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QASR BASHIR (Giordania)

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Mobene, come veniva chiamata nell'antichità, è la fortezza romana sopravvissuta nel cuore del deserto della Giordania,  il meglio conservato forte romano in Medio Oriente. Il forte è locato a 100 chilometri a sud di Amman tra l' autostrada del Mar Morto e la strada del deserto. A differenza di molti resti romani, Qasr Bashir è eccezionalmente ben conservata, essendo stata riusata ma mai ricostruita da civiltà posteriori.

Essa appartiene alla catena di fortezze e torri di guardia eretta dagli antichi romani con il nome di Limes Arabicus, che aveva lo scopo di proteggere la provincia di Arabia contro le escursioni e le razzie dei nomadi del deserto.

Il Limes Arabicus era il deserto di frontiera dell'Impero romano, nella provincia dell'Arabia Petraea. Si estendeva per circa 1,500 km, dalla Siria del nord alla Palestina meridionale, e l'Arabia del nord.

Lo scopo del "Limes" era di proteggere la provincia araba dagli attacchi delle tribù arabe che transitavano nel deserto. Presso il limes arabicus Traiano fece costruire una grande strada, la Via Nova Traiana, che andava da Bostra ad Aila sul mar Rosso, per una lunghezza di 267 miglia.

La via, costruita tra il 111 e il 114 d.c., doveva fornire mezzi di trasporto efficiente per i movimenti delle truppe e funzionari governativi. Essa venne completata sotto Adriano che quindi ne riconobbe l'importanza. Durante la dinastia dei Severi (193-235 d.c.), i Romani rafforzarono le difese sulla frontiera araba, costruendo numerosi forti a nord ovest di Wadi Sirhan, riparando le strade migliori.



I predoni del deserto non erano estremamente pericolosi nè particolarmente violenti, non miravano a uccidere ma a saccheggiare, e i loro veloci dromedari, guidati come solo i nomadi sapevano fare, li rendevano imprendibili per i romani. Pertanto, onde evitare le razzie sui territori occupati, i romani dovettero circondare di mura e torri  armate i vari territori.

Il Limes Arabicus doveva pertanto contrastare questa minaccia, e Mobene era una delle fortificazioni messe in atto. La fortezza domina una vasta pianura sassosa, tagliata da diversi torrentelli che si svuotano nel canale di Mujib, che a sua volta si svuota nel Mar Morto. Anche se la terra è arida, l'agricoltura è possibile lungo il canalone, che irriga una certa vastità di campi in una valle poco profonda.

La fortezza si eleva al disopra di questa depressione, e le sue torri dominano la pianura. Se i romani volevano osservare e controllare i nomadi locali, questo posto era quasi perfetto, e infatti non furono i primi ad occupare questo luogo collinare. Vi si notano infatti due torri risalenti addirittura all'età del ferro, chiamate Qasr el-Al Qasr e Abu el-Kharaq, che vennero poi riutilizzati da soldati Nabatei.



Il forte romano pertanto sostituì, all'incirca nel 300 d.c., la precedente roccaforte riadattata dai Nabatei. Si presuppone che un tempo vi fosse una strada antica che portava alla vicina base legionaria a Lejjun, ma come prova abbiamo solo una pietra miliare non iscritta.

Anche se solo i romani usavano le pietre miliari, quindi romana lo era con sicurezza, non si capisce come mai non fosse iscritta e comunque la strada stessa non è stata ancora identificata. Teniamo anche conto che scavare in loco, cioè togliere metri e metri di sabbia e pietre nel deserto, onde far ricomparire la strada di roccia, non è semplice, perchè presto il vento ricopre tutto.

La fortezza occupa una superficie di circa 57 x 54 m, quindi quasi un quadrato. Le mura continue, che sopravvivono in una condizione quasi perfetta, hanno uno spessore di circa m 1 ½  e sono alte ben 6 m, senza contare il bastione merlato che lo alza di un altro metro circa.



Si collegano attraverso i vari camminamenti quattro pesanti torri quadrate che sorgono ai quattro angoli, e che misurano da 11 a 12 m di altezza, mentre sporgono di circa tre metri oltre le mura.

Queste torri erano elevate a tre piani e accanto alla torre occidentale c'era una piccola postierla, o posterula, ampia meno di un metro di larghezza per uscite di emergenza. Quando infatti doveva uscire per esempio un messaggero non occorreva aprire tutta la porta d'entrata che non era facile da maneggiare, La porta centrale invece, che si affaccia sulla valle poco profonda a sud-ovest, è fiancheggiata da due torri che sono circa la metà di grandezza dell 4 torri angolari.

L'iscrizione scolpita nel forte, una rarità in questa parte dei limes, è tuttora leggibile e menziona gli imperatori della prima tetrarchia:

Optimis maximisque Principibus nostris
Caio Aurelio Valerio Diocletiano
Pio Felici Invicto Augusto et
Marco Aurelio Valerio Maximiano
Pio Felici Invicto Augusto et
Flavio Valerio Constantio et
Galerio Valerio Maximiano
nobilissimis Caesaribus
Castra Praetorii Mobeni fossamentis
Aurelio Asclepiade praeses provinciae
Arabiae perfici curavit

In onore dei nostri governanti migliori e più grandi,
Caio Aurelio Valerio Diocleziano,
il nostro pio imperatore, fortunato, e invitto,
e Marco Aurelio Valerio Massimiano,
il nostro pio imperatore, fortunato, e invitto,
e di Flavio Valerio Costanzo
e Galerio Valerio Massimiano,
i nostri più nobili Cesari,
Aurelio Asclepiade, preconsole della provincia di Arabia,
ha ordinato di costruire
Castra Pretorio Mobene dalle fondamenta.



Questa iscrizione permette di datare la costruzione della fortezza di 293-305, quando i Romani edificarono più forti in questo settore della frontiera. Qasr Bshir fu in uso per tutto il IV sec. e potrebbe essere stato abbandonato all'inizio del V sec.

E' stato certamente riutilizzato in età Omayyadi, due dinastie califfali arabe, del VII sec., perché ci sono tracce di una caditoia sopra l'ingresso, un'invenzione posteriore alle conquiste arabe.

Il forte è costruito in pietra locale, rivenuta nel deserto e lavorata in loco, cioè squadrata come fossero mattoni ma molto più grandi. Ai lati di ogni torre posero pietre angolari più massicce, e all'interno del forte scavarono due cisterne per la provvista d'acqua.

CADITOIA
Infatti, per quanto il deserto fosse arido a causa della scarsità di pioggia, quando finalmente iniziava a scendere l'acqua dalle nubi, si formavano torrenti impetuosi che, se ben convogliati, potevano essere usati per l'accampamento, per i forti e pure per le coltivazioni.

Il cortile, che ha due cisterne, è su tutti e quattro i lati, circondato da camere, esattamente ventitrè, individuate come stalle. Secondo alcuni queste camere sarebbero state usate come dormitori (almeno in parte).

Il tetto di queste caserme raggiungeva la stessa altezza del cammino di ronda, creando una piattaforma di combattimento molto ampia.

Una sala, di fronte al cancello principale, può essere stato la sede del quartier generale, ma anche una specie di santuario, sicuramente ospitava entrambi.

Probabilmente Qasr Bshir non fu la base di una unità in piena forza. Forse disponeva solo di un contingente ridotto, anche se la mole della fortezza farebbe supporre il contrario.

Lo scopo del Castra Pretorio Mobene però non è del tutto chiaro. Infatti ciascuna delle ventitré scuderie venne utilizzata da tre cavalli, ma ogni unità di cavalleria di soldati di frontiera annoverava da i 120 e 150 uomini. Dove stavano gli altri cavalli?

Inoltre Mobene non è menzionato nella Notitia Dignitatum (Notizia di tutte le dignità ed amministrazioni sia civili sia militari) un documento redatto da anonimo e attribuito ad un periodo tra la fine del IV sec. e l'inizio del regno dell'Imperatore Valentiniano III (425-455).
Peraltro l'iscrizione sull'entrata non riferisce nè il nome del gruppo nè quello del suo comandante.

Forse non era un normale forte, ma un luogo in cui il governatore della provincia risiedeva quando aveva bisogno di discutere le questioni con i nomadi. (Ci sono diversi graffiti tribali vicino all'ingresso.)

E' possibile però che la fortezza sia stata utilizzata da cavalieri che solitamente pattugliavano questo settore della frontiera romana, cavalieri appartenenti a un'unità che era, secondo la Notitia dignitatum, di istanza nella vicina Naarsafari (moderno Wadi Afaris), l'Ala Secunda Miliarensis.
Questi uomini potevano usare Mobene durante le loro pattuglie, seppure vivevano da qualche altra parte.

Però la mole del forte, e tanto meno la mole di lavoro impiegato per costruirla, non giustifica lo scopo così limitato dell'edificio. Consideriamo allora un'altra ipotesi.

Le fortezze romane nel deserto egiziano sarebbero state più dei deterrenti per tribù beduine, Secondo Salima Ikram le loro pareti erano raramente spesse più di uno o due mattoni. La loro funzione principale era per la raccolta delle imposte e dovevamo essere impressionanti per altro gestite da piccoli contingenti romani.

All'epoca molte carovane traversavano il deserto recando con sè preziosi carichi di varie spezie, ma soprattutto di incensi e mirra e pure sete variegate. Questo giustificherebbe le annotazioni sul muro esterno. Codesti carichi erano talmente preziosi che i commercianti in viaggio sostavano spesso in luoghi rifugio temendo di venire attaccati di notte, ma anche di giorno, dai briganti.

Un sistema per salvare il loro prezioso carico era di farsi proteggere, dietro pagamento, da alcuni soldati romani. Questi agivano per volontà dei loro comandanti, visto che queste merci erano dirette soprattutto a Roma. Dall'Urbe stessa venivano le richieste di salvaguardare le merci dirette ai suoi magazzini.



Così i soldati seguivano le carovane fino al forte più vicino, dove i commercianti poi sostavano per rifornirsi di acqua e cibo pagando per la protezione ottenuta.

Qui i soldati romani riposavano al forte mentre un'altra pattuglia partiva poi ad accompagnare la stessa carovana fino al forte successivo.

Insomma si trattava di un forte di transito, dove al massimo risiedevano dai cinquanta ai sessanta cavalieri, meno della metà di uno stanziamento normale, una specie di base operativa.

Questo perchè almeno metà della guarnigione, ma anche di più, doveva rimanere al forte di residenza.

La presenza militare romana in Arabia cominciò a declinare verso la metà del 400 d.c., quando le forze militari vennero convogliate verso altre frontiere più importanti minacciate dai nemici.

Nei primi 500, Giustiniano tornò a difendere la frontiera sud-orientale con gli alleati Ghassanidi, una tribù araba cristiana, contro attacchi persiani. Intorno al 530 d.c, le truppe sono state ritirate e il limes Arabicus cessato di esistere.















STIPI E ARMADI

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BAULE (1)

BAULI

I romani usarono più sedili e letti che non stipi e armadi, perchè in effetti non avevano molto da riporre, ovvero, le vesti delle matrone erano perlopiù molto leggere, vista l'abbondanza di sete, di veli, di damaschi, di vesti trapuntate in oro e perle, in cotoni ricamati o dipinti.

C'erano è vero i cappelli che occupavano molto spazio, perchè se ne avevano sia estivi che invernali, e pure della mezza stagione. Infatti i cappellini romani sono di stoffe diverse a seconda della stagione, in feltro, di cotone di seta, di lana, di pelle, ornati con veli, fiori veri o finti, pietre dure, ninnoli tintinnanti e catenine sottili, o ornamenti sottili di metallo, o fasce di seta e damasco. Di solito si riponevano in un ampio baule, come quello che appare nell'immagine sopra. (1)

Le cassapanche, o bauli che dir si voglia, tuttavia non servivano solo per i cappelli, ma pure le sciarpe, gli scialli, la biancheria intima, e le calzature. Queste ultime andavano dalle babbucce da casa ai calzari per uscire, con veri modelli di sandali alti o bassi e di stivali, anche questi alti al ginocchio o bassi tipo polacchette.

C'erano poi le casse dove si riponevano gli addobbi della casa. Questi riguardavano sia quelli dei numerosi tavolinetti dei triclini e della casa in genere, sia quella dei letti, sia quelli delle tende e tendaggi vari.

I romani amavano moltissimo rivestire i letti dei triclini con stoffe ricche e colorate, di seta e pesanti damaschi con frange dorate. Ma ricoprivano anche le poltrone, le sedie e i tavolinetti con queste stoffe grandi e piccole, orlate e talvolta ornate di nappi, lucenti e decorate a motivi floreali stilizzati. o a strisce di diversi colori. Ne ricoprivano anche i divani e talvolta anche le cassapanche.

Anche i tendaggi avevano bisogno di essere riposti nei bauli, per sostituire quelli esistenti, o solo per variare il colore, erano tende delle finestre ma soprattutto delle stanze che spesso anzichè le porte avevano dei tendaggi separatori, visto che i romani erano portati per l'open space.

C'erano poi i tappeti e le pellicce. Queste ultime si poggiavano sulle spalliere e sui letti fingendo un ordine e un modo a caso, il che donava un ulteriore tocco di raffinatezza all'ambiente, ponendole in un angolo di una spalliera o ai piedi di un letto, o su un panchetto dell'atrio.

I Letti romani delle domus avevano lenzuola in genere di seta colorata e pure cuscini solitamente imbottiti di piume. Ma disponevano anche di trapunte riempite di lana cardata per le coperte dei mesi freddi.

CASSAFORTE ROMANA - PEZZO ORIGINALE (Pompei)

CASSAFORTI

A volte i bauli erano di legno borchiato e pure foderato di metallo, insomma una specie di cassaforti, con varie chiusure munire di chiavistelli e chiavi. Erano molto pesanti e rinforzate con lamine di piombo.

Vi si riponevano le cose più preziose della casa, in genere l'argenteria della tavola o i vasi più preziosi che si mostravano solo nei banchetti più importanti, ma raccoglievano pure le cassette dei gioielli della matrona.

A volte queste casse avevano serrature nascoste che dovevano essere aperte seguendo un certo ordine.

CASSAFORTE - PEZZO ORIGINALE POMPEI (2)
Essendo molto pesanti difficilmente i ladri avrebbero potuto asportarle se non con molto tempo, molte attrezzature e molta fatica e sicuramente poi non sarebbero passati inosservati.

Erano pertanto piuttosto garantite dai ladri, tanto che spesso la cassaforte veniva posta in bella mostra nella stanza dove il padrone riceveva gli ospiti o i clienti per gli affari, un segno evidente della ricchezza del dominus.

Possiamo dire che vista la presenza costante o quasi degli schiavi, i padroni con queste casseforti potevano ritenere i loro gioielli al sicuro, ma in più davano lustro al suo proprietario come possessore di ricchezze da preservare. Naturalmente le cassaforti erano di fattura e valore diversi.

Le più belle erano ricoperte di ricche dorature e intarsiate di avorio. Altre con applicate statuine di divinità e amuleti per proteggere i padroni dai ladri. Altre ancora con anelli, maniglie, teste di animali, fiori stilizzati o umboni, tutti fusi in bronzo e applicati a fuoco sulla cassa.



GLI STIPI 

Nella domus ci sono pochi armadietti, per il resto sono casse, grandi e piccole, stipetti, ma pure qualche cassaforte e poi mensole diverse.


GLI STIPI VOTIVI

I mobili sono leggeri e facilmente spostabili, con colonnette e modanature che riprendono un po' quelle dei marmi.

STIPO VOTIVO PER LARI - PEZZO ORIGINALE POMPEI (3)
Gli stipi sono mobiletti che si appoggiano su altri mobili o su consolle di pietra, sporgenti o rientranti in apposite nicchie.

In genere sono a due sportelli, a volte invece con due sportellini fissi e due apribili mediante cerniere: ogni sportello ha uno scheletro di legno più spesso che lo incornicia e lo divide in quattro, a croce.

Ai lati può avere due colonnine di legno scolpite, sia scanalate che munite di capitelli.


La parte superiore del mobile aveva un piano in massello, per cui vi si potevano poggiare oggetti anche pesanti. Le dimensioni potevano essere diverse, ma sempre modeste.

Gli stipi potevano anche essere poggiati sopra a mensole di legno. Questo accadeva soprattutto nelle cucine, dove si riponevano i cibi già cotti e avanzati dal pranzo per la cena, oppure i prodotti di buona conservazione come agli, cipolle, uova, burro ecc.

Il sale e le tante spezie usate solitamente in grande varietà dai romani si ponevano solitamente i vasetti che si poggiavano sulle mensole della culina (cucina).



STIPO A COMODINO

Gli stipi avevano diverse grandezze e diverse funzioni, però si sono trovati mobiletti tipo comodino che non stavano però nelle camere da letto. Avevano un cassettino superiore come i nostri comodini, con manici anch'essi di legno, piano superiore di legno e un paio di piccoli sportelli.

STIPETTO VOTIVO PERSONALE
PEZZO ORIGINALE POMPEI (4)
Il legno era tutto massello ma di diverso tipo, il che doveva donare al mobiletto delle tonalità diverse.

Alcuni dovevano essere dipinti perchè si sono trovate tracce infinitesimali di ciò che poteva essere una vernice rossa o arancione forte, forse un color lacca, che i romani usavano volentieri, a volte pitturandovi su delle volute floreali.

Viene da pensare che fossero anche questi contenitori per immagini votive, visto che , a parte i Lari che erano per tutta la famiglia, i componenti di essa potevano onorare gli Dei che preferivano.

Di solito le matrone pregavano le Dee e gli uomini gli Dei, però magari gli uomini innamorati si raccomandavano a Venere.

Per esempio si raccomandava le matrone di rivolgersi a Giunone e non a Venere, in quanto Giunone era casta ma Venere no, per timore potesse infondere alle spose pensieri proibiti su altri uomini che non fossero il marito.

Questo spiegherebbe la presenza di questi mobiletti di dimensioni ridotte trovati in un certo numero nelle domus.

Non avendo zampi, il che conferma non fossero preposti all'uso della camera da letto, questo mobiletti dovevano essere posti su un tavolo, o consolle o altro mobile.

C'è da notare inoltre che mentre nelle domus abbondavano le statue piuttosto grandi di divinità scolpite nel marmo e poste su erme o piedistalli, le statuette votive personali venivano riposte nei mobiletti e tenuti chiusi, come a esser certi che nessun altro potesse usarne, nè i padroni nè gli schiavi.

STIPO A COMODINO (5)
Nell'immagine sottostante (5) si nota uno di questi mobiletti piccini nella bottega (taberna) di un gioielliere che sta mostrando un anello a una matrona.

Questo mobiletto è da terra, e sta accanto a un alto tavolo di marmo, infatti è munito di piedi lineari, con una guarnizione bronzea di testa leonina.

Sopra vi sono poggiati oggetti di un certo pregio, e lo sportello apribile deve essere proprio quello della testa di leone perchè è munito di anello per tirare o qualcosa del genere.

Anche le botteghe avevano i loro mobili e i loro stipi, diversi a seconda del tipo di attività esercitata.

Le bacheche dei negozi più di lusso comunque avevano stigliature molto simili a quelle delle case.

Si trattava di mobili in legno, tutti in massello,  di una certa larghezza e altezza, fatti a scaffali con mensole di legno dove si poggiavano gli oggetti da vendere.



LA BACHECA (o BIBLIOTECA)

Talvolta invece solo la metà superiore del mobile era a mensole di legno, mentre la parte sotto era chiusa da sportelli: a volte gli sportelli erano in tavola di legno e talvolta invece erano ad asticciole di legno incrociate, come a formare una rete romboidale.

BIBLIOTECA O BACHECA (6)
Qui si riponevano gli oggetti più pesanti, come vasi, statuine, brocche, lucerne di bronzo, e nei ripiani
chiusi dagli sportelli oggetti d'argento e di vetro in quanto molto fragili.

In altri casi il mobile era in vimini, più o meno come quello descritto in legno, con lo scheletro in aste di legno e i piani in vimini.

Naturalmente qui si poggiavano gli oggetti più leggeri e che non avevano bisogno di equilibrio, come stoffe, coperte, sciarpe, scialli, clamidi, cinture di stoffa, nastri e così via.

Questi mobili erano pressochè identici a quelli che si usavano nelle domus come librerie o ripostigli, come si può vedere nella immagine qua sotto che presenta appunto una libreria.

Non dimentichiamo che i libri romani erano per lo più papiri avvolti intorno a un'anima di legno e talvolta contenuti in astucci di legno leggero, ma solo per i testi più antichi e quindi più preziosi.

Il fatto che dal legno traforato passasse la polvere non era un problema, visto che c'erano gli schiavi per spolverare, ma era indispensabile per l'areazione dei rotoli che avrebbero altrimenti potuto ammuffirsi.

I papiri romani rinvenuti ad Ercolano costituiscono il fondo librario più antico posseduto dalle biblioteche italiane e straniere.
La collezione proviene da una villa romana sorta in età repubblicana, ed è l'unica biblioteca dell'antichità pervenuta fino a noi, seppure incompleta e in parte deteriorata dall'eruzione del Vesuvio.

Sottoposti ad una temperatura elevatissima, sepolti sotto una coltre di materiale vulcanico ad una profondità di circa 25 metri, i rotoli subirono un processo di combustione parziale al quale dobbiamo la loro conservazione.

Si ritiene che la biblioteca sia del filosofo Filodemo di Gadara (110-30 a.c.), che portò dalla Grecia un gran numero di manoscritti con i testi di Epicuro e dei suoi seguaci, facendo della villa di Ercolano un centro di diffusione delle dottrine epicuree nella società romana. Oggi il numero dei papiri disponibili supera i 1800 pezzi, e include sia rotoli interi che parzialmente conservati.



STIPI APPESI ALLE PARETI

Come si osserva nella immagine successiva nelle domus esistevano anche stipi appesi alle mura, per contenere in genere brocche e brocchette, bicchieri e ciotole per la mensa degli invitati.

STIPETTI APPESI (7)
Queste erano molto usate anche nei termopoli o in altro tipo di botteghe, perchè essendo piuttosto piccoli i locali, facevano risparmiare spazio.

Gli spazi d'altronde erano limitati perchè a Roma i terreni edificabili erano carissimi, viste le enormi possibilità di lavoro che offriva l'Urbe.

Nelle domus invece, se le cucine erano piccole, e lo erano anche nelle abitazioni più grandi, le stoviglie della casa erano parecchie.

I ricchi romani delle domus possedevano diversi servizi a seconda dell'importanza del festino.

Si usavano piatti di coccio, di bronzo o di argento, e pure le stoviglie, cioè i cucchiai erano intonati al valore dei piatti.

C'erano poi le brocche per il vino, i bicchieri, le ciotole, i piatti da portata, e un'infinità di contenitori a seconda del cibo da offrire, comprese le salsiere e gli speziari.

Tutto ciò però non veniva generalmente tenuto nella cucina ma in stanze-magazzino piuttosto piccole e buie, oppure in stipi nei corridoi o in stanze di passaggio.



LE MENSOLE

CUCINA (8)
L'uso delle mensole riguardò soprattutto le cucine o le stanze di servizio, dove si trattava di mensole in legno semplice, ma talvolta le mensole venivano decorate. 

Sulle mensole si ponevano le padelle, i tegami, i mestoli. insomma tutto ciò che occorreva per cucinare. 

Per il resto c'era solo il carbone, la legna, l'acciarino per accendere il fuoco e la cucina economica con i fornelli e il posto per la legna, nonchè, ovviamente, tanto cibo da cucinare.



LO STUDIO

Ma nelle stanze c'erano degli stipi di altro tipo, come quello ad esempio che si vede nell'immagine qui sotto, dove c'è la ricostruzione di uno studio romano.

STUDIO MEDICO (9)
Si direbbe un vero e proprio armadio. In realtà è lo studio di un chirurgo con una scrivania su cui sono allineati i ferri chirurgici, una poltroncina, uno sgabello e dietro la scrivania c'è una armadietto dove il medico ripone tutto ciò che gli occorre per il suo lavoro.

Qui l'armadio è incassato nel muro ed ha due sportelli traforati a liste di legno oblique. Sembra fosse importante l'areazione negli armadi per impedire le muffe.

Ed ecco l'immagine estesa della sala del chirurgo. Come si vede c'è uno stipo sulla parete di destra, prima del tavolo, un mobiletto poco profondo ma largo e basso più del tavolo.

Sembra che lì il medico riponesse le bende, le lenzuola, i teli, e qualsiasi altro oggetto servisse per curare, operare e pulire. Oltre alla scrivania si nota,appoggiato alla parete, un tavolino con sopra oggetti in vetro.

SALOTTO (10)
Nell'immagine (10) c'è la ricostruzione grafica di un salotto romano dove lo stipo di cui sopra è maggiormente visibile.

Come si vede è a due sportelli munito di mensole interne, non ha zampi ma solo una pedana massiccia alla base,

I due sportelli sono rinforzati con due liste trasversali di legno massiccio, esattamente come usava negli sportelli delle porte.

Potevano essere lisci o lavorati, con cerniere e manopole di legno o altro. Vi si riponevano in genere i bicchieri e le caraffe per offrire agli ospiti del buon vino o bevande aromatiche o bibite fresche d'estate.



GLI ARMADI

Non erano molto grandi, sempre a due ante, con gli sportelli traforati o interi, con cassetti sottostanti o senza. 
Difficilmente si usavano per i vestiti, che di solito venivano ospitati nei bauli, generalmente vi si riponeva la biancheria, di solito piuttosto sopraffina, specie in età imperiale.

ARMADIO (11)
Le sete si importavano dall'oriente ed erano piuttosto costose ma i romani delle domus se le potevano permettere.

Damaschi, rasi e tulle di seta imperavano nella biancheria e nelle coperte che rivestivano triclini, letti, scrivanie, panchetti, tavolinetti e poltroncine.

In questo modo la casa brillava di colori e s'illuminava di stoffe cangianti.

Gli armadi erano piuttosto simili al tipo etnico che si usa anche oggi, di legno naturale, con sportelli traforati, ovvero con un inserimento di vimini intrecciati, o ad assicelle poste obliquamente nei due sensi in modo romboidale.

Sotto invece gli armadi avevano dei cassetti dove riponevano le scarpe, cioè i calzari, le pantofole, le babbucce leggere e gli stivali per la stagione fredda, sia lunghi che corti, naturali o dipinti.

Gli armadi però difficilmente si ponevano in camera da letto, perchè il cubiculum era piuttosto piccolo e a mala pena ci entrava il letto, il tavolinetto e al massimo un mobiletto piccolo. Nè tanto meno si ponevano nelle stanze triclinari, completamente invase dai lettini.

Usava invece più frequentemente porli nei salotti o negli studi, come si vede nell'immagine posta qua sotto che riproduce graficamente un classico salotto romano  con divano, sedie, tavolinetto, braciere e un armadio posto sul fondo dove si poneva tutto ciò che poteva rendere comodo il soggiorno dell'ospite, dai cuscini, ai tappeti, alle lucerne, ai libri ecc.

In questo caso (12) L'armadio ha sportelli con tavole intere e due maniglie di bronzo, in altri casi il suddetto era dipinto a disegni vari, o aveva ante di vimini anche colorate o aveva borchiature dorate, o laterali a colonnine scolpite, secondo il gusto e le possibilità del proprietario.

SALOTTO CON ARMADIO (12)

GALLI SENONI

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I Galli Sénoni erano una popolazione celtica che ebbe il suo habitat sia sulla costa orientale dell'Italia, nell'area della Romagna e delle Marche del nord, e dal fiume Montone verso sud, dall'ager Decimanus, a sud di Ravenna, fino al fiume Esino.

Ma si collocò pure in una regione della Francia, nei dipartimenti di Seine-et-Marne, Loiret e Yonne, la cui antica capitale era la città di Sens, dalla quale questo popolo prenderebbe il nome.



LA STORIA

Narra Tito Livio che i Senoni si stanziarono in suolo italico nella zona tra i fiumi Montone ed Esino.
Secondo Polibio, attorno al 400 a.c. un gruppo di Senoni attraversò le Alpi e si stanziò sulla costa orientale dell'Italia, nei territori orientali della Romagna e in quelli settentrionali delle Marche dove vivevano i Piceni, nel futuro ager Gallicus.

Ad ovest del fiume Montone, infatti, cominciava il territorio dei Galli Boi. La posizione era strategica per il controllo delle vie marittime e della valle del Tevere, e da qui discesero le incursioni nell'Italia meridionale e centrale.

Qui i Senoni, stanziati nel nord delle Marche fino alla valle del fiume Esino, nell'attuale provincia di Ancona, fondarono Sena Gallica (Senigallia) nel 391 a.c., che divenne la loro capitale tra il 389 e il 383 a.c.
Poi i senoni invasero l'Etruria e assediarono Chiusi. Gli abitanti della città chiesero aiuto a Roma che intervenne, ma, come narra Varrone, fu sconfitta rovinosamente nella battaglia del fiume Allia il 18 luglio del 390 a.c., secondo Polibio invece nel 387 a.c..

Le mura serviane avevano protetto Roma per più di 150 anni, ma non resistettero all'invasione dei Galli senoni del 390 a.c., infatti la città venne presa e saccheggiata.

IL SACCO DI ROMA

IL SACCO DI ROMA


Il sacco di Roma da parte dei Senoni, partiti dalla loro capitale Senigallia e guidati da Brenno, è uno degli episodi più drammatici della storia dell'Urbe, riportata negli annali con il nome di Clades Gallica, ossia sconfitta gallica. Ce ne danno notizia vari autori, tra cui Polibio, Livio, Diodoro Siculo, Plutarco, e Strabone.

Brenno unificò le tribù dei Galli Senoni conquistando tutte le terre tra la Romagna e il Piceno, poi assediò Chiusi, che invocò l'aiuto di Roma. Il Senato romano inviò a Chiusi tre ambasciatori della Gens Fabia per mediare tra i Galli e assediati..

Uno dei tre Fabii però uccise a tradimento un capo senone durante le trattative, scatenando l'ira dei Galli. Allora i Senoni mandarono ambasciatori a Roma, per chiedere che i tre Fabii gli fossero consegnati, ma i Fabii furono eletti dal popolo Tribuni consolari, e quindi intoccabili, per cui i Galli infuriati tolsero l'assedio a Chiusi, marciando verso Roma..

Il Senato inviò un esercito che fermasse i Galli sulla riva sinistra del Tevere, in corrispondenza dell'immissione dell'affluente Allia ma ebbero la peggio. La sconfitta fu così grave che il 18 luglio (Dies Alliensis) fu da allora considerato giorno nefasto nel calendario romano. Per questa ricorrenza vennero anche istituiti i cosiddetti Lucaria (19 e 21 luglio) che celebravano le divinità dei boschi che avevano offerto rifugio agli scampati della battaglia di Allia.

GALLI
I superstiti romani, incalzati dai Galli, si ritirarono entro le mura di Roma, dimenticando, come riferisce Tito Livio, di chiuderne le porte.

Diciamo che la dimenticanza non è credibile e che le porte vennero abbattute.

Sicuramente le porte della città erano sacre e guardate da Giano, il Dio cui erano consacrate tutte le porte e pure il Gianicolo,

Era meno grave asserire che i romani si fossero dimenticati di chiuderle piuttosto che ammettere che Giano non era un buon guardiano delle porte, da cui l'assurdità della dimenticanza. I Galli misero a ferro e fuoco l'intera città, compreso l'archivio di stato, cosicché tutti gli avvenimenti antecedenti la battaglia sono in parte leggendari. Che fossero però tutti inventati è un'esagerazione, anche se bruciassero tutti i libri del mondo resta una memoria del passato nella gente, a volte un po' distorto e impreciso ma resta.

Mentre i Senatori cercavano di organizzare una resistenza sul Campidoglio, e i cittadini romani cercavano sul Gianicolo.
« Un'altra massa di persone - composta per lo più da plebei - non potendo trovare posto nell'area tanto ridotta del colle e non potendo essere sfamata in quel regime di così grave penuria alimentare, sciamò disordinatamente fuori dalla città e, dopo aver formato una sorta di linea continua, si incamminò verso il Gianicolo. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, V, 40)

Intanto il Flamine di Quirino e le Vestali cercavano di mettere in salvo quanti più oggetti sacri possibile.
« Alla fine decisero che la soluzione migliore fosse quella di metterli dentro a piccole botti da sotterrare poi nel santuario accanto all'abitazione del flamine di Quirino, là dove oggi è considerato sacrilegio sputare. Il resto degli oggetti, dividendosene il carico, li portarono via per la strada che conduce dal ponte Sublicio al Gianicolo. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

Qui un ceto Lucio Albinio, plebeo, avrebbe fatto scendere i propri familiari dal carro, per far posto alle Vestali, e le portò in salvo fino a Cere.
« E siccome quell'individuo - osservando la distinzione tra le cose divine e umane anche nel pieno della tragica situazione -, riteneva fosse un sacrilegio che le sacerdotesse di Stato andassero a piedi portando i sacri arredi del popolo romano mentre lui e i suoi se ne stavano sul carro sotto gli occhi di tutti, ordinò a moglie e figli di scendere e dopo aver fatto salire le vergini con gli oggetti sacri»
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

Questo racconto viene ritenuto leggendario per glorificare lo spirito romano. Noi siamo propensi invece a crederci, anzitutto perché i romani non avrebbero in quell'epoca mai glorificato un plebeo, e poi perché all'epoca le mogli e i figli contavano poco per cui un uomo aveva diritto di lasciare la propria famiglia in mano ai barbari condannandola allo stupro e alla morte, per favorire delle sacerdotesse.

Si narra che i Galli in Senato trovarono i senatori compostamente seduti sui propri scranni e li massacrarono. Evidentemente solo i più vecchi restarono, perché tutti i romani sapevano combattere e non era il massimo andare a morte certa senza opporsi. Anche perché poi si parla ancora dei senatori che di certo non potevano aver potuto votare.

GUAI AI VINTI!

MARCO FURIO CAMILLO

Solo il Campidoglio resistette e venne posto sotto assedio, mentre parte dell'esercito senone razziava le campagne intorno. La situazione era disperata ma la notizia del sacco di Roma giunse ad Ardea, dove gli ardeatini affidarono il loro esercito a Marco Furio Camillo, il quale riuscì a sconfiggere un contingente gallico uscito da Roma, e pure un contingente etrusco che razziava le campagne più a nord.

« Dal Senato fu inviato in qualità di dittatore contro i Veienti, che dopo vent'anni si erano ribellati, Furio Camillo. Egli li vinse prima in battaglia, quindi conquistò anche la loro città. Presa Veio, vinse anche i Falisci, popolo non meno nobile. 
Ma contro Camillo sorse un'aspra invidia, con il pretesto di un'ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l'esercito romano a dieci miglia dall'Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono anche la città. 
Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l'assedio e si ritrassero. Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l'oro ch'era stato loro consegnato, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. 
Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato "secondo Romolo" come fosse egli stesso fondatore della patria. »
(Eutropio, Breviarium ab Urbe condita)

Da Veio si riuscì a inviare un messaggero a Roma, Ponzio Comino, per far nominare Furio Camillo dittatore. Ponzio riuscì a rompere l'assedio ed il Senato poté nominare Camillo dittatore per la seconda volta. Fu allora che le oche sacre del tempio capitolino di Giunone avvisarono Marco Manlio, console del 392 a.c., del tentativo di invasione dei Galli senoni, si che vennero respinti. Intanto, Roma, presa per fame, trovò un accordo con i Galli, che erano stati colpiti da un'epidemia. Il tribuno Quinto Sulpicio Longo e il capo dei Galli, Brenno, giunsero ad un accordo, in base al quale i Galli sarebbero andati via con un riscatto di 1.000 libre d'oro.

Brenno avrebbe fatto pesare anche la sua spada, urlando: "Vae victis!" ("Guai ai vinti!") ma Marco Furio Camillo si oppose preparandosi alla battaglia.
« Non auro, sed ferro, recuperanda est patria!»
(Non con l'oro si difende l'onore della patria, bensì col ferro delle armi!)

I Galli vennero sconfitti in due battaglie campali e completamente massacrati e Furio Camillo ottenne il trionfo. Secondo altri i Galli si ritirarono per fronteggiare gli attacchi dei Veneti, a nord dei loro territori originari, portando via il bottino di guerra. Secondo altri ancora Brenno avrebbe governato a Roma per qualche anno. Roma ne uscì molto impoverita, comunque entro dodici anni furono ricostruite le mura serviane (378 a.c.), sotto Servio Tullio.

