo, quando l'uso, limitato durante la repubblica alle donne e ai malati, si estese, sotto l'impero, a tutti i patrizi.
Servì anche come mezzo di trasporto per i viaggi. Un esemplare, ricchissimo nei fregi bronzei, è custodito nel Palazzo dei Conservatori a Roma.


Culla

CULLA ROMANA
Ed ecco, con un tocco di grande tenerezza, anche una culla a dondolo, quella carbonizzata ma integra della casa di Granianus ad Ercolano, eccezionale reperto sepolto dall'eruzione del Vesuvio.

Come si può vedere il piano d'appoggio del materassino era quello con le stanghe di legno, mentre superiormente, invece delle aste verticali come si usano oggi, vi erano poste delle aste orizzontali, esattamente due ordini, che impedivano al bimbo, qualora si alzasse di gettarsi a terra.

SEDIE E SGABELLI

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MOBILIO IN GENERALE

Come già esponemmo, il mobilio romano non era molto nella domus, già arricchita di per sè da affreschi che non andavano coperti dai mobili, o da emblemata (piccoli e raffinati mosaici), o da quadri, però era di differentissime fogge.

(1)
Nel disegno in alto, il n (1), scorgiamo alla sommità un portatenda con relativa tenda ed oscillum piacevolmente tintinnanti, a sinistra una lucerna issata su un alto treppiedi, una sedia imbottita. una scatola tonda porta-cosmetici, al centro una specie di libreria con mobiletti vari, un tavolino stretto e alto con sopra un vaso, uno sgabello, un poggiapiedi e un candelabro alto.

RICOSTRUZIONE DI UN SOGGIORNO ROMANO (British Museum) (2)


RICOSTRUZIONI NEL BRITISH MUSEUM LONDON

Qui sopra. figura (2), c'è la ricostruzione di un soggiorno romano, e, molti di voi lo ignoravano, i romani avevano salotti e sedie in vimini, anzi sedie e poltroncine in vimini, che erano dette Vimina.
Questo salotto potrebbe anche esistere al giorno d'oggi, perchè questi modelli sono stati copiati nei vari secoli, ma soprattutto la sedia di vimini potrebbe essere attualissima.


LE SEDIE

TRICLINIO ESTIVO (3)
Si intendevano e si intendono per vimini (vimina) i rami giovani, decorticati, flessibili di alcune specie di salici, che si usavano. fin dai tempi degli antichi greci, e pure presso i romani, con cui il vietor o viminator costruiva ceste, recipienti, sedie e letti.

I romani ne facevano largo uso, giocando naturalmente coi vari intrecci a formare disegni diversi, ma c'è di più, si sono trovate sedie di vimini dipinte.

In questa sala banchetto (3), che è un triclinio estivo, oltre ai letti triclinari c'erano un paio di poltroncine in vimini, per avere due posti in più per ospiti imprevisti.

RICOSTRUZIONE SALOTTO GALLO-ROMANO (4)
Però i vimini servivano per molte cose, ceste, scudi fatti con un intreccio di vimini rivestiti di cuoio, nonchè alcune leggere pareti da inserire nei balconi.
Ma come si può vedere nel salotto gallo-romano, (4), non solo c'è la sedia di vimini, il divano e i tavolini, ma c'è pure una consolle. 

(5)
Ed ora in questo quadro, (5), miriamo un'altra curiosità di arredamento, i due giovani a colloquio siedono uno su una sedia ed uno su uno sgabello.

I panchetti o sgabelli erano usatissimi dai romani che ne avevano diversi in ogni casa, sia fissi che pieghevoli, ma degli sgabelli parleremo poi.

Ma c'è da osservare la sedia, con schienale a fascia alta e gli zampi semplici e all'infuori. Sembra una sedia attuale, o quelle che usavano nel '900 nelle case di campagna. E' straordinario scoprire come i romani abbiano dettato 2000 anni di arredamento. Ogni secolo ne ha copiato qualcosa.

Come si nota dalle immagini, anche e soprattutto in quelle precedenti, i romani amavano le comodità oltre che la bellezza. Le sedie avevano tutte il loro morbido cuscino, i divani erano imbottiti e in terra si stendevano i folti tappeti importati dall'oriente.
Questa usanza decadrà nel Medioevo, dove appariranno le dure panche e le sedie dette "Misericordia" che costringevano a stare assolutamente diritti senza alcun rispetto per quell'aspetto anatomico a cui i romani tenevano tanto. Anche una sedia poteva contribuire a quell'espiazione dei peccati tanto cara ai cristiani.

SEDIA TIPO POLTRONA (6)
Le sedie romane vanno da quelle rigide e semplici alle vere e proprie poltrone, spesso, come quella della figura (6), talmente rivestite di pellicce e di stoffe sontuose da non lasciar vedere la poltrona.

La distinzione tra sedie e poltrone è data dai braccioli. Ricordiamo però che la poltrona romana poteva avere anche un solo bracciolo, e poteva essere anche lunga.

Da quella i francesi presero la chaise longue che, come la romana, era un lettino con un solo bracciolo che faceva da spalliera.
Le sedie, come i tavoli romani, bassi e curvilinei, avevano per lo più le gambe di bronzo a forma di zampe di animale.

Esse venivano spesso dipinte di bianco, ma le più pregiate anche in colori diversi, con originali decorazioni geometriche.

Le tecniche più frequentemente impiegate erano la doratura, la verniciatura, e l'intaglio. Il materiale era ovviamente il legno ma non mancavano le sedie di vimini, come di vimini erano d'altronde anche alcuni letti.
Le sedie in vimini, definibili poltrone visto che erano fornite di braccioli, erano identiche a quelle con alta spalliera svasata come usa anche oggi in certi ambienti di tipo shabby schick, ancora oggi dipinte di bianco secondo l'uso romano.

(7)
Anche allora, come oggi, tali poltrone in vimini venivano usate sia all'interno che nei giardini della domus.

Ecco qui a lato, fig. (7), la scultura in pietra calcarea di una sedia in vimini ritrovata in una tomba romana.

Come si nota aveva due braccioli e un intreccio di vimini molto fitto e stretto che sicuramente la rendeva indistruttibile, oltre che pratica in quanto leggera da spostare.

Anche le sedie venivano pitturate, un po' all'uso egizio, e pure con i colori sfumati, che non solo riproducevano piume di pavone.

Però quel tipo di pittura, così lucida e quasi fluorescente, proprio perchè iniziata con la pittura di piume di pavone, venne chiamata così, cioè "a piuma di pavone" anche quando venivano riprodotti altri simboli o immagini o motivi floreali o geometrici.

Come si può osservare nel dipinto (8) proveniente da Boscoreale, nella scena si osservano sia un tavolinetto in legno di uno stile che sembra ottocentesco, sia una sedia con spalliera ma senza braccioli.

La sedia, in legno pitturato, si avvale di parti bronzee sugli zampi. D'altronde essendo questi sottili, secondo lo stile romano, se fossero stati in legno non avrebbero sopportato il peso di una persona.

(8)
Si nota che le zampe della sedia somigliano moltissimo a quelle dei letti e dei divani dell'epoca, frammisti tra legno e bronzo, oppure totalmente in legno, oppure totalmente in bronzo.

(9)
Nella figura dell'acconciatura della giovine domina, la (9), si nota una poltroncina in legno parzialmente dorato, ma pure colorato e con i zampi coperti alla fine in bronzo dorato.

Di stile vagamente egizio, ma molto modificato a gusto romano, la poltroncina ha, oltre ai braccioli, una spalliera un po' bassa dove la signora può poggiare i gomiti, tanto più che la poltroncina in questione è adornata da un morbido velluto rosso poggiato appunto sulla spalliera.

L'uso dei cuscini, delle pelli morbide, o delle pellicce, o delle stoffe di velluto, era consuetudine poggiarli sulle poltroncine romane nonchè sui divani e letti.

Il commercio con l'oriente aveva d'altronde permesso l'uso della seta variamente disegnata e colorata, dai pesanti damaschi alle sete leggere come veli, e ai tulle veri e propri, nonchè alle guarnizioni di frange e nappi.

SEDIA EGIZIA 1000 a.c. (10)
Ecco invece, per fare il raffronto, una sedia egizia del 1000 a.c., (10), probabilmente un tronetto. Anche questo è dorato e scolpito, con figure e pure sculture.

Indubbiamente i romani tendevano in genere a una maggiore semplicità, anche se nel tardo impero indulsero a ornamenti più articolati e sontuosi, finchè non venne lo stile bizantino che risentì pesantemente degli stili molto carichi e spesso molto pesanti della moda orientale.

I mobili bizantini furono un misto di elementi greco-romani e orientali; e quasi tutti gli esemplari ritrovati erano destinati a un uso ecclesiastico e regale.

Le forme erano romane, ma ad esse si sovrapponeva una ricca ornamentazione orientaleggiante, con grande enfasi sui motivi curvilinei o geometrici, con intarsi a mosaico in oro, vetro e pietre, insomma uno stile che ebbe una  sua bellezza ma che fu molto pesante.

Contrariamente all'uso romano, erano rare le figure umane o di animali, e quelle poche erano rozze e statiche, mentre i motivi decorativi tendevano a essere rigidi e convenzionali. Diciamo che con la decadenza del paganesimo decadde anche l'arte romana.
I Romani amavano il bello ma anche le soluzioni nuove e avveniristiche, pertanto amavano mutare le forme, tanto dei mobili che in architettura.

SEDIA DI BOSCOREALE (11)
Lo testimonia questa sedia, la (11), tratta da un affresco di Boscoreale, una sedia tutto sommato abbastanza semplice,  con lo schienale fatto a tre doghe di legno incurvate a caldo e innestate su due masselli laterali.

Lo schienale è curvato all'indietro per essere un po' anatomico, ma non solo, pechè svasa ai lati proseguendo diritto fino alla seduta di legno sicuramente imbottita.

Gli zampi sono torniti e uniti tramite un'anima di metallo. I braccioli sono oltremodo esili, pertanto dovrebbero essere in metallo, costituiti da due aste sottili agganciate su una pigna di bronzo che sovrasta il quadrello di legno che a sua volta sovrasta gli zampi.

E' una bella sedia, ampia e comoda, ma a guardare attentamente è una sedia assemblata. Cambiando l'ordine dei pezzi non è difficile farne un modello diverso. I vari pezzi lavorati al tornio o in bronzo possono essere agganciati a pezzi diversi formando modelli diversi.

(12)
I romani badavano molto al business, e al modo più spiccio di realizzarlo. Essendo molto razionali riuscivano a facilitarsi il lavoro costituendo piccole catene di montaggio, anche se pur sempre artigianali.

Chi doveva lavorare dei quadrelli al tornio per farne dei cilindri avrebbe fatto più in fretta se compiva sempre gli stessi gesti.

Usarono la stessa tecnica gli argentieri italiani dal '500 in poi quando assemblarono vari pezzi torniti o fusi in argento montandoli in modo diverso per variarne i modelli. E' un sistema classico che usano ancora oggi come si vede nella fig. (12)

Chi doveva fondere dei zampi in bronzo poteva spaziare tra poche figure di cui aveva le matrici: le zampe potevano essere di leone, di cavallo, di lupo, di drago ecc, quattro o cinque tipi che potevano essere applicati alle sedie, ai letti, ai divani o a dei tavolini.

Bastava applicarvi sopra dei legni cilindrici, o sgolati dall'alto in basso o dal basso in alto, o aggiungendo anelli di bronzo, o quadrelli di legno ecc.
(13)

Così una sola bottega artigiana poteva realizzare una grossa quantià di modelli, si che l'acquirente non avrebbe trovato la medesima sedia in casa dell'amico. Inoltre ogni sedia veniva dipinta con colori o decorazioni particolari.

Nel dipinto qui sopra, il n°(13), ancora di Boscoreale, c'è un'altra seggiola, del tipo della pittura (11), anch'essa con schienale ricurvo all'indietro, dipinta però di un verde tenue e soprattutto assemblata in modo diverso, anche con rocchetti in parte diversi.

La diversa tonalità e colore di pittura già faceva la differenza. Era importante che un compratore di rango non ritrovasse la stessa sedia dal suo vicino.

Fa un certo effetto vedere una matrona seduta su un'alta sedia per giunta senza sgabello. (14) Sappiamo tutti benissimo quanto stanchi stare seduti senza poggiare i piedi.

Oltre a tutto ci carichiamo di energia elettrostatica che penalizza la circolazione e fa gonfiare i piedi. Ne sa qualcosa chi fa un lungo viaggio in aereo. Eppure questa matrona sta seduta su alto seggio senza sgabello, ma non è così, a guardar bene lo sgabello c'è solo che è quasi cancellato.

(14)
Nel dipinto la seggiola, di cui si vede praticamente solo uno zampo, è dipinta di bianco con zampi snelli e lavorati ad anse e cilindretti.

Non si è certi a prima vista che si tratti di una seggiola e non di uno sgabello, ma si protende per la prima in quanto di solito le sedie erano piuttosto alte e gli sgabelli piuttosto bassi.
Infatti le seggiole avevano sovente bisogno di uno sgabellino poggia piedi mentre è raro trovarli negli sgabelli.
La parte inferiore sembrerebbe in bronzo o con inserimenti di bronzo. La seduta è rettangolare e lo schienale ha sostegni cilindrici ornati finemente.

POMPEI VENERE E MARTE (15)
Nella pittura pompeiana che segue, la (15), c'è invece una sedia di cui non si vede la forma, tanto è nascosta da cuscini e stoffe. In effetti una volta instaurati i rapporti commerciali con l'oriente, Roma adornò non solo le sue donne, ma pure le sue case di damaschi, rasi, velluti e veli, anche se i veli erano già conosciuti dagli etruschi che ne usavano sulle proprie vesti.

Le case si riempirono di tappeti, di copriletto, copri-poltrone, tendaggi e cuscini, spesso posti anche in terra o addirittura sulle panchine di pietra dei giardini.
Oppure venivano appoggiati sulle spalliere delle seggiole, sugli sgabelli o sui divani, come avviene in questa figura, per creare eleganti note di sete luminose o colori variegati, come in questa pittura. i cui colori vanno dal giallo al rosso, al verde e all'azzurro delicato.

(16)
In una pittura simile, che descrive la stessa scena in cui Marte carezza un seno a Venere. la sedia è una poltrona e pertanto con braccioli, figura (16).

Il gesto non ha nulla di erotico perchè Marte indica che Venere sta allattando il loro figlio, secondo un mito egizio-romano, il piccolo Antero (Ante Eros), cui farà seguito, quando Venere giacerà con Hermes (Mercurio), il figlio Eros (Cupido).

Qui Venere è trasposta ad Iside e i miti si sovrappongono. Ormai l'Egitto è di casa a Roma e la religione, nonchè lo stile, ne sono ampiamente importati e adottati.

Venere-Iside è disperata per la morte di Osiride-Adone e parte in barca alla ricerca del suo corpo.

Con lei è il figlio Antero, che però, non sopportando le lagrime della Dea, si suicida in mare.

Questo a indicare che l'amore figlio di Marte, cioè della passione conflittuale, non solo porta dolore e lacrime, ma non può durare.

Il vero amore, l'Eros, deve essere figlio dell'intelligenza sensibile, Mercurio, basata sulla comprensione dell'altro.

Solo allora rimane eterno e porta le monete d'oro nella borsa di Hermes, dove l'oro è il simbolo di ciò che è inalterabile. Infatti Eros è figlio successivo di Venere con Mercurio (Hermes).
Tornando all'immagine si nota che il bracciolo della sedia è sostenuto da una figurina scolpita nel legno, che sembrerebbe di foggia egiziana, ma un po' romanizzata. Comunque la figura è dorata, come sicuramente lo è tutta la sedia.

(17)
Nella figura (17) fanno bella mostra di sè una sedia e un panchetto di legno.

Non si capisce bene se è un tavolinetto o uno sgabello quello rivestito di pelle di leopardo

Dovrebbe essere il secondo dato il tipo di rivestitura, inusuale nei tavolinetti.

Si nota inoltre un tavolino di marmo, sostenuto da una coppia di grifi.

Ma c'è anche un poggiapiedi dipinto, con grande raffinatezza, come la sedia, di un bel color rosso lacca.

Non lasciamoci fuorviare dal fatto che questi dipinti, di autori del neoclassicismo del fine 800, non possano essere fedeli nelle riproduzioni.

Questi autori, al contrario di noi, ebbero a disposizione non solo molti affreschi andati ormai distrutti, ma molte stampe che oggi non sono a disposizione.

Infatti molti pittori del '700 e dell'800 si precipitarono a copiare ogni affresco, ogni decorazione e ogni  bene residuo dell'eruzione, fossero oggetti di legno, di marmo, di bronzo, di vetro,di carta, di stoffa o residui di qualsiasi genere, perfino commestibile.

(18)
Di questi affreschi molti sono andati perduti ma i pittori fecero stampare le loro riproduzioni in molte copie che tuttavia vennero man mano acquistate dagli stati stranieri, in particolare inglesi e pure francesi.

Oggi queste riproduzioni non sono accessibili al pubblico, in quanto proprietà di molte collezioni private o di musei stranieri.

Gli studi effettuati dai pittori neoclassicisti furono accuratissimi, perchè le nuove scoperte archeologiche avevano meravigliato e catturato l'opinione pubblica di tutto il mondo.

Roma tornò ad essere pertanto il centro dell'arte come le spettava di diritto, e come poi vanne affossato a causa delle ultime deturpazioni operate soprattutto dalla Chiesa che non vedeva di buon occhio questo revival pagano.

Tornando all'immagine (17), la decorazione della sedia e del poggiapiedi danno un'idea della decorazione romana, a volte floreale o vegetale, a volte molto più articolata con eroti, divinità e animali.
Nella figura (18), c'è la riproduzione di una seggiola romana con zampi diritti sul davanti e svasati dietro. La seggiola è dorata e presenta due teste di leone intagliate. Nella immagine 19 c'è invece una attualissima poltroncina in vimini che potremmo acquistare benissimo oggi in un negozio.

SEDIA DI VIMINI (19)


GLI SGABELLI

SGABELLO (1)
A Roma però non trionfavano solo sedie e poltrone, ma pure sgabelli, di uso molto semplice perchè erano leggeri da spostare e perchè potevano servire tanto per sedersi quanto per poggiarvi degli oggetti, come i nostri tavolinetti da the.

Ne fa fede quello qui sopra, su cui siede un fanciullo, il n°(1), uno sgabello dorato, quadrato e a quatto zampi, di cui si scorge uno zampo a quadrello più spesso, poi lavorato e scavato dando luogo a uno zampo sempre diritto e squadrato, ma più sottile.

Di sgabelli se ne collocavano ovunque, negli atrii, per ricevere gente inattesa, o accanto ai triclini per poggiare vivande, o nei cubicula, le stanzette da letto, molto spartane sia nella grandezza che nei mobili, ma utilissimi per poggiare vesti o qualsiasi altro. 

Gli sgabelli erano insomma usatissimi, anche dagli uomini, che vi poggiavano carte, papiri, attrezzi vari, e tutto ciò che per il momento non conveniva riporre.

Ve ne erano di vari tipi, in legno, in legno e marmo, in bronzo con fasce di pelle intrecciate cui si poggiavano sopra i cuscini, fissi o pieghevoli, oppure in vimini, soprattutto da giardino, o in metalli vari.

SGABELLI (2)
Nella figura (2) c'è un uomo che sembra seduto su uno sgabello o più probabilmente su una seggiola con zampi a motivo vegetale, tutta dorata e imbottita.

Accanto c'è un altro uomo seduto su uno sgabello molto semplice e lineare.

E' uno sgabello quadrato con zampi e stecche di bronzo dorato sottili, con un piano di legno.

Questo era in genere di legno pechè la vasta seduta non era garantita con un marmo che doveva inoltre sorreggere il carico della persona sopra, pur trattandosi di bronzo.

Anche gli egizi usarono molto gli sgabelli, a volte molto semplici e a zampe di animali, ma spesso rivestiti in oro o decorati.

SGABELLO EGIZIO (3)
Mentre l'Egitto ama lo sgabello quadrato e a quattro zampi (3), in Grecia predomina il tripode, lo sgabello a tre zampi svasati sul fondo, su cui per esempio vaticina la divina pitonessa.

E' lo sgabello più antico in assoluto, che va da quello usato dal contadino per mungere le vacche (ancora in uso in certe campagne, a quello elegantissimo delle case signorili, e a quello di uso liturgico dipinto in bianco rosso e nero, i colori sacri che diventeranno poi quelli esoterici dell'Opera Alchemica.

Qualcuno sostiene che lo sgabello a tre zampi fosse più pratico perchè, al contrario della sedia, non zoppica mai. Noi pensiamo invece che fosse lo scranno più semplice da eseguire, senza bisogno di ulteriori stecche di legno per sostenere gli zampi.

Questi potevano venire insinuati nella seduta scavata molto profondamente nei tre punti degli zampi, necessitando di una tavola di legno molto alta, oppure si inserivano gli zampi meno profondamente ma si legavano con filo di ferro o altro.

Ma c'è un altro sgabello di origine greca che entra abbondantemente nelle case romane, ed è quello delle corna incrociate.

Questo sgabello è simile negli zampi alle corna di buoi rovesciate, una coppia posta ognuna ai due lati del seggio. Questa sedia, e pure sgabello, è detta la Sella Curule.
A Roma fu fondamentale prima come simbolo e poi come arredamento in ogni casa, dalla più povera alla più ricca. Questo modello verrà arricchito e variato nel tempo ma non sparirà mai dal mobilio romano



LA SELLA CURULE

Le corna rovesciate di buoi sono ovviamente in bronzo oppure in legno con rivestimento parziale, cioè della parte terminale, in bronzo.

SELLA CURULE (4)
Questo sgabello, dagli zampi scolpiti, la seduta rivestita di stoffa di seta rossa con frange dorate e i fregi in avorio, divenne la Sella Curule, un sedile pieghevole simbolo del potere giudiziario, riservato ai re di Roma e in seguito ai magistrati "curuli".

Un'evidente derivazione della Sella Curule fu il panchetto a X, anch'esso pieghevole e con la seduta di pelle e le parti terminali degli zampi in bronzo, come si osserva nel modello rinvenuto a Pompei (5).

Il sedile diventava piatto girando su due viti assicurate da testine a volte dorate a volte incise o del tutto lisce.

Questo panchetto fu usatissimo dai romani, che a volte se lo portavano appresso nei passeggi, ad esempio nei giardini, o per ammirare un paesaggio o per leggere un'opera scritta, o semplicemente per conversare in assoluta comodità.

SELLA PIEGHEVOLE (5)
Questi sgabelli avevano in genere gli zampi verniciati di nero lucidato, con una stecca centrale e quattro laterali che facevano da sostegno.

In genere la parte superiore mostrava quattro testine di animali, per quella fantastica cura che i romani avevano in qualsiasi cosa, che aveva l'eleganza del semplice con l'ornamento dell'arte.

L'oriente, che pure ebbe le sue bellezze, non seppe quasi mai donare al bello severi limiti come seppero fare i romani, perchè in fondo corrispondeva al carattere dei romani, il "godere con continenza", senza perdersi nei meandri della ripetizione o dell'ossessione.

Il bello dell'arte romana è che si coglie in un colpo d'occhio, semplice e magistrale. Un pregio che si perderà nell'arte bizantina, troppo influenzata dall'arte orientale.

RIFACIMENTO DI UNA SELLA CURULE (6)
Le forme più belle restano nel tempo, infatti le sedie a X o a forbice, che si trasformarono nel medioevo nella Savonarola e comunque  vengono tuttora usate.

Il massimo revival dello stile pompeiano, e comunque romano si ebbe dopo il 1748 con la scoperta di Pompei.

La Francia nell'800 lanciò infatti i mobili di stile "imperiale" sul modello pompeiano, con seggiole come queste, con sommier alla pompeiana, letti con schienali applicati, e pure senza, credenzine di legno lucidato guarnite con rilievi in bronzo dorato.

Il bronzo dorato invase tutto, fino a creare stanze molto decorate e dorate, un po' diverse da quel "gusto con continenza" che amavano tanto i romani. Insomma un insuperato buon gusto.
Così lo stile romano, ovvero pompeiano, passò da Pompei alla Francia e dalla Francia all'intero mondo occidentale e poi oltre.

(7)
Già con i ritrovamenti di Ercolano si era però propagata un'arte più raffinata e più romana, un'arte la cui massima espressione fu il Rinascimento italiano, dovuto proprio alla scoperta dei reperti romani.

Naturalmente la Sella Curule, simbolo di potere e giustizia, venne anche riadattato a seggiola quotidiana, come si vede appunto nella figura qua a lato, la (7), coi gambi sottili e verniciati di nero e applicazioni varie, soprattutto alle estremità, di bronzo rigorosamente dorato.

Non solo fu riadattato ma dette il via a nuove composizioni, anche perchè all'epoca dei romani non c'erano architetti arredatori, in quanto il titolo non esisteva, c'erano però artigiani bravissimi.

Erano competenti e fantasiosi, capaci di tagliare, smussare, tornire, fare sesti, incastonare, verniciare, dipingere, dorare e argentare, nonchè fondere, laminare, scolpire, cesellare e stuccare.

Una bottega di mobili era una bottega d'arte, così come lo era una bottega di vasi istoriati o di gioielleria.

Nella figura (8) abbiamo pertanto un altro tipo di sella curule, ormai uno sgabello, che sembra un moderno sedile da campeggio, se non fosse così finemente lavorato.

SGABELLO MILITARE (8)
Invece è un sedile del tardo impero riservato agli alti ufficiali dell'esercito romano. E' giunto pressocchè intatto, e pur essendo un oggetto d'uso e non di arredamento, ha una sua contenuta bellezza.

E' un sedile di bronzo dorato con la seduta eseguita a lastre di bronzo fissate con le borchie a strisce di cuoio pesante.

Le strisce si incurvano su due barre piene ma sottili di metallo che sono giunte mediante fusione alle stanghe laterali.

Queste sono rinforzate al centro da un piccolo ovale dorato e pure le stanghe dei piedi hanno spessore diversi, più sottili al centro e più erti alla sommità e alla base.

Inoltre la parte inferiore dello sgabello è completamente coperta da incisioni geometriche regolari, coperte da una doratura.

Da qui, l'arte italiana dell'incisione prese il Guilloché (anche se il nome è francese), un’arte antica che, tracciando una riga alla volta col  bulino, può creare un disegno armonico su superfici di metallo anche preziose.

(9)
Nessuno potrebbe negare l'eleganza di questo apparentemente semplice sgabello pompeiano, in bronzo con la seduta rivestita in pelle.

E' pieghevole  e probabilmente aveva delle dorature, ma non ve n'è rimasta traccia.

E' frutto di una bottega romana, è basso e con parti lavorate in fusione.

E' la figura (9), elaborata forse da un precedente modello greco.

Un altro modello fu rinvenuto in Gallia, questo qui sotto n°(10).

SEDIA ROMANO GALLICA (10)
Ma questo è uno scranno di semplice fattura, in legno leggero e leggermente incurvato e seduta formata da piccole doghe anch'esse arrotondate a caldo.

Reca deboli tracce di pittura in arancione forte, ed ha tutta l'aria di essere un altro scranno militare.

Per non appesantire i carri si cercava di usare oggetti leggeri, a parte quelli destinati agli alti comandi che sfuggivano a qualsiasi restrizione.

E comunque lo stile gallo romano non è lo stile romano.

L'evoluzione della Sella Curule portò a questo sgabello in legno, facile da trasportare in quanto leggero, con la seduta fatta a strisce di cuoio che ne assicuravano la comodità insieme alla leggerezza.

(11)
E' la figura (11), dove una giovane romana si cuce un abito circondata dal suo splendido giardino, seduta su uno scranno costituito da tante aste di legno poste a X e fermate fra di loro da viti, e al piano mediante una doppia asta di legno.

La seduta era in pelle, un rettangolo di cuoio grasso  inchiodato da borchie alle due stanghe laterali. I giardini romani delle domus non erano molto estesi, o almeno non lo era quello del peristilio, visto che sorgeva in territorio cittadino e quindi costoso.

Era una specie di patio che sorgeva all'interno della casa, lontano da rumori e da sguardi indiscreti, rivestito di marmi e di mosaici. Esso accoglieva almeno una fontana e a volte più di una, dove spesso nuotavano i pesci rossi e gli uccelli andavano a bere. Era un'oasi di pace che accoglieva anche mobili da giardino, necessariamente in pietra o marmo.
Indispensabile il tavolino di marmo su cui poggiare oggetti, statuette o vasi di fiori.
Non potevano mancare le panchine, anch'esse di marmo, più o meno lavorato.

RICOSTRUZIONE SEDIA ROMANA (12)
Ma c'erano anche i mobili provvisori, i panchetti che stavano sotto la tettoia o all'interno della casa che venivano portati all'aperto o le poltrone che in estate venivano lasciate sotto la tettoia per ripararle da eventuali piogge.

Insomma l'atmosfera era quella dell'immagine, dove alla luce del giorno, non dimentichiamo che le stanze erano piuttosto buie, la domina cuciva, leggeva, si provava i gioielli i sperimentava i profumi.

Oppure, operazione non meno piacevole, spettegolava con le amiche che andavano a trovarla.

Qui a lato abbiamo una ricostruzione di una poltroncina romana (12), tutta in legno con spalliera e seduta di cuoio.

E' l'evoluzione della Sella Curule, comoda e raffinata, con ricci e disegni scolpiti dai mastri ebanisti.

Come si vede non c'è una parte che non sia curva, e il cuoio è fissato al legno tramite borchie dorate, come si fa spesso anche oggi per fissare le stoffe o il cuoio in tappezzeria.
Ma c'è un altro reperto pompeiano che suscita non poca curiosità.

SGABELLO MILITARE (13)
E' uno sgabello semplicissimo (13), tutto in ferro, e di uso militare, Il principio è lineare, e ricorda molto uno stendino per i panni. Due rettangoli che si intersecano collegati al centro con due viti ricoperte da guarnizioni,

La sedia pieghevole romana è antica tradizione dell'esercito legionario. Tali sedie, chiamate "Sella" erano simboli di status e di comando dal tempo degli Etruschi e per tutto il periodo romano.  

Durante il periodo romano e repubblicano imperiale, la "Sella Curule", insieme con i fasci, erano le insegne dei consoli, pretori, censori, ed edili.  

Questo esempio è la sedia di ferro da campo, la cosiddetta "sella castrensis", di uso comune per le autorità militari e soprattutto riservato ai comandanti sul campo.

Su questo non ci sono dubbi, però il lato superiore di uno dei due rettangoli è interrotto, formando, con i due lati superiori, due piccoli rettangoli. Manca la seduta che doveva essere di cuoio, necessariamente interrotta al centro di una delle due aste di ferro. Come mai?

I fili che tengono la X sono stati posti per veduta di insieme ma non sono ovviamente originali.
Non sappiamo a che altezza venisse regolato lo sgabello, perchè più ampia era la seduta più basso era lo sgabello. Probabilmente ogni comandante lo faceva stabilire alla sua altezza variando l'ampiezza della seduta.

Ma perchè una delle due aste è interrotta? Probabilmente i due rettangolini, cioè le due asticciole piegate, servono solo a sostenere i due segmenti interrotti. Oppure potevano sostenere delle tasche di cuoio, ma non si capisce ugualmente perchè l'asta sia divisa in due.

E' evidente che la forma non è alterata, perchè sia la retta intera che quella spezzata sono rifinite con dei cappucci di bronzo. Il mistero è fino ad ora insoluto.


(14)
Ed ora invece torniamo ad un sontuoso sgabello su cui siede il personaggio di destra, lavorato, elegante  e con quei cipollotti di legno che ricordano molto il fine '800.
La seduta è imbottita in velluto, i cipollotti poggiano su pesanti cornici di legno lavorate e intarsiate con inserti si direbbe in avorio. Il legno è scurito e lucidato a cera..

Ma la chicca dei mobili romani è la SPA, le terme dove si praticavano i massaggi. I romani avevano una sofisticata cosmetica e uomini e donne amavano farsi spalmare e massaggiare.

Alle terme si passava praticamente la giornata. non solo si nuotava ma si poteva farsi una cura di bellezza, farsi massaggiare, mangiare, vedere spettacoli e leggere.

I romani arrivavano di solito alle terme verso mezzogiorno e ne uscivano al tramonto. La ricostruzione della vita romana la dobbiamo soprattutto a Ercolano e Pompei, un mondo bellissimo che aldifuori si è cercato di distruggere quanto più si poteva, distruggendo per sempre un'arte che non tornerà mai più.

Per ultimo una panoramica di sgabelli romani, compresa un'antica sedia a trono, simile al trono etrusco, ma prettamente romano. rinvenuto a Roma presso la Basilica di San Giovanni in Laterano.


AALEN (Limes Retico)

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RICOSTRUZIONE DEGLI ALLOGGI DEI SOLDATI AUSILIARI

IL LIMES GERMANICO RETICO

I Limes erano quella parte di confine dell'impero romano che si estendeva in Germania, tra il Reno e il Danubio, e che da Rheinbrohl, presso Neuwied, congiungeva Kelheim, per ben 548 km di strade, fortificazioni, torrette di avvistamento, fossati, agger e palizzata.

Questo percorso, dichiarato nel 2005 Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, include diversi siti archeologici con relativi musei, come Aalen, Saalburg e Weißenburg in Bayern, unendosi al Vallo di Adriano iscritto nel 1987. Nel 2008 a questa coppia si è aggiunto il Vallo Antonino.

MODELLO DEL FORTINO

AALEN

Attraverso il rinvenimento di alcune mura di fondazione del 150 d.c. si è scoperto  che l'Aalen divenne parte dell'impero romano, nelle immediate vicinanze del Limes retico. I romani avevano eretto un castrum per alloggiare l'unità di cavalleria Ala II Flavia milliaria, noto oggi come Kastell Aalen ("Fortezza romana di Aalen").

Il sito è ad ovest del centro della città odierna, alla base della collina Schillerhöhe. Con circa 1.000 cavalieri, è stata la più grande fortezza di ausiliari lungo il Limes retico.

Aalen fu il più grande forte di cavalleria(castellum) lungo le linee della provincia romana della Rezia, occupata dai Ala Flavia miliaria Pia Fidelis. Le prime tre parole intendono che fosse il secondo squadrone reclutato da Flavio Vespasiano, miliaria indica invece un migliaio di uomini in forza, e le ultime due parole la indicano come "fedele e leale".

Il nome attuale di Aalen sembra appunto derivato dal termine Ala. Ricordiamo che le truppe ausiliarie erano composte fin dall'inizio del principato di Augusto, fino a Nerone-Vespasiano, da circa 500 uomini (quingenarie). Solo in seguito queste unità cominciarono ad raddoppiare il numero degli effettivi fino ai 1.000 armati (milliarie)

IL PRETORIO (165-260 circa)

IL PRETORIO 

Gli scavi condotti nella sede del pretorio di Aalen hanno evidenziato che, come tutti gli altri forti, questo edificio era costituito da un quadrato circondato da diversi edifici. Da un lato vi era una basilica, sul lato opposto, gli alloggiamenti degli ufficiali, mentre al centro era posto il santuario dell'unità (che sembra dedicato a Minerva).

Come sempre i soldati godevano di alcuni conforti, anche di lusso, ad esempio, avevano un ipocausto per il riscaldamento dei pavimenti, con l'aria calda che filtrava attraverso lo spazio tra le colonnine che sostenevano il pavimento.

Qui sotto i resti dell'ipocausto che scaldava gli alloggiamenti degli ufficiali e pure dei soldati. D'altronde il luogo era rigoglioso di alberi  e il clima molto freddo, per cui i soldati abbondavano di legna da ardere. D'altronde gli ufficiali romani erano perfettamente in grado di progettare e far eseguire dai soldati, seppure ausiliari quindi stranieri, qualsiasi edificazione occorresse.

SANTUARIO CON LA STATUA DI MARCO AURELIO

Tutto veniva organizzato ed eseguito all'interno del fortino. Ricordiamo che gli altri gradi, in genere romani, erano anche architetti e ingegneri, naturalmente non ne avevano il titolo ma ne avevano abbondantemente le qualità.

Rispetto alla funzione invece rammentiamo che le Alae di cavalleria fornivano alle legioni truppe di ricognizione e di inseguimento, oltre a costituire elemento d'urto sui fianchi dello schieramento nemico.

Una "Cohors I [...] Aelia Sagittariorum milliaria equitata" fu costituita dall'imperatore Adriano, e sembra venne posizionata fin dall'inizio nel Norico (una provincia dell'Impero romano, situata nell'odierna Austria, parte dell'Ungheria, della Slovenia e dell'Italia)..
Come testimonierebbe il diploma del 139, molto probabilmente venne locata ad Astura (cfr. diplomi del 159),  sede di un forte militare romano a partire dall'epoca di Claudio o di Vespasiano fino ai Severi.

ENTRATA NORD
Vi sono indizi di sue vexillationes o di un suo spostamento provvisorio (es. guerre marcomanniche) nella vicina Cannabiaca (Klosterneuburg) o anche a Vindobona-Schwechat e Carnuntum.

Potrebbe essere stata trasferita in toto o forse solo sue vexillationes ad Ala Nova (Schwechat) negli anni successivi.
Tra le altre parti scavate è stato rinvenuto il santuario di serie dell'unità e si suppone che sotto le case del quartiere moderno gli archeologi potrebbero e dovrebbero un giorno trovare le caserme e le antiche stalle.

A nord-est del museo c'è la chiesa di Sankt Johann (San Giovanni), vicino all'entrata del forte, probabilmente sorta su un luogo sacro.

Nelle pareti nord e ovest della chiesa, che si trova direttamente adiacente alla porta orientale della fortezza romana, si è notato che vi sono state aggiunte alcune pietre romane, per l'abitudine cristiana di usufruire di ogni reperto romano soprattutto sacro.

L'edificio, tuttora esistente,risale probabilmente al secolo nono. Per giunta il cimitero attuale è esattamente all'interno delle mura del forte. Come luogo di culto, il sito è stato utilizzato per più di diciotto secoli.

Sopravvive infatti un'iscrizione con dedica a Minerva Dea della guerra, in cui compare anche l'attributo della civetta. Al di là del santuario era l'insediamento civile, che occupava i versanti est e sud-est del forte. Si calcola che in questa città venissero ospitate circa 3.000 persone, un numero di abitanti adatti a una città più che a un fortino.

La città, insieme al forte, vennero evacuati nel 260, quando gli Alemanni occuparono il triangolo tra il Reno e il Danubio A ovest di Aalen c'erano i fortini di Böbingen e di Rens, e ad est il Rainau dove dono stati rinvenuti i resti di diverse antiche fortificazioni romane. Visite ad Aalen Limesmuseum possono essere facilmente organizzate.

ISCRIZIONE TOMBALE

L'ISCRIZIONE TOMBALE 

Sopra l'ingresso dell'antico insediamento una scritta, di cui sopravvivono solo tre frammenti. Ma poiché i contenuti di questo tipo di iscrizione sono abbastanza stereotipati, quasi tutto il testo può essere ricostruito senza errori:

IMPeratori CAESari Marco AVRELIO ANTONINO
AVGusto Pontifici Maximi TRIBVNICIA POTestate XVIII
 IMPerarori II COnSuli IIII Patri Patriae ET IMPeratori
CAESari Lucio AVRELIO VERO AVGusto ARMENIACo
TRIBunicia POTestate IIII IMPeratori II COnSuli II
SVB CVRA BAI PVDENTIS PROCuratoris PER
ALAM II FLaviam Miliariam Piam Fidelem FECIT [....]IVS
LOLLIANIVS PRAEFectus

Supervisionato dal procuratore Baius Pudente prefetto [...] ius 
Lollianus ha ordinato la Seconda Flavio, squadra di mille uomini, fedele e leale, 
per costruire questo per l'imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto, 
sommo sacerdote con poteri tribunizia per la diciottesima volta, 
due volte imperator, quattro volte console, padre della patria, 
e per Cesare Lucio Aurelio Vero Augusto armeniacus, 
con poteri tribunizia per la quarta volta, due volte imperator, due volte console.

COLONNA TRAIANA

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ECCO COME APPARIVA IN ORIGINE

La colonna Traiana venne eretta nel Foro Traiano nel II sec. d.c. (110-113),  per celebrare le due campagne vittoriose di Traiano in Dacia (Romania), rievocando tutti i momenti salienti di quella conquista. Altresì doveva ricordare, avendone l'identica misura, l'altezza della sella collinare prima dello sbancamento per la costruzione del Foro.

RICOSTRUZIONE GRAFICA
DEL NATIONAL GEOGRAPHIC
( http://www.nationalgeographic.com/ )
Inoltre serviva a innalzare ai posteri la statua in bronzo dorato di Traiano, ma contemporaneamente era un mausoleo, perchè raccoglieva le ceneri dei due amati imperatori: Traiano e Plotina, colei che determinò l'erede al trono di Traiano, e cioè Adriano.

Venne collocata nel Foro di Traiano, in un ristretto cortile alle spalle della Basilica Ulpia, fra due biblioteche, dove un doppio loggiato ai lati ne facilitava la lettura. Di fronte c'era il Tempio del Divo Traiano.

Una lettura "abbreviata" era anche possibile senza girare intorno alla colonna per seguire l'intero racconto, seguendo le scene secondo un ordine verticale, dato che la loro sovrapposizione nelle diverse spire sembra seguire una logica coerente. Alcuni calchi di questo monumento, collocati nel Museo della Civiltà Romana, consentono di guardare oggi tutta la bellezza delle raffigurazioni.

La colonna celebrativa isolata era in già un’antica forma di celebrazione di grandi personaggi, di cui nessun esempio precedente è però giunto fino a noi. Sappiamo che spesso i Romani usavano colonne singole che si ripetevano ad adornare i viali più importanti, con sopra bronzi dorati, colonne non collegate, svettanti al cielo un simbolo o una divinità dorata. Ma nulla a che vedere, nè le colonne decorative, nè quelle celebrative, con le inaudite dimensioni e la decorazione del fusto della colonna traiana.

Inoltre, come tutte le statue e i bassorilievi romani, era dipinta a colori vivaci di cui restano poche tracce. Si può immaginare che essendo all'epoca dipinta in toni molto vivaci, e pure adornata di inserti dorati, come era nell'uso romano, avesse nelle sue scene molto maggiore visibilità di oggi.



LO STILE

La Colonna  fu una novità assoluta nell'arte antica e divenne il punto di arrivo più all'avanguardia per il rilievo storico romano.

Per la prima volta nell'arte romana si ebbe un'espressione artistica assolutamente autonoma in ogni suo aspetto pur essendo la scultura romana continuazione dell'arte greca e pure etrusca.

La narrazione, ordinata cronologicamente; è di altissima qualità artistica sia per il livello della composizione, sia per il controllo del ritmo narrativo che scorre senza interruzioni, sia per la qualità dei rilievi.

Il geniale scultore, per l'appunto ritenuto dai più Apollodoro di Damasco di cultura ellenistica, usò mezzi stilistici da lui inventati per procurare le suggestioni occorrenti.

Ad esempio non rispettò le misure reali delle persone (questo era già stato fatto per gli Dei e gli imperatori), ma pure degli edifici e degli alberi; ingrandendo i protagonisti mentre rimpiccioliva gli elementi secondari.

Inoltre alleggeriva o approfondiva il rilievo tenendo conto dell'impatto d'insieme data dalla visione contemplata per lo più dal basso.

Il "Grande fregio di Traiano" le cui lastre sono reimpiegate sull'Arco di Costantino è sicuramente dello stesso autore.

Qualcuno ha ipotizzato, per la precisione dei fatti e dei dettagli, che le scene della colonna fossero anche un'esperienza diretta dell'artista.

Si sa che i romani prima di essere artisti erano combattenti e non esisteva un artista puro, cioè che lavorasse solo nel suo ambito come poteva invece accadere il Grecia. Ne abbiamo famosi esempi in Marco Vipsanio Agrippa e per l'appunto Apollodoro di Damasco.



L'AUTORE

Ci sono vari fattori che hanno fatto riflettere sul possibile autore della colonna. Ad esempio la fine di Decebalo, capo dei Daci, è quasi una glorificazione del re combattente per l'indipendenza del suo popolo. 

Anche la sua fuga attraverso i boschi con pochi uomini, mentre i romani conducono cavalli carichi di vasellame prezioso del tesoro reale svelato da un tradimento, non sembra voler denigrare i vinti ma anzi riconoscerne il valore.

Decebalo che si aggira nei boschi; che parla ai suoi fidi, alcuni dei quali si uccidono; Decebalo avvistato dalla cavalleria romana e che, raggiunto, si lascia cadere dal cavallo e si uccide, suscita più commozione che avversione. 

La sua testa sopra un largo piatto verrà poi portata ai romani come trofeo.

Nella colonna le scene di battaglia non costituiscono il soggetto principale del fregio, benché descriva le vicende di due spedizioni militari.

Viene dato anzi più spazio alle attività di pacificazione e di riorganizzazione del territorio, a sottolineare le capacità di governo di Traiano e la funzione civilizzatrice di Roma.

Tanta imparzialità di vedute e tanta definizione dei particolari fa pensare due cose: una è che lo scultore avesse assistito alle battaglie, e poi che non fosse un adulatore del potere e descrivesse secondo la sua emotività ciò che vedeva. 

Tutto questo ci riconduce ancora ad Apollodoro, che essendo l'artista preferito di Traiano, facilmente l'avrebbe seguito nelle imprese per poterle poi degnamente immortalare, e che non fosse un  adulatore lo si vide al punto che con il successore dell'equilibrato Traiano, il meno modesto Adriano, la sua schiettezza gli costò la vita.

Bianchi Bandinelli definisce con il termine “Simpatia” l’atteggiamento del Maestro nei confronti dei Daci. Sympátheia, conformità di sentire, ma anche compassione, e si chiede se non sia « l’espressione di sentimenti personali dell’artista ».



I COMMENTI


La narrazione delle spedizioni di guerra si basa su temi se non fissi almeno preponderanti, che probabilmente rientravano già nel repertorio delle pitture trionfali: la partenza, la costruzione di strade e di fortificazioni, le cerimonie religiose, il discorso alle truppe, l'assedio, la battaglia, la sottomissione dei nemici vinti e i bottini conquistati, di beni, di opere d'arte e di schiavi. Spesso queste scena mettevano in evidenza la crudeltà e il saccheggio dei vincitori, autentici documenti della distruzione di un popolo.

LA COLONNA TRAIANA OGGI
Questa spietatezza e crudeltà sono stati molto criticati dall'etica moderna, un'etica peraltro che dovrebbe accorgersi di come lo stile non sia cambiato nelle guerre passate e attuali. Anzi i romani possedevano una clementia sconosciuta presso quasi tutti i popoli, e cioè niente torture per diletto o per intimorire i nemici, salvataggio totale delle città che si sottomettevano al vincitore, senza saccheggi o irruzioni nelle case, era sufficiente pagare e tasse richieste e l'approvvigionamento dell'esercito romano.

Anzi notiamo che non vi è mai, in tutte le raffigurazioni dell'imperatore, una posa di esaltazione o di adulazione. Anche nella grande scena di sottomissione, che chiude la II campagna della I guerra, l'imperatore seduto, visto di profilo, sembra più un giudice che un vincitore. C'è grande differenza di concezione etico-politica tra queste scene e quelle della Colonna Antonina, dove il nemico è massacrato e oltraggiato, o nelle raffigurazioni monetali degli imperatori cristiani del IV sec., quando, giganteschi personaggi, sia pure cristiani, si pongono sotto i piedi il nemico vinto.

Anche se a Roma vigevano già le colonne onorarie, l'esecuzione di una con un fascio figurato di rilievi è senza precedenti. L'autore non si sa chi sia ma se ne conosce il valore artistico, anche dai fregi inseriti nell'arco di Costantino.

Salvata dall'iconoclastia dei papi solo perchè consacrata a una scadente statua di s.Pietro che sostituì la vera statua del grande Traiano, la Colonna venne copiata da numerosi artisti che nel Rinascimento si facevano calare con ceste dalla sommità lungo il fusto, per copiare i rilievi e trarne ispirazione per le loro opere: Pietro da Cortona, Rubens e Poussin. Venne distrutta non solo la statua di Traiano ma pure le tombe di Traiano e Plotino, omaggiate per secoli dai pellegrini con grande scontento della chiesa.

Lo stesso Bernini affermò che la Colonna Traiana "era la fonte da cui tutti i grandi uomini avevano tratto la forza e la grandezza del loro disegno". Tuttavia la Colonna Traiana venne anche criticata da alcuni artisti perché riscontravano nei pannelli alcuni difetti nella composizione e alcune deficienze nella prospettiva.

A queste critiche rispose il letterato collezionista d'arte Francesco Algarotti in una sua lettera del 1763 dove sostenne che "il maestro delle imprese di Traiano" scolpì alcune cose più grandi del normale perché voleva fare in modo che le figure più importanti diventassero degli emblemi, ma anche per farle percepire meglio da chi si trovava in basso e non aveva di certo impalcature che gli permettevano di vedere da vicino i rilievi.

Oggi questa risposta è riconosciuta giusta e pertinente dalla critica moderna.

Si sa dell'ammirazione che Raffaello aveva per i rilievi della Colonna, tanto che se ne ispirò per la composizione delle scene di battaglia (Stanza di Costantino in Vaticano, il cui tema principale è la Pagina 3 di 21 Chacon-Colonna-Traiana 06/08/10 18.03 vittoria del cristianesimo sul paganesimo).
"Ma quelle [sculture] che vi sono delle spoglie di Traiano e d’Antonino Pio, sono eccellentissime, e di perfetta maniera". [v. Lettera di Raffaello …, p. 22)

La brillante idea della colonna decorata con rilievi a spirale dalla base alla cima fu copiata spesso nell’antichità, dalla Colonna Aureliana a Roma a quelle quelle di Teodosio e di Arcadio a Costantinopoli, e in epoca moderna la colonna di Place Vendôme a Parigi. Questa colonna è di bronzo ed è ispirata alla colonna Traiana di Roma, che però è di marmo.

L'Italia è stata depredata un po' da tutti nelle varie epoche, dai Papi che vendevano all'estero le opere d'arte alle guerre perdute che ne fecero bottini di guerra.

Perfino la colonna di Traiano corse questo rischio nel 1865, fortunatamente il costo per trasportare la colonna in Francia era talmente elevato che Napoleone III,  dovette rinunciare al grande furto della colonna, limitandosi a farne rilevare in gesso i bassorilievi.

Fu in quell'occasione che si notarono su di essa le tracce di smalto d'oro e di colore vermiglio e azzurro.



LA DESCRIZIONE

Anche se a Roma vigevano già le colonne onorarie, l'esecuzione di una con un fascio figurato di rilievi è senza precedenti. L'autore non si sa chi sia (anche se molti propendono e secondo noi non a torto, per Apollodoro, l'architetto e scultore preferito da Traiano) ma se ne conosce il valore artistico, anche dai fregi inseriti nell'arco di Costantino.

Consacrata, protetta dai papi, la Colonna venne copiata da numerosi artisti che nel Rinascimento si fecero calare dentro le ceste dalla sommità lungo il fusto, per copiare i rilievi e trarne ispirazione: da Pietro da Cortona a Rubens e a Poussin.

La colonna, di 29,78 m d'altezza nel fusto, ma complessivamente di 40 m, esattamente 39,86 metri circa se si include l'alto piedistallo alla base e la statua alla sommità, è di ordine tuscanico, composta da un toro ornato di foglie d'alloro, un fusto di 17 rocchi di pregiato marmo di Carrara, un capitello e un piedistallo con base liscia e poi sgolato, quattro facce con fregio di spoglie di nemici vinti (eseguiti a bassissimo rilievo), e una cornice decorata da festoni sorretti da quattro aquile poste agli angoli del piedistallo. Per eseguirla sono stati usati 18 colossali blocchi di marmo, ciascuno dei quali pesa circa 40 tonnellate ed ha un diametro di 3,83 m.

Sul fronte verso la basilica Ulpia c'è un'epigrafe in carattere lapidario sorretta da vittorie, che commemora l'offerta della colonna da parte del senato e del popolo romano e specifica come la colonna rappresenti l'altezza della sella tra Campidoglio e Quirinale prima dei lavori di sbancamento operati da Traiano per la costruzione del Foro.

Sul lato sud-est del piedistallo si apre una porta che conduce a una rampa di scala a chiocciola. Questa si snoda lungo tutto il fusto cavo della colonna con 185 scalini, illuminata da 43 feritoie a intervalli regolari, aperte sul fregio ma non concepite all'epoca della costruzione,.fino a raggiungere sulla sommità a tre stanzette, di cui la più interna custodiva due urne d' oro con le ceneri di Traiano e della moglie Plotina, dando al monumento una funzione sia celebrativa che funeraria.

La colonna, per ragioni di stabilità ma pure di effetto visivo, ha il diametro all'imoscapo (estremità inferiore del fusto) di 3,70 m e al sommoscapo (estremità superiore) di 3,20 m, ed è dotata di una lieve entasi, cioè un rigonfiamento del fusto della colonna a circa un terzo della sua altezza.

È un accorgimento ottico che evidenzia la membratura della colonna come il rigonfiamento del muscolo di un avambraccio sotto sforzo, ovvero per la tensione della colonna che reagisce alla compressione a cui è sottoposta.

L'effetto dell'entasi è accentuato dalla rastremazione della colonna di cui si è detto sopra, che è percorsa da 24 scanalature affioranti per un breve tratto al di sotto dell'echino, una sorta di "cuscino" sotto l'abaco. decorato a ovoli e dardi. La colonna è fasciata da un lungo nastro di fregio lungo 200 m, nel quale sono rappresentati i fatti più importanti delle due guerre della Dacia. Il nastro, avvolgendosi forma una spirale, così la colonna prende il nome di coclide. Essa fu la prima colonna coclide mai innalzata.

Il nastro della colonna contiene oltre 2500 figure e 155 scene delle varie fasi della guerre. La fascia ha un'altezza che aumenta dal basso verso l'alto cosicchè le immagini superiori sono più grandi di quelle inferiori perché per la maggior distanza risultino proporzionate. Lo stesso principio che si usava nei templi dorici.

Il rilievo è basso (detto pittorico) per non creare un movimento confuso tra così tante immagini e si avvale dell'uso del trapano. La realizzazione del monumento richiese una tecnica sofisticata e una grande organizzazione di cantiere che ancora oggi non sarebbe facile raggiungere. Non era facile sovrapporre blocchi del peso di circa 40 tonnellate ognuno e farli combaciare perfettamente, tenendo conto sia dei rilievi, già sbozzati e successivamente rifiniti in opera, sia della scala a chiocciola interna già essere scavata prima della collocazione.



LA CONSERVAZIONE

Lo storico Ammiano Marcellino narra che l’imperatore Flavio Giulio Costanzo, con residenza a Costantinopoli, in visita a Roma nel 357 d.c., fu ammirato dal Foro di Traiano e dalla statua equestre del’imperatore, che si trovava circa nel mezzo del Foro. Il complesso rimase intatto fino al IV secolo, quando i materiali preziosi di costruzione vennero scandalosamente usati per la costruzione di vari edifici, e per decorare diverse case e giardini privati, diventando cosi collezioni private e poi della chiesa.

RICOSTRUZIONE 3D
Del bellissimo Foro è rimasta solo la Colonna Traiana, nel secolo IV d.c., i rilievi con i Daci, e le statue di Daci vennero inserite nell'Arco di Costantino (315 d.c.). Poi fu la volta delle invasioni dei barbari e nel 663, l'imperatore bizantino Costante II Eraclio ne prelevò alcune statue in bronzo e forse anche la statua di Traiano, di bronzo dorato, che era in cima alla Colonna (scomparsa poi misteriosamente).

All'inizio del XI secolo una piccola chiesa (San Niccolò de Columna) è stata sistemata proprio nella base della Colonna Traiana; oggi è ancora visibile l’impronta scavata, sotto forma di tetto, sopra l'ingresso, distruggendo una parte dell’antica iscrizione di questo monumento.  La chiesa fu demolita probabilmente all’occasione della visita a Roma dell'imperatore Charles Quint (Carlo V), nel 1546.

Nel Medioevo una gran parte dei preziosi marmi colorati vennero razziati tanto nelle costruzioni quanto nella scultura contemporanea. La Colonna di Traiano è stata salvata grazie a un decreto del Senato Romano, datato il 27 Marzo 1162, il quale dichiarava, minacciando la morte, il divieto di distruggere o danneggiare, e il quale prevedeva la tutela di questo monumento lasciato da Roma imperiale alla città santa.

Il decreto salvò la Colonna di Traiano, ma, purtroppo, non le altre zone del Foro di Traiano, che hanno continuato ad essere razziate, soprattutto nel XVI secolo, per costruire nuove chiese.



LA STORIA

La storia inizia di fronte al Dio Danubio, si interrompe una sola volta, nell'intervallo fra le due guerre per presentare una Vittoria alata, concludendosi con le rappresentazione della notte. 

Accentuava il rilievo una vasta policromia, soprattutto di azzurro, bianco e carminio, forse, come usava con nomi di luoghi e personaggi, oltre a varie armi in miniatura in bronzo sparse in mano ai personaggi (spade e lance non sono infatti quasi mai scolpite), e ora del tutto perdute.

Le scene sono ambientate nei contesti effettivi con rocce, alberi e costruzioni, riferendosi ad episodi specifici chiari nella mente dell'artefice, si che si è pensato per questo avesse partecipato alle imprese. 

Alcune scene, come la mietitura del grano (scena 83) precisano il periodo delle battaglie, in estate, quando appunto si svolsero gli avvenimenti della II campagna dell'ultima guerra.

La figura di Traiano è raffigurata 60 volte con la scena che converge su di lui, come convergono gli sguardi degli altri personaggi su di lui. Spesso è alla testa delle colonne in marcia, rappresentato di profilo e con il mantello gonfiato dal vento; sorveglia la costruzione degli accampamenti; sacrifica agli Dei; parla ai soldati; li guida in battaglia; riceve la sottomissione dei barbari; assiste alle esecuzioni. 

Tutta l'opera è improntata al valore dell'esercito romano e alla bravura del suo imperatore, una movimentata sequenze di scene a volte frenetiche, o festose, o pacate e riflessive ma per poco, perchè seguono scene drammatiche e quasi apocalittiche, con un ritmo incalzante e temi sempre nuovi. In definitiva però la colonna descrive Traiano com'era, un uomo giusto in patria, generoso e rispettoso degli umili, coraggioso nel difendere l'impero, capace e solerte come generale, temuto dai nemici ma adorato dai soldati.

Questa narrazione si svolge dal basso verso l’alto e da sinistra a destra e ha inizio con l’attraversamento da parte dei Romani del Danubio su un ponte di barche. E' l'inizio delle grandi guerre daciche, nell'odierna Romania, che tennero in sospeso il fiato dell'impero romano.




LE SCENE


Da C. Cichorius, Die Reliefs der Trajanssäule, Berlino 1896-1900.

CAMPAGNA DEL 101 - 

Le sceneDescrizione Immagine
2-3La base della colonna con i trofei dei vinti, oltre alla porta che conduce alla camera mortuaria dell'imperatore e la scritta:
SENATUS POPOLUSQUE ROMANUS,
IMPERATORI CAESARI DIVI NERVAE FILIO NERVAE, TRAIANO AUGUSTO GERMANICO DACICO PONTIFICI, MAXIMO TRIBUNICIA POTESTAS XVIII IMP VICOS VI PP, AD DECLARANDUM QUANTAE ALTITUDINIS MONS ET LOCUS TANTIS OPERIBUS SIT EGESTUS 
4Fortificazioni romane lungo il Danubio, con torri di avvistamento, cataste di legname e covoni di fieno.
5L'esercito romano prepara le barche per passare il Danubio. A sinistra sono visibili alcune torri di avvistamento presidiate da soldati ausiliari, con fiaccole di segnalazione sulle balaustre; a destra è visibile un forte sempre ausiliario.
6Barche romane sul Danubio, con approvvigionamenti per l'esercito, in partenza per la prima campagna del 101. Sulla destra la divinità del fiume Danubio. Sullo sfondo la fortezza legionaria di Viminacium o di Singidunum.
7I romani passa il Danubio su due ponti di barche, entrando in territorio nemico, verso Tapae, dove si snoderanno in almeno due colonne di marcia (da Viminacium e Singidunum). I legionari sono in lorica segmentata, due legati legionis sono alla testa delle due colonne, insieme ai signiferi.
8L'esercito romano approda all'altra riva del fiume,vi sono alcuni cavalieri appiedati, gli equites singulares, la guardia a cavallo dell'Imperatore, oltre ad alcuni soldati muniti di lance, probabilmente la guardia pretoriana (Coarelli). In testa alla colonna l'imperatore Traiano.
9Su una tribuna in muratura appare seduto, Traiano tra due ufficiali ( Lucio Licinio Sura a sinistra). Un gruppo di littori sullo sfondo. Nella scena successiva, alcuni cavalieri ausiliari e dei signiferi muovono verso un accampamento militare.
10Nell'accampamento romano (con le tende dei soldati, le insegne militari, e l'aquila), nel Praetorium, l'Imperatore liba da una patera su un altare, circondato da sacerdoti. Al di là delle mura, i tubicines accompagnano la processione dei Suovetaurilia, con gli animali del sacrificio (toro, scrofa e montone) per purificare l'accampamento e l'esercito (lustratio).
Più a destra troviamo l'Imperatore che da una tribuna osserva un fatto bene augurante: un disertore in fuga, con la clava nella destra, sta cadendo a terra da un mulo, non essendo riuscito ad uccidere Traiano su istigazione di Decebalo.

11Da una tribuna Traiano, tra due alti ufficiali del suo stato maggiore, parla alle truppe (adlocutio) vestite in lorica segmentata, con ausiliari con corazza in cuoio e scudo ovale e signiferi in prima linea.
A destra della scena, dei legionari iniziano a costruire opere di fortificazione e approvvigionamento, per facilitare le comunicazioni in territorio dacico, man mano che avanzano. Ci sono soldati che trasportano tronchi, pietre e scavano fossati davanti alle mura degli accampamenti, mentre alcuni ausiliari sono di guardia.

12Soldati che costruiscono fortificazioni, terrapieni, fossati e un ponte (sulla sinistra), mentre Traiano, tra due collaboratori, ispeziona i lavori. Alcuni soldati vigilano su un accampamento di forma circolare, altri trasportano tronchi (in alto).

13Mentre i soldati vigilano sull'accampamento circolare, altri ancora attingono acqua presso un ponte, altri abbattono alberi nella foresta (in alto e a destra dell'immagine), per costruire una strada. Traiano dall'alto di un colle, affiancato da un collaboratore, mostrare la direzione della via in costruzione che conduce nel regno di Decebalo.

14Traiano sulla sinistra, assistito da soldati ausiliari, controlla l'avanzamento dei lavori. Viene eretta dai legionari una palizzata di legno al cui interno si vedono covoni di paglia e fieno per l'approvvigionamento della cavalleria. Sulla destra ancora l'Imperatore, tra due collaboratori, che guarda degli exploratores che gli conducono un prigioniero Dace per l'interrogatorio.

15Ancora gli exploratores conducono il prigioniero Dace dall'Imperatore per essere interrogato. Poi Traiano, dall'alto di un accampamento fortificato, tra i due collaboratori, ispeziona i lavori dei legionari che stanno costruendo un nuovo ponte fisso sul fiume, mentre altri legionari scavano un fossato con le ceste.
16Sullo sfondo dell'accampamento, un reparto di cavalleria ausiliaria pronto si mette in marcia per attraversare un ponte, per attaccare le schiere dei Daci.
17Le legioni romane avanzano, precedute dalle insegne e seguite dai cavalieri ausiliari. Davanti a loro altri legionari stanno abbattono gli alberi di una foresta, per costruirvi una strada di passaggio.
18Le legioni romane avanzano, mentre Traiano, dall'alto di un accampamento, ottiene le teste mozzate dei Daci. Un gruppo di cavalieri ausiliari si lancia nella battaglia, secondo Coarelli la battaglia di Tapae.
19Battaglia di Tapae: un auxilia romano-barbaro, armato di clava ed a torso nudo attacca i Daci e ai suoi piedi alcuni caduti daci. Un altro ausiliario romano si batte tenendo tra i denti i capelli di una testa mozzata. Al di sopra di romani e daci, si erge Giove Tonante a mezzo busto che fulmina i Daci. A destra le insegne daciche a forma di drago, i corpi dei feriti e dei caduti, oltre al volto di Decebalo nascosto nella vicina foresta.

20In alto a sinistra, Traiano, tra due collaboratori, tiene una lancia con la punta in basso come "presa di possesso dei territori" conquistati dopo la vittoria di Tapae. Più a destra, in basso, due soldati romani bruciano un villaggio dace mentre i suoi abitanti fuggono. In alto una città sulle cui mura sono esposte aste con infissi dei teschi di romani delle precedenti campagne di Domiziano. Più a destra, legionari romani traversano una foresta e un fiume. Un legionario in alto si è denudato e solleva sopra la testa lo scudo e l'equipaggiamento. Ci sono un tubicen ed un signifer.

21Traiano, dall'alto di un pulpito, arringa le truppe sotto di lui ed impugna una lancia a doppia punta. Da destra alcuni ambasciatori daci, tre dei quali a cavallo, si avvicinano. Ancora più a destra una fortificazione romana in cui vigilano due sentinelle. Poi Traiano, di fronte all'accampamento romano, riceve l'ambasceria dei Daci.

22Una carica di cavalleria romana appicca il fuoco ad un villaggio, mentre sotto di loro un'armata romana di auxilia massacra gli abitanti in fuga. Poi un gruppo di donne con un bambini, deportati sotto gli occhi di Traiano che indica una barca ad una donna di alto rango con bambino in braccio. Sotto una grotta, con animali morti.



CAMPAGNA INVERNO 101/102


Le sceneDescrizione Immagine
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E' l'attacco dei Daci e degli alleati Roxolani dell'inverno del 101/102 alle fortificazioni romane della provincia di Mesia inferiore. In basso cavalieri Daci sembrano trovare grosse difficoltà nell'attraversare il Danubio. In alto sulla destra, un gruppo di cavalieri catafratti roxolani sta caricando verso una fortezza romana, identificabile con Oescus sul Danubio.

24L'esercito romano è assediato dalle truppe dei Daci di Decebalo in una fortezza lungo il limes moesicus (Oescus o Ratiaria). Le uniformi dei romani sembrano più che altro appartenere agli auxilia piuttosto che alle legioni romane. Forse perchè un intero tratto di limes danubiano fu posto sotto assedio dalle armate daciche. Ai piedi della fortezza, sulla destra, sembra riconoscersi un disertore romano, ricordato anche nelle fonti letterarie.

25Un grande pino sulla sinistra indica la netta divisione tra la scena precedente e l'attuale, per una contemporaneità di azioni, in due luoghi però distinti e distanti. Qui la Classis Moesica (Mesia superiore) sta caricando provviste e armati, pronti a salpare per prestare soccorso alle truppe assediate della provincia romana di Mesia inferiore. Sullo sfondo una città con un anfiteatro, lungo le sponde del Danubio e che potrebbe essere il "quartier generale" di quegli anni di Traiano: Viminacium. Di fronte alla città, il porto fluviale con due imbarcazioni ormeggiate, che caricano provviste per la campagna militare. Sulla destra Traiano vigila sull'imbarco delle truppe, insieme a collaboratori e portatori di insegne. Poco oltre a destra di Traiano, un arco trionfale, sormontato da una quadriga e più in alto, e un altro arco.

26Altre due navi da carico, trasportano soprattutto cavalli e vettovaglie. Accanto a loro più a destra due navi a remi (liburnae), cariche di truppe e rematori per soccorrere la provincia invasa da Decebalo, più ad oriente. Quella in basso, il Coarelli pensa sia l'ammiraglia della flotta, pilotata dall'imperatore stesso. Ancora più a destra le truppe sbarcano in Mesia inferiore, di fronte ad una fortezza romana, sempre sotto l'occhio vigile di Traiano.

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Le armate romane si incamminano verso i luoghi dello scontro, lungo il limes moesicus (confine con la Mesia). Traiano a cavallo precede delle truppe ausiliarie (in alto uomini barbuti, forse le popolazioni germaniche alleate, in basso reparti di cavalleria), in una zona boscosa. Davanti a loro due exploratores, che sembrano aver individuato l'esercito nemico.
28La cavalleria ausiliaria romana si lancia all'inseguimento dei cavalieri catafratti roxolani, procurando loro le prime perdite. Lo scontro potrebbe essere avvenuto presso la futura città di Nicopolis ad Istrum, fondata successivamente da Traiano per onorarne la vittoria. Sono, infatti, rappresentati alcuni cavalieri sarmati in fuga, uno dei quali a giace sul terreno morto, un altro ferito a cavallo, prossimo a crollare a terra, ed infine un altro ancora, che voltandosi, lancia una freccia in direzione della carica della cavalleria romana.
29Dall'albero sulla sinistra, si apre una scena di battaglia notturna. Lo si deduce dalla rappresentazione della notte (alla destra dell'albero), che si copre il capo. In basso sulla sinistra "alleati" germani, seminudi ed muniti di mazze, insieme ad un corpo di ausiliari romani, attaccano i Daci, facendone grande strage. Più a destra ancora, reparti ausiliari romani circondano il nemico con grande impeto anche da una seconda parte. In alto su una collina, si intravedono i carriaggi dei Daci, contenenti forse il bottino catturato nell'invasione della provincia di Mesia inferiore. In basso un dace ferito, cerca di estrarre una freccia dal petto. La scena si conclude con un altro albero.

30Al centro Traiano, in alto su una tribuna tra tre suoi luogotenenti, all'interno di un accampamento romano in costruzione, riceve tre notabili daci che si arrendono. Più a sinistra in basso, una lunga fila di vecchi, donne e bambini, con le mani tese verso terra in segno di resa e di richiesta di aiuto. A destra dell'imperatore, in alto numerosi legionari marciano verso un nuovo scontro contro il nemico, preceduti da portatori di insegne e da trombettieri; in basso alcuni ausiliari, legano prigionieri daci, mentre più a destra un legionario riceve le cure dei medici dell'esercito.

31Sulla sinistra un ausiliario romano viene curato ad una gamba da un medico militare. Alle loro spalle fanti legionari, preceduti da portatori di insegne e trombettieri. Al centro della scena in basso, Traiano (seguito da un suo luogotenente (che Coarelli identifica con Lucio Licinio Sura), che riceve un prigioniero dace, scortato da un ausiliario, forse per essere interrogato. In alto due carri trainati da una coppia di muli ciascuna, portano una balista. Sulla destra si vede uno scontro tra Daci (in alto) e legionari/ausiliari romani (in basso).

32I legionari/ausiliari romani circondano i guerrieri daci. Al centro la fuga dei Daci, ormai sconfitti dai Romani. In basso a destra i cadaveri e i feriti daci. In alto tre cavalieri romani che rincorrono guerrieri daci in fuga verso la vicina foresta, dove cercano scampo. Coarelli evidenzia che in nessuna scena sono presenti morti romani.
33A centro Traiano, che arringa le truppe riunite. Ai suoi fianchi due alti ufficiali (quello di destra sembra Lucio Licinio Sura). A sinistra sono schierati reparti di cavalleria; in basso dei fanti ausiliari insieme a truppe alleate barbare; a destra invece legionari, pretoriani e signiferi. A destra un accampamento romano, al cui interno sono presenti dei prigionieri daci.

34A sinistra Traiano, seduto su una sedia, con ai lati tre ufficiali dell'esercito romano, distribuisce donativa alle truppe ausiliarie. Un ausiliario ringrazia l'imperatore facendo gesto di baciargli la mano, mentre un altro porta con sé un sacco sulla spalla. In basso a sinistra, due soldati si abbracciano e baciano, altri levano le mani verso l'imperatore in segno di saluto. Nella scena a destra, alcune donne stanno torturando con delle fiaccole tre uomini nudi (probabilmente prigionieri romani). In basso una torre. Ancora più a destra si intravede la poppa di una nave romana, oltre ad alcuni ausiliari romani e daci (che sembrano prostrarsi).




CAMPAGNA DEL 102


Le sceneDescrizione Immagine
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A sinistra l'imbarco di Traiano su una nave da guerra, dal porto di una città fortificata dove alcuni Daci gli rendono omaggio. Alcuni soldati romani stanno caricando una nave da carico, dove sono presenti sulla poppa due insegne romane. Nella nuova campagna della primavera del 102 le truppe sfilano su un ponte di barche. Al comando un legatus Augusti pro praetore, dietro di lui alcuni signiferi e due insegne legionarie: un'aquila e un ariete. Il passaggio del Danubio di questo primo esercito sembra sia stato tra Oescus e Novae.

36In basso un gruppo di cavalieri romani; al di sopra di un muro, la fanteria legionaria; al di sopra di una staccionata, i carriaggi, chiusi sopra da un altro muro. Sulla destra una torre circolare. Più a destra Traiano tra due ufficiali, dall'alto di un castrum fortificato, sembra ricevere l'armata che sale la collina lungo una strada con parapetto di legno.

37A sinistra una montagna scoscesa con una porta. Segue Traiano con un gruppo di soldati che portano due insegne, che si incontra con altri soldati con un paio di insegne, davanti ad un accampamento fortificato. Secondo Coarelli l'arrivo dell'imperatore in Dacia con i rinforzi. Alle loro spalle un albero che rappresenta una foresta presa d'assalto dalle truppe romane, che provvedono a tagliare alberi, trasportare terra, mentre Traiano sulla destra, incontra dei messaggeri daci. In alto, nascosto dagli alberi un edificio in muratura.

38A sinistra due messaggeri daci incontrano l'imperatore, in basso due soldati trasportano della terra in ceste, in alto altri soldati tagliano alberi e trasportano legna. Al centro: un accampamento, con sulla sinistra, Traiano s capo velato davanti a un altare e un gruppo di signiferi che celebra la funzione religiosa dei Suovetaurilia. In basso la processione con un toro, un montone ed un maiale. In testa alla processione suonatori di tubicen.

39In alto e al centro, Traiano pronuncia un'adlocutio ai soldati. Alle spalle un alto ufficiale, di fronte alcuni signiferi, in basso le truppe riunite con in primo piano le truppe ausiliarie. Sulla destra avanzano dei legionari in salita, mentre davanti altri legionari abbattono alberi, dopo aver deposto scudi e elmi, per avanzare nelle foreste della Dacia.

40Mentre i soldati abbattono alberi, altri raccolgono terra per la strada dove possano passare le truppe. Sullo sfondo un accampamento fortificatocon due teste di Daci sulle picche. A destra due cavalieri ausiliari alla testa della colonna militare romana. In alto un ausiliario che appicca fuoco ad un forte in legno dei Daci.

41Traiano avanza a cavallo su un ponte in legno, seguito da alcuni cavalieri (Equites singulares). In alto una fortezza dacica, in cima ad una montagna. In basso sulla sinistra, tre ausiliari assistono all'avanzata del loro imperatore. Dall'alto dei monti un gruppo di Daci, uno dei quali tiene tra le mani un'insegna, assiste all'avanzata romana a Sarmizegetusa Regia, capitale dei daci. Sotto a destra, due ausiliari danno alle fiamme altre fortificazioni daciche.

42I legionari costruiscono un nuovo accampamento ponendo mattoni lungo le mura e scavando un fossato (forse la Ulpia Traiana Sarmizegetusa). In alto tre legionari sorvegliano l'operato. Al centro Traiano, affiancato da quattro comes (tra cui Licinio Sura), davanti all'accampamento per ricevere un nobile dace che pone lo scudo ai piedi dell'imperatore e si inginocchia. Ne scrive Cassio Dione Cocceiano, aggiungendo che, in seguito all'incontro, Licinio Sura fu inviato insieme al prefetto del pretorio, Tiberio Claudio Liviano, a discutere i termini di un trattato di pace. Alle spalle del nobile dace un ufficiale romano, dei suonatori di corno (cornicines), dei signiferi, un vessillifer dell'aquila e più sopra alcuni soldati. In basso sulla destra, un carro che trasporta le botti.

43Sulla sinistra, carri che trasportano botti, trainati da coppie di buoi e muli, sotto scorta di legionari, verso un accampamento romano. Le mura esterne sono sorvegliate dai legionari. Al centro una grande tenda. In alto tre edifici circolari Daci, tra gli alberi di una foresta, sono presi d'assalto dai legionari. A destra in basso, alcuni ausiliari romani.

44In alto a sinistra, altri edifici circolari; il quinto è invece quadrato e di maggiori dimensioni, forse Sarmizegetusa Regia) posti tra le montagne e la foresta della Dacia, sono presi d'assalto dai legionari. In basso continua l'avanzata delle truppe ausiliarie. Al centro Traiano, sopra ad una collina, parla coi suoi collaboratori. Davanti all'imperatore, tutto sulla destra, sette cavalieri ausiliari mauretani, senza sella e briglie, con un abbigliamento tipico, si lanciano alla carica.
45La carica della cavalleria maura, sotto la guida di Lusio Quieto, si abbatte sull'esercito dei Daci che si rifugia nella foresta dove alcuni cadono e vengono calpestati.
46I legionari romani costruiscono un nuovo accampamento fortificato tra le colline della Transilvania, nel regno di Decebalo. Sulla sinistra sono protetti da un gruppo di ausiliari, sulla destra in basso da una carroballista trascinata da una coppia di muli; in alto Traiano, con i comes, riceve due nobili daci pileati, il primo dei quali bacia le mani a Traiano. In basso, ai piedi dell'imperatore, un soldato assiste al trasporto di una carrobalista, posta su un carro condotto da due muli.

47In alto a sinistra, alcune baliste poste in cima a delle mura di un accampamento romano. Sotto i legionari schierati tra cataste di travi in legno, tra cui dei ballistarii intenti a caricare una balista. Poi degli ausiliari, tra cui frombolieri (in primo piano) e arcieri orientali (in alto, nascosti nella foresta), che cobattono contro i daci fuoriusciti da un bosco.

48In alto su alcune fortificazioni in legno, un paio di Daci manovrano una balista sottratta ai Romani. Sotto, le truppe dei Daci avanzano nella foresta, alcuni abbattono alberi per costruire nuove fortificazioni. In alto un grande edificio in muratura, per Coarelli la capitale dacica, Sarmizegetusa Regia, che sorgeva sulle Alpi Transilvaniche.

49Dei legionari romani costruiscono un nuovo accampamento fortificato. Sulla destra, in alto, Traiano con quattro comes riceve un nobile dace con le mani legate, scortato da due ausiliari, sullo sfondo di un bosco. Ai piedi dell'imperatore numerosi ausiliari che lo proteggono. Sulla destra altri legionari che abbattono alberi, forse per una nuova strada in territorio nemico. In altro alcuni ausiliari romani avanzano.

50Battaglia tra daci romani. Tra gli ausiliari reparti di sagittarii orientali (forse Palmireni, per il copricapo a tiara) e truppe germaniche (con scudi, asce e a petto nudo). Alcuni Daci ripiegano verso le retrostanti fortificazioni (sulla destra), altri giacciono in terra (in basso).

51I legionari attaccano una fortificazione a difesa della capitale, in formazione a testuggine. Sulla destra in alto, Traiano assiste alla battaglia con due collaboratori, protetto alle spalle da cinque ausiliari. Due ausiliari giungono portando due teste mozze di capi Daci. Sempre più a destra un gruppo di legionari schierati, pronti alla battaglia.

52In basso la battaglia è iniziara, in alto truppe daciche che assistono dalle fortezze sulle Alpi Transilvaniche. Sulla destra i Romani, con alle spalle la fanteria legionaria; davanti le truppe ausiliarie di frombolieri e truppe germaniche. Molti daci vengono sopraffatti e giacciono a terra. Altri combattono ancora. Sulla destra Traiano, in un accampamento in muratura e con tre ufficiali, che arringa le truppe (adlocutio).

53Le truppe sono arringate dall'imperatore mentre attorno all'accampamento altri legionari sistemano il terreno e abbattono alberi. Alcuni attingono acqua ad un fiume, altri due si caricano sulle spalle dei contenitori. In alto una fortezza romana circolare ed altre fortificazioni, che le truppe romane circondano e attorno alle quali sembrano trasportare molti beni forse sottratti ai Daci.

54Le legioni sono schierate attorno a Traiano seduto sulla sua sella curule che, dall'alto di un podio in muratura, riceve ambasciatori daci che chiedono la pace, inginocchiandosi ai suoi piedi. Alle spalle dell'imperatore, le insegne militari romane e il comando militare imperiale. Sfilano sulla destra numerosi prigionieri daci, con le mani legate dietro la schiena. Alle loro spalle numerosi nobili daci in ginocchio, con le mani protese in segno di clemenza e sottomissione nei confronti dell'imperatore. In alto la capitale dei Daci, Sarmizegetusa Regia, ancora sotto assedio dei romani.
55Numerosi guerrieri e nobili daci, deposte le armi, sono inginocchiati, alle loro spalle numerosi stendardi ed insegne militari (tra cui due dracones). Sulla destra Decebalo che tende le mani in segno di resa, e alle sue spalle alcuni guerrieri daci che smantellano le mura, secondo le le condizioni di resa romane.
56Sullo sfondo appare una città, dorse Sarmizegetusa Regia, due daci ne demoliscono le mura mentre sulla destra donne e bambini, oltre ad uomini con animali domestici (capre, pecore e buoi), migrano verso altri luoghi, abbandonando i loro territori: inizia l'occupazione romana della Dacia. Sulla destra Traiano, pronto a partire che dall'alto di un podio, arringa per l'ultima volta le truppe, le quali lo acclamano dandogli il titolo vittorioso di Dacicus.

57La fine della I guerra dacica è rappresentata da due trofei di guerra, un cumulo di armi tolte al nemico con un palo su cui è ricostruita un'intera armatura dace. Si riconoscono le corazze loricate, i totem a testa di lupo e gli elmi ogivali dei Daci. Una vittoria alata scrive su di uno scudo sancendo la fine della I campagna di guerra. Dopo questa immagine c'è uno stacco temporale con l'inizio della II guerra dacica.


Campagna del 105 - Seconda Guerra Dacica

Le sceneDescrizione Immagine
58

La flotta romana è in partenza da un porto adriatico, che alcuni autori identificano con Brindisi; altri con Ancona;
altri con Classe, il porto di Ravenna.
Le navi militari con le vele ammainate sono triremi e biremi; con a poppa le cabine dei capivoga e i timonieri (il timone nelle navi romane era un remo più largo del normale), mentre a prua si osservano i rostri e le decorazioni: occhi apotropaici, tritoni e ippocampi. Due cittadini si affacciano dalla città verso il porto muniti di fiaccole. Le onde del porto sono notevolmente increspate.
Sulle navi, i rematori, pronti a partire, ascoltano l'imperatore che, posto su una nave centrale e illuminato da una lanterna pendente dall'aplustre, li incita a partire nonostante il vento forte e la notte. Sulla nave sono già stati imbarcati il labaro e le insegne romane. A sinistra della scena si scorgono:
- un tempio sopra una collina; con la divinità all'esterno, e non dentro alla cella, per permetterne l'identificazione con Venere (noto attraverso Catullo e Giovenale e  i cui resti sono visibili al di sotto dell'attuale duomo);
- una strada a tornanti che collega il tempio al porto sottostante;
- un altro tempio, posto sulla riva del mare e ai piedi della collina ( il tempio di Diomede, noto attraverso Scilace; del colonnato è stato recentemente ritrovato un tratto interpretato come recinzione del foro che si affacciava sul mare con una terrazza);;
- un molo alla cui estremità sorge un arco trionfale con tre statue: Mercurio, Nettuno e Portuno (i cui resti sono ancora visibili);
- un colonnato a metà pendio della collina;
- un edificio ad archi nei pressi del porto (sono stati recentemente ritrovati i resti, parte dei cantieri navali di età traianea).
Questi elementi ricondurrebbero qundi ad Ancona, che Traiano aveva ampliato per facilitare i contatti tra Italia ed Oriente.