« Camillo portò i suoi soldati giù nella pianura e li schierò a battaglia in gran numero con grande fiducia, e come i barbari li videro, non più timidi o pochi in numero, come invece si aspettavano. Per cominciare, ciò mandò in frantumi la fiducia dei Galli, i quali credevano di essere loro ad attaccare per primi. Poi i velites attaccarono, costringendo i Galli ad entrare in azione, prima che avessero preso posizione con lo schieramento abituale, al contrario schierandosi per tribù, e quindi costretti a combattere a caso e nel disordine più totale. 
Quando infine Camillo condusse i suoi soldati all'attacco, il nemico sollevò le proprie spade in alto e si precipitò all'attacco. Ma i Romani lanciarono i giavellotti contro di loro, ricevendo i colpi sulle parti dello scudo che erano protette dal ferro, che ora ricopriva gli spigoli, fatti di metallo dolce e temperato debolmente, tanto che le loro spade si piegarono in due; mentre i loro scudi furono perforati e appesantiti dai giavellotti. 
I Galli allora abbandonarono effettivamente le proprie armi e cercarono di strapparle al nemico, tentando di deviare i giavellotti afferrandoli con le mani. Ma i Romani, vedendoli così disarmati, misero subito mano alle spade, e ci fu una grande strage dei Galli che si trovavano in prima linea, mentre gli altri fuggirono ovunque nella pianura; le cime delle colline e dei luoghi più elevati erano stati occupati in precedenza da Camillo, e i Galli sapevano che il loro accampamento poteva essere facilmente preso, dal momento che, nella loro arroganza, avevano trascurato di fortificarlo. Questa battaglia, dicono, fu combattuta tredici anni dopo la presa di Roma, e produsse nei Romani una sensazione di fiducia verso i Galli. 
Essi avevano potentemente temuto questi barbari, che li avevano conquistati in un primo momento, più che altro credevano che ciò fosse accaduto in conseguenza di una straordinaria disgrazia, piuttosto che al valore dei loro conquistatori.»
(Plutarco, Vita di Camillo.)

Il Metus Gallico (la paura del Galli), almeno per ciò che riguardava i Senoni, ebbe termine circa 100 anni dopo, con la battaglia del Sentino (295 a.c.). Vennero vinti dai consoli Publio Decio Mure e Quinto Fabio Massimo Rulliano e infine sottomessi nel 283 a.c. dal console Publio Cornelio Dolabella.

FURIO CAMILLO


LA CONQUISTA DELLA GALLIA SENONA

L'occupazione romana non avvenne circa nel 272 a.c., anno in cui Roma portò a termine la guerra con Taranto. A Sena Gallica fu dedotta una colonia romana. La presenza dei Galli Senoni è testimoniata nell'ager Gallicus anche dopo la sottomissione ai romani; sono attestate fasi di convivenza con i Romani insediati nelle città di fondovalle di Suasa, Ostra antica, etc. e i Senoni appostati nei loro villaggi sulle alture, ad esempio il sito archeologico di Montefortino di Arcevia, ed è probabile che la popolazione e la cultura gallica fu gradualmente assorbita da quella romana.

"L’anno 53 a.c. è caratterizzato dal tentativo di Cesare di consolidare la posizione dei romani nella Gallia e in Germania, dove attraverserà per la seconda volta il Reno. La base per i vari spostamenti è rimasta sempre Durocortorum, città nata quattro anni prima e diventata la Capitale della Gallia, corrispondente all’attuale Reims. Con ben dieci Legioni, il proconsole ha cercato in quell’anno di soffocare definitivamente le varie ribellioni avviate dagli Eburoni di Ambiorige, dai Treviri, dai Nervi, dagli Atuatuci, dai Senoni e dai Carnuti.
Ancora una volta l’impegno di Cesare è stato caratterizzato da azioni fulminee capaci di sconfiggere i nemici in certe occasioni addirittura senza combattere, nonché dalla capacità di impossessarsi di una quantità sconfinata di bestiame e prigionieri. Alla fine l’unico condannato a morte è stato Accone, principe dei Senoni, fatto decapitare. Da rilevare che in questa campagna Cesare ha potuto contare sul coraggio e sull’abilità di tre grandi condottieri come il comandante militare Tito Labieno, il luogotenente Gaio Fabio e il questore Marco Crasso.Come già detto, in quell’anno Cesare attraversò il Reno per la seconda volta attraverso un ponte costruito con la usuale ed efficiente tecnica.
La verità è che le popolazioni locali, timorose delle note capacità militari di Cesare, evitarono in tutti i modi di affrontare i romani in campo aperto, ritirandosi velocemente all’interno. Davanti a questo atteggiamento remissivo Cesare preferì tornare indietro. 
Sul posto lasciò tuttavia un’imponente fortificazione sotto il comando di Gaio Vulcacio Tullo.Nella sua azione di vendetta Cesare intraprese con Ambiorige una cruenta serie di battaglie nelle vicinanze di Atuatuca senza mai catturarlo. Ambiorige riuscì, infatti, ad attraversare miracolosamente il Reno facendo perdere le sue tracce. Da rilevare che oggi Ambiorige, grazie alla sua tenace lotta contro Cesare viene considerato in Belgio un eroe nazionale.
Nella cittadina di Tongeren (localizzata dove probabilmente c’era la vecchia Atuatuca Tongorum) è stata eretta un’imponente statua in omaggio al coraggioso condottiero che sfidò Cesare senza essere catturato.Infine, prima di tornare a Roma Cesare convocò a Durocortorum una grande assemblea per condannare la rivolta promossa da Senoni e Carnuti. Fu in quella circostanza che si decise la condanna a morte di Accone. Inoltre, per controllare le zone calde dei Galli, lasciò sul posto ben dieci legioni."


(Maurizio Miranda)
È probabile che i Senoni furono tra quelle bande di Galli che dal Danubio invasero la Macedonia e l'Asia Minore nel corso delle scorrerie balcaniche.



BATTAGLIA DI SENTINO

Detta anche Battaglia delle Nazioni, nel 295 a.c., si svolse durante la III guerra sannitica, tra i Romani alleati coi piceni, e un'alleanza di nemici composta da Etruschi, Sanniti, Galli Senoni ed Umbri. Praticamente tutte le popolazioni del centro Italia erano contro Roma che tuttavia vinse.

« Vim Gallicam obduc contra in acie exercitum;
lue patrum hostili fuso sanguen saguinem. »
(Guida le schiere contro i Galli e lava col sangue dei nemici il sangue nostro)
(Accio, Eneadi)

SENTINUM
"Ma, prima che i consoli (Fabio e Decio) giungessero In Etruria, i Galli Senoni mossero in gran numero alla volta di Chiusi, disponendosi ad assalire la legione e l'accampamento dei Romani. Scipione, che aveva il comando del campo, pensando di dover rimediare con la posizione all’inferiorità numerica dei suoi, fece salire l'esercito su un colle che sorgeva fra la città e l'accampamento; ma, come avviene quando si è presi alla sprovvista, s'avviò alla sommità senza aver ben esplorata il cammino. e questa era già stata occupata dai nemici ch'erano saliti da un'altra parte. Così la legione fu presa in mezzo assalita alle spalle e stretta com'era da Ogni parte dal nemico. 
Alcuni affermano perfino che ivi la legione sarebbe stata annientata, al punto che non rimase nessuno da poter dare la notizia, e che l'annunzio di quella sconfitta sarebbe stato recato al consoli, i quali si trovavano ormai non lontano da Chiusi, non prima che fossero in vista i cavalieri dei Galli, che portavano teste appese al petti dei cavalli e infisse su picche, e festeggiavano la vittoria coi loro tipici canti. 
Vi sono di quelli i quali tramandano che erano Umbri, non Galli, e che la sconfitta subita non fu così grave sarebbero stati accerchiati alcuni foraggiatori e in loro aiuto sarebbe accorso dal campo il propretore Scipione insieme coi luogotenente Lucio Manlio Torquato; riaccesasi la battaglia, gli Umbri vittoriosi sarebbero stati vinti a loro volta, e ad essi sarebbero stati tolti i prigionieri e la preda. Più verosimile che ad infliggerci quella sconfitta siano stati i Galli anziché gli Umbri, perché come spesso altre volte, così soprattutto quell'anno la città fu in preda al terrore di un improvviso attacco da parte dei Galli. 
Pertanto, oltre ad essere partiti per la guerra entrambi i consoli con quattro legioni e un grosso contingente di cavalleria romana con mille cavalieri scelti mandati per quella guerra dai Campani, e con un esercito di alleati e di Latini maggiore di quello romano, altri due eserciti furono inviati a fronteggiare l’Etruria non lunge dall'Urbe, uno nel territorio dei Falisci, l'altro nell'agro Vaticano. i propretori Cneo Fulvio e Lucio Postumio Megello. ricevettero entrambi l’ordine di acquartierarsi in quel luoghi."
(Tito Livio - Ab Utbe Condita)

I Sanniti, impegnati nella IIII guerra sannitica, nel 296 a.c. mossero in Etruria con un grande esercito, cercando l'alleanza di Etruschi, Umbri e Galli contro Roma e formarono così una coalizione di quattro popoli, che radunò un grosso esercito nel territorio di Sentino. I Piceni, invece, che avevano visto il proprio territorio settentrionale invaso dai Galli, e ne avevano conosciuto la barbarie, si allearono con i Romani.

A Sentino i Romani e alleati si accamparono a circa quattro miglia dal nemico. Ai Sanniti ed ai Galli fu affidato il compito di dare battaglia ai romani sul campo aperto, ad Umbri ed Etruschi, quello di attaccarne l'accampamento.

I Galli andarono ad occupare l'ala destra, i Sanniti la sinistra. Di fronte ai Sanniti, all'ala destra romana, Quinto Fabio schierò la I e la III legione, mentre contro i Galli alla sinistra Decio schierò la V e la VI.

Fabio adottò una tattica difensiva, mentre Decio impiegò subito la cavalleria, disorientata però dai carri nemici trainati da cavalli, che la fecero sbandare. Anche la fanteria romana iniziò a cedere, per cui Decio Mure, come aveva già fatto il padre, invocò la devotio.

«  Si consacrò in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento con cui presso il fiume Veseri si era consacrato il padre Publio Decio durante la guerra contro i Latini, e avendo aggiunto alla formula di rito la propria intenzione di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il massacro, il sangue, il risentimento degli dei celesti e di quelli infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le armi e le difese dei nemici, e aggiungendo ancora che lo stesso luogo avrebbe unito la sua rovina e quella di Galli e Sanniti - lanciate dunque tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il cavallo là dove vedeva che le schiere dei Galli erano più compatte, e trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche.»
(Livio, Ab Urbe condita)

Con la certezza della Devotio la fanteria romana si risollevò anche grazie a dei rinforzi inviati dall'altro console. Fabio ordinò l'attacco contemporaneo dei cavalieri e delle riserve. Mentre i Galli riuscirono a resistere compatti, i Sanniti ruppero lo schieramento, e fuggirono nell'accampamento.
Ormai divisi, i Sanniti furono sterminati nella difesa dell'accampamento, e i Galli sul campo di battaglia, dove furono presi alle spalle dalla cavalleria.

« In quella giornata vennero uccisi 25.000 nemici, mentre i prigionieri catturati ammontarono a 8.000. Ma la vittoria non fu certo priva di perdite, visto che tra gli uomini di Decio vi furono 7.000 caduti, tra quelli di Fabio più di 1.700. »
(Livio, Ab Urbe condita .)

Per i Galli Senoni la battaglia di Sentino, che si combatté sul loro territorio, segnò l'uscita di scena del loro potere e i Romani si impadronirono poco tempo dopo di metà del loro territorio.

Dopo la battaglia di Sentino (295 a.c. circa) i romani ebbero il definitivo controllo sulla Campania, l'Etruria, l'Umbria e appunto il territorio tra il fiume Esino e Ariminum, (Rimini) popolato dai Galli Senoni che fu denominato da quel momento Ager Gallicus.

Nel 284 a.c. nacque la colonia di Sena Gallica, la prima sull'Adriatico, sulla ex capitale dei galli. Nel 207 a.c. la città fu base di partenza delle truppe romane che sconfissero sul fiume Metauro i cartaginesi comandati da Asdrubale Barca, fratello di Annibale.

RESTI DEL TEMPIO DI CIVITALBA

IL TEMPIO DI CIVITALBA

"Il tempio di Civitalba sorgeva su un colle che sovrastava la piana di Sentinum dove, all’indomani del sacco gallico di Roma del 373 a.c., aveva avuto luogo la storica battaglia vinta dai Romani contro la coalizione di Galli Senoni, Etruschi, Umbri e Sanniti nel 295 a.c. 
A questo episodio, cui seguì la romanizzazione del territorio fino ad allora controllato dai Galli, allude non velatamente la narrazione del fregio del tempio, dove è raffigurato ad altorilievo lo scontro tra divinità e gruppi di guerrieri, chiaramente riconoscibili come Celti per le loro caratteristiche acconciature (capelli lunghi con creste sollevate, baffi spioventi), gli abiti e le armi (tuniche di pelliccia, scudi quadrangolari oblunghi). 
Nella sequenza, dominata dall’intenso dinamismo dei personaggi, impegnati nella lotta o nella fuga, è evidente la disfatta dei Celti che battono ormai in ritirata abbandonando il bottino appena trafugato, travolgendo con il carro i loro stessi compagni e soccombendo infine alla furia delle divinità."
(Marco Antonini)


GIULIO CESARE

 Al tempo di Gaio Giulio Cesare un gruppo di Galli Senoni viveva nel territorio oggi occupato dai distretti di Seine-et-Marne, Loiret e Yonne. Dal 53 al 51 a.c. furono in guerra con Cesare, che naturalmente li sconfisse e dopodiché scomparvero dalla storia. Furono poi inclusi nella Gallia Lugdunensis.


LA SOCIETA'

I senoni vivevano in abitati rurali, scarsamente popolati. Vivevano spesso del mercenariato, spesso associato alla razzia verso i territori più ricchi del meridione. Usavano l'inumazione in ampie fosse con corredo funebre; il corpo veniva posizionato in supino e con il volto orientato ad ovest, in casse lignee. La camera funeraria veniva sigillata con una pesante copertura di pietre. Esternamente, venivano collocati ulteriori elementi del corredo, quali vasellame, vasi bronzei, offerte in cibo, utensili culinari.
Erano potenti e coraggiosi guerrieri, non rispettavano nè le mogli nè i figli, su cui avevano potere assoluto di vita e di morte, nonostante le loro donne potessero ereditare ed amministrare beni in assenza del marito o alla sua morte.

I LIMES DELL'IMPERO

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TUTTI I LIMES DELL'IMPERO
I confini dell'impero erano costituiti da difese naturali o artificiali. I primi erano le barriere paesaggistiche del territorio, che dividevano il mondo romano dai barbari o dagli stranieri, e potevano essere:
  • un fiume (come Reno, Danubio ed Eufrate),
  • i monti (come la catena dei Carpazi in Dacia o dell'Atlante in Mauretania)
  • il deserto (Egitto, Arabia e Siria).
I secondi consistevano in un agger, una palizzata di legno o un muro in pietra e un fossato, come nel caso del Vallo di Adriano, del Vallo di Antonino, del Vallo Porolissensis o del Limes germano-retico. Questa fortificazione aveva torri di avvistamento e di difesa a varie distanze, a seconda della pericolosità dei confinanti.



I LIMES PRINCIPALI




Il primo, che decretò poi la caduta dell'Impero romano d'Occidente nel V sec., fu il fronte settentrionale europeo, a sua volta formato da:


LIMES PANNONICO
- LIMES BRITANNICUS 
Il più settentrionale dell'intero Impero, con il vallo di Adriano e il vallo Antonino;


- LIMES RENICO
Lungo il fiume Reno, che per quasi un ventennio permise la penetrazione nella Germania Magna fino al fiume Elba;


- LIMES DANUBIANO
Il più importante dell'intero sistema difensivo imperiale, a protezione di tutte le province che dalla Rezia percorrevano il grande fiume fino alla sua foce, con la Mesia inferiore.


A sua volta si divideva in:
•  RETICO creato dopo le campagne di Augusto in Vindelicia e Rezia nel 15 a.c., sviluppato ulteriormente con l'acquisizione degli Agri Decumates ad occidente a partire da Domiziano;
NORICO creato a partire dalla dinastia giulio-claudia (tra il 15 a.c. ed i 50 d.c.);
PANNONICO creato a partire dalle campagne di Tiberio degli anni 13-9 a.c.;
MESICO creato a partire dalle campagne del 30-29 a.c., condotte da un generale di epoca augustea.
A questo limes è inoltre strettamente collegato il sistema difensivo della Dacia romana sviluppato con la sua conquista, voluta da Traiano.


- LIMES A NORD DEL DANUBIO
LIMES NORICO

Comprendente le province daciche, la Sarmazia e le coste settentrionali del Ponto Eusino.

La Pannonia era una provincia romana che comprendeva la parte occidentale dell'attuale Ungheria, il Burgenland oggi austriaco, fino a Vienna, la parte nord della Croazia e parte della Slovenia.





OLANDA

Il 1° gennaio 2003 in Olanda sono state rinvenute delle fondazioni di una vedetta, costruita dai soldati romani sulle rive del Reno circa 2000 anni fa. Si crede che la vedetta dovesse essere parte di una catena di postazioni d'osservazione a guardia del fiume, che delimitava i confini dell'Impero Romano alle sue propaggini più estreme.

Si ritiene che le torri fossero usate per monitorare gli sbarchi lungo il fiume e per far risuonare gli allarmi se tribù germaniche ostili avessero minacciato un attacco.

Le torri erano costruite ad intervalli compresi tra i 500 ed i 1500 metri di distanza, abbastanza ravvicinati da consentire ad ogni guardia di fare segnali all'altra, ed allertare i soldati che stazionavano nelle basi più vicine per qualsiasi pericolo o evenienza lungo le rive del fiume.

Gli archeologi datano la torre a circa il 50 d.c., regno dell'Imperatore Claudio.
La torre dovrebbe essere stata quadrata, 3 m. su ogni lato e 5 di altezza. Distaccamenti di tre o quattro soldati venivano probabilmente inviati alla torre dalle più vicine basi militari, tracce delle quali ancora sopravvivono.

LIMES MESICO
I soldati incaricati dei controlli alle torri dovevano probabilmente essere un misto di legionari romani e truppe ausiliarie, reclutate presso altre regioni di frontiera dell'impero.

"I Romani arrivarono per la prima volta in quest'area ai tempi di Cesare", attorno al 53 a.c., l'occupazione romana non fu pesante, ma sufficiente a portare l'ordine... Usavano forti di legno molto funzionali, che venivano montati e smantellati a seconda delle necessità".

Il fiume era utilizzato per scopi commerciali dai romani e dalle tribù germaniche locali, conosciute ai romani come "Batavi"; ed i punti di osservazione possono avere giocato un ruolo anche nell'assicurare il pagamento dei pedaggi alle imbarcazioni di passaggio.
Ma il soldo, si sa, lo intascavano sempre i Romani.




ABBANDONO DEGLI AGRI DECUMATES - 260
 
La nuova religione cristiana da un lato cambiò la visione della difesa dei confini. Cadde il mito del buon soldato disposto a morire per la patria e per l'onore,
I romani non combattevano quasi più e la difesa dell'impero venne affidata ai mercenari che non avevano lo stesso entusiasmo dei romani.
LIMES DELLA GERMANIA INFERIORE

Ciò minò la difesa della patria, l'ardore di distinguersi in battaglia per essere onorato dai propri concittadini e l'orgoglio di portare addosso le onorificenze conquistate per gli atti di coraggio.

Le continue invasioni barbariche del III secolo, in particolare degli Alemanni, indebolirono l'impero romano.

La secessione della parte occidentale dell'impero (Impero delle Gallie), guidata dal governatore di Germania superiore ed inferiore, Postumo, indebolì ancor di più l'impero romano.

Tutto ciò costrinse l'imperatore Gallieno ad abbandonare il territorio degli agri decumates.

Dovette così riportare il limes ai grandi fiumi: ad ovest del Reno, cioè al limes alto germanico, ed a sud del Danubio, cioè il limes retico, tra il 259 e il 260.



LIMES GERMANICO RETICO 

Il Limes germanico-retico riguarda le fortificazioni di confine costruite dai Romani sui confini delle province della Germania superiore e della Rezia, tra i fiumi Reno e Danubio.

LIMES GERMANICO RETICO 90 D.C.
Si tratta di un insieme di fortificazioni di confine, forti e fortini ausiliari (castella), torri o postazioni di guardia (turres o stationes), mura o palizzate ed un vallo, eretti dai Romani a protezione dei confini delle province della Germania superiore e della Rezia e che racchiudeva tra i fiumi Reno e Danubio, i cosiddetti territori degli Agri decumates.
Esso comprendeva:


- il LIMES RENICO
Lungo il fiume Reno, che per quasi un ventennio comportò la penetrazione nella Germania Magna fino al fiume Elba;


- il LIMES DANUBIANO
Il più importante dell'intero sistema difensivo imperiale, ovvero le ripe, a protezione di tutte le province che dalla Rezia percorrevano il Danubio fino alla sua foce, con la Mesia inferiore.


- il LIMES A NORD DEL DANUBIO
Comprendente le province daciche, la Sarmazia e le coste settentrionali del Ponto Eusino.

Le Strutture:

La fortificazione era formata da una palizzata di tronchi di quercia del diametro di 30 cm. conficcati al suolo per un m. e alti 3 m. per tutto il percorso non costeggiato dal fiume, fornita di fortini e torri di avvistamento.

Limes2-it.png
LIMES GERMANICO RETICO
Antonino Pio vi aggiunse, tra la palizzata e le torrette di avvistamento, un terrapieno e un fossato a cuspide interna largo 6-7 m. e profondo 2 m., in alcuni punti sostituito con un muro di pietre.

Nella Rezia il limes aveva invece un muro di pietra spesso 1,2 m. ed alto 3-4 m. al posto della palizzata.

Raffigurazioni del limes romano si trovano raffigurati sulla Colonna Traiana e su quella Antonina, dove le scene iniziali rappresentano la riva destra del Danubio, con posti di guardia, forti, fortezze, difesi da palizzate, cataste di legna e covoni di paglia che, se incendiati, servivano come segnalazione.

Il 15 luglio del 2005 il limes germanico-retico è stato incluso dall'UNESCO nella lista dei Patrimoni dell'umanità, unendosi al Vallo di Adriano situato tra Scozia e Inghilterra (iscritto nel 1987). Nel 2008 a questa coppia si è aggiunto il Vallo Antonino.

IL VALLO DI ADRIANO

LIMES BRITANNICUS

La parte più settentrionale dei confini imperiali. In pratica servì a frenare le incursioni dei Pitti, coraggiosi e sanguinari avversari dei romani, in pratica gli antenati degli Scozzesi.

I limes furono il Vallo di Adriano e il Vallo di Antonino, ambedue posti nella zona Nord della Britannia.


VALLO DI ADRIANO
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IL VALLO DI ADRIANO
Fu il confine più settentrionale dell'Impero Romano in Britannia, anche se i Romani erano giunti fino al Mar Baltico, ed era in assoluto il confine più fortificato dell'impero. Le tutelatissime porte di accesso attraverso il vallo fungevano anche da dogane per la tassazione delle merci.

Era largo dai 2,5 m. ai 3 m., e alto dai 4 ai 5 m. Possedeva ben 80 fortini, di cui due accanto alle porte, e uno ogni miglio romano, con una torretta ogni due fortini per vedetta e segnalazioni.


Il Vallo comprendeva, dall'esterno all'interno:
  1. Uno spalto degradante all'esterno protetto da un parapetto e un profondo fossato, armato con file di pali appuntiti;
  2. Un muro di pietra;
  3. Una strada dove le truppe potessero spostarsi velocemente;
  4. Il Vallum vero e proprio cioè due grossi argini con un altro fossato nel mezzo.
  5. Una guarnigione perennemente stanziata.
Il muro era sorvegliato da unità legionarie e ausiliarie per un totale di 9.000 uomini, tra fanteria e cavalleria. Col decadere dell'impero, entro il 400 d.c. la guarnigione fu abbandonata e il muro cadde in disuso.

Gran parte delle pietre vennero depredate e riutilizzate per edifici locali fino al XX sec. Oggi ne resta in particolare la sezione centrale, ma per gran parte ci si può camminare sopra. Costituisce la principale attrazione turistica dell'Inghilterra settentrionale ed è stato dichiarato dall'UNESCO patrimonio dell'umanità.



IL VALLO DI ANTONINO

Il Vallo Antonino, successivo e posto più a nord di quello di Adriano, era inferiore per dimensioni ed efficienza.

Era costituito c da un banco di terra alto 4 m. con un ampio fossato sul lato nord ed un percorso militare sul lato sud, con un fortino ogni due miglia. Fu abbandonato dopo solo 20 anni, ristabilendo il Vallo di Adriano.

La costruzione del Vallo Antonino iniziò nel 142 sotto il regno di Antonino Pio, e fu completata nel 144. Il vallo si estende per 39 miglia, (pari a 63 chilometri) dal West Dunbartonshire sul Firth of Clyde a Bo'ness sul Firth of Forth.

La fortificazione fu costruita per rafforzare l'efficacia del Vallo di Adriano, posto 160 km più a sud come confine settentrionale della Britannia. I romani, anche se riuscirono a insediare accampamenti e fortilizi temporanei a nord del vallo, non arrivarono mai a conquistare e sottomettere le tribù indigene dei Pitti, che resistettero e spesso danneggiarono la fortificazione.

I romani chiamarono la terra a nord del Vallo Antonino Caledonia, ma si pensa che anche il termine "Alba", il nome moderno in gaelico della Scozia, trovi origine dal lemma latino corrispondente a bianca (alba), data la presenza nella regione di montagne coperte di neve. Per altri, come lo studioso Robert Graves, si chiamò così in onore della Dea Alba, vale a dire la Dea Bianca, quella stessa Dea che in Magna Grecia si chiamò Leuca, cioè Bianca, vedi S. Maria di Leuca.

IL VALLO DI ANTONINO
Il vallo fu abbandonato a venti anni dalla costruzione, quando nel 164 le legioni romane si ritirarono a sud del Vallo di Adriano. L'imperatore Settimio Severo giunse nel nord dell'isola per rendere sicura la frontiera e fece restaurare alcune parti del vallo. Sebbene la rioccupazione fosse durata solo pochi anni, il vallo Antonino è spesso chiamato Vallo Severiano.

Il Vallo Antonino era inferiore a quello di Adriano per dimensioni ed efficacia, ma la sua costruzione fu in ogni caso eccezionale, completato in soli due anni in una terra di confine fredda e ostile. La sua struttura era costituita da un banco di terra alto quattro metri con un ampio fossato sul lato nord e un percorso militare sul lato sud. Lungo il vallo si trovano ancora tracce di una bocca di lupo nei pressi del Rough Castle Fort. La maggior parte del Vallo Antonino è oggi distrutta, ma alcune sue sezioni sono ancora visibili a Bearsden.

Nel 2008 il vallo Antonino è stato nominato dall'UNESCO "Patrimonio dell'umanità" assieme al Limes germanico-retico" con il titolo di "Confini dell'impero romano"  


LIMES ORIENTALE

Era un sistema di fortificazioni a difesa dell'Oriente romano che collegava:

- Trapezus (sotto i romani dal 64 d.c. fu importante base navale sul Mar Nero, nella provincia del Ponto) con
- Aelana (nell'estremo sud di Israele) da cui costruirono una strada per collegarla con
- Petra, città nabatea
- per fronteggiare le popolazioni seminomadi di Nabatei, Arabi e Palmireni, dal regno d'Armenia
- e soprattutto dall'Impero dei Parti prima, e Sasanidi poi.


ll limes orientale era poi diviso in quattro settori:


LIMES PERSIANO
-  LIMES CAPPADOCIO E DEL PONTO EUSINO
Creato dall'imperatore Tiberio nel 17 con l'annessione della provincia romana di Cappadocia; unitamente a quello armeno (spesso al centro di guerre tra Romani e Persiani per numerosi secoli);


LIMES ARMENO
Per cui si batterono spesso Romani e Persiani per diversi secoli;


LIMES MESOPOTAMICO
Creato in modo discontinuo a partire dalle campagne partiche di Traiano del 114-117;


LIMES ARABICUS
LIMES ARABICO

Era una frontiera dell'impero romano posta nel deserto, nella provincia di Arabia Petraea (frontiera dell'Impero romano creata nel II sec.) che collegava l'Eufrate al Mar Rosso dopo circa 1.000 km, a difesa delle province di Siria, Arabia e Giudea/Palestina.

Si snodava, nella sua massima estensione, per circa 1500 chilometri, dalla Siria settentrionale alla Palestina meridionale, fino a raggiungere la penisola araba settentrionale. 

Su tutta la sua lunghezza si trovavano numerose fortezze e torri d'avvistamento.
Nei pressi del limes arabicus, Traiano costruì, tra il 111 ed il 114, un'importante strada, la Via Traiana Nova, da Bostra ad Aila sul Mar Rosso, per una lunghezza di 430 Km, per fornire un mezzo efficiente per il trasporto di truppe ed ufficiali governativi. Fu poi completata da Adriano.



LIMES AFRICANO

Il terzo e il più lungo da difendere, a protezione dei confini meridionali.

Era diviso in due fronti:
LIMES AFRICANO

- il fronte occidentale, comprendente le province mauretane, la Numidia e l'Africa proconsolare;
- il fronte orientale, formato dalle province della Cirenaica ed Egitto.

Era complessivamente costituito da almeno sei settori di limes lungo il fronte dell'Africa settentrionale. Si trattava del fronte meridionale a difesa dell'Impero romano.
Fu il "fronte" più lungo, ma il più semplice da difendere con i suoi 45.000 armati schierati durante i primi III secoli. Si estendeva da Rabat in Marocco, a Suez sul Mar Rosso in Egitto, e misurava in 
linea d'aria 4.000 km.

Fu costituito da numerosi sub-settori, che erano, da occidente a oriente:

DISPOSIZIONE DELLE LEGIONI ROMANE LUNGO
I CONFINI DELL'IMPERO (211 D.C.)
- Fossa Regia - che fu costruita al momento dell'annessione di Scipione Emiliano (nel 146 a.c.), con un semplice fossato;
Mauretania Tingitana - creato dall'imperatore Claudio nel 42 con l'annessione della provincia romana di Mauretania;
Mauretania Caesariensis - creato dall'imperatore Claudio nel 42 con l'annessione della provincia romana di Mauretania;
Numidia - creato al termine delle guerre giugurtine nel 105 a.c. con l'annessione dei territori della Numidia orientale a quelli della provincia romana d'Africa;
- Aurès - a sud dell'omonimo massiccio montuoso, si trovava tra quello poco sopra citato di Numidia ed il successivo Tripolitanus;
- Tripolitanus - della omonima regione si estendeva a sud delle due Sirti;
- Cirenaica - creato in epoca repubblicana nel 74 a.c. quando la regione fu annessa.
- Limes egiziano - creato da Augusto nel 30 a.c. con l'annessione della provincia romana d'Egitto.











LA MONETA PER L'ADE

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In via Fabrizio Luscino al Tuscolano, Roma, nel corso di lavori per la posa di cavi è stato scoperto il basolato di una strada romana con a fianco alcune tombe con tegole disposte in piano.

La via in basolato, del II sec. d.c. collegava la via Latina ad altezza Villa delle Vignacce alla Casilina; e uno dei defunti rinvenuti nella tomba aveva una moneta (un sesterzio) in bocca.

Secondo Plutarco, gli Spartani avevano un obolo di ferro del valori di quattro chalkus, secondo altri ne valeva otto.



GLI INFERI

Plutarco:“molte persone sono abituate a fare offerte ai defunti alla fine del giorno e alla fine del mese.”

Che gusto c'era ad andare nell'Ade? Nessuno, niente paradiso, niente visioni beate. L'Ade per i romani era la continuazione della vita terrena pertanto la sorte riservata alle anime dei morti non dipendeva dalle azioni “buone o cattive”, ma dall’ira o dal favore degli Dei. Per cui se si era stati "pius" cioè si era onorati gli Dei, si era più o meno alla pari con gli altri defunti.

Insomma per i romani non esisteva l'inferno, cioè il luogo di pena, ma solo gli Inferi, cioè il Mondo dei Morti, buoni o cattivi che fossero. Il problema per i morti era come raggiungere questo mondo, abbisognando per questo di funerali, ma soprattutto di avere la moneta da dare a Caronte per attraversare il fiume. Senza la moneta non riuscivano ad attraversare il fiume, ed erano condannati a vagare disperati lungo la riva per il resto dei tempi.

Tutto quello che i parenti del defunto potevano fare per lui era fargli una decente sepoltura, magari costruirgli o dipingergli la porta per il suo personale ingresso agli inferi, o semplicemente dargli la moneta per Caronte, il traghettatore dei morti.

Si sa però che venivano usati altri soggetti usati per le tombe dei cittadini comuni. I più frequenti sono :

- il "pavone" (uccello sacro a Giunone, che ogni anno perdeva le piume per riaverle in primavera. Il simbolo di rinascita e' anche nella sua coda che "sembra un cielo stellato", oppure che sembra abbia cento occhi), Se ne usava l'immagine oppure una piuma inserita nella tomba tra le mani del defunto.
- la fenice (felix fenix= la felice fenice) che risorgeva ogni cento anni dalle sue ceneri.
- l'"aquila" (che trasporta l'anima del defunto verso il cielo). Era l'immagine preferita dei romani ed era sacra a Giove.
- il "sette stelle" (sette pianeti collocati attorno ad un crescente lunare, "ogni cosa scompare per tornare a splendere di nuovo").
- si usavano pure le "lucerne", con soggetti legati all'ambito funerario. La lucerna doveva servire infatti al defunto per "illuminare" l'aldila'."
- i chiodi, uno o tanti a funzione opotropaica, ma pure per evitare il ritorno dei morti come fantasmi.

SEPOLTURA INDIVIDUALE

SALARIA ASCOLI-PICENO

"Generalmente gli oggetti di corredo rituale sono posizionati ai piedi dello scheletro, ma non mancano collocazioni diverse; chiodi con funzione apotropaica si sono rinvenuti tanto all’interno di piccole olle quanto deposti sulla nuda terra all’altezza dei piedi o tra i femori del defunto. 

Come da foto del reperto scheletrico indicato come “T.8. Sepoltura individuale”, consistente in un cranio che stringe ancora fra le mascelle l’Obolo per Caronte. La moneta in bronzo, veniva in genere collocata sulla bocca o sulle ossa frontali o nei pressi dello sterno. Un tributo per garantirsi un degno post mortem."

Tutto ciò indica che gli antichi popoli italici credevano nella reincarnazione,al contrario dei Romani. Questi popoli arcaici tanto vi credevano che alla morte del parente istituivano feste e banchetti (anche gli etruschi lo facevano. Nel banchetto veniva sacrificata una pecora al defunto, "pecus" da cui la parola pecunia, in quanto gli acquisti importanti venivano fatti anche dai romani arcaici barattando le pecore. Pertanto si suppone che la moneta sia la rappresentazione del sacrificio della pecora agli Dei dell'oltretomba.

E' interessante notare però che i romani vestivano i morti di bianco, ma i parenti vestivano di grigio o di nero, a indicare che il morto andava nella luce mentre essi restavano nell'ombra. Il che farebbe pensare appunto a un retaggio di reincarnazione, tanto più che il cimitero romano si chiamava pure "Novo Die", "Nuovo Giorno", chiara allusione alla rinascita.

CARONTE, IL TRAGHETTATORE DI ANIME

CARONTE

Caronte ("ferocia illuminata") era lo psicopompo, il traghettatore delle anime nell'Ade. Trasportava cioè le anime dei morti da una riva all'altra del fiume Acheronte (fiume dell'afflizione), un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell'oltretomba. Secondo altre tradizioni i fiumi erano Cocito (fiume dei lamenti) e Stige, (fiume dell'odio).

Cocito era un immenso fiume che delimitava il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti, in continuità con il più noto Acheronte, di cui era un affluente.

HERMES PSICOPOMPO
Molte altre tradizioni, comunque, attribuiscono il ruolo di spartiacque al fiume Stige, ed altre ancora al Flegetonte (fiume del fuoco) e al Lete (fiume dell'oblio).

Il culto dell'obolo è antichissimo, nei vasi funerari attici del V e IV sec. a.c.

Caronte è rappresentato come un rozzo un marinaio ateniese, trasandato, vestito di rosso-bruno, con un remo nella mano destra e la sinistra protesa a ricevere il defunto.

Comunque Caronte traghettava le anime solo se i loro cadaveri avevano ricevuto i rituali onori funebri. oppure, in un'altra versione, se disponevano di un obolo per pagare il viaggio.

Chi non aveva ricevuto nulla di ciò era costretto a errare in eterno senza pace tra le nebbie del fiume (o, secondo alcuni autori, per cento anni).

Caronte, nella mitologia greca, è figlio delle divinità primigenie Erebo (Oscurità dell'Ade) e Notte (Notte terrestre), con chiara allusione al mondo oscuro dei morti. viene citato nell'Eneide da Virgilio nell'Eneide:
"Caronte custodisce queste acque e il fiume e, orrendo nocchiero, a cui una larga canizie invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma, sordido pende dagli omeri il mantello annodato." (Virgilio - Eneide, Libro VI) 

eppoi:

« Egli, vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiaia, spinge la zattera con una pertica e governa le vele e trasporta i corpi sulla barca di colore ferrigno. »
(Virgilio - Eneide)

Caronte compare come Dio della morte in Plauto, Lucrezio ed Orazio, che lo presenta come un “dio che miete le sue vittime in alto ed in basso e non si lascia vincere da loro” (Orazio - Epistole) .