59Si osservano infatti le prue delle navi già osservate nella scena 58 e la continuazione della banchina del porto. Ad alcuni però sembra che le biremi e le triremi ora attracchino in un diverso porto della costa adriatica (italica o illirica), e che il porto sia diverso da quello precedente, accettano che le navi siano rappresentate con la poppa in un porto italiano e la prua in un altro scalo o addirittura in Illiria.
Si nota sulla banchina un toro pronto al sacrificio agli dei. Una folla, tra cui un ragazzino, saluta i soldati romani al remo. Mentre nella scena 58 le navi sembrano ferme, dato che i rematori sono intenti ad ascoltare Traiano, nella parte destra, le navi possono essere in movimento, dopo la fine del discorso dell'imperatore. Un esempio della capacità di sintesi e di comunicativa dell'arte romana.

60Si scorge un grande foro con un grande tempio al centro. mentre Traiano riceve gli omaggi della popolazione.
61Nuova partenza e nuova tappa della flotta di Traiano ed un nuovo sbarco (considerando il precedente porto a Brindisi, questo potrebbe essere ad Ancona). L'intera popolazione con donne e bambini sfila sotto un arco (forse quello di Traiano), e segue l'Imperatore che va a celebrare i sacrifici per la nuova campagna militare.

62L'Imperatore continua la sua marcia verso destra in processione, dove l'attendono quattro tori per il sacrificio. La folla osserva, sulla destra un gruppo di persone saluta Traiano che sta arrivando, due legionari sullo sfondo con un paio di insegne, osservano dall'alto delle mura di un accampamento.

63Ancora il molo di una città portuale attraverso cui marcia Traiano; è il quarto scalo. Traiano si appresta a compiere un nuovo sacrificio (un toro a terra, a fianco dell'Imperatore). Sullo sfondo un teatro, un tempio ed un portico, oltre alle mura. Forse si tratta del porto della città di Aquileia, da dove cominciava la via Gemina, che avrebbe condotto Traiano lungo la Sava fino al Danubio, presso le fortezze di Singidunum e Viminacium.
64In alto sulla sinistra, le imbarcazioni sono nel porto. L'esercito in abiti da viaggio segue Traiano, allontanandosi dalla costa adriatica. Alle spalle un carro ed una città fortificata, forse una città di confine.
65Traiano a cavallo con un gruppo di otto cavalieri (comites Augusti o equites singulares). Sullo sfondo delle fortificazioni romane, sulla destra un gruppo di barbari o daci o peregrini (sei adulti e tre bambini) che gli viene incontro con le mani protese in segno di saluto e sottomissione.

66Sotto un edificio ad arco, Traiano compie un sacrificio su un altare di fronte a una folla di Romani e Daci. Accanto all'imperatore un suonatore di flauto, una ragazza ed un ragazzo. Sullo sfondo gente che assiste: quattro tori condotti al sacrificio da quatto addetti, ciascuno a fianco di un altare. Coarelli suppone sia avvenuto sul luogo della battaglia di Tapae, presso la fortezza di Ulpia Traiana Sarmizegetusa. Il fatto che ci siano Romani e Daci fa pensare ai territori del Banato.
67I legionari abbattono alberi, scavando e spostano la terra per costruire strade, ponti (in basso, sulla sinistra) e fortificazioni (in alto) onde avanzare in territorio nemico.
68Un gruppo di Daci si avvia verso una città fortificata in mezzo alle montagne (in alto sullo sfondo) ed una serie di altre fortificazioni dace, dove sembra si stia tenendo un consiglio di guerra presieduto da Decebalo. Da ogni parte convergono armati dei Daci.
69Soldati romani, dall'alto di una fortezza, combattono contro le truppe daciche, alcuni Daci giacciono a terra, mentre altri cercano di difendersi.
70I daci assaltano una triplice linea di fortificazioni romane, forse il limes della Dobrugia, costruito da Domiziano durante la sua prima campagna dacica (tra l'85 e l'89), e potenziato da Traiano forse nel periodo 103-104. All'interno delle fortificazioni un legatus Augusti impartisce ordini per organizzare la difesa, forse il legatus Augusti pro praetore della Mesia inferiore.
71Traiano, in testa alla cavalleria romana si lancia in soccorso del legatus Augusti della Mesia inferiore, Lucio Fabio Giusto, e respinge i Daci. Evidentemente è la campagna del 105. Frattanto altri soldati romani abbattono alberi per permettere all'armata romana di avanzare in territorio nemico.


CAMPAGNA DEL 106



Le sceneDescrizione Immagine
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Le armate romane si riuniscono presso il ponte sul Danubio che Apollodoro, durante il breve periodo di pace, aveva appena terminato a Drobetae. Traiano, che tiene in mano una patera, compie un sacrificio prima di dare inizio alla sua ultima campagna dacica.
73
A destra Traiano circondato da soldati e ufficiali che riceve ambasciatori stranieri: tra cui alcuni con il nodo suebo di origine germanica (come Quadi, Marcomanni e Buri), altri con copricapi orientaleggianti (come Bastarni e Sarmati Iazigi); popolazioni all'interno del bacino a sud dei Carpazi da cui l'imperatore sperava di ottenere aiuti militari. A sinistra sullo sfondo una fortezza e alcuni edifici pubblici, tra cui un teatro romano.
74Alcuni legionari romani, dopo aver attraversato un ponte (sulla sinistra), avanzano in territorio dacico. Sulla destra due cavalieri romani (equites singulares).
75Traiano a cavallo, in testa alla colonna, raggiunge un forte romano (Drobeta-Turnu Severin?). Ad attenderlo davanti alle mura, un folto gruppo di legionari,vexilliferi ed ufficiali di comando.
76Al centro Traiano a capo coperto nelle vesti di pontefice massimo, tiene con la destra una patera per spargere vino sull'altare durante il sacrificio propiziatorio prima della nuova campagna militare. Viene assistito da dieci personaggi. All'esterno delle mura una processione, sulla sinistra gli animali del suovetaurilia, un maiale, un montone e un toro, preceduti da quattro musici e un paio di altri inservienti. E' l'inizio dell'ultima campagna militare del 106.
77
Adlocutio di Traiano in piedi su un podio, con a fianco alcuni comites (tra i quali Lucio Licinio Sura, sulla destra) alle truppe schierate (legionari e un paio di ausiliari a cavallo), con numerose insegne militari. Un discorso formale rivolto agli eserciti schierati, per incitarli prima della campagna militare.

78All'interno di un accampamento fortificato con mura merlate e torri circolari, Traiano seduto discute con Licino Sura (alla sua destra) e altri due comites (alla sua sinistra). Gli ufficiali e Traiano sono protetti da alcuni ausiliari, uno dei quali regge un vexillum. Intanto l'esercito romano inizia la sua marcia (a destra): nella parte alta alcuni carriaggi trasportano armi (rappresentati da scudi ed elmi), in basso due file di legionari con la lorica segmentata), elmo, scudo e gladio.

79L'avanzata romana si svolge su due colonne parallele, divise sembra da una catena montuosa: in basso, numerosi legionari, dotati di elmo, sono preceduti da alcuni porta insegne (vexilliferi), trombettieri (cornicines) ed un legatus legionis; in alto, i legionari romani non indossano i loro elmi, e anche qui sono preceduti da porta insegne, trombettieri e forse lo stesso Traiano (53). Sulla destra dell'immagine un accampamento romano attende gli eserciti di rinforzo. Al suo interno alcuni soldati romani stanno scaricando i carriaggi, mentre un soldato ausiliario fa la guarda ad una porta dell'accampamento ed un altro è chino a raccogliere dell'acqua da un vicino fiume.

80In basso un piccolo forte romano cinto da mura. L'immagine mostra l'avanzata romana in territorio nemico sempre diviso in due colonne: oltre ai legionari (nella parte alta), preceduti da alcuni ufficiali romani e da trombettieri; nella parte bassa troviamo alcuni ausiliari, tra cui frombolieri, guerrieri germani e arcieri orientali (sagittarii).

81Le due colonne raggiungono un nuovo accampamento in costruzione, alla cui porta c'è un ausiliario di guardia. Alcuni legionari stanno invece mietendo grano, che poi caricano su alcuni muli, per l'approvvigionamento delle armate romane. Sullo sfondo una altro accampamento romano, al cui interno si notano numerose tende da campo. Tutto spostato sulla destra un ausiliario romano, sotto alcuni alberi, mandato in avanscoperta.

82Tre ausiliari romani (uno dei quali si trova nell'immagine precedente), mandati in avanscoperta, osservano nascosti tra gli alberi di una foresta, una fortezza dei Daci, che secondo il Coarelli potrebbe essere la loro stessa capitale, Sarmizegetusa Regia. All'interno delle mura della fortezza dace, alcuni pileati sono in grande agitazione per l'avanzata romana. All'esterno delle mura, alcuni guerrieri daci osservano il terreno e discutono su dove porre le fortificazioni a protezione della loro capitale. Nella parte in basso sulla destra si svolge un primo combattimento tra l'avanguardia romana (ausiliari) e dacica.

83Nella parte in basso, ausiliari romani lottano contro le avanguardie daciche. Nella parte alta del fregio, alcuni guerrieri daci osservano dalle montagne lo svolgersi del combattimento. Al centro dell'immagine un albero, che divide dalla scena successiva, dove due signiferi si trovano al centro di una accampamento romano. Sulla sinistra dell'accampamento due sentinelle romane. Alla destra una schiera di soldati romani (dotati anche di scale d'assedio) attacca la prima delle fortezze daciche del sistema difensivo posto attorno alla capitale Sarmizegetusa Regia.

84I Daci oppongono una strenue resistenza dall'alto delle mura, lanciando pietre sui soldati romani assedianti, i quali a loro volta, muniti di scale, lanciano anch'essi dardi e pietre. Un ausiliario romano, arrampicatosi in cima ad una scala, dopo aver affrontato il nemico, tiene in mano la testa del dace decapitato, mentre il suo corpo giace riverso appoggiato alle mura. Las battaglia infuria lungo un ampio tratto delle mura daciche, ai piedi delle quali giace morto un guerriero dace.

85Traiano, ai piedi della fortezza dace, assiste all'assedio, circondato dai suoi collaboratori (comites militares) e seguito da reparti di truppe ausiliarie e legionarie. Forsae pensa alla tattica da adottare per dare l'assalto alle mura nemiche, dotate di numerose torri. Sulla destra, vicino alle mura, sono presenti numerose macchine d'assedio romane, stilizzate per esemplificare la scena e non perderne l'effetto.

86Un albero separa la scena da quella precedente. I Romani avanzano: legionari, ausiliari (in basso), arcieri orientali e germani (in alto), si scontrano con l'esercito dei Daci che esce dalle mura di una città (sulla destra). Al centro, alcuni soldati daci giacciono a terra morti, calpestati dall'avanzata dei legionari romani. Alla testa dei Daci un guerriero pronto a scagliare sui Romani un grosso masso, seguito da altri compagni d'arme. All'interno della città regna la preoccupazione per le sorti della battaglia che si svolge poco fuori le mura.

87L'attacco dei Romani alle mura procede, dopo aver vinto la precedente battaglia. E mentre i Daci cercano di difendere la città sotto assedio, alcuni legionari romani, muniti di picconi, tentano di abbattere la cerchia muraria (in basso). Un gruppo di ausiliari assalta invece un altro settore delle mura, mentre alcune pietre sembrano ricadere sugli assedianti (in alto a destra).
88Numerosi legionari sono indaffarati nell'abbattere alberi per la costruzione di macchine d'assedio adatte ad espugnare la città dei Daci.
89Traiano accoglie un nobile dace, circondato da comites militares (sulla sinistra). Il dace, inginocchiato, tende le mani verso l'imperatore romano, in segno di resa. Numerosi soldati disposti su due schiere assiste alla scena. Due alberi sulla destra dividono dalla scena successiva.
90Alcuni Daci stanno dando fuoco alla città, dotata di mura, portoni, torri e abitazioni, per impedire che i Romani si impadroniscano delle loro ricchezze e possano approvvigionarsi.
91All'interno delle mura della città (in basso, in primo piano) alcuni Daci preferiscono darsi la morte ingerendo del veleno, piuttosto che cadere in mano ai Romani. Sulla destra alcuni pileati distribuiscono infatti, da un grosso contenitore posato a terra, dosi di veleno. E numerosi uomini in coda protendono le loro mani, pronti a riceverle. Sulla destra un dace è sorretto da un pileato, mentre un altro sembra distribuire una dose di veleno. Ai loro piedi un altro dace giace riverso.
92Numerosi daci invece fuggono dai Romani e dalla città sddediata, verso la parte destra della scena, in direzione delle vicine foreste (simboleggiate da un albero, che chiude la scena).
93In questa scena numerosi legionari romani disposti su tre file, preceduti da un signifer e da un paio di cornicines (suonatori di tromba), scortano Traiano, affiancato da un paio ci alti ufficiali dell'esercito romano (comites militares). L'imperatore romano sembra accogliere la resa di alcune genti daciche, che protendono le loro braccia e si inginocchiano in segno di richiesta di perdono. Alle spalle dei Daci una foresta delle mura appartenenti alla scena successiva.
94
I Romani entrati in città, stanno riempiendo e trasportando via numerosi sacchi con gli averi che i Daci hanno abbandonato. All'interno della città, le cui mura corrono nella parte bassa del rilievo, notiamo un muro trasversale, che potrebbe rappresentare per il Coarelli l'accampamento romano.
Ancora Traiano posto su un rialzo, affiancato da un ufficiale romano, sembra tenere un discorso alle truppe schierate all'interno della città-accampamento. Sono presenti numerosi legionari (anche alle spalle dell'imperatore romano), ausiliari e signiferi. I soldati romani lo acclamano imperator, levando le mani verso di lui, e Coarelli ritiene si tratti della V salutatio imperatoria, cioè della V volta in cui le truppe lo acclamarono imperator..

95L'armata romana sembra uscire dall'accampamento (si intravede parte di una porta, in alto a sinistra, rovinata da un foro, praticato in passato per costruirvi un'impalcatura) della scena precedente (a sinistra). La scena successiva mostra alcuni legionari romani intenti a costruire un nuovo forte: alcuni scavano un fossato, altri squadrano blocchi di pietra per costruire le nuove mura.

96Da sinistra a destra si scorgono: alcuni ausiliari posti a guardia di una porta, all'interno alcune tende, un paio di insegne militari; numerosi legionari intenti a costruire un nuovo forte (parte ricurva, dove all'interno troviamo alcuni carri, carichi di botti) ed un muro; Traiano, affiancato da tre comites militares, riceve una delegazioni di Daci, che si prostrano ai suoi piedi in segno di resa.
97Dodici ausiliari romani attraversano un fiume su un ponte. Sulla sinistra, un albero che delimita la scena successiva, dove si intravede una fortezza dacica. L'avanzata romana prosegue all'interno della Dacia.
98Una fortezza, a blocchi squadrati di rocce e tronchi d'alberi, viene abbandonata dalle truppe daciche, che cercano una via di scampo dalle avanguardie romane. La scena successiva appare divisa dal solito albero. Le truppe daciche continuano la loro marcia passando non lontano da un avamposto romano fortificato (in alto), al cui interno due soldati romani stanno costruendo alcune imbarcazioni, per porle lungo un fiume, forse il Marisus (l'attuale Mureș, affluente del Tibisco), che scorre all'interno della cerchia dei Carpazi orientali.
99Durante la loro marcia, i Daci incontrano una postazione romana e tentano inutilmente di assediarla. Le truppe romane reagiscono lanciando pietre. A terra numerosi daci morti. Sulla destra, un dace che cade dalle mura romane, dopo averne tentato inutilmente la scalata. Nella scena successiva, divisa come sempre da un albero, si notano tre pileati daci all'interno (o al di sopra) di un muro di pietra, al centro dei quali vi è Decebalo, che osserva da lontano l'assalto dei suoi guerrieri alla postazione fortificata romana.
100La fuga dei Daci prosegue. In alto una fortezza abbandonata e le montagne carpatiche. Alcune truppe ausiliarie romane, oltre un albero che divide le due scene, osservano il loro imperatore, Traiano che, dall'alto di un podio (davanti a un accampamento militare), affiancato da duecomes militares (alti ufficiali), pronuncia un'adlocutio alle truppe riunite: vexilliferi e legionari (sulla destra).
101A sinistra, alcuni ausiliari romani assistono all'adlocutio dell'imperatore romano della scena precedente. All'interno di un bosco, altri legionari trasportano su muli degli oggetti preziosi, che potrebbero appartenere al tesoro del re Decebalo.
102Decebalo, insieme ad alcuni dei suoi più fedeli sudditi, medita su cosa fare. Alcuni preferiscono darsi la morte con un pugnale, altri si fanno trafiggere dai loro compagni (in basso a destra), altri ancora tentano la fuga (in alto, sulle montagne).
103Il dace in basso sulla sinistra, appartiene alla scena precedente ed è chino in attesa di essere trafitto dal compagno, che alza la spada. Traiano, assistito da ufficiali e guardie romane, all'interno di un accampamento, davanti ad una grande tenda, riceve una nuova delegazione nemica. I sei Daci sono tutti pileati e, tra di loro, il primo si prostra in ginocchio, il secondo tiene in mano un prezioso dono e leva il braccio verso l'imperatore in segno di supplica.
104La cavalleria romana si lancia all'inseguimento del re dei Daci. La scena si svolge all'interno di una foresta. Sullo sfondo le montagne dell'arco carpatico dell'antica Dacia.
105Un gruppo di cavalieri daci pileati protegge la fuga del re, ma sono incalzati dalla cavalleria romana che li insegue (in alto, oltre le montagne). Un dace è caduto a terra morente (a destra), un altro sembra stia cadendo mentre galoppa in fuga (a sinistra).
106Al centro della scena, Decebalo si toglie le vita con una spada dace a falce, all'interno di una foresta, sullo sfondo le montagne. Il re dace, raggiunto da un'unità ausiliaria dell'esercito romano in località Ranistroum (Piatra Craivii), ormai circondato, preferisce suicidarsi. Questa stessa scena è stata rappresentata sulla tomba del cavaliere Tiberio Claudio Massimo, colui che catturò e portò a Traiano la testa del re sconfitto. La scena mostra come i soldati romani, che avevano ormai circondato Decebalo, non riuscirono ad impedirne il suicidio.
107Alcuni cavalieri romani catturano un uomo inginocchiato, una donna ed un ragazzino (moglie e figlio di Decebalo?).
108Il fregio di questa scena appare molto rovinato. Si intravede un accampamento romano, un paio di guardie all'esterno, e numerosi soldati romani (all'interno) che assistono alla scena in cui viene mostrata la testa di Decebalo, appoggiata su un vassoio.
109I soldati romani setacciano ormai i territori più impervi della Dacia (rappresentati da foreste e da un animale selvatico come il cinghiale) e fanno prigionieri i capi sconfitti.
110In basso sulla sinistra, una costruzione in legno con all'interno alcuni daci, dove sembra convergano i prigionieri dei Romani (da destra e da sinistra). In alto sulla sinistra, il busto di una divinità femminile avvolta in un mantello: forse la Dacia "catturata".
Sulla destra, in alto un centro abitato, un gruppo di ausiliari romani combatte contro una delle ultime resistenze dei Daci e dei loro alleati Iazigi (identificabili dal Coarelli per i loro copricapi conici).
111Ancora una scena di cattura di un altro capo dace, da parte di ausiliari romani. In alto sulla destra, altri soldati romani con torce in mano, danno fuoco ad un villaggio dacico in legno.
112Truppe romane in marcia. Sullo sfondo, spuntano numerose teste di daci nascosti tra le montagne. Sulla destra viene rappresentata una scena (in parte rovinata) di deportazione in massa della popolazione dell'antica Dacia (uomini, donne e bambini). Le città svuotate vengono saccheggiate dai romani che le incendiano.
113La scena di deportazione precedente continua in quest'ultima dove sono presenti gli animali dei Daci (buoi, pecore e capre). Gli abitanti delle città conquistate fuggono in altro luogo insieme ai loro cari, portando i bagagli sulle spalle; portano via con sé il bestiame grosso e le pecore, le ricchezze più importanti di ciascuno e del paese; i fuggitivi sono inseguiti dai militi romani, tuttavia non vengono raggiunti. Si raffigura pure l'aspetto abbastanza leggiadro sia delle donne sia dei fanciulli [dettaglio, quest'ultimo, non più apprezzabile dal vero, ma soltanto nelle incisioni cinque-settecentesche]


I particolari della scena finale della II guerra dacica sono ricavabili soltanto dalle riproduzioni grafiche anteriori, come quelle di Ripanda, Chacón, Bellori/Bartoli, Morell e Piranesi, le quali però alle volte si basano sull'opera dei predecessori; Pietro Santi Bartoli, nel Seicento, prese le mosse dai disegni cinquecenteschi di Muziano pubblicati poi dal Ciaccone [Froehner 1865, pp. VI, IX]). 

L'inglese John Hungerford Pollen, (1820 - 1902), noto artista plastico, per la descrizione della Colonna si è servito delle riproduzioni in gesso ordinate da Napoleone III, che furono montate su due supporti cilindrici in mattone (cavi all'interno) ed esposte dal 1873 al South Kensington Museum di Londra (ora Victoria and Albert Museum).

ERODE ATTICO

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Nome: Tiberius Claudius Atticus Erode
Nascita: 101 d.c. Maratona
Morte: 177 d.c. Atene
Professione: Politico, filosofo


Tiberio Claudio Attico Erode, cittadino romano, (Maratona 101 d.c. - Atene 177 d.c.) nacque nel demo (regione) di Maratona all'inizio del II sec. d.c., da una illustre famiglia, che pretendeva discendere da Eaco, figlio di Giove e di Egina.

Ma secondo altri era discendente di Erse e Mercurio:
"Erse una delle figlie di Cecrope, la qual pure ha generati de’ figli a Mercurio, e son d’avviso che tal gruppo sia stato scoperto nello stesso luogo ove trovate furono quelle colonne che facean parte della tomba di Regilla moglie d’Erode Attico sulla via Appia, e che altre volte erano nel palazzo Farnese. Questa mia congettura acquista qualche probabilità dall’iscrizione sepolcrale, che esiste ora nella villa Borghese, della summentovata Regilla, nella quale ci dice che Erode Attico traesse l’origin sua da Cerice figlio di Mercurio e d’Erse; e quindi penso che il gruppo fosse un ornamento della tomba suddetta. "
(Johann Joachim Winckelmann )

Suo padre Attico aveva rinvenuto un tesoro che l'imperatore gli concesse di tenere e per questo divenne ricco.

Secondo altri, figlio di Vibullia Alcia Agrippina e di Tiberio Claudio Attico, un banchiere ateniese arricchitosi anche grazie all'esercizio dell'usura, e solo per questo aveva grandi disponibilità.

In realtà abbiamo la testimonianza di Filostrato (172 - 247) sull'origine della sua ricchezza (Vite dei sofisti):

“Molte furono le fonti della sua ricchezza e provenienti da varie famiglie, ma la quantità maggiore gli venne da suo padre e da sua madre.
Suo nonno Ipparco aveva subito la confisca delle sue sostanze sotto l'accusa di aspirare alla tirannide, accusa che gli Ateniesi non avevano perseguito, ma che non era rimasta nascosta all'imperatore. Attico, figlio di costui e padre di Erode, pur essendo diventato povero da ricco che era, non fu abbandonato dalla fortuna, che gli fece scoprire un tesoro immenso in una delle case di sua proprietà, nelle vicinanze del teatro.
Per l'esorbitante grandezza di esso mostrandosi più preoccupato che lieto, scrisse all'imperatore una lettera così concepita:
«Ho trovato, o imperatore, un tesoro nella mia casa. Cosa vuoi che ne faccia?»
alla quale l'imperatore (che allora era Nerva) rispose:
«Usa pure ciò che hai trovato».
Ma, persistendo Attico nella sua eccessiva prudenza e insistendo sul fatto che la quantità di quelle era superiore alla sua condizione, quello gli ripeté:
«Allora abusa di ciò che Ermes ti ha donato, perché è tuo».
E così Attico diventò ricco e più ricco ancora Erode, in quanto oltre ai beni paterni confluirono in lui anche quelli materni non di molto inferiori.”


MEMNONE FIGLIO
ADOTTIVO
Ad Atene divenne discepolo di Favorino, anche lui famoso filosofo,
ma visse molto anche a Roma e compose un gran numero di discorsi, nessuno dei quali si è conservato; una declamazione riferita a lui si rinviene nelle raccolte di oratori greci.
Venne creato console nel 143 d.c. dall'imperatore Antonino Pio, che gli dette anche l'incarico di governare la Grecia e una parte dell'Asia, e le sue ricchezze gli permisero di costruire stupendi e monumentali edifici pubblici, fra i quali lo stadio di Delfi, il teatro di Corinto e il cosiddetto "Odeon di Erode Attico" ad Atene, che esiste ancor oggi ed è sede di spettacoli. 

Aulo Gellio, il giurista romano che gli fu amico, riferisce questa scena a cui aveva assistito. 

Durante un convivio, giunse un importuno che, dandosi arie da filosofo, pretendeva gli fosse fatta la carità. 

Erode si lamentò a lungo di coloro che profanano il sacro nome della filosofia ma poi gli diede denari per trenta giorni di cibo e lo fece cacciare. 

"Gli ho dato - disse - come uomo, ma non come a un uomo".

Ancora Auro Gellio:

"Mentre eravamo studenti ad Atene, Erode Attico, uomo di rango consolare ed autentica eloquenza greca, spesso mi invitava nelle sue ville vicino alla città, insieme all'onorevole Serviliano e a parecchi altri nostri concittadini, che avevamo abbandonato Roma per la Grecia alla ricerca della cultura.
E lì una volta che eravamo con lui nella villa chiamata Cefisia, durante il calore dell'estate e sotto il bruciante sole autunnale, ci proteggevamo dalla fastidiosa temperatura con l'ombra delle sue spaziose alberature, dei suoi lunghi e gentili corridoi, la fresca collocazione della casa, le sue eleganti piscine con abbondante acqua sorgiva, il fascino della villa nel suo insieme, che era ovunque melodiosa per lo scorrere dell'acqua e per il cantare degli uccelli."

(Aulo Gellio, Notti Attiche)

ODEION DEDICATO A REGILLA

In effetti nelle sue grandiose ville private in Grecia si trovano esempi mirabili di architettura e opere d’arte, come nella villa di Kephisia dove Erode fa collocare statue commemorative dei tre protetti e figli adottivi Achilleus, Memnon e Polydeukion, raffigurati come cacciatori.
Così nella sua villa di Maratona, che richiama la Villa Adriana di Tivoli, come la componente egizia, costituita dalle statue egittizzanti di Antinoo e arricchita dal riferimento a Canopo, e la parte termale costruita su un isolotto che richiama il Teatro Marittimo a Villa Adriana.
E pure nella villa di Loukou pose molte sculture e mosaici, tra cui ritratti dell’imperatore Adriano e di Antinoo, Achille e Pentesilea e i ritratti di filosofi, tanto poterono la sua ricchezza e il suo buon gusto.

Egli era uomo facoltoso, filantropo e pure mecenate di opere pubbliche, ma soprattutto fu  filosofo ed esponente della Nuova Sofistica, nonchè retore e politico al servizio dell'impero. A corte fu sempre ben visto, e ottenne l'amicizia personale dell'imperatore Adriano. 

In qualità di filosofo ebbe una scuola ed insegnò, sia ad Atene che a Roma, ma nonostante la sua magnanimità ebbe una forte tendenza alla pederastia, avendo come amanti diversi giovinetti, soprattutto tra i suoi discepoli, ma con un trasporto giudicato indecoroso. 

POLIDEUCE
Insegnò anche ad Atene, dove ottenne grande successo, e si fece una tale reputazione tale che l'imperatore Antonino Pio (86 - 161), proprio a causa della sua fama di erudito, lo scelse come precettore dei suoi due figli adottivi, Marco Aurelio e Lucio Vero. O si fidava ciecamente di lui o non trovava disdicevole che potesse avere relazioni sessuali con essi.

Il suo affetto nei confronti del proprio figlio adottivo (secondo qualcun altro fu invece solo un allievo) Polideuce creò infatti uno scandalo, non per il rapporto omosessuale tra i due, nè per il fatto che fossero parenti, nè per la giovane età del ragazzo, ma per l'intensità della passione, giudicata smodata e inadatta un uomo adulto, per di più filosofo. Comunque non fu l'unico giovinetto amato cui dedicò statue, perchè ad almeno altri due, morti in giovane età, riservò lo stesso trattamento.

Quando l'adolescente morì prematuramente Erode, come già precedentemente l'imperatore Adriano aveva fatto con Antinoo, dette vita a un plateale culto della personalità del ragazzino, giungendo a farlo proclamare "eroe", Anche lui, come Adriano, fece innalzare una serie di statue e monumenti in suo onore creando riti e feste in sua memoria.

La differenza tra Adriano ed Erode è che Antinoo era diciottenne, mentre Polideuce, che per giunta era un figlio adottivo, dall'immagine in rilievo dimostra 10, 12 anni al massimo.

Il fatto che Erode fosse anziano e in preda a una disperazione inconsolabile e pure pubblica, scandalizzò non poco i romani che però tacquero, perchè era uomo potentissimo e perchè in onore del ragazzo aveva commissionato giochi sontuosi, che i romani gradivano molto. I suoi avversari però non gli risparmiarono l'ironia:

"Il famoso Erode piangeva il suo Polydeukes morto nel fiore degli anni, e per lui faceva tenere un cocchio aggiogato, e i cavalli pronti, come se quegli dovesse montarvi, ed una mensa imbandita. 

Va Demonatte (filosofo cipriota) e gli dice: 

"Ti porto una lettera di Polydeukes".
Erode si rallegra, e credendolo venuto con gli altri secondo l'uso a condolersi con lui, gli dice: 

"Che vuol dunque Polydeukes?".
E Demonatte risponde: "Si duole di te, che non sei ancora andato a trovarlo" (nell'aldilà)

TOMBA DI ANNIA REGILLA (Caffarella, Roma)

ANNIA REGILLA

A Roma Erode Attico sposò Annia Regilla, discendente delle antiche e nobili famiglie degli Anni e degli Atilii, nonché parente dell'imperatrice Annia Galeria Faustina, moglie di Antonino Pio e quindi zia dei futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero.

Alle sue già grandi ricchezze unì così quelle della moglie che gli portò in dote, tra l’altro, l’immenso fondo del Triopio, situato sull’Appia antica, che lo stesso Erode dedicò alla memoria della moglie dopo la sua morte. 

La moglie Annia Regilla, morì in circostanze misteriose nel 160 d.c., e il fratello di lei, Annio Atilio Bradua, lo portò in giudizio accusandolo, per il suo carattere violento e collerico, di averla uccisa mentre era incinta. 

Il biografo Filostrato:
- Fu rivolta contro Erode anche un'accusa di omicidio concepita in questi termini. Sua moglie Regilla, resa gravida da lui, era all'ottavo mese, quando egli per un futile motivo aveva ordinato al suo liberto Alcimedonte di percuoterla; colpita al ventre, la donna aveva abortito ed era morta. Per questo fatto, come se fosse vero, lo accusa di omicidio Bradua, fratello di Regilla, uno dei più stimati fra i consolari, che portava attaccato ai sandali il segno della sua nobiltà, consistente in una fibbia d'avorio lunata.
Presentatosi dunque Bradua in tribunale a Roma, senza portare alcuna prova convincente circa la causa da lui intentata, ma profondendo una grande quantità di parole sulla sua nobiltà, Erode schernendolo disse:
«Tu hai la tua nobiltà nei talloni». E vantandosi ancora l'accusatore per i benefici da lui arrecati ad una città dell'Italia, Erode con molta dignità aggiunse:
«Anch'io potrei dire molte cose simili sul mio conto, in qualsiasi parte della terra dovessi essere giudicato».
Gli giovò a sua difesa in primo luogo il fatto di non aver mai dato un tale ordine contro Regilla, in secondo luogo l'averla rimpianta oltre misura dopo morta. E, sebbene venisse calunniato anche di questo come fosse un atteggiamento simulato, vinse tuttavia la verità.

E infatti non avrebbe dedicato alla sua memoria un teatro cosi stupendo, né avrebbe dilazionato per lei il ballottaggio della sua seconda elezione a console, se non fosse stato innocente, come non avrebbe offerto al tempio di Eleusi gli ornamenti di lei, se nel portarli fosse stato macchiato dal misfatto di uxoricidio, perché con quella azione avrebbe spinto le dee a vendicare il delitto, piuttosto che a concedergli il perdono. 
Per lei mutò anche l'aspetto della casa, oscurando i colori vivaci delle pareti con veli, tinteggiature e marmo di Lesbo, un tipo di marmo tetro e livido, per cui si dice che anche Lucio, uomo di grande dottrina, assunto come suo consigliere, non riuscendo a smuoverlo da quell'atteggiamento, prendesse a beffarlo. -

Erode fu assolto dall’accusa di omicidio ma i romani lo credettero colpevole, soprattutto proprio per l'esagerato dolore che manifestò nel lutto, che fece pensare a una grande messa in scena.
L'Attico aveva avuto da sua moglie 5 figli, tre maschi e due femmine, ed in più adottò altri maschi. 

Anche questo fa venire molti dubbi, visto che uno di questi figli divenne sicuramente il suo amante. Il che lascia presupporre che il suo interesse per i figli fosse concentrato sull'abuso sessuale di essi. Se tutta Roma pensò, come il fratello della moglie, che questa fosse stata uccisa è perchè si conosceva il suo violento e malvagio carattere e i suoi pochi scrupoli.

NINFEO DI EGERIA
Erode dovette andarsene da Roma, anche perchè si sapeva che si era salvato per intercessione di Marco Aurelio e non per giustizia.  Annia Regilla fu sepolta a Roma nel Parco della Caffarella dove ancora giacciono i resti della grandiosa tenuta che egli fece costruire al posto della villa di famiglia dopo la morte della moglie. 
Al nuovo complesso diede lo stesso nome del santuario di Demetra a Cnido: Triopio, ma ai romani non convinse affatto e lo additarono come assassino della moglie.

Inviso ai romani ad Erode non restò che tornarsene ad Atene, dedicandosi allo studio e alla scrittura.
Negli ultimi anni di vita fu di nuovo protagonista di una vicenda giudiziaria visto che venne portato in tribunale con l'accusa di tirannia (come essere accusato di voler diventare re a Roma). 

Anche in questo caso, come nell’accusa di omicidio della moglie Regilla, l’appello all’imperatore Marco Aurelio, discepolo e amico di Erode Attico, avvenuto a Sirmium dopo il 170 d.c., portò all’assoluzione dell’imputato.



LUDOVICO ANTONIO MURATORI:

- Quando arrivò Erode Attico, celebre oratore di questi tempi, e stato già console, per cagion di una lite assai calda ch’egli avea con la sua patria Atene. Vi giunse anche il deputato degli Ateniesi, per nome Demostrato, che fu ben accolto da Marco Aurelio, principe naturalmente inclinato a favorir le comunità più che i privati.
Prese ancora la protezione della città Faustina Augusta, la quale, secondo l’uso di altre imperadrici, accompagnava il marito Augusto alla guerra; e fino una lor figliuola di tre soli anni, facendo carezze al padre Augusto, gittandosi a’ suoi piedi, e balbettando gli raccomandava la causa degli Ateniesi. Di tutto informato Erode Attico, allorchè si dovette trattar la causa davanti all’imperadore, lasciatosi trasportar dall’ira fuori di strada, a visiera calata declamò contro al medesimo imperadore, con giungere fino a rimproverargli, che si lasciasse governar da una donna e da una fanciulla di tre anni.
E perchè Ruffo Basseo capitan delle guardie gli disse, che questa maniera di parlare gli potrebbe costar la vita, Erode gli rispose, che un uomo della sua età (era assai vecchio) nulla avea da temere; e voltategli le spalle se ne andò via. 

Marco Aurelio senza mai scomporsi, senza fare un gesto indicante noia o sdegno, partito che fu Erode, tranquillamente disse all’avvocato degli Ateniesi, che dicesse le loro ragioni. Era Demostrato uomo eloquentissimo, seppe ben vivamente rappresentarle. Ascoltò Marco Aurelio, ed allorchè intese le maniere, colle quali Erode e i suoi liberti opprimevano il popolo di Atene, non potè trattener le lagrime, perchè grande stima professava ad Erode Attico, uomo insigne, e stato suo maestro, ma ben più amava i suoi popoli. 
Tuttavia non volle pronunziare sentenza alcuna contro di Erode. Solamente decretò alcuni leggeri castighi contro ai di lui insolenti liberti, e provvide all’indennità degli Ateniesi. Erode da lì a qualche tempo, per tentare se Marco Aurelio, venuto in Asia, era in collera con lui, gli scrisse, come lagnandosi di non ricevere più sue lettere, quando di tante dianzi era favorito; e il buon imperadore gli diede un’ampia risposta, piena di amichevoli espressioni, con far anche scusa dell’essere stato obbligato a condannar persone appartenenti a lui. -

 Comunque i greci lo amarono, visto che gli dedicarono almeno diciassette statue onorarie. Un'erma trovata a Corinto ha consentito l’identificazione del suo ritratto, del quale il più noto e pregevole esemplare è un busto conservato al Louvre di Parigi. Dei suoi numerosi scritti ci resta solo una declamazione, il finto discorso di un cittadino di Larissa al popolo per eccitarlo alla guerra contro Archelao (413-399 a.c.), ma l'attribuzione è incerta.

Erode Attico morì nel 177 d.c. in Grecia e il suo elogio funebre venne pronunciato da Claudio Adriano da Tiro, suo discepolo. Filostrato ci parla della sua morte: 

«Morì di consunzione a circa 76 anni di età. Nonostante fosse morto a Maratona e avesse dato ordine ai suoi liberti di seppellirlo colà, gli Ateniesi, strappatolo dalle mani dei giovani lo portarono in città, precedendo il feretro uomini di ogni età con pianti e grida, come sogliono fare i figli rimasti orfani di un padre affettuoso, e lo seppellirono nello stadio Panatenaico, facendo incidere sulla sua tomba questo breve e solenne epitaffio: «In questo sepolcro giace tutto ciò che rimane di Erode, figlio di Attico, da Maratona, ma la sua fama è diffusa dappertutto».

A Capo di Bove è stata del resto rinvenuta una lastrina dove c'è scritto: "Regilla, luce della casa". È di Annia Regilla, moglie di Erode Attico, fatta uccidere incinta dal marito ad opera di un liberto nel 160 in Grecia.

A Roma rimane il ricordo della donna nel vasto fondo del Triopio al terzo miglio dell’Appia antica (il nome deriva da un santuario dedicato a Demetra a Cnido), che Erode dedicò alla moglie: nell’attuale Parco della Caffarella si possono vedere i resti degli edifici voluti da Erode Attico:
- il Ninfeo di Egeria, 
- il Tempio di Cerere e Faustina (attuale chiesa di S.Urbano alla Caffarella) 
- la cosidetta Tomba di Annia Regilla o Tempio del dio Redicolo, in realtà un cenotafio, cioè un sepolcro vuoto, a memoria della moglie. 

Precedentemente l’area occupata dal Triopio ospitava una villa di Erode, con vastissimi giardini, ninfei e giochi d’acqua, templi e sepolcri; alla morte di Regilla il marito, per mostrare il suo grande dolore, la fece demolire edificando un parco con diversi edifici in onore di sua moglie. Il che convinse i romani che egli era davvero un assassino.

A Capo di Bove è stata del resto rinvenuta una lastrina dove c'è scritto: "Regilla, luce della casa". È di Annia Regilla, moglie di Erode Attico, fatta uccidere incinta dal marito nel 160 in Grecia. Lui morì quindici anni dopo. Dopo aver disseminato di templi, monumenti e belle cariatidi in stile attico quell'insediamento agricolo e sacro, avuto in dote dalla moglie sull'Appia, lo ellenizzò nella forma e nel nome, Triopio, in onore del promontorio greco della patria d'origine.

OTTOBRE

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I Romani avevano 45 giorni di feriae publicae e 22 giorni di festività singole obbligatorie. Inoltre avevano 12 giorni di ludi singoli e 103 di ludi raggruppati su più giorni. Insomma circa la metà dell'anno era non lavorativa.

Le festività romane dette “Feriae” erano giorni di festa celebrati solennemente, perché normalmente celebrate in onore di una divinità o per una dedica a un tempio. Questi giorni di festa vennero poi aboliti con l’editto di Tessalonica del 27 febbraio 380 d.c., emesso dall’imperatore Teodosio I quando il cristianesimo divenne la religione ufficiale di stato e ogni altro tipo di religione venne abolito pena la morte e la confisca dei beni alla famiglia.

- 1 ottobre - Tigillum Sororium -
- Festa di purificazione purificazione dei militari. Il tigillum sororium era il giogo sotto cui Horatius padre fece passare Horatius figlio per purificarlo dall'uccisione della sorella che aveva pianto la morte di uno dei fratelli Curiatii, di cui era innamorata.

- 1 ottobre - Fides et Honor -
- Festa in onore di Fides et Honor.
Il primo di ottobre si festeggiava Fides,
Dea della lealtà e fedeltà, che aveva un tempio sul Campidoglio e il Dio Honor, dell'Onore in battaglia.
I sacerdoti addetti al suo culto vi si recavano su di un carro coperto, tirato da due cavalli.
I flamini addetti alla sua festa erano chiamati ad officiare il culto con le mani coperte da un panno bianco che copriva anche le dita, come simbolo della custodia della fede.

- 2 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. I giorno di festa dell'imperatore. Vennero stabiliti a ricordo del ritorno trionfale dell'imperatore Augusto dall'Oriente il 12 ottobre del 19 a.c. Ebbero anche il nome di Ludi Divi Augusti et Fortunae Reducis. Li organizzava il praetor peregrinus. I Ludi, detti anche Augustales (Giochi di Boville) erano l'insieme delle celebrazioni volute da Tiberio per onorare la memoria del padre adottivo Augusto e celebrare la Gens Iulia.
Il luogo simbolico, in cui si officiavano le celebrazioni, era la città di Bovillae, identificata con la frazione di Frattocchie del comune di Marino nei Castelli Romani, località alla quale era ascritta l'origine della Gens Iulia.