Diodoro Siculo fa provenire Caronte dall’Egitto, per altri sarebbe una divinità pelasgica, altri ancora lo identificano con la divinità “Mantus” degli etruschi, indicato anche con il nome di “Charus o Charùn” , con tratti a volte normali a volte orridi (spaventosi nell'ultimo periodo, quando gli etruschi stavano perdendo le battaglie con i romani).

THANATOS DIO DELLA MORTE
Caronte è connesso con Charopòs “dagli occhi luminosi” (Virgilio - VI libro - Eneide) “ con gli occhi di brace”, molto grato al popolo come emerge nei dialoghi di Luciano, per l’obolo che si poneva in bocca al morto come prezzo del tragitto.

Nel Caronte di Luciano di Samosata, Hermes, interrogato a proposito di usanze funebri, risponde: 
"le persone credono che i morti siano evocati da sotterra per banchettare, e che essi si aggirino intorno al fumo e bevano il miele versato nella fossa

E le divinità dell'Oltretomba, o Tartaro, o Ades?
Oltre ad Ade e Proserpina, la coppia regale degli inferi, vi sono varie divinità minori, ma solo perchè non seguite nell'impero ma solo in alcune aree.
- " Dei Mani " - Il culto degli antenati, gli spiriti dei defunti divinizzati. Di solito protettivi dei pronipoti.
- " Thanatos " - nella mitologia greca, la personificazione della morte, figlio della Notte (o di Astrèa, Dea Vergine stellare della Giustizia) per partenogenesi (o da Erebo), nonché fratello gemello di Ipno, Dio del sonno. Detto "Colui che governa la morte" e "Legione Suprema". Fa paura ai vivi ma non compete ai morti.
- " Letus " -  nella mitologia romana Dio della morte e della vecchiaia. E' un Dio italico precedente alla cultura ellenica. E' il Dio fatale temuto dai vivi ma non riguarda i morti.
- " Eternitas " - Dea con in mano una fenice, simbolo di resurrezione dopo la morte.
- " Spes " - la speranza, definita Perpetua in alcuni casi. E' l'ultima Dea.
- " Felicitas " - Dea dell'abbondanza, della ricchezza e del successo, ma solo dopo la morte.
- " Pax " (Eterna) - Come fine dell'eterno conflitto dell'uomo..
- " Tranquillitas " (Beata) - Come fine delle angosce.
- " Quies " (Quiete) - Fine dell'affannarsi.
- " Salus ", la salute - Nell'Aldilà niente malattie.
- " Vesta ", protettrice del focolare domestico - Dea del fuoco sacro che distrugge e rinnova il mondo..

MUSEO DI PESTUM

LA MONETA PER L'ADE

"Il parente più prossimo chiude gli occhi e la bocca del defunto, dopo avervi posto la moneta per Caronte (la prima istanza è nelle Rane di Aristofane 140; 279: due oboli; cfr. Hesych. s.v. danake et naulon). “

DANAKE
"Danake: questo è il nome di una moneta che nei tempi antichi davano ai defunti quando li seppellivano, come tariffa per la nave attraverso Acherousia. Acherousia è un lago/palude nell’Ade che i morti attraversano, ed essi lo attraversano dando la sopracitata moneta al traghettatore.” (Suda s.v. danake) 

La Danake era una moneta persiana che si usava come obolo dei morti, non è pertanto da escludere che i greci abbiano preso l'usanza di munire i defunti di una moneta dai costumi persiani. Ma d'altronde questa usanza è riscontrata nella maggior parte delle antiche civiltà in varie parti del mondo.


In Grecia

Nella Grecia antica c'era infatti la tradizione di introdurre una moneta sotto la lingua del cadavere prima della sepoltura. Secondo un'altra tradizione il prezzo era di due monete, poste sopra gli occhi del defunto.

OBOLO GRECO
Il rito greco dell'obolo di Caronte si estese a Roma ma con qualche differenza. La presenza di questa usanza a Roma attestata al 405 a.c., è il caso più antico, di epoca però più tarda rispetto alle prime sepolture. Questo ci fa comprendere che dovevano esistere vari riti prima dell'adozione dell obolo di Caronte. Secondo molti studiosi la moneta di Caronte, l'obolo, equivaleva a un sesto di dracma (0,568 g).

Il nome deriva dai pani di bronzo o di rame usati nei primordi come moneta, Obelos erano dei segmenti tra due punti (posti sopra e sotto al centro del segmento) che si scrivevano per correggere i testi. Sui pani si poneva lo stesso segno a indicare che ne era stato verificato il peso. L'obolo era coniato in argento, qualche volta in oro e in epoca più tarda anche in bronzo.


A Roma

Anticamente la moneta romana era l'aes grave (bronzo pesante), delle monete molto pesanti in bronzo dei primi tempi della repubblica. Oltre a Roma, diverse altre città e popolazioni dell'Italia centrale e meridionale emettono l'aes grave. Troviamo questa moneta in Umbria e in Etruria, soprattutto a Volaterrae (Volterra). L'aes veniva usato come obolo di Caronte. Questo evitava l'oro e l'argento perchè i ladri a Roma, paese multietnico, abbondavano ed entrare in un colombario non era tanto difficile.

Prima di questa data al posto delle monete venivano deposti nelle tombe semplici pezzi di ferro ( a volte avevano valore di premonetale, altri invece acquisivano valenza magica e recavano iscrizioni di maledizioni o di richieste magiche all'oltretomba).

Secondo alcuni studiosi la deposizione di una moneta nella tomba e' legata al voler "pagare" i misfatti del defunto per evitare che gli si ritorcessero contro. La moneta può dunque esercitare funzione apotropaica, allontana cioè il male dalla morte.

Il fatto che le monete venissero usate per "pagare" il traghettatore dell'aldila', può essere ricercato proprio nell'usanza dell'obolo di Caronte: ci sono fonti che rivelano che "quando Caronte accetta la moneta il defunto non può più tornare in vita"; inoltre dalla bocca secondo gli antichi usciva l'anima, per questo depositare una moneta sulla bocca del defunto era una garanzia di non ritorno in vita del defunto stesso.

Le monete hanno inoltre funzione talismanica,  a volte nelle sepolture erano presenti amuleti per proteggere il sepolcro da ladri, streghe e negromanti che eseguivano riti sui cadaveri.
Tacito ci mette al corrente di un rito sulle spoglie di Germanico, da parte di un negromante che ne aveva utilizzato i pezzi.

La tomba era un luogo di collegamento tra il mondo dei morti e quello dei vivi. A volte erano presenti condotti fittili vicino ad esse proprio per avere un certo "contatto", per permettere al visitatore di introdurre delle lastre di metallo con incise delle maledizioni (chiedendo aiuto e collaborazione ai defunti, prima dell'introduzione della moneta) o monete stesse.
Plinio, nella Naturalis Historia, ci riferisce come "le monete, essendo di metallo, sono in grado di mettere in comunicazione il mondo vivente con quello dei morti poiché il metallo viene estratto dalla Terra sede degli inferi".

INTRODUZIONE DELLA MONETA

Talvolta le monete sono ormai disciolte ma se ne coglie il verderame sulle mascelle o sui denti.  Le monete potevano essere deposte, nel caso di inumazione:
  • - sulla bocca - un richiamo all'obolo di Caronte, per non far uscire l'anima del defunto che si pensava uscisse dalle labbra. Ma pure uno scongiuro perché il morto non parlasse nel mondo dei vivi onde non turbare il loro sonno. Sia dentro la bocca, cioè sotto la lingua, sia poggiata sopra le labbra.
  • - sopra alla fronte - l'obolo pronto per la consegna, ben visibile per il rapido passaggio.
  • - a sinistra del cranio - mentre il lato destro era considerato attinente ai vivi, il lato sinistro era considerato un lato oscuro attinente ai morti.
  • - nella zona della testa - in luogo non imprecisato ma all'altezza della testa. 
  • - all'altezza del bacino - soprattutto nei paesi orientali
  • - a metà tomba o al centro della tomba - non dimentichiamo che leggeri movimenti tellurici possono aver spostato degli oggetti nelle varie tombe.
  • - ai piedi o fra i piedi dell'inumato.
  • - fra oggetti capovolti, cioè di un utilizzo nell'aldilà. L'oggetto capovolto (a volte spezzato) indicava l'inibizione ad usare l'oggetto nel mondo dei vivi, ma di proseguirne l'uso nel mondo dei morti.
  • - sugli occhi - alcune monete si ritrovano nel terriccio all'interno del cranio, durante la pulitura. Secondo Macrobio,  il metallo era in grado di neutralizzare gli influssi negativi che potevano provenire dagli occhi. Chiudere gli occhi del morto è a tutt'oggi considerato un gesto di pietà, ma anticamente era pure un gesto di scongiuro affinché il morto andasse nell'aldilà e non tornasse nel di qua..
  • - sul torace, come dire sul cuore.
  • - tra la mandibola (la moneta era collocata anche in bocca. specie sotto la lingua)
  • - nella mano -generalmente destra o sotto le mani incrociate sul petto (soprattutto nelle sepolture di bambini)

Le monete in caso di incinerazione:
  • -  i ritrovamenti sono per lo più nell'urna cineraria tra le ossa calcinate, in nicchie accanto all'urna o sotto altri oggetti di corredo.
La moneta non è mai correlata allo status del defunto, si trova nelle tombe ricche come in quelle povere. Sembra che l'Asse fosse la moneta sufficiente per pagare il traghetto e pertanto la più usata.

La moneta e' stata ritrovata insieme anche a fibule o chiodi in qualche caso (il chiodo aveva valenza magica, serviva ad "inchiodare" l'anima del defunto perché non uscisse dalla tomba (v.sepoltura donna romana alla cappuccina, Museo Guarnacci di Volterra; o l'urna di Vercelli, che era circondata da chiodi).

Le monete deposte nelle tombe degli imperatori erano "monete celebrative", di "consacrazione" (v. divi augusti, morte/rinascita, oppure soggetti legati alla morte dell'imperatore che "rinasce da divinità", condotto da un'aquila in cielo).

Alcune monete ritrovate in particolare nelle tombe di bambini presentavano dei fori. Questo significa che nella tomba potevano esserci "crepitacula" (ossia un gioco sonoro che nell'antica Roma era dato ai bambini: era formato da un bastoncino con una anello di ferro nel quale venivano inserite monete forate, una sorta di sonaglio..queste monete avevano raffigurate divinità protettrici femminili, probabilmente una scelta delle madri che volevano affidare l'anima del figlio nelle mani di una Dea pietosa.

BATTAGLIA DI LAGO REGILLO (496 A.C.)

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LA STORIA

Nonostante i Latini si fossero alleati con Roma per combattere gli etruschi, si accorsero ben presto che l'Urbe stava diventando potente e pericolosa, così i Latini smisero di esserle alleati, anzi si coalizzarono contro di lei.

I Romani rimasero pertanto soli ma la loro grande organizzazione, unita al loro coraggio e il grande amor di Patria fece si che Tusculum, per quanto appoggiata dalle città latine, venne sconfitta da Roma con la battaglia del Lago Regillo (496 a.c.), dopodichè l'Urbe riuscì a sconfiggere le città rivali, fino a costituire, nel 493 a.c., il Foeudus Cassianum, un trattato, dal nome dal console Spurio Cassio Vecellino, che stabilì i rapporti fra Roma e le altre città latine finchè queste non vennero assorbite dallo Stato romano (338 a.c.).


LA TRADIZIONE

E' ritenuta leggenda in quanto i documenti sembra siano andati perduti nell'incendio seguito all'invasione dei Galli di Brenno, e anche perché il risultato della battaglia, inizialmente sfavorevole ai Romani, si dice fosse deciso dall'apparizione dei Dioscuri: Castore e Polluce.

Può essere legittimamente ritenuto leggendario tutto ciò che non è scientificamente dimostrato da resti archeologici o documenti storici, ma allora tutte le religioni antiche e moderne dovrebbero essere considerate tali. Anche i sette Re di Roma sono stati considerati leggende ma i resti sul Palatino, dalle palafitte alla reggia, dimostrano che Roma fu abitata e che c'era una reggia, il tutto locato nel luogo riferito dalla "leggenda".

GIUNONE REGINA
Noi preferiamo usare, sia per la storia antica che per le religioni, il termine "tradizione". Molti archeologi, basandosi sulle tradizioni hanno scoperto siti fantastici, a cominciare dalla città di Troia.

Ora la tradizione riporta che una grande battaglia, decisiva per il futuro e l'esistenza stessa di Roma, venne combattuta presso il Lago Regillo un lago di origine vulcanica dell'agro tuscolano, nella piana fra Monte Porzio Catone e Finocchio, a pochi Km da Roma, prosciugato nel V o inizio IV sec. a.c. 

Oggi il sito (dove non c'è neppure un cartello a memoria dell'evento, è chiamato la piana di "Prataporci", o "Pantano Secco", e sembra aver preso il nome da un adiacente tempio di Giunone Regina. 

La Dea, detta anticamente Janua e poi Juno era molto venerata nel Lazio, a volte con gli attributi di Giunone Regina e Giunone Moneta.

L'anno della battaglia viene in genere reputato il 496 a.c.,anche se Varrone pone Aulo Postumio dittatore nel 499 a.c. con Tito Ebuzio console e magister equitum, nè si sa nulla del giorno o del mese, la stagione doveva essere ragionevolmente in primavera/estate, perchè anticamente non si combatteva nelle stagioni fredde. 

Furono Scipione e Cesare a contraddire per primi l'usanza onde sorprendere gli avversari.



L'ANTEFATTO

Sappiamo da Livio che Lucio Tarquinio il Superbo, dopo la cacciata, aveva cercato aiuto in varie città vicine. Gli rispose Porsenna, il lucumone di Chiusi, che però decise di interrompere i suoi attacchi a Roma oppure la occupò e governò per alcuni anni per poi abbandonare tutto e tornarsene a casa, probabilmente stanco delle continue insurrezioni.

MONETA A RICORDO DELLA BATTAGLIA
Tarquinio e i suoi seguaci, espropriati dei loro beni a Roma, dovettero rifugiarsi a Tusculum dal genero di Tarquinio, il dittatore Ottavio Mamilio, "longe princeps Latini nominis" (il più rappresentativo tra i Latini), come lo definisce Livio. I Tarquini si stavano adoperando per riprendere le ostilità con un supporto militare organizzato e Ottavio Mamilio si era attivato per formare una lega latina e per organizzare un esercito degno dei Romani.

Livio narra che, essendo consoli Tito Ebuzio Helva e Gaio Veturio Gemino (secondo Varrone nel 499 a.c.), fu assediata Fidene, conquistata Crustumerio e Preneste defezionò dalla Lega Latina passando con i Romani. Ora toccava ai Latini.

Nell'anno 498 a.c. nella Selva Ferentina si stabilì l'alleanza detta Lega Latina, di ben trenta città per demolire Roma. L'anno successivo i Latini conquistarono la fortezza di Corbium. Infine, nel 496 a.c., l'esercito della Lega, unito a una coorte di romani fedeli ai Tarquini, assommò a 40.000 fanti e 3.000 cavalieri.



LA BATTAGLIA

Mamilio aveva impiegato tre anni a preparare la guerra contro Roma, arruolando i Latini, poichè non aveva trovato alcun sostegno tra gli Etruschi.

« Al timore di una nuova guerra sabina si aggiungeva la notizia, abbastanza certa, che trenta città si erano strette in giuramento sotto l'impulso di Ottavio Mamilio. Fu così che nella città scossa da molteplici ansietà si affacciò per la prima volta l'idea di creare un dittatore.» 
(Tito Livio)

Roma reclutò allora il suo esercito, di gran lunga inferiore rispetto a quello nemico, di 24.000 fanti e 3.000 cavalieri, le solite 4 legioni rinforzate con le solite "alae" di cavalleria. Metà delle legioni, quindi 12000 uomini furono appostate fra Roma e Tuscolo al comando di Postumio per controllare i movimenti dei Latini. Questi, visto l'esiguo numero di romani iniziarono lo spostamento verso le forze nemiche. Perchè tanta fretta? Perchè erano di numero inferiore e in un attacco aperto i Romani avrebbero avuto sicuramente la peggio.

Ricordiamo che la maggior parte delle battaglie vinte dai Romani avevano forze quasi sempre inferiori ai nemici, ma supplirono con la strategia degli abili generali e la preparazione e organizzazione dell'esercito. Come terzo fattore c'era il valore della patria unito all'orgoglio della familia di appartenenza nonchè la gloria personale. 

Postumio fece allora venire da Roma il resto dell'esercito e dispose i suoi uomini fra il lago Regillo e il monte, in una strettoia più facilmente difendibile. Così, con un esercito di Latini, Mamilio marciò su Roma, intercettato però dall'esercito romano, a sua volta con un piano d'attacco per non farli giungere ad assediare l'Urbe. A capo dell'esercito romano c'era il console Aulo Postumio, appunto nominato dittatore, nei pressi del lago Regillo, non lontano da Tuscolo.

FONTE DI GIUTURNA
« Quando i Romani seppero che i Tarquini facevano parte dell'esercito dei Latini, furono spinti dall'ira ad attaccare immediatamente battaglia. E dunque questo scontro risultò più duro e sanguinoso di ogni altro: basti pensare che i comandanti non si limitarono a dirigere le operazioni Perfino Tarquinio Superbo che pure era appesantito e indebolito dall'età stava in prima fila [...] Il comandante latino  fece avanzare una coorte di esuli di Roma comandata dal figlio di Lucio Tarquinio. E proprio grazie ad essa  poté rialzare per un po' il livello dello scontro.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

Presenziavano dunque la battaglia sia l'anziano re Tarquinio, che il suo ultimo figlio superstite. Tra i Ronami c'era invece il dittatore Aulo Postumio, e come suo magister militum c'era Tito Ebuzio Helva.
Durante i duri combattimenti sia Tarquinio il Superbo che Mamilio rimasero feriti, come anche Tito Ebuzio Helva, comandante della cavalleria romana. Tarquinio il Superbo nonstante l'età si era scagliato contro Postumio ma fu ferito a un fianco e ricondotto in salvo dai suoi.  Livio narra che durante lo battaglia Ebuzio si scontrò corpo a corpo con Ottavio Mamilio e rimasero entrambi feriti, Ebuzio al braccio e Mamilio al petto. Ebuzio ferito si ritirò nelle retrovie.
Mamilio, comunque ritornò a combattere guidando la coorte dei fuoriusciti assieme al figlio di Tarquinio. Marco Valerio, fratello di Valerio Publicola, scorto il giovane Tarquinio spronò il cavallo e si gettò, lancia in resta, contro di lui che si ritirò fra i suoi. Valerio non desiste', fu ferito al fianco da un avversario e morì poco dopo.
A un certo punto Postumio si accorse che l'esercito romano cominciava ad indietreggiare di fronte al nemico, così ordinò alla propria coorte di uccidere chiunque fuggisse dal campo di battaglia.

« Quando il dittatore Postumio si rese conto di una simile perdita e vide che gli esuli stavano caricando con una foga inaudita mentre i suoi iniziavano a perdere terreno, ordinò alla sua coorte (un nucleo speciale di uomini che gli faceva da guardia del corpo) di trattare alla stregua di nemici chiunque avesse visto fuggire. La doppia paura distolse così i Romani dalla fuga e li respinse contro il nemico, risollevando le sorti della battaglia» 
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

MONETA DI AULO REGILLENSE
I romani stretti fra i nemici e la coorte delle guardie del corpo del dittatore, interruppero la fuga e ripresero il combattimento. Mamilio vedendo il pericolo si fece seguire da alcuni manipoli tenuti di riserva e si gettò nuovamente nella mischia.

Alla fine Mamilio rimase ucciso nella battaglia, mentre con una sua riserva di soldati, provava a portare soccorso a Tarquinio il Superbo, messo in difficoltà dagli attacchi di Postumio. Il legato romano Tito Erminio Aquilino (colui che aveva aiutato Orazio Coclite a difendere il ponte Sublicio) lo vide, gli si lanciò contro e lo uccise con un colpo di lancia; poi, colpito a sua volta, rientrò fra i ranghi per morire mentre gli si prestavano le cure.

Ma ancora una volta i nemici stavano prendendo il sopravvento. Allora Postumio chiese ai cavalieri di scendere dai cavalli e aiutare i fanti: (cosa che chiederà anche Giulio Cesare, secoli più tardi, ai suoi cavalieri). Per giunta Aulo strappò le insegne al vexillifer scagliandole in mezzo ai Latini.

Perdere le insegne era il più grande disonore per le legioni romane, i soldati di tali legioni avrebbero perso il rispetto di tutti i romani. Pertanto i legionari si riscossero e ricominciarono a reagire. 

« Essi obbedirono all'ordine; balzati da cavallo volarono nelle prime file e andarono a porre i loro piccoli scudi davanti ai portatori di insegne. Questo ridiede morale ai fanti, perché vedevano i giovani della nobiltà combattere come loro e condividere i pericoli »
(Tito Livio - A.U.C.)

Le sorti del combattimento si rovesciarono, i cavalieri romani risalirono sui loro destrieri e si diedero ad inseguire i nemici in fuga. Le insegne furono riprese. La fanteria tenne dietro. Venne conquistato il campo latino.

 Finalmente i Latini vennero respinti e il loro schieramento cedette. »
(Tito Livio - A.U.C.)

La battaglia dura e sanguinosa si risolse con la vittoria dei romani, e al dittatore fu concesso l'onore del trionfo in città, trionfo che Aulo Postumio dedicò a Cerere, e il senato gli concesse l'appellativo Regillense a completamento del suo nome.

Alla battaglia aveva partecipato come soldato anche il giovane Gneo Marcio, futuro Coriolano perché conquistatore di Corioli, che si distinse per il proprio valore, tanto da meritare la Corona Civica, la seconda onorificenza romana dopo la Corona di Obsidiana.
Per ottenere la Corona Civica un romano doveva salvare un altro cittadino romano in battaglia, uccidere il nemico e mantenere la posizione occupata fino alla fine della battaglia. Non era ammessa la testimonianza di un terzo, ma solo quella del cittadino salvato: condizione difficile in quanto il salvato avrebbe avuto l'obbligo di portare deferenza al salvatore, ma così fu.

I DIOSCURI

CASTORE E POLLUCE

Secondo la tradizione greco-romana i Diòscuri nacquero da Zeus e Leda, quando il Dio si era trasformato in cigno per possederla. Leda avrebbe così generato due uova: una con Castore e Polluce, e uno con Elena e Clitennestra.
Secondo un altro mito i due gemelli avrebbero avuto origine da Tindaro, re di Sparta, avendo come sorella Elena, oggetto della contesa a Troia.
Altri ancora raccontano che solamente Polluce e la sorella Elena fossero figli di Zeus, e dunque immortali; Castore sarebbe stato dunque figlio di Tindaro e destinato alla morte.
Ma per un altro mito ancora Leda partorì solo due gemelli, uno immortale e uno mortale, ma Polluce immortale chiese e ottenne da Giove che ambedue partecipassero del destino di vita e di morte, vivendo entrambi per sei mesi l'anno nell'Olimpo e per altri sei mesi nell'Ade.

Ora Postumio aveva chiesto in battaglia un aiuto divino ai Dioscuri, facendo voto di dedicare loro un tempio in cambio dell'evento miracoloso. Si videro allora d'un tratto comparire due giovani e splendidi guerrieri, nudi ma con un mantello rosso, armati di spada, lancia e scudo. Nessuno li conosceva ma i giovani montarono su due cavalli bianchi si gettarono a combattere nelle prime file trascinando i Romani alla vittoria.

Come la battaglia fu vinta i giovani sparirono, ma alcuni romani raccontarono che a Roma due splendidi cavalieri furono visti abbeverare i cavalli alla Fonte di Giuturna. Qui annunciarono in città la vittoria romana, per scomparire di nuovo.

VITTORIA DEL LAGO REGILLO (Musei Capitolini)

CONCLUSIONE

Postumio ed Ebuzio entrarono a Roma in trionfo; Postumio sciolse il voto innalzando presso la fonte Giuturna un tempio a Castore e Polluce. Il vecchio re Tarquinio terminerà i suoi giorni alla corte di Aristodemo, tiranno di Cuma.
I Latini dovettero accettare la supremazia di Roma. Ma i Romani furono clementi con loro, tanto che qualche anno dopo, verso il (462 a.c.), i tuscolani divennero i più fedeli alleati di Roma quando la città, stremata da una micidiale pestilenza, ne ricevette l'aiuto contro le popolazioni degli Equi e dei Volsci.

Quella piana circolare a destra di Osteria dell'Osa è l'ormai prosciugato Lago Regillo.


I ROMANI IN AMERICA

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Quel che hanno fatto i Vichinghi intorno all'anno mille, e cioè un'impresa assurda e impossibile, o almeno così parrebbe, quella di aver raggiunto e quindi scoperto l'America prima di Cristoforo Colombo, possono averlo fatto i romani ancora prima dei Vichinghi, anzi c'è chi sostiene di averne le prove.

Si obietta sulla difficoltà del navigare così a lungo perchè all'epoca non esisteva la bussola, ma tutti i popoli antichi possedevano carte stellari che funzionavano come carte nautiche. Si teneva la rotta attraverso le stelle, ma pure attraverso la conoscenza dei venti e ci si aiutava con le carte geografiche che non erano delle migliori ma qualcosa facevano.

Gli antichi Romani, ma anche i Greci, gli Indiani ed i Babilonesi, erano al corrente che la terra era una sfera che si spostava nell’etere. E tutti, anche prima che Aristotele lo scrivesse, erano certi che si potesse raggiungere l’India navigando verso Ovest. Nella Grecia arcaica in verità si riteneva che la terra fosse piatta, ma si ritiene che il primo a stabilire che la Terra avesse forma sferica sia stato Pitagora (VI sec. a.c.). Almeno 4 o 5 secoli a.c. si sapeva pure che la terra girava attorno al sole e non viceversa.

A Roma, nella "Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio spiegava che il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse è dimostrato dal sorgere e tramontare del Sole ogni 24 ore (un millennio e mezzo prima di Copernico).



LA TERRA PIATTA

La Christian Catholic Apostolic Church, gruppo religioso fondato da un predicatore scozzese, stabilì nel 1895 una comunità teocratica a Zion, nell'Illinois con 30 000 aderenti in tutto il mondo.  Si avvalse di una radio privata per propagandare la verità della terra piatta e volle che l'astronomia zetetica fosse insegnata nella scuola della comunità.

Nel 1956 un membro della Royal Astronomical Society, fondò la Flat Earth Society (Società della Terra piatta), a raccogliere l'eredità della scomparsa Universal Zetetic Society. La  NASA, negli anni sessanta, produsse fotografie della terra vista dallo spazio, provandone  la forma sferica. Tuttavia, per la Società il programma spaziale era una montatura e gli sbarchi sulla luna una finzione per far credere all Terra sferica. Questa teoria del complotto ebbe successo anche tra persone che non aderivano alla teoria della Terra piatta e fruttò alla Società numerose iscrizioni.

Nel 1971 subentrò a capo della società un texano che trasformò la società in un movimento che raccoglieva sostenitori di pseudoscienze contro le scienze consolidate. Ipotizzò un complotto contro la "Terra piatta" e pubblicò un articolo su Science Digest nel 1980: «L'idea di un globo rotante è una cospirazione fallace contro cui Mosè e Colombo si batterono...».
Ma la Chiesa cristiana aveva un occhio molto attento alle sacre scritture da molti secoli. La Christian Catholic Apostolic Churche aveva cercato di difendere la Bibbia come verbo sacro che non poteva sbagliare: se Giosuè aveva detto al sole e non alla terra di fermarsi, doveva essere così. Era il sole a girare attorno alla Terra e non il contrario. La fede doveva prevalere sulla scienza.Dalla Bibbia (Libro di Giosuè, cap. X)

12 Quel giorno, quando il Signore diede a Israele la vittoria sugli Amorrei, Giosuè pregò il Signore e gridò alla presenza di tutti gli Israeliti:
'Sole, fermati su Gabaon! e tu, luna, sulla valle di Aialon!

13 Il sole si fermò, la luna restò immobile, un popolo si vendicò dei suoi nemici'.
Questo avvenimento è descritto nel 'Libro del Giusto'; per quasi un giorno intero 
il sole restò in alto in cielo, senza avviarsi al tramonto.14 Un giorno come quello non c'è mai stato né prima né dopo di allora, quando il Signore ubbidì a un essere umano e combatté al fianco d'Israele.

La situazione era così seria che chi metteva in dubbio le conoscenze scientifiche della Bibbia incorreva nell'eresia, Vedi Galileo Galilei che dovette abiurare e mentire per salvare la pelle.

Poichè stava scritto sulla Bibbia la Chiesa tacciò di eresia chiunque sostenesse che fosse la terra a girare attorno al sole e non il contrario. Siccome l'eresia conduceva al rogo, nel medioevo e oltre, tutti, o quasi sostennero la teoria terricentrica, ovvero antropocentrica, perchè l'uomo si vedeva al centro del mondo terra e del mondo universo.

Per i romani la faccenda era diversa: Cicerone, Plinio, Tolomeo, Seneca, Strabone, Plutarco, Diodoro Siculo e Giulio Cesare, solo per citarne alcuni, erano certi che il mondo fosse sferico (cioè la Terra) e che ruotasse intorno a se stessa e intorno al Sole. Pertanto spiegarono molto bene che il giorno e la notte dipendono dal fenomeno di rotazione. Escogitarono invece diverse spiegazioni per il fatto che l’acqua degli oceani rimanesse allo stesso livello tutta intorno a questa “palla” che ruotava su se stessa nello spazio.
Però i romani di problemi religiosi non ne avevano e i loro studiosi, romani e non, potevano affermare di tutto. I loro Dei erano liberali.

VILLAGGIO VICHINGO-CANADESE

I VICHINGHI

Questa località della foto conserva i resti di un villaggio vichingo, l'unico accreditato al di fuori della Groenlandia, dove una ricerca archeologica di molti anni che ha rinvenuto abitazioni e oggetti utili alla sopravvivenza. L'insediamento risale a oltre 4 secoli prima dei viaggi di Cristoforo Colombo. Ora si sa che i Vichinghi andarono in America e la scoprirono verso l'anno mille. Essi erano un popolo tribale, dove ogni padre aveva diritto di vita e morte sui figli.
Molti pensano che il villaggio sia il leggendario Vinland, l'insediamento dell'esploratore Leif Ericsson (Islanda, 970 – 1020), sorto intorno all'anno 1000. La saga dei groenlandesi, narra che Leif cominciò a prepararsi nell'anno 1000 per seguire a ritroso la rotta di Bjarni. 

MAPPA DELL'ESPANSIONE VICHINGA
Trovò una terra coperta da lastroni piatti di roccia e la chiamò Helluland (terra delle pietre piatte), poi una terra piatta e boscosa, e la chiamò Markland (terra dei boschi), che si ritiene sia il Labrador.

Quando, dopo vari viaggi di esplorazione, tornarono su quella terra, Leif e i suoi uomini sbarcarono e vi si insediarono costruendo delle case. Rimasero lì per tutto l'inverno e osservarono il territorio e fu così che un guerriero scoprì l'uva: per questo, Leif nominò quella regione Vinland.

Un'altra saga nordica sull'esplorazione vichinga del Nord America, la Saga di Erik il Rosso, racconta che fu Leif a scoprire l'America, mentre mentre faceva ritorno in Groenlandia dalla Norvegia, intorno all'anno 1000, ma non se ne hanno le prove.

L'insediamento dell'Anse aux Meadows, questo il nome che venne dato al villaggio dagli scopritori, consisteva di almeno otto edifici, tra cui una fucina e una segheria, che doveva rifornire un cantiere navale.

Il sito venne utilizzato per soli tre anni e si crede, in base alle ricerche sia archeologiche che letterarie, che l'abbandono sia stato causato dalle pessime relazioni con i nativi americani che non gradivano ospiti.




I ROMANI

Invece alcuni ricercatori sostengono di essere in possesso di evidenti prove di uno sbarco romano nel II sec. d.c., o poco prima, in America, molto prima dunque dei Vichinghi.. La teoria è incentrata anzitutto, ma non solo, sul ritrovamento di una spada, che si pensa appartenesse a un legionario romano.

In effetti una spada, evidentemente risalente all'antica Roma, è stata rivenuta sulla costa orientale del Canada; è solo uno dei tanti indizi che indicano la presenza degli antichi Romani in America nel I - II sec. d.c. : ottocento anni prima di quello che è considerato il primo contatto tra Vecchio e Nuovo Mondo ad opera dei Vichinghi, e prima della riscoperta di Cristoforo Colombo nel 1492.

La maggior parte degli storici è però scettica, e crede che il manufatto possa esser stato immesso dopo la scoperta dell’America, insieme alle altre presunte prove. La spada in questione è stata largamente esaminata e risulta autentica, e così gli altri reperti. Viene da chiedersi chi avrebbe interesse a sacrificare preziosi manufatti per dimostrare il primato romano nella scoperta del nuovo continente. Tanto più che non c'è più nessuno a difendere la romanità, neppure in Italia.
La spada romana è stata rinvenuta sulla costa dell'isola di Oak, in Nuova Scozia, durante delle indagini del programma "La maledizione dell'isola di Oak" di History Channel per un tesoro che sarebbe lì sepolto.

L’Isola di Oak è in realtà al centro di una pluriennale caccia al tesoro, cominciata nel 1975, che ha ispirato il programma televisivo in onda su History Channel, giunto alla terza stagione. Jovan Hutton Pulitzer, che ha guidato lo show, e si è confrontato con gli accademici della “Ancient artefact Preservation Society”, ha ora pubblicato un documento in cui rimette insieme tutti gli indizi e le prove trovate per confermare la presenza romana sull’isola molto prima dell’avventura di Cristoforo Colombo.

LA SPADA ROMANA

LA SPADA 

Jovan Hutton Pulitzer, a capo delle ricerche, definisce la spada "un incredibile manufatto romano." Egli basa i propri studi sulle proprietà dei manufatti metallici che corrispondono a quelle di altri antichi manufatti romani. "Ha la stessa firma di arsenico e piombo di quelle romane. Siamo stati in grado di testare questa spada contro un altra simile e corrisponde, ".

Un'analisi della fluorescenza a raggi X (XRF) ha confermato che la composizione del metallo della spada è coerente con quella delle spade votive romane. Il test XRF usa radiazioni per eccitare gli atomi nel metallo e vedere come vibrano. I ricercatori possono quindi determinare che metalli sono presenti. Nella spada ci sono zinco, rame, piombo, stagno, arsenico, oro, argento e platino, pienamente rispondenti alla metallurgia romana: il bronzo moderno usa il silicone come elemento principale delle leghe, ma il silicone nella spada non c'è.

Alcune spade simili sono state rinvenute in Europa, ma non sono da combattimento perchè il ferro era migliore del bronzo. Quest'arma presenta una raffigurazione di Ercole sull'impugnatura e si ritiene sia una spada cerimoniale data dall'imperatore Commodo ai migliori guerrieri e gladiatori. Resta da capire come mai un legionario si porti dietro una spada da cerimoniale, se non per colpire l'immaginazione degli indigeni che non avevano a che fare con le spade.

In Italia il Museo di Napoli, che l'ha ritenuta autentica, ha creato delle repliche di una di queste spade e le ha poste nella sua collezione, però qualcuno si è chiesto se quella dell'isola di Oak non fosse anch'essa una replica.

Sebbene le repliche di Napoli siano identiche nell'aspetto alla spada di Oak,  i test sulla composizione della spada provano con certezza che non si tratti di una replica. La spada contiene anche un magnete per l'orientamento verso il nord, utile per la navigazione, che non è presente nelle repliche. Il magnete duro doveva servire per magnetizzare piccoli segmenti di ferro che dessero la direzione nord - sud. Si può obiettare che i romani non potevano conoscere le proprietà del magnete come bussola, ma non è esattamente così. 

A parte che i romani conoscevano i magneti, infatti Plinio il Vecchio scrisse sull'uso di magneti per curare problemi agli occhi, Greci e Romani già conoscevano la proprietà di attrarre il ferro che hanno i magneti naturali, e quindi di magnetizzare un pezzettino di ferro. 

Viene da pensare che se i romani si tenevano un magnetizzatore nella navigazione, sapevano che se magnetizzavano un pezzettino di ferro e lo ponevano in bilico su una vite, questo avrebbe tenuto sempre la stessa direzione. 

E sembra conoscessero un altro sistema, una bacinella d'acqua con un pezzetto di sughero sopra cui ponevano l'ago di magnete. La leggerezza del sughero e il galleggiamento permettevano l'allineamento del magnete. Era la direzione nord sud che non conoscevano ma conoscevano la Ursa Minor con la stella Polaris che indicava il nord.

Per chi afferma che i romani non la conoscessero basta ricordare che quando Pompeo, come afferma Lucano, scappando a seguito della sconfitta di Farsalo, navigava da Alessandria verso la Sirte, si orientò con le due Orse, tenendo a sinistra la stella Canòpo.

C'è da riflettere che aggiungere un magnete a una spada sia una trovata brillante. Un piccolo magnete è facile da perdere, una spada molto più difficile. Se invece si perdeva il pezzettino di ferro da magnetizzare un altro si poteva reperire, o se ne potevano portare più di uno.

I produttori di History Channel hanno ottenuto la spada da un residente locale che l'aveva ricevuta dalla sua famiglia dagli anni 40. Ritrovata attraverso una pesca illegale, si era taciuta la scoperta, fino al recente interesse mediatico sull'isola di Oak. La spada sarebbe stata trovata da un paio di pescatori, padre e figlio, alcuni decenni fa, ma venne tenuto nascosto per paura delle sanzioni ai cacciatori di tesori abusivi del Canada. 

TANIT E CAVALLO

MONETE CARTAGINESI

Monete d’oro di Cartagine sono state scoperte inoltre anche sulla terraferma nei pressi di Oak Island. Il team ha in programma di pubblicare la sua relazione all’inizio del prossimo anno. 

Il tesoro delle monete cartaginesi è stato rinvenuto alla fine degli anni 90 vicino l'isola, da una persona che usava il metal detector per hobby. 

Il dott. Burden, della Royal Canadian Geographical Society, ha confermato l'autenticità di due monete cartaginesi di 2.500 anni fa.

GRAFFITO DEO LEGIONARI (fig. 2)

IL GRAFFITO

Lo studioso sostiene inoltre che una serie di immagini scolpite dagli indigeni sulle pareti della caverna fig. (1 ,di Mi’kmaq, raffigurino proprio i legionari. Mentre la spada è inequivocabile, sulle immagini esistono delle perplessità.

Eppure a guardar bene l'immagine (2) gli uomini sembrano in marcia perchè perfettamente allineati, ognuno con uno scudo e una lancia sollevata. Difficilmente degli aborigeni si comporterebbero con tale disciplina. In qualsiasi antico graffito i guerrieri sono in ordine sparso, da ogni parte del mondo. Inoltre il capo sembra avere qualcosa in più sulla testa, che potrebbe essere benissimo un elmo piumato.

MAPPA DI OAK (Nuova Scozia - Canada )


LA NAVE ROMANA

Come riporta il giornale Boston Standard, alcuni esperti, che lavorano per un programma tv di History Channel, avrebbero trovato proprio nei pressi dell’Isola di Oak i resti di una nave di origine romana, che con tutta probabilità visitò quelle terre già durante il I sec. se non prima.

Il relitto è ancora lì e non è stato mai portato alla luce – ha concluso -. Siamo riusciti ad individuarlo e a osservare come si tratti, senza ombra di dubbio, di una nave romana. Purtroppo non sarà facile farsi dare un permesso di scavo dal governo della Nuova Scozia”. 

A sostegno della sua tesi, c’è anche la scoperta nel tempo di altri oggetti di epoca romana sull’isola, tra cui  un fischietto di un legionario nel 1901, e resti di piante usate per condire cibo e prevenire lo scorbuto. , uno scudo romano e una piccola scultura romana ritrovata a Città del Messico nel 1933. Ci sarebbe anche la presenza di una specie invasiva di piante che un tempo era usata dai Romani. 

Pulitzer spera che gli oggetti rinvenuti sull'isola e nelle vicinanze attirino l'interesse degli studiosi di tutto il mondo, e che l'area venga dichiarata un sito archeologico e quindi protetta, perché si possa indagare ulteriormente.



LE INDIE
LO SCUDO TROVATO IN OAK ISLAND

C'è da pensare che i Romani che andarono in America, se ci andarono, non sapevano che si trattava di una nuova terra. Le ritenevano sicuramente le coste orientali dell’India, errore in cui incapperà all'inizio pure Colombo. Altrimenti ne avrebbero dato notizie diffuse, ma era una realtà assolutamente impensabile, la scoperta di un nuovo continente.


Anche se molti scienziati Greci avevano teorizzato che tra l’India e l’Europa doveva esserci un continente che divideva l’oceano in due, i Romani credevano di più ad Aristotele secondo cui si poteva raggiungere l’India navigando verso Ovest.

D'altronde pensarono di aver trovato l'India esattamente come del resto la trovò Alessandro Magno, una strada già battuta. Alessandro via terra, i romani via mare.
Inoltre sia i Greci sia i Romani avevano navi foderate di piombo per proteggerle dai molluschi che divorano il legno in mare, il che dimostra che si trattava di navi che non navigavano costa a costa, ma rimanevano per lungo tempo in mare e quindi si esponevano sulle lunghe distanze.

Del resto Giulio Cesare fece una importante battaglia navale contro i Veneti (cioè i Galli) in pieno oceano Atlantico al largo delle coste francesi. Cesare narrò tutto puntualmente, teso com'era a pubblicizzarsi in veste eroica e vittoriosa presso i romani. La flotta romana era comandata dall’ammiraglio Bruto e disponeva di ben 240 navi, la flotta dei veneti aveva invece 220 navi, ma più grandi di quelle romane.
Vinta la battaglia Cesare chiede rinforzi a Roma per conquistare la Britannia e da Roma gli viene inviata una flotta che trasportava due legioni, cavalli compresi. Tutto questo è descritto nel De Bello Gallico senza enfasi particolare perché era cosa normale andare oltre lo stretto di Gibilterra e navigare in pieno oceano.

D'altronde le Colonne d’Ercole (l'uscita dal Mediterraneo dallo stretto di Gibilterra) furono superate dai Fenici, dai Cartaginesi, dagli Etruschi, dai Greci, dagli Egiziani e dai Romani. Ma il popolo romano era molto curioso, basti pensare che giunsero fino al Mare del Nord girandosi tutta l'attuale Inghilterra, che penetrarono in Africa alla ricerca delle sorgenti del Nilo, che giunsero probabilmente pure in Cina e che avevano un porto commerciale in India, Arikamedu, dove ogni anno, in era Imperiale, approdavano 150 navi mercantili scortate da navi militari romane.

Sappiamo che navi romane giunsero in Indonesia dove si procuravano il prezioso pepe e le varie spezie. Ma tracce della presenza romana sono state trovate in Corea, in Nuova Zelanda, e in Australia. I romani circumnavigarono l’Africa e a Nord sottomisero le Orcadi spingendosi, a quel che sembra, fino in Islanda. Tiberio, navigò con la sua flotta lungo tutto il mar Baltico. I romani avevano un porto alle Isole Fortunate (le Canarie) e a Madeira. Erano davvero un popolo di navigatori ed esploratori.

E poi:


Da: L’AMERICA IN REALTA' FU SCOPERTA DAGLI ANTICHI ROMANI, ECCO LE PROVE

In una conferenza a margine della rassegna bolognese di cinema archeologico “Storie dal Passato“, il divulgatore scientifico Elio Cadelo, dà una interessante anteprima della nuova edizione del suo libro “Quando i Romani andavano in America“, ricco di sorprendenti rivelazioni sulle antichissime navigazioni dell’umanità.

Un indizio forte si deve alle nuove analisi del Dna dei farmaci fitoterapici rinvenuti in un relitto romano davanti alle coste toscane: il naufragio avvenne a causa di una tempesta fra il 140 e il 120 a.c., quando Roma era ormai la superpotenza del Mediterraneo dopo la distruzione di Cartagine.

Su quella sfortunata nave viaggiava anche un medico, del quale il relitto ha restituito il corredo: fiale, bende, ferri chirurgici e scatolette chiuse contenenti pastiglie molto ben conservate, preziosissime per la conoscenza della farmacopea romana

Le nuove analisi dei frammenti di Dna dei vegetali contenuti in quelle pastiglie 
hanno confermato l’uso, già noto, di molte piante officinali, tranne due che– ha spiegato Cadelo nella sua relazione alla Rassegna, organizzata da Ancient World Society – hanno destato forte perplessità fra gli studiosi: l’ibisco, che poteva solo provenire da India o Etiopia, e, soprattutto, i semi di girasole“. 

Ma il girasole, secondo le cognizioni fino a ora accettate, arrivò in Europa solo dopo la conquista spagnola delle Americhe: il primo a descriverlo fu Pizarro, raccontando che gli Inca lo veneravano come l’immagine della loro divinità solare. Abbiamo successivamente accertato che il girasole era coltivato nelle Americhe fin dall’inizio del primo millennio a.c, ma ancora non avevamo alcuna traccia della sua presenza nel Vecchio Mondo, prima della sua introduzione a opera dei Conquistadores. 

E’ questo un altro tassello che si aggiunge ai moltissimi altri, spiegati nel libro di Cadelo, che documentano traffici commerciali insospettati: come il sorprendente rinvenimento – altra novita’ – di raffinati gioielli in vetro con foglie d’oro, provenienti da botteghe romane di eta’ imperiale: erano in una tomba principesca giapponese, non lontano da Kyoto. Si tratta di perline che i mercanti navali romani portavano spesso con sè, come oggetto di scambio. Ma non e’ necessario pensare che fossero proprio romani, i mercanti che le portarono fino in Giappone: quei gioielli potrebbero essere stati scambiati anche su altri approdi, prima di arrivare in Estremo Oriente. 

Peraltro, monete romane sono state restituite da scavi effettuati anche in Corea e perfino in Nuova Zelanda. Altre prove delle antiche frequentazioni navali americane di Fenici e Romani sono gia’ descritte nella prima edizione del libro di Cadelo, dove – fra l’altro – si sfatano alcune sconcertanti nostre ignoranze sulle cognizioni astronomiche dei nostri antenati: per esempio, c’e’ una poco frequentata pagina della “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio dove si spiega che il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse e’ dimostrato dal sorgere e tramontare del Sole ogni 24 ore (un millennio e mezzo prima di Copernico). 

E Aristotele si diceva certo che fosse possibile raggiungere l’India navigando verso ovest: se Cristoforo Colombo avesse potuto esibire quella pagina aristotelica, si sarebbe risparmiato tanta fatica durata a convincere i regnanti di Spagna a concedergli le tre caravelle.
UNA RIPRODUZIONE DELLA SCRITTA SULLA PIETRA

UNA PIETRA DALL'ANTICO ORIENTE?

Nel 1803, nell'Isola di Oak è stata rinvenuta una pietra ora nota come la 'Pietra dei 90 piedi'. Era stata trovata 90 piedi sotto terra (27 metri e mezzo circa) nella cosiddetta 'Cava dei Soldi'. I primi cacciatori di tesori dell'isola erano un gruppo di giovani che avevano visto una depressione nel terreno e una carrucola in una grande quercia lì vicino.

Per curiosità, scavarono nel terreno e trovarono delle piattaforme di legno a intervalli regolari di profondità e anche la pietra, che portarono in superficie. La cavità si riempì poi di acqua marina prima che gli scavatori potessero raggiungerne il fondo. Si teorizza che contenesse un tesoro e che fosse protetta da una trappola: un tino in cui calarsi e che avrebbe fatto annegare chiunque avesse provato a raggiungere il tesoro andando giù.

La pietra portata su conteneva dei simboli di origine ignota. Il reverendo A.T. Kempton di Cambridge, nel Massachusetts, ha affermato di aver decifrato lo scritto nel 1949, dichiarando che il tesoro era sepolto a circa 12 metri circa sotto terra.

Sebbene siano sopravvissute delle raffigurazioni di quella pietra, l'originale andò perduta nel 1912. Ma, a sorpresa, Pulitzer ha annunciato a Epoch Times di averla ritrovata, e le sue analisi – dice – mostrano che abbia forti legami con l'antico Impero Romano.

La pietra gli è stata consegnata da una persona coinvolta nella ricerca del tesoro sull'isola, che Pulitzer non può nominare pubblicamente (ma in privato Epoch Times è stato informato della sua identità). La famiglia dell'uomo ha recentemente parlato con Pulitzer e gli sta permettendo di analizzare la pietra.

Pulitzer afferma che la scritta sulla pietra è stata male interpretata nel 1949: secondo il ricercatore, il reverendo Kempton avrebbe interpretato come errori alcuni simboli, e altri li avrebbe mal compresi.

La scritta è stata analizzata con un programma che l'ha comparata a un database di vari linguaggi: c'è stato un riscontro del 100 per cento con una scritta legata all'antico impero romano. La sua esperienza in tecnologia e statistica ha aiutato Pulitzer a condurre l'analisi, secondo cui la scritta sarebbe uguale a un linguaggio proto-cananeo, anche detto 'proto-sinaitico'. Un antenato, cioè, di molte lingue del Vicino Oriente.

La scrittura sulla pietra dei 90 piedi sarebbe in una lingua di antichi marinai, derivante dal proto-cananeo, usata come lingua franca per la comunicazione tra i porti di vari popoli durante il periodo dell'Impero Romano, e mischia proto-cananita con proto-berbero (l'antenato linguistico delle lingue berbere del Nord Africa) e altri proto-linguaggi.



EROTE DORMIENTE IN PORFIDO IMPERIALE (IV sec.)
La scritta sulla pietra è ancora soggetta ad analisi presso università del Medio Oriente, da parte dei massimi esperti mondiali sulle antiche lingue del Levante. Pulitzer afferma che il suo team ha decodificato la scritta, ma sta attendendo la relazione finale prima di rivelare il significato e dove sono state fatte le analisi.

L'iscrizione era stata persa nell'antichità e riscoperta solo nei primi anni del 20° secolo da Hilda e Flinders Petrie. Dato che la Pietra dei 90 piedi è stata scoperta nel 1803, non poteva trattarsi di una falsificazione.

Pulitzer suppone che sia fatta di un tipo di pietra particolare chiamata porfido imperiale, che non esiste in Nord America. Le ulteriori analisi sulla pietra includeranno la verifica della sua composizione minerale.

Il naturalista romano Plinio Il Vecchio (23-79 d.c.) ha documentato in "Storia Naturale" la scoperta di porfido imperiale da parte del legionario romano Caio Cominio Leuga nel 18 d.c. La cava di Mons Porpyritis in Egitto è l'unica fonte nota.

Questo tipo di pietra era molto ben considerata dai Romani per i monumenti. La precisa posizione della cava era stata dimenticata dal IV secolo fino al 1823, quando venne riscoperta dall'egittologo John Gardner Wilkinson.


PROIETTILI DI BALESTRA

All'inizio di questo secolo, un cercatore di tesori ha scoperto un albero enorme, l'ha tagliato e ne ha scoperto tre colpi di balestra all'interno.

Evidentemente erano stati sparati da una balestra contro l'albero, poi l'albero, accrescendo il suo tronco, ha inglobato interamente le frecce.

SPILLONE RAPPRESENTANTE UNA BALESTRA ROMANA
La balestra era uno strumento romano, di certo mai usata dai nativi.

L'albero pare avesse circa mille anni quando è stato abbattuto (sig!).

I proiettili si trovavano in un punto a tre quarti dello spessore dell'albero, e questo suggerisce che l'albero sia stato colpito 300 anni prima di venire abbattuto, sebbene non sia noto quanto tempo fa sia stato abbattuto.

Una datazione più precisa dei colpi è stata realizzata in un laboratorio dell'esercito americano che si occupa di testare le armi. Nel programma "La maledizione dell'isola di Oak, Rick" e Marty Lagina, star del programma, hanno mostrato a Pulitzer i risultati dei test. Il laboratorio ha affermato che i dardi provengono dall'Iberia (Spagna), più o meno nel periodo di tempo in cui subiva le incursioni dei romani.



TOMBE SOTTOMARINE

Al largo dall'isola di Oak ci sono dei tumuli funerari sommersi. James P. Scherz, esperto di opere ecologiche e professore di ingegneria civile presso l'Università di Wisconsin-Madison, ritiene che questi sepolcri non siano stati fatti dai Nativi Americani.

«Ritengo che i tumuli sott'acqua siano di un antico stile marinaio, non nativo alla Nuova Scozia o appartenente alla tradizione Nord Americana».

Scherz ha detto in una relazione completa, che ci sono prove che suggeriscono che i Romani avessero raggiunto la Nuova Scozia.

La relazione ha tra i suoi autori anche Pulitzer e altri scienziati, e verrà pubblicata in primavera; Epoch Times l'ha visionata in anteprima.

TUMULO MARINO
«Guardando ai livelli oceanici noti in quell'area, grazie a dei dati sull'aumento del livello della superficie oceanica canadese, è possibile datare i tumuli a un periodo che va dal 1.500 a.c. al 180 d.c.» ha spiegato Scherz.

La cultura nativa locale dei Mi'kmaq non aveva la tradizione di costruire sepolcri. Il modo in cui sono fatti è simile a quello in cui li formavano le culture antiche dell'Europa e del Vicino Oriente. Scherz ha anche fatto notare che i tumuli avevano un allineamento astrologico. La squadra di Pulitzer ha studiato i tumuli sott'acqua usando dei metodi di scansione dalla superficie, e anche immergendosi per osservarli e fotografarli.

Mai sentito che i romani seppellissero i morti in acqua. Viene da pensare che solo chi non voglia far rintracciare i corpi dai carnivori debba sbarazzarsene nell'acqua, quando non si ha il tempo di scavare una fossa nè di innalzare una pira, oppure per una forte tradizione marinara.
L'aver navigato così a lungo poteva benissimo aver trasformato i legionari più in marinai che soldati. Di certo i nativi non ponevano nell'acqua i propri morti.



UNA PIETRA CON UNA MAPPA DI NAVIGAZIONE?

Per Pulitzer. questa pietra ha delle incisioni che sembrano di origine romana. Egli sta lavorando con degli esperti di lingue antiche per confrontare i simboli con altre incisioni romane e sospetta che si tratti di indicazioni per l'orientamento durante la navigazione. Ma viene da chiedersi per chi venissero scritte, per altri o per loro stessi affinchè non ne perdessero la memoria?

INCISIONI SU UNA PIETRA RINVENUTA NELL'ISOLA
DI OAK, PROBABILI LETTERE ROMANE
I Romani potrebbero aver chiesto l'aiuto di marinai di altri popoli sottoposti al loro dominio per intraprendere il viaggio, dato che loro stessi non erano grandi costruttori di navi o grandi marinai. I Cartaginesi erano invece noti per la loro abilità nella costruzione delle navi e, essendo sotto il dominio romano, è possibile che abbiano partecipato al viaggio, ipotizza Pulitzer.

Myron Paine, un medico e ingegnere  afferma nella relazione che è possibile che degli antichi marinai potessero, in tempi pre-Colombiani, «viaggiare a salti» fino all'isola. Avrebbero intrapreso un percorso con delle fermate in Gran Bretagna, Islanda, Groenlandia, Isola di Baffin, Cape Breton e infine Isola di Oak.

I romani d'epoca imperiale furono in realtà ottimi costruttori di navi, ne riprodussero e ne modificarono tantissime da ogni parte del mondo. Nei porti romani le navi non solo arrivavano e partivano ma si costruivano.

ANFORE ROMANE

SCOPERTE SIMILI IN BRASILE

L'Isola di Oak non è l'unico, né il primo posto nel Nuovo Mondo in cui sono stati rinvenuti artefatti romani. .Nei primi anni 80, l'archeologo Robert Marx disse di aver trovato una grande collezione di anfore a Guanabara Bay, a 24 km da Rio de Janeiro. Le anfore erano dei vasi a due manici usati dai romani per trasportare diversi prodotti.

Elizabeth Will, esperta di anfore romane che lavora presso l'Università del Massachusetts, ha confermato l'autenticità al New York Times: «Sembrano antiche, e considerandone il profilo, la struttura a parete sottile, e la forma dei bordi, suggerisco che appartengano al III sec. d.c.».
Il dott. Harold E. Edgerton del Massachusetts Institute of Technology, pioniere della fotografia sottomarina, ha anche lui sostenuto le affermazioni del prof. Marx.

Il governo brasiliano ha vietato a Marx di indagare ulteriormente sulle scoperte. Un ricco uomo d'affari, Americo Santarelli, ha affermato che le anfore fossero delle repliche fatte da lui, ma ne ha rivendicato solo quattro. Marx dice che ce ne sono in gran numero, in un solo punto: alcune sulla superficie del fondale, altre sepolte anche a più di un metro di profondità, suggerendo che si siano depositate parecchio tempo prima.

Marx sostiene anche che la Marina brasiliana non voglia che si indaghi ulteriormente sulla cosa. In articolo del New York Times, Marx ha riferito la confidenza di un funzionario governativo: «Ai brasiliani non importa del passato. E soprattutto non vogliono spodestare Cabral [Pedro Alvares, navigatore portoghese del XVI secolo] come scopritore».

E poi:





DA: COMPARE UN ANANAS IMPOSSIBILE NELL'ANTICA ROMA

Pratesi Fulco


(20 dicembre 1998) - Corriere della Sera

"Compare un ananas "impossibile" in un mosaico dell' antica Roma Pochi giorni fa, visitando il Palazzo Massimo alle Terme a Roma  e soffermandomi nella galleria 1a del secondo piano, quello dedicato agli affreschi, mosaici e stucchi del mondo classico, ho notato un pavimento a mosaico - fine I sec, a.c. e inizi I sec. d.c., proveniente dalla località Grotte Caloni, presso Roma - che mi ha letteralmente stupefatto. 
In esso, al centro di un piacevole motivo geometrico in bianco e nero, compare un riquadro centrale dove compare un cesto di frutta  dove compaiono alcuni fichi, delle mele cotogne, un grappolo di uva nera, alcune melagrane e... un ananas. 

Un ananas "impossibile" perche' questa pianta vive allo stato selvaggio nel Messico, nella regione di Panama, nella Guyana, in Brasile, eccetera, e arrivò nel Vecchio Mondo dopo i viaggi di Colombo. Si può favoleggiare di spedizioni oltreoceano o di importazioni nell' Africa occidentale, ove l' ananas e' coltivato soprattutto nelle regioni tropicali atlantiche, ma di certo ci deve essere una spiegazione meno fantasiosa. "

Qualcuno ha scritto che non doveva essere un ananas ma una pigna sopra cui un fantasioso romano aveva posto un ciuffetto d'erba, il che davvero sa di assurdo, anche perchè si tratta di una cesto di sola frutta.

Invece ci sono brani della letteratura del ‘500 in cui si parla del ritrovamento di tombe romane in America, e Plinio dice che il mais era molto coltivato nella pianura Padana. Ora il mais proviene dal Messico centrale, dove 10000 anni fa venne coltivato dalle popolazioni indigene. Come era arrivato a Roma?

Claudio Tolomeo (100 ... – Alessandria d'Egitto 175) fu un astrologo, astronomo e geografo greco di epoca imperiale, che visse e lavorò ad Alessandria d'Egitto, nella Prefettura d'Egitto dell'Impero Romano. E' considerato uno dei padri della geografia e fu autore di importanti opere scientifiche.

Ora nel planisfero di Claudio Tolomeo è rappresentata la costa del Sud America e la città di Cattigara, da cui si importava l’oro da tutto l’Oriente ma anche dal Mediterraneo, ed è proprio Tolomeo a indicare la rotta per giungere in America da quella parte.

Ma fa testo soprattutto l’Imperatore Giuliano, il quale affermò che “l’Oceano Atlantico è più grande del Mar Mediteranno, ma al pari di esso è stato completamente esplorato ed è sotto il dominio di Roma.”

I Romani erano abili battitori, cioè nell'esercito abbandonavano i compagni per lanciarsi alla scoperta del territorio. Le loro escursioni in territorio nemico erano romanzi. Riuscivano a tornare e riferire sull'esercito nemico, sul territorio e sulle risorse. Cesare ne fece un grande uso e da allora tutti gli altri.
D'altronde i legionari sapevano fare di tutto: costruivano accampamenti, case, torri, ponti, strade, forni, pozzi, sapevano di falegnameria, di metallurgia e di fonditura. Potevano forgiare armi bianche e armi d'assedio, sapevano fabbricare barche o navi, osservatori o trabocchetti, ed ebbero sempre un grande spirito di avventura.

CULTO DI ROBIGO - ROBIGA

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FASTI PRENESTINI DI REBIGO

Robigo, ovvero Robigus, fu la divinità romana della Ruggine del Grano, una malattia del frumento provocata da un fungo, lo si propiziava affinchè il grano non maturasse troppo presto favorendo la malattia. Sua moglie era Robiga cui erano dedicati i Robigalia, festa per la protezione del grano.

Questa divinità venne percepita come maschile dagli autori più antichi (Varrone  Verrio Flacco e Festo) che parlano di un Dio Robigus, mentre in età imperiale fu percepito come una Dea, in quanto autori come Ovidio e Columella e i cristiani Tertulliano, Lattanzio e Agostino parlano di una Dea Robigo ("Robigine"). Secondo alcuni il cambiamento avvenne per far corrispondere il genere della divinità con quello del nome comune robigo che in latino è femminile e indica la ruggine, ma non è credibile, perchè allora la Dea del grano Cerere doveva diventare il Dio Cerere.

GIOVE - ROBIGO
Secondo alcuni studiosi un Dio Robigus o una Dea Robiga sarebbero solo un'invenzione tratta dal nome di questa festa, in quanto i romani non onoravano divinità malvagie. Secondo altri invece esisteva un Dio Robigo e una Dea Robiga che era sua moglie.

Varrone, studioso della Tarda Repubblica narra che i Robigalia furono feste così chiamate dalla divinità Robigus, nume o personificazione dei malanni che potevano intervenire sulle culture. Aulo Gellio specifica la necessità di rabbonire questa divinità, ma nessuno ne specifica il genere. Columella cita invece Robigo come il malanno del grano, cioè la ruggine e dice che il sacrificio da offrire è il sangue e le interiora di un cucciolo non svezzato (catulus). Molti degli animali offerti dai romani agli Dei facevano parte degli animali da allevamento, mentre i cani venivano sacrificati nei riti privati ad Ecate o alle divinità ctonie, ma erano sacrificati nei riti pubblici dei Lupercalia e in due altri sacrifici pertinenti alla cultura del cereale.

Robigo è la ruggine del grano, di colore rossastro o bruno-rossastro. Sia Robigus che robigo si trovano anche come Rübig, evidentemente collegato al colore rosso (ruber), e pure il rosso del sangue ricorda il Marte dio dell'agricoltura e dello spargimento di sangue.

Altre feste in Aprile relative all'agricoltura erano i Cerealia, o festa di Cerere, della durata di diversi giorni a metà del mese, il Fordicidia il 15 aprile, in cui si sacrificava una mucca incinta, le Parilia il 21 aprile per la salute delle mandrie e dei greggi, ed i Vinalia , una festa del vino il 23 aprile. Varrone considera queste e la Robigalia, insieme a Megalensia della fine del mese dedicate alla Grande Madre, le originarie vacanze romane nel mese di aprile.

Il Robigalia è stato trasformata nella festa cristiana di Rogazione, per purificare e benedire la parrocchia e i campi e che si celebra appunto il 25 aprile del calendario cristiano. Il Padre della Chiesa Tertulliano prende in giro la Dea Robigo come una finzione pagana, ma non si accorge che la finzione è stata copiata dalla Chiesa.

SACRIFICIO ROMANO


LA SPIEGAZIONE

In epoca preromana erano onorate le Grandi Madri, con diversi nomi o attributi secondo la località e la lingua, in genere connessa al cereale fondamentale di quella terra, perchè era il cibo che assicurava la sopravvivenza. Come Madre Terra e quindi Madre Natura la Dea aveva tre aspetti, cioè era una e trina (e da qui si comprende da dove provenga la Trinità cristiana): dava la vita, accresceva e dava la morte, che fossero piante animali o umani. Il terzo aspetto, quello della morte era ovviamente il più temuto e veniva associato o a un aspetto guerriero della Dea, perchè la guerra porta la morte, o a un aspetto di malattia, di persone o del cereale di cui ci si nutriva. Robigo, la Rossa, era pertanto l'aspetto terrifico della Grande Madre che doveva essere ammansito coi riti e con le offerte. Poi con l'evolversi dei tempi e dei miti la Dea Vergine, cioè senza marito, faceva un figlio maschio che rappresentava la vegetazione che moriva e resuscitava ogni anno.

FESTA CRISTIANA DELLA ROGAZIONE

ROBIGALIA

Come ci narrano Plinio e Festo, la sua festività, detta Robigalia, si svolgeva il 25 aprile, il VII giorno delle calende di Maggio, ovvero nel periodo in cui spuntavano le spighe, presso il confine dell'agger romano. Si dice che questa festa sia stata istituita da Numa Pompilio,  Ovidio descrive nel quarto libro dei Fasti la cerimonia dei Robigalia: una processione di persone tutte vestite di bianco, guidate dal flamine quirinale, si dirige al bosco sacro del Dio al V miglio della via Clodia (attuale VI miglio della via Cassia) e qui il flamine recitava una preghiera alla divinità a cui sacrificava poi una cagna e una pecora bidente (cioè di due anni), insieme a incenso e vino.

Poi si svolgevano le gare di corsa con le bighe (ludi cursoribus) in onore di Marte e Robigo. Ma c'erano i Ludi maggiori e i Ludi Minori, e si suppone che nei Ludi Maggiori si facessero anche altri tipi di gare. Nel carro da corsa, i giovani conducenti dovevano aver acquisito esperienza con una biga prima di poter guidare quattro cavalli quattro cavalli (quadriga).
Si è supposto che a causa del cambiamento di genere della divinità sia cambiato anche il genere delle vittime, per cui in origine dovevano essere sacrificati un cane e un montone.

Il motivo del sacrificio canino è spiegato dallo stesso flamine a Ovidio: quando la "Stella del Cane" (cioè Sirio) appare in cielo inizia la stagione calda (canicola) e c'è il pericolo che le messi maturino troppo presto; per scongiurare questo pericolo viene sacrificato un cane (o cagna) in analogia al nome della costellazione. In realtà è probabile che il cane fosse sacrificato in quanto animale legato a divinità infere come Robigo.

Il Praenestini Fasti registrano che il giorno stesso della festa si celebravano anche i lavoratori del sesso: sia maschi che femmine. Come molti altri aspetti del diritto romano e della religione, l'istituzione del Robigalia è stato attribuito ai Sabini Pompilio Numa, nell'undicesimo anno del suo regno, come il secondo re di Roma. La presenza combinata di Numa e il Quirinale flamen può suggerire una origine sabina.


LEGIO III AUGUSTA

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La Legio III Augusta venne reclutata dai consoli  Gaio Vibio Pansa e Ottaviano (futuro Augusto) nel 43 a.c. e tra i suoi emblemi ebbe il cavallo alato Pegaso e pure il Capricorno (probabilmente sempre riferito ad Augusto).

Si pensa sia stata presente alla battaglia di Filippi del 42 a.c., in cui i triunviri Ottaviano e Marco Antonio sconfissero gli assassini di Cesare.

ARALDO DELLA III AUGUSTA
Sembra inoltre chelaterzalegioneprese parte allaguerra cheOttaviano eLepidocondussero controSesto Pompeo, che aveva occupatola Sicilia eminacciato l'approvvigionamento alimentaredi Roma.  
QuandoOttaviano ebbe vintoquesta guerra, attaccòLepido, e presela provincia d'Africa. Probabilmentela legionevenne inviata unquesta regionedopoil conflitto

Usava infatti consegnare case e terre attorno agli accampamenti in muratura che qui diventavano perenni a difesa dei confini dell'impero. I soldati che vi avevano combattuto conoscevano la regione e i suoi pericoli, per cui erano i più indicati per abitarvi, magari anche con le loro famiglie.

All'inizio dell'Impero si installò ad Ammaedara (Tunisia occidentale) il primo campo permanente (non ritrovato) della Legio III Augusta, la principale unità dell'esercito romano in Africa.
 

Comunquea partire dal 30a.c.in poi,la III legio stanziòpermanentementein Africa, anche se non erasempredi stanzanello stesso campo. Un'iscrizionelì rinvenutaci informa chei soldati avevano dovutocostruire una stradadaTacapsaai loroquartieri invernali, che dovevano essere locati a Theveste. I Romani infatti nel 75 fondarono Theveste, come fortezza legionaria e sede della Legio III Augusta, dove rimase prima di essere trasferita definitivamente a Lambaesis.  

Anche sel'Africaèdi solito una partetranquilladell'impero romano, la IIIAugustadovette entrare in azionenel17 fino al 24, quandocombattècontroTacfarinas, che aveva organizzatodiversetribùnumidicheeMauretanieinuna coalizione anti-romana. Forsequesta guerraè stata la causadel trasferimentodellalegionediAmmaedara.


Tacfarinas fu un condottiero numida, comandante delle forze ausiliarie che si ribellò e disertò, radunando intorno a sé un banda di irregolari. 

Raccogliendo poi il malcontento delle tribù indigene amministrate dai Romani, riuscì a porsi a capo della potente tribù dei Musulami e attirò a sé numerosi Mauri. 

Ottenne poi rinforzi dai re dei Garamanti, e pure dalla stessa provincia d'Africa (Tunisia), cosicché l'esercito romano doveva combattere su un fronte vastissimo. 

La guerra durò sette anni, e fu una delle più importanti ribellioni dei Berberi contro i Romani. Il primo scontro, nel 17, vide la vittoria della Legio III Augusta, si che i berberi ricorsero alla guerriglia. Nel 18, una subunità della III Augusta venne annientata dalla guerriglia di Tacfarinas, e il nuovo comandante, Lucio Apronius, punì i legionari, rei di codardia verso i compagni, secondo un costume ancestrale: la decimazione, cioè l'uccisione di un soldato ogni dieci.

Allora nel 19 Tiberio decise di trasferire temporaneamente, dalla Pannonia, l'intera IX Legione Hispana e distaccamenti legionari della legio VIII Augusta, agli ordini di Quinto Giunio Bleso che inflisse all'esercito di Tacfarinas una pesante sconfitta, ma non riuscì a ucciderlo o catturarlo.

Infine nel 24 il proconsole Dolabella riuscì a porre fine alla guerra, espugnando, dopo un lungo assedio, la fortezza di Auzea in cui si era asserragliato Tacfarinas che per non essere catturato si suicidò.
 
Sotto Traiano la fortezza legionaria della III Augustadivenne Lambaesis, dopo che quest'ultima era stata per lungo tempo posizionata prima ad Ammaedara (oggi Haidra) e poi dal 75 a Theveste. Lambaesis divenne così la sua definitiva destinazione a partire dal 100 fino alla conquista dei Vandali.

ARCO DI TRIONFO DI AMAEDDARA
In questo periodo, la III fu l'unica legione nell'impero romano che fu comandata da un senatore: il proconsole (governatore) dell'Africa. Si suppone si sia trattato di Velleio Patercolo, meglio conosciuto come l'autore di una breve storia romana. L'imperatore Caligola (37-41) ritenne che la faccenda fosse rischiosa, per cui fece comandante della III Augusta un Legatus Augusti pro praetore. 

Durante la confusione degli ultimi anni del regno di Nerone, il comandante della III, Lucio Clodio Macro, fu uno dei ribelli all'imperatore. Egli reclutò un'altra legione, la I Macriana Liberatrix, che supportò Sulpicio Galba, che divenne imperatore nel 69. Ma questi, poco riconoscente, non si fidava di Macro, per cui ordinò al procuratore Trebonio Garutiano di uccidere il comandante delle 2 legioni.

Nel gennaiodel 69, Galbaperse il controllodella situazione e venne ucciso, per cui scoppiò la guerra civile traOtoneeVitellio, unex governatored'Africa. La IIIAugustasi schierò conquest'ultimo, manon videbattaglia.Allafine dell'anno, la legionesi avvicinòad un altropretendente, Vespasiano, che fu in grado di portarela pacenell'imperoFu questo imperatore a ordinare il trasferimento della III daAmmaedaraaThevestenel 75.  

PRETORIO DI LAMBAESIS
A volte dei legionarivenivano inviatiad altre province. Infatti nel115, subunitàdella III vennero inviatein Siriaunendosi all'imperatoreTraianonella sua guerracontrol'imperodei Parti. Ci furono moltiferiti, per cui vennero reclutati deisirianiper rinforzare laIIIAugusta. (Le loro tombesono state trovate aLambaesis.) 
Nel 126, laIIIAugustadovette inviare dei suoisoldatia rafforzaresia laIIICyrenaicache laIIIGallica.

Sotto l'imperatoreAdriano (117-138), troviamo la IIIAugusta a Lambaesisin Numidia che, già occupata da un'unità ausiliaria, divenne unenormeinsediamento militare. Unafamosa iscrizioneda questo sito ha rilasciato molte notizie sullelegioni romane. In essa si informa che qui Adriano nel luglio del 128 tenne una adlocutio alle truppe dopo aver presenziato ad una loro esercitazione, iscrizione con importanti dettagli sull'addestramento delle truppe sotto il suo principato.

Tra i 132 e il136, una grandesubunitàservìnella guerra controBar Kochba, un pretendentemessianicoinGiudea. Una trentina dianni più tardi, delle subunitàhanno partecipato allacampagna contro i Partidi Lucio Vero

Conuna sola interruzionedi quindicianni, la III legio rimasequiper quasi due secoli, a guardia dell'imperocontro le tribùberbere, che potevano essere molto pericolose. La guerracontro i MoriduranteAntonino Pio(138-161) durò infattia lungo.


STELE COMMEMORATIVE DI LEGIONARI DELLA III AUGUSTA

Nel175, i Legionari diIIIAugustapreseroparte alla campagna contro i Marcomannidi Marco Aurelio, che portò isoldati africaniin Ungheria. Molti di loronon tornaronoperché vennerotrasferiti allaIIAdiutrix, una legionecheaveva soffertomolto durantela guerra.