- 3 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. II giorno di festa dell'imperatore

- 4 ottobre - Ieiunium Cereris - 
- ( o Mundus Cereris) in onore di Cerere.  Venne istituita nel 191 a.c. (566 a.u.c.) su indicazione dei Libri Sibillini. " Anno a.c. CXCI libri Sibylini iusserunt quinto quoque anno in honorem Cereris ieiunium fieri. Nemini eo die aliquid edere licebat. "

- 4 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. III giorno di festa dell'imperatore

- 5 ottobre - Mundus  Patens  -
- Uno dei tre giorni in cui era aperto il Mundus Cereris.Era la  seconda festa degli Dei inferi. Nel comitium esisteva una apertura che metteva in comunicazione con il mondo infernale. L'apertura era chiusa dal lapis manalis. Tre volte l'anno il lapis veniva sollevato. " Mundus Patens: Mundus vocabatur fossa quaedam rotunda, quae operculo tegebatur."

- 5 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. IV giorno di festa dell'imperatore

- 6 ottobre - Dies Ater, Manibus Sacer - 
- Giorno Triste, Sacro Ai Mani. Venivano offerti cibi ai morti che potevano mettesi in comunicazione coi vivi, magari mandando presagi.

- 6 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. V giorno di festa dell'imperatore

- 7 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. VI giorno di festa dell'imperatore

- 8 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. VII giorno di festa dell'imperatore

- 9 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. VIII giorno di festa dell'imperatore

- 9 ottobre -Templum Apollinis Palatini - 
- Festa in onore di Apollo. Dedicatio del tempio di Apollo sul Palatinus avvenuta nel 28 a.c. La costruzione del tempio era stata promessa dall'imperatore Augustus nel 36 a.c. durante la campagna 
contro Sextus Pompeius.

- 9 ottobre - Felicitas - 
Fesra in onore della Dea Felicità.

- 9 ottobre - Veneris Dies -
- Si celebrava la festa di Venere come apportatrice di fertilità e gioia.

- 10 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. IX giorno di festa dell'imperatore

- 11 ottobre - Meditrinalia - 
- in onore di Giove. E' una festa dedicata alla lavorazione del vino. Non è mai citata una Dea che si chiami Meditrina. Tuttavia si tratta di una festa già in disuso ai tempi di Varrone e nominata poi di nuovo solo ai tempi della riforma di Augusto.
Varrone tuttavia ne riporta una formula antica, recitata durante la degustazione del vino nuovo: "Novus-vetus vinum libo; novo-veteri vino morbo medeor
("Bevo vino nuovo-vecchio, curo con tale vino nuovo-vecchio la malattia"); 
Da questa formula e dall'antico concetto del vino come medicina deriverebbe secondo alcuni il nome di Meditrinalia. Ma non è così, anche perchè medicina e meditrina sono termini molto diversi. In realtà Meditrina era un aspetto dell'antica Dea e significava colei che sta nel mezzo della divinità Trina. L'antica Dea era infatti Trina, tre Dee in una: la Dea che dà la vita, quella che nutre e quella che dà la morte. Il vino era legato al nutrimento per cui alla Dea centrale della divinità. 
Pertanto la Festa della Dea Tellus era stata trasformata in festa di Giove.

-  11 ottobre - Vinalia - 
- Festa con degustazione del mosto.

- 12 ottobre - Augustalia -
- dal 2 al 12. in onore di Augusto. Giorno di chiusura della festa dell'imperatore.

- 13 ottobre - Fontinalia - 
- Varr. Lat. 6, 22; Cic. Leg. 2, 22 . festa in onore di Fons, o festa delle sorgenti. Secondo Festo è il giorno sacro "alle fonti", mentre per Varrone è la festa del Dio Fons o Fontus, figlio di Giano e di Giuturna, divinità che presiede alle fonti e che può far sgorgare le sorgenti. In suo onore corone di fiori venivano gettate nelle fontane e poste sull’orlo dei pozzi. I luoghi di culto di Fons erano un altare posto presso la Tomba di Numa sul Gianicolo e un sacrario, fuori dalla Porta Fontinale, eretto dal console C. Papirio Masone nel 231 a.c.

- 15 ottobre - October Equus - 
- Plut. Quaest. rom. 97; Festo (Equus), in onore di Marte.
Alle Idi di ottobre c'è la festa maggiore celebrata in suo onore di questo Dio. 
A Marte si immola un cavallo: secondo Plutarco e Festo, perché il cavallo da guerra è sacro a Marte, o, secondo altri per ricordare lo stratagemma del cavallo di Troia oppure, secondo ancora altri, per risparmiare il bue, prezioso per l'agricoltura. 
- Per altri infine perché al Dio è sacro l'animale che rappresenta la velocità e il corso del Sole.
Il sacrificio sarebbe anche connesso con il ringraziamento per l'ottenuta prosperità delle messi e, nello stesso tempo, con l'invocazione per le future semine. 
E' evidente che qui si allude a un Marte più antico, detto Mavor, Dio delle messi e dei giardini. Anche gli Spartani immolavano un cavallo sul monte Taigeto e ne spargevano le ceneri sulla campagna. Altrettanto facevano i Salentini e gli abitanti di Rodi, che gettavano ogni anno in mare quadrighe consacrate al Sole, a somiglianza del suo carro.
- L'Equus romano però non aveva più a che fare col Dio dei campi e dei giardini, ma con Marte Dio della guerra. Questa attività era importantissima e basilare per i romani, che non solo stavano sempre in guerra, non solo dovevano difendere i propri confini, ma erano sempre mirati a nuove espansioni.
- Le nuove conquiste e pertanto le battaglie vinte non solo davano nuove ricchezze all'impero oltre che ai soldati, ma i legionari e i romani tutti sentivano questo potere di dominio incontrastato come volontà degli Dei. I legionari e i generali poi erano alla continua ricerca della gloria, perchè un bravo generale era osannato da tutti e portava, oltre ai soldi, onore e gloria a lui e alla sua gens.
- A Roma si immolava il cavallo migliore, cioè quello di destra del carro che era uscito vincitore dai giochi Magni Circenses. Il cavallo veniva bardato con serti di pane e si immolava nel campo di Marte. La coda recisa veniva portata di corsa nella Regia, e se ne faceva stillare il sangue su carboni ardenti; il sangue veniva poi raccolto e conservato dalla Vestale Massima in vista della solenne purificazione del 21 aprile, insieme alle ceneri delle Fordicidie. La testa del cavallo veniva poi disputata da due schiere di uomini e la schiera vincente la affiggeva ai muri della Regia.
Il rito venne celebrato fino alla fine del mondo pagano.

- 15 ottobre - Ludi Capitolini -
- Detti anche Ludi magni, venivano celebrati per le idi di ottobre con scadenza annuale. Sembra siano stati istituiti a Roma da Furio Camillo, per celebrare la vittoria contro gli invasori Galli, cacciati dal Campidoglio nel 389 a.c. 
Le gare erano molto diverse e consistevano in giochi di forza fisica, atletica, corse, ed esercizi musicali. 
Da Domiziano, nell'86 invece divennero quadriennali, inglobando gare ippiche e poetiche. 
Com'era uso dei romani, durante i ludi venivano distribuiti cibi e doni ai poveri.

- 18 ottobre - Iuvenalia -
- Festa in cui si commemora la Dea della gioventù.
La Festa era prescritta "Ante diem XV Kalendas Novembres",
 La Dea nel mondo greco corrispondeva ad Hebe
Per l'occasione si eseguivano i Ludi Scaenici, rappresentazioni teatrali per festeggiare l'uscita dall'infanzia e l'entrata nella gioventù. 
I Ludi vennero instaurati nel 59 d.c da Nerone per commemorare la sua "depositio barbae", che aveva consacrato agli Dei.

- 19 ottobre - Armilustrium - 
- In onore di Marte. Varr. Lat. 6, 22; 5, 153 Le feste di Marte si svolgevano principalmente in marzo, latino Martius, il mese che porta il suo nome, e nel mese di ottobre, per iniziare e terminare la stagione di campagne militari. In questa festa, che cade appunto nel mese sacro a Marte, si tiene la solenne purificazione (lustratio) delle armi e si conclude la stagione militare. Alla cerimonia partecipano i Salii, sacerdoti di Marte, in veste di armati, così come sono armati di ancili anche i partecipanti al rito.
Era la seconda festa in onore del Dio Marte. Durante la festa la consacrazione e la purificazione delle armi perchè si conservassero per l'inverno, stagione in cui di solito non si combatteva. La festa si svolgeva nel Circo Massimo, inghirlandato di fiori, ma prima i soldati romani si riunivano con le loro armi e armature sul colle Aventino, seguendo una processione con le torce e gli animali sacrificali.

- 23 ottobre -  Armilustrium - 
In onore di Marte. Il nome armilustrium si riferisce anche a un grande spazio aperto sul colle Aventino, dove si svolgeva la festa.

- 23 Ottobre - Festa Liberi Patris Et Liberae 
 Festa in onore di padre Libero e di Libera.

- 26 ottobre - Ludi Victoriae Sullane -
- Le feste duravano dal 26 ottobre a 1 novembre, con i giochi circensi in onore della Vittoria di Silla

- 27 ottobre - Ludi Victoriae Sullanae -
- Giochi in onore della Vittoria di Silla

 28 ottobre - Ludi Victoriae Sullanae -
- Giochi in onore della Vittoria di Silla

ISIDE
- 28 ottobre - Isia - 
- festa che andava dal 28 ottobre al 3 novembre in onore della Dea Iside. Venivano istituite ricche processioni dove le sacerdotesse della dea vestivano solitamente in bianco e si adornavano di fiori. A Roma, per influenza del culto di Vesta, dedicavano talvolta la loro castità alla Dea Iside.

- 29 ottobre - Feasta Vertumni
- Detto anche Vortumnus. festa in onore di Vertunno, divinità di origine etrusca, probabilmente da Volsinii. Personificazione del cambiamento, dell'avvicendarsi delle stagioni. Era il protettore della vegetazione. Aveva una statua nel Vicus Tuscus e un tempio sul colle Aventino.

- 29 ottobre - Isia - 
- secondo giorno della festa in onore della Dea Iside. 

- 30 ottobre - Ludi Victoriae Sullanae -
- Giochi in onore della Vittoria di Silla

- 29 ottobre - Isia - 
- terzo giorno della festa in onore della Dea Iside.

- 31 ottobre - Ludi Victoriae Sullanae -
- Giochi in onore della Vittoria di Silla

- 31 ottobre - Isia - 
- quarto giorno della festa in onore della Dea Iside.

ARCO DI TRAIANO

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COME DOVEVA APPARIRE L'ARCUS TRAIANI

ROBERTO LANCIANI

"ARCVS TRAIANI"

Flaminio Vacca dice : 
« intorno la colonna Traiana dalla banda dove si dice spoglia Cristi (furono) cavate le vestigie di un Arco trionfale con molti pezzi d'istorie, quali sono in casa del sig. Prospero Boccapaduli, a quel tempo maestro di strade. Vi erano ancora Traiano a cavallo, che passava un fiume, e si trovarono alcuni prigioni simili a quelli che sono sopra 1' arco di Costantino, della medesima maniera ». 

Per ciò che spetta alla testimonianza di Salvestro Peruzzi, a me pare che il CIL. VI, p. 841 ad n. 966 non 1'abbia giustamente interpretata. Peruzzi afferma che i due brani d' iscrizione, stavano incisi, e erano stati letti « nell'arco di Traiano al foro », edifizio ben conosciuto e affatto diverso dal tempio che stava all' altro capo del foro.

(Sulla moneta:
Arco di Traiano, entrata trionfale del foro di Traiano: facciata di un edificio esastilo, sormontato da statue ed un carro trionfale a sei cavalli con tre figure verso sinistra e destra (due soldati ed al centro un trofeo dei Daci); quattro statue negli archi sottostanti; FORVM TRAIAN(A) in esergo.)

Questo tempio era il più gigantesco di Roma (salvo quello del Sole venuto più tardi), e ad esso il CIL. vorrebbe attribuire una iscrizione le cui lettere misuravano soli 16 centimetri di altezza! Di più il CIL. stesso riconosce « eundem titulum in utraque parte aedificii extitisse » ciò che non può convenire a un tempio. 

In ultimo luogo mi sembra diffìcil cosa che una iscrizione monumentale di quella natura incominciasse con le sigle « ex s. e. divis etc. ». L' arco non fu demolito e spogliato per intero dal Boccapaduli: e quando l'avvocato Bonelli pose mano a scavarne nuovamente il sito nell' ottobre del 1862, nell' area della chiesetta di s. Maria in Campo Carleo (Spoglia Cristi), trovò trentatrè massi architettonici e figurati dell' arco stesso, che gli scultori Benzeni e Palombini stimarono essere del valore di scudi 770. 

Il Governo pontificio ne acquistò la parte migliore (Vedi Pellegrini in Bull. Inst. 1863, p. 78, e C. L. Visconti nell'Archivio del Min. Belle Arti, 1863, V, 1, 5). Nelle relazioni di costui sono notevoli i brani seguenti: « 11 novembre 1862 sono stati scoperti tre grandi massi di peperino 16 novembre, la parte superiore di una statua colossale acefala, rappresentante un barbaro prigioniero. È d' ottima scultura, ed ha l'abito e 1' atteggiamento consueto di tali figure destinate a decorare gli archi di trionfo». -

FORO DI TRAIANO

ARCO DI TRAIANO

Di un arco di Traiano a Roma si hanno testimonianze letterarie e monetali, ma non se ne conosce con certezza la collocazione. Nel parere di alcuni non venne mai effettivamente eretto, ma sembra improbabile, perchè secondo i cataloghi regionari però si trovava nella Regio I Porta Capena.

La Regio I Porta Capena era la I delle 14 regioni di Roma augustea classificata poi nei Cataloghi regionari della metà del IV sec.. Prese il nome dalla porta delle mura serviane da cui entrava in città la via Appia e si estendeva nella valle da questa percorsa a sud del Celio lungo la via Latina, fino oltre il successivo percorso delle mura aureliane. Qui si estendeva dalla Porta Appia, fino alla Porta Metronia, includendo la Porta Latina, ed oltre le mura il fiume Almone (nei pressi del quale sorgeva un tempio di Marte).
In effetti nel 117 d.c. venne decretato dal Senato un arco di trionfo in onore dell'imperatore Traiano. Durante il XIX secolo gli studiosi formularono varie ipotesi sulla sua collocazione, che sembrava più probabile entro il Foro di Traiano stesso, forse dell'ingresso monumentale del Foro, in collegamento col Foro di Augusto, forse come struttura indipendente. 

Esiste infatti un aureo con la raffigurazione di un arco, a fornice unico e sormontato dal carro trionfale imperiale, scandito verticalmente in cinque sezioni scandite da sei colonne; accanto al fornice centrale sono raffigurate due nicchie con timpano per ciascun lato, dove si supposero conservate le statue dei prigionieri Daci (presenti oggi nell'arco di Costantino).

Sopra le nicchie vi erano altrettanti scudi con ritratto (imagines clipeatae). Il carro trionfale era trainato da sei cavalli e fiancheggiato da trofei con vittorie. In realtà la raffigurazione monetale non rappresenterebbe nemmeno un arco, ma forse la recinzione meridionale della piazza (forse i resti rimessi in luce nei recenti scavi del Giubileo, mentre nella stessa occasione non furono ritrovate tracce di archi); può darsi che l'accesso sud alla piazza fosse stato monumentalizzato come arco trionfale e dedicato poi effettivamente come tale dal Senato al Traiano, eventualmente con la semplice apposizione di un'iscrizione.

Altre interpretazioni sono tuttora in discussione, con parecchie diverse ipotesi, dato che la cosa coinvolge l'aspetto dei lati nord e sud della piazza e la posizione del tempio del Divo Traiano e Plotina.



TEMPIO DI TRAIANO E PLOTINA

Si pensa fosse collocato nel Foro Traiano e, a quanto riporta la Historia Augusta, venne aggiunto alla piazza del foro da Adriano tra il 125 e il 138 e dedicato all'imperatore Traiano, divinizzato dal Senato, e a sua moglie Plotina, morta e anch'essa divinizzata nel 124.

TEMPIO DI TRAIANO
Del tempio resta l'iscrizione dedicatoria, conservata ai Musei Vaticani, e la citazione di due cataloghi regionari del IV sec. : Notitia urbis Romae e Curiosum urbis Romae regionum XIIII. Sono attribuiti al suo pronao l'enorme colonna monolitica in granito egizio grigio del Foro, con capitello in marmo lunense bianco, entrambi visibili presso la Colonna Traiana. Il fusto è di circa due metri di diametro e il solo capitello misura 2,12 m di altezza. 

Gli scavi diretti da Eugenio La Rocca, oggi visibili sotto Palazzo Valentini, hanno portato a credere che il tempio fosse inserito in uno spazio tra un alto muro a forma di ferro di cavallo con un colonnato aggettante, con una fronte di sei o otto colonne. 
LA QUADRIGA CHE SORMONTAVA L'ARCO
Per celebrare i 1900 anni del monumento simbolo della città di Benevento oscurati dall’attenzione sovraesposta e scoordinata per i Longobardi, venerdì 23 maggio 2014, alle 17:00 presso la Biblioteca provinciale al Corso Garibaldi, si svolgerà il Convegno multimediale dal titolo “Sulla quadriga dell’Arco di Traiano” organizzato dal gruppo Isidea.

“L’Arco di Traiano…nel passato era adornato con una quadriga e con la statua dell’Imperatore; queste non ci sono più”, annotava nel suo diario di viaggio Edward Hutton,aggiungendo: “Rimangono, tuttavia, le belle serie dei rilievi.”

La stessa quadriga poteva ornare l'arco di Traiano a Roma?


COLOMBARIO DI POMPONIO HYLAS

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Il colombario, di uso romano, è un ambiente sepolcrale le cui pareti sono occupate da file di nicchie dove venivano collocate le olle cinerarie, piccoli vasi di terracotta in cui erano contenute le ceneri dei defunti. Il termine origina infatti dalla somiglianza del sepolcro alle colombaie.



LO SCOPRITORE

Fu scoperto nel 1831 da Pietro Campana (1808 - 1880), grande studioso e collezionista, che oltre al colombario di Pomponio Hylas scoprì due altri colombari vicino al sepolcro degli Scipioni, di cui redasse la pubblicazione, pubblicando altresì la propria collezione di bassorilievi in terracotta di epoca repubblicana, che portano ancora il suo nome, a poca distanza dalle mura Aureliane e vi si accedeva da un diverticolo della via Latina.

SCALA D'ACCESSO
Caduto in disgrazia per malversazione dei suoi affari, il Campana si vide vendere tutti i suoi beni che aveva peraltro impegnato. 

Tentò di farsi restituire dal Vaticano i ricavi delle opere d'arte impegnate e vendute dal Monte di Pietà ma il Vaticano non gli restituì un soldo. 

Non solo, ma il Vaticano vendette quasi tutta la sua stupenda collezione all'estero, senza nè trattenerla nè cercando di farla restare in Italia. 

Vendette il tutto a Pietroburgo, a Londra, a Parigi, e praticamente in tutto il mondo, una delle collezioni più belle e ricche mai esistite, piena di gioielli e pezzi d'arte soprattutto greci, etruschi e romani.



IL COLOMBARIO

Il colombario di Pomponio, tornato alla luce nel 1931, è semiipogeo (seminterrato). Venne costruito nel periodo compreso  (14-54 d.c.) e fu utilizzato sino al II sec. d.c. accogliendo le ceneri del liberto Pomponio Hylas. L'ambiente, di 4 m x 3, è appunto rettangolare, in parte scavato nella roccia e in parte costruito in opera cementizia rivestita di mattoni, e conserva ancora la ripida scala di accesso originale.

Il locale, coperto da una volta a botte, era in origine illuminato da due lucernari poi coperti dalla terra che aveva invaso tutto. Sulle pareti alloggiava una serie di edicole su podio, inquadrate e sorrette da colonnine o da pilastri sormontati da piccoli timpani, alcuni triangolari e altri spezzati che ne inquadrano uno centrale centinato. Il tutto vivacemente pitturato a vari colori dei quali molti sono conservati.

Si giungeva alla tomba da un vicolo della via Latina e si accedeva a mezzo di una ripida scala in pietra tuttora conservata. Di fronte alla scala, una nicchia decorata con concrezioni calcaree accoglieva l’urna cineraria dei due coniugi ricordati nell’apposita iscrizione, riportata su un pannello a mosaico sui gradini di ingresso, decorato con dei grifoni. Ecco il testo:

CN(aei) POMPONI HYLAE E(t) POMPONIAE CN(aei) L(ibertae) VITALINIS(A Gneo Pomponio Hylas Pomponia di Gnao liberti di Vitalino)

L'inscrizione ha anche una V (che significa vivit) sopra il nome di Pomponia, indicando che era ancora viva quando fu aggiunto il pannello. La cavità, dove era l'urna cineraria, ha la volta a botte rivestita di pomici delimitata da una fila di conchiglie di murex, alla maniera delle grotte e dei ninfei

Nella parete di fondo, al di sotto di un'ampia abside, si apre invece  l'edicola principale, dove sono conservate due urne cinerarie contenenti probabilmente le ceneri dei primi proprietari, i cui nomi sono incisi nella tabella marmorea sottostante: Granius Nestor e Vinileia Hedone. Ai lati della nicchia contenente le urne sono raffigurati forse i due defunti ai lati di una cista mistica, o secondo un'altra interpretazione una capsa per contenere i rotuli.

Il colombario prese il nome da Pomponio Hylas, che visse nel periodo dei Flavi (69-96), l'edificio è stato datato tra il 14 ed il 54 d.c., tra il principato di Tiberio e quello di Claudio, grazie a due delle sue nicchie (una dedicata a un liberto di Tiberio e l'altra ad un liberto di Claudia Ottavia, figlia di Claudio e Messalina).

Fu in seguito acquistato da Pomponio Hylas per sé e per sua moglie; evidentemente anche lui era un liberto, altrimenti non avrebbe consentito di dividerne il sepolcro. Al di sotto dell’iscrizione sono raffigurati due grifoni affrontati ai lati di una cetra. Il che designerebbe l'ipogeo come grotta delle Muse, e la lira simbolo di Apollo Musagete,


 Ma se anche così non fosse è evidente l'allusione all'arte e alla cultura, anche per le bellissime decorazioni del sepolcro.

Anche se l'interpretazione delle scene presenti sull'edicola centrale non viene accettata in maniera unanime dagli studiosi, sicura invece sembra essere la simbologia che pervade la decorazione di tutto il colombario, ispirata da una committenza appartenente ad un ambiente di uomini colti, che, attraverso raffigurazioni connesse con la cultura e la musica, voleva raggiungere la gloria e l'immortalità attraverso la fama tra gli uomini.

Anche noi fatichiamo a condividete l'interpretazione, connessa soprattutto all'immortalità attraverso la cultura, tanto più che nessuno dei tumulati era scrittore o poeta tale da sperare di essere ricordato dai posteri.

La celebrazione della cultura ha pure connessioni con l'ampliamento mentale e la sospensione dei giudizi, perchè la cultura libera. L'entusiasmo delle pitture celebrative potrebbero illustrare proprio questa libertà mentale acquisita mediante lo studio.

Pertanto il defunto Granius Nestor viene raffigurato con il rotulus in mano e accanto a lui vi è una capsa (scatola cilindrica) : chiari riferimenti alla bellezza della cultura.

Le ceneri dei due coniugi erano contenute in due olle cinerarie; una di queste si trova attualmente nella cattedrale di Ravello, e vorremmo davvero conoscerne la ragione, dove fu portata in seguito ad un saccheggio subito dal sepolcro in epoca medievale. A nostro avviso un monumento del genere meriterebbe un guardiano e una cura maggiore.



E' evidente che l'amore per la cultura permei questo sepolcro, ma da qui ad aggiungere, come diversi studiosi hanno fatto, che detta cultura si ritenga adatta a raggiungere una felicità ultraterrena sembra un po' esagerato.

Il sapere e la conoscenza letteraria traspaiono pure dalla raffigurazione di amorini coronati di alloro con un rotulus in mano tra girali di vite, presenti nella volta. Concetto ribadito dalla decorazione della nicchia posta nella parete di fronte alla scala.

Di simbologia dionisiaca sembrerebbe invece la raffigurazione presente nel timpano dell'edicola, dove compare un giovinetto nudo identificato da alcuni come un trace, da altri come Dioniso colla clamys (mantello corto) svolazzante sulle spalle, una corona di pampini sulla testa e nelle mani forse una cista mistica; ai lati sono due tritoni che suonano la lira. Ancora dionisiache sarebbero le figure dipinte sull'architrave.

PARTICOLARE DI DIONISO
La scena principale, tratta dalla mitologia greca di Orfeo tra i Traci, è ambientata forse in un luogo sacro a Dioniso, per la presenza di una piccola erma di Priapo e di due Menadi.La raffigurazione potrebbe essere identificata con un mito narrato da Apollodoro di Atene, erudito e filologo del II sec. a.c..Questo narra che Orfeo, avendo proditoriamente svelato i misteri dionisiaci, viene fatto a pezzi dalle Menadi istigate dal Dio Dioniso in collera.

Di non chiara interpretazione, invece, è la scena presente sull'arco che delimita il catino absidale, dove compare un uomo vestito all'orientale, con anassiridi (pantaloni) e berretto frigio, seduto.

Invece a sinistra c'è un giovane inginocchiato, coperto solo da un manto e con una spada nella mano.

Alle estremità due figure maschili sdraiate hanno nelle mani un mestolo e una patera, oggetti usati per le libagioni rituali.

Nel timpano di una edicola vicina alla scala è rappresentata inoltre la scena del centauro Chirone che insegna ad Achille a suonare la lira.

Il colombario venne utilizzato per un lungo periodo di tempo: fatto costruire probabilmente da Granius Nestor all'inizio del I sec. d.c. (a questo periodo appartengono le pitture della volta, dell'abside e della nicchia di Nestor) e impiegato come sepoltura di Pomponio Hylas all'epoca di Tiberio.

Rimase poi in uso durante tutta l'età flavia. A quest'epoca vanno anche attribuite le edicole poste sul lato sinistro che si sovrappongono alla costruzione originaria simmetrica a quella del lato destro.

Il ritrovamento di un'urna cineraria, ora conservata al Palazzo dei Conservatori, appartenente ad un liberto di Antonino Pio, fornisce la prova che il colombario fu attivo fino al II sec., durante il quale venne utilizzato anche per seppellire una donna, inumata in un sarcofago fittile rinvenuto sotto il pavimento.

CHIRONE INSEGNA AD ACHILLE
Il colombario rettangolare ha una volta a botte decorata da girali di tralce di vite sui quali si librano figure di uccelli e di amorini. Nell’edicola centrale della parete di fondo sono dipinte due figure, probabilmente i fondatori del sepolcro i cui nomi sono indicati nella tabella marmorea sottostante: Granius Nestor e Vinileia Pedone.

Senza meno è eccezionale lo stato di conservazione del colombario di Pomponio Hylas, preservatosi da tombaroli o distruttori vari fino al  suo ritrovamento del 1831 e ubicato all’interno del parco della via Latina. Forse in quanto sepolto nel parco, per cui nessuno vi fece lavori, forse perchè in terreno privato dove i proprietari non dovettero estendere i loro edifici, comunque fino ad allora il sepolcro non fu esposto nè ai furti nè ai vandalismi, nè alle intemperie.

Il colombario continuò ad essere in uso fino al II secolo d.c., come dimostra un’urna con iscrizione dedicata ad un liberto dell’imperatore Antonino Pio, ora ai Musei Capitolini.

Sotto il pavimento fu inoltre rinvenuto un sarcofago con il corpo di una donna perfettamente conservato, immediatamente polverizzatosi al momento della scoperta.

Il colombario è situato oggi all'interno del Parco degli Scipioni,  a poca distanza dalle mura Aureliane. con pareti sono occupate da file di nicchie dove venivano collocate le olle cinerarie, piccoli vasi di terracotta in cui erano contenute le ceneri dei defunti. L’aspetto di questi ambienti ricorda quello delle colombaie, e da qui ha appunto origine il nome di questo tipo di sepolcro.

IL TIMPANO DECORATO

IL SIMBOLISMO

Tutte le figurazioni del colombario (Dioniso, Orfeo fra i Traci, il centauro Chitone che insegna ad Achille a suonare la lira, il tricipite Cerbero, il supplizio di Ocno) hanno un carattere simbolico.

TRACE CON CISTA
Secondo gli studiosi alcune alluderebbero ai diversi destini dell’anima nell’aldilà secondo la concezione funeraria che riserva ai defunti buoni i campi Elisi e a quelli malvagi il Tartaro. In realtà la concezione romana non aveva queste suddivisioni così pronunciate. Il Tertaro non era una punizione ma un destino comune di ombre senza supplizi, senza dolore ma senza gioe, i campi Elisi erano per le eccezioni, cioè gli eroi, cui si aggiunsero poi i filosofi e i poeti.

Sempre secondo gli studiosi la figura di Orfeo, cantore e musico sublime, ma soprattutto fondatore di culti e misteri, sarebbe colui che indica la via misterica e iniziatica, la via per pochi, per raggiungere l’immortalità e la felicità ultraterrena.

Nel timpano dell’edicola dove è raffigurato Dioniso giovinetto e nudo, e dove sull’architrave sottostante è dipinta la scena di Orfeo fra i Traci, nell'abside che l'accoglie c'è una decorazione  di tralci di melograno e tre figure femminili identificate con le tre Vittorie.

Nelle altre pareti del colombario si trovano nicchie più piccole, dove sono raffigurate scene con la discesa di Orfeo nell’Ade, Ercole che trattiene Cerbero, il supplizio di Ocno e Achille con il centauro Chirone. 

FANCIULLA CON ADORANTE

LE INTERPRETAZIONI

Qualcuno si è chiesto:
- Che c'entrava il supplizio di Ocno?
- Che c'entravano i misteri orfici?
- Cosa c'entrano la discesa di Orfeo nel Tartaro?
- Ed Ercole che trattiene Cerbero?
- E perchè Dioniso si arrabbia con Orfeo?
- E Achille con il centauro Chirone?
- E le tre Vittorie su chi vinsero?
- E chi è il giovane nudo (vedi l'immagine qua sopra) che prega una fanciulla dai capelli lunghi fino ai piedi?

Si direbbe che le edicole non c'entrino nulla l'una con l'altra, anche perchè alcune eseguite in epoca diversa. Quel che hanno in comune però è una certa aria di Sacri Misteri. E vediamo come:


OCNO

NIKE CON GENIO ALATO
Dunque nella mitologia greca c'era un certo cordaio di nome Ocno che era condannato a tessere continuamente una fune che veniva senza interruzione divorata da un'asina. Secondo  Pausania era la colpa per aver lasciato che la moglie, che sarebbe l'asina, gli dissipasse l'intero patrimonio. La colpa sarebbe pertanto l'ignavia e per contrappeso gli Dei l'avevano punito con una condanna alla fatica.

Con buona pace di Pausania gli Dei non si adiravano se un mortale si faceva mangiare i beni dalla moglie per varie ragioni, perchè dei mortali si disinteressavano, eroi a parte, e poi magari Ocno con sua moglie si era divertito, e magari era d'accordo, ma la realtà è che il simbolismo riguardava altro. 

La fune che noi mortali tessiamo è la nostra vita che viene "divorata" continuamente da Madre Natura che ci fa invecchiare. L'asina era, insieme alla vacca e alla scrofa, l'immagine della Natura, provvida da un lato per il cibo che ci nutre, ma inesorabile dall'altro per la sua legge di vecchiaia e di morte. 

Pertanto l'uomo accettava la sua via di nascita crescita e morte senza capirci granchè, ovvero fidandosi di tutto ciò che gli avevano raccontato, oppure tentava di capire la realtà della vita facendo un viaggio dentro se stesso, come tanti avevano fatto, rivolgendosi ai Sacri Misteri.



I MISTERI ORFICI

L'Orfismo fu un movimento religioso sorto in Grecia verso il VI secolo a.c. sulla figura di Orfeo, per tradizione "Tracio", anche se per diversi studiosi Orfeo un antico "missionario" greco in terra tracia dove, nel tentativo di far accogliere il culto di Apollo, perse la vita.

"Il nuovo schema di credenza consiste, dunque, in una concezione "dualistica" dell'uomo, che contrappone l'anima immortale al corpo mortale e considera la prima come il vero uomo o, meglio, ciò che nell'uomo veramente conta e vale. Si tratta di una concezione, come è stato ben notato, che inserì nella civiltà europea un'interpretazione nuova dell'esistenza umana. Che questa concezione sia di genesi orfica non parrebbe cosa dubbia."
(Giovanni Reale. La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia greca e romana)

Dunque Orfeo ha molto influenzato il cristianesimo di circa 500 anni dopo, si che nella catacombe cristiane viene spesso raffigurato come ipostasi del Cristo. Pertanto i Misteri Orfici ponevano l'uomo al centro del creato, ne stabilivano, al contrario degli animali, la sua natura in parte divina, colla speranza della vita e beatitudine eterna. Come il cattolicesimo.

Ma non dimentichiamo che Orfeo perse nel profondo degli inferi la moglie-anima Euridice, tanto è 
vero che tornato sulla terra praticò e diffuse l'omosessualità, contrapposta alla donna, situazione inusuale, perchè non solo l'omosessualità non esclude l'anima, ma in più di solito gli omosessuali sono amici delle donne.

« Corrisponda o meno al fatto che per un Ateniese del V secolo la parola psychē avesse o potesse avere in sé un vago sentore di soprannaturale, certo non aveva nessuna intenzione puritana, né alcuna suggestione metafisica. L'anima non era prigioniera riluttante del corpo; era la vita, lo spirito del corpo, nel quale si trovava come a casa propria. 

Ma ecco che il nuovo schema di religione portò il suo contributo carico di conseguenze: attribuendo all'uomo un "io" occulto di origine divina, e contrapponendo così l'anima al corpo, inserì nella civiltà europea, un'interpretazione che noi diciamo puritana»

(Eric R. Dodds. I Greci e l'irrazionale)

Pertanto i Misteri Orfici si presentano come un opposto rispetto ai Misteri Dionisiaci., e qui subentra, giustificatamente, la rabbia dionisiaca.



LA DISCESA DI ORFEO NEL TARTARO

La discesa nel tartaro, è la discesa nell'inconscio, per quel famoso invito greco, scritto sul tempio di Delo: "Conosci te stesso", discesa che aveva come intento il recupero degli istinti primigeni, ovvero il recupero dell'anima selvaggia e dionisiaca.

Orfeo però fallisce perchè si guarda indietro, ovvero non riesce ad abbandonare il mondo delle illusioni, non riesce ad abbandonare l'immagine che si è costruito di sè per accettare la sua vera indole. Per non vedere la sua anima la perde.


ERCOLE TRATTIENE CERBERO


SOFFITTO DEL COLOMBARIO
Cerbero è il cane a tre teste, e il cane era l'attributo di Ecate, che infatti era triforme. Cerbero ha in sè la consapevolezza della vita e della morte, ma Ercole lo trattiene perchè Orfeo non potrebbe affrontarlo.

Lui è seguace di Apollo, che è la razionalità solare, non è come Dioniso, figlio della luna, ovvero della dea Selene, e pertanto capace di vedere nel buio.


PERCHE' DIONISO SI ARRABBIA CON ORFEO?

Dioniso si arrabbia perchè Orfeo è l'esatto contrario dell'istinto, è solo ragione, rifiuta il femminile che Dioniso ama, tanto è vero che poi fa sua sposa la regina Didone abbandonata da Teseo.
Dioniso ama le emozioni forti e il femminile selvaggio, egli riporta i suoi seguaci alla natura, risveglia la parte libera ed istintuale degli esseri umani.

Orfeo invece è più spento, piange, si lamenta ma non reagisce, anche se lo fanno capace di comprendere gli animali, è lui che ha perso la sua parte animale. I due estremi, istinto e ragione dovrebbero unirsi, invece sono in guerra.

INDOVINO TIRESIA CON CISTA

ACHILLE IMPARA DA CHIRONE

L'eroe Achille deve imparare la Chirone l'arte della musica, occorre il lato animale dell'uomo (Chirone è un centauro), per adire al mondo dei sentimenti e tradurli in arte.


LE TRE VITTORIE 

Sono ipostasi dell'anima, che vince sui condizionamenti, sulle illusioni e sulla paura della morte. Ma i Misteri Orfici davvero davano tanto? Ci sono seri dubbi.


IL GIOVANE E LA FANCIULLA

Di certo non si è tagliata i capelli perchè li ha lunghi fino a terra, e non li ha tagliati perchè non sta in un posto abitato. Lei è Didone, abbandonata sull'isola di Nasso da Teseo, l'anima abbandonata da un falso maschile ma bramata poi da Dioniso (nudo come nudo è l'istinto) che ne fa la sua eterna sposa.



CULTO DI AETERNITAS

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L'eternità per i romani era un concetto meno astratto di quanto si creda. 
Dire che gli Dei romani siano la personificazione di un concetto è come dire che Gesù Cristo sia la personificazione del "sacrificio per amore" o che la Madonna sia la personificazione dell'"amore pietoso". 
ABUNDANTIA / AETERNITAS
Allora o tutti gli Dei sono concetti astratti o non lo è nessuno. 
Così come non si può dire che gli Dei romani fossero proiezioni dell'inconscio dei romani, altrimenti anche il nostro Dio cristiano è una proiezione successiva dell'inconscio.
Nella mitologia sumera, Nammu (o Namma o Nanna) è la Dea Madre sumera della creazione, Dea del mare primordiale che diede vita al paradiso e alla terra e ai primi Dei. Namma fu detta "L'Eterna".

Il concetto di eterna veniva espresso con la frase: 

"IO SONO COLEI CHE E', CHE E' SEMPRE STATA E SEMPRE SARA', E NESSUN UOMO HA MAI SOLLEVATO IL MIO VELO"

Sulla presunta tomba di Iside, vicino a Menfi, era stata eretta una statua ricoperta di un velo nero che riportava questa iscrizione:

"Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo."
Tradotto più semplicemente (in latino): "Quid fuit, quid est, quid erit" Sotto questo velo si nascondono tutti i misteri e il sapere del mondo.

Questa stessa frase venne attribuita a diverse Dee, tra cui la Dea Diana, anticamente detta Dia (da cui derivò il termine Deus e il termine Dio). Diana al bagno che fa sbranare Atteone dai cani (secondo un mito meno aggressivo lo trasforma in cervo) è la Dea che non può essere svelata. L'impossibilità dell'uomo a svelare la Natura ovvero il cosmo, è l'impossibilità, tradotta come interdizione, di vedere la Dea nuda, cioè senza veli.

DIVA FAUSTINA AETERNITAS
In realtà tutte le antiche Dee avevano questo motto che aveva una ragione di essere. La Dea era la Natura, la sfida era: "Guardami e scopri cosa c'è dietro ciò che vedi: oltre le terre, i mari, le foreste e i deserti". La natura aveva una parte visibile e una invisibile. Questo concetto di eternità sarà alla base di tutte le Grandi Madri e la rappresentazione dei Aternitas verrà perpetuata fino alla fine dell'impero.

Una iscrizione con la parola Ae. appare  sulle monete di Augusto coniate in Spagna, sulla raffigurazione di un tempio a 4 o a 8 colonne, dedicato alla Dea Aeterna. E' il destino di Roma quello di essere eterna, perchè gli Dei hanno sancito così e perchè Roma stessa è diventata una divinità debitamente e regolarmente oggetto del culto di stato. Infatti La Dea Aeternitas compare su una moneta insieme alla Dea Roma.

Con Vespasiano (69 - 79), compare la Dea Ae. (Aeternitas) velata, in piedi, a lato di un'ara con il fuoco acceso ed ha, nelle mani, i simboli del sole e della luna (simboli che userà la chiesa per il Cristo, ai lati della croce, nel Medioevo). 

Altri suoi attributi sono il corno dell'abbondanza, lo scettro oppure il globo, raramente spighe e un vaso per l'incenso, il timone (simbolo dell'ordine del mondo), o una tazza. 

DEA AETERNITAS
Sulle monete di Faustina senior Aeternitas ha anche la fenice, simbolo di resurrezione e quindi di immortalità; a volte è raffigurata sotto un velo coperto di stelle e con il globo in mano, oppure ha la fiaccola.

Le spighe sono il simbolo della Dea come nutrimento delle creature che da lei nascono, si nutrono, e in lei muoiono, rinnovando i cicli che costituiscono l'Eternità. 

Essa infatti non è statica ma si rinnova, vita e morte sono il meccanismo dell'Eternità.
Anche la fiaccola è simbolo della vita, che la Dea tiene alzata o abbassata per indicare la vita e la morte, visto che ambedue fanno parte dell'eternità.

Il vaso dell'incenso è il simbolo della purificazione che offre alle creature mediante la venerazione (e la comprensione) di lei. Il timone è lo stesso della Dea Fortuna, è lei che tiene le sorti del mondo. La tazza è il contenitore, perchè lei è contenitore e contenuto, come il corpo dell'uomo e la sua anima.

Viene identificata come Aeternitas anche la figura femminile alata che, in un rilievo adrianeo raffigurante l'apoteosi di un'imperatrice, trasporta in cielo l'imperatrice stessa. 

Nel 141 d.c. la Diva Faustina (moglie di Antonino Pio), morta in tale data, viene commemorata dall'imperatore su un Denario d'argento. Ella compare sul davanti come busto di Faustina con diadema e orecchini. Sul retro della moneta invece compare come Dea AETERNITAS che regge il globo con un velo attorno alla testa.

DEA AETERNITAS
Sulle monete di Faustina senior, come Aeternitas, ha la fenice, simbolo di resurrezione e quindi di immortalità; a volte è raffigurata sotto un velo coperto di stelle e con il globo in mano, oppure ha la fiaccola.

I simboli dello scettro e del globo la designano come Dea Primigenia. colei che governa il mondo.

E' la Dea dell’eterno ritorno della natura. Il fatto che sia velata indica quanto sia difficile comprendere il funzionamento dell'universo, cioè della Dea.