L'imperatore Lucio Settimio Severo (193-197), che era africano, insignì la Legione con il titolo di Pia Vindex ('vendicatore Fedele') nel 193. Ciò suggerisce che la III Augusta abbia giocato un ruolo importante nella guerra civile dopo l'uccisione dell'imperatore Pertinace, anche se non abbiamo altre prove di questo.

Severo ordinò la costruzione di una serie di forti lungo la frontiera del deserto, come Ghadames, Gheriat el-Gharbia, e Bu Njem (il Limes Tripolitanus). A Lambaesis, i legionari della III sopravvissero forse proprio perchè posero le torri pentagonali vicino ai cancelli. Esempio unico per gli edifici della III Augusta.

Nel211-217, Caracallausò i legionaridella III Augusta diLambaesisdurantela sua guerraorientale.Sembra che durante il regno di Caracalla, ma pure in quello di Macrino (217-218), e all'inizio del regno di Eliogabalo (218-222), la terza abbia subito perdite contro le tribù del deserto. Venne pertanto rinforzata dai soldati della III Gallica, che era stata sciolta da Eliogabalo.

Nel 238, il governatore d'Africa usò questa legione per sopprimere la ribellione di Gordiano I e di Gordiano II, che erano diventati imperatori. Anche se la ribellione non ebbe successo, la guerra civile, che vide non meno di sette imperatori in un anno, venne vinta dal loro discendente Gordiano III, che sciolse la legione.

ARCO TRIONFALE DI LAMBAESI

Quindici anni più tardi, l'imperatore Valeriano ricostituì la III Augusta dandole il titolo "Iterum Pia Iterum Vindex" ( 'Ancora una volta fedele, ancora una volta vendicatrice').  

La rifondata III augustea dovette combattere una guerra lunga e difficile contro i "Cinque popoli", una pericolosa federazione di tribù berbere.  
La lotta durò fino al 260, e il comandante Caio Macrino Deciani potè erigere un monumento di vittoria a Lambaesis. Ma la situazione non era sicura tanto che questo insediamento militare fu fortificato più volte dopo questa vittoria. Nel 289-297, la battaglia ricominciò, e l'imperatore Massimiano fu costretto a prendere personalmente il comando delle forze romane in Africa e in Numidia. Il titolo "Pia Fidelis", che la III Augusta ricevette all'inizio del IV secolo, probabilmente le fu dato dall'imperatore Diocleziano, che condusse personalmente una guerra contro un governatore ribelle.  

Subito dopo la vittoria, la III Augusta lasciò Lambaesis, e anche se rimase nella regione, non sappiamo dove andò a stanziarsi. La legione infatti  è ancora menzionata alla fine del IV e l'inizio del V secolo.

PLAUTILLA

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PLAUTILLA
Nome: Publia Fuvia Plautilla Augusta
Nascita: 182 d.c. Roma
Morte: 212 d.c. Lipari
Coniuge: Caracalla
Padre: Gaio Fulvio Plauziano
Madre: Hortensia


Publia Fulvia Plautilla (187-211) fu il nome di una principessa romana, moglie di Caracalla, nonché augusta dell'Impero romano dal 202 al 205.
Plautilla era la figlia di Gaio Fulvio Plauziano, il prefetto del pretorio dell'imperatore romano Settimio Severo (.193-211), e una donna che era sua sposa o viveva con lui di nome Hortensia.

Plautilla sposò il figlio dell'imperatore, Caracalla, nel mese di aprile 202, e poiché le ragazze romane di solito sposavano all'età di quindici anni, probabilmente era nata nel 187.
All'epoca il padre non aveva ancora raggiunto la posizione per la quale sarebbe diventato famoso.

In realtà, egli era ancora un ufficiale equestre di umile rango in Africa, forse anche un esiliato.
La fortuna del padre di Plautilla migliorò quando il suo amico Settimio Severo divenne imperatore (193) e venne così promosso da questi a praefectus vigilum (comandante delle guardie di Roma).

Poi, nel 196, venne promosso a prefetto del pretorio. Divenne così uno degli uomini più potenti di Roma, e le nostre fonti sono generalmente ostili su di lui.
Pensiamo però che questa ostilità fosse un tentativo di ingraziarsi Caracalla che non vide mai di buon occhio la sua sposa e tanto meno la figura di suo suocero, autore del matrimonio con Plautilla.

Cassio Dione scrive di Plauziano:

"Aveva fatto castrare un centinaio di cittadini romani di nascita nobile. ... e non solo ragazzi, ma uomini adulti, e dei quali alcuni avevano moglie. Il suo scopo era che Plautilla, sua figlia, che Caracalla poi avrebbe sposato, dovesse avere solo eunuchi come suo seguito, in generale, e in particolare i suoi maestri di musica e altre branche dell'arte."

Questa è, naturalmente, una calunnia, nessun romano poteva castrare qualcuno, neppure gli schiavi, perchè sarebbe stata giudicata un'usanza barbara. Un cittadino romano poi non poteva assolutamente essere toccato, e men che meno un nobile. Il senato romano e gli imperatori ci tenevano a che i romani facessero figli, e se qualcuno avesse danneggiato la sessualità di un romano sarebbe stato messo a morte, chiunque egli fosse.

BRACCIALE CON L'EFFIGE DI CARACALLA E PLAUTILLA


GAIO FULVIO PLAUZIANO

Originario di Leptis Magna, come Settimio Severo, Plauziano, il padre di Plautilla, era di famiglia plebea ma si era distinto nell'esercito, apprezzato pertanto da altri generali tra cui anche il futuro imperatore Settimio Severo.

Questi, dopo aver ottenuto la porpora nel 193, lo inviò subito in Oriente, a catturare i figli del suo rivale. aspirante imperatore, Pescennio Nigro, che venne sconfitto, esiliato e poi ucciso nel 196.

Dato i successi di Plauziano. l'anno seguente Severo gli assegnò la prefettura del pretorio e, tra il 197 e il 202, ottenne i "consularia ornamenta" (un consolato onorario).
Come amico dell'imperatore, Plauziano aveva una influenza notevole, da cui derivò una vasta fortuna. Ottenne lo "ius gladii", cioè il diritto di vita o di morte in casi di necessità, e il clarissimato (la classe inferiore della gerarchia senatoria)
Sembra che fece morire il suo collega Quinto Emilio Saturnino, già governatore d'Egitto dal 197 al 200,  in modo da restare per lungo tempo unico prefetto del pretorio.

Con la sua influenza presso Severo ottenne che l'erede dell'imperatore, Caracalla, sposasse nel 202 sua figlia, Fulvia Plautilla. Divenuto consuocero dell'imperatore, Plauziano venne accettato nel Senato romano e la sua famiglia raggiunse il patriziato

Nel 203 ottenne inoltre il consolato ordinario assieme al fratello dell'imperatore, Publio Settimio Geta; contemporaneamente al consolato e al pontificato, ottenne la prefettura del pretorio, e in questo ruolo accompagnò Severo nella sua campagna contro i Parti.

CARACALLA

LE NOZZE

La calunnia, posteriore ai gravi fatti che seguirono, furono tentativi di blandire Caracalla imperatore infamando chiunque fosse da lui odiato e temuto.

Plauziano aveva fatto molto per l'educazione di sua figlia, facendola studiare filosofia e greco, facendole insegnare la musica, la poesia e la pittura. Egli sapeva che il matrimonio di sua figlia con il principe ereditario non solo gli avrebbe giovato alla carriera, ma avrebbe anche messo pace tra l'imperatore e la sua famiglia.

PLAUTILLA
Il matrimonio, stabilito dai genitori dei giovani, era stato programmato per l'aprile 203, quando l'imperatore avrebbe festeggiare il suo decennalia, cioè il decimo anniversario della sua salita al potere.

Per evitare che Caracalla potesse sposare una fanciulla aldisotto del suo rango, Plauziano, che era un semplice cavaliere equestre, doveva prima ricevere un consolato, che infatti ottenne nel gennaio 203. Il matrimonio ebbe luogo, fastoso e ricco come pochi, con rito romano e rito barbaro, ma fu un matrimonio infelice.

L'Augusta fu immediatamente immortalata nelle monete che la raffigurano con tratti di bambina, con la tipica pettinatura associata a Diana, pettinatura popolare tra le giovani donne romane. In seguito i suoi tratti facciali divennero più adulti, ed introdusse, nelle monete coniate in suo nome, un nuovo tipo di pettinatura rimasto di moda fino al V sec. Gli ultimi ritratti la raffigurano con la pettinatura usata dalla suocera Giulia Domna.

Già il volto della fanciulla fa capire quanto divenne dura e infelice, con una vera trasformazione della sua immagine in pochissimi anni.

Infatti Caracalla non la amò mai, neppure quando, appena quattordicenne, la sposò quindicenne, rifiutando di mangiare con lei e di giacere nel suo letto. 

All'epoca però i figli erano possesso dei padri e pertanto questi non si preoccupavano della felicità o infelicità dei figli, disponendone come più gli conveniva.

Cassio Dione riferì pure che Caracalla si fosse lamentato per la dissipatezza della moglie, che spendeva in abiti, gioielli e avvenimenti alla reggia.

Plautilla in effetti cercò di superare il suo dolore circondandosi di gente colta ed erudita, gente però che non fu mai apprezzata da Caracalla che era uomo piuttosto violento e di rozzi costumi. Invitò a palazzo uomini di cultura e poeti, principi stranieri e patrizi romani, sfoggiando abiti e gioielli, nonchè la sua raffinata erudizione.

Il motivo per il quale Plautilla ricevette grande attenzione iconografica sia nelle monete che nella statuaria fu a causa dell'influenza del padre, onorato attraverso la figlia, e per il suo ruolo di madre dei futuri eredi della dinastia dei Severi.

TESTA DI PLAUTILLA CON COLORI ORIGINALI
Caracalla però odiava Plauziano tanto quanto invece egli era caro a suo padre che ne fece uno strettissimo suo collaboratore. Al figlio di Settimio non restò che corrompere la guardia imperiale per inscenare un tradimento di Plauziano nei riguardi di Severo.

Infatti nel gennaio del 205 il ricco e potente Plautianus venne accusato dai pretoriani di complotto contro l'imperatore Severo e ucciso dalle stesse guardie dell'imperatore.

In suo onore vennero erette molte statue, ma a causa del suo vasto potere, venne percepito come un pericolo da parte di Caracalla e della sua influente madre Giulia Domna. Del resto Caracalla percercepì molte persone come pericolose, tra cui suo fratello minore Geta che fece uccidere.

Così Caracalla accusò Plauziano di aver organizzato un tentativo di assassinio di Severo, e ne ordinò l'esecuzione, avvenuta il 22 febbraio 205.

Dopo la sua morte, Plauziano venne colpito da "Damnatio memoriae": le sue statue vennero distrutte, il suo nome cancellato dalle iscrizioni, le sue raffigurazioni scalpellate dai monumenti pubblici.

I suoi due figli, Gaio Fulvio Plauto Ortensiano e sua sorella Flavia Plautilla vennero esiliati a Lipari nelle isole Eolie ed uccisi nel 211, subito dopo l'ascensione al trono di Caracalla.
Non solo Caracalla la fece uccidere ma la condannò alla damnatio memoriae, per cui i suoi ritratti vennero sfigurati, con interventi molto precisi, in genere sfigurandole il naso, come si usava in tali casi.

Ogni riferimento a Plautilla venne rimosso dall'Arco degli Argentari a Roma, da un pannello in cui era raffigurata col padre e dalla quarta riga dell'iscrizione.

Alcuni dei suoi ritratti furono rimossi ed immagazzinati con cura per un riutilizzo successivo, se è vero che esistono ritratti dell'epoca tetrarchico-costantiniana rimodellati a partire da quelli di Plautilla.











KLOSTERNEUBURG (Limes Pannonico)

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LA COLLOCAZIONE

Il forte romano di Klosterneuburg faceva parte dei forti del limes danubiano ed era il castrum più occidentale nel settore pannonico, presso la città di Klosterneuburg, del distretto di Wien-Umgebung, nella Bassa Austria.
La città di Klosterneuburg si trova a circa 13 km ad ovest da Vienna (Vindobona), sulla riva destra del Danubio, e confina a nord e ad est con le foreste della pianura del Danubio, a sud e ad ovest dalle alture della Selva Viennese (Leopoldsberg, Kahlenberg, Buchberg, Eichberg e Freiberg).

L'importanza militare di questo castrum stava nel fatto che guardava un'importante via di passaggio della valle di Kierling e del monte di Hadersfeld che conduce a Greifenstein, nel Sankt Andrä-Wördern.

Il percorso successivo coprì anche il glacis (spalto) occidentale di Vindobona, il percorso del limes da Carnuntum verso Lauriacum, due importanti accampamenti di legioni e un attraversamento del Danubio, che unisce il percorso dall'Oberleiser Berg a nord.

Però il percorso del limes, che proveniva dalla fortezza legionaria di Vindobona, non traversava il campo, ma si dirigeva direttamente al Buchberg, piegando a ovest verso la valle di Kierling per proseguire di nuovo verso il Norico.

Il castrum era posizionato nella parte più antica della città, sotto il monastero nella "città alta", collocata su una terrazza rocciosa tra il Danubio e le pendici del Buchberg, delimitata a nord e a sud da due corsi d'acqua, il Kierlingbach e il Weidlingbach.

Avanzi di campi permanenti d'età repubblicana e imperiale, si trovano in tutte le zone di frontiera dell'impero, costruiti in pietra e con edifici monumentali. Numerosissimi i campi romani del limes germanico - retico, lungo il Reno e il Danubio; le tracce più antiche di alcuni campi sul Reno risalgono all'età di Augusto.

Fu forte ausiliario (corpo dell'esercito romano reclutato fra le popolazioni sottomesse di peregrini, ovvero non ancora in possesso della cittadinanza romana) a partire dai Flavi (69 - 96) fino al V secolo. Fu un forte in legno e terra nel I sec. e un forte in pietra dal II al V sec.

KLOSTERNEUBURG SI TROVAVA A 13 KM DA VINDOBONA, L'ODIERNA VIENNA


LA STORIA

Il forte aveva il compito di sorvegliare l'attraversamento del Danubio e la principale via di comunicazione tra le due grandi fortezze legionarie di Vindobona e Lauriacum.

All'inizio fu occupato da una coorte di ausiliari (auxilia); dal II sec. invece vi subentrò una cohors milliaria equitata di 1.000 uomini. Il castrum era situato sopra una spianata rocciosa che dominava la riva destra del Danubio, presso l'attuale abbazia di Klosterneuburg.

Nei suoi pressi sono stati ritrovati i resti di torri di avvistamento, un insediamento civile (vicus) e una necropoli. Per quanto riguarda l'appartenenza di Klosterneuburg alla provincia della Pannonia non ci sono dubbi, ma si ignora il nome romano del forte, anche se alcuni studiosi protendono per Quadriburgium.

I RESTI

GLI SCAVI

- 1736 - Il primo ritrovamento avvenne nel 1736, durante la costruzione della nuova abbazia barocca, quando Prill scoprì un vaso con monete d'argento romane del periodo compreso tra Giulio Cesare e l'imperatore Decio.

- Inizi '800 - Nell'800, agli inizi del sec. durante la costruzione della cosiddetta "vecchia caserma", furono trovate delle altre monete; nel corso di questi stessi lavori, furono anche scoperti dei resti che si supponeva fossero tombe.

- 1834 - durante la ricostruzione della corte, vennero alla luce tre lastre con delle iscrizioni. In seguito delle copie di queste sono state murate da Maximilian Fischer.
Negli anni che seguirono venne alla luce una grande quantità di ritrovamenti con la costruzione del tratto ernestino, tra cui numerosi bolli laterizi del gruppo OFARN  con la legenda "OFARNVRSICINIMG". Bolli del magister figlinarum Ursicinus sono stati spediti fino alla provincia della Pannonia Valeria, e si trovano sia nel castrum di Göd-Bócsaújtelep, che nel burgus Dunakeszi.. I bolli "OFARN" sono databili al periodo degli imperatori Costanzo II (337–361) e Valentiniano I (364–375).
Dalla stessa area viene anche una iscrizione votiva (Votivara) di un Quintus Attius e una tavoletta con l'epigrafe "Q. Aeli Valentis opus" (Opera di Quinto Elio Valente).

Lo studioso Friedrich von Kenner, ne dedusse che «...nel luogo di ritrovamento si trovava un piccolo insediamento, della cohors I Montanorum, che era sotto il comando dei legati della Pannonia».
Da allora, i ritrovamenti in questo settore del limes si susseguirono e Karl Drexler ne dedusse che «...la direzione del cardine correva lungo l'attuale Bergstraße, mentre il decumanus si estendeva dalla Hohlweg, nei pressi della chiesa di santa Gertrude, lungo la Hundskehle».
- 1838 - ma il ritrovamento più importante avvenne il 23 luglio 1838: dalle rovine delle fondamenta sotto l'abside principale della chiesa abbaziale fu possibile individuare dei frammenti bronzei, che furono ricomposti da E. Stoy; ne risultò un diploma militare del tempo di Tito (13 giugno 80).
Inoltre emersero resti di muri e mattoni di epoca romana.

- Primi '900 - Nel '900 vennero poi alla luce:
- un frammento di una tegola con bollo circolare: LIIC.XIIIIG.MVI apposto dalla Legio XIV Gemina M(artia) VI(ctrix), 101-114 d.c.
- Bollo laterizio a forma di tabula ansata della legio XIV Gemina M V, 101–114 d. C., trovato nel chiostro dell'abbazia
- Bollo laterizio a forma di tabula ansata del gruppo OFARN (OFARNMAXENTIARP), trovato all'incrocio dell'abbazia, realizzato probabilmente dalle truppe ausiliarie del Noricum, fabbricato all'epoca di Massenzio poco dopo la metà del IV secolo d.c.

- 1904 - Con l'ampliamento dello scavo del muro romano nel seminterrato del monastero, avvenuto nel 1904, furono recuperati dei mattoni e una moneta del tempo di Valentiniano I.

DIPLOMA MILITARE
- Prima del 1936 - furono trovate antiche sepolture sia a inumazione che a cremazione, tuttavia  andate distrutte. Tra gli oggetti ritrovati un vaso del I o del II secolo.

-  1953 - su iniziativa dela BDA, l'agenzia federale austriaca per i monumenti, e sotto la direzione di Karl Oettinger, furono effettuati per la prima volta scavi scientifici nell'area del castrum, per studiare il palazzo dei Babenberg e dell'annessa Capella Speciosa, ma dopo che si imbatterono anche in resti di edifici romani, fu consultato anche l'Österreichisches Archäologisches Institut.
Si scoprì nel piazzale dell'abbazia, nell'area della Capella Speciosa, una costruzione funeraria tardo-antica, la Cella memoriae. All'interno della Capella fu ritrovato anche un complesso a più ambienti con tre absidi (un balineum).

A sud-est di questo edificio fu scavata anche una struttura absidale con pianta a U, in seguito interpretata come una torre tardo-antica a ferro di cavallo della II fase di pietra (torre che si protende dal muro di cinta su una pianta ad arco dalla fronte arrotondata). Tra questi si trovano anche resti di un muro della costruzione precedente (una torre rettangolare intermedia).
Entrambe le strutture sono  allineate lungo la parete sud-orientale del castrum (orientamento  nord-ovest/sud-est).

- 1960 - Durante ulteriori scavi, resti del muro del castrum e altre tombe con corredi funerari. Nella città alta e nella zona intorno alle vie Buchberg, Raffael-Donner, Jahn e Franz-Rumpler si è sempre ipotizzata la presenza dell'area cimiteriale di epoca romana a Klosterneuburg, che è confermata da numerosi ritrovamenti.

- 1970 circa - la torre tardo-antica a ferro di cavallo, e quindi i resti della parete quadrata sottostanti sono stati identificati come quelli dell'antica struttura preesistente.

- 1980 - furono identificati, nell'angolo nord-occidentale del chiostro vicino a un forno tardo-antico, i resti di una caserma risalenti alla I fase di pietra. Per far comprendere ai visitatori del monastero il passato romano di questo luogo, si progettò di coprire lo scavo con un soffitto di cemento: i resti sottostanti dell'edificio si sarebbero conservati e il sito archeologico sarebbe stato disponibile.

- 1991 - Durante dei lavori in via Buchberg al civico 3b, furono rinvenute altre parti del cimitero romano. Subito a nord di quest'area fu ispezionata una griglia di 14,5 × 11 m. e, a soli 80 cm di profondità, si raggiunse lo strato antico. I solchi nel terreno e i reperti ritrovati nei fossati laterali per lo scolo dell'acqua confermarono l'esistenza in questa posizione dell'arteria sud-occidentale del castrum, che doveva condurre fino alla „Schwarze Kreuz“, la croce cinquecentesca che si trova nella valle di Weidling.

- 1994 - Si riprese lo scavo del fossato del castrum, profondo 2,5 m e largo 2 m; Nel materiale di riempimento furono rinvenuti molti reperti, e fu notato un solido sbarramento datato alto e medio impero.

- 1998 - una demolizione in Leopoldstraße 17 riportò alla luce un edificio in cui si recuperarono ceramiche e frammenti di terra sigillata, e un frammento di una lorica squamata.

- 1999 - a circa 1,85 m sotto l'attuale piano di calpestio, venne portato alla luce uno strato di pietra da cava largo 2 m collocato su un sostrato di ghiaia.

- 2000 - lo strato di pietra fu finalmente identificato come la massicciata di una strada. Ad una profondità di 2,6 m fu nuovamente rinvenuto il tratto di strada romana già scavato nel 1999. La pavimentazione, larga 5 m, era delimitata da entrambi i lati da fossi, e indicava il tratto di collegamento tra la porta occidentale del castrum e il tracciato della strada del limes che passa lungo il Buchberg. Nell'antichità quest'area, corrispondente all'attuale Marktgasse, era attraversata da un ruscello e di conseguenza era sempre fradicia, rendendo necessaria una solida base per la strada.

- 2002 - lo scavo presso una fucina fu ampliato al cortile del decanato, dove emerse un muro che correva da nord-est a sud-ovest, su fondazioni di periodo romano. Questo muro in pietra con una legatura in malta si prolungava fino a una torre angolare del precedente castrum della I fase in pietra, che mostrava nell'insieme due fasi costruttive. Non sono state trovate tracce del forte in legno e terra.
Il muro meridionale, largo 90 cm, percorreva un arco di un quarto di cerchio; gli angoli erano arrotondati secondo modalità classiche. L'interno del muro della torre angolare adiacente aveva una pianta rettangolare. Successivamente all'angolo del castrum fu aggiunta una torre a ventaglio, che fu possibile scavare fino alla sua congiunzione con la parete. 

RESTI DEL FORTE

IL CASTRUM

Il castrum aveva una pianta rettangolare allungata con angoli arrotondati ed era anche circondato da un doppio fossato. La fortificazione, allineata al decumanus, formava un rettangolo allungato in direzione da nord-est a sud-ovest su una terrazza rocciosa leggermente a nord del Danubio e si estendeva su una superficie di circa 2,2 ettari.

L'estensione del castrum, tuttora non determinata, doveva avere una pianta rettangolare allungata, ampia circa 2,2 ettari. È noto a grandi linee l'orientamento degli assi principali della costruzione, che ha determinato anche le strutture medievali. Solamente le terme del castrum, sala e struttura a tre camere absidate sono ben documentate con le diverse fasi di ristrutturazione. Gli edifici militari sono stati identificati sotto il chiostro e sotto la cappella di san Leopoldo. A est dell'area nel 1953-1954, appena a ovest dell'ex palazzo di Leopoldo VI, fu identificata una torre d'angolo.

Nel XIX secolo era stato osservato un muro arrotondato, poco a nord della struttura poi identificata come torre a ferro di cavallo, che potrebbe essere identificato come la porta di accesso al castrum (porta principalis dextra).

Dopo la costruzione e i rifacimenti del castrum, al principio del IV sec. i confini difensivi sul Danubio furono riorganizzati. Le truppe della guarnigione di Klosterneuburg divennero di confine, i cosiddetti limitanei o ripariani. Le truppe, sempre più mescolate a causa delle guerre civili, delle invasioni germaniche e dei trasferimenti alle unità mobili degli eserciti, i comitatenses, lasciarono alla popolazione civile, tra la fine del IV secolo e l'inizio del V, gran parte dell'area del castrum.

Questo infatti si trasformò in un villaggio civile fortificato, un oppidum. Per completare le carenze di organico, si permise sempre più a organizzazioni tribali provenienti dal Barbaricum, cioè le tribù germaniche libere a est del Danubio, di insediarsi come federati a sud del Danubio, per partecipare alla difesa dei confini dell'impero.

Ciò accadde anche a Klosterneuburg, dove, tra gli altri reperti, le capanne di fango dei nuovi coloni (probabilmente Suebi o Marcomanni) sono identificabili come l'ultimo livello dei reperti antichi. La circolazione monetaria identificata non arriva oltre l'imperatore Onorio (395-423).

La maggior parte dei "romani" di Klosterneuburg (cioè residenti locali che vivevano secondo le abitudini romane) migrarono probabilmente nel 488, al comando di Odoacre, verso l'Italia. Alla fine del V secolo anche le capanne di fango furono bruciate; il castrum e il piano dell'abbazia furono abbandonati.



LE FASI COSTRUTTIVE

La prima fase costruttiva dei limes era sempre in legno e terra per il semplice fatto che nelle zone del nord abbondavano le foreste e scarseggiava la pietra. Il legno poteva essere molto spesso e duro, per cui poteva sostituire egregiamente la pietra. Del resto i soldati nordici, abituati al legno, non avevano sviluppato armi d'assedio poderose come quelle dei romani, ma si limitavano a incendiare i fortini. Per questo però, i romani rivestivano le pareti di legno in terra cruda.

LIMES PANNONICUS
I sistemi variavano dall'usare dei vimini o delle frasche su cui venivano pigiati gli strati di terra argillosa, oppure si creavano delle matrici in legno rettangolari entro cui si poneva spingendo l'argilla cruda. A volte invece si poneva la terra umida dentro dei cassoni di legno ottenendone dei travi che si ponevano uno sull'altro alzando la parete, questo però si usava quando scarseggiava anche il legno. A volte la terra in mattoni veniva essiccata al sole, ma questo si poteva fare solo nella stagione estiva che durava circa due mesi. Per il resto occorreva riferirsi al legno e la terra cruda.

Poichè nel nord europa abbondava il legno e la terra argillosa, i romani optarono per questa soluzione. Ricorrere alle pietre significava andarne alla ricerca talvolta in zone lontane e inoltre lasciar passare molto tempo prima che il forte fosse terminato. Dato che la legione era continuamente sotto attacco i romani preferirono innalzare i forti di legno e terra, e solo successivamente sostituire gradatamente il legno con i blocchi di pietra. 

D'altronde un forte di legno e terra non richiedeva molto tempo per essere eseguito dato che i legionari erano maestranze formidabili che sapevano fare di tutto e che si intendevano di tutto. In quanto ai generali e ai loro luogotenenti, erano tutti valenti architetti e direttori dei lavori, essi sapevano fare strade, ponti, acquedotti, edifici e fortezze.



FORTI IN LEGNO E TERRA

Verso la fine del I secolo il primo fortino fu realizzato in legno e terra, però ne ignoriamo le dimensioni. Le torri, come le mura esterne, le porte e le costruzioni interne, quali magazzini (horrea), baracche ed edifici amministrativi (principia) erano fatti di legno con le pareti ricoperte d'argilla.

L'interno del campo era diviso in praetentura nella parte frontale del forte, e la retentura nella retroguardia,  dove erano collocate le caserme e i magazzini, Poi c'era il praetorium con l'alloggio del comandante. Successivamente ci fu un ampliamento nella retentura, la parte posteriore del castrum opposta alla praetentura.

Il motivo della pianta stretta e allungata del forte può essere dovuto al cambiamento delle forze ausiliarie presenti al suo interno, agli inizi del II secolo, cioè quando la cohors quingenaria fu sostituita da una cohors milliaria.



FORTI DI PIETRA

Intorno all'anno 100, ebbe luogo (probabilmente al tempo della cohors I Aelia sagittariorum) la ricostruzione in pietra del muro del castrum. ma successivamente pure di una caserma con portico a pilastri e tetto di tegole, orientata da nord a sud.
Il massimo delle ricostruzioni in pietra, come ci mostrano i bolli di laterizi rinvenuti, avvennero tra la fine del II e l'inizio del III secolo. Gli edifici interni datati tra il I e il IV secolo sono stati scoperti, parzialmente conservati, nel chiostro del monastero. Nelle vicinanze è stato dissotterrato un forno del IV o del V sec.

Sul lato orientale è stato attestato, nella zona del campo, un balineum (bagno). L'angolo sud arrotondato con una torre angolare all'interno è stato scavato a est di Albrechtsgasse, e su di esso sarebbe stata in seguito eretta una torre a ventaglio.
Nelle vicinanze del cimitero di Buchberg è anche stato scoperto un ulteriore impianto di scolo (un fossato), che probabilmente una volta circondava una zona destinata alle marce e alle esercitazioni.

Sempre suffragati dai bolli laterizi, si eseguirono ulteriori costruzioni in pietra all'interno del castro nella prima metà del III secolo e lavori di restauro nel tardo IV secolo. . Nell'ultimo terzo del IV secolo fu costruita una cisterna, con materiale di reimpiego della necropoli medio-imperiale (I - III secolo) di Buchberg.

Presso la porta orientale: ritrovamento di due pietre miliari semilavorate presso le mura della porta e di un'ara e di una soglia presso il muro orientale del castrum. Si dovette scavare nuovamente il fossato difensivo per cingere la torre sud-orientale a ferro di cavallo.

Le ultime attività di costruzione nel castrum sono attestate da ritrovamenti dei laterizi del cosiddetto gruppo OFARN, verso la fine del IV secolo. In seguito la struttura iniziò a deteriorarsi. Interventi provvisori di tamponatura a secco del muro e la costruzione di abitazioni con un primitivo sistema in legno e argilla all'interno del castrum si possono ancora osservare nel V secolo.



LE TORRI

La torre con la sezione frontale a U, detta a ferro di cavallo, risale al IV secolo e sporgeva sia all'interno che all'esterno del castrum. Era costruita in parte sopra una precedente torre rettangolare demolita, con muro nella parte frontale di circa 1,50 m, all'interno di circa 1 m;

L'opera muraria sovrastante è in opus caementicium ricoperto da pietra squadrata di cava, mescolata con mattoni e un po' di malta. Il muro esterno è costituito da blocchi regolari squadrati, mentre per l'interno del muro sono state usati pezzi di pietra grezzi.

Nella parte posteriore si trova la porta di 1,10 m di larghezza con una soglia in due parti. La costruzione precedente, una torre intermedia rettangolare, risale agli inizi del II secolo. Le dimensioni sono di 4,20 × 4,80 m,.



LE TERME

Scoperte sotto il muro sud-orientale del forte durante la campagna di scavi degli anni 1953-54, nel chiostro di Klosterneuburg, hanno un impianto (balineum) orientato  nord-ovest/sud-est ed,diviso in tre ambienti riscaldati (Edificio A), che continuano a nord-est con una sala non riscaldata (Edificio B).

Aveva due absidi con vasche, fu in uso fino alla tarda antichità e, come le caserme fu ricostruita più volte. Dopo il ritrovamento dei bolli laterizi la sua ultima ricostruzione è stata datata alla fine del IV secolo. Mancano ancora indicazioni per il percorso dell'adduzione e dell'abduzione dell'acqua. Inoltre non vi è alcuna prova della presenza di bacini idrici. Se l'impianto è stato effettivamente utilizzato come terme, non può essere stato per un lungo tempo.
Edificio A

Nel locale I, che è stato allargato mediante due absidi, si trova il calidarium. Nell'abside laterale si trova il praefurnium. L'adiacente locale II è un tepidarium; riscaldato assieme al locale III, il cui praefurnium si trova nel lato nord-occidentale. Qui si trova anche l'unico accesso al percorso caldo delle terme. Probabilmente l'edificio A è stato ulteriormente esteso con le absidi quando il castrum è stato lasciato alla popolazione civile.
 Edificio B

L'edificio B venne costruito in un periodo successivo. Nell'abside sul lato sud-orientale è identificabile una natatio (piscina), forse uno spazio polifunzionale, che probabilmente racchiude sia le funzioni di frigidarium che di sala ricreativa. E' interrotto nella sua parte settentrionale da un cimitero di epoca successiva.

In base ai bolli laterizi ritrovati, l'edificio più vecchio dovrebbe essere collocato nel periodo di Valentiniano I o in quello dell'imperatore Teodosio I (379-395). Infatti si trovano anche laterizi e tegole del primo periodo dell'impero, ma questi potrebbero, in base ai resti di malta che ancora vi aderiscono, essere materiali di reimpiego..

Una seconda fase riguarda agli inizi del V secolo, e la sua fine è stata anche in questo caso causata da un incendio. I successivi interventi minori di aggiunte e restauri riguardano principalmente gli spazi riscaldati. Le tre aperture di passaggio del calore dal Tepidarium (II) al Calidarium (I) sono racchiuse solo con pannelli di laterizio. Sembra che siano state aggiunte a posteriori, perché non sono state erette come archi di mattoni in laterizio, come i passaggi di calore del primo periodo di edificazione.

RAPPRESENTAZIONE DEI CORPI AUSILIARI

LA GUARNIGIONE

Finora per Klosterneuburg possono essere identificate, tramite le epigrafi, tre Auxilia. Inoltre, grazie alla grande quantità di bolli sui laterizi usati, si può stabilire la presenza nel castrum di appartenenti alla legio X Gemina. Erano truppe presenti in prima linea come unità di vessillazione e per la fornitura dei materiali di costruzione.

- Cohors I Montanorum - Questa unità potrebbe aver stabilito il primo insediamento (80–103 d.c) nel castrum fatto con legno e terra, attestato principalmente dal diploma militare di Soione del 13 giugno 80 , al tempo dell'imperatore Tito. Probabilmente era insediata qui già verso il 101 – in collegamento con la legio XIII Gemina – durante la guerra ai Daci di Traiano, oppure già nel 92, nei pressi del castrum di Albertfalva, sul fronte sarmatico.

- Legio XIV Gemina Martia Victrix - La coorte potrebbe essere stata sostituita successivamente dalla legio XIV Gemina Martia Victrix, che, durante la guerra contro i Daci, era stata spostata nell'area di Vienna, nell'ambito dei necessari riposizionamenti delle truppe. Non è chiaro se il compito di queste truppe fosse solo quello di costruire il castrum o se avessero anche funzioni di guarnigione.

- Cohors II Batavorum - All'inizio del II secolo d.c. la II Batavorum nel 98 d.c. è documentata da un diploma militare datato 20 febbraio 98. In base ad alcuni frammenti di bolli laterizi questa unità avrebbe sostituito la prima Montanorum.
Un ulteriore diploma militare proveniente da Mautern an der Donau per gli anni 127/128–138 indica il loro attestamento nell'esercito provinciale norico.

- Cohors I Aelia Caesariensis milliaria (severiana) sagittariorum equitata - Dalla metà del II al IV secolo la cohors I Aelia Caesariensis di cavalleria di 1000 uomini entrò nel castrum di Klosterneuburg verso la metà del II secolo e vi rimase probabilmente fino alla fine dell'organizzazione militare romana nell'alto Danubio. La presenza di questa unità è attestata dalle epigrafi, usate come materiale di reimpiego, dei tribuni del II secolo:

Oltre alle lapidi è stata trovata una grande quantità di bolli laterizi riferiti all'unità, affiorati anche in altri luoghi del limes danubiano. Dato che l'unità è anche indicata da alcuni di loro col titolo di SEVERIANA, è certo che stazionasse a Klosterneuburg anche sotto l'imperatore Alessandro Severo (208–235). Tutto tace nel III secolo.

Invece nel tardo IV secolo e all'inizio del V sembra che una sola coorte delle truppe di confine riorganizzate sotto Diocleziano e Costantino, costituita da un'unità di cavalleria con alcuni foederati  della tribù germanica dei Marcomanni, abbia fatto servizio di guardia a Klosterneuburg fino alla fine della dominazione romana.



IL VICUS

Il vicus, cioè il villaggio, di Klosterneuburg è ricoperto dalla città sovrastante, pertanto finora non possiamo determinare l'estensione né identificare gli edifici maggiori.  Sappiamo che circondava il castrum con una forma semicircolare da est a ovest e si estendeva a est fino quasi al fossato difensivo. Come area doveva avere almeno l'estensione della sovrastante città medievale. La popolazione di Klosterneuburg ha goduto di un modesto benessere, come suggeriscono i resti delle case (pitture murali) e le ceramiche importate.

In base ai ritrovamenti  la popolazione tardo antica di Klosterneuburg non era costituita esclusivamente da romani, ma in gran parte da immigrati dalle tribù germaniche, che non erano presenti nel villaggio più antico.

Le necropoli del forte giacevano ai piedi del Buchberg, subito accanto alla strada extra-urbana, e quindi secondo la legge romana, che proibiva le tombe entro le mura dell'abitato. Per i cadaveri si eseguiva la cremazione.
Sul Limes tra Cannabiaca e Klosterneuburg nel 1909 furono trovati due altari votivi dedicati al Dio Silvano, di cui uno donato da un componente della Legio X Gemina.