Sembra che la mente ci precluda la conoscenza del mondo, in quanto pronti a credere solo ciò che ci hanno insegnato fin da bambini. La fenice è colei che muore e risorge dalle sue ceneri. Vale a dire che la natura muore e risorge, e noi con lei

Su uno dei rilievi aureliani dell'arco di Costantino, nella scena di Adventus, si è identificata come Aeternitas, la figura femminile velata, visibile in secondo piano tra Marte e l'imperatore. 

Sul fatto che Aeternitas avesse tra i suoi attributi anche la cornucopia, ci fa capire che fu una Grande Dea, un'ipostasi della Natura, un corno lunare inesauribile attraverso cui scaturisce il nutrimento degli uomini, degli animali e delle piante.

Il fatto che a volte sia raffigurata sotto un velo coperto di stelle e con il globo in mano, indica la sua qualità terrena di Dea visibile agli uomini, mentre solitamente gli Dei non lo sono.

L'ARMATURA ROMANA

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I romani erano da principio un popolo di pastori che dovevano difendersi dai razziatori di bestiame. Indossavano pelli di pecora ed erano armati  di forconi ed asce. Erano praticamente dei barbari ma con una qualità in più: sapevano imparare dagli altri. Al contrario dei barbari che odiavano qualsiasi innovazione i romani le osservavano e se utili le mettevano a profitto.

E avevano un'altra qualità: mentre i clan sono gelosi della propria individualità e non tollerano infiltrazioni, i romani capirono che più si aggregavano ad altri più avevano capacità di sopravvivere.

Dai vicini etruschi appresero a tingere di rosso le stoffe, e a fabbricare le insegne, le armi e le armature. Il primo esercito romano, all'epoca di Romolo, era costituito infatti da fanti che avevano imparato a combattere dagli etruschi. Quindi a piedi, con lance o giavellotti, spade, pugnali ed asce, mentre solo i più ricchi potevano permettersi un'armatura completa, dotata di elmo e corazza.

Gli etruschi infatti avevano corazze di cuoio o di metallo, come questa della figura qua sotto, detto Marte di Todi, del V sec. a.c., con una finissima armatura di cuoio finemente lavorato. Si nota la chiusura sul petto e le frange sopra al gonnellino come usarono poi i romani.

MARTE DI TODI
Altri guerrieri potevano permettersi solo una piccola protezione rettangolare sul petto, davanti al cuore, oppure una doppia protezione, davanti e alle spalle. Questa protezione in bronzo poteva essere anche tonda o trilobata.

Secondo Polibio i cavalieri non avevano una corazza, bensì una semplice trabea (un mantello corto con strisce di porpora) e lo ribadisce anche Dionigi di Alicarnasso, per salire e scendere da cavallo comodamente, ma nessuna protezione nel combattimento.

Le prime armature comunque furono di lino e di cuoio, borchiate e non. In ogni caso è praticamente impossibile stabilire una scala di datazione per le diverse armature romane, perchè spesso i diversi tipi convissero, magari non nelle stesse zone o per lo stesso tipo di combattenti.

Almeno finchè le armature, come del resto le armi, non vennero fornite dallo stato romano, quindi regolamentate e prodotte in serie, insomma diventò un'"uniforme" che li contraddistingueva. Un romano iniziava a combattere nelle palestre di addestramento, cioè nei campus, all'aperto, uno dei più famosi fu Campus Martius (oggi Campomarzio a Roma). Praticamente da quel momento il romano viveva con l'armatura addosso..

Tutte le armi dei legionari romani comunque hanno subito negli anni delle storia di Roma antica un'evoluzione continua, sempre all'insegna di scegliere il meglio.

CAVALLERIA GRECA

MONARCHIA


LINOTHORAX GRECA

Una delle prime armature fu quella di lino, detta linothorax, usata nell'antica Grecia e citata da Omero per i suoi guerrieri. Plutarco riferisce che la linothorax fu utilizzata anche da Alessandro Magno e troviamo altre citazioni di questa armatura in Erodoto, Tito Livio, e Strabone.

GENERALE ATENIESE
Date le fonti storiche, nonostante le ricostruzioni di armature metalliche dei film su Alessandro, si ritiene che, con un'armatura in bronzo, il condottiero non sarebbe sopravvissuto alle numerose battaglie alle quali partecipò stando in prima linea. La linothorax dominò insomma l'epoca arcaica e oltre, soprattutto tra i romani.

Sembra infatti che la linothorax abbia rimpiazzato la corazza o il corpetto di bronzo tipicamente usati dagli opliti greci tra la fine del VII e l'inizio del VI sec. a.c. È testimoniato infatti che non solo Alessandro Magno (356-323 a.c.) ma tutti i suoi eserciti la utilizzassero; d'altronde moderni esperimenti hanno dimostrato che più strati di lino sovrapposti offrono maggiore resistenza alla penetrazione delle frecce che non un'armatura in lamina di bronzo.

Nel mosaico del Museo archeologico nazionale di Napoli, Alessandro Magno sembra proprio indossare una linothorax: e si notano chiaramente varie pteruges (fascette di lino) sparse su tutta l'armatura. Del resto nella sua "Vita di Alessandro", lo storico greco Plutarco afferma che il condottiero indossava "una corazza di lino piegato".

Molti pensano che la linothorax fosse costituita da 12 a 20 strati di lino, per altri era fatta di cuoio, per altri ancora i diversi strati di tessuto erano tenuti insieme da colle animali o da resine, ma è più probabile che i vari livelli fossero impuntiti insieme con tecniche simili a quelle delle maglie rivestite medioevali; le colle animali dell'epoca erano, infatti, solubili in acqua, fatto che ne avrebbe impedito l'uso in caso di precipitazioni.

MOSAICO DI ALESSANDRO MAGNO IN LINOTHORAX 

Il Linothorax Project

Nel gennaio del 2009 Gregory S. Aldrete, dell'Università del Wisconsin–Green Bay, e Scott Bartell presentarono un documento riguardante le qualità protettive della linothorax alla Convention dell'American Philological Association/Archaeological Institute of America di Filadelfia.

I due avevano compiuto ricerche sulla linothorax dal 2005 e ne avevano costruite varie repliche, usando vari metodi.

LINOTHORAX TRATTA DA VASO GRECO
Il documento sosteneva che una linothorax spessa 1 cm, solitamente formata da 11 a 18 strati (che, di solito, dipendevano dallo spessore del filo), avrebbe consentito a colui che la indossava di sopravvivere ad una salva di frecce.

La ricerca era stata compiuta assemblando dozzine di corazze di lino, decorate in varie modi usando materiali d'epoca, per poi sottoporle a colpi di freccia e di armi da taglio.

Il test fu effettuato nelle peggiori condizioni possibili (per la linothorax), visto che l'arciere la colpiva perpendicolarmente e quasi a bruciapelo: visto che in battaglia queste condizioni si verificano raramente, il risultato di questo test è ancora più notevole.

Nell'uso la linothorax si presenta fredda e rigida quando viene messa la prima volta, ma si riscalda grazie al calore corporeo e si adatta alla forma e ai movimenti di chi la indossa.

Questo vantaggio, in climi più caldi, non ci sarebbero con un'armatura di bronzo, ma anzi ne avrebbe precluso alla lunga i movimenti.
Il 9 novembre 2011 il dottor Aldrete presenziò ad un episodio della trasmissione "Vero o falso?" su Discovery Channel.

Egli illustrò la resistenza della linothorax  facendola indossare ad uno dei suoi studenti, Scott Bartell, per poi lanciargli contro una freccia, che lui non sentì neanche, visto che penetrò di appena 1 o 2 mm.

SOLDATO IN LINOTHORAX

LINOTORAX ROMANA

Le prime armi di offesa e difesa i romani le copiarono da etruschi e greci, e dai greci copiarono sicuramente la Linothorax, con fasce di lino cotte e sovrapposte, sicuramente non solo cucite ma in seguito incollate, magari con colla di semi di lino, all'epoca in grande uso, mescolata a grassi, che non dovesse sciogliersi in acqua.

"Abbiamo scoperto che un linothorax di dodici mm di spessore avrebbe protetto la persona da qualsiasi freccia che avesse incontrato da circa il 600 a.c. al 200 a.c.", ha detto Aldrete. Solo nel II sec. a.c. risultò migliore la metallurgia, perchè le punte di freccia-più resistenti e affilate resero il linothorax obsoleto.


LORICA DI CUOIO

La lorica in cuoio fu usata agli inizi dell’organizzazione militare, a difesa del petto e della schiena, indossata dapprima solo dai capi e successivamente anche dai soldati delle classi inferiori. Poteva essere anatomica o segmentata.


LORICA SEGMENTATA DI CUOIO 

Questa lorica di cuoio veniva sovente rafforzata con placche di metallo, e non fu mai abbandonata del tutto, anche dopo le loriche di metallo.

Infatti aveva il vantaggio di essere più leggera e di permettere una maggiore libertà di movimenti. 
Alcuni comandanti, in certi periodi, a seconda delle esigenze e delle tattiche del momento, facevano indossare le loriche di cuoio. 

Questa armatura era fatta di strisce di cuoio grasso che si agganciavano sul davanti con delle stringhe di cuoio più larghe che riparavano meglio le spalle.
In genere si trattava di un'unica stringa che veniva passata attraverso tutti i semianelli di ottone, dall'alto in basso, per legarne i due capi all'ultimo anello in basso.

Oppure, come nella foto accanto, ogni striscia di cuoio veniva fissata sul davanti con delle strisce più sottili, fermate da borchie, con delle fibbie di bronzo.

Sulle spalle venivano poste le strisce più ampie e sagomate, fissate tra loro e alle strisce del torace attraverso borchie di metallo. Per ciò che riguarda le taglie per maggiorare la lorica bastava per la lunghezza aggiungere una più strisce di cuoio, mentre per la larghezza era sufficiente allentare la stringa di cuoio. Si presuppone che ne facessero un paio di taglie.

Queste loriche erano usatissime perchè con esse non c'erano problemi di sostenibilità, per cui si poteva indossare a lungo e pertanto combattere a lungo, Cosa impossibile se si doveva sostenere il peso di un'armatura di metallo.

Essa copriva petto, pancia, fianchi e schiena fino alla cintura, ed era usata tanto dagli alti che dai bassi gradi, solo che per i primi veniva finemente incisa ed e lavorata.


LORICA MUSCULATA  DI CUOIO

A volte la lorica di cuoio veniva sagomata cuocendola su matrici di metallo, riproducendo una lorica musculata, legata con fibbie laterali che univano il davanti e il dietro, mentre sulle spalle venivano fissate con fibbie graduate. 

Essa poteva adattarsi alle varie taglie attraverso le varie fibbie, presupponendo però che ne facessero almeno due taglie. Così come si potevano sagomare si potevano incidere e unirvi inserti di metallo, in bronzo, in argento o in oro. Oppure vi si potevano agganciare medaglie o simboli vari.


RIFORMA DI SERVIO TULLIO


LORICA MUSCULATA DI METALLO IN EPOCA MONARCHICA

La riorganizzazione della macchina da guerra romana, ad opera del VI re di Roma, del 570 a.c., rimase in vigore almeno per un paio di secoli. Egli rielaborò in pratica la falange oplitica greca con alcune modifiche.

Infatti con questa riforma la prima classe (di cinque) indossò per obbligo e per diritto una corazza in bronzo o ferro, del tipo lorica musculata (o corazza anatomica).

LORICA MUSCOLATA IV SEC. A.C. 
Essa era una corazza in lega metallica che riproduceva i muscoli del petto e del torace, con protezioni aggiunte alle gambe e agli avambracci, consistenti in fasce in pelle dette pteruges. 

Queste venivano indossate dai comandanti e dagli ufficiali che non portavano lo scudo. Gli pterugi, o pteruges o pteryges, erano frange che talvolta formano una sorta di gonnellino decorativo usato dagli antichi soldati greci e romani al di sotto dell'armatura.

Questi erano quindi destinati alla difesa corazzata dell'inguine e della parte superiore delle gambe.

Questa a lato è una corazza "muscolare" in bronzo italica del IV sec. a.c. (da Ruvo di Puglia, ora al British Museum).

Questa corazza in bronzo è stata molto dibattuta, perchè il bronzo è poco duttile, quindi più spesso del ferro, ma meno resistente, e inoltre molto più pesante.

Ci si è chiesto pertanto se i pochi reperti di cui si dispone fossero usati in guerra o fossero solo da parata. Oppure veniva usata dagli alti gradi a patto che non dovessero combattere, perchè il peso si sarebbe fatto sentire dopo un po' fino a diventare insostenibile.

Però anche i capi potevano aver bisogno di fuggire e magari cavalcando a lungo, aggiungendo quindi peso alle proprie spalle e al cavallo, una differenza che poteva segnare il confine tra vita e morte.


LORICA MUSCULATA IN EPOCA IMPERIALE

Dobbiamo anzitutto distinguere tra una lorica musculata di bronzo e una di ferro, perchè quest'ultima era sicuramente molto più leggera di quella di bronzo, essendo il ferro molto più duttile e quindi lavorabile su una lamina molto più sottile.

LORICA MUSCOLATA DI AUGUSTO (Primaporta)
C'è da tener conto poi che il ferro è meno fragile del bronzo, quindi più difficile fa perforare (naturalmente a parità di spessore, anche se è più facile a piegarsi.)

Poichè ci si è chiesti se la lorica di Augusto  fosse di bronzo o di cuoio, viene da chiedersi perchè non potesse essere di ferro.  

La duttilità o plasmabilità dei metalli, dal più duttile al meno duttile, è: oro, argento, platino, ferro, nichel, rame, alluminio, zinco, stagno e piombo.

E' evidente che il ferro è il più plasmabile e resistente dei metalli adoperabili per un'armatura, tanto che per indurirla si poneva in lega con metalli meno duttili.

La lavorazione per ottenere la foglia d’oro, all'epoca dei romani, consisteva nel sovrapporre strati d’oro a strati di pergamena che venivano battuti da un maglio adattandoli manualmente alle superfici da rivestire. 

Ovviamente, all'epoca lo spessore dei fogli d’oro era molto più consistente di quella che si potrebbe fare oggi. 

Pertanto era una tecnica costosa, ma veniva largamente usata per statue di divinità in bronzo o per elmi e armature da parata. 
Nulla vieta pertanto che l'armatura di Augusto fosse di ferro acciaiato dorato. e così molte altre armature da cerimonia.

Il che farebbe pensare che, se di strato piuttosto sottile, potessero essere usate anche a lungo. Di solito erano fatte di due lastre (davanti e dietro), che venivano ribattute su una matrice di terracotta per il busto. 

A questo si agganciavano le pteruges e le manicae che rimanevano mobili. Il tutto poi veniva dall'esterno ritoccato a cesello con un bulino.
Seguiva poi un passaggio di colla a base di olii, in genere di lino, e quando il tutto era perfettamente asciutto si applicava l'oro in foglia. A volte si proseguiva invece con applicazioni in bronzo dorato, borchie o altre decorazioni.

SOLDATO IN PETTORALE QUADRATO


IL PETTORALE QUADRATO

In questa immagine sopra, è raffigurato un guerriero romano fornito di una veste rossa, un elmo, una spada, uno schiniere (gambale), indossata sulla gamba sinistra, e un pettorale quadrato, tenuto da 4 lacci di cuoio che si fermavano sulla schiena.

I pettorali romani non erano dissimili da quelli etruschi, e avevano forma tonda, quadrata, rettangolare e trilobata. Il più semplice sembra fosse quello tondo, che era leggermente bombato e con un orlo ribattuto.

Quello quadrato era talvolta musculato, cioè rappresentava una certa muscolatura come quello qua sopra. I pettorali erano solitamente di bronzo, cioè una lega di rame e zinco che, accuratamente lucidato, imitava il colore e la lucentezza dell'oro. Il movimento della muscolatura o quello della bombatura faceva scivolare più facilmente l'arma nemica ostacolandone la penetrazione.


IL PETTORALE TRILOBATO

Molti combattenti portavano delle piastre metalliche pettorali e dorsali di fattura molto semplice, quadrate o tonde, oppure a tre tondi uniti (trilobate).

PETTORALE TRILOBATO
Il pettorale bronzeo trilobato, semplice oppure decorato con emblemi o simboli, era delle dimensioni di circa 15 x 22 cm.  
                    
In genere il trilobato era doppio, perchè copriva il torace e la schiena, a volte tenuto, oltre che dai lacci di cuoio, da fasce metalliche laterali.

Il pettorale trilobato era caratteristico di alcune popolazioni italiche e greche. Presentava il vantaggio di essere leggero e di lasciare liberi i movimenti. Esso copriva più o meno la parte superiore del torace e il ventre, lasciando però vulnerabili gli inguini e le spalle.

Aveva un peso e un prezzo decisamente inferiore alla lorica per cui veniva usato dai meno abbienti o dai gradi più bassi, tenendo conto però che talvolta gli ausiliari erano completamente privi di armature.
                        
PTERUGES IN CUOIO
Chi non poteva permettersi l'armatura indossava un linothorax con pteruges, composto da più strati di lino e in alcuni casi coperto ulteriormente da uno strato di piastrine molto sottili e leggere di bronzo o ferro.

A volte, per offrire maggiore resistenza ma soprattutto per un più piacevole aspetto, le pteruges venivano borchiate in bronzo.

Comunque presso gli ufficiali superiori rimase sempre in uso la corazza muscolare, in cuoio, ferro o bronzo.

Oltre a queste, alle corazze venivano spesso associate strisce di stoffa o cuoio (pteryges: ali in greco) che copriva la parte superiore delle braccia.

Ma le pteruges (o pteryges) potevano essere applicate anche alle loriche di cuoio, naturalmente si trattava di frange anch'esse di cuoio pesante come si vede nella figura qua sopra, in modo che ripèarassero senza ostacolare i movimenti. A volte queste venivano incise o adornate con bronzetti fusi rappresentanti teste di animali o altro.

Si indossavano inoltre uno o due gambali (ocreae), sulle gambe esposte al combattimento. Queste potevano essere di cuoio, di ferro o di bronzo, o di cuoio borchiato. Potevano arrivare sopra o sotto il ginocchio, e a loro volta essere ornate da inserzioni di bronzo.

SCHINIERI DI BRONZO
Qui a lato vi sono degli schinieri corinzi (Magna Grecia, inizi del V sec. a.c.). Lo schiniere o gambale protegge parte della gamba, dal malleolo al ginocchio (anticamente copriva anche quest'ultimo) e serviva per proteggere la parte che rimaneva al di fuori dello scudo.

Le prime gambiere, o schinieri, erano di cuoio, e generalmente ne era portata solo una, quella di destra, che era in genere la gamba più avanzata, raramente quella di sinistra. Omero narra però che i suoi eroi ne portavano due. Di ciò c'è una ragione. 

Anticamente l'uomo era più sinistrimane che destrimane, per cui usava di più la mano e la gamba sinistra. Successivamente, con la specializzazione del cervello, si usarono di più la mano e la gamba destra.

Naturalmente dovette esserci un periodo di transizione in cui le persone usavano indifferentemente entrambi, ed ecco la ragione di entrambi i gambali. Naturalmente poteva essere anche semplicemente una precauzione ulteriore.

Nella Grecia classica i gambali si stringevano attorno al polpaccio essendo stampati stretti, ma pur sempre con una certa elasticità. Per evitare gli sfregamenti il loro utilizzo era abbinato all'uso di bende apposite. Rarissime comunque le protezioni per le braccia.

Non si usavano protezioni per i piedi che indossavano sandali di cuoio, anche perchè era un colpo talmente basso che era difficile, oltre che pericoloso, da vibrare.
SOLDATO IN LORICA HAMATA

REPUBBLICA ROMANA


LA LORICA HAMATA

In seguito alla riforma manipolare e alla tripartizione censoria dell'esercito in Hastati, Principes e Triarii, l'armamento si modellò in base a questa gerarchia: gli hastati erano equipaggiati con corazze leggere (spesso di cuoio o composte di piastroni di metallo sul petto), i principes avevano corazze più pesanti (solitamente cotte di maglia lunghe fino al bacino) e i triarii avevano una corazza pesante.

A seguito invece della riforma mariana, le divisioni tra hastati, principes e triarii divennero solo nominali e in breve tempo sparirono e tutti i legionari indossarono lo stesso equipaggiamento, fornito loro dallo Stato assieme al salario.

Essi indossavano una lorica a maglia di ferro, Scomparvero, pertanto, le divisioni interne velites, hastati, principes e triarii.
« Lorica, quod e loris de corio crudo pectoralia faciebant; postea subcidit gallica e ferro sub id vocabulum, ex anulis ferrea tunica. »
(Varrone - De Lingua Latina)
Dunque la lorica hamata era di origine celtica, o almeno così pensava Varrone, ma non era il solo a sostenerlo.

LORICA HAMATA
La lorica hamata, così veniva chiamata, era composta da anelli metallici, dai 6 agli 8 mm. agganciati tra loro, per un peso massimo di 15 kg. Nel periodo imperiale si aggiunse un rinforzo spallare (humeralis), che veniva chiuso sul petto da due ganci di solito con immagini di teste di animali o altro. Questo protesse di più ma pesò anche di più.

I Romani pertanto usavano indossare una o due grosse cinture in cuoio borchiato, detta balteus, che permetteva di scaricare una parte del peso dell'armatura sulle anche sostenendo la spina dorsale, un po' come i cinturoni che usano oggi i ginnasti del sollevamento pesi..

La lunghezza della lorica hamata, nel passaggio dall'epoca repubblicana all'epoca imperiale, si ridusse, usando a protezione delle gambe e del basso ventre, gli pterigi di cuoio.

Questo permise di ridurne il peso consentendo movimenti più sciolti nel combattimento.

Gli anelli della maglia potevano essere intessuti tramite il ricorso a rivetti (appiattiti o larghi) cioè giunture tra lamine diverse, o ad incastro (privo di rivettatura). Nel primo caso il procedimento di realizzazione era più lento, quindi più costoso, ma durava più a lungo, nel secondo caso il prodotto era meno resistente, ma i tempi di produzione erano accorciati.

Sotto Gaio Mario (157 - 86) indossarono un tipo speciale di lorica hamata, appunto più corta, una maglia di anelli di ferro del peso di 10-15 kg, dotata di humeralis, una tunica con spalle  protette in quanto foderate come nel linothorax greco, oppure un farsetto thoracomachus, in genere con le spalle coperte di pelliccia, che faceva da ulteriore protezione, da indossare sotto la cotta.

In più indossarono delle strisce di pelle, le pteruges, che coprivano avambracci e cosce, A volte invece si usava un pettorale metallico legato al busto con fasce di cuoio, le spalle foderate e le pteruges.

Polibio ritiene che solo i milites della prima classe indossassero questo genere di cotta di maglia, mentre il resto usava il pectorale, una piccola piastra quadrata per proteggere il cuore, oltre a uno schiniere (ocrea), una gambiera dalla caviglia al ginocchio, sulla gamba esposta al combattimento (solitamente la destra), o su tutte e due.

Mario era riuscito a rendere la figura del legionario una figura professionale e nel contempo uniforme, poiché ogni legionario fu equipaggiato a spese della Repubblica romana, di tutto l'occorrente per provvedere alla propria autonomia durante le lunghe marce.

LORICA SEGMENTATA

LORICA SEGMENTATA

Sul finire del principato di Tiberio, la lorica hamata del legionario fu sostituita dalla lorica segmentata, sempre in metallo, ben rappresentata sulla colonna traiana. Essa era composta da una serie di lamine di acciaio unite tra loro, all'interno, da strisce di cuoio a formare dei segmenti, da qui il nome segmentata.

Comunque la lorica hamata venne utilizzata con continuità durante tutto l'impero romano, anche quando i legionari vennero equipaggiati con la lorica segmentata, utilizzata anche dagli ausiliari e dalla cavalleria, e pure dai legionari durante il tardo impero e a Bisanzio. Questa corazza, la segmentata, era più pesante della hamata, con la stessa capacità di movimenti, ma, poichè era più pesante, rendeva meno resistente il legionario, specie alla distanza.

Gli allacci erano effettuati con stringhe di cuoio collegate a sezioni metalliche applicate sulle piastre dell'armatura, a mezzo di fettucce e con piccole borchie di rinforzo.

LORICA SEGMENTATA
La lorica hamata restò comunque la più utilizzata, indossata su un farsetto di lana, insieme alla segmentata. Questa come nessuna individua il legionario romano, che è ovunque, dai libri ai film, raffigurato con questo tipo di armatura.

Giuseppe Flavio dell'armamento che utilizzava l'esercito romano durante la I guerra giudaica (66-74):

« Si mettono in marcia tutti in silenzio e ordinatamente, restando ciascuno al proprio posto come fossero in battaglia. I fanti indossano corazze (lorica segmentata) ed elmi (cassis o galea), una spada appesa su ciascun fianco, dove quella di sinistra è più lunga (gladius) di quella di destra (pugio), quest'ultima non più lunga di un palmo. 

I soldati "scelti", che fanno da scorta al comandante, portano una lancia (hasta) e uno scudo rotondo (clipeus); il resto dei legionari un giavellotto (pilum) e uno scudo oblungo (scutum), oltre ad una serie di attrezzi come, una sega, un cesto, una picozza (dolabra), una scure, una cinghia, un trincetto, una catena e cibo per tre giorni; tanto che i fanti sono carichi come bestie da soma (i muli di Mario).

I cavalieri portano una grande spada sul fianco destro (spatha), impugnano una lunga lancia (lancea), uno scudo viene quindi posto obliquamente sul fianco del cavallo, in una faretra sono messi anche tre o più dardi dalla punta larga e grande non meno di quella delle lance; l'elmo e la corazza sono simili a quelli della fanteria. L'armamento dei cavalieri scelti, quelli che fanno da scorta al comandante, non differisce in nulla a quello delle ali di cavalleria. A sorte, infine, si stabilisce quale delle legioni debba iniziare la colonna di marcia. »

(Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III, 5.5.93-97.)

La lorica segmentata è uno dei rari esempi di armatura laminare, equipaggiamento tipico delle popolazioni orientali, in uso a forze armate europee, ma soprattutto romane. Questo tipo di armatura "ritornò" in Europa in epoca post-rinascimentale

Trattavasi di lunghe strisce d'acciaio che coprivano il torace nel davanti e sui fianchi. nel retro della segmentata vi sono gli allacci con stringhe di cuoio collegate a sezioni metalliche applicate sulle piastre dell'armatura, fettucce, piccole borchie di rinforzo.

Le strisce d'acciaio non erano difficili da ricavare perchè il laminato ordinato al banco metalli, poteva essere richiesto della larghezza che si desiderava, naturalmente più la striscia era stretta più il costo aumentava, ma di poco.


Dunque il ferro in lega veniva fuso, ridotto a lamina facendola passare attraverso dei trafilatoi (rulli) e infine veniva portata alla larghezza voluta, dopodiché veniva tagliata della lunghezza occorrente.

Naturalmente il peso dell'armatura variava a seconda della qualità della lega ma soprattutto dallo spessore della stessa.

Il "Vindolanda Roman Army Museum", custode delle parti ritrovate a Corbrigde, afferma che i fortini romani presso cui sono state rinvenute sarebbero state in uso a guarnigioni di cavalleria.

In effetti alcuni test "sperimentali" mostrano che i lavori di fortificazione mostrati dalla Colonna Traiana risultino estremamente faticosi con indosso una corazza del genere. 

D'altronde mentre mancano riferimenti letterari sulla segmentata per la fanteria pesante, Ammiano Marcellino in Res Gestae XVI, X, 8 cita dei clibanarii dell'Imperatore Giuliano con corazze metalliche a fasce.

Le raffigurazioni su pietra di corazze a segmenti le mostrano tutte aderenti al corpo, tanto da far supporre che quei tipi di protezioni potessero essere organici (cuoio, lino etc.). Il reperto conservato al British Museum e proveniente da Qasir Ibrahim in Egitto, consistente in una striscia di cuoio, è stato da alcuni considerato come parte di una corazza a segmenti.

Il modello di segmentata di Corbridge, rinvenuto a sud del Vallo di Adriano (1-120 d.c. circa) è ritenuto anteriore al secondo dello stesso tipo (50-250 d.c. circa), e sono entrambi composti da una serie di lamine di acciaio unite tra loro, all'interno, da strisce di cuoio a formare dei segmenti, da qui il nome segmentata.
LORICA SQUAMATA

LORICA SQUAMATA

La corazza era così chiamata per le lamelle di metallo di cui era composta. Il nome è dovuto al fatto che tali lamelle, poste l'una a fianco all'altra, ricordino le squame (squamae) di un pesce
La lorica squamata era la variante in uso all'esercito romano dell'armatura a scaglie.

Quest'ultima era una primitiva tipologia d'armatura composta da scaglie o squame di metallo di foggia e dimensioni diverse che venivano disposte a più strati sovrapposti su di un supporto di cuoio o di stoffa, a cui erano agganciate ma non interamente fissate. Era nata nelle regioni più orientali del continente eurasiatico, e raggiunse l'Europa solamente al tempo di Alessandro Magno.

La lorica squamata, fatta si a lamelle sovrapposte, ma interamente fissate, era stata copiata da corazze orientali e cominciò ad essere indossata dal I sec. d.c., inizialmente solo dagli ufficiali, nei secoli seguenti divenne usuale anche per la truppa.

Sembra ne esistessero anche di bronzo, visto che costava meno del ferro cosiddetto acciaiato, cioè in lega col carbonio. Il bronzo era una lega tra rame e stagno, cui si potevano aggiungere piccole quantità di altri metalli.

Il bronzo si riconosce ad occhio perchè forma per ossidazione un verde-rame che preserva tuttavia lo strato sottostante.

L'ossidazione del ferro peraltro è continua e incessante, comunque il ferro dolce, o acciaiato come lo producevano i romani, aveva una resistenza maggiore, un peso minore e una minore capacità di ossidarsi, e comunque era compito del legionario badare al mantenimento corretto dell'armatura e delle armi.

Era un compito che i romani svolgevano con la massima cura, oliando armatura ed armi e controllando fibbie, stringhe di cuoio e borchie varie, perchè dallo stato dell'armamento poteva fare la differenza tra vita e morte.

Queste corazze erano state ideate per essere flessibili, ma resistenti. Viceversa la Lorica musculata di metallo era poco flessibile anche se di grande scena, per cui fu molto usata dagli imperatori, dai generali e durante i trionfi. Era insomma soprattutto un'armatura cerimoniale.

Le squame delle varie armature non erano tutte uguali, sia perchè le facevano artigiani diversi , in quanto ce n'erano pubblici e privati.

Ovviamente i più abbienti si sceglievano quelle migliori sia per la qualità che per l'aspetto scenico.

Tuttavia i romani hanno dato sempre grande importanza alle innovazioni, per cui ogni artigiano studiava come migliorare il prodotto, ad esempio ribattendo i bordi di ogni squama rendendola più resistente.

Oppure ne studiava lo spessore più adatto, o la lega migliore. Ovviamente le squame si ricavavano fa un laminato, cioè da una lastra continua di una determinata lega che veniva venduta dal banco metalli (Giunone Moneta) a trance, che l'artigiano si portava a negozio e poi tranciava la lamina.

Per questo occorreva una forma e un maglio che tagliava di botto la lamina poggiata su una forma con i contorni in rilievo. Naturalmente cambiando la matrice si cambiavano le forme delle squame.


LORICA MANICATA

Le maniche dell'armatura (manicae) vennero anche aggiunte per riparare le braccia, usando delle fasce metalliche (o di cuoio) a protezione di ambedue le braccia o di un solo arto.

Il loro uso è attestato nel Trophaeum Traiani, dove un soldato rappresentato nella metopa del Trophaeum utilizza per il braccio esposto al combattimento una manica, tipica della lorica manica e dei gladiatori crupellarii citati da Tacito.

Nel 21 d.c., in Gallia, durante la rivolta di Giulio Floro e Giulio Sacroviro (capo degli Edui) oltre ai normali combattenti gallici poveramente armati, vennero impiegati dei guerrieri gladiatori pesantemente corazzati, i Crupellarii, come narra Tacito:

« Vi aggregarono gli schiavi destinati al mestiere di gladiatore, che avevano, secondo la pratica di quella gente, un'armatura completa: li chiamano «Crupellarii», poco adatti a menar colpi, ma impenetrabili a quelli degli avversari.
Un po' di resistenza opposero gli uomini catafratti di ferro, poiché le corazze reggevano ai colpi di lancia e di spada; ma i soldati, impugnati scuri e picconi, come per sfondare una muraglia, facevano a pezzi armature e corpi; alcuni con pertiche e forche abbattevano quelle masse inerti che, prostrate a terra, incapaci d'un minimo sforzo per rialzarsi, erano abbandonate lì come morte
. » (Tacito, Annales)

La lorica manica, detta semplicemente manica, era un tipo di parabraccio di ferro o di bronzo, in genere costituito da quattordici segmenti di metallo ricurvi e sovrapposti, di cui dodici segmenti più stretti e due più larghi alle estremità. A volte la manica era realizzata con stoffa di lino o cuoio strettamente fasciati attorno al braccio e provvisti di imbottitura.


AUSILIARI ROMANI

GLI AUSILIARI

C'erano poi gli Ausiliari, delle truppe dell'esercito romano reclutato fra le popolazioni sottomesse di peregrini, ovvero non ancora in possesso della cittadinanza romana.

Attraverso le imprevedibili tattiche di Annibale l'esercito romano aveva subito molti danni. Le sue manovre repentine, soprattutto delle ali di cavalleria cartaginese e numidica, avevano distrutto numerosi eserciti romani, anche a loro superiori di numero, come era avvenuto nella battaglia di Canne dove erano morti 50.000 Romani. 

Ora i romani erano abituati ad essere loro a vincere eserciti più numerosi, e i generali tenevano a questo per non provocare scoraggiamento nei militi, e magari disapprovazione da parte del popolo romano che all'epoca contava molto. Si pensi che il popolo aveva la facoltà di nominare esso stesso dei generali. Perciò una sconfitta dell'esercito come quella di Canne era inammissibile per Roma, pertanto richiese un grande rinnovamento. 

Si pensò così all'impiego di contingenti di cavalleria di regni alleati, come avvenne con Scipione Africano nella battaglia di Zama del 202 a.c., dove l'esercito romano, insieme a 4.000 cavalieri alleati numidi, riuscì a sconfiggere per sempre le forze cartaginesi.
AUSILIARI
A questi contingenti di cavalleria vennero aggiunti gli arcieri orientali o cretesi e i frombolieri delle isole Baleari. 

Giulio Cesare fu il primo a comprendere appieno l'utilità degli ausiliari, perchè contro le agili tribù montane e contro le fanterie leggere, i legionari erano troppo lenti ed impacciati. Ma fu la riforma militare di Gaio Mario a dare stabilità e ruolo a tutte le forze straniere, che divennero auxilia, ovvero truppe sussidiare ai cittadini legionari. 

Richiedendo truppe ai paesi conquistati di volta in volta. L'esercito romano aumentò le varie specializzazioni delle truppe ausiliarie. Gli ausiliari erano di solito armati alla leggera ed erano un corpo di lancieri, atti a proteggere i fianchi dei più pesantemente armati legionari. 

Generalmente portavano la lorica hamata, a parte i cavalieri catafratti che usavano una specie di lorica squamata che però li copriva interamente, cavalli compresi. Comunque Poiché le unità ausiliarie venivano da province assai diverse, le loro armature, indumenti ed armi erano spesso eterogenee. 

Costituendo truppe di completamento accanto alla fanteria pesante legionaria, erano solitamente armate alla leggera, ma potevano anche avere armamento simile a quello legionario;



SIGNIFER

Un discorso a parte merita il signifer, per l'importante ruolo che ricopriva, sia per la truppa che per il nemico. Egli era infatti un bersaglio assai ambito, visto che al termine delle battaglie si contavano i signa sottratti alle armate romane. 

Per i romani non farsi conquistare gli stendardi era una questione di onore e di prestigio. Cesare sceglieva solitamente tra i signiferi i migliori uomini di truppa, per abilità e valore, chiamati antesignani, proprio perché si ponevano di fronte al nemico a protezione delle insegne (ante-signa). 

Gli antesignani erano pertanto truppe leggere d'élite che costituivano l'avanguardia di una legione, addestrati per combattere al di fuori della formazione da battaglia della fanteria pesante. Antesignani significa infatti "quelli prima dello stendardo" (Signus, Signum). 

Le truppe degli antesignani comparvero con le riforme militari di Gaio Mario, fine II sec. - inizio I sec. a.c. Pur avendo un compito molto importante avevano un'armatura piuttosto leggera, che consisteva in un pettorale di bronzo anzichè l'usuale lorica hamata.

Il pettorale non assicurava una grande protezione per cui la salvezza del signifer era muoversi con agilità e velocità evitando gli attacchi nemici, ma combattendo se costretto dalla situazione.

Polibio scrive che al tempo della II guerra punica vi erano due signiferi per ciascun manipolo, scelti tra i più forti e valorosi dal I centurione.

I signifer erano spesso esploratori, cioè quelli che si spingevano nei territori nemici, ne stilavano le mappe, ne ricavavano informazioni. Erano intelligenti, veloci, spericolati e dotati di grande inventiva.

Spesso usavano come copricapo la testa di un animale feroce (un lupo, un orso, un leone, una pantera ecc.) Questo li rendeva particolarmente visibili ma per i Romani era un fatto d'onore non far cadere le insegne nelle mani nemiche e molti soldati correvano in aiuto degli signifer per salvare le insegne della legione o di Roma.

CENTURIONE

CENTURIONE

Il centurione (centurio) era uno dei gradi intermedi della catena di comando nell'Esercito romano, posto a capo di una centuria.

Polibio li descrive così all'epoca della II guerra punica:
« i centurioni devono essere, non tanto uomini audaci e sprezzanti del pericolo, quanto invece in grado di comandare, tenaci e calmi, che inoltre, non muovano all'attacco quando la situazione è incerta, né si gettino nel pieno della battaglia, ma al contrario sappiano resistere anche se incalzati e vinti, e siano pronti a morire sul campo di battaglia. »
Ogni centurione comandava l'unità di base della legione, la centuria (da 80 a 100 e fino a 160 unità). Le centurie erano associate a due a due per formare i manipoli, in ognuno dei quali i due centurioni erano detti prior e posterior.

Il grado più elevato fra i centurioni di una legione era quello del centurione del primo manipolo della prima coorte,  detto primus pilus. 
Polibio narra che, al tempo della II guerra punica, il centurione che era stato scelto per primo, per ciascuna delle prime tre classi, entrava a far parte del consiglio militare.

I centurioni romani erano sempre posizionati in prima linea, per dare dimostrazione del proprio coraggio ed impeto ai propri soldati, ai fini del buon esito della battaglia, almeno dai tempi delle guerre puniche. I centurioni, infatti, erano posizionati sulla destra dello schieramento, posizione certamente assai rischiosa. Non a caso spesso al termine di aspri scontri, numerosi erano i centurioni caduti al termine della battaglia.

Cesare racconta un episodio curioso nel De bello Gallico, una gara tra due valorosi centurioni:

« C'erano in quella legione due centurioni, uomini di grandissimo valore, ormai prossimi al grado più elevato, Tito Pullo e Lucio Voreno. Entrambi erano continuamente in gara per chi avrebbe primeggiato rispetto all'altro, ed ogni anno gareggiavano attraverso combattimenti per la carriera. Pullo, nel momento in cui il combattimento lungo le fortificazioni si stava dimostrando più duro, disse: 

"Che aspetti Voreno? Quale promozione credi di ricevere per il tuo valore? Questo giorno deciderà le nostre contese". 

Detto ciò uscì fuori dalla linea fortificata e caricò il nemico in quella parte dello schieramento che sembrava più fitta. Allora anche Voreno non si trattenne al riparo delle fortificazioni e temendo il giudizio dei suoi soldati, lo seguì. A breve distanza dal nemico Pullo lanciò il suo pilum e trafisse un Gallo, che si era staccato dal grosso dello schieramento e corse in avanti. I nemici, mentre proteggevano con gli scudi il compagno, colpito a morte e caduto a terra, tutti insieme gettarono i loro giavellotti contro il centurione, impedendogli di arretrare. 

Lo scudo di Pullo era stato trapassato e nel balteus si conficcò un'asta. Questo colpo spostò il fodero del gladio e Pullo, mentre con la mano destra cercava di sfoderare il gladio, venne impedito, tanto che i nemici lo circondarono. Corse in suo aiuto, l'avversario Voreno e lo aiutò nella difficoltà. Tutti i nemici allora si scagliarono prontamente contro Voreno, lasciando perdere Pullo, credendolo colpito dal giavellotto. 

Voreno combattè in corpo a corpo con il gladio, ne uccise uno e fece arretrare gli altri. Mentre li incalzava con ardore, cadde scivolando su una buca. A sua volta fu Voreno ad essere circondato e toccò a Pullo prestargli aiuto. Poi tutti e due incolumi, dopo aver ucciso numerosi nemici, si ritirarono verso le fortificazioni con grande gloria. Così la fortuna trattò entrambi nella contesa e nel combattimento, i quali, seppure avversari, si soccorsero l'un l'altro e si salvarono. E non fu possibile scegliere quale dei due fosse superiore all'altro per valore. »

(Cesare, De bello Gallico.)
Il centurione era equipaggiato con:
- la cresta posta sul suo elmo disposta trasversalmente,  contrariamente ai normali soldati che l'avevano longitudinale
- portava il gladio a sinistra invece che a destra come i normali legionari, questo potrebbe indicare che di norma i centurioni fossero sprovvisti di scudo.
- l'armatura che poteva essere, a seconda del periodo: lorica hamata, lorica segmentata, o lorica musculata. L'armatura del centurione era sempre una importante, perchè egli aveva molte probabilità di essere colpito dal nemico, dato il suo ruolo in prima fila.



L'ANARCHIA MILITARE

Nel III sec. d.c. e per circa 50 anni, a Roma si susseguirono molti imperatori, che erano generali dell'esercito, e che da questo furono eletti e cacciati o uccisi. Gli arbitri delle nomine furono le legioni e la guardia pretoriana, che decidevano a chi dare o togliere il potere per guadagnare ricchezze e privilegi.