MUSEO DI KLOSTERNEUBURG

DIPLOMA MILITARE ANNO 80 d.c.

« Imp(erator) Titus Caesar divi Vespasiani f(ilius) Vespasianus/ Augustus pontifex maximus tribunic(ia) potestat(e)/ VIIII imp(erator) XV p(ater) p(atriae) censor co(n)s(ul) VIII/
iis qui militaverunt equi[te]s et pedites in alis/ quattuor et cohortibus d[ecem] et tribus I Arva/corum
I civium Romanor[um II] Arvacorum Fron/[to]niana I Alpinorum I Montanorum I Nori/[cor]um
I Lepidiana I Augusta Ituraeorum II Lu/[censi]um I Alpinorum I Britannica II Astu/
[rum et] Callaecorum II Hispanorum III Thra/[cum V] Breucorum VIII Raetorum quae sunt/
in Pannonia sub T(ito) Atilio Rufo quinis et vic[e]/nis pluribusve stipendiis emeritis dimissis/
honesta missione item iis qui militant in a/lis duabus I civium Romanorum et II Arva/
corum et coh(o)rte VIII Raetorum et sunt sub eo/dem emeritis quinis et vicenis stipend[iis]/
quorum nomina subscripta sunt ipsis [li]/beris posterisque eorum civitatem dedit et/
conubium cum {cum} uxoribus quas [tun]c ha/buissent cum est civitas iis data aut
s[i q]ui cae/libes essent cum iis quas postea duxissent dum/taxat singuli singulas
Idibus Iuni(i)s/ L(ucio) Lamia Plautio Aeliano/ [C(aio) Mario] Marcello Octavio
Publio Cluvio Rufo / co(n)s(ulibus)/ [coho]rt(is) I Mon[t]anorum cui prae(e)st /
[Sex(tus) Ne]rianus Sex(ti) f(ilius) Clu(stumina) Clemens/ ex peditibus/ [Soio]ni Muscelli
f(ilio) Besso/ [des]criptum et recognit[um] ex tabula ae/nea quae fixa est Romae in Capitolio// Imp(erator) Titus Caesa[r divi Vespasia]ni f(ilius) Vespasia/nus Augustus [pontifex max]imus tribunic(ia) / potestat(e) VIIII im[p(erator) XV p(ater) p(atriae) cens]or co(n)s(ul) VIII / iis qui militaver[unt equite]s et pedites in / alis quattuor et co[horti]bus decem et tri/bus I Arvacorum I civium Romanorum II Ar/vacorum Frontoniana I Alpinorum I Monta/norum I Noricorum I
Lepidiana I Augusta / Ituraeorum I(I) Lucensium I Alpinorum I / Britannica II Asturum et Callaecorum II / Hispanorum III Thracum V Breucorum VIII / Raetorum quae sun{n}t in
Pannonia sub T(ito) / Atilio Rufo quinis et vicenis pluribusve sti/pendiis emeritis dimissis
honesta missio/ne item iis qui militant in alis duabus / I civium Ro[ma]norum et II
 Arvacorum et / coh(o)rte VIII Raetorum et sunt sub eodem / emeritis quinis et vicenis
stipendiis quo/rum nom[ina] subscripta sunt ipsis li/beris p[oste]risque eorum civitatem /
 dedit et [conubi]um cum uxoribus quas tunc / habuis[sent] cum est civitas iis data /
 aut si qu[i ca]elibes essent cum is quas / postea duxissent dumtaxat singuli / singulas
Idibus Iuni(i)s / L(ucio) Lamia Plautio Aeliano / C(aio) Mario Marcello Octavio Publio
Cluvio Rufo / co(n)s(ulibus) / cohort(is) I Montanorum cui prae(e)st / Sex(tus) Nerianus
Sex(ti) f(ilius) Clu(stumina) Clemens / ex peditibus / Soioni Muscelli f(ilio) Besso /
descriptum et recognitum ex tabula aenea / quae fixa est Romae in Capitolio post
ae/dem Fidei p(opuli) R(omani) in muro // L(uci) Pulli Sperati / [3]atini Rufi / Eutrapeli /
di Sementivi / P(ubli) Manli Lauri / M(arci) Stlacci Phileti / L(uci) Pulli Ianuar(i) »

« Imperatore Tito Cesare Vespasiano Augusto, figlio del divino Vespasiano, pontefice massimo, nove volte il potere tribunizio, acclamato imperatore quindici volte, padre della patria, censore, console per otto volte, a quelli che combatterono come cavalieri e fanti nelle quattro ali di cavalleria e nelle tredici coorti:
- la I Arvacorum, - la I civium Romanorum, - la II Arvacorum Frontoniana, - la I Alpinorum, - la I Montanorum, - la I Noricorum, - la I Lepidiana, - la I Augusta Ituraeorum, - la II Lucensium, - la I Alpinorum, - la I Britannica, - la II Asturum et Callaecorum, - la II Hispanorum, - la III Thracum, - la V Breucorum e la VIII Raetorum,
che si trovano nella Pannonia sotto Tito Atilio Rufo, sono congedati con la dovuta licenza (honesta missio), dopo venticinque anni o più di meritati stipendi; allo stesso modo anche a coloro che combattono nelle due ali di cavalleria:
- la I civium Romanorum
- e la II Arvacorum
- oltre alla coorte VIII Raetorum,
che sono nelle stesse condizioni di servizio di venticinque anni di stipendi, i nomi dei quali sono registrati; e diede agli stessi figli e discendenti la cittadinanza ed il diritto di contrarre matrimonio con le mogli che avessero, nel momento in cui a loro viene concessa la cittadinanza oppure nel caso fossero celibi con quelle che avessero preso moglie più tardi almeno una sola per ciascuno; alle idi di Giugno, sotto il consolato di Lucio Lamia Plautio Eliano e Caio Mario Marcello Octavio Publio Cluvio Rufo, tra i fanti della coorte I Montanorum, a cui è a capo Sesto Neriano Clemente, figlio di Sesto della Clustumina, di Soione Muscello  al figlio Besso, trascritto e ricordato sulla tavola enea che è posta sul Campidoglio di Roma, sul muro dietro il tempio della Fede del popolo romano. »
(Diploma militare dell'anno 80, oggi presso il Museo di Carnuntum, proveniente da Klosterneuburg, CIL XVI, 26.)
OF'ficinia A'uxiliares R'ipenses N'orica, "Officine degli ausiliari di frontiera del Norico".

GIUGNO

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GIUGNO

I Romani avevano 45 giorni di feriae publicae e 22 giorni di festività singole obbligatorie. Inoltre avevano 12 giorni di ludi singoli e 103 di ludi raggruppati su più giorni. Insomma circa la metà dell'anno era, o poteva essere, non lavorativa.

Ora giugno si presentava con 27 feste, quasi una festa al giorno, per questo il calendario delle festività era proclamato al popolo dai sacerdoti all'inizio di ogni mese. Se due feste cadevano nello stesso giorno si annunciava quale festività era operante, ma talvolta se ne festeggiava più di una insieme. 

Poichè in genere nella cerimonia i sacerdoti donavano al popolo antistante i pezzi cucinati degli animali sacrificati (mentre una parte spettava ai sacerdoti), e talvolta veniva dato anche del vino, si che, con le molteplici feste del mese, molta gente poteva sfamarsi almeno in parte. 



- I giugno - Festa delle Fabarie -
( fabariae Kalendae) erano le Calende di giugno, dove si offrivano agli Dei le fave novelle.

- I giugno - Templum Iunonis Monetae in Capitolio -
Festa in onore di Iuno Moneta, Giunone Ammonitrice. Si ricordava l'anniversario della dedicatio del tempio sul Capitolium effettuata da Furio Camillo (446 – 365 a.c.). nel 345 a.c. Nei pressi, tra la fine del IV e l'inizio del III secolo, venne costruita la zecca. Dall'epiteto della Dea presero nome le "monete".

- 1 giugno - Templum Martis apud Portam Capenam -
Festa celebrata in onore di Mars. Si ricordava la dedicatio del tempio di Marte presso Porta Capena all'inizio della via Appia.

- 1 giugno - Templum Tempestatis -
Festa celebrata per l'anniversario della dedicatio del tempio dell'antica Dea Tempestas, che presiedeva alle condizioni del tempo.

- I giugno - Carnaria -
Festa in onore di Carna, antica Dea latina protettrice dei cardini delle porte. Aveva un tempio sul Caelius, costruito da Lucio Giunio Bruto, primo console di Roma, nel 509 a.c..

- 3 giugno - Templum Bellonae ad Circum Flaminium -
Festa in onore di Bellona, Dea della guerra. Si ricordava la dedicatio del tempio fatto costruire nel 296 a.c. presso il Circus Flaminius, in Campus Martius, da Appius Claudius Caecus (350  – 271 a.c).

- 4 giugno - Templum Herculis Magni Custodis ad Circum Flaminium -
Festa in onore di Hercules Magnus Custos, Ercole Grande Protettore. Si ricordava l'anniversario della dedicatio del tempio sito presso il Circus Flaminius. -

- 5 giugno - Templum Semonis Sancus Dii Fidii in Quirinale -
Festa celebrata in onore di Semo Sancus Dius Fidius, antica divinità protettrice dei patti e dei giuramenti. Si ricordava la dedicatio, avvenuta nel 466 a.c., del tempio sul colle Quirinalis. Nel tempio venivano conservati i trattati.

- 7 giugno - Piscatorii Ludi -
Ludi celebrati con corse di cavalli.

- 8 giugno - Templum Mentis in Capitolio -
Festa  in onore della Dea Mens, la divinità della Mente. Si ricordava l'anniversario della dedicatio del tempio sul colle Capitolium, la cui costruzione era iniziata, su indicazione dei Libri Sibillini, nel 217 a.c. ad opera del praetor T. Otacilius Crassus, dopo la sconfitta del Lacus Trasimenus contro Annibale. Il tempio venne consacrato nel 215 a.c. dallo stesso Otacilius, allora duovir insieme a Q. Fabius Maximus, (che consacrò invece il tempio di Venus Ericina in Capitolio).

- 9 giugno - Vestalia -
Festa  in onore di Vesta, Dea del focolare, corrispondente alla Hestia dei greci. L'antico tempio di Vesta era nel Forum. Il 28 aprile del 12 a.c. l'imperatore Augustus consacrò un nuovo tempio di Vesta sul colle Palatinus.

- 9 giugno - Q.S.D.F. -
In due calendari antichi, alle date del 9 e del 15 giugno, si leggono le lettere Q. S. D. F., che Varrone e Festo spiegano così: "quando stercus delatus fas", alludendo al trasporto rituale dello sterco che si è accumulato nel corso dell'anno fuori dal tempio di Vesta. Lo sterco viene portato in un luogo apposito sul Campidoglio, forse nei pressi del tempio di Saturno, visto che uno degli epiteti del Dio è Stercolius. La cerimonia rappresenta un momento di purificazione del tempio, ma si riferisce anche alla concimazione dei campi. Invece secondo Ovidio lo sterco viene gettato nel Tevere. In ogni caso la purificazione del tempio segna il compimento dell'opera produttiva della terra e la preparazione di una stagione nuova. Col tempo il rito venne dimenticato.
Dal 9 al 15 giugno il Penus Vestae, all'interno della casa delle sacerdotesse, rimane aperto e le matrone vi si recano a piedi nudi. Tuttavia non sono ammesse nel penetrale, dove si conservano le cose sacre e dove possono entrare solo i sacerdoti; possono accedere solo nella zona esterna, dove si trovano il mortaio, il forno e quanto occorre per fare la mola salsa, focaccia di tritello salato e farro abbrustolito, per i sacrifici a Vesta e ad altre divinità. La focaccia ha un preciso rituale: il farro dev'essere raccolto dalle None alle Idi di Maggio a giorni alterni; le Vestali ne sgranano le spighe, lo pestano e lo macinano; ne fanno una schiacciata, salandola con una salamoia detta Muries, che secondo Festo è fatta con sale pestato e sciolto in acqua, poi prosciugato in forno.

- 9 giugno - Matralia -
Festa in onore della Dea Mater Matuta, protettrice della fertilità dei campi e degli animali. Il suo tempio venne innalzato nel Forum Boarium ai tempi del re Servio Tullio (.... – 539 a.c.). Nel 396 a.c. venne ricostruito da Furio Camillo e nel 212 a.c. venne restaurato dopo un incendio. Partecipavano al culto solo le donne sposate una sola volta. Non erano ammesse le schiave.

- 9 giugno - Festa di Iovis Pistoris in Capitolium -
Ovidio narra della consacrazione dell'altare di Iovis Pistoris, dopo la cattura di Roma da parte dei Galli nel 390 a.c.

- 11 giugno - Templum Fortunae in Foro Boario -
Festa in onore della dea Fortuna. Si ricordava la dedicatio del tempio costruito nel Forum Boarium. La dicitura di tempio della Fortuna virile è riconducibile alla Dea Fortuna cui i giovani lasciavano la toga praetexta entrando nella virilità. A questa Dea Servio Tullio dedicò il tempio nel Foro Boario, per cui tutto lascia presupporre che fosse la dedica più antica, trasformata poi in Mater Matuta con figlio Portunus in braccio, e infine dedicata al solo Dio Portunus.

- 13 giugno - Templum Iovis Invicti -
Festa in onore di Iuppiter Invictus, ossia Giove che non consente la sconfitta e dona la vittoria. Si ricordava la dedicatio del tempio.

- 13  giugno - Quinquatrus Minores -
Feste celebrate  in onore della Dea Minerva.

- 14 giugno - Quinquatrus Minores -
Feste celebrate  in onore della Dea Minerva.

- 15 giugno - Quinquatrus Minores -
Feste celebrate  in onore della Dea Minerva.



- 15 giugno - Q.S.D.F.  (Quando Stercum Delatum Fas)
In due calendari antichi, alle date del 9 e del 15 giugno, si leggono le lettere Q. S. D. F., che Varrone e Festo spiegano così: "quando stercus delatus fas", alludendo al trasporto rituale dello sterco che si è accumulato nel corso dell'anno fuori dal tempio di Vesta. Lo sterco viene portato in un luogo apposito sul Campidoglio, forse nei pressi del tempio di Saturno, visto che uno degli epiteti del Dio è Stercolius. La cerimonia rappresenta un momento di purificazione del tempio, ma si riferisce anche evidentemente alla concimazione dei campi. Invece secondo Ovidio lo sterco viene gettato nel Tevere. In ogni caso la purificazione del tempio segna il compimento dell'opera produttiva della terra e la preparazione di una stagione nuova. Col tempo il rito venne dimenticato.
Dal 9 al 15 giugno il Penus Vestae, all'interno della casa delle sacerdotesse, rimane aperto e le matrone vi si recano a piedi nudi. Tuttavia non sono ammesse nel penetrale, dove si conservano le cose sacre e dove possono entrare solo i sacerdoti; possono accedere solo nella zona esterna, dove si trovano il mortaio, il forno e quanto occorre per fare la mola salsa, focaccia di tritello salato e farro abbrustolito, per i sacrifici a Vesta e ad altre divinità. La focaccia ha un preciso rituale: il farro dev'essere raccolto dalle None alle Idi di Maggio a giorni alterni; le Vestali ne sgranano le spighe, lo pestano e lo macinano; ne fanno una schiacciata, salandola con una salamoia detta Muries, che secondo Festo è fatta con sale pestato e sciolto in acqua, poi prosciugato in forno.

- 19 giugno - Templum Minervae in Palatino -
Festa celebrata in onore di Minerva. Si ricordava la dedicatio del tempio sul colle Palatinus.

- 19 giugno - Dedicatio della Aedes Minervae in Aventino - 
Festa per la ristrutturazione del tempio dopo una distruzione. 

- 20 giugno - Tempio del Dio Summanus -
Un tempio in onore di Summano costruito nel 278 a.c. sorgeva presso il Circo Massimo. Ogni 20 giugno, al solstizio d'estate, ricorreva la festa del Dio al quale venivano fatte offerte e sacrifici di animali. Nel 197 a.c. però questo tempio venne colpito da un fulmine che colpì proprio la statua del dio, staccandogli la testa che cadde nelle acque del Tevere.

- 24 giugno - Fors Fortuna -
Festa in onore di Fors Fortuna. Fors non era il Dio maschile equivalente alla Dea Fortuna, come alcuni hanno interpretato. Le fonti latine attestano in Riva destra il culto pagano della Dea Fortuna, la forte, "Fors, huius aedes Transtiberim est". Ne sono noti tre templi: uno a Pietra Papa, uno al complesso arvalico della Magliana e uno agli Orti di Cesare. Inoltre esistevano due templi dedicati a Fors Fortuna, entrambi in Trastevere. Inoltre c'era un santuario di Fors Fortuna al primo miglio della via Campana.

- 27 giugno - Templum Iovis Statoris in Via Sacra -
Festa in onore di Iuppiter Stator, Giove che ferma la fuga, che rimane stabile in battaglia. Si ricordava la dedicatio del tempio sulla via Sacra. Il tempio venne costruito per un voto del console M. Atilius Regulus fatto nel 294 a.c. durante una battaglia con i Sanniti. Analogo voto si dice sia stato fatto da Romolo durante la battaglia con i Sabini. Un altro tempio di Giove Statore venne costruito nei pressi del Circus Flaminius da Q. Caecilius Macedonicus dopo il suo trionfo del 146 a.c.

- 27 giugno - Aedes Larium in Via Sacra -
Festa in onore dei Lares, divinità protettrici etrusche e romane. Si ricordava l'istituzione della aedes a loro dedicata sulla via Sacra. I Lari comprendevano:
- Lares praestites: protettori della città.
- Lares domestici, Lares familiares, Lares patrii, Lares cubiculi: protettori della casa.
- Lares compitales: protettori dei crocicchi.
- Lares permarini: protettori sul mare.
- Lares rurales: protettori dell'agricoltura.

- 29 giugno - Templum Quirini in Quirinale -
Festa per l'anniversario della dedicatio del tempio del Dio Quirinus sul colle Quirinalis.

LUGLIO

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Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile” (Plutarco, Vita di Romolo, 1,8)

"Mensis pro Caius Iulius Caesar nominatum est".
Luglio, cioè IULIUS, era il mese dedicato a Giulio Cesare e alla gens Iulia, che aveva dato i natali anche ad Augusto. Non a caso ben undici giorni del mese venivano festeggiati con i Ludi dedicati alle vittorie di Cesare in Gallia e oltre. 

JVLIVS

- 1 luglio - IUNO FELICITAS
Festa celebrata il primo luglio in onore di Iuno Felicitas, ossia Giunone che concede la felicità.

- 5 luglio - POPLIFUGIA -
Festa celebrata in onore di Iuppiter, ossia Giove. Poplifugium significa "fuga del popolo". Ricorda la fuga dei Romani che  avvenne quando i Fidenati e i Ficulei li assalirono poco dopo la conquista di Roma da parte dei Galli, nel 390 a.c. e la successiva riscossa sotto la protezione di Giove. I Ficulei erano gli abitanti di Ficulea, dai figules (i vasai), che si estendeva dalla via Nomentana fino al IX miglio della via Tiburtina.
Secondo altri autori si ricordava la disfatta subita dai Troiani (ritenuti antenati di Roma), di Patrizio Lucerino 1833.

- 5 luglio - LUDI APOLLINARES -
I giorno dei Ludi dedicati ad Apollo; duravano dal 5 al 13 luglio (ultimo giorno al circo) - 
Vennero istituiti su consiglio di un oracolo dei Carmina Marciana, testi sacri responsivi. I Carmina vennero consultati nel 213- 212 a.c. quando Annibale era alle porte di Roma e i provvedimenti suggeriti dai Libri Sibillini non avevano risolto nulla. I Ludi Apollinares si svolgevano nel Circus Maximus. Erano organizzati dal praetor urbanus.
Si svolgevano annualmente per un periodo di otto giorni, precisamente dal 5 al 13 luglio, e solo l'ultimo giorno si svolgevano dentro il circo. C'erano balli e canti e si svolgevano nel Circus Maximus ed erano organizzati dal praetor urbanus.
I suddetti Ludi implicavano la celebrazione periodica di un sacrificio e di una cerimonia solenne, benché straordinaria: il Lectisternium strettamente connessa al culto di Apollo, e come questo di origine greca, di cui si ha notizia solo circa trent'anni posteriormente alla dedicazione del tempio di Apollo nei Prata Flaminia (353-54 d. R. 400-399 a. c.).
In origine i Ludi Apollinari non si svolgevano in una data fissa. Livio narra infatti che vennero istituiti sotto il consolato di Quinto Fulvio Flacco e Appio Claudio Pulcro (212 a.c.), e organizzati da Publio Cornelio Silla:
« Ludi Apollinares, Q. Flavio Ap. Caudio consulibus, a P. Cornelio Sulla, pretore urbano, primum facti erant» (I Ludii Apollinari, sotto i consoli Quinto Fulvio e Appio Claudio, da Publio Cornelio Silla, pretore urbano, vennero organizzati per la prima volta)
(Tito Livio - Ab Urbe condita)
Da quel momento l'organizzazione dei Ludi Apollinari era un impegno del pretore urbano, ma solo per un anno e non in una data stabilita:
« Inde omnes deinceps pretores urbani facerunt; sed in unum annum vovebant dieque incerta faciebant.»
(Da quel momento poi tutti i pretori urbani li organizzarono; ma prendevano l’impegno per un solo anno e li facevano in un giorno indeterminato.)
(Ab Urbe condita)
Alla fine del 211 a.c., il senato accolse la proposta del pretore Gaio Calpurnio Pisone e decretò che i ludi Apollinari diventassero annuali. In seguito fu il pretore urbano Publio Licinio Varo a stabilire una data fissa per i Ludi:
« P. Licinius Varus, praetor urbanus ita vovit fecitque primus, ante diem tetriam nonas Quintiles.»
(Ab Urbe condita)
(Publio Licinio Varo, pretore urbano per primo stabilì e organizzò così i giochi, il terzo giorno prima del Quinto mese)

- 6 luglio - LUDI APOLLINARES -
II giorno dei Ludi dedicati ad Apollo.

- 6 luglio - TEMPLUM FORTUNAE MULIEBRIS in VIA LATINA
Festa celebrata il 6 luglio in onore della dea Fortuna Muliebris. Si ricordava la dedicatio del tempio sito al IV miglio della via Latina. Potevano partecipare al culto solo le donne sposate una sola volta, come nei Matralia.

- 7 luglio - LUDI APOLLINARES -
III giorno dei Ludi dedicati ad Apollo.

FESTA DI PALES
- 7 luglio - PALILIA -
Festa in onore di Pale, o Pales. Si ripetono gli stessi riti del 21 aprile, con sacrifici alla Dea degli armenti perché favorisca la fecondazione delle vacche e la nascita di buoni vitelli.

- 7 luglio - CONSUALIA -
Festa in onore di Conso, Dio della vegetazione annuale. Si legge in Tito Livio che i Consualia furono istituiti dallo stesso Romolo quando, con i giovani romani snobbati dalle genti vicine, organizzò il famoso Ratto delle sabine . Romolo:
« ...ludos ex industria parat Neptuno equestri sollemnes; Consualia vocat. Multi mortali convenere, studio etiam videndae novae urbis, maxime proximi quique, Caeninenses, Crustumini, Antemnates; iam Sabinorum omnis moltitudo cum liberis ac coniugibus venit.»
« predispose ad arte solenni giochi in onore di Nettuno equestre, giochi cui diede nome di Consuali.
Accorse un gran numero di persone, anche per la curiosità di vedere la nuova città, e particolarmente i più vicini: i Ceninesi, i Crustumini, gli Antemnati. E venne anche, praticamente al completo, con mogli e figli, la popolazione dei Sabini. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)


- 7 luglio - NONAE CAPROTINAE -
Festa celebrata il 7 luglio in onore di Iuno Caprotina, per commemorare la vittoria dei Romani sui Senoni di Brenno, ma pure una festa dedicata a Giunone Caprotina come Dea della fecondità.
Le due feste erano così legate tra di loro che, per Plutarco e Macrobio, che vivevano nel I e IV secolo d.c., non c'è differenza.
Dionigi di Alicarnasso sostiene invece che le feste ricordavano il giorno in cui i Romani fuggirono per il panico scatenato dalla scomparsa di Romolo.
Le None Caprotinae, o Poplifugium, sono riferite anche da Plutarco alla scomparsa di Romolo, quando si tenne un'assemblea nel Capreae Palus, dove improvvisamente scoppiò un temporale, accompagnato da tuoni terribili.

GIUNONE CAPROTINA
Tutti fuggirono ma, a tempesta finita, non poterono ritrovare Romolo, il loro re.
Per altri deriva dal Caprificus, un fico selvatico, su cui salì una vergine romana, prigioniera nel campo nemico, si alzò in un albero di fico selvatico, tendendo una torcia accesa verso la città, il segnale atteso dai romani per attaccare i Galli.
Durante la festa la gente si radunava nella palude Caprea, nel Campo Marzio, per compiere un sacrificio; uscendo dalla città (il Campo Marzio era fuori dalle mura Serviane) la folla gridava i nomi più comuni presso i Romani come Marco, Gaio, Lucio e così via.
Essendo la Dea protettrice e fautrice della fertilità, le romane invocavano così i nomi più comuni degli auspicati figli maschi, perchè le femmine erano meno gradite. Chiamandoli li spronavano a manifestarsi nel grembo delle donne. Ricordiamo che le romane tra l'altro non erano molto prolifiche.


- 8 luglio - LUDI APOLLINARES -
IV giorno dei Ludi dedicati ad Apollo. 

- 8 luglio - VITULATIO -
Festa celebrata l'8 e 9 luglio in onore di Vitula, Dea della gloria e della esultanza per la vittoria. Macrobio, che attinge a Varrone: "Varro refert quod pontifex in sacris quibusdam vitulari soleat, quod Graeci παιανίζειν vocant" (Saturn., II, 11).
Vitula era una divinità molto antica, di origine sabina. Dea della gioia, come riferisce  Macrobio, era collegata alle celebrazioni dei vitulatio.
Vitula divenne anche una divinità della vittoria, e il nome venne distorto successivamente in Vitellia (o Vitelia), probabilmente su influenza del nome della gens Vitellia, l'origine del cui nome si ricollega, secondo Svetonio, ad alcune divinità sabine.
La festa è da Macrobio collegata con il tripudio del popolo romano per la rivincita della sconfitta e relativa fuga subita da parte degli Etruschi (poplifugio); Macrobio, nel luogo citato, a Illo, dà vītulor e vītulatio come derivati da Vitula Dea della letizia: "Hyllus libro quem de diis composuit ait Vitulam vocari deam quae laetitiae praeest".

- 9 luglio - VITULATIO -
II e ultimo giorno della festa di Vitula.

- 9 luglio -  CAPROTINIA -
Festa di Giunone Caprotina, celebrata a favore delle schiave. Queste si percuotevano da sole con pugni e verghe mentre correvano, per provocarsi ritualmente le gravidanze, poi sacrificavano a Giunone sotto a un fico selvatico (sub caprifico) Queste feste erano assolutamente proibite ai maschi.

- 9 luglio - LUDI APOLLINARES -
V giorno dei Ludi dedicati ad Apollo.

- 10 luglio - LUDI APOLLINARES -
VI giorno dei Ludi dedicati ad Apollo. 

- 11 luglio - LUDI APOLLINARES -
VII giorno dei Ludi dedicati ad Apollo. 

- 12 luglio - LUDI APOLLINARES -
VIII giorno dei Ludi dedicati ad Apollo. 

- 13 luglio - LUDI APOLLINARES -
IX e ultimo giorno dei Ludi dedicati ad Apollo. 

- 13 luglio - TEMPLUM APOLLINIS -
Festa celebrata il 13 luglio in onore di Apollo. Si ricordava la dedicatio del tempio di Apollo.
 
 - 15 luglio - HONOR et VIRTUS -
Festa in onore di Honor et Virtus, divinità personificazione dell'onore e della virtù. Nel 234 a.c. Q. Fabius Maximus Verrucosus dedicò un tempio ad Honor dopo la guerra con i Liguri. Nel 222 a.c. M. Claudius Marcellus, dopo la battaglia di Clastidium contro gli Insubri guidati da Virdomaru, decise di costruire un tempio dedicato ad Honor et Virtus, modificando il tempio esistente di Honor. Il tempio doppio venne consacrato nel 205 a.c. dal figlio di M. Claudius Marcellus. Era usanza che gli equites sfilassero a cavallo dalla caserma al tempio di Honor e Virtus.
  
- 15 luglio - CASTOR et POLLUX -  in onore di Castore et Polluce, i Dioscuri figli di Zeus. Il culto, proveniente da Lavinium, venne introdotto a Roma nel 496 a.c. in occasione della battaglia contro i Latini presso il Lacus Regillus, dove sarebbero intervenuti a favore dei Romani e a sera avrebbero dato notizia della vittoria ai romani mentre abbeveravano i loro cavalli presso la fontana della ninfa Giuturna. Il tempio si ergeva presso questa fonte.
 
- 19 luglio - LUCARIA -
Festa celebrata il 19 e il 21 luglio. Celebrazione dedicata ai boschi sacri. Lucus significa bosco. Si ricorda quando il Senato inviò un esercito a fermare i Galli Senoni sulla riva sinistra del Tevere, in corrispondenza del fiume Allia. I romani subirono una sconfitta rovinosa si che il 18 luglio (Dies Alliensis) fu da allora considerato giorno nefasto. Nei boschi i soldati romani, sconfitti e perseguitati dai Galli, si ritirarono a consiglio il 19 luglio, in un bosco tra il Tevere e la Via Salaria. Perciò vennero istituiti i Lucaria che celebravano le divinità dei boschi che avevano offerto rifugio agli
scampati della battaglia di Allia. Secondo Ovidio invece è festa consacrata a un asilo che Romolo avrebbe fondato nei pressi del Tevere.
Recentemente I LUCARIA sono stati rievocati dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, con eventi e spettacoli ambientati nell'area archeologica di Crustumerium, ad una quindicina di chilometri da Roma, oltre Settebagni, che secondo le fonti antiche corrisponde al bacino idrico dell'Allia.

- 21 luglio - LUCARIA -
II e ultimo giorno dedicato alla celebrazione dedicata ai boschi sacri e alle loro divinità che avevano offerto rifugio agli scampati della battaglia di Allia. I Romani distinguevano i boschi in sacri, divinizzati e profani. Il bosco che protesse i Romani venne divinizzato.

- 21 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
I giorno dei Ludi Victoriae Caesaris, per le vittorie di Cesare si svolgevano dal 21 al 31 luglio. Cesare era stato il grande generale sempre vittorioso che sconfisse il Metus Gallicus, il terrore dei romani verso i galli, avendo lui in nove anni di battaglie conquistata definitivamente la Gallia.

- 22 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
II giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 23 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
III giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 23 luglio - NEPTUNALIA -
Festa in onore di Neptunus, Dio italico delle acque, corrispondente al greco Poseidone. Alla festa nel IV secolo d.c. vennero aggiunti anche i Ludi Neptunales, con corse di cavalli e naumachie.

- 24 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
IV giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 25 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
V giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 25 luglio - FURRINALIA -
Festa celebrata il 25 luglio in onore della dea campestre Furrina che aveva un tempio a Roma, ed era servita da un flamen Furrinalis, tra i flamini minori. Alla Dea era dedicato presso il tempio un bosco sacro sulla riva destra del Tevere presso pons Sublicius alle falde del colle Ianiculum (Gianicolo), in cui Caio Gracco fu ucciso. Cicerone considerò la Dea come una delle Furie.

IL TEMPIO DI CESARE
- 26 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
VI giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 27 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
VII giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 28 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
VIII giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 29 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
IX giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 30 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
X giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

- 31 luglio - LUDI VICTORIAE CAESARIS -
XI giorno dei Ludi Victoriae Caesaris.

GAIO MUSONIO RUFO

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Nome: Gaius Musonius Rufus
Nascita: 30 d.c. Volsinii (Bolsena Etruria)
Morte: 100 d.c.
Professione: Filosofo


"E chi è degno di fare filosofia deve esercitarsi praticamente tanto più di chi ha di mira la medicina o qualche altra simile arte, quanto più la filosofia è più importante e più difficile da espletare di ogni altro mestiere. Infatti, coloro che hanno di mira le altre arti pervengono all’apprendimento di esse con animi non in precedenza rovinati, né col bagaglio di nozioni contrarie a quelle che stanno per imparare. Invece, coloro che mettono mano alla filosofia perseguono la virtù con alle spalle un lungo periodo di corruzione dell’animo e infarciti di vizi; sicché, per questo motivo, hanno bisogno di molto più esercizio pratico"
(Musonio Rufo - Diatribe)

Gaio Musonio Rufo, il filosofo,  nacque a Volsinii (Bolsena, in Etruria) intorno all'anno 30 e morì non si sa dove intorno all'anno 100, quindi all'età di 70 anni.

Per la rettitudine e per il coraggio con cui affrontò la persecuzione di Nerone e l’esilio, venne definito « il Socrate romano» e considerato un « modello di vita perfetta».

Fu un filosofo romano neostoico, di cui purtroppo non abbiamo molte notizie, se non che fu cavaliere e che tra il 55 e il 60 fu a capo a Roma di un circolo filosofico-letterario, ma si dedicò anche alla politica, con idee abbastanza tradizionali e moderate.

Fece parte del gruppo creatosi intorno a Rubellio Plauto, giovane stoico discendente della famiglia Giulia,  che nel 60 fu esiliato da Nerone, probabilmente geloso della simpatia che aveva per lui il popolo e perchè come lui congiunto nello stesso grado con Augusto.

Fu poi lo stesso Musonio a presiedere ai gruppi del neostoicismo, cui aderirono molti aristocratici romani, spesso ostili al potere assoluto dell'imperatore. Musonio, il suo allievo Eritteto e lo stesso Seneca ne facevano parte.

Per il legame che Musonio aveva con Rubellio, seguì l'amico in Asia, e quando due anni dopo giunse la condanna a morte di Rubellio Plauto, Musonio lo incitò a non fuggire ma ad attendere la morte con spirito filosofico, rinunciando alla lotta "pro incerta et trepida vita"

Musonio poi tornò a Roma, ma nel 65, all'epoca della congiura pisoniana, venne mandato nuovamente in esilio a Gyaros, inospitale e rocciosa isola del Mar Egeo. Rientrato dopo la morte dell’imperatore, riuscì a guadagnarsi la stima di Vespasiano che tuttavia nel 71 aveva esiliato numerosi filosofi.

Ci fu però un secondo esilio intorno all’80. Dopo il suo rientro a Roma, voluto da Tito, le fonti tacciono. Sappiamo che vi fu una seconda epurazione dei filosofi, stoici e non, sotto Domiziano nell'85, definiti da Tigellino " turbolenti e ambiziosi ", forse gli unici che osavano criticare il governo in atto. Da un’epistola di Plinio dell'anno 100, si apprende che da poco Mausonio è morto, forse di vecchiaia perchè non si aggiunge alcunchè.

Il suo discepolo più importante fu Epitteto, probabilmente a Roma. Un suo discendente fu il poeta Postumio Rufio Festo Avienio (seconda metà del IV secolo). Alcuni aspetti del pensiero di Musonio Rufo di derivazione socratica e platonica sarebbero poi confluiti nella teologia di alcuni dei primi Padri della Chiesa: l’intellettualismo etico, la concezione non retributiva ma rieducativa della pena, la pari educabilità degli uomini e delle donne alla virtù.


LE OPERE

SENECA
Il suo insegnamento fu svolto in greco: si ricordi che in quel periodo ogni romano istruito conosceva il latino e il greco e che, comunque, quest'ultima era la lingua della filosofia. Probabilmente volutamente, sull'esempio di Socrate e come farà anche il discepolo Epitteto, non lasciò nulla di scritto.

I principi della sua predicazione filosofica si ricavano da una raccolta di diatribe dovuta a un discepolo di nome Lucio, il quale probabilmente ebbe modo di ascoltarne le lezioni per un tempo abbastanza lungo.

Alcune delle Diatribe di Gaio Musonio Rufo sono conservate nell'Antologia di Giovanni Stobeo (V secolo).

È andata perduta l’opera di un altro discepolo, forse il Valerio Pollione precettore di Marco Aurelio.

 Altre informazioni si possono desumere da una serie di frammenti sparsi e testimonianze indirette.



LO STILE

 Lo stile delle diatribe è semplice, in genere viene posta una questione iniziale, poi sviluppata con chiarezza durante il testo. Porta ragioni logiche e ne sviluppa pacatamente le prove. Secondo quanto riporta Lucio, Musonio parlava spesso in modo figurato, usando metafore e similitudini. Infatti nelle diatribe spesso fa esempi figurati.



LA DOTTRINA



DIATRIBA I 

PER UNA SINGOLA QUESTIONE FILOSOFICA NON C’È BISOGNO DI MOLTE DIMOSTRAZIONI

"- Una volta il discorso cadde sulle dimostrazioni che è d’uopo i giovani ascoltino dalla bocca dei filosofi per giungere ad un’apprensione certa di ciò che stanno imparando; e Musonio affermava che non conviene andare in cerca, su ogni singola questione, di molte dimostrazioni, bensì di dimostrazioni efficaci ed evidenti. Infatti, diceva, degno di lode non è il medico che somministra ai malati molte medicine, ma quello che giova al malato con le poche medicine che gli somministra in modo ragionato.

- Similmente, degno di lode non è il filosofo che insegna ai suoi uditori utilizzando molte dimostrazioni, bensì quello che con poche dimostrazioni li conduce esattamente a ciò che vuole loro insegnare. Per parte sua l’uditore, quanto più comprendonio avrà, tanto meno abbisognerà di dimostrazioni e tanto più in fretta sarà d’accordo sul punto capitale, posto che sia sano, del ragionamento.

- Chiunque, invece, su tutto ha bisogno di una dimostrazione, anche laddove la questione è chiara; oppure vuole dimostrare a se stesso con molte argomentazioni ciò che può invece essere dimostrato con poche, è un uditore del tutto fuori posto e tardo di comprendonio.

- Gli Dei, com’è verosimile, non hanno bisogno di dimostrazione alcuna, poiché per loro nessuna questione è priva di chiarezza o dubbia, dato che sono queste ultime le sole questioni che hanno bisogno di dimostrazioni.

- Gli uomini, invece, devono necessariamente cercare di scoprire ciò che non è chiaro né immediatamente conosciuto, attraverso ciò ch’è appariscente e manifesto: il che è appunto opera della dimostrazione.

- Per esempio: che il piacere fisico non sia un bene non sembra essere immediatamente riconosciuto, dal momento che il piacere ci chiama a testimoni nei fatti che esso è un bene. Se però uno fa suo il conosciuto assunto che ogni bene è da scegliersi, e poi aggiunge ad esso l’altro conosciuto assunto, ossia che alcuni piaceri fisici non sono da scegliersi: ecco che noi dimostriamo - grazie al passaggio da assunti conosciuti a ciò ch’è sconosciuto - che il piacere fisico non è un bene.

- Ed ancora: che il dolore fisico non sia un male non appare immediatamente persuasivo. Al contrario, sembra più persuasivo l’opposto, ossia che il dolore fisico è un male. Ma se si pone l’assunto evidente: che ogni male è da fuggirsi; e poi s’assomma ad esso un altro assunto evidente, ossia che molti dolori fisici non sono da fuggirsi: ecco che se ne conclude che il dolore fisico non è un male.

- Assodato che la dimostrazione è una cosa del genere, poiché alcuni uomini sono più acuti ed altri più ottusi, poiché alcuni sono stati educati a costumi migliori ed altri a costumi peggiori; quelli peggiori per costumi o per natura potrebbero avere bisogno, per accogliere questi giudizi ed esserne modellati, d’un maggior numero di dimostrazioni e d’una trattazione più ampia delle questioni.

- Proprio come io credo avvenga per i corpi in cattivo stato i quali, quando si intende star bene, hanno bisogno di moltissima cura. I giovani che sono invece di buona natura e quelli che hanno avuto un’educazione migliore, più facilmente e più velocemente sarebbero d’accordo con quanto è esposto rettamente, pur se attraverso poche dimostrazioni; e gli si conformerebbero nella pratica.

- Che così stiano le cose lo riconosceremmo facilmente se pensassimo a degli adolescenti o giovanotti, uno dei quali allevato nel lusso più sfrenato, dal corpo effeminato, con l’animo infiacchito da abitudini che conducono alla mollezza, che si mostra, per di più, indolente e che è per natura tardo di comprendonio.

- L’altro, invece, è un giovanotto tirato su, in un certo senso, spartanamente, abituato a non vivere nel lusso, ben esercitato alla fortezza d’animo e pronto a prestare ascolto a quanto è detto rettamente. Di poi supponiamo che questi due giovanotti stiano ascoltando un filosofo il quale parla di morte, di dolore fisico, di povertà di denaro e di faccende simili come di cose che non sono mali; e poi ancora di vita, di piacere fisico, di ricchezza di denaro e di faccende similari come di cose che non sono beni.

- Entrambi accoglieranno forse in modo similare i discorsi del filosofo, e ciascuno dei due ubbidirebbe similarmente ai discorsi che sente fare? Non è neppure il caso di dirlo; giacché uno, il più indolente, probabilmente annuirebbe a stento, con lentezza, mosso da miriadi di ragionamenti come da una leva a lui esterna; mentre l’altro accoglierà ciò che sente dire con velocità e prontezza, in quanto ragionamenti che gli sono familiari e convenienti, senza avere bisogno di molte dimostrazioni né d’una trattazione più ampia delle questioni.

- Non era di questo genere anche il famoso ragazzo spartano che domandò al filosofo Cleante se la fatica è un bene? In questo modo egli si mostrò dotato di buona natura e ben cresciuto in vista della virtù, tanto da ritenere la fatica più prossima alla natura del bene che a quella del male. Chi infatti ammette che la fatica non è un male, cerca di sapere se essa sia per caso un bene. Laonde Cleante, preso da ammirazione per il ragazzo, gli disse: ‘sei di buon sangue, ragazzo mio, visto come parli!’"


IL NEOSTOICISMO

Musonio rappresenta, assieme a Epitteto, Marco Aurelio e Seneca, uno dei quattro esponenti più significativi del neostoicismo romano. Da alcuni viene definito il "Socrate romano", con cui condivise effettivamente l’assenza di scritti, la filosofia come pratica di vita, la ricerca di chiarezza nelle dimostrazioni, il coraggio di affrontare le conseguenze delle proprie idee. In Musonio però si bada più al fine sociale dell’indottrinamento e una maggiore austerità dei costumi.

MUSONIO
Intese la filosofia come arte del vivere bene e onestamente, una pratica che deve avere riscontro nei fatti. La mentalità pratica dei romani tendeva a dare alla filosofia un riscontro utile per sé e per gli altri, quindi molto tesa alle questioni etiche e sociali e un po' meno alla riflessività.

La filosofia rappresentava il mezzo per la comprensione e la messa in atto della virtù, considerando come acquisita l'idea del bene proprio in rapporto al bene comune. L’uomo, in generale, inteso come animale sociale, contribuiva al buon funzionamento della cosa pubblica, il filosofo, in particolare, contribuiva a ciò in massimo grado, con le parole, e con uno stile di vita che corrispondesse a quello che predicava.

Dovendo assimilare Musonio a precedenti sistemi filosofici e correnti di pensiero, oltre allo stoicismo, si può notare anche una certo cinismo. Si rifece spesso a modelli come Socrate e i cinici, e sicuramente piacque a posteriori a molti cristiani, ma non si sa quanto egli ebbe modo di conoscere questa nascente religione.


DIATRIBA II

- Tutti noi, e non uno sì e un altro no, siamo nati per vivere al riparo dalle aberrazioni e bene. Gran prova di ciò è il fatto che i legislatori ingiungono in identico modo a tutti gli uomini quel che è d’uopo fare e vietano quel che è d’uopo non fare, non eccettuando alcuno di coloro che disubbidiscono o che aberrano, così che costui resti impunito: si tratti di un giovane o di un anziano, di un individuo robusto o di uno debole, insomma chiunque sia.

- Eppure, se qualche elemento della virtù ci fosse estrinseco e noi nulla avessimo per natura a che vedere con esso; come nessuno pretende, nelle opere che hanno a che fare con le altre arti, d’essere al riparo dall’errore se prima non ha imparato quell’arte; così pure nelle opere della vita nessuno dovrebbe pretendere d’essere al riparo dalle aberrazioni se prima non avesse imparato la virtù, dal momento che soltanto la virtù fa sì che non si aberri nella vita.

- Ora, nella cura dei malati nessuno sollecita che sia al riparo dall’errore altra persona che il medico; nell’uso della lira altra persona che il musicista, e nell’uso dei timoni nessun altro che il pilota. Nel caso della vita, invece, gli uomini sollecitano che ad essere al riparo dalle aberrazioni sia non soltanto il filosofo - il quale pare sia il solo ad avere sollecitudine per la virtù - ma che lo siano similmente tutti gli esseri umani, anche quelli che per la virtù mai hanno avuto sollecitudine alcuna. È dunque manifesto che null’altro è causa di ciò se non il fatto che l’uomo è nato per la virtù.

- E invero gran prova che noi siamo nati per perseguire la virtù è anche quello: ossia il fatto che tutti gli uomini disquisiscono di se stessi come di individui che hanno la virtù e che sono buoni. Nessuno dei più, infatti, quando gli sia domandato se per caso è stolto o saggio, ammetterà di essere stolto.

- Né quando gli sia domandato, a sua volta, se per caso è ingiusto o giusto, dirà che è ingiusto. Similmente, qualora uno gli domandi se è temperante oppure impudente, ognuno risponde alla domanda affermando di essere temperante. Insomma, se uno gli domandasse se è buono oppure cattivo, egli direbbe di essere buono; e lo affermerebbe pur se non sapesse dire chi è stato il suo maestro di bontà, né gli capita d’aver fatto apprendimento alcuno della virtù o esercizio pratico di essa.

- Ciò di null’altro è prova se non del fatto che nell’animo dell’uomo esiste una base fondamentale e naturale che lo indirizza all’eccellenza morale, e che in ciascuno di noi è insito un seme di virtù. E poiché a noi conviene in ogni caso stare al mondo come uomini dabbene, alcuni di noi s’ingannano credendo di esserlo davvero, mentre altri si vergognano di ammettere di non esserlo.

- Peraltro perché, per gli Dei, se uno non ha imparato le lettere o la musica o gli esercizi che si praticano in palestra, neppure afferma di conoscerli né si arroga il vanto di possedere queste arti, non avendo modo di dire qual è il maestro che frequentava; e invece ognuno garantisce d’avere la virtù? Perché nessuna di quelle arti ha per natura a che vedere con l’uomo, né alcuno viene in vita avendone già le basi fondamentali...



COME INSEGNARE LA FILOSOFIA

Da un punto di vista metodologico Musonio invita alla chiarezza e semplicità nell’impartire insegnamenti; i principi su cui si basa la vera filosofia devono essere pochi, certi e acquisibili in modo spontaneo: è inutile e controproducente rendere complicato ciò che non lo è:

SENECA
"Infatti non è degno di lode il filosofo che ha bisogno di molte dimostrazioni per insegnare ai suoi discepoli, ma quello, che con poche, riesce comunque a far arrivare i suoi uditori là dove vuole".

La retorica non deve essere un bello stile, ma un mezzo atto a comprendere e trasmettere la verità. Attraverso la dimostrazione (adattata al tipo di uditorio) si spiega quale sia il vero bene in rapporto al male e cosa sia conveniente fare per ottenerlo. Musonio come molti altri filosofi scelse di non affidare allo scritto le sue dottrine, spinto dalla visione dell’insegnamento come una trasmissione orale senza dogmi.


DI COSA NUTRIRSI

“Bisogna preferire i cibi affini all’uomo e alla sua natura, e non quelli che non lo sono – scrive Musonio nei suoi saggi, trascritti dal suo scolaro Lucio – e affini a noi sono i prodotti della terra, i cereali che danno all’uomo il nutrimento adatto, e anche quel che ci possono offrire gli animali, non uccidendoli però”.

“Di questi cibi, i più convenienti sono quelli che si possono usare così come sono, senza il fuoco, come i frutti di stagione, alcune erbe, il latte, il formaggio, il miele. La carne è più da belve feroci e più adatta agli animali selvaggi. E’ pesante e d’ostacolo al pensare, perché l’esalazione che ne proviene è torbida e annebbia l’anima. Perciò chi se ne ciba appare lento nel ragionamento”.

“L’uomo deve nutrirsi nel modo più simile agli dèi. A loro bastano i soffi che emanano dalla Terra e
dall’acqua, e a noi converrebbe il cibo più simile a questo, più leggero, più puro. Così la nostra anima sarebbe più pura”.



DIATRIBA III

CHE ANCHE LE DONNE DEVONO PRATICARE LA FILOSOFIA
"- Poiché qualcuno cercò di sapere da lui se anche le donne devono filosofare, iniziò a un dipresso così ad insegnare che anche le donne devono praticare la filosofia. Le donne, diceva, hanno ricevuto da parte degli Dei la stessa identica ragione degli uomini: quella ragione della quale ci serviamo gli uni nei confronti degli altri e grazie alla quale pensiamo a ciascuna faccenda, determinando se è un bene o un male, se è una cosa bella o brutta.

- La femmina e il maschio hanno similmente le stesse sensazioni: vedere, udire, odorare e le altre. Sia l’uno che l’altra hanno similmente le stesse parti del corpo, e nessuno dei due ne ha più dell’altro. Inoltre, il desiderio della virtù e la naturale disposizione ad appropriarsi di essa non nasce soltanto negli uomini ma anche nelle donne; giacché le donne non meno degli uomini sono nate per dare il loro beneplacito alle opere belle e giuste e per vilipendere quelle opposte.

- Stando così le cose, perché mai agli uomini si converrebbe il ricercare e il considerare il modo di vivere bene, il che è appunto il filosofare, e invece ciò non si converrebbe alle donne? È forse che agli uomini si conviene d’essere virtuosi ed alle donne no? Consideriamo pure, una per una, ciascuna delle opere che si confanno alla donna che intende essere virtuosa, ed apparirà evidente che ciascuna di queste opere promana alla donna proprio dalla filosofia. 

- Innanzitutto la donna deve essere una buona amministratrice della casa, un’abile calcolatrice di ciò che è utile ad essa, ed essere atta a comandare i domestici. Ebbene, io affermo che soprattutto queste sono le doti della donna che pratica la filosofia. E se ciascuna di queste doti fa parte della vita, la filosofia altro non è che la scienza del vivere; ed il filosofo, come soleva dire Socrate, considera continuamente: ‘cosa di cattivo e di buono è capitato in casa’

- La donna, poi, deve anche essere temperante: quale colei che si conserva pura dai rapporti sessuali contrari alla legge e pura dalla non padronanza di sé nel caso degli altri piaceri fisici, quale colei che non è serva delle smanie, non è litigiosa, non è spendacciona, non è civettuola. Queste sono le opere della donna temperante.

- Oltre a queste, altre sue opere sono: saper dominare l’ira, non lasciarsi dominare dall’afflizione ed essere superiore ad ogni passione. Questi sono gli esercizi che la ragione filosofica dà l’ordine di fare, ed a me sembra che chi impara a farli diventerebbe una persona ordinata e disciplinatissima, uomo o donna che sia. 

- E dunque? Le cose stanno così: la donna che pratica la filosofia non sarebbe forse una persona giusta, un’irreprensibile socia di vita, una buona cooperatrice di concordia, una sollecita tutrice del marito e dei figli, una creatura per ogni verso monda dalla sete di guadagno e dallo spirito di soperchieria? 

- Quale creatura, più di colei che pratica la filosofia, potrebbe diventare una donna del genere? Giacché, per l’appunto, è assolutamente necessario che ella -se davvero fosse filosofa- ritenga il commettere un’ingiustizia cosa peggiore, in quanto più vergognosa, del subirla; che concepisca il comportarsi con moderazione una cosa migliore del fare una soperchieria e, inoltre, l’aver cari i figli più del vivere."

L’insegnamento filosofico deve essere impartito fin dalla giovinezza, per far crescere gli uomini nel giusto modo. Il bene, ben distinto dal male, è la ricerca della virtù, ma molti mali in realtà non lo sono poiché non impediscono questa realizzazione: l’esilio e la malattia per esempio (un esempio autobiografico) non devono distogliere l’uomo dal suo obbiettivo di virtù, perchè sono solo eventi da sopportare stoicamente.

Secondo Musonio: "È senz'altro vero che la teoria collabora con la pratica, insegnando come si debba agire e cronologicamente essa precede l'abitudine, poiché non è possibile acquisire un'abitudine positiva se non secondo la teoria; ma per importanza la pratica vien prima della teoria, dal momento che essa è capace, più della teoria, di guidare l'uomo all'azione".


SOMIGLIANZE COL CRISTIANESIMO

Occorre notare quanto l'etica musoniana somigli ai principi del cristianesimo, in genere con maggiore equilibrio, evitando cioè di mortificare il corpo o demonizzare la donna. Però talvolta ha degli atteggiamenti degni di un cattolicesimo intransigente, invitando a evitare ciò che non è strettamente necessario alla virtù, come ad esempio il piacere delle le arti, concetto che la Chiesa fece suo nel primo Medio Evo.

Musonio infatti esorta alla pratica spirituale, intesa conseguire il bene e a sopportare il male, ma pure la sopportazione delle fatiche e delle difficoltà del mondo esterno. La crescita spirituale accrescerebbe di gran lunga l'adattamento alle difficoltà della vita, ma l’esercizio fisico aiuta a sua volta alle conquiste spirituali:

« Dato che l'uomo non si trova a consistere di sola anima e di solo corpo, ma di una certa qual sintesi di questi due elementi, è necessario che chi fa esercizio si prenda cura di entrambi, e maggiormente di quello migliore, come è giusto, e cioè dell'anima; anche dell'altro, però, deve prendersi cura, ammesso che nessuna parte costitutiva dell'uomo debba risultare manchevole. In effetti, anche il corpo del filosofo dev'essere ben preparato a svolgere i lavori del corpo, poiché spesso le virtù si servono del corpo, quale strumento necessario alle attività della vita».

Ogni uomo per natura tende al bene, ma spesso ne ha un errato concetto, per questo deve basarsi sull’insegnamento filosofico.  Il filosofo, in qualità di esempio vivente delle virtù, può insegnarla agli altri, esortando all’esercizio di tale pratica.


DIATRIBA IV

SE BISOGNA EDUCARE IN MODO SIMILARE LE FIGLIE E I FIGLI

- I cavalieri e i cacciatori educano assieme i cavalli e assieme i cani, senza fare alcuna differenza tra maschi e femmine. Così le cagne imparano a cacciare in un modo del tutto similare a quello dei cani; ed è dato vedere che qualora si voglia che compiano bene le opere equestri, le cavalle ricevono un insegnamento non diverso da quello dei cavalli.

-  Quanto agli uomini, può tuttavia darsi che ci debba essere nell’educazione e nell’allevamento dei maschi qualcosa di particolare rispetto alle femmine; come se ad entrambi, uomo e donna, dovessero spettare non le medesime virtù similarmente; oppure come se fosse loro possibile pervenire al raggiungimento delle stesse virtù non attraverso la medesima educazione bensì attraverso educazioni diverse. 

MUSONIO
- Ora, che le virtù dell’uomo non siano diverse da quelle della donna è però cosa facile da imparare. Per esempio: l’uomo deve essere assennato, ma lo deve essere anche la donna; se no di che pro sarebbero un uomo stolto o una donna stolta? E poi: nessuno dei due deve vivere meno secondo giustizia dell’altro; infatti l’uomo, se ingiusto, non sarebbe un buon cittadino; e la donna non amministrerebbe bene la casa se non la amministrasse al modo giusto; e se è ingiusta al riguardo commetterà un’ingiustizia nei confronti del marito, come si racconta di Erifile.

- Quindi è bene che la moglie sia temperante, com’è bene che lo sia il marito; e le leggi puniscono appunto parimenti l’adultero e l’adultera. I casi di ghiottoneria, di ubriachezza e di altri vizi similari, essendo impudenze che svergognano grandemente coloro che vi rimangono impigliati, mostrano poi chiaramente che la temperanza è assolutamente necessaria ad ogni essere umano, sia femmina che maschio; giacché è soltanto attraverso di essa che noi sfuggiamo l’intemperanza, e in nessun altro modo. A questo punto qualcuno potrebbe forse dire che però la virilità [IV,15,5] conviene soltanto ai maschi.

- Ma le cose non stanno affatto così, giacché bisogna che anche la donna - la migliore, ben s’intende - sia virile e monda d’ogni viltà, così da non essere piegata né dal dolore fisico né dalla paura. Se no, come potrà ancora essere temperante qualora uno possa costringerla con la violenza, o facendole paura o infliggendole dei dolori fisici, a sopportare cose vergognose? 

- Dunque bisogna che anche le donne siano pronte a difendersi se non intendono mostrarsi, per Zeus, peggiori delle galline e delle femmine di altri uccelli, le quali combattono accanitamente in difesa dei pulcini con animali molto più grandi di loro. Come dunque potrebbero le donne non avere bisogno di virilità? 

- Che poi le donne abbiano a che fare anche con azioni di lotta armata lo rese manifesto la stirpe delle Amazzoni, le quali sterminarono con le armi molti popoli; sicché se qualcosa a questo fine manca alle altre donne è piuttosto la mancanza di esercizio che l’esserne per natura incapaci. Se le virtù dell’uomo e della donna sono le stesse, è allora del tutto necessario che convengano ad entrambi identico allevamento ed identica educazione.

- Infatti la sollecitudine che si prodiga rettamente per qualunque animale o vegetale, di necessità infonde in esso la virtù che gli s’addice. Se un uomo e una donna avessero similmente bisogno di saper suonare il flauto e se ciò fosse necessario sia all’uno che all’altra per riuscire a vivere, noi insegneremmo ad entrambi parimenti l’arte auletica; e la stessa cosa faremmo se dovessero sia l’uno che l’altra suonare la cetra. 

- Ora, quanto alla virtù che s’addice all’essere umano, se bisogna che entrambi diventino virtuosi e che siano similmente capaci d’essere assennati, d’essere temperanti, di partecipare della virilità e della giustizia uno non meno dell’altra: non educheremo noi in modo simile l’uno e l’altra, e non insegneremo parimenti ad entrambi l’arte grazie alla quale l’essere umano può diventare virtuoso? Certo che bisogna fare così e non altrimenti.

- ‘E dunque?’ -dice forse qualcuno- ‘tu solleciti che gli uomini imparino l’arte di filare la lana similarmente alle donne, e che le donne prendano parte agli esercizi ginnici similmente agli uomini?’ Io non solleciterò affatto questo. Poiché nel genere umano esiste una natura fisicamente più robusta, che è quella dei maschi; ed una fisicamente più debole, che è quella delle femmine; io affermo invece che bisogna assegnare all’una e all’altra le opere che maggiormente le si adattano, affidando le più pesanti agli individui più robusti e le più leggere agli individui più deboli.

- Per questo motivo l’arte di filare la lana, come pure la cura della casa, si confarebbe più alle donne che agli uomini; mentre viceversa la ginnastica, come pure la vita fuori casa, si confarebbe più agli uomini che alle donne. Talora, tuttavia, anche degli uomini possono porre verosimilmente mano ad opere più leggere e ritenute da donna; e delle donne, a loro volta, fare lavori più duri e che si ritengono convenire maggiormente agli uomini, qualora così impongano le necessità del corpo o del bisogno o del momento. In un certo senso, infatti, tutte le opere umane sono da farsi in comune e sono comuni dell’uomo e della donna; e nulla è necessariamente appannaggio esclusivo dell’uno o dell’altra. 

- Talune di esse, tuttavia, sono più idonee ad una natura ed altre all’altra: ragion per cui alcune si chiamano opere maschili ed altre opere femminili. Quante hanno però riferimento alla virtù si può rettamente affermare che s’addicano parimenti sia ad una natura che all’altra, se appunto noi affermiamo che le virtù s’addicono non meno agli uni che alle altre. 

- Laonde io credo che bisogna verosimilmente educare in modo similare sia la femmina che il maschio in tutte quante le opere che conducono alla virtù. A cominciare dall’infanzia bisogna dunque subito insegnar loro che questo è bene e che questo è male, che una stessa cosa è male per entrambi, che questo è giovevole, che questo è dannoso, che questo qui si deve fare e che questo qui non si deve fare. Da questi insegnamenti promana saggezza alle fanciulle e similmente ai fanciulli che li apprendono, senza differenza alcuna fra gli uni e le altre.

- Di poi bisogna infondere in essi un’intensa ripulsa per ogni faccenda vergognosa, e una volta ingeneratisi questi moti, necessariamente l’uomo e la donna sono individui temperanti. Invero chi è educato rettamente -chiunque sia, maschio o femmina - deve abituarsi a sopportare il dolore fisico, abituarsi a non avere paura della morte, abituarsi a non avvilirsi davanti a nessuna sventura: tutte abitudini grazie alle quali si può acquisire la virtù della virilità. 

- E della virilità è stato poc’anzi mostrato che anche le donne hanno parte. Inoltre il rifuggire l’avidità di guadagno; l’avere in onore l’imparzialità; essendo un uomo, il voler fare del bene e non del male agli altri uomini: ecco, questa è la lezione più bella e quella che realizza la giustizia in coloro che la imparano. Perché bisogna che sia soltanto l’uomo ad imparare queste cose? 

- Infatti, per Zeus, se è confacente che le donne siano persone giuste, allora bisogna che entrambi abbiano imparato le medesime cose, che sono quelle in assoluto più importanti e più grandi. Giacché se uno conoscerà qualche minuzia attinente un certo virtuoso e l’altra no; oppure, al contrario, se una la conoscerà e l’altro no: ciò non dimostra che l’educazione dell’uno è stata diversa da quella dell’altra.


LA PRIVAZIONE DEL SUPERFLUO

Anche la privazione del superfluo innalza l'uomo e lo avvicina al divino:
« è tipico della divinità non avere bisogno di nulla, e di chi è simile ad essa l’aver bisogno di poco ».
L' ingiustizia, Musonio recupera il concetto socratico (come nel Gorgia di Platone) secondo cui sarebbe meglio subirla che farla, sempre però pronti al perdono. Si deve pertanto aiutare chi ha bisogno e colui che sbaglia: capire gli altri aiuta a comprendere noi stessi.

La sua concezione della donna, in cui si riflette il retroterra culturale etrusco, presenta una indubbia novità rispetto alla tradizione romana e soprattutto greca, mentre le sue considerazioni sulla sessualità e sul matrimonio hanno avuto grande influenza sui principali autori cristiani dei primi secoli.
Musonio l'etrusco era abituato all'uguaglianza, o quasi, tra i sessi nella sua terra natia, l'Etruria, che pochi filosofi sentirono, anzi essendo per la maggior parte misogini. Egli illustrò invece una visione assolutamente ugualitaria dell’uomo e della donna, la cui vera virtù è l’equità, il coraggio, la giustizia e l’onestà, cui entrambi debbono e possono tendere senza distinzione di sesso.

« Tutti quanti per natura, siamo fatti per vivere irreprensibilmente e rettamente: non l'uno di noi sì, e l'altro no. Una prova importante di questo è che i legislatori prescrivono a tutti indistintamente ciò che si deve fare e proibiscono ciò che non si deve, senza fare eccezione per nessuno che disobbedisca o sbagli, sottraendolo così alla pena: nessuno, né giovane, né vecchio, né forte, né debole, né qualsivoglia si sia ».

C'è anche in Musonio l’idea del cosmopolitismo, in cui ogni uomo fa parte della monade mondo, ma fa anche parte di un’unica realtà spirituale, superiore, che corrisponde alla Città di Zeus. In questo contesto si può accettare anche l'esilio, perchè tutta la terra è patria per l'uomo:

 « La patria comune di tutti gli uomini non è forse il mondo, come riteneva Socrate? Cosicché, non si deve pensare di essere esiliati veramente dalla patria, se ci si allontana dal luogo in cui si è nati e cresciuti, ma soltanto di ritrovarsi privi di una certa città, specialmente se ci si reputa una persona ragionevole. Chi, infatti, è tale non onora né disprezza una terra come fosse causa di felicità o di infelicità, ma pone tutto quanto in se stesso e si considera un cittadino della città di Zeus, che consiste, insieme, di uomini e di dei ».

La materia e lo spirito si compenetrano, sono parte della stessa creatura, cosa che verrà ribadita più tardi dall'alchimia, che raccomanda:
"Corporifica lo spirito e spiritualizza il corpo."
Così l’immanenza e la trascendenza si uniscono, e la Città di Zeus diventa il modello ideale, dove la divinità rappresenta il modo migliore per vivere, la realizzazione della virtù, e quanto più l’uomo riesce ad avvicinarsi a quel modello tanto più potrà essere considerato simile al divino.

Ciò che conta è dentro di noi e non fuori, perchè solo lì è il vero bene che non può essere intaccato. Il principio sarebbe il "Nosce te ipsum", ma inteso un po' più come ciò che si desume dal comportamento, e non da una discesa nell'Ade come raccomandavano le antiche vie misteriche.


L'EDUCAZIONE DEL RE

 L’educazione filosofica però riguarda soprattutto coloro che detengono il potere. Il sovrano deve conoscere il bene del suo popolo. Perciò deve studiare la filosofia: solo chi sa governare se stesso può governare gli altri:

il sovrano deve fare filosofia, perché altrimenti, se non filosofasse, non conoscerebbe evidentemente la giustizia ed il giusto ".

Il sovrano e la legge finiscono così per identificarsi ribadendo quel forte connubio tra spirito e materia, equilibrio tra le parti, armonia del tutto che si dipana attraverso il pensare filosofico.

AGOSTO

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Augusto, come narra Ovidio:
« Celebrava i giorni di festa e le solennità riccamente e qualche volta con semplici divertimenti. Per i Saturnali e quando gli faceva piacere, distribuiva doni, vestiti, oro e argento, ora monete di ogni conio, anche antiche dell’epoca dei re o straniere, a volte nulla oltre a delle coperte o spugne, mestoli, pinze e altri oggetti di questo genere accompagnati da cartelli oscuri e ambigui. Era solito, durante i banchetti, vendere una serie di oggetti di valore diverso e di pitture su tavole voltati per alimentare o frustrare nell'incertezza del caso la speranza dei compratori; e così presso ogni letto si organizzava un’offerta all'incanto e ciascuno dichiarava i suoi guadagni e le sue perdite.»

Si sa che Augusto era molto magnanimo col popolo, un po' meno con i patrizi a cui non era stato favorevole nemmeno il suo padre adottante Cesare. I cartelli oscuri a cui allude Ovidio, erano l'illustrazione del bene in vendita, che poteva essere di grande valore oppure un falso, il cartello svelava ambiguamente la verità, insomma era un rebus da decifrare. Si sa che Augusto aveva il vizio del gioco, e anche questo era un modo per scommettere un po'..


- I agosto - TRMPLUM SPEI -

Festa celebrata il primo agosto in onore della Dea Spes, personificazione della Speranza. Anniversario della dedicatio del tempio di Spes.

MARTE
- I agosto - TEMPLUM MARTIS ULTORIS in Foro Augusti

Anniversario della dedicatio del tempio di Mars Ultor nel Forum Augusti. Il tempio venne costruito dall'imperatore Augustus dopo la battaglia di Philippi.

- 5 agosto - TEMPLUM SALUTIS

Festa celebrata in onore di Salus, Dea della salute e della prosperità sia privata che pubblica. Anniversario della dedicatio del tempio della dea. Nel 311 a.c. C. Iunius Bubulcus aveva promesso alla dea Salus un tempio da costruire sul colle Quirinalis.

- 9 agosto - TEMPLUM SOLIS INDIGETIS (Augustus)
Festa celebrata il 9 agosto in onore del Dio Sol Indiges. Anniversario della dedicatio del tempio del Dio Sole Indigete.

- 12 agosto - TEMPLUM HERCULIS INVICTI -

Festa celebrata in onore di Hercules Invictus. Si ricordava la dedicatio del tempio.

- 12 agosto - TEMPLUM HERMETIS INVICTI -

Festa celebrata in onore del Dio Hermes Invictus, Ermete che dona la vittoria. Si ricordava la dedicatio del tempio.

- 12 agosto - TEMPLUM HONORIS, VIRTUTIS, FELICITATIS -

Festa celebrata il  in onore di Honor, Virtus et Felicitas, divinità personificazioni di Onore, Virtù e Felicità. Si ricordava la dedicatio del tempio.

- 12 agosto - TEMPLUM VENERIS VICTRICIS

Festa celebrata in onore di Venus Victrix, Venere Vittoriosa. Si ricordava la dedicatio del tempio.

- 12 agosto - LYCHNAPSIA

Festa celebrata in onore della Dea egiziana Isis, ossia Iside.

- 13 agosto - TEMPLUM DIANAE -

Festa celebrata in onore della Dea Diana. Si ricordava la dedicatio del tempio. I Romani, schiavi compresi, salivano sull'Aventino per compiere sacrifici alla Dea, mescolati senza distinzione di ceto sociale, perchè Diana era Madre di tutti.

DIANA
Una delle feste più importanti dell'anno. In epoca più antica vi era associata Proserpina, come Dea luna nera, quando "Diana si nascondeva nelle grotte", e dentro al tempio si celava un'ara sotterrata che apriva il mondo dei Manes, cioè degli Dei ctonii.

Il 13 agosto Diana veniva festeggiata anche a Lavinio dal Collegio Salutare di Diana e Antinoo. Il suo culto era molto antico, risalente al culto di Ariccia, e il suo paredro era Vertumno, Dio della vegetazione, che moriva e rinasceva ogni anno. Diana fu molto venerata anche dopo l'avvento del cristianesimo, per quasi mille anni d.c., soprattutto nelle campagne.

Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio volava sopra le campagne col suo corteo di ninfe benedicendo la semina per il buon raccolto. Per questo la Chiesa la considerò malefica, ma poichè il culto persisteva ne accettò una modifica. Così Diana divenne vecchia e brutta ma benefica, mescolandosi con la Dea Strinna, che nel solstizio d'inverno portava doni ai bambini romani. Le prerogative di Diana passarono così alla Vergine Maria, vergine come Diana, ma mentre la Dea porta il corno lunare sui capelli, la Madonna lo calpesta ponendolo sotto ai piedi insieme al simbolo dell'antico serpente, il simbolo della Grande Madre, anch'esso demonizzato. Il dogma secondo cui la Vergine sarebbe stata assunta in cielo a Ferragosto riguarda un'altra Dea Luna, Semele, che veniva celebrata e assimilata a Diana. Anche lei fu assunta in cielo con anima e corpo da Giove, e per questo fu detta l'Assumpta. Il dogma dell'Assunta fu dichiarato da papa Pio XII nel 1950.

- 13 agosto - TEMPLUM FLORAE -

Festa celebrata il in onore della Dea Flora. Si ricordava la dedicatio del tempio.

- 13 agosto - TEMPLUM HERCULIS VICTORIS -

Festa celebrata in onore di Hercules Victor, Ercole Vincitore. Si ricordava la dedicatio del tempio.
Templum Castoris et Pollucis

- 13 agosto - TEMPLUM DIOSCURIS -

Festa celebrata in onore degli Dei Castor et Pollux. Si ricordava la dedicatio del tempio.

- 13 agosto - VERTUMNALIA -

Festa celebrata il 13 agosto in onore di Vertumnus, Dio di origine etrusca che presiedeva all'alternanza delle stagioni. Aveva un tempio sul colle Aventinus e una statua nel Vicus Tuscus.

- 13 agosto - AEDES VORTUMNI - in Aventino

Festa celebrata per il tempio dedicato al Dio Vortumnus, una delle divinità della città etrusca di Volsinii sita presso il lago di Bolsena.

- 15 agosto - FERIAE AUGUSTI (Ferragosto) - 

Venne istituita dall'imperatore Augusto nel 18 a.c., in aggiunta alle preesistenti festività dello stesso mese, come i Vinalia rustica o i Consualia, per celebrare i raccolti e la fine dei principali lavori agricoli. L'antico Ferragosto, oltre a ricordare l'imperatore che investiva effettivamente larghi mezzi dello stato a vantaggio dei contadini, aveva lo scopo di fornire un adeguato periodo di riposo, anche detto Augustali, dopo le grandi fatiche di schiavi e contadini nel periodo precedente.

AUGUSTO
Inoltre si instaurò il costume secondo cui schiavi e salariati porgevano gli auguri ai padroni ricevendone in cambio una mancia. Con quei soldini questi potevano recarsi in città  e godersi un po' di vita, come andare alle terme, anche se al tempo di Augusto esse erano totalmente gratuite.

Augusto dichiarò festa in realtà, cioè sacro, dall'1 al 31 agosto. Questa ricorrenza si festeggia solo in Italia, e ricorre il 15 agosto, ma pochi sanno che la ricorrenza è pagana. Nel 18 a.C. Ottaviano, fu proclamato Augusto, quindi venerabile e sacro, dal Senato. L'imperatore dichiarò allora tutto il mese di agosto Feriae Augusti, le vacanze di Augusto, che includeva molte feste religiose e la più importante era la festa di Diana, che cadeva il 13.

Il termine Augusto derivava dalla denominazione della Grande Madre siriana Atargatis, detta "l'Augusta", cioè la più grande, la Dea con la corona turrita che si ergeva in piedi poggiando su due leoni.

Durante i festeggiamenti, in tutto l'impero si organizzavano corse di cavalli e gli animali da tiro, buoi, asini e muli, venivano dispensati dal lavoro e agghindati con fiori, affichè anche gli animali potessero riposarsi. Da tali antiche tradizioni deriva il "Palio dell'Assunta" che si svolge a Siena il 16 agosto. La stessa denominazione "Palio" deriva dal "pallium", il drappo di stoffa pregiata che era il consueto premio per i vincitori delle corse di cavalli nell'Antica Roma.

- 17 agosto - PORTUNALIA

Festa celebrata in onore di Portunus, Dio dei porti e delle porte, corrispondente al greco Palèmone. Si gettavano nel fuoco le chiavi. Il flamen portunalis aveva il compito di ungere le armi del Dio Quirinus.
"Portunalia dicta a Portuno, cui eo die aedes in portu Tiberino facta et feriae institutae".
M. Terentius Varro (116 a.c. - 27 a.c.), De lingua latina, liber VI - III

19 agosto - VINALIA RUSTICA - detta pure Vianalia Altera.

Venivano celebrate unicamente dagli abitanti del Lazio. In quell'occasione il flamen dialis sacrificava un agnello a Giove e a Venere per propiziare l'abbondanza della vendemmia.
Era la festa del vino celebrata il 19 e 20 agosto in onore di Iuppiter, Giove. Si richiedeva la protezione dell'uva in via di maturazione. Il rito era celebrato dal flamen dialis, il sacerdote di Giove.

- 19 agosto - TEMPLUM VENERIS -

Festa celebrata il  in onore di Venus. Si ricordava la dedicatio del tempio.

- 21 agosto - CONSUALIA -

Festa celebrata il 21 agosto e il 15 dicembre in onore del dio Consus, divinità preposta alle deliberazioni segrete, secondo Livio si identificava con il Neptunus Equestris. Venivano effettuate corse con i cavalli. La celebrazione risaliva ai tempi di Romolo. Fu durante i Consualia che avvenne il ratto delle Sabine.

- 23 agosto - VOLCANALIA -

Festa celebrata il  in onore di Vulcanus, Dio del fuoco.

- 24 agosto - MUNDUS PATET -

Festa celebrata il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre. Nel comitium esisteva una apertura che metteva in comunicazione con il mondo infernale. L'apertura era chiusa dal lapis manalis. Tre volte l'anno il lapis veniva sollevato.

- 25 agosto - OPICONSIVIA -

Festa in onore della Dea OpisConsiva, antica Dea romana protettrice dell'abbondanza e dell'agricoltura. Aveva un tempietto nella Regia del Forum, dove potevano entrare solo le vestali. La festa era in relazione con il raccolto. Consiva significa "che semina, che pianta". Anche Ianus era detto Consivus.

- 27 agosto - VOLTURNALIA -

Festa celebrata il  in onore di Vulturnus, Dio fluviale della Campania, padre della ninfa Iuturna.

- 28 agosto -TEMPLUN SOLIS ET LUNAE -  in Circo Maximo

La dedicatio del Templum Solis et Lunae.

- 28 agosto - TEMPLUM VICTORIAE -

Festa della Dea Vittoria, la Nike greca.


CULTO DELLA DEA ETNA

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L'ETNA
Etna è una Dea della mitologia greco-italica. Era figlia di Urano e Gea, gli Dei primigeni che forgiarono il mondo. Nelle sue viscere ospitava il drago Tifone, che ne causava le eruzioni. Secondo alcuni miti era stato imprigionato, secondo altri era il suo figlio-sposo che albergava nel suo grembo.
Di solito la parte distruttiva era uno dei tre aspetti della Dea, cioè l'aspetto della morte che è parte della natura.

Tifeo, o Tifone, è figlio di Tartaro, personificazione degli Inferi e di Gea, la Madre Terra. Il gigante è orribilmente mostruoso, con un centinaio di teste di drago. Da quando è nato viene destinato dalla Madre Terra ad una lotta incassante contro Zeus, colpevole di aver sconfitto i Titani, anch’essi figli di Gea.

Ovviamente il mito rispecchi a le varie invasioni avvicendatisi in Grecia, e pertanto nella Magna Grecia, tra popoli invasori e invasi. I primi imposero i loro Dei, consentendo però il perpetuarsi di alcuni Dei precedenti.

ETNA
D'altronde il drago, o dragone, o serpente è da sempre il simbolo della Madre Terra, esibito pertanto da tutte le Dee che rappresentarono la Terra, cioè la Madre Natura.

Praticamente Tifone è il fratellastro di Etna. Tifone alla fine viene sconfitto da Zeus, fugge in Sicilia, ma viene imprigionato per sempre sotto l’Etna.

Così il corpo del gigante, supino e vinto, sorregge Messina con la mano destra, Pachino con la sinistra, Trapani gli sta poggiata sulle gambe e il cono dell’Etna sta proprio sulla sua bocca, rivolta verso l’alto. Ogni volta che si infuria, Tifeo, ovvero Tifone, fa vomitare fuoco e lava dall’Etna e ad ogni suo tentativo di liberarsi dal legame eterno, scatena terribili terremoti.

Ma in Sicilia, terra di vulcani e frumento, Etna fece pure da arbitro nelle dispute tra Efesto e Demetra, Dei rispettivamente del fuoco e delle messi. Efesto, o Vulcano, stava appunto dentro il Vulcano.per cui era familiare alla Dea dell'Etna, ma pure Demetra, perchè i terreni attorno ai vulcani sono pericolosi ma fertili, adattissimi a produrre le messi.

CERERE (DEMETRA) ACCENDE L'ETNA
Per questo i due si contendevano il suolo siculo, per distruggerlo o per produrre il grano. D'altronde è Demetra, quando le viene rapita la figlia Persefone da Ade-Plutone, ad accendere i fuochi dell'Etna, decisa a provocare grande distruzione se non ritrova l'amata figlia.

Nell'immagine di cui sopra, dove Cerere, la Demetra italica, accende coi suoi fuochi l'Etna, fa comprendere il legame tra le due Dee, in realtà aspetti della stessa divinità. La Dea delle messi si sposta su un carro guidato da due draghi (immagini di Tofone) e al seguito c'è l'immancabile serpente, simbolo imprescindibile della Madre Terra. Il che conferma che Cerere, Tifone ed Etna non sono altro che la Dea Natura, con i suoi aspetti di vita e di morte.

Etna viene anche ritenuta madre dei Palici, una coppia di divinità ctonie sicule della mitologia romana e greca. Menzionati nelle Metamorfosi di Ovidio e nell'Eneide di Virgilio, che narra di un tempio nei pressi del fiume Simeto dedicato ai Palici, regnavano su due laghetti che emettevano vapori sulfurei nelle vicinanze di Palagonia (Catania).

I PALICI, FIGLI DI ETNA
Nei pressi si ergeva un vicino santuario dedicato ai Palici, dove fu fondata la città sicula di Palikè. Nel santuario si esercitavano il giuramento ordalico, l'oracolo e l'asilo: Stiamo parlando di una società ancora tribale, ben lontana dalla razionalità romana.

- Il giurante si avvicinava alle cavità e pronunciava la formula del giuramento, iscritta su una tavoletta, che veniva gettata in acqua, se questa non galleggiava l'uomo veniva ritenuto spergiuro e punito con la morte o la cecità.

- L'oracolo indicava la divinità e il tipo di sacrificio necessario ad ottenere il favore.

- L'asilo all'interno del santuario riguardava gli schiavi maltrattati da padroni crudeli. Questi ultimi non potevano portar via con la forza i loro servi, se non dopo aver garantito con un giuramento ai Palici di trattarli umanamente.

Come si vede si tratta di tradizioni molto diverse tra loro, perchè mentre il giuramento ordalico si basa su crudeltà e superstizione, anche se provocava un fortissimo legame nel gruppo, nell'asilum vi era un notevole senso di pietà e giustizia. Si potrebbe obiettare che i padroni potevano promettere e non mantenere, ma visti i costumi ordalici, mancare alla parola data sarebbe stato molto pericoloso.

Si reputano i Palici figli di Zeus, o di Efesto, da una relazione con la ninfa Etna, e il loro mito è narrato nelle Etnee di Eschilo di cui rimangono pochi frammenti. Nell'immagine di cui sopra i due gemelli, perchè di gemelli si tratta, sono dichiarati figli di Giove e Talia, ovvero Thalice, uno dei nomi attribuiti ad Etna.
La Dea Etna entrò a far parte dei vari culti romani, oltre che siculi. Alla Dea, almeno nei tempi remoti, non si sacrificavano animali, probabilmente per non risvegliare il suo lato distruttivo, ma le si offrivano libagioni di vino ed erbe odorose.

TERREMOTI NELLA ROMA ANTICA

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COSA NE PENSAVANO I ROMANI

Tenendo conto che in tempi molto antichi si dava più importanza al culto di Giove con tempeste e fulmini che non agli Dei sotterranei, ne derivava che spesso per tempeste si intendessero i terremoti.
Qualsiasi evento fuori dell'ordinario, per i Romani aveva un significato, positivo o negativo. Però esso non era così semplice da decifrare, si che spesso gli auguri non si pronunciavano se non quando si erano connessi agli eventi prodigiosi accadimenti salienti, in genere risultati di guerra, con vittorie o sconfitte.

Questi fatti prodigiosi consistevano in:
- Tempeste
- terremoti
- fulmini
- eruzioni vulcaniche
- inondazioni
- nascita di creature strane, sia umane che animali, con varie deformità o anomalie
- comportamento anomalo di animali
- piogge strane, con pietre, rane, pesci, sangue, fango e latte
- presenza di animali insoliti o pericolosi in città
- presenza di animali che portavano sfortuna nei templi.
- luci anomale nel cielo o luci notturne ingiustificate

Mentre si sa che durante la repubblica si tendeva immediatamente ad interpretare le catastrofi geologiche, come terremoti e inondazioni, per affrettarsi a calmare gli Dei, durante l'impero ci si preoccupò meno delle divinazioni e molto di più nel soccorso delle popolazioni colpite.

Gli Imperatori comparivano spesso e volentieri nelle zone colpite dalle catastrofi per tranquillizzare il popolo ma con appresso già i primi soccorsi. Nessun imperatore si sarebbe azzardato a presentarsi senza i soccorsi sia di necessità sia di opera pubblica di risanamento. Al contrario dei politici di oggi un Imperatore doveva dar prova della sua sollecitudine verso il popolo, e i romani non si contentavano di belle parole.

Pertanto spesso gli Imperatori comparivano con cibi, pelli, operai e materiali da costruzione per riparare ciò che era andato distrutto o danneggiato. Di frequente facevano anche consegnare denaro sonante ai cittadini danneggiati, per provvedere alle prime necessità, anche perchè era più facile e veloce consegnare denaro che non merci.

In quanto alle credenze del popolo erano di sicuro le più svariate, anche nel senso che ogni paese e circondario credeva nei suoi Dei e nei suoi miti, e lo stato non si intrometteva. Vale a dire che ognuno interpretava gli eventi a suo modo, anche se in senso religioso.



SUI GRADI DI MAGNITUDO

Da considerare che in un territorio la scala varia molto: un V grado dovrebbe essere piuttosto forte, avvertita anche da persone addormentate e con caduta di oggetti; un VI grado dovrebbe essere decisamente forte ma senza gravi danni, nè agli edifici nè alle persone: solo qualche leggera lesione negli edifici e finestre in frantumi. Questo, secondo la scala Richter, elaborata nel 1935 da Charles Richter secondo obiettive formule matematiche ma che poco tengono conto degli abitanti.

Invece nella scala Mercalli, più soggetta alle interpretazioni degli eventi, i terremoti di V e VI grado diventano del VII e dell'VIII grado, ovvero dal "forte" al "rovinoso", fino al IX e X grado, che spianano i centri abitati. Di solito i Media adoperano i gradi Richter per spaventare meno la popolazione, ammesso che ci riescano.

Nell'elenco sottostante abbiamo posto: la data, i consoli e/o imperatori, i luoghi e le descrizioni dei terremoti ove possibile. I gradi indicati nei vari terremoti sono stati ricalcolati attraverso moderni sistemi di rilevazione sismica nelle varie aree geologiche.



DATE AVANTI CRISTO

217 a.c. giugno - Gneo Servilio Gemino - Gaio Flaminio Nepote -
- Etruria - grado 10 Mercalli, grado 5,6 Richter. Epicentro il lago Trasimeno.

182 a.c. - L. Aemilio Paulo - Cn. Baebio Tamphilo coss. -

- Una furiosa tempesta, a Roma, dopo aver fatto una strage in città, abbatté le statue di bronzo sul Campidoglio, capovolse statue e colonne nel Circo Massimo, disperse i tetti di alcuni templi strappandoli dalla cima. (sicuramente ci fu un terremoto e pure forte, per provocare la caduta di statue e colonne)

179 a.c. - Q. Fulvio L.-  Manlio coss. -

- Furono abbattute dalle continue tempeste alcune statue sul Campidoglio. Molte cose vennero colpite a Roma e nei dintorni dai fulmini. Al banchetto di Giove le teste degli dei si mossero a
causa di un terremoto; un piatto cadde con quello che era stato preparato in onore di Giove.

174 a.c. - Spurio Postumio Albino Paululo - Q. Muzio Scevola -

- In Sabina forte terremoto grado 6,6.

166 a.c. - M. Marcello - C. Sulpicio coss. -

- A Cassino molte costruzioni furono distrutte da un fulmine e nella notte fu visto il sole per alcune ore. (anche qui trattavasi di terremoto, un fulmine non distrugge diverse case)

156 a.c. - L. Lentulo - C. Marcio coss. -

- A Roma, a causa di una violenta tempesta nel Campidoglio il tempio di Giove e le costruzioni nelle vicinanze furono danneggiati. Il tetto della casa del Pontefice Massimo fu scaraventato sul Tevere con le sue colonne. Nel Circo Flaminio un colonnato tra il tempio della Regina Giunone e quello della Fortuna fu colpito e molti edifici circostanti furono danneggiati.

152 a.c. - M. Claudio Marcello - L. Valerio Flacco coss. -

- Nel Campo Marzio, a Roma, una colonna con una statua dorata davanti al tempio di Giove venne abbattuta dalla forza di una tempesta; e, poiché gli aruspici avevano annunciato la morte dei magistrati e dei sacerdoti, tutti i magistrati abdicarono immediatamente.

133 a.c -  P. Mucio - L. Pisone coss. - .

- A Luni, per un terremoto, la terra in un'area di quattro iugeri sprofondò e la cavità fu subito occupata da un lago.

126 a.c. - M. Aemilio - L. Aurelio coss. -

- Il monte Etna diffuse largamente fiamme dalla sommità; ci fu un terremoto e il mare ribollì vicino alle isole Lipari: furono bruciate alcune navi, vennero uccisi parecchi marinai col fumo, fu dispersa una grande quantità di pesci morti. Gli abitanti di Lipari, desiderandoli alquanto avidamente per i banchetti, furono uccisi da una malattia dello stomaco, così che le isole furono svuotate dalla nuova pestilenza.

118 a.c. - M. Catone Q. -  Marcio coss. -

- Mentre il console Catone compiva un sacrificio, le viscere si consumarono e non fu trovata l'estremità del fegato. Piovve latte. La terra tremò con un boato.

117 a.c. - L. Caecilio - L. Aurelio coss. -

- Nella Reggia si mossero le lance di Marte. A Priverno la terra sprofondò in una caverna in un'area di sette iugeri.

113 a.c. - C. Caecilio - Cn. Papirio coss. -

- La terra si aprì ampiamente in Lucania e nel territorio di Priverno.

100 a.c. - C. Mario - L. Valerio coss. -

- Nel Piceno le abitazioni furono ridotte in rovine da un terremoto, mentre alcune rimasero inclinate nella loro sede sconvolta. Grado 5.84

 99 a.c. - M. Antonio - A. Postumio coss. -

- A Norcia un luogo sacro fu distrutto dal terremoto. Grado 5.57. Fu percepito fortemente anche a Roma.

 97 a.c. - Cn. Cornelio - Lentulo P. Licinio coss. -

- A Pesaro fu udito un fremito della terra.

 92 a.c. - C. Claudio -  M. Perpenna coss. -

- A Fiesole fu udito un fremito della terra.

91 a.c. - Manio Acilio Glabrione - Marco Ulpio Traiano

- Magreta - Modena (Reggio Emilia) - grado 5.66

91 a.c. - Manio Acilio Glabrione - Marco Ulpio Traiano
- Reggio Calabria - grado 6.30

76 a.c. - Gneo Ottavio . Giao Stribonio Curione
- Rieti grado 6.60

63 a.c. - M. Cicerone - C. Antonio coss. -
- Per un terremoto tutta Spoleto fu scossa e alcuni edifici crollarono

60 a.c. - Quinto Metello - L. Afranio coss. -
- Mentre tutto il giorno era stato sereno, diventò notte all'ora undicesima, quindi tornò giorno. I tetti furono scoperti dalla forza di un turbine. Crollato un ponte, alcuni uomini precipitarono nel Tevere.

56 a.c. aprile - Gneo Cornelio Lentulo Marcellino - Lucio Marcio Filippo

- Potentia (Potenza Picena - Portorecanati) grado 5.84

44 a.c. - M. Antonio P. Dolabella coss. -
- Lo stesso Cesare (Ottaviano) ebbe una grande fermezza nel sopportare le numerose offese provocate dalla grande malizia del console Antonio. Ci furono frequenti terremoti. I cantieri navali e altri luoghi furono colpiti dai fulmini. Per la violenza di un turbine una statua, che Marco Tullio Cicerone aveva posto davanti alla cella di Minerva il giorno prima che il plebiscito lo mandasse in esilio, giacque a terra con gli arti sparsi, con le spalle, le braccia e le gambe rotte: mostrò allo stesso Cicerone un presagio funesto.

17 a.c. - C. Furnio - C. Silano coss. -

- Nei pressi degli Appennini, nella villa di Livia, moglie di Cesare, ci fu un grande terremoto.




DATE DOPO CRISTO

18 d.c. (marzo 24 o 25) - Tiberio Cesare Augusto - Germanico Giulio Cesare -
- Nella notte 24-25 marzo fortissimo terremoto presso Reggio Calabria e in Sicilia : Mallet lo pone nel 17, ma dietro Tacito, Solino e Plinio, sembra più probabile sia avvenuto nel 18. La data del giorno è tratta dal Giornale della Storia del Mondo di L. Dolce. Accaddero in tale occasione grandi sconvolgimenti nel suolo. Grado 5.14 R  e 8-9 M.

20 d.c. - M. Valerio Messalla Barbato - M. Aurelio Cotta -
Secondo alcuni cronisti avvenne veramente terremoto a Roma, che, il Morigia, dice essere stato accompagnato da grandi portenti, fra cui l'incendio del Teatro di Pompeo.

62 (5 febbraio) - Publio mario - Lucio Alinio Gallo -
- Terremoto a Pompei - danneggia le città romane di Pompei, Ercolano e Stabiae, e diversi monumenti di Neapolis fra cui il teatro romano con epicentro a Stabiae, grado 8 - 9 M, 5.87 R descritto anche da Lucio Anneo Seneca.

68 - Tiberio Catio Asconio Silio Italico - Publio Galerio Tracalo -
- Teate (Chieti). E' il primo sisma in Abruzzo di cui si abbia menzione.

69 - Servio Sulpicio Galba - Tito Vinio -
- Grande terremoto nell'Abruzzo citerior., allora contado Marrucìno : avvennero grandi sconvolgimenti nel suolo per i quali i prati e gli alberi furono trasportati da un luogo all'altro della pubblica strada : fu scossa anche Roma ove, al dir del Sabellico, il movimento sismico fu accompagnato da grandi fragori. Questo terremoto per le solite discrepanze cronologiche, da alcuni è posto nel 70 e da altri nel 69. Non è certo sia un terremoto o un grande franamento di terreno.

79 (25 agosto) - Imperatore Cesare Vespasiano - Tito Cesare Vespasiano
- Area vesuviana - Terremoto causato dall'eruzione catastrofica del Vesuvio che seppellirà le città di Pompei, Ercolano e Stabiae. Grado 5.77. Plinio il Giovane In una lettera a Tacito descrisse ciò che accadde a Miseno. Egli racconta delle scosse di terremoto avvenute giorni prima, e la notte dell'eruzione le scosse « crebbero talmente da far sembrare che ogni cosa si rovesciasse». Inoltre, pareva che « il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremare della terra», così che « la spiaggia s'era allargata e molti animali marini giacevano sulle sabbie rimaste in secco». Grado 5.77 R.

85 - Imperatore Cesare Domiziano Augusto  - Lucio Marcio Filippo
Bardie e Benito sostengono che nell'85 d.c. vi fu a Roma un terremoto rovinoso.

99 - Aulo Cornelio Palma Frontoniano I - Quinto Sosio Senecione I -
- Forte terremoto a Circello (Benevento).  Magnitudo 9.10 M - 6.30 R

101 - Imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto - Quinto Articuleio Peto -
- San Valentino in Abruzzo Citeriore, gradi 9-10 M e 6.30 R.

305 - Imperatore Costanzo I -
- A Reggio Calabria dopo il terremoto del 305 d.c. vengono ricostruite le terme pubbliche e restaurato il vicino palazzo del tribunale.

324 - Imperatore Costantino I -
- Massafra in Puglia, Crollo di varie cripte e massi

346 - Imperatore Costante -
- Sannio gradi 9 M. e 6 R. - distruzione di diverse città, come dimostra l’intensa attività edilizia svolta nelle città del Samnium da Fabio Massimo e Autonio Iustiniano. Fabio Massimo, il primo o uno dei primi governatori del Samnium, interviene in almeno sette città della nuova provincia operando interventi sul patrimonio edilizio pubblico e, in almeno due di esse ( Allifae e Telesia ) promuove esplicitamente la ricostruzione di edifici compromessi da un sisma. Autonio Iustiniano, da parte sua, restaura il macellum di Aesernia ugualmente danneggiato terrae motibus. La severità del sisma del 346 d.c. è stata recentemente ribadita utilizzando non solo le fonti letterarie ed epigrafiche ma anche la documentazione archeologica.

362 - Imperatore Giuliano -
- Rinvenimenti archeologici testimoniano che un disastroso terremoto seguito da un maremoto devasta le città di Messina e Reggio Calabria, causando la scomparsa di numerosi centri abitati minori e una drastica diminuzione della popolazione della Sicilia nord-orientale e della Calabria meridionale. Colpita anche la città di Tindari. A Reggio dopo questo terremoto vengono ricostruite le terme pubbliche e restaurato il vicino palazzo del tribunale. Gradi 9-10 M e 6.30 T.

369 (21 luglio) - Imperatore Valentiniano I -
- Benevento. Andarono distrutti la maggior parte di edifici importanti dell'epoca e morirono la metà degli abitanti della città, che erano circa 200.000. Andarono distrutte le sue 15 torri e gli importanti edifici e templi che ospitava. Secondo altre fonti avvenne nel 365. Gradi 9 M. e 6 R.
     
371 -  Imperatore Valentiniano I -
- Stretto di Messina. un violentissimo terremoto, seguito da uno sciame di grandi scosse piuttosto lungo, devastò le coste dello stretto, da Reggio a Messina, causando degli improvvisi spopolamenti in entrambi le rive, spesso indotti dai gravi danni di un fenomeno catastrofico che ha ridotto, in modo anche drastico, la popolazione. Inoltre recenti ricerche archeologiche avrebbero portato alla luce numerose lapidi ed epitaffi risalenti proprio a quel periodo. Gradi 9-10 6.30.

SPEDIZIONI ROMANE IN AFRICA

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CARTA DELLE PRINCIPALI LOCALITA' E VIE DELL'AFRICA NORD OCCIDENTALE
ESPLORATE DAI ROMANI TRA IL I SEC. A.C. ED IL I SEC D.C.
La provincia romana d'Africa, che divenne poi l'Africa Proconsolare, inizialmente interessò il territorio intorno a Cartagine e si estese successivamente verso il regno di Numidia, lungo le coste del Maghreb, comprendendo i territori occupati oggi dalla Tunisia, tranne la parte desertica, la costa orientale dell'Algeria e quella occidentale della Libia.

I primi navigatori del mediterraneo furono senz'altro i fenici, seguiti poi dai greci, dagli etruschi e dai romani. Mentre i greci erano ormai di casa avendo occupato tutta la Magna Grecia e non avevano più grandi velleità coloniche in Italia, anche perchè erano controllati dai confinanti sanniti, etruschi e fenici erano un grosso pericolo per Roma, soprattutto per la concorrenza commerciale.

RICOSTRUZIONE DEL PORTO DI CARTAGINE

CARTAGINE

Una volta sgominati e soprattutto inglobati gli etruschi, i romani si rivolsero alla potenza fenicia: i cartaginesi. I romani sapevano che per vincere un nemico occorreva studiarlo, pertanto cominciarono a organizzare spedizioni in Africa, soprattutto nei dintorni di Cartagine, rivolgendosi pertanto al territorio del nord Africa occidentale.

Cartagine venne fondata da coloni fenici provenienti dalla città di Tiro. Venuta a conflitto con Roma per rivalità commerciali venne rasa al suolo al termine delle Guerre Puniche, che iniziarono nel 264 a.c. e terminarono nel 146 a.c.. 

- 122 a.c., - il tribuno della plebe Gaio Sempronio Gracco, capo dei populares, fondò una colonia sul territorio dell'antica Cartagine (Colonia Iunonia Karthago, l'unica esistente fuori dell'Italia). Le terre distribuite ai coloni consistettero in 300.000 ettari, il che fa pensare ad una loro dispersione all'interno della provincia. 

- 121 a.c. -  il movimento di colonizzazione subì un arresto, quando Gracco venne assassinato e il partito dei populares venne sostituito da quello degli optimates, ossia degli aristocratici..

Tuttavia sul territorio della ex Cartagine la nuova città crebbe e divenne la seconda città nella parte occidentale dell'Impero Romano e la città principale della Provincia romana d'Africa.

- 46 a.c. - Gaio Giulio Cesare vi fondò una colonia romana di veterani nel 46 a.c., in qualità di colonia era autonoma ma legata da vincoli di eterna alleanza con Roma.

Ora i romani sanno e soprattutto Cesare sa che in Africa ci sono animali stranissimi e belve feroci, e che quest'ultima sono un'ottima attrazione per le venationes e i combattimenti gladiatori.
Cesare sa benissimo che i romani vogliono,ansiosamente due sole cose, come disse Giovanale:
« duas tantum res anxius optat: panem et circenses » il pane e il circo. E Cesare procura ai romani il grano egizio per il pane e per 175 giorni all'anno fornisce gli spettacoli al circo.

Per questo occorrono avventurieri che vadano in Africa a catturare belve feroci. E già che ci stanno catturano o uccidono uccelli dalle lunghe piume colorate che alle romane piace tanto mettere sui cappellini.

Ma catturano o uccidono pure gli animali da pelliccia, che in parte vengono ai circhi dove sono state uccise, ma non bastano, perchè i romani mettono pellicce ovunque nelle loro case: sulle sedie, sulle poltrone, sui divani, sulle panche e sui letti, ma pure in terra, dentro casa e negli androni, talvolta anche sotto ai porticati.

Insomma l'Africa diventa un business, anche perchè i romani amano l'avorio e per questo si ammazzano gli elefanti. L'avorio si incastona nei letti, sui panchetti, sui troni e sulle poltrone. Ma amano anche l'ebano africano, un legno nero e duro così adatto alle incisioni. 

Il porto di Alessandria, fondato nel 334 a.c., era il principale nodo di scambio del Mediterraneo. Ma in Africa c'erano pure le pietre preziose e semipreziose: smeraldi, granati, zirconi, ametiste, turchesi, cristallo di rocca, la famosa amazonite che somiglia allo smeraldo, e pure coralli e perle.

Plinio il Vecchio, piuttosto scandalizzato dallo sfarzo delle romane, riferì che la terza moglie di Caligola, Lollia Paolina, si presentò in pubblico, con vari gioielli che a occhio e croce dovevano valere circa 40.000.000 di sesterzi, come dire una cinquantina di milioni di euro.
Erodoto racconta delle spedizioni dei Cartaginesi che nei monti dell'Atlante scambiano merci per oro. Che la vera ricchezza dell’Atlante fossero i suoi metalli era stato compreso presto dai Punici, tanto da essere inserito nelle rotte mercantili dell’Estremo Occidente. Però una volta distrutta Cartagine sono i romani a commerciare per acquistare oro e pietre preziose.

CACCIA AFRICANA (Piazza Armerina)

NUMIDIA

Era la parte del Nordafrica compresa tra la Mauretania (attuale Marocco) e i territori controllati da Cartagine (zona dell'attuale Tunisia).
La Mauretania era una provincia romana, divisa tra Mauretania Tingitana, a occidente nell'attuale Marocco, la Mauretania Sitifense (la più orientale, ai confini della Numidia) e la Mauretania Cesariense (situata ad est del fiume Mulucha).

- 149 a.c. - Polibio fa un viaggio in Africa seguendo Scipione l'Africano esplorando le coste dell'Atlantico. Plinio, nella Historia Naturalis, narra che ancora Polibio, scrittore e storico greco che visse a Roma per 17 anni.

- 146 a.c - Polibio torna ad esplorare l'Africa e assiste alla caduta di Cartagine, che poi descrisse. Ovviamente con Scipione Polibio c'era il seguito delle legioni romane e come d'uso, frequentemente venivano mandati dei legionari a esplorare i territori adiacenti. Questi non solo facevano poi da battitori alle legioni ma esploravano territori sconosciuti riferendo poi ai generali che a loro volta riportavano ai senatori. Questi ultimi, in base alle notizie acquisite e alle mappe stilate dai legionari stabilivano dove fosse opportuno stabilire contatti commerciali o conquistare i territori.

- 112 - 105 a.c. - Durante la guerra che dal 112 al 105 a.c. Giugurta combatté contro i Romani, il re di Mauretania si schierò dalla parte dei Romani divenendone alleato e ottenendo una parte dello sconfitto regno di Numidia.

POSIZIONE DELLA NUMIDIA NELL'IMPERO ROMANO
- 103 a.c. - Durante la guerra contro Giugurta, il console Mario aveva ingaggiato nel suo esercito dei "proletari", contadini privi di terre. Divenuto capo dei populares a Roma, per ricompensarli della loro fedeltà, fece votare nel 103 a.c. una legge che concedeva ad ogni veterano 252 ettari di terreno. Anche gli ausiliari reclutati presso la popolazione nomade dei Getuli ricevettero questi doni insieme alla cittadinanza romana. 
I Getuli erano grandi allevatori di cavalli, e secondo Strabone avrebbero avuto 100,000 puledri in un solo anno. Vestivano di pelli, vivevano di carne e di latte e il solo prodotto artigianale connesso col loro nome è un colorante color porpora che divenne di moda a partire dall'epoca di Augusto, e veniva prodotta dalla conchiglia purpurea Murex brandaris. I veterani vennero stanziati nelle regioni che erano state incorporate all'ager publicus nello sconfitto regno di Numidia, consolidando inoltre la frontiera. Lo stanziamento riguardò tra le 6 e le 10.000 persone, sebbene sul territorio non venisse fondata alcuna colonia.

- 88 a.c. - Durante la guerra civile tra Mario e Silla , l'Africa costituì una roccaforte dei sostenitori di Mario, anche grazie alla presenza di questi veterani del suo esercito.

- 81 a.c. - i seguaci di Mario in Africa detronizzarono il re della Numidia orientale Iempsale II, figlio di Gauda e partigiano di Silla. Furono però sconfitti da un'alleanza che comprendeva il re mauro Bocco e il luogotenente di Silla, Pompeo.

- 80 a.c. - Iempsale recuperò il trono. I sillani gli riconobbero perfino una giurisdizione sui Getuli, fatti cittadini romani da Mario.

- 75 a.c. - I populares impedirono il ritorno in seno alla Numidia dei territori annessi nel 105 a.c.,

- 64 a.c. - Venne riconosciuta a Iempsale l'indipendenza delle sue terre rispetto all'ager publicus. Il re numida si trovò così alleato degli optimates e dei pompeiani, successori dei sillani.

- 50 a.c. - Alla morte di Iempsale, il tribuno cesariano Curione propose l'annessione della Numidia orientale, spingendo il nuovo re Giuba I tra i seguaci di Pompeo.

- 49 a.c. - Nel corso della guerra civile tra Cesare e Pompeo, una prima spedizione condotta da Curione venne sbaragliata dalle truppe numide. 

- 48 a.c. - Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo i due figli del re che si erano divisi il regno, si schierarono dalla parte di Cesare e dopo la sua vittoria ottennero una parte della Numidia occidentale. Dopo la sconfitta di Pompeo a Farsalo nello stesso anno, i dirigenti del partito pompeiano si rifugiarono in Africa, dove formarono, insieme all'esercito numida, una forza di oltre 70.000 uomini, ultimo ostacolo alla vittoria di Cesare. 


AMMAEDARA
- 47 a.c. - Cesare sbarcò in Africa. con sei legioni, contando inoltre sull'alleanza col re di Mauretania e con i Getuli, sottoposti ai Numidi dall'80 a.c.

- 46 a.c. - Un condottiero campano esule in Mauretania, Publio Sittio, originario di Nuceria Alfaterna, riuscì, con l'appoggio dei Mauretani, a sconfiggere il re della Numidia occidentale,Massinissa II, impegnato al fianco del cugino Giuba. I Numidi e i pompeiani furono presi tra due fuochi e vennero sconfitti nella battaglia di Tapso. Il re Giuba si suicidò, così come Catone Uticense, capo del partito pompeiano.
Cesare riorganizzò i territori africani: il regno della Numidia occidentale viene per metà annesso al regno di Mauretania e per metà assegnato a Sittio. 
Il regno di Numidia orientale divenne invece una nuova provincia: l'Africa Nova (con capitale Zama e di cui Gaio Sallustio Crispo fu il primo governatore). I territori che già costituivano la provincia d'Africa presero allora il nome di Africa Vetus. ("Africa vecchia")

- 45 a.c. - Continuando la stessa politica di Mario, Cesare riprese la fondazione di colonie in Africa inviando veterani italici, ma anche gallici o africani, a fondare nuove città sulla costa africana. Si trattava dei centri di Cartagine, Thabraca, Hippo Diarrhytus, Thuburbo Minor, Uthina (nei pressi di Cartagine), Clupea, Carpis, Curubis e Neapolis (in Tunisia). Questa politica gli permise di insediare i suoi veterani, ma anche di controllare le rotte di cabotaggio delle navi che trasportavano il grano africano, necessario per l'approvvigionamento di Roma.

- 44 a.c. - Le ulteriori vicende belliche durante la lotta dei triumviri Marco Antonio, Ottaviano e Lepido contro i cesaricidi interessarono ancora la provincia africana. Il principe numida Arabione, figlio dell'ultimo re della Numidia occidentale eliminò Sittio e riconquistò il trono.

- 41 a.c. - Il governatore dell'Africa Nova, Tito Sestio, partigiano dei triumviri, si impadronì anche dell'Africa Vetus, il cui governatore si era schierato con i cesaricidi, e riuscì ad eliminare anche Arabione, sebbene fosse suo alleato..

- 40 a.c. - Nella successiva suddivisione delle sfere di influenza dei triumviri, l'Africa riunita venne affidata nel 40 a.c. a Lepido

- 36 a.c. - Lepido perde l'Africa, a causa dei contratti con Ottaviano, tuttavia  riuscì a fondare altre tre nuove colonie in Africa e Numidia (a Sicca Veneria, Cirta e Utica) ed altre quattro nella "futura" provincia romana di Mauretania Tingitana.

- 33 a.c. - Durante la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio un figlio si schierò per Antonio e il suo regno passò al fratello. L'altro figlio si schierò per Ottaviano e, alla sua morte nel 33 a.c., lasciò il suo regno in eredità a Roma.

- 25 a.c. - Ottaviano vi stabilì numerose colonie. Nel 25 a.c. il regno venne attribuito a Giuba II della stirpe reale numida, che ne trasformò la capitale, mutandone il nome in Cesarea, sposando una figlia di Marco Antonio e Cleopatra.

- 23. a.c. - Tiberio incorpora Leptis Magna nella nuova provincia romana dell'Africa, quando un certo Calpurnio Pisone cominciò a restaurare i suoi vecchi quartieri e a costruirne di nuovi a sue spese.

- 17 d.c.. - Leptis Magna costruì la sua prima strada romana interna. Dagli scavi archeologi italiani si scopre un cippo, alto quasi 2 m e del diametro di 44 cm, su cui si legge che sotto l'imperatore Tiberio un certo Elio Lamia costruì nell'anno 15 d.c. 44 ml di strada nell'arido deserto dell'interno. 
I miliaria di questa Via Lamia risalgono invece al regno di Caracalla. La nuova strada permise di distruggere completamente la fauna selvaggia e di respingere le tribù del deserto.

- 40 d.c. - Nel 40 la Mauretania passò sotto il controllo diretto di Roma.

- 42 d.c. - In Mauretania vi fu una rivolta e l'imperatore Claudio vi inviò il generale Gneo Osidio Geta, che, a capo della Legio IX Hispana, sconfisse il nemico in due scontri, poi lo inseguì i fuggiaschi nel deserto dopo essersi approvvigionato d'acqua come poteva. Ma le provviste d'acqua non furono sufficienti e Geta non era più in grado nè di avanzare nè di tornare indietro. 
Cassio Dione racconta:
« Allora Geta non sapendo cosa si doveva fare, un indigeno che stava dalla parte dei Romani, lo persuase a richiedere incantesimi, dicendo che con queste cose spesso al suo popolo era stata data acqua in abbondanza; all'improvviso piovve tanta acqua da dissetare i soldati romani e contemporaneamente