L'equipaggiamento dell'esercito veniva prodotto nelle fabricae statali, visto che gli artigiani privati, ormai in calo, a causa delle difficoltà economiche, non riuscivano a produrre da sé le armi.

Queste venivano fornite ai soldati dallo stato o prendendole dai legionari che andavano in pensione o dai legionari morti quando era possibile reperirle.

In questo periodo  la lorica segmentata, la grande innovazione dei due secoli precedenti, scompare, sostituita da loriche hamatae e squamatae, poi anch'esse sempre più rare fino alla fine dell'impero.



IL IV SECOLO

Per il tardo impero le corazze si differiscono. A partire dalla fine del IV secolo, infatti, lo Stato non dava più l'equipaggiamento direttamente al soldato, ma forniva delle indennità per il suo acquisto.

ASSEMBLAGGIO DELLA LORICA SEGMENTATA
Questa indennità non permetteva di acquisire l'intero equipaggiamento, per cui si sperava sempre in una battaglia fortunata con le armi dei vinti.

Inoltre c'era un diverso abbigliamento, tra limitanei e comitatensi. I primi, alloggiando presso i castella di confine, si rifornivano presso le fabbriche e i magazzini statali dei forti, per cui erano equipaggiati in modo uniforme.

Per i comitatensi invece, e per l'esercito regolare  in genere, la situazione era diversa. Con l'indennità in danaro ognuno comprava per sè, secondo la casualità o le possibilità senza preoccuparsi dell'uniformità.

Tanto più che, alla fine di una guerra, specie se vittoriosa, gli uomini tornavano in patria con indosso le armature e gli indumenti del popolo sconfitto, di qualsiasi tipo fossero.

I legionari romani, scomparsa la lorica segmentata, usarono la lorica hamata e la lorica squamata, fino al definitivo accantonamento, secondo alcuni, delle armature sotto Graziano quando non furono più prodotte, anche se è probabile che si usassero ancora ma in misura inferiore.

Il soldato romano tardo-imperiale indossava la lorica hamata sopra una tunica a maniche lunghe, semplice per i soldati e ornata per gli ufficiali.

Furono dunque d'uso la lorica hamata o la lorica squamata, più raramente la musculata, oppure un semplice farsetto imbottito, talvolta munito di pteruges. Con la fine del V sec. le armature scomparvero..

GRUMENTUM (Basilicata)

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L'ANFITEATRO

Grumentum fu un'antica città romana della Lucania che venne posizionata in un'area rialzata e difesa sui quattro lati da scarpate derivate dall'azione dei fiumi Agri e Sciaura, nonchè da corsi d'acqua minori.

Attualmente rimangono gli scavi del parco archeologico, situato ai piedi del colle che ospita il paese di Grumento Nova, in provincia di Potenza, presso il lago di Pietra del Pertusillo, in località "Spineta".



LA STORIA

Anche se i primi insediamenti abitativi nella zona hanno lasciato tracce fin dal VI secolo a.c., la fondazione della città risale al III secolo a.c. ad opera dei Romani, per creare uno degli agguerriti avamposti fortificati realizzati durante le guerre sannitiche Infatti insieme a Grumentum i romani fondarono quasi contemporaneamente Venusia (Basilicata 291 a.c.) e Paestum (Campania 273 a.c.).

Grumentum era un punto strategico perchè vi passava la via Herculea, che collegava il Sannio con la Lucania, e pure un'altra strada che conduceva alla via Popilia (o Via Capua - Rhegium cioè Via ab Regio ad Capuam, sul versante tirrenico.

Durante la II guerra punica, presso Grumentum si svolsero due battaglie tra Romani e Cartaginesi (215 e 207 a.c.) Tito Livio narra della battaglia tra Annone il Vecchio e l'esercito romano condotto da Tiberio Sempronio Longo, dove Annone perse ben 2000 uomini e 280 prigionieri.

Poi Annibale, proveniente dalla Calabria, si accampò presso le mura di Grumentum, a circa 500 passi (750 m) sul colle che ospita l'odierna Grumento Nova, ma venne sconfitto e costretto alla fuga dai Romani, provenienti da Venosa e guidati da Gaio Claudio Nerone, l'uccisore di Asdrubale, fratello di Annibale, che proveniva da Venusia. Annibale a sua volta fu costretto a fuggire passando da Spinoso per andare verso Anzi e Laurenzana.

Il guaio era che Grumentum aveva parteggiato per Annibale, per cui venne conquistata da Roma, che avendo, nel 207, vinto uno scontro con Annibale, per la prima volta dopo Canne, pensò bene di punire i grumentini riducendo la loro città a prefettura, il che significa che questa aveva perso la sua autonomia.

Tuttavia durante la guerra sociale la città si schierò dalla parte dei Romani ma per questo venne distrutta e saccheggiata dagli Italici, con la desertificazione della città. Memori di ciò però i romani, nella II metà del I sec. a.c., ricostruirono la città arricchendola di prestigiosi monumenti pubblici edificati sotto Cesare e sotto Augusto. A questo periodo risalgono infatti la costruzione di teatro, anfiteatro, foro e le terme. 

Probabilmente fu allora che ottenne, in ringraziamento della fedeltà a Roma, lo statuto di colonia, secondo altri però avvenne nel successivo periodo giulio-claudio.

Alla fine del III sec. a.c. a Grumentum, per ordine di Diocleziano, vennero sistemate le strade verso il Tirreno e lo Ionio, procedendo poi all'abbellimento delle terme.




IL SITO ARCHEOLOGICO

Il sito di Grumentum rappresenta uno dei pochi casi in Italia, insieme a Pompei, Ercolano, Ostia e poco altro, in cui i resti di un patrimonio archeologico permettano di percepire la forma di una tipica città romana abbandonata e mai rimaneggiata o coperta da successive edificazioni.

TESTA DI LIVIA
E' infatti evidente l'intera estensione dell'area urbana, lo schema urbanistico con gli spazi pubblici e gli spazi privati.

Inoltre si conservano in eccellenti condizioni i principali edifici pubblici tipici di una città romana.

L'antica città aveva una forma ovalizzata, articolata su tre vie principali parallele, il cardo maggiore e i due cardi laterali, intersecate ad angolo retto da vie secondarie, il decumano maggiore e i decumani minori.

Il decumano massimo, lungo il quale si affacciano numerosi monumenti, si conserva intatto per larghi tratti. La pavimentazione dell'Urbs fu rifatta nel II sec. d.c.,

Grumentum aveva una cinta di mura con sei porte, su un perimetro di circa 3 km su un'area di circa 25 ettari, di cui solo un decimo è stato riportato in luce. I resti principali riguardano tre zone monumentali:

- Il teatro di epoca augustea, con i resti di due tempietti di epoca imperiale e quelli di una ricca domus, detta "Casa dei mosaici" per i ricchi pavimenti a mosaico del IV sec..
- Il foro chiuso da portici e con resti di due templi posti sui lati sud e nord, secondo alcuni studiosi riguardanti il capitolium e un Cesareum (tempio dedicato al culto imperiale). Sul lato ovest si trovano i resti di una basilica e forse di una curia. Nei pressi del foro si trovano anche i resti di un edificio termale.
- I resti dell'anfiteatro costruito sulle pendici della collina nel I sec. a.c. e modificato in epoca imperiale.
- Fuori dalle mura si sono rinvenute inoltre tombe monumentali, una basilica paleocristiana e un acquedotto.
Molti dei reperti e delle testimonianze qui trovate sono custodite nel Museo nazionale dell'Alta Val d'Agri, a Grumento Nova presso l'area archeologica.



L'ACQUEDOTTO

L'acquedotto entrava in città dal lato meridionale del pianoro, e convogliava le acque circa 5 Km più a sud, alle pendici del colle su cui sorge Moliterno, trasportandole poi su strutture in alzato lungo la campagna grumentina in un castellum aquae di cui restano pochi ruderi.à

TEATRO

IL TEATRO

Venne costruito in età giulio-claudia e restaurato in età severiana, e situato a cavallo di due isolati. Come ogni teatro romano, era costituito da tre parti: la cavea, l'orchestra e la scena. La cavea, autoportante, ampia 46 m, so congiungeva alla scena mediante corridoi coperti, si sviluppava interamente in elevato poggiando su sostruzioni in muratura con contrafforti.

Attualmente si è conservata per un'altezza di 9 m, circa la metà di quella originaria. Il rialzato disponeva di una doppia fila di arcate, che sostenevano il piano inclinato con i sedili, posti in gradinate, in pietra, oggi quasi completamente scomparsi.

Ai sedili si accedeva mediante gradinate situate all'interno dell'ambulacro coperto che correva alle spalle del porticato esterno. Due corridoi semianulari sovrapposti, coperti con volte a crociera, permettevano l'accesso degli spettatori a tutta la cavea, suddivisa dal basso verso l'alto in tre ordini di posti (infima, media e summa cavea), riservati, nonostante i nomi attribuiti, ai cittadini di rango superiore che scemava man mano che la cavea saliva.

Quattro scalinate salivano dall'orchestra dividendo la cavea in cinque cunei. Le gradinate sono originali e sono sostenute da una massiccia struttura in cementizio, anch'essa originale.

Altri cinque corridoi coperti, due parodoi e tre vomitoria, disposti a ventaglio, consentivano l'accesso diretto all'orchestra, oppure alle file inferiori delle gradinate, separate dalle altre con una transenna in pietra e riservate all'ordo decurionum, o alle personalità più importanti della città.

L'orchestra probabilmente era utilizzata in parte dagli attori, ma vi dovevano essere collocati i sedili riservati ai personaggi più eminenti della città, separati dalle retrostanti gradinate da un muretto.

Di fronte all'orchestra, e un metro e mezzo al disopra, c'era il palcoscenico, tutto in palanche di legno sostenute da travi. Il muro di fondo fungeva da scenario con tre porte (porta regia al centro e portae hospitales ai lati), che lo mettevano in comunicazione con la scena e con l'area aperta a nord; pertanto da queste uscivano gli attori. La scaenae frons era articolata in tre grandi esedre, al centro delle quali si aprivano le tre porte.

Il prospetto della scena si innalzava su due piani, ed era coperto, insieme al palcoscenico, da un tetto spiovente verso l'esterno. Il progetto originario prevedeva sul retro della scena un piazzale porticato (porticus post scaenam).



IL TEMPIO A

Sull'area porticata dietro la scena del teatro, probabilmente utilizzata anche con funzioni di palestra, si affaccia il retro del Tempio A, in pietra calcarea grigia, il cui ingresso principale era posto sul lato del decumano massimo.

Trattavasi di un tempietto di tipo italico, perché sopraelevato su un alto podio.
Si pensa fosse adibito al culto di Arpocrate, divinità egizia, figlio di Osiride, eternamente bambino o quasi.

Gli si attribuisce un culto misterico, anche perchè spesso ha l'indice sulla bocca come segno di mantenere un silenzio, interpretato in altre immagini come segno dubitativo..

Si suppone ciò in quanto nei suoi pressi è stato rinvenuto un torso in marmo rappresentante un fanciullo, identificato forse con la divinità egizia, collegata con la medicina e le guarigioni. Ciò attesterebbe la presenza del culto egizio a Grumentum.



DOMUS MOSAICI

Sempre lungo il decumano massimo, si raggiunge l'ingresso della domus dei mosaici, uno dei complessi di maggior pregio dell'intera città, residenza di un personaggio molto importante di Grumentum.

E' un'abitazione a pianta rettangolare di m 30 x 60, orientata nord ovest - sud est, e si affaccia sul decumano centrale, dal quale vi si accede attraverso l'ingresso principale, mentre altri accessi sono presenti lungo i lati nord e sud.

Come la classica casa romana è dotata di atrio e peristilio: sul lato della strada sono presenti dei negozi (tabernae).

La metà meridionale presenta in successione ingresso (fauces), atrio con vasca per la raccolta delle acque piovane (impluvium), giardino porticato (peristilio).

Su questo si affacciano tre sale da pranzo (triclinia), con pareti e soffitto intonacati e dipinti, e pavimenti in mosaici in bianco e nero e policromi, con motivi geometrici e vegetali.

Nell'atrio è ricavata una nicchia absidata con le pareti in marmo e pavimento a mosaico policromo, con tutta probabilità un lararium.
Intorno all'atrio si snodano altri ambienti, come le alae, delle camere da letto (cubicula), una piccola sala (oecus) e una latrina.

A nord est dell'atrio altri tre ambienti di rappresentanza sono pavimentati il primo a mosaico bianco a riquadro centrale con marmi intarsiati (opus sectile), il secondo a mosaico nero, il terzo a mosaico bianco con riquadro centrale occupato da una vasca-fontana.

La metà settentrionale della casa è costituita da piccoli ambienti (cubicula) nell'area nordorientale, da vani di servizio nell'area nordoccidentale (cucine, bagni, magazzini e locali per la servitù). Alla zona di servizio della casa si accedeva dal retro, attraverso una strada carrabile.

La domus risale agli inizi del II sec. d.c., edificata su edifici repubblicani, mentre tra il III e il IV sec. d.c. avvennero interventi di restauro e abbellimento, con la realizzazione dei mosaici.



TEMPIO B

Non distante dalla domus dei mosaici si trova il Tempio B, dal culto non identificato.

MOSAICO DELLE TERME

LE TERME

Le antiche Terme dette "repubblicane" rimasero in funzione fino al V sec. d.c. Di esse sono visibili l'apodyterium (spogliatoio), il frigidarium circolare, il tepidarium e il calidarium, con i sedili in muratura, e con il pavimento mosaicato che poggia sulle suspensurae che permettevano la diffusione del calore.

FORO

IL FORO

Il Foro era un'ampia piazza aperta sulla quale si affacciavano i principali edifici amministrativi, religiosi e commerciali.
Era di forma rettangolare: il decumano massimo l'attraversava nel lato più corto, avendo ai suoi lati, l'uno di fronte all'altro, il Tempio C sul lato ovest, e il Tempio D, o Capitolium, sul lato nord est. 

La piazza, pavimentata in lastroni di marmo di cui restano delle tracce nell'angolo meridionale del foro, è porticata su tutti e quattro i lati, e, sul lato settentrionale, in posizione esterna rispetto al portico, a fianco al Capitolium, si posiziona un altro tempio, di forma circolare, ancora in corso di scavo.

La prima sistemazione della piazza, costituita da un battuto in ciottoli, frammenti ceramici e terra, si data alla I metà del I sec. a.c. In età augustea, viene realizzata la porticus e una nuova pavimentazione della piazza, costituita da un battuto in malta. L’attuale lastricato, costituito da blocchi in pietre calcaree, si riferisce ancora all’età augustea. Insieme venne realizzata anche una cisterna per lo smaltimento delle acque.

Sul lato lungo nord occidentale si innalzava la basilica, importante edificio civile con funzioni di mercato e di esercizio della giustizia, di cui si intravedono pochi resti, mentre sono ancora ben visibili un edificio rettangolare absidato sul lato di fondo, e un altro edificio circolare, dalle funzioni non accertate.



IL CESAREUS

Il tempio era dedicato al culto degli imperatori romani, non a caso vi è stata rinvenuta la testa di Livia, moglie di Augusto e Augusta ella stessa.  Gli scavi del 2007 nell’ambiente adiacente al Cesareo, sul lato Sud, hanno ricostruito una sequenza di pavimenti: 
- uno di età augustea, che conserva testimonianze della fase dei lavori per la costruzione del tempio imperiale, iniziato dunque sotto Augusto per la sua deificazione e quella di suo zio Cesare; 
- uno tiberiano, in fase con l’inaugurazione del tempio, dunque terminato e dedicato sotto Tiberio che vi avrà aggiunto la sua deificazione; 
- uno oltre la metà del I sec. d.c., all’incirca in età flavia, contenente moltissimi reperti; 
- uno databile verosimilmente all’età traianea,
- uno di età tetrarchica.
Praticamente l'aggiornamento delle deificazioni comportava nuovi rifacimenti o abbellimenti. In età traianea le scale laterali del Capitolio vennero demolite e sostituite da scale frontali. 



IL CAPITOLIUS

Cioè il tempio del Campidoglio locale, detto il Tempio D, dedicato come da tradizione alla triade Giove, Giunone e Minerva. Venne creato poco dopo il tempio imperiale insieme o subito dopo il porticato con colonne sul lato Sud-Ovest della piazza del Foro.

Gli scavi del 2009 hanno portato alla luce due basamenti posti davanti al Capitolio, nell’angolo SE, sicuramente atti a sorreggere statue onorifiche

Negli ambienti ricavati entro le sostruzioni anteriori del Capitolio, è emersa una grande e profonda fornace per la calce, evidentemente per la calcinazione delle statue romane effettuata anche qua dalla iconoclastia cristiana.



L'ANFITEATRO

Questo venne portato in superficie tra gli anni '70 e '80 del secolo scorso, ma noto da sempre agli eruditi locali. Venne posto, come spesso usava, al limite del perimetro urbano, per consentire il notevole afflusso di pubblico da tutta la valle. 
Per costruirlo, venne sfruttato il dislivello tra la terrazza centrale e quella orientale della collina su cui sorse Grumentum, addossando al declivio la parte ovest dell'anfiteatro. L'altra parte venne invece realizzata su sostruzioni in opera cementizia.

Venne eseguito in opus incertum, utilizzando la pietra locale, mentre l'opus reticulatum che compare a tratti è successiva.

Quindi era a struttura piena sul lato ovest, e a struttura cava nelle parti restanti.

Inizialmente le gradinate della parte alta dovevano essere in legno, mentre erano già in pietra gli ordini inferiori dei gradini, almeno sul lato ovest, dove persiste il sostegno in opera cementizia.

L'arena è stata ricavata spianando la pendice, senza ambienti sotterranei; il corridoio che la circonda si interrompeva agli ingressi principali, muniti di cancelli per fare entrare gli animali, attraverso le sei aperture chiuse da griglie metalliche di cui si conservano in parte le soglie.

I quattro accessi principali erano disposti alle estremità dell'edificio, mentre i due monumentali stavano sull'asse maggiore. Altri se ne aprivano lungo il perimetro esterno, immettendo gli spettatori sia direttamente sulle gradinate (lato ovest), sia in un ambulacro da cui partivano le scale per accedere ai posti dei settori medi e inferiori (lato est). Su questo stesso lato, tre scalinate esterne a rampe convergenti portavano ai gradini più alti, e pure da contrafforti della struttura.

La datazione dell'anfiteatro di Grumentum va alla II metà del I sec. a.c.; una seconda fase, con parziali rifacimenti, risale invece al I sec. d.c., con un ulteriore intervento, età severiana.

LE TERME

LE TERME IMPERIALI

Poche decine di m a sud dell'anfiteatro sorgono, perfettamente conservate, le cosiddette Terme imperiali, tra le meglio conservati al mondo, del tipo "a schiera", orientate rispetto alla rete stradale urbana, e dotate di 15 ambienti.
L'ingresso principale si affacciava sul decumano inferiore, e, attraverso un corridoio si accedeva alle latrine e al frigidarium, dove c'è uno splendido mosaico con molti pesci, Scilla e i Giganti: il mosaico è a tessere bianche, nere, grigie, blu scuro, turchese e verde. La cornice esterna è grigia, con bordo a motivi floreali (foglie d'acanto trilobate e viticci a volute) e quattro figure maschili agli angoli, che rappresentano Giganti dalle estremità serpentiformi, in ginocchio, con le braccia in alto che reggono l'emblema. 
Al centro si trova Scilla, di prospetto, con il busto nudo, cinto con una corona di pinne, sotto le quali sono raffigurate tre protomi canine; le sue braccia sono alzate, e una mano stringe un ramo. I riflessi dell'acqua sono realizzati con linee ondulate. La datazione del mosaico oscilla tra il II e il III sec. d.c.

Dal frigidarium si accedeva verso est a una grossa aula mosaicata, verso sud a un vano absidato con funzione di piscina, e verso nord a un'altra piscina di dimensioni inferiori della prima e all'apodyterium (lo spogliatoio), che portava al primo tepidarium, con un praefurnium molto ampio, e con tracce di ipocausti ai lati.

Il pavimento della grande aula è decorato con un mosaico geometrico, conservatosi per oltre la metà del vano, con volute, palmette, rombi e ottagoni: i confronti, localizzati tutti nell'Africa settentrionale, datano il mosaico tra il II e il IV sec. d.c.

Dal primo tepidarium si raggiungeva un secondo tepidarium, molto ben conservato, con le suspensurae ancora in loco, così come gli ipocausti, tubi e piastrelle in marmo e i resti di un mosaico con motivi geometrici che trovano confronti a Ostia, databili all'inizio del III sec. d.c.

In fondo era posto il calidarium absidato. Nella parte meridionale del complesso sono presenti tre ambienti di servizio per il riscaldamento. L'approvvigionamento delle acque proveniva dall'acquedotto. La fase principale della struttura si data tra il periodo augusteo e quello severiano.

All'interno della piscina absidata retrostante il frigidarium, durante lo scavo è stato registrato un eccezionale ritrovamento: sono stati rinvenuti diversi frammenti di statue di dimensioni leggermente inferiori a quelle umane; è probabile che in antico fossero collocate nelle nicchie all'interno dello stesso vano. 
Le statue rappresentano due ninfe, Afrodite con un delfino e Dioniso, acefale e senza braccia, realizzate con il pregiato marmo pario; sembra che si tratti di modelli ellenistici, e che le statue debbano essere ascritte alla scuola di Efeso (una celebre scuola di scultori che aveva sede nella città anatolica) del II sec. a.c., le datazioni oscillano tra il II e il III sec. d.c.

La statua di Afrodite è in marmo rosa, e non fa parte del gruppo originario: sembra una copia romana di un originale ellenistico, databile tra II e III sec. d.c. Sembrerebbe che le statue fossero state distrutte in loco in epoca tardo antica, e che poi fossero state abbandonate nel riempimento della piscina.

GNEO POMPEO STRABONE

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Nome: Gnaeus Pompeius Strabo
Nascita: Picenum 135 a.c.
Morte: 87 a.c.
Professione: Militare, politico
Figlio: Gneo Pompeo Magno
Consolato: 89 a.c.

Gneo Pompeo Strabone (Gnaeus Pompeius Strabo). Nacque a Picenum (Abruzzo),  nel 135 a.c.  e morì nell' estate dell'87 a.c.. Fu un militare romano, padre del più famoso comandante militare Gneo Pompeo Magno.



CURSUM HONORUM

Discendente di una famiglia di latifondisti nel Piceno. Di lui sappiamo che fu questore in Sicilia nel 104 a.c. Dopo aver dimostrato il suo talento militare, divenne pretore nel 92 a.c. (data non certissima). Venne accusato nel 91 o nel 90 con altri militari di aver favorito la ribellione degl'Italici, fu tra gli assolti. ma comunque era favorevole all'estensione della cittadinanza romana. 

Poi scalò ancora le tappe del cursus honorum fino a divenire console nell'anno 89 a.c., durante la guerra sociale. Cicerone, che era al suo seguito, ci ha lasciato il ricordo di un suo colloquio, rimasto infruttuoso, con uno dei capi degl'Italici, che comunque combattè e sconfisse presso Fermo.

Fu il primo del suo ramo dei Pompei a raggiungere lo stato senatoriale a Roma, nonostante il Senato romano non fosse affatto favorevole ai piccoli proprietari rurali quale era Pompeo.



LE GUERRE

Invece egli comandò con grande sagacia e valore le armate romane contro gli alleati italici nel nord dell'Italia: la città di Laus Pompeia, costruita sul sito di un antico insediamento boico, fu così nominata proprio in suo onore, nell'89 a.c., nello stesso anno in cui aveva concesso il diritto latino agli abitanti delle comunità in Transpadana.

Sempre nell'89 a.c. Pompeo promosse la Lex Pompeia de Transpadanis, che concesse il diritto latino anche ai Transpadani. Secondo alcuni studiosi è anche colui che l'ha proposta a Roma.

Dopo un lungo assedio conquistò la città di Ascoli, uccise i capi della rivolta e mandò in esilio parte dei suoi abitanti per ristabilire la pace senza altri spargimenti di sangue. Le sue tre legioni da lui guidate con destrezza furono determinanti nella vittoria di Roma. Vinse infatti sui sui marsi, sui peligni e sui vestini,

Poichè era anche un uomo giusto volle ripagare il coraggio dei suoi combattenti per cui concesse la cittadinanza romana ad un gruppo di cavalieri iberici.
Questi si erano distinti al suo comando (virtutis causa) durante la guerra civile, pertanto li iscrisse nelle varie tribù romane.
Conosciamo con certezza l'evento e il provvedimento avendo ritrovato di questo una celebre epigrafe bronzea che lo descrive.

Il generale Strabone aveva un certo carattere, tenace ma poco pietoso. Basti dire che dopo il consolato e la guerra, dato il grande rapporto che aveva coi suoi militi, si ritirò nel Picenum con i suoi veterani.

Quando Silla prese il posto di Pompeo nella guerra contro Mitridate e lasciò il suo protetto, Quinto Pompeo Rufo in carica in Italia, il Senato ordinò di lasciare l'esercito al console in carica, cioè Pompeo.

Strabone però, scontento di separarsi dal suo esercito, prima di riconsegnarlo fece uccidere il nuovo console. Silla che era in viaggio per la Grecia stranamente non punì questa fortissima insubordinazione. Forse, sapendo di quanta affezione aveva l'esercito nei confronti di Pompeo, temette una rivolta, l'ultima cosa che avrebbe voluto con lui, lontano da Roma, che non poteva gestire nulla.

Pompeo rimase nel Picenum fino all'87 a.c., quando Cinna fu cacciato da Roma dal collega Ottavio e, rispondendo all'appello degli ottimati che volevano il suo appoggio contro i mariani, si diresse verso l'Urbe. Atteggiamento un po' strano visto che Silla non riscuoteva le sue simpatie.

Infatti Strabone meditò a lungo, marciando verso Roma con molta calma perché non sapeva ancora da che parte schierarsi, ma alla fine fu costretto a combattere contro Cinna e Sertorio, governatore della Spagna. 

Sertorio dimostrò, secondo taluni, più valore di Pompeo, sconfiggendolo completamente nei pressi di Saguntum. La battaglia non fu decisiva ma Cinna dopo ciò cercò di assassinarlo inutilmente. Morì invece nello stesso anno secondo alcuni a causa di un fulmine, secondo altri di peste, o di febbre fulminante, nell'estate ma sempre di quello stesso anno. 

Il figlio di Strabone, il famoso Gneo Pompeo Magno, si mise a capo delle legioni del padre e le ricondusse nel Picenum. Pompeo Junior chiese rinforzi a Roma avvertendo che senza questi lui e Cecilio Metello, il generale inviato da Roma, sarebbero stati cacciati via dalla Spagna.

Invece Metello Pio rivelò grandi doti strategiche tenendo una guerra di logoramento contro Sertorio e salvando più volte la reputazione al giovane Gneo Pompeo Magno, affiancatosi a lui nella guerra per ordine del Senato nel 77 a.c.

 "Intorno al medesimo tempo venne ad unirsi Silla alla testa di tre legioni, il figlio di Pompeo Strabone,  Gneo Pompeo aveasi egli aperta la strada colla sconfitta di Bruto un de capi del contrario partito a Silla che grato d un tal servigio lo salutò Imperadore, titolo che davasi solo ai di Generali della Repubblica quando aveano riportata qualche vittoria.  Pompeo benchè non avesse ancora ventitrè anni e non fosse passato per alcuna magistratura avea assoldate quelle truppe nel Piceno ove la sua famiglia avea gran numero di clienti"
(Studi dell'Abate de Condillac)

La guerra terminò nel 72 a.c. con l'assassinio di Quinto Sertorio da parte di un suo sottoposto.In realtà Sertorio fu sconfitto più dalla tattica temporeggiatrice di Metello che da quella avventata e spregiudicata di Gneo Pompeo Magno, che imparerà poi a diventare un grande comandante militare, imparando da suo padre e dai propri errori.

LEGIO I FLAVIA GALLICANA CONSTANTIA

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La Legio I Flavia Gallicana Constantia fu una legione romana dell'epoca della tetrarchia voluta da Diocleziano, in seguito alla riforma costantiniana dell'esercito romano (324-337), riforma che rimase per tutto il IV sec., trasformata in legio pseudocomitatensis.

Quest'ultima era un'unità legionaria dei limitanei entrate poi a far parte del comitatus, cioè dell'esercito mobile il cui compito era di intervenire lì dove c'era necessità. La legione non va confusa con la I Flavia Constantia, che si battè in oriente.

SCUDO DELLA LEGIO
I limitanei o ripariani erano truppe armate alla leggera che avevano il compito di tenere a bada i barbari invasori in attesa dell'arrivo delle truppe armate alla pesante, cioè i comitatensi. 

Sono menzionati per la prima volta nella legge del 325, contenuta nel Codice teodosiano come riparienses, in contrapposizione alle forze mobili dei comitatensi

La I Flavia Gallicana Constantia è citata nella Notitia dignitatum come l'unità di stanza a Constantia (Coutances, Francia), nella Gallia, agli ordini di un prefetto dipendente dal Dux tractus Armoricani et Neruicani. 

All'epoca la città Costantia era capoluogo del pagus Costantinus e ospitava un prefetto militare e una guarnigione, con lo scopo di controllare la via tra Rennes e Valognes, che era la via principale per l'entrata nella città.

COSTANZO CLORO
Qui a fianco è riprodotta la pittura che veniva eseguita sullo scudo dei legionari della I Flavia Gallicana Constantia, come riportato dalla Notitia Dignitatum

La Notitia dignitatum et administrationum omnium tam civilium quam militarium ("Notizia di tutte le dignità ed amministrazioni sia civili sia militari") è un documento redatto da un anonimo nel periodo compreso tra la fine del IV sec. e l'inizio del regno dell'Imperatore romano d'Occidente Valentiniano III (425-455).

Il Dux tractus Armoricani et Neruicani era il comandante di truppe di limitanei della diocesi delle Gallie, lungo i limes della Gallia Lugdunense, nell’ambito dell’armata imperiale costituita dal Numerus intra Gallias. 

Suoi diretti superiori erano al tempo della Notitia dignitatum (nel 400 circa), sia il magister peditum praesentalis per le unità di fanteria, sia il magister equitum praesentalis ed il magister equitum per Gallias per quelle di cavalleria.
Il nome della legione suggerisce che sia stata arruolata da Costanzo Cloro (293-306), discendente della famiglia Flavia, che governava appunto sulla regione gallica. Egli divenne poi imperatore romano e padre di Costantino I.

NOVEMBRE

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Per i romani durante la Repubblica i giorni destinati ai ludi erano 77; nel periodo imperiale divennero 177: 101 giorni contemplavano i ludi scenici, 66 i ludi circenses e 10 i munera.
Durante l'impero i romani ebbero poi 45 giorni di feriae publicae e 22 giorni di festività singole obbligatorie. Inoltre avevano 12 giorni di ludi singoli e 103 di ludi raggruppati su più giorni. Insomma circa la metà dell'anno era non lavorativa.

 Le festività romane dette “Feriae” erano giorni di festa celebrati solennemente, perché normalmente celebrate in onore di una divinità o per una dedica a un tempio. Questi giorni di festa vennero poi aboliti con l’editto di Tessalonica del 27 febbraio 380 d.c., emesso dall’imperatore Teodosio I quando il cristianesimo divenne la religione ufficiale di stato e ogni altro tipo di religione venne abolito pena la morte e la confisca dei beni alla famiglia.

Novembre prese il nome dal fatto di essere il nono mese nel calendario di Romolo, e pur diventando l'undicesimo mese, conservò il suo nome, che in latino era november.


 - 1 novembre - Epolum Iovis -
- (Kalendis Novembribus), banchetto sacro in onore di Giove. un convito sacro a una divinità, e per questo il simulacro della stessa è posto nei pressi della tavola imbandita. La consuetudine del pasto sacro risalirebbe alla più remota antichità. In origine si sarebbe trattato di semplici offerte alla divinità, ma poi il re Numa avrebbe dettato precise disposizioni, come risulta da Plinio (N.H. 32, 10).
Secondo Festo (Pollucere) si poteva offrire in queste occasioni: farro, polenta, vino, pane, fichi secchi, carne porcina e di bue, di agnello e di pecora, formaggio, farina di spelta, sesamo e olio, pesci con le scaglie, eccetto lo scaro.
Gellio ricorda un famoso Epulum Iovis, durante il quale Publio Cornelio Africano e Tiberio Gracco, essendo seduti vicini e ispirati divinamente, diventarono amici da nemici acerrimi quali erano stati in precedenza.

- 1 novembre - Ludi Victoriae Sullanae -
- istituiti in memoria della vittoria di Silla alla porta Collina (i novembre 82). Andavano dal 27 ottobre al 1 novembre. Vi fa riferimento l'epigrafe del pretore Sesto Nonio Sufenate che fornì per primo il denaro per i suddetti Ludi: l(udos) V(ictoriae) p(rimus) f(ecit).

- 1 novembre - Isia -
- proseguono le festività in onore di Iside. Inizia l' Inventio Osiridis, rappresentazione sacra in cui si ricordava l'uccisione del Dio, ad opera di Set, che lo chiuse in una bara e lo gettò nel fiume. Iniziano le lamentazioni di iside, che per questo è chiamata " La Piagnona".

DEA EPONA
- 2 novembre - Eponae - 
(ante diem quartum Nonas Novembres) in onore di Epona Dea prima celtica e poi romana dei cavalli e dei muli.
Come simbolo aveva la cornucopia, come dispensatrice di doni e di fertilità.
Spesso era raffigurata seduta su un trono con cesti di frutta in grembo. Le erano molto devoti gli equites romani.

- 3 novembre - Hilaria - 
(ante diem tertium Nonas Novembres) Il culto, antichissimo, si svolgeva nel nono mese dell'anno, visto che all'epoca l'anno aveva solo 10 mesi e che l'anno iniziava a marzo. In epoca repubblicana Valerio Massimo citò dei giochi in onore della Madre degli Dei.
In epoca imperiale, sappiamo da Erodiano che si teneva una lunga e solenne processione nella quale si trasportava una grande statua della Dea, di fronte alla quale si esponevano oggetti preziosi ed opere d'arte appartenenti ai più facoltosi della città ed all'Imperatore stesso. In questa festa festa si organizzavano scherzi e giochi, con la predilezione per il mascheramento.
Ad ognuno era permesso assumere l'identità e l'aspetto di ciascuno, persino di appartenenti ad alte cariche pubbliche come i magistrati. Le celebrazioni degli Hilaria rappresentavano l'ultimo giorno dei festeggiamenti dedicati a Cibele, il Sanguem.
Il suo culto venne introdotto a Roma nel 204 a.c., quando la pietra nera simbolo della Dea, venne trasferita da Pessinunte per scongiurare il pericolo di Annibale, secondo il consiglio dei Libri Sibillini. Venne collocata sull'Ara nella Curia del Foro e successivamente in un tempio sul Palatino realizzato nel 191 a.c. nei pressi della casa di Romolo. La pietra nera costituiva uno dei sette pignora imperii, cioè uno degli oggetti che garantiva il perpetuo potere dell'impero.

- 4 novembre - Ludi plebei -
(pridie Nonas Novembresforse per festeggiare la fine della lotta tra patrizi e plebei nonchè il
ritorno di questi in città. Riconosciuti dal 216 a.c.

- 5 novembre - Ludi Plebei -
(Nonis Novembribus) Erano organizzati dagli aediles plebei.

 - 6 novembre - Ludi Plebei - 
(ante diem octavum IdusNovembres) Erano organizzati dagli aediles plebei. - 7 novembre - Ludi Plebei - - Erano organizzati dagli aediles plebei.

- 7 novembre - Mundus Patet - 
(ante diem septimum IdusNovembres) detto anche Mondo Vasto. Uno dei tre giorni in cui era aperto il mundus Cereris, terza festa degli Dei inferi. Nel comitium esisteva una apertura che metteva in comunicazione con il mondo infernale. L'apertura era chiusa dal lapis manalis.
Tre volte l'anno il lapis veniva sollevato: il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre. Si trattava di una fossa posta nel santuario di Cerere e consacrata agli Dei Mani, che ha forma circolare, scavato al centro della città al congiungimento degli assi di decumano e cardo.
La fossa rimaneva chiusa per tutto l'anno ad eccezione dei tre giorni in cui mundus patet, il mundus è aperto. L'apertura del mundus metteva in comunicazione il mondo dei vivi e quello dei morti, il rito di apertura del mundus aveva un carattere ctonio con valenze anche agricole, in quanto Cerere non solo faceva crescere le messi ma era anche guardiana dei fenomeni tellurici e del mondo sotterraneo dei morti.

- 8 novembre - Mundus Patet - 
(ante diem sextum IdusNovembres) Il mundus mette in comunicazione l'esterno della Terra con il mondo sotterraneo e gli Dei inferi che le abitano. Nel "mundus patet" le anime dei defunti potevano ritornare nel mondo dei vivi e aggirarsi per la città. Era il giorno in cui le maghe praticavano i loro riti.

- 8 novembre - Ludi Plebei - 
- I Ludi Plebei erano tenuti nel Circo Flaminio, con rappresentazioni teatrali (ludi scaenici) e competizioni atletiche. Erano inoltre presentati dagli edili plebei
Il Circo Flaminio fu costruito dal censore plebeo Gaio Flaminio Nepote nel 220 a.c., e i primi giochi potrebbero essere stati istituiti da quello stesso anno per ogni anno a venire, ma potrebbero essere anche più antichi, Cicerone credeva che fossero i ludi più antichi di Roma.
Secondo T.P. Wiseman furono creati dalla plebe già dal V-IV secolo a.c.. Potevano essere celebrati senza una data sul calendario, poi vennero istituzionalizzati. Durante la manifestazione, si teneva anche la festa di Giove (Epulum Iovis),

- 9 novembre - Ludi Plebei - 
(ante diem quintum IdusNovembres) Erano organizzati dagli aediles plebei. Tito Livio nota che i ludi furono ripetuti tre volte nel 216 a.c., a causa di un errore rituale (vitium) che interruppe il corretto svolgimento.

- 10 novembre - Ludi Plebei - 
- (ante diem quartum IdusNovembres) Erano organizzati dagli aediles plebei. Una processione simile a quella dei Ludi Romani era pure parte di questa festività.

- 11 novembre - Ludi Plebei - 
(ante diem tertium IdusNovembres) Erano organizzati dagli aediles plebei. Plauto per primo presentò la sua commedia Stichus ai giochi plebei dei 200 a.c.

- 12 novembre - Inventio Osiridis -
(pridie Idus Novembres) in cui segue la ricerca dei brani del suo corpo da parte di Iside.

- 12 novembre - Ludi Plebei -
- Erano organizzati dagli aediles plebei.

- 13 novembre - Inventio Osiridis -
- Iside ritrova i pezzi e dà sepoltura al corpo del marito.

- 13 novembre - Ludi Plebei -
(Idibus Novembribus) Erano organizzati dagli aediles plebei. Contemporaneamente ai ludi si esibiva una parata di cavalleria,

- 13 novembre - Templum Fortunae Primigeniae in Colle - 
- Festa in onore della Dea Fortuna Primigenia in Colle, ossia sul Quirinalis.

- 13 novembre - Epulum Iovis - 
- banchetto sacro in onore di Giove. Si ricordava la fondazione del Templum Iovis in Capitolio. I triumviri epulones organizzavano l'epulum, ossia il sacro banchetto celebrato nel corso dei Ludi Romani e i plebeii Ludi.
Il collegio degli epulones venne istituito nel 196 a.c. Gli Dei venivano formalmente invitati, portando le statue in letti ricchi, arredati con morbidi cuscini, chiamati pulvinaria.

- 13 novembre - Templum Pietatis - 
- Festa celebrata in onore della Dea Pietas, personificazione del sentimento del dovere, della religiosità, dell'amore. Si ricordava la dedicatio del tempio. Esistevano due templi di Pietas, uno nella regio IX e uno nella XI regio di Roma.

- 13 novembre - Feroniae -
- in onore della Dea Feronia , la Signora delle belve, protettrice delle sorgenti e dei boschi. Il santuario più importante, il Lucus Capenatis o Feroniae, era nella valle del Tevere, vicino Capena.

- 14 novembre - Ludi Plebei - 
- (ante diem duodevicesimum Kalendas Decembres) Erano organizzati dagli aediles plebei. Erano contemporanei ai giochi nei circo (ludi circenses, principalmente corse dei carri). Però il Circo Flaminio non aveva una pista per corse di carri, quindi si dovevano fare al Circo Massimo.

- 14 novembre - Inventio Osiridis -
- risurrezione di Osiride e suo ingresso solenne nel tempio.

- 15 novembre - Feroniae - 
(ante diem septimum decimum Kalendas Decembres) Festa in onore di Feronia. Feronia, Dea della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi, celebrata dai malati e dagli schiavi riusciti a liberarsi, onorata da Romani e Sabini, nel territorio dei quali, si trovava il Lucus Feroniae.
Tra i luoghi sacri ad essa dedicati figurano: Scorano, (frazione di Capena), ove sorge il Lucus Feroniae, Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino), Terracina, Preneste (Palestrina), Etruria e l'area sacra di largo di Torre Argentina (tempio C) a Roma.
Si narra che fosse la madre di Erilo, mostro con tre vite e tre corpi, concepito con il re di Preneste, a cui la madre aveva donato tre corpi e tre anime.
Evandro, alleato di Enea, figlio di Mercurio e della ninfa Carmenta, capo degli Arcadi provenienti da Argo, arrivò sulle coste del Lazio, e fu la seconda popolazione proveniente dalle Grecia dopo i Pelasgi.
Evandro, fondatore della città di Pallante, sul Palatino) uccise Erilo per tre volte ed ebbe anche un altare a lui dedicato, sotto l’Aventino, nei pressi della Porta Trigemina, detta anche Porta Minucia.

- 15 novembre - Ludi Plebei - 
- Erano organizzati dagli aediles plebei.

- 16 novembre - Ludi Plebei - 
- (ante diem sextum decimum Kalendas Decembres) Erano organizzati dagli aediles plebei.

- 17 novembre - Ludi plebei - 
- ( (ante diem quintum decimum Kalendas Decembres) forse per festeggiare la fine della lotta tra patrizi e plebei nonchè il ritorno di questi in città. Più che altro festeggiava la plebe per i diritti acquisiti.

- 18 novembra - Mercatus - 
 (ante diem quartum decimum Kalendas Decembres) Festa celebrata a conclusione dei Ludi Plebei. Sicuramente visi svolgevano mercati e fiere per acquistare o vendere merci.

- 19 novembre - Mercatus - 
 (ante diem tertium decimum Kalendas Decembres) Festa celebrata a conclusione dei Ludi Plebeii.

- 19 novembre - Lectisternia Cibele - 
- banchetto sacro in onore di Cibele.

- 20 novembre - Mercatus - 
(ante diem duodecimum Kalendas Decembres) Festa celebrata a conclusione dei Ludi Plebeii.

 - 22 novembre - Plutonis et Proserpinae - 
(ante diem decimum Kalendas Decembres) in onore degli Dei dell'Ade. Il culto di Proserpina a Roma fu introdotto accanto a quello di Dis Pater (Ade), nel 249 a.c. Inizialmente considerato dio delle ricchezze del sottosuolo, Dis Pater divenne il Dio del sottosuolo e si identificò in Plutone, l'equivalente di Ade.
Dis, ditis è un aggettivo latino contratto di dives, divitis cioè ricco. Il suo nome significa "il padre delle ricchezze". Anche Pluto significava ricco in greco.
Si celebravano in loro onore i Ludi Tarentini, così chiamati da una località nel campo di Marte, il Tarentum, divenuti poi Ludi secolari, con sacrifici e spettacoli teatrali, tenuti per tre giorni e tre notti a delimitare la fine di un saeculum (secolo) e l'inizio del successivo (tra i 100 ed i 110 anni).
Sembra risalissero al 509 a.c., ma le uniche attestate nella Repubblica romana ebbero luogo nel 249 e nel 140 a.c. circa.
Seguirono poi quelli del 17 a.c., sotto Augusto, poi sotto Claudio nel 47 per celebrare l'ottocentesimo anniversario dalla fondazione di Roma, che condusse ad un secondo ciclo di Giochi, nel 148 e nel 248, che vennero infine aboliti dagli imperatori cristiani.

 - 24 novembre - Brumalia -
(ante diem octavum Kalendas Decembres) Festa in onore di di Saturno, Cerere e Bacco, celebrata al solstizio d'inverno (bruma) I Brumalia venivano festeggiati come periodo di riposo per gli eserciti, gli agricoltori e i cacciatori, ma avevano pure un carattere ctonio associato ai raccolti, i cui semi venivano interrati prima di germogliare.
I contadini sacrificavano maiali a Saturno e Cerere, mentre i viticoltori sacrificavano capre in onore di Bacco (dal momento che le capre erano un pericolo per le viti), che venivano poi scuoiate per ricavarne bisacce, su cui si saltava. I magistrati portavano le primizie delle viti, degli olivi, del grano e del miele ai sacerdoti di Cerere. Si usava scambiarsi l'augurio "Vives annos!", "Vivi per molti anni".

- 25 novembre - Ludi Samatici -
(ante diem septimum Kalendas Decembres) in onore delle vittorie di Costantino I o di Costanzo II sui Sarmati, duravano sei giorni, dal 25 al 30 novembre e il 1° dicembre. Istituiti da Costantino I. Erano ancora celebrati nel 354 ( Cronografo del 354).

- 26 novembre - Ludi Sarmatici -
(ante diem sestum Kalendas Decembres) in onore delle vittorie di Costantino I o di Costanzo II sui Sarmati, duravano sei giorni, dal 25 al 30 novembre e il 1° dicembre.

- 27 novembre - Ludi Sarmatici -
(ante diem quintum Kalendas Decembres) in onore delle vittorie di Costantino I o di Costanzo II sui Sarmati, duravano sei giorni, dal 25 al 30 novembre e il 1° dicembre.

- 28 novembre - Ludi Sarmatici -
(ante diem quartum Kalendas Decembres) in onore delle vittorie di Costantino I o di Costanzo II sui Sarmati, duravano sei giorni, dal 25 al 30 novembre e il 1° dicembre.

- 29 novembre - Ludi Sarmatici -
(ante diem tertium Kalendas Decembres) in onore delle vittorie di Costantino I o di Costanzo II sui Sarmati, duravano sei giorni, dal 25 al 30 novembre e il 1° dicembre.

- 30 novembre - Ludi Sarmatici -
 in onore delle vittorie di Costantino I o di Costanzo II sui Sarmati, duravano sei giorni, dal 25 al 30 novembre e il 1° dicembre.

- 30 novembre - Dianae - 
(pridie Kalendas Decembres) in onore di Diana Dea della caccia, della luna e degli inferi. Era chiamata Diana Aricina nei pressi del lago di Nemi, nella macchia di Aricia, dove sorgeva un celebre tempio in suo onore. Servio Tullio ne eresse uno per lei sull'Aventino, protettrice di servi e schiavi.
Identificata con l'Artemide greca, fu soprannominata 'Trivia', in relazione ai suoi tre aspetti relativi alla terra, al cielo e agli inferi.


RITROVATO UN ALTRO ARCO DI TITO

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CIRCO MASSIMO
di Valentina Sanesi

Tornano alla luce frammenti di un secondo Arco di Tito Rinvenute durante lavori di restauro del Circo Massimo alcune parti di un secondo Arco di Tito, uno straordinario ritrovamento che apre la strada a future indagini sul sito

Roma, si sa, è un enorme sito archeologico, un'inesauribile fonte di testimonianze del suo antichissimo passato, un grande libro di storia a cielo aperto che ci stupisce ogni giorno regalandoci nuovi tasselli per ricostruire le tappe della sua evoluzione nei secoli.

Davvero speciale è la notizia di ieri che racconta di come alcuni archeologi della Sovrintendenza di Roma abbiano rinvenuto nel corso di uno scavo per i lavori di restauro dell'emiciclo del Circo Massimo, alcuni consistenti frammenti di un secondo Arco di Tito.

RESTI DELL'ARCO

IL RITROVAMENTO

Le parti rinvenute, in marmo lunense, secondo una prima analisi apparterrebbero all'attico e alla trabeazione. Tutt’attorno il pavimento antico in lastre di travertino su cui giacevano, inoltre, tre plinti frontali e una parte del sostegno della quarta colonna.

RICOSTRUZIONE
Complesse le indagini iniziate nel 2015 e tutt’ora in corso, a causa della presenza di una falda acquifera, uno strato che ha però favorito l’isolamento dei reperti consentendone una migliore conservazione. Visibili durante i lavori di scavo anche alcune parti di cinta muraria presumibilmente alto-medievale, altro materiale che sta impegnando gli studiosi.

La storia Grande la gioia per il team di esperti che si è ritrovato davanti preziosi reperti di quello che fu uno dei più imponenti archi dell’antica Roma, dedicato all’imperatore Tito nell’anno della sua morte, l’81 d.c., per celebrarne il valore a seguito della vittoria sui Giudei e la conseguente distruzione di Gerusalemme, era utilizzato per festeggiare il trionfo di generali e imperatori in battaglie di conquista.

Posizionato al centro dell'emiciclo del Circo Massimo, secondo gli studi e le ricostruzioni esso era alto circa 17 metri misurando una profondità di 15 metri e un’altezza di 10 metri ed è probabile che rimase in piedi almeno fino al termine del VIII secolo da quel che ci dice l’iscrizione sull’attico, opera dell'Anonimo di Einsiedeln.

Nel corso del Medioevo (XII secolo) nel fornice venne fatto passare il canale di un acquedotto, quello dell'Acqua Mariana per poi essere ricoperto nei secoli da strutture e caseggiati, poi demoliti nel corso degli scavi nel 1930 liberando la parte centrale del Circo Massimo e riportando alla luce una serie di reperti dell’antica Roma che erano stati, come era abitudine del tempo, riutilizzati per nuove costruzioni di epoca medievale.


L’altro Arco di Tito 

Il primo Arco di Tito troneggia oggi nel cuore del Foro Romano, perfettamente in piedi in tutto il suo splendore. Esso fu costruito nel 69 d.c. a memoria della guerra giudaica combattuta da Tito in Galilea. Una storia travagliata quella di questo sito archeologico, che come tanti luoghi dell’antichità torna adesso, lentamente, al suo originario splendore.



DA REPUBBLICA.it

I resti del grande arco realizzato per l'imperatore Tito. Straordinario ritrovamento Sovrintendenza al Circo Massimo". Un tweet dell'assessore di Roma Capitale alla Cultura Giovanna Marinelli per annunciare l'ultima novità dall'archeologia romana: i resti del grande arco realizzato in onore dell'Imperatore Tito, una seconda opera rispetto a quella che si erge sul lato ovest dei Fori.

E' lo straordinario ritrovamento, da parte degli archeologi della Sovrintendenza capitolina, rinvenuto al Circo Massimo. Durante i lavori di scavo, restauro e valorizzazione dell'emiciclo del Circo sono stati ritrovati alcuni grandi frammenti architettonici in marmo lunense pertinenti alla zona dell'attico e alla trabeazione dell'Arco, realizzato dopo la morte dell'imperatore.

RESTI DELL'ARCO
Le indagini, ancora in corso, sono risultate molto complesse poiché lo scavo è realizzato al di sotto della falda di acqua che ricopre gran parte delle strutture archeologiche. E' stato riscoperto il pavimento antico in lastre di travertino e sono stati messi in luce tre plinti frontali e parte del plinto della quarta colonna. Il potente strato di riporto che copriva parte delle strutture antiche ha permesso anche la conservazione di alcune strutture murarie tardoantiche o altomedievali di particolare importanza, attualmente in fase di studio. 

In attesa delle nuove risorse necessarie per l'eliminazione delle infiltrazioni d'acqua, per la ricostruzione con la tecnica dell'anastilosi dell'arco, nonché per evitare rischi di danneggiamento, tra pochi giorni l'area del ritrovamento sarà reinterrata.

L'ampiezza dell'arco è stata calcolata in circa 17 metri, per una profondità di circa 15, mentre le colonne dovevano sviluppare un'altezza di oltre 10 metri. Un monumento che, nel complesso più piccolo di quello di Settimio Severo (sulla Sacra via), doveva impressionare non poco, per magnificenza e ricchezza di decorazioni, i visitatori che entravano in Roma dalla Via Appia attraverso la vicina Porta Capena. E' attualmente in fase di realizzazione, in collaborazione con il Dipartimento Architettura dell'Università di Roma Tre, la ricostruzione virtuale del monumento.



Dedicato a Tito nell'anno della sua morte, nell'81, per celebrare la sua vittoria sui Giudei e la distruzione di Gerusalemme, l'Arco era posto al centro dell'emiciclo del Circo Massimo. Il monumento era a tre fornici intercomunicanti, con una platea ed una scalinata sulla fronte verso il circo, mentre si collegava con due gradini con il piano di calpestio esterno all'edificio. La fronte era caratterizzata da 4 colonne libere e 4 lesene retrostanti aderenti ai piloni. 

Era sormontato, sull'attico, da una grandiosa quadriga bronzea. L'arco assumeva un ruolo particolarmente importante nel corso delle processioni trionfali che celebravano le vittorie dei generali o degli imperatori. Il lungo corteo trionfale, dopo aver sfilato lungo il Circo Massimo e avere raccolto l'ovazione della folla, passava al di sotto dell'arco e proseguiva il suo cammino diretto al tempio di Giove Capitolino, sul Campidoglio.

Si conservano alcune raffigurazioni antiche di questo monumento, noto soprattutto nella pianta raffigurata sulla Forma Urbis oltre che su varie rappresentazioni datate dal II al IV secolo d. C. Alla fine dell'VIII secolo l'arco doveva essere ancora in piedi, poiché l'Anonimo di Einsiedeln trascrisse l'iscrizione posta sull'attico.


Successivamente, nel XII secolo, il fornice centrale viene occupato, a un livello più alto, dal canale dell'Acqua Mariana, un acquedotto medievale fatto costruire da Callisto II nel 1122, e poco oltre si costruisce la torre cosiddetta "della Moletta". Il canale della Mariana (o "Marrana") è ancora chiaramente visibile al centro dell'area dell'arco, con il suo il fondo costruito con scaglie di basalto e di marmi antichi.

Gli scavi eseguiti nel 1930 demolirono le strutture e i caseggiati che nel tempo si erano sovrapposti a quanto rimaneva della parte centrale dell'emiciclo, riportando alla luce numerosi elementi architettonici riutilizzati anche in epoca medievale. 


COMMENTO

Quanto lavoro e quanta maestria per costruirlo, ma pure quanto lavoro per demolirlo pezzo a pezzo, smontando un gigante per poi frammentarlo il più possibile, e poi seppellirlo nella terra, affinchè si cancellasse pure il ricordo di tanta grandezza e di tanta bellezza.

DICEMBRE

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I Romani avevano 45 giorni di feriae publicae e 22 giorni di festività singole obbligatorie. Inoltre avevano 12 giorni di ludi singoli e 103 di ludi raggruppati su più giorni. Insomma circa la metà dell'anno era non lavorativa.

- 1 - dicembre - Kalendis Decembribus - Neptunus -
Festa di Nettuno, Neptunus, Dio del mare. Era fratello di Giove e figlio di Saturno e Ops (Rea).

- 1 - dicembre - Pietas -
Festa della dea Pietas, personificazione del dovere, del rispetto e dell'affetto verso gli dei, i genitori ed i figli. Il tempio sorgeva tra il Campidoglio e il Tevere. della religiosità, dell'amore devoto.

- 3 dicembre - ante diem tertium Nonas Decembres - Bona Dea -
in onore di Bona Dea, divinità il cui nome non poteva essere pronunciato. Il 3 dicembre le donne si riunivano a casa di uno dei principali magistrati della città per invocare la prosperità del popolo romano. Aveva un tempio sul colle Aventinus, sotto il Saxum, onde l'epiteto di Susaxana. Era collegata alla salute e alla fecondità. Il culto era riservato alle donne, ma vi era anche un collegio, gli Arvales, per soli uomini. Aveva un tempio sul colle Aventinus ed uno minore in Trastevere.

- 4 dicembre - Bona Dea -
antica divinità romana collegata al culto di Fauno. Aveva un santuario sull'Aventino. Il primo maggio si celebravano riti segreti riservati alle donne. A dicembre si celebrava il rito segreto in casa del console in carica. Presiedeva la moglie del console. Durante una celebrazione avvenne lo scandalo che coinvolse la moglie di Cesare. Secondo Lattanzio era una Dea fedele e pudica ammazzata di botte
dal marito per essersi ubriacata. (Ma come Dea non doveva essere immortale?). In realtà Dea madre di Fauno alle origini.

- 5 dicembre - Nonis Decembribus - Faunalia Rustica -
in onore di Fauno, dal 5 all'8 dicembre. antica divinità italica di origine pastorale, protettore della fecondità degli uomini e degli animali. Nelle campagne si organizzavano banchetti con suoni e canti. I sacerdoti di Salii invocavano la protezione di Fauno sul raccolto e sul bestiame e in onore del Dio sacrificavano un capretto o una pecora, le cui carni, come d'uso in quasi tutte le feste, venivano distribuite ai presenti.

- 6 dicembre - Faunalia Rustica - ante diem octavum Idus Decembres -

- 7 dicembre - Faunalia Rustica - ante diem septimum Idus Decembres -

- 8 dicembre - Faunalia Rustica - ante diem sextum Idus Decembres -

- 8 dicembre - Tiberinalia -

in onore di Tiberinus, il Dio Tevere che aveva un santuario sull'isola Tiberina. In suo onore si allestivano barche ornate di stoffe e fiori che scorrevano nel fiume rilasciando ghirlande sui cippi posti ai lati del Tevere. Si versavano in acqua anche offerte di vino.

- 9 dicembre - ante diem quintum Idus Decembres - Iunonis Iugalis - 
festa di Giunone protettrice dei matrimoni. Si svolgeva una processione cui partecipavano le donne sposate per la fortuna del proprio matrimonio col peplo, fino al tempio di Giunone dove deponevano offerte e ghirlande.

- 9 dicembre - - Templum Solis Indigetis - 
seconda festa in onore del Dio Sol Indiges, ossia Sole Progenitore di tutte le cose. (a Torvaianica, presso Roma, scoperti i resti del santuario del Sol Indiges e quelli di due altari dove Enea fece il primo sacrificio per ringraziare gli Dei dell'approdo su una terra ricca d'acqua e cibo.)

- 10 dicembre - ante diem quartum Idus Decembres - Septimontium Agonalia - 
dal 10 al 12 dicembre in memoria della inclusione dei sette colli nella cinta muraria. L'antica festa prendeva il nome dalla zona comprendente diverse colline: Palatinus (Palatium,Germalus, Velia), Esquilinus (Oppius, Cispus, Fagutal), Caelius, Subura.

AGONALIA
- 11 dicembre - ante diem tertium Idus Decembres - Agonalia -
(quarta), in onore di Sol Indiges.Tale festività cadeva quattro volte l'anno e ogni volta era dedicata ad una divinità diversa: il 9 gennaio a Giano, il 17 marzo a Marte, il 21 maggio a Veiove e l'11 dicembre a Sole Indigete. La celebrazione consisteva nel sacrificio di un ariete nero nella Regia da parte del re dei sacrifici. Se ne attribuiva l'istituzione a Numa Pompilio.

- 11 dicembre - Ianus - 
terza festa in onore di Ianus.

- 11 dicembre - Sol Indiges -
Anniversario della dedicazione del tempio dedicato al Sol Indiges.

- 12 dicembre -  pridie Idus Decembres - Agonalia -
(quinta), in onore di Sol Indiges.- 

- 13 dicembre - Idibus decembribus - Lectisternium Cereris et Telluris  -
La festa era in onore di Cerere, e Tellus. Si offriva un banchetto alla divinità ponendo le statue su triclinii davanti alle mense imbandite.

- 13 dicembre - Templum Telluris  -
in onore della Dea Tellus, la Terra. Si ricordava la dedicatio del tempio. Si onorava la Terra Mater. Dea della fecondità degli animali e dei vegetali, sovrintendeva alla nascita e alla morte.

- 15 dicembre - ante diem duodevicesimum Kalendas Ianuarias
 - Consualia -
in onore del Dio Conso, protettore del raccolto. Dionigi informa che questi riti si svolgevano davanti a un altare sotterraneo del Circo Massimo, portato in superficie in occasione della festa.
Il Dio Conso era identificato nel Neptunus Equestris, ovvero nel dio Nettuno protettore degli equini. Pertanto erano di rigore le celebrazioni con corse di asini, cavalli o muli, cui assistevano anche gli equini non concorrenti, agghindati con ornamenti floreali e per quel giorno esentati da ogni lavoro.
Secondo Tito Livio i Consualia furono istituiti da Romolo quando organizzò il Ratto delle sabine.

- 15 dicembre - Fortuna Redux -  
in onore della Fortuna Redux che proteggeva i combattenti e li faceva tornare a casa vittoriosi. Il senato lo fece costruire nel 19 a.c. per commemorare il ritorno dell'imperatore Augustus dall'Oriente. Da allora proteggeva la persona degli imperatori nelle loro spedizioni.

SATURNALIA
- 17 dicembre - ante diem sextum decimum Kalendas Ianuarias - Saturnalia -
Inizio delle feste in onore del Dio Saturno, celebrata il 17-24 -31 dicembre. Dio della semina. Festa voluta e datata da Domiziano. Il primo giorno la cerimonia si svolgeva presso il tempio di Saturnus con un sacrificio ed un banchetto. Dal 17 iniziava un'allegra vacanza in cui si scambiavano doni e biglietti di auguri, spesso epigrammi, si facevano grandi banchetti e i padroni servivano gli schiavi, poiché ai tempi di Saturno non esisteva la schiavitù. Veniva permesso anche il gioco d'azzardo. Veniva eletto il princeps saturnalicius che governava la festa.
Secondo un'altra tradizione i Saturnalia erano stati istituiti dai compagni di Ercole rimasti in Italia.
Varrone faceva risalire i Saturnalia ai Pelasgi insediatisi in Italia dopo averne scacciato i Siculi. In ogni caso le feste di Saturno risultavano molto antecedenti alla fondazione di Roma.
La festa durava due giorni ai tempi di Cesare, quattro ai tempi di Caligola e sette ai tempi di Domiziano. Durante la festa si scambiavano doni ed auguri, si facevano banchetti, si ricordava la mitica età dell'oro.

- 18 dicembre - ante diem quintum decimum Kalendas Ianuarias - Saturnalia -
Secondo giorno delle feste in onore di Saturno

- 18 dicembre - Eponalia -
nel.secondo giorno dei Saturnali, si celebravano gli Eponalia, festa di Epona, Dea Madre e Patrona di cavalli, asini e altri animali. ma pure Madre Terra, fertilità, rinascita e abbondanza.  Gli ufficiali della cavalleria romana adottarono la Dea celtica, ne posero le statue nelle loro stalle e stabilito una festa ufficiale in suo onore ogni anno il 18 dicembre. Lei è l'unica divinità celtica ad avere questo onore, dovuto all'amore dei Romani per i cavalli.

- 18 dicembre - Mercatus 
dal 18 al 20 novembre a conclusione dei Ludi Plebeii, con la grande fiera.

- 19 dicembre - ante diem quartum decimum Kalendas Ianuarias - Opalia -
terzo giorno dei Saturnalia, in onore della Dea Ops o Opis, Dea dell'Abbondanza, protettrice di un ricco raccolto, considerata la moglie di Saturno. Anniversario della dedicazione del tempio di Ops sul Campidoglio. La dea era di origine sabina, il culto venne introdotto a Roma al tempo di Tito Tazio.

- 19 dicembre - Mercatus 
dal 18 al 20 novembre a conclusione dei Ludi Plebeii, con la grande fiera.

- 20 dicembre - ante diem tertium decimum Kalendas Ianuarias -Mercatus 
dal 18 al 20 novembre a conclusione dei Ludi Plebeii, con la grande fiera.

- 20 dicembre - Sigillaria -
festa delle statuette di terracotta, di cera o di pasta, come exvoto e doni augurali. che si scambiavano durante i Saturnali e che venivano offerte ai Lari; ma pure al Dio Saturno, inteso come Dio degli Inferi, quasi a scongiurare la propria morte: l'offerente dava al Dio il sigillum in sostituzione della propria persona.

- 21 dicembre - ante diem duodecimum Kalendas Ianuarias - Divalia (Angeronalia) -
quinto giorno dei Saturnalia, in onore della Dea Angerona, protettrice dei consigli, del silenzio, dei segreti. Era invocata nei Sacri Misteri di cui occorreva mantenere il segreto sui rituali.  Nel giorno di festa, i pontefici eseguivano sacrifici nel tempio di Voluptia, Dea della gioia e piacere, che, dicono alcuni, era la stessa Angerona, e che poteva allontanare tutto il dolore e la noia della vita.

- 21 dicembre - Agonalia -
in onore di Sole Indigete. Quando nel 274 d.c. venne ufficializzata da Aureliano il Dio Mitra, poiché anch'egli rappresentava il sole, il Sole Indigete venne sostituito al meno popolare Sole Invicto; così venne festeggiato, al posto di Apollo, il Dio Mitra, nato in una grotta e gli venne affidato dal padre Sole il compito di contrastare Ahriman, spirito maligno che voleva distruggere il mondo; Mitra, compiuta la sua missione, partecipò con i suoi adepti ad un banchetto e, al termine del rito sacro, salì al cielo su un Carro di Luce, per riunirsi al Padre Sole.

- 21 dicembre - Saturnalia -
- Quinto giorno delle feste in onore di Saturno

- 22 dicembre - ante diem undecimum Kalendas Ianuarias - Saturnalia -
Sesto giorno delle feste in onore di Saturno.


- 23 dicembre - ante diem decimum Kalendas Ianuarias Larentalia -
in onore di Acca Larenzia.  divinità etrusca prostituta (sicuramente una Dea della lussuria) e benevola verso gli umili. Per i Romani salvò Romolo e Remo e la sua tomba stava presso il Velabro. Si festeggiava nell'ultimo giorno dei Saturnalia, estesa anche ai Lares, divinità protettrici della famiglia, e per ordine di Augusto, furono festeggiate due volte l'anno.

- 23 dicembre - Saturnalia -
Settimo ed ultimo giorno delle feste in onore di Saturno.

-24 dicembre - Brumaia - 
Veniva chiamato il giorno più corto dell'anno. Bruma significa infatti "brevima dies". In pratica il solstizio di inverno. Era infatti la festa del solstizio in onore di Dioniso, tenuta a volte il 23 a volte il 25 dicembre, a Roma era una festa di Bacco, celebrata per trenta giorni, a partire dal 24 novembre. Fu istituita da Romolo, che coinvolse il Senato durante questo tempo. Durante la festa venivano date indicazioni profetiche per la restante parte dell'inverno.

- 25 dicembre - ante diem octavum Kalendas Ianuarias - Templum Solis Invicti -  
in onore del Sol Invictus. Si ricordava la dedicatio del tempio nel 273 d.c. da Aureliano, rientrato a Roma dopo la vittoria di Palmyra.

- 25 dicembre - Dies natalis Solis Invicti -  
in onore del Sol Invictus. Si ricordava il Dies Natalis del Sole, ossia il giorno in cui le giornate riprendevano ad allungarsi con la vittoria della luce sulle tenebre. La festa era stata istituita nel 273 d.c. dall'imperatore Aureliano al ritorno dalle sue vittorie in Oriente. La data venne scelta dall'imperatore per farla coincidere con il solstizio d'inverno.

TAVOLINI

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Teniamo presente che i Romani adottarono e modificarono liberamente i modelli greci ed egiziani, entrambi già elaborati e di grande fantasia. Ma molto presero anche dai mobilieri etruschi, i quali usavano tavolini, sedili e armadi.

La casa romana non aveva molti mobili, però, se i proprietari ne avevano la possibilità l'arredavano con buon gusto, per il semplice motivo che la moda vigente prevedeva mobili e suppellettili di buon gusto.

Ed ecco i principali modelli di mobili e suppellettili:

n°1 - tavolino di marmo
n°2 - cassapanca o cassettone
n°3 - armadio-sacrario
n°4 - tsvolinrto leggio
n°5 - tavolinetto 3 piedi
n°6 - tavolinetto 3 piedi
n°7 - divano
n°8 - panca
n°9 - poggiapiedi
n°10 - sgabello curule
n°11 - tramezzo di legno
n°12 - vaso-braciere
n°13 - scalda-acqua
n°14 - armadio
n°15 - letto
n°16 - culla
n°17 - sedia
n°18 - versatoio
n°19 - specchio
n°20 - vaso-portafiori
n°21 - cilindro portacarte
n°22 - tavolino 4 zampi
n°23 - potiche porta oggetti

Del resto la casa romana non copiava nè l'egizia nè la greca, ma copiava quella etrusca, coll'impluvio e il guardino col colonnato.

CASA ETRUSCA (1)
Ovviamente ne copiò in parte anche le suppellettili.

Nell'immagine qua a fianco c'è l'esempio di una casa etrusca, con tanto di porticato e giardino-

L'unica differenza è che invece delle colonne usavano i pilastri in genere scanalati, anche se in seguito usarono le colonne, ma solo per i templi.

Però sappiamo pure che i romani ricavarono dai modelli altrui sempre uno stile proprio, che univa la praticità al lato estetico.

I modelli di mobili, e quindi anche dei tavolini, sono quelli che emergono dagli antichi dipinti ma pure quelli rinvenuti sotto all'eruzione del vulcano, quindi a Pompei, Ercolano, Oplontis ecc.

TAVOLO EGIZIO 
Alcune differenze basilari di stile ci sono. Ad esempio questo tavolino egizio, come molti altri, ha le zampe rivolte in dentro, mentre i tavoli romani li hanno quasi sempre rivolti in fuori.

Nelle case più ricche esistevano tavoli e arredi di materiali quali bronzo, ferro, marmo. madreperla e avorio.
Ma i mobili romani non erano molti nemmeno nelle domus lussuose. I tipi di mobilio erano limitati come tipologia, ma illimitati come modelli.

TAVOLINO DI BOSCOREALE (2)
Anzitutto i romani non usavano i tavoli come noi oggi, per il semplice fatto che mangiavano sdraiati sui triclini.

Ora è vero che c'erano anche i poveri che mangiavano magari col cibo sulle ginocchia o poggiandolo su una cassa, ma è anche vero che a Roma c'erano meno poveri di oggi.

Bisogna tener conto che Roma era l'America di oggi, anzi di alcuni decenni fa, era il paese delle possibilità.

A Roma, se si aveva la minima capacità di fare una qualsiasi cosa si poteva vivere o sopravvivere, i poveri erano quelli che non parlavano la lingua e che non avevano nè un'istruzione nè un qualsiasi mestiere.

Pertanto i mobili c'erano più o meno in tutte le case, modeste o lussuose che fossero, ma con una certa parsimonia. Comunque i tavoli grandi con gli zampi alti non esistevano.

Viceversa esistevano i tavolini, anzi oggi li chiameremmo tavolinetti.

Venivano usati per poggiare il cibo, o qualche accessorio di arredamento, tipo una brocca d'argento, o semplicemente adornati con una tovaglietta preziosa.

TAVOLINO (4)
I tavolini in genere erano fatti in legno con gli zampi in metallo, oppure rivestiti di metallo ed erano o bassi e un po' estesi, o alti e piccoli, ma comunque più bassi dei nostri tavoli da mensa.

Il modello in alto (2) aveva ad esempio un piede unico di legno, retto però da tre piedini di bonzo. Sul fusto aveva applicazioni di bronzo dorato in orizzontale ad anello e in verticale a mo' di tralcio d'erba applicato al legni dipinto di verde.

(5)
Sopra vi era poggiata una torta ben guarnita con sotto una tovaglietta trasparente, forse di merletto.

I tavolini avevano spesso la forma incurvata di zampe di animali terminanti a piede di toro o di leone, ma anche a serpentello o ad artiglio d'uccello.

Venivano usati molto nei banchetti ma pure qua e là nella casa per un punto d'appoggio o per pura eleganza.

A volte come gli altri mobili, venivano decorati, dorati, finiti a cera o dipinti in vari colori anche cangianti o iridescenti e lucidati, con vari disegni colorati.

Nella figura sopra, la (4), i tavolinetti sono rotondi, a tre zampi terminanti in zampa di animale e in legno lucidato, potrebbero tranquillamente essere dei mobiletti attuali.

I legni più pregiati erano di ulivo, di tasso e di cedro, ma pure di quercia, di noce o di abete.

Nell'affresco qui sotto (6) si ha un altro tavolinetto, anche questo a piede unico ma trilobato ed intagliato, dipinto di giallo, decorato con applicazioni in bronzo dorato, con su una magnifica torta poggiata sulla tovaglietta di velo e merletto. 

TAVOLINETTO BOSCOREALE (6)
Nell'antica Roma non mancavano i tavolinetti intarsiati con inserti in bronzo, in madreperla, in avorio, o in legni diversi in modo da formare un colore diverso del legno o una sua diversità strutturale, uno stile che sarà poi ripreso dal maestro ebanista Maggiolini a fine '700, che giocherà proprio sui diversi tessuti del legno.

A volte i piani dei tavolini venivano intarsiati con applicazioni in pasta vitrea o addirittura in pietre preziose e semipreziose.

Nell'immagine qui sotto, la (7), una matrona siede sul triclinio del suo giardino a terrazza, godendosi la vista del mare. Accanto ha un tavolinetto di legno pitturato con teste di cavallo e marmo verde in superficie.

MATRONA IN GIRDINO (7)
Il mondo però conosce i mobili romani soprattutto grazie alla tragedia che si abbattè su Pompei nel 79 d.c., una catastrofe che cancellò dalla faccia della terra un'intera città, ma che la conservò in larga parte sotto la sua coltre di lava.

I reperti di Pompei danno un'idea chiara di come potessero essere i mobili dell'epoca, anche perchè le parti in bronzo non si sono fuse in quanto la cenere già sollevata dall'eruzione salvò il mobilio dal calore più cocente impedendogli di fondere o di sgretolare il legno.

TAVOLINO ORIGINALE (8) E RICOSTRUZIONE (9)
Si noti pertanto i fili di bronzo che assicurano la stabilità del tavolinetto della figura (8), fili che appartengono all'originale, infatti appaiono identici anche nelle pitture.

A lato, nella figura (9) si può ammirare la ricostruzione di un tavolinetto romano rivestito a foglia d'oro e con piccole decorazioni in rosso.

Il mobiletto ha un piano quadrato sostenuto da un fusto unico, che però si dirama alla base in tre zampi allargati.

Il fusto come i zampi è in legno scolpito e dorato con zigrinature e conchiglie, mentre i piedi sono a zampa di leone.

I lavori in legno venivano eseguiti a tornio o piallati con grande maestria, poi ricoperti a gesso e infine dorati a foglie d'oro sovrapposte.

Un lavoro di maestri artigiani di grande raffinatezza, con uno stile che potrebbe anche oggi essere attualissimo, anche se molto costoso qualora venisse fatto artigianalmente.

Un altro splendido tavolinetto compare nella pittura pompeiana n. (10), dove i commensali siedono su un triclinio, e dove sono poggiati delicati contenitori di vetro.

TAVOLINO (10)
Il tavolinetto è tondo e a tre zampe di cavallo, dipinto e lucidato, nero sugli zampi con inserti lavorati e rosso sulla tavola

(11)
I tavolinetti erano per lo più rotondi e a tre zampi, ma non mancavano quelli quadrati, anzi più spesso rettangolari con una coppia di sostegni sotto la tavola di legno, a forma di animali, zampi di animali o  legni curvati e intagliati elegantemente.

Nel tavolino a fianco, il n. (11), si notano gli zampi a testa di cigno, ma a zampa di cavallo con il piede a zoccoletto, nonchè le lamine di bronzo che collegano gli zampi tra loro per la stabilità dell'appoggio.

I tavolini di pietra potevano servire sia nell'androne della casa dove il dominus svolgeva i propri affari, o in qualsiasi altro ambiente, semmai uno studio dove svolgere i propri affari quotidiani con i propri clientes, o per avere un appoggio dove la matrona potesse poggiare i suoi cosmetici, o le sue scatole con pettini e fermagli, o per lo scrigno dei gioielli.

Di solito i tavolini erano di marmo, in particolare quello dell'atrio che era rettangolare con sopra gli ingredienti per scrivere, con la cassetta delle monete o la brocca per bere ecc.

Quelli rotondi, sempre di pietra o marmo, avevano un basamento unico, a colonna o a parallelepipedo, talvolta col fusto dipinto oppure ornato da applicazioni di bronzo.

(12)
Più spesso il tavolino in marmo tondo aveva tre zampi a foggia di sfingi, o di draghi, o di leoni magari alati, come quelli dell'immagine (12), dove la matrona si mira allo specchio mentre si prova i suoi preziosi gioielli.

Gli zampi venivano di solito inseriti sotto al piano opportunamente scavato e magari assicurato con spunzoni in bronzo che sporgevano dalle basi per penetrare nel piano.

Sopra al tavolino da giardino, stavolta alto, sta il cofano dei gioielli con una brocca colma di fiori. Il tavolino da giardino è perfetto in marmo, perchè non risente delle intemperie e può costituire un angolino di relax.

Al contrario di noi che difficilmente porremmo tavolinetti di pietra o di marmo in casa, i romani  ne usavano, forse anche perchè avevano gli schiavi che avrebbero potuto spostarli ogni volta occorresse farlo.

I tavolini di pietra potevano servire sia nell'androne della casa dove il dominus svolgeva i propri affari, o in qualsiasi altro ambiente, semmai uno studio dove svolgere i propri affari quotidiani con i propri clientes.

Oppure serviva più all'interno, per avere un appoggio dove la matrona potesse porre i suoi cosmetici, o le sue scatole con pettini e fermagli, o per lo scrigno dei gioielli.

LA SCELTA DEL
PROFUMO (13)
La matrona della figura (13) sta in piedi accanto a un altro tavolinetto un po' simile al precedente, solo che mentre l'altro era in marmo bianco venato, questo è in marmo grigio anch'esso con venature.

La matrona sembra stia provando la sua scatola di profumi per decidere quale scegliere, e stavolta però è posto all'interno della casa.

Anche questo tavolinetto è a tre piedi, con teste e zampe di leone che a loro volta poggiano su tre basette di marmo un po' scanalate.

Guardando questi mobiletti comprendiamo come tutto il mobilio successivo, in ogni parte del mondo, sia derivato da Pompei e zone limitrofe.

La scoperta di Pompei determinò lo stile impero e gli stili successivi, ma già nel Rinascimento si ebbero i primi oggetti di bronzo, tra cui bracieri e sgabelli, che dettarono la moda e l'arte del mobilificio, nel medioevo quasi totalmente scomparsa.

Comunque nemmeno nel medioevo si ebbero i grandi tavoli per i banchetti, anche se tramontarono del tutto i triclini, che mal si addicevano alla vita austera propugnata dalla chiesa cattolica.


Il corpo e i suoi piaceri erano fonte di peccato per cui anche la tavola doveva essere frugale (anche se lo fu solo per i poveri) ed era necessario togliere l'esposizione dei corpi mollemente sdraiati sui triclini coperti di morbide coltri. 

TAVOLINI (14)
I corpi andavano coperti sia nella pesantezza delle vesti che nel colore che doveva essere scuro e sia nel coprire qualsiasi centimetro di carne, si che persino i capelli dovevano essere coperti da cappelli o retine, potendo costituire fonte di bramosia e peccato.

Nell'epoca romana invece il piacere e l'amore non erano invisi agli Dei, e tantomeno il lusso, l'arte e la poesia.

L'arredamento era costituito soprattutto dalle decorazioni murali, sia pittoriche sia di marmi intarsiati, opus sectile.

Di mobili se ne usavano pochi ma quei mobili erano un capolavoro di intaglio, intarsio e pittura.

Come si può osservare nella figura (14) i tavoli potevano avere forme e dimensioni diverse.

Infatti un tavolinetto che fungeva da leggio, con base e forse anche stelo in bronzo, aveva la superficie rettangolare poco più grande della base anch'essa rettangolare, mentre il fusto, piuttosto sottile. era inserito di lato e non al centro.

Ciò doveva consentire di avvicinare il leggio a una seggiola di modo che potesse inserirsi senza urtare le ginocchia. Naturalmente il piccolo tavolino poteva essere usato anche per scrivere.

ZAMPO DI TAVOLO POMPEIANO (15)
Un'altra curiosità era la decorazione degli occhi dei mitici animali, che di solito venivano, almeno nel legno, incastonati per dar loro una vita.

Solitamente erano di ceramica, oppure dipinti. Era lo stesso trattamento che si faceva alle statue, dipinte, spesso panneggiate in costumi veri e con gli occhi di ceramica o di pasta vitrea lucidata.


Qui sotto, nella figura (15), possiamo ammirare lo zampo di un tavolino così come è stato rinvenuto a Pompei.

Alcuni mobili infatti per il forte calore dell'eruzione si sono quasi carbonizzati, o almeno lo sarebbero stati se avessero avuto l'aria per la combustione.

Essendo invece stati invasi dalla lava i legni sono diventati duri e un po' abbrustoliti ma solidi, ed ecco qua sotto un magnifico zampo di tavolino fatto a testa di drago, cornuto e alato, e con gli occhi di ceramica.

Di certo quegli occhi spalancati che sembravano veri dovevano fare un certo effetto, tanto più che in genere, quando il mobile era guarnito con occhi di pasta vitrea o ceramica, esso veniva dipinto con tinture particolari, lucide e sfumate, spesso guarnite a "piuma di pavone".

Trattavasi di una particolarissima decorazione di grande effetto, grande maestria nell'esecuzione e costo notevole, con preziosi colori che variavano nelle diverse sfumature soprattutto di blu e verde, imitando davvero le piume del pavone.

TAVOLINO IN MARMO (16)
Nella figura (16) invece c'è un tavolino di marmo bianco rettangolare a quattro zampi squadrati ma terminanti in zampe di animali.

Era posto per tradizione sul lato corto del compluvio e sembra che anticamente, in tempi ancora più remoti, fosse un altare.

Di solito questo tavolino era in marmo di Carrara, il marmo più bianco, forse perchè la tradizione richiedeva appunto un marmo candido, a simbolo della purezza del luogo e del rito.

I reperti di Pompei danno un'idea chiara di come potessero essere i mobili dell'epoca, anche perchè le parti in bronzo non si sono fuse in quanto la cenere già sollevata dall'eruzione salvò il mobilio dal calore più cocente impedendogli di fondere o di sgretolare il legno.

BANCHETTO  (17)
Naturalmente non potevano mancare anche tavolini bassi ma lunghi, però stretti, per oggiare cibi o vasellame e magari statuette che gli ospiti potessero ammirare, come quello qua sotto, in legno dipinto e lucidato con delicate applicazioni in oro e bronzo.

Il tavolo accompagnava di solito i triclini dove si serviva la cena che iniziava dopo il tramonto del sole per protrarsi magari quasi fino all'alba, come si vede nella figura (17).

(18)


Nella riproduzione di cui sopra, la (18), si nota un tavolinetto rettangolare molto basso, quasi alla giapponese, con zampi diritti e leggermente rastremati, il legno è dipinto di un grigio verdolino, a parte un inserto sotto la tavola di color bianco.

Ma l'arte del mobile era eclettica per i romani. Un tavolinetto poteva avere mille fogge, come quello qua sotto, nella figura (19), dove un mercante, o lo scultore stesso, sta presentando al padrone di casa una vera e propria opera d'arte.

(19)
E' la statuina di una Venere che viene poggiata su un tavolinetto rettangolare, a 4 zampi di legno lavorati, che avevano a supporto dei tasselli di legno piatto per irrobustire le estremità degli zampi.

Questi ultimi riproducevano zampe di animali e, per assicurarsi la stabilità oltre questi supporti c'erano delle stanghe di legno che univano a x i due zampi davanti tra loro e i due dietro tra loro.

(20)
Il tutto verniciato in nero e lucidato mentre il piano del tavolo, anch'esso in legno, era pitturato di verde e decorato.

Tra i tavoli di marmo non potevano mancare quelli variegati, come quello qua sotto (20), in genere colorati sopra e bianchi sotto, visto che i marmi colorati erano in genere i più pregiati.

Erano tondi, quadrati, rettangolari e pure ovali, come questo qui sotto, in marmo rosso ovale e modanato, e con zampi finemente lavorati.

Dei mobili usati dagli antichi Greci rimane traccia su vasi dipinti, monete e bassorilievi dove compaiono divani, tavolini e thronoi (troni) dove sedevano gli Dei e i personaggi mitici.

Sembra che sia gli etruschi che i romani abbiano attinto molto dai mobili greci, ma i romani, specie in età imperiale, erano molto più ricchi dei greci per cui andarono oltre.

Infatti fecero grande uso di mobili in legno, per quanto nelle case dei più ricchi vi fossero anche mobili in bronzo, in osso e in avorio.

Sui tavolini poi si sbizzarrirono con le tarsie, geometriche e non, sovente a motivi floreali o vegetali.

Una volta instaurata l'opus sectile, essa fu usata anche sui tavolini, il cui piano veniva coperto di tarsie marmoree, di mosaici, di paste vitree e pure pietre preziose importate largamente dall'oriente, per costituire disegni vari.

Nelle scene di banchetto, dove il kline che svolgeva la duplice funzione di divano e di letto, si ponevano tavole quadrate a quattro gambe (trapeza) e a tre gambe (tripous) con piano quadrato o tondo.

Per avere il tavolo vero e proprio bisogna attendere il Rinascimento, quando ormai i triclini sono scomparsi da un pezzo ma comincia a scomparire anche il senso di colpa per la buona tavola e i piaceri della vita. Ovvero il popolo ha il senso di colpa ed espia, ma nobili e alti prelati se la godono.

(21)
Teniamo conto che la nuova aristocrazia tende a coptare le alte cariche del clero che rendono più delle cariche nobiliari. Ogni casata ambisce pertanto ad avere il proprio cardinale se non papa.

Il papa è il monarca assoluto che può assegnare alla sua famiglia tutte le terre che vuole. Le famiglie più ricche sono quelle che hanno avuto un papa in famiglia.

Ma il Rinascimento è la Rinascita, come indica la parola stessa, dello stile pagano, anche se rivisitato e corretto, spesso anche con meno linearità dello stile romano, che a volte era già fin troppo ricco di dorature, sculture, arabeschi e pitture.

Qua sopra, nell'immagine (20), c'è un curioso tavolinetto sopra cui è poggiato un cuscino sagomato. E' un tavolinetto-leggio che serve anche per poggiarsi o per poggiare oggetti. E' di legno leggero, in modo che possa venire spostato secondo le necessità.

(22)
Comunque tutto cambia dopo la scoperta di Pompei quando iniziano a diffondersi i testi a stampa raffiguranti gli scavi di Pompei e Ercolano.

Non manca l'interesse al mondo greco, con le descrizioni dei monumenti edite da R. Dalton (1749, 1751), di Le Roy (1758), Stuart e Revett (1762) e di Choisel-Gouffier (1782) che influenzarono lo stile dell'epoca.

Il mondo greco e pure romano si ispira all'architettura e alle sue decorazioni.

La scoperta delle pitture e degli arredi pompeiani detta ai pittori neoclassicisti di fine '800 molte pitture sul tema.

Il bello è che questi pittori, pur essendo extraitalici e per la maggior parte inglesi, sono estremamente documentati sui costumi, sulle architetture e pure sui mobili, tutto ripreso dalle numerosissime stampe che vengono all'epoca profuse ovunque.

Fateci caso, gli antichi mobili riproducono le decorazioni che si facevano in architettura, i motivi scavati nel marmo vengono incisi sul legno.

Non mancano mobili, specie librerie o letti, con lesene, con colonnine e con frontoni, a parte le riproduzioni su legno di serti di allori, di capitelli.

Il tavolo della figura (22), che potrebbe essere un normale tavolo da cucina per le dimensioni che ha, corrisponde invece ad un tavolo da lavoro dove l'artigiano rifinisce il suo vaso.

(23)
Insomma nel fine '700 e fino alla fine '800 tutto il mondo romano  trova felice espressione negli artisti che lo ritraggono, lo reinventano o lo ricostruiscono, particolarmente con il veneziano G.B. Piranesi, che ammira e decanta la superba architettura dell’Urbe nella sua “Magnificenza ed Architettura de’ Romani” del 1765.

Il Piranesi, incisore e architetto, diviene famoso in tutta Europa, si che il suo studio in via Lata a Roma, diventa meta degli artisti ed eruditi del tempo, e per l’ultima volta nella sua storia, Roma torna ad essere la prima nel mondo pe le arti. Poi cala di nuovo il silenzio.

Ma già il Winckelmann aveva pubblicato la sua “Storia dell’arte presso gli antichi”, un testo che divenne il vademecum dell’estetica Neoclassica, estetica che influenzò il mondo.

(24)
Inoltre vi fu la pubblicazione tra il 1762 e il 1779 in sei volumi illustrati delle “Le pitture antiche di Ercolano” determinarono in tutto il mondo occidentale il gusto neoclassico in senso archeologico. 

Nella immagine sopra,  la (23), si nota un particolare tavolino in marmo  rettangolare, bordato e guarnito in bronzo (Metropolitam Museum).

La distinzione, nell’ambito di una stessa cultura artistica, tra mobili dozzinali, pratici ma di poco pregio, e altri particolarmente eleganti e raffinati ci fu fin dal tempo dei romani e continuerà nei secoli successivi, evidenziando con il costo e la raffinatezza i diversi ceti sociali.

Qui a fianco. immagine (24), un semplice ed elegantissimo tavolino leggermente rettangolare in legno scuro, piccolo ma con alti zampi lavorati, nel numero di quattro, con un piano dipinto e cerato.

Spesso i romani facevano dipingere, oltre alle mura di casa, i propri mobili, ciò non comportava alti costi, perchè gli artigiani abbondavano.

Avere una casa o dei mobili dipinti non dimostrava una grande ricchezza, ma ne richiedeva il ricorrere ad artisti eccelsi.

Questi costavano effettivamente moltissimo e non molti potevano permetterseli. Tenendo conto poi che i romani avevano l'occhio educato al bello, soprattutto per le pitture, sculture e decorazioni di cui erano corredati gli splendidi edifici pubblici.

Tuttavia i romani non gradivano le ostentazioni di ricchezza specie se prive di gusto, tanto è vero che si sosteneva che un uomo raffinato preferiva avere pochi pezzi di argenteria ben cesellati che tutto il servizio d'argento che non avesse pregi di esecuzione.

(25)
Così come il dominus raffinato preferiva tre o quattro mobiletti ben lavorati abbinandoli magari a mobili di vimini che non avere molta mobilia di scarsa esecuzione. Ma nelle ricche domus apparivano anche tavolinetti semplicissimi, col duplice uso di tavolino e sgabello, come quello della figura sopra, la (25), perchè dei mobili si apprezzava anche il designer.

E come variarono nel tempo i mobili romani? In parte possiamo desumerlo dagli stili pompeiani.

PRIMO STILE (26)
- (150 - 80 a.c.) Il primo stile è alquanto sannita, quindi piuttosto greco-orientale, i marmi vengono imitati attraverso la pittura, le forme sono piuttosto squadrate.

- Il secondo stile (80- 20 a.c.) è proprio romano, appaiono le colonnine dei mobili, le lesene, i timpani e le zampe di animali per tavoli, letti e divani.

SECONDO STILE (27)
Qui sopra compare, nella figura (27), un divano di marmo con timpano e fregi, e un tavolino di pregiato marmo verde e bronzo dorato.

TERZO STILE (28)
- Il terzo stile (20 - 40 d.c.) lo stile si esilizza, diventa etereo, con zampi arcuati e sottili, spesso a foggia di motivi floreali; i candelabri snelli sostituiscono le colonne, i fregi sono sottili e sinuosi.

Per rendere sottili gli zampi si ricorre spesso al bronzo o al ferro, ma si adopera anche un legno più compatto e quindi resistente.

Nella figura qui a fianco (28) si nota come il tavolinetto, seppure simili a molti precedenti, si sia snellito con zampi filiformi e un piano sottile.

Come si vede, il tavolinetto poteva semplicemente essere usato per poggiarvi delle piante, o dei vasi di fiori, esattamente come oggi.

TERZO STILE (29)
Che si tratti del terzo stile si nota anche dalla decorazione parietale, anch'essa esile e di stile grottesco.

- Il quarto stile (40 - 60) è il più ricco e sfrenato, Si moltiplicano gli ori, i ricami, i dipinti e gli intarsi, tutto è innovativo, fantasioso e celebrativo. Si studiano nuove forme, si moltiplicano i materiali compositi e i diversi colori di marmi.

I risultati sono esaltanti, degni della glorificazione di un impero.

Eccone qua sotto una fedele ricostruzione.

Si tratta di un tavolino rotondo. immagine (29), con fascia decorata a palmente intorno al piano tondo, dove il piano è sorretto dalla testa e dalla sommità delle ali delle sfingi.

Il tavolo è in legno gessato e dorato, e i leoni sono in bronzo fuso e ripreso a casello.

Conclude la base un sottobase di legno a triangolo incurvato e zigrinato tutto intorno.
Al centro del avolo, sotto al piano, una colonna di legno scanalata e dorata con base in stile tuscanico.

Ma anche questo tavolinetto pompeiano, anch'esso fedelmente ricostruito, non è da meno.

Elegantissimo nelle due statuine femminili e slanciate che sorreggono il piano, con un terzo piede con vasetti e motivi floreali, tipo appunto grottesche.

La base è triangolare e sagomata, e i tre zampi sono legati tra loro da volute di motivi floreali. Il piano è in marmo cipollino.

IL CAPODANNO ROMANO

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« Rivolgete preghiere a Consivio (Giano). Spalanca tutte le porte, ormai egli ci ascolta benevolo… Tu sei il buon Creatore, di gran lunga il migliore degli altri re divini… cantate in onore di lui, del padre degli dei, supplicate il dio degli dei ».
(M. Terenzio Varrone)



IL PRIMO DELL'ANNO A MARZO

Il Capodanno attuale risale alla festa del Dio romano Giano. Però anticamente il Dio di più grande rilievo era Marte, si che a Marzo iniziava il nuovo anno.
Romolo, nei Fasti di Ovidio, invoca il Dio della guerra dedicandogli il primo mese dell'anno:
Signore delle armi (Marte), dal cui sangue mi ritengo nato e, affinché sia creduto, darò molte prove, da te proclamiamo l’inizio per l’anno romano: il primo mese sarà dal nome del padre

In realtà si festeggiava il risveglio della vegetazione con l'equinozio di primavera. Infatti Marte anticamente era Mavor, Dio dei giardini e della vegetazione che nulla aveva a che fare con la guerra. Era figlio della Grande Madre, Jauna, da cui Juno e Giunone, che lo ebbe, secondo una tradizione più tarda, toccando un narciso, secondo altri toccando un fiore particolare dell'Etolia.

Insomma la Grande Madre che partoriva senza marito, cioè da Vergine, fece il figlio vegetazione che ogni anno moriva al solstizio di inverno e risorgeva all'equinozio di primavera. Del resto anche il Cristo muore e rinasce ogni anno e per giunta una delle lodi alla Vergine Maria la definisce: " Janua coeli" cioè porta del cielo, come era definita appunto Ianua, la porta dei tre mondi, celeste, terreno e infero.

Tutto questo però è il culto italico, i romani, piuttosto guerrieri, si crearono il mito di Marte che si giace con la vestale Rea Silvia e diventa padre di Romolo e Remo:
 “O bellicoso Marte", invoca Ovidio all'inizio dei suoi Fasti: "lasciati per un poco lo scudo e la lancia, assistimi e sciogli le lucenti chiome dall’elmo. Forse tu stesso chiedi che attinenza ci sia per un poeta con Marte: da te prende nome il mese che è cantato”.

Del resto Rea aveva avuto un sogno premonitore: “Vegliavo sui fuochi Iliaci, quando la fascia di lana caduta dal capelli scivolò davanti ai sacri fuochi. Da là sorsero insieme, mirabile a vedersi, due palme: tra quelle una era maggiore dell’altra, e con i rami carichi aveva ricoperto tutta la terra e con la sommità della chioma aveva toccato le sue stelle. Ecco mio zio scaglia la spada contro quelle: tremo per il presagio, e il cuore balza per il timore. Il picchio, uccello sacro a Marte, e la lupa combattono per entrambi i tronchi: le due palme furono sicure grazie a loro”. 

Per i Romani, Marzo rappresentava religiosamente l’inizio dell’anno sacro. Si spegnevano i fuochi nel santuario di Vesta con l'acqua della fonte sacra di Giuturna, moglie di Giano. Quindi con legni sacri il fuoco veniva riacceso e venivano sostituite le fronde d’alloro nella reggia.

Poi i sacerdoti Salii portavano nella sacra processione gli Ancilia, le undici copie dello scudo piovuto dal cielo, insieme allo scudo vero. Erano la sacra difesa di Roma.



IL PRIMO DELL'ANNO A GENNAIO

Ci sono diversi equivoci in merito. Alcuno lo fanno risalire al 191 a.c. e non è esatto. In quella data venne emanata dal senato la "Lex Acilia de intercalando"
Introdotto dal console M. Acilio Glabrione, questa legge probabilmente autorizzava i pontefici ad un periodo di intercalari al fine di evitare lo spostarsi delle stagioni nel calendario lunare pregiuliano. Lo storico Fulvio ritiene sia la prima intercalazione nella storia di Roma, lo storico Varrone invece la fa risalire al V secolo a.c.
Quel che sappiamo di certo, lo conferma anche Terenzio, è che l'inizio dell'anno originariamente venne fissato a marzo, per volere di Numa Pompilio, il II re di Roma, e non venne portato a gennaio, con la "lex Acilia de intercalatione".

I Fasti Capitolini (epigrafi attestanti i giorni atti a trattare gli affari pubblici e privati;) attestano infatti intercalazioni già avvenute nel 260 e nel 236 a.c.; e le rogationes de intercalando (richieste di intercalare alcuni giorni del calendario) della "lex Acilia de intercalatione", non erano leggi bensì davano ai pontifices la podestà di intercalare giorni nel calendario secondo le necessità. (Varrone, De lingua latina). Insomma era un aggiustamento del calendario, fatto di volta in volta che lasciava però a Marzo l'inizio dell'anno.

Alcuni attestano che fu Giulio Cesare, nel 46 a.c., a portare il primo dell'anno a gennaio, ma anche questo è falso, perchè anche se è vero che Cesare riformò il calendario che da lui fu detto "giuliano", non ne cambiò la data del capodanno che era già stata trasferita da oltre un secolo a Gennaio.

Fu invece il console Quinto Fulvio Nobiliore, nel 153 a.c. ad effettuare il cambiamento di data.
Infatti Fulvio Nobiliore, nel 153 a.c. fu eletto console. A quel tempo i consoli venivano eletti a dicembre, con qualche mese di anticipo rispetto alla data in cui sarebbero entrati ufficialmente in carica, cioè alle idi di marzo, che era l'inizio dell'anno nel vecchio calendario lunare.
Ma dato che doveva domare la rivolta dei Celtiberi in Spagna, Quinto chiese e ottenne dal senato di poter entrare in carica immediatamente per difendere gli interessi di Roma. Gli fu concesso e, da quel momento l'eccezione divenne la regola. Infatti i consoli neoeletti trovarono molto più conveniente entrare in carica immediatamente, piuttosto che aspettare la scadenza del mandato dei predecessori.

Ricordiamo che all'epoca gli anni venivano riconosciuti dai nomi dei consoli, ogni console che entrava in carica determinava l'inizio dell'anno. C'è di che stupirsi? No, perchè il senso di essere "Pii" dei romani non riguardava mai il fanatismo che era invece guardato con disprezzo.
Quinto Aurelio Simmaco, autorevole membro del Senato, poteva affermare alla fine del IV secolo: “Guardiamo le medesime stelle, comune è il cielo, un medesimo universo ci racchiude: che importa con quale dottrina ciascuno ricerca la verità? Non si può giungere a così sublime segreto per mezzo di una sola via”. Avesse avuto la stessa grandezza di vedute la cristianità ci saremmo risparmiati l'oscurantismo del Medio Evo e tutte le sante crociate. 

Dunque i Romani rispettavano e onoravano gli Dei e i riti sia romani che stranieri, ma se era più opportuno cambiare le date lo facevano, aldilà delle consuetudini e dei riti, perchè erano un popolo fortemente razionale. Da allora l'anno iniziò il primo di gennaio, mese che prese il suo nome proprio dal Dio Giano..

TEMPIO DI VESTA

IL CAPODANNO ROMANO

Anzitutto erano i consoli a dare il via alle feste di capodanno. Infatti, consultati i sacerdoti e ricevuti gli auspici favorevoli potevano indossare la toga praetexta e ricevere la salutatio di amici e clienti. Iniziava quindi a Roma la solenne processione aperta dai littori e affollata dai sostenitori, diretta al Campidoglio dove i consoli ricevevano l’acclamazione pubblica, sacrificavano un toro bianco ed esprimevano i vota publica, cioè i voti per il benessere dello Stato durante il loro anno di magistratura.

Ma Gennaio era il mese dedicato da Numa Pompilio a Giano, il Dio bifronte e talvolta quadrifronte. Il Dio bifronte significa che guarda indietro, ossia alla fine dell'anno trascorso, e avanti, ossia all'inizio del nuovo anno.

Un’altra tradizione risale al 31 a.c. al tempo di Ottaviano Augusto: in occasione del Capodanno romano chi indossava un drappo rosso simboleggiava il potere, la salute e la fertilità. Da qui deriva l'usanza attuale di indossare alla fine dell'anno un qualsiasi indumento rosso per la buona fortuna. 

Il colore rosso di cui i re etruschi si dipingevano il viso nelle cerimonie, o che dipingevano sul volto delle statue di Giove, o che come velo adornava nel giorno del matrimonio le spose romane, era il colore della Dea Vesta e del suo fuoco. A capodanno il Tempio di Vesta veniva ornato con serti di lauro e di pino, ponendo u mantello rosso sulla statua della Dea.



Vacanza o lavoro

Quindi il Pontifex Maximus, o Sommo Pontefice, offriva a Giano farro con sale e una focaccia fatta con cacio grattugiato, farina, uova e olio per propiziare l'influenza benefica del dio sulla natura e sui futuri raccolti. Quel giorno non era vacanza, anzi gli atti lavorativi avevano un valore rituale, secondo le prescrizioni di Giano che dice, come riporta Ovidio: "Consacrai al lavoro l'anno che appena comincia perché non sia l'intero ciclo ozioso".

Da cui deriva un nome che sembra una contraddizione. Le Feriae latine erano giorno di festa e ancor oggi per noi le ferie sono i giorni in cui non si lavora, però chiamiamo "giorni feriali" i giorni della settimana in cui si lavora, cioè tutti meno la domenica. 

Ebbene le Ferie di Giano, cioè il primo giorno dell'anno era lavorativo, però si faceva festa. Naturalmente i romani, che facevano feste in continuazione, non è che lavorassero tanto il primo dell'anno, però facevano l'atto di farlo. Aprivano le botteghe, gli uffici e il tribunale per qualche ora, poi li chiudevano. Anche nei campi i contadini lavoravano per qualche ora e poi tornavano a casa a festeggiare e sembra che spesso fosse consentito anche agli schiavi.


Anno Nuovo - Dio Bambino

Nell'Urbe chi continuava a lavorare erano le tabernae, perchè si festeggiava anche così, col vino e il buon cibo. Il vino era imprescindibile dalla festa, soprattutto per il capodanno, tanto è vero che
in quel giorno era usanza festeggiare anche Dioniso (il dio del vino, il Bacco romano), invocando un bambino in fasce che rappresentava la rinascita del Dio stesso come lo spirito della fertilità. 

Si usava declamare e onorare con molti brindisi di vino schietto una statuetta di legno, in genere rudimentale, avvolta nelle fasce neonatali, poggiato su una piccola roccia. Nell'ultimo brindisi si versava un po' di vino sulla roccia e si toccava la fronte del Dio bambino con le dita intinte nel vino. Da qui nasce l'idea che porti fortuna, quando si rovescia un bicchiere di vino, bagnarsi le dita e toccarsi la fronte con quel vino.

Così, malgrado i cristiani condannassero la pratica pagana, la popolarità del bambino come simbolo di rinascita costrinse la Chiesa, che l'aveva tanto deprecata, a rifarsi i conti ed istituire il suo Gesù bambino che nasceva al solstizio di inverno come Bacco e come Mitra. E finalmente consentì anche ai cristiani di celebrare il capodanno, che rappresentava all'epoca la nascita di Gesù Bambino.



GIANO

Plutarco nel I sec. a.c., riferendosi alla protostoria romana, scrive degli avi di Roma come divinità primigenie; tra cui il dio Giano spesso raffigurato tra i due gemelli Dioscuri. 
« Giano fu un semidio o un re che al tempo dei tempi, secondo la tradizione, strappò gli uomini dallo stato ferino e selvaggio in cui vivevano: lo fece mediante le riforme politiche e sociali. Giano è rappresentato con due facce (i due Dioscuri) appunto a indicare che procurò agli uomini una forma e condizione di vita più elevata della precedente ». 
(Plutarco, Vite Parallele, La vita di Numa Pompilio)

Il culto del Capodanno era legato anche alla divinazione del Dio Giano, un Dio con due facce, una delle quali guardava in avanti e l'altra indietro, tra il passato e il futuro. Pertanto era il giorno in cui i divinatori potevano presagire il futuro degli uomini e degli eventi.

Il Dio Giano non trova riscontro in altre mitologie, perchè fu solo Dio italico e latino, e non ebbe padre nè madre. Il termine Janus evoca la porta, in latino janua, infatti Giano è considerato Dio dell’apertura e dell’inizio, cioè del principio di ogni azione. 

JANUS
Dunque Giano, Janus, divenne il custode delle porte, chiamato per questo Janitor da cui deriva la parola "genitore". In quanto divinità solare, Giano aveva il controllo delle Porte del Cielo (Januae caelestis aulae) direttamente collegate al ciclo giornaliero e annuale del sole, attraverso le Porte Solstiziali, da cui il Sole inizia i suoi percorsi annuali: ascendente e discendente. 

Nei frammenti superstiti del Carmen Saliare Giano è salutato con enfasi come padre e Dio degli Dei :
« cantate Lui, il padre degli Dei, supplicate il Dio degli Dei»

Non era possibile intraprendere nessuna impresa militare, commercio o lavoro artigianale o cerimonia, pubblica o privata, senza essersi propiziati il suo favore, pena il fallimento dell'operazione. Per questo, la prima preghiera in ogni simile occasione era sempre rivolta a Giano. E' evidente che in tempi molto arcaici fosse il Re del Panteon romano, come poi, con l'influsso greco, lo fu Giove.

Questo Dio proteggeva anche il principio della vita, ovvero il concepimento; allo stesso modo si era convinti che presiedesse alla nascita del mondo e di tutte le creature. Fu dunque definito in tal senso Janus Pater, padre di tutti gli uomini, di tutta la Natura e dell’Universo. Esattamente come Ianua prima e come Jovis dopo. 

Sembra infatti che Janus fosse antecedentemente il figlio della Grande Madre Janua, che nacque da lai, crebbe, morì e si ricongiunse con lei nella dimensione celeste, tanto è vero che anticamente spesso il

I sacerdoti salii lo chiamarono Buonus Cerus, Buon Creatore, e Deorum Deus, Dio degli Dei. Ovidio ritiene che sia il Dio dell’anno, Janus anni deus; Orazio lo identifica con il Sole e lo chiama Matutinus Pater; come custode del cielo, regge nelle mani una chiave e una verga. Il simbolo della chiave custode del cielo verrà poi ripresa dalla chiesa cattolica che munirà di chiave San Pietro, anzi di due chiavi, quella del cielo e quella della terra in quanto il papa era anche un monarca.

Dio di ogni inizio, Giano era invocato per primo in ogni rito, cerimonia o impresa. Vigilava sulla nascita di ogni essere, mortale o divino che fosse, per cui era anche Ianus Consivius: Dio della procreazione, Dio degli Dei e padre di tutta l’umanità. Giano, quindi, Dio del principio e della fine di tutte le cose, presiedeva a tutti gli inizi e ai passaggi, sia nello spazio che nel tempo, e per questo fu oggetto di un culto diffuso e popolare con vasti campi d’azione, anche a carattere magico. 

Dio delle transizioni, posto a tutela dei momenti di passaggio (matrimoni, nascite, semine e raccolti), delle porte, dei passaggi, Giano segna l’evoluzione dal tempo andato all’avvenire, da uno stato e da una visione all’altra, da un universo all’altro. 

Il console Marco Valerio Messalla Rufo scrisse nel suo libro sugli Auspici che Giano è colui che plasma e governa ogni cosa e unì, circondandole con il cielo, l'essenza dell'acqua e della terra, pesante e tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e dell'aria, leggera e tendente a sfuggire verso l'alto, e che fu l'immane forza del cielo a tenere legate le due forze contrastanti.
Settimio Sereno lo chiamò "principio degli Dei e acuto seminatore di cose".

Macrobio, nella prima giornata dei Saturnali, racconta di Giano che: 
« Durante la guerra sabina, provocata dal ratto delle vergini, i Romani avevano fretta di chiudere la porta ai piedi del colle Viminale, che in seguito fu per questo chiamata Gianuale, perché i nemici facevano impeto in quel punto. Appena chiusa, si aprì da sola; e il fatto si ripeté una seconda e una terza volta. Visto che non era possibile chiuderla, rimasero di guardia armati in gran numero davanti alla soglia. Mentre da un’altra parte si combatteva molto aspramente, all’improvviso corse la voce che i nostri erano stati sbaragliati da Tazio. 
A questa notizia i Romani che difendevano l’accesso fuggirono atterriti. Quando però i Sabini stavano per irrompere attraverso la porta aperta, si dice che dal tempio di Giano uscirono attraverso questa porta torrenti impetuosi dalle acque gorgoglianti e molte schiere nemiche perirono bruciate dai flutti bollenti o inghiottite dai gorghi travolgenti. In seguito a ciò si decretò che in tempo di guerra le porte del tempio restassero aperte, come se il dio fosse partito in aiuto della città. Questo per quanto riguarda Giano».

MONETA NERONIANA DEL TEMPIO DI GIANO A ROMA

I TEMPLI DI GIANO

«…(Numa Pompilio) fece costruire verso la parte più bassa dell’Argileto un tempio a Giano, indice di pace e di guerra, perché, aperto, significasse che la città era in armi, chiuso, che erano in pace tutti i popoli vicini. 

Questo tempio rimase chiuso due volte dopo il regno di Numa; una volta sotto il consolato di Tito Manlio, nel 235 a.c., alla fine della I guerra punica; la seconda, e questo gli Dei ci concessero di vedere ai tempi nostri, dopo la battaglia di Azio (nel 31 a.c.), quando l’imperatore Cesare Augusto procurò la pace per terra e per mare» 

(Tito Livio)

Secondo il mito Giano, istituì per primo i riti religiosi e dato inizio alla costruzione di templi; di conseguenza era il patrono dei Collegia Opificum et Fabrorum, istituiti sotto il regno di Numa e in suo onore le corporazioni degli artigiani romani celebravano le due feste solstiziali, essendo protettore di ogni inizio e iniziatore della civiltà. 

Il più antico tempio di Giano a Roma venne eretto nel Comizio da Numa Pompilio, a tutt’oggi non rinvenuto o,  non riconosciuto con sicurezza, noto anche come Geminus o Quirinus. Il tempio a lui dedicato nel Foro Romano rimaneva aperto in occasione di imprese militari e belliche, ma sbarrato solennemente in tempo di pace.

Quindi di Giano veniva esaltato anche il ruolo di custode della pace e in base a ciò veniva chiamato Ianus Patulcius ("che apre le porte"), e Ianus Clusius ("che chiude le porte"). Del tempio non ci sono resti; è rimasto solo una raffigurazione del tempio (chiuso) nel Foro su un moneta di Nerone del 66.

 Ovidio chiede proprio a Giano di propiziare l’anno nuovo con le seguenti parole: 

« Germanico, ecco Giano l’anno t'annunzia felice, 
Giano che nei miei carmi per primo compare. 
Giano bifronte, che l'anno cominci scorrente 
 silenzioso, solo tra i numi vedi dietro. 
 Ai duci sii propizio, che danno con l’opera loro 
alla fertile terra pace serena e al mare; 
il popolo proteggi, proteggi il senato di Roma 
e i candidi templi dischiudi col tuo cenno ». 
(Ovidio, Fasti, Libro i, vv. 63-70). 

Un altro tempio, monumentale e pervenuto fino a noi, era situato nel Foro Olitorio, nell’area individuata all’incirca dal teatro di Marcello, dalla moderna via del Mare e dalla chiesa medievale di San Nicola in Carcere, derivato dalla trasformazione in un grande tempio di un antico altare lì situato e voluto, al tempo della I Guerra Punica, da Gaio Duilio, vincitore a Milazzo (Mylae 260 a.c.). 

A questo tempio, quasi del tutto scomparso, Augusto donò la statua del Dio, opera  di Scopas o di Prassitele. A Giano  erano anche dedicati un altare sull’Esquilino, noto come Ianus Curiatius, alcune statue nel Foro e i celebri archi quadrifronti denominati Iani.

Il primo dell'anno venivano onorati in processione tutti i vari templi con festoni, offerte di vini e focacce che venivano poi divise tra la popolazione accorsa.


SOL INDIGES

Antico culto italico solare, secondo Macrobio sarebbe da associarsi al culto di Janus-Giano. 
Nel suo culto solare rientra il mito della fenice, che ogni cento anni prende fuoco e si brucia riducendosi in cenere, ma subito dopo rinasce dalle ceneri perpetuando così la sua eterna giovinezza.

Vi si associa pure al Dio Inuo, anch'esso culto solare, come il Dio Elio dotato di aureola solare.. 
Tra questi il culto più antico sarebbe quello di Giano, che però, associato a Janua-Diana, la sua paredra, era un culto solare - lunare, con allusioni al mondo esterno ed interno, o a vita e morte, o a luce ed ombra. 



IL DIO RE

GIANO CON LA CHIAVE DEL CIELO
« Qualsiasi cosa ovunque tu veda, cielo, mare, nubi, terre, tutto incomincia e finisce per mano mia. E' a me solo che è affidata la custodia dell'intero universo, è del tutto mio il diritto di farlo girare sui cardini. Assieme alle pacifiche Ore custodisco le porte del cielo (anche Giove esce ed entra per opera mia). E' per questo che sono chiamato Giano »

Così Ovidio fa parlare Giano come Dio Supremo di tutti e tutto. Ma in antichissime tradizioni egli venne considerato un grande re, un po' come Saturno.

Di Giano si diceva infatti che fosse stato il primo re del Lazio, prima ancora dell’arrivo di Saturno (il greco Crono); questi sarebbe stato ospitato proprio da Giano dopo essere stato detronizzato dal figlio Giove. Per l’ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal Dio Saturno il dono di vedere sia il passato sia il futuro, all’origine della sua rappresentazione bifronte.

Dimora del Dio Giano era il colle del Gianicolo, dove il Dio avrebbe regnato sui primitivi abitanti del Lazio, gli Aborigeni, insegnando loro l’agricoltura, il vivere civile e il rispetto della legge.



LA FESTA

Il primo di gennaio i Romani usavano invitare a pranzo gli amici e alla fine del lauto pasto scambiarsi il dono di un vaso bianco con miele, datteri e fichi secchi, il tutto accompagnato da ramoscelli d'alloro, detti strenna, o strenua, come augurio di fortuna e felicità. 

IANUS IANUA - ERMA ROMANA I SEC. A.C.
Il nome strenna derivava dal fatto che i rami venivano staccati da un boschetto della via sacra ad una Dea di origine sabina: Strenia, o Strenua, che aveva uno spazio verde a lei dedicato sul Monte Velia. La Dea era apportatrice di fortuna e felicità; il termine odierno "strenna", cioè regalo natalizio, deriva dai regali del solstizio di inverno che i romani si facevano come augurio di fortuna in nome della Dea. Con quei ramoscelli si ornavano anche le porte degli edifici più importanti, come il tempio di Vesta, la reggia, le Curie e le case dei flamini maggiori

In Ovidio - I Fasti - lo stesso Dio Giano spiega quindi perchè l'anno abbia inizio non in primavera , quando si risveglia la natura, ma d’ inverno: appunto perchè il sole e l'anno possano dare insieme principio al loro corso. Dà ragione della particolare importanza che si attribuisce al primo giorno dell'anno riguardo ai presagi: perciò i Romani lavorano in quel giorno, si scambiavano auguri e strenne, che pur troppo la brama degli uomini ha reso sempre più ricche 

Ovidio interroga Giano: 
« Che cosa voglion dire i datteri e i fichi rugosi
e il puro miele offerto dentro candido vaso?
Si fa per buon augurio disse (Giano) perché nelle cose
passi il sapore; e l'anno, qual cominciò, sia dolce.
Comprendo il perché dei dolci: 
ma spiegami la ragione del dono in monete, 
affinché nulla della tua festa mi sfugga. 
Rise e disse: Oh quanto ti inganni sui tuoi tempi, 
se pensi che ricever miele sia più gradito che ricever monete! 
Già, regnando Saturno, ben pochi io vedevo a cui non stesse a cuore la
dolcezza del guadagno; col tempo crebbe l’avidità del possedere, e ora
è arrivata a tal punto che più non potrebbe aumentare ». 
(Ovidio, Fasti, Libro I)

Ma il vaso bianco non era l'unico regalo che i romani si scambiavano nel giorno del capodanno, perchè si facevano anche veri e propri doni di oggetti di valore diverso, a seconda delle possibilità.
A tavola si usava porsi sul capo dei ramoscelli di ulivo intrecciati a rametti di pino.

La notte antecedente invece si facevano riti per cacciare l'anno vecchio lasciando socchiusa la porta di casa affinchè il vecchio anno potesse uscire, ma in alcune zone si ponevano ai lati della porta dei fasci di saggina che impedivano l'accesso a spiriti malevoli. In genere la cena conteneva erbe amare simbolo delle traversie dell'anno passato e uova sode come simbolo e aspettativa di rinascita del nuovo anno.


INNO A GIANO

O Giano bifronte, origine dell'anno che scivola silenziosamente, 
solo tu tra gli dei superi che vedi le tue spalle: 
sei presente alla destra dei capi, con la fatica dei quali 
la terra fertile produce ozi tranquilli e il mare anche. 
Sei presente alla destra dei tuoi padri, e del popolo di Romolo: 
e apri con un cenno le cose favorevoli per il tuo tempio.

La luce sorge propizia; favorite gli spiriti e le parole.
Ora sono da dirsi buone parole nel giorno favorevole. 
Le orecchie manchino lai lotta, e le dispute furiose stiano sempre lontane: 
divulga il tuo lavoro, o lingua invidiosa, e fai in modi che splenda il cielo
con i fuochi profumati e accesi questi, canta con la spiga della Cilicia.
la fiamma, con il suo splendore colpisce l'oro dei templi, e sparge
il raggio tremolante dal punto più alto del tempio. 

Tarpea va nell'acropoli con le vesti intatte, e lo stesso popolo 
è di colore uguale nel suo giorno di festa.
e già avanzano i nuovi fasci e la nuova porpora brilla 
e il ricco avorio sperimenta nuova importanza.
I teneri torelli offrono i colli da sgozzare per il lavoro agricolo,
che l'erba del territorio dei Falisci nutrì con i suoi campi.

Giove guardi verso tutto il mondo dalla sua sede 
e non abbia niente altro che il mondo romano da proteggere. 
Non abbia null’altro che il mondo romano che lui protegge.
Salute, o giorno felice, e ritorna sempre migliore 
degno di essere venerato da un popolo potente.
Dirò: quale dio, infatti, posso dire che tu sia, o Giano bifronte?
Infatti la Grecia non ha nessuna divinità pari a te.
Svela nello stesso tempo il motivo perché, solo tu tra gli dei, 
vedi ciò che è alle spalle e ciò che è davanti.
A me, che esamino queste cose, con le tavolette acquisite, 
il tempio appare più splendente di come fu in precedenza.

(Ovidio - Fasti)

La festa del Capodanno, nonostante le riprovazioni cristiane, si protrassero per molti secoli, tanto è vero che nel VII sec., poichè i belgi delle Fiandre, seguaci dei druidi, usavano ancora festeggiarle all'uso pagano, vennero fortemente redarguiti da Sant'Eligio, che ammonì severamente:

« A Capodanno nessuno faccia empie ridicolaggini quali l'andare mascherati da giovenche o da cervi, o fare scherzi e giochi, e non stia a tavola tutta la notte né segua l'usanza di doni augurali o di libagioni eccessive. Nessun cristiano creda in quelle donne che fanno i sortilegi con il fuoco, né sieda in un canto, perché è opera diabolica »

LEGIO IX TRIUMPHALIS MACEDONICA

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Epoca: Tardo Repubblicana
Onori di battaglia: Triumphalis; Macedonica (dopo la vittoria di Filippi);



La legio VIIII o IX Triumphalis Macedonica, di epoca tardo repubblicana, ebbe origine prima della conquista della Gallia da parte di Gaio Giulio Cesare. Nel 91 a.c. sarebbe già a quel tempo presente nella Gallia Cisalpina.



GUERRA SOCIALE
99/89 a.c. - Nella Guerra Sociale o Guerra Italica, che andò dal 91 all'88 a.c., tra Roma e i municipia dell'Italia fin allora suoi alleati, ci fu una legione VIIII che partecipò alla guerra nel 90-89 a.c., ma non sappiamo se si tratta della stessa utilizzata da Cesare trent'anni più tardi.

67/65 a.c. - Ancora una legio VIIII risulta nella Gallia Transalpina negli anni 67-65 a.c., al seguito del governatore Caio Calpurnio Pisone per reprimere una rivolta dei Galli Allobrogi. 
62 a.c. - La VIIII partecipò, insieme alla legio VII ( legio VII Macedonica Paterna ) e la VIII (legio VIII Gallica Veterana Mutinensis), a sedare la cospirazione di Catilina (108 - 62 a.c.) nel Piceno.
58 a.c. - All'inizio del proconsolato di Cesare era stanziata, insieme alle legioni VII (legio VII Macedonica Paterna) e la VIII (legio VIII Gallica Veterana Mutinensis), nella Gallia Cisalpina, presso Aquileia.



CONQUISTA DELLA GALLIA
Prese parte alla successiva conquista della Gallia di Cesare degli anni 58 - 50 a.c., partecipando a molte battaglie come:
58 a.c. - contro gli Elvezi:
- a Genava nella fase finale della battaglia,
- sull'Arar,
- a Bibracte.

58 a.c. - contro i germani di Ariovisto;
- in Alsazia
- sul fiume Axona.

57 a.c. - contro le popolazioni dei Belgi:
- sul Sabis.

contro i Galli Biturigi:
- ad Avaricum.

52 a.c. - contro i Galli di Vercingetorige:
- a Gergovia.
- ad Alesia che portò alla sottomissione definitiva della Gallia.

52-51 a.c. - era con il legato Lucio Minucio Basilo, insieme alla VIII del legato Gaio Fabio, presso i Remi, per proteggerli dai vicini Bellovaci ancora in rivolta.


GUERRA CIVILE 
48-44 a.c. - All'inizio della guerra civile, la IX legione era presso Narbona, capitale della Gallia Narbonense e fu inviata da Cesare in Hispania sotto il comando del suo legato, Gaio Fabio, prendendo parte alla vittoriosa campagna di Lerida del 49 a.c. l'armata spagnola di Pompeo, guidata dai suoi legati Lucio Afranio e Marco Petreio.

Rientrata in Italia, la legione si ammutinò a Piacenza perchè Cesare non aveva loro permesso il saccheggio dei territori. Così venne sciolta e 12 dei soldati vennero puniti con la morte (la legge prevedeva la decimazione, che avrebbe portato la morte di circa 500 soldati). La legione supplicò Cesare perchè la riabilitasse cosa che il generale alla fine accettò reintegrando gli uomini nei ranghi.

48 a.c. - la IX fu trasferita in Macedonia e combatté:
- prima a Dyrrhachium (Durazzo, tra Cesare e Pompeo, dove per poco la IX non perdette l'aquila legionaria), 
- nella decisiva battaglia di Farsalo, nella quale Cesare sconfisse Pompeo. 

46 a.c. - Prese poi parte alla battaglia di Tapso in Africa.
Subito dopo la legione sembra sia stata sciolta ed i suoi veterani inviati:
- in Africa proconsolare, 
- nell'Illirico, 
- nella Gallia Narbonense 
- a Forum Iulii (Frejius), in Francia 
- nel Piceno ad Ancona.

44 a.c. - Viene nuovamente costituita da Marco Antonio (e/o da Ottaviano), ma non sarebbe da identificare con l'IX dello stesso.

Poco dopo, i veterani di questa legione, mal adattandosi alla vita civile, chiesero ed ottennero da Antonio (e/o Ottaviano) di ricostituire la legione VIIII,

43 a.c. - La legio IX combatte l'anno seguente nella battaglia di Mutina, tra le truppe fedeli al Senato, appoggiate dalle legioni di Cesare Ottaviano, e le legioni cesariane di Marco Antonio che stavano assediando dall'inverno le truppe del cesaricida Bruto bloccate dentro la città.

42 a.c. - Combattè poi a favore dei triumviri durante la battaglia di Filippi.

41 a.c. - Passò poi dalla parte di Ottaviano durante l'assedio di Perugia, tra Ottaviano e Lucio Antonio (fratello del triumviro Marco Antonio)

31 a.c. - Si battè per Ottaviano fino ad Azio.

Questa legione non è identificabile con la omonima VIIII di Marco Antonio, reclutata in Oriente, probabilmente durante il suo soggiorno a fianco della regina d'Egitto, Cleopatra VII e che combatté sul fronte opposto.

Sembra che la IX sia confluita nella VIIII Hispana (la legione scomparsa)..

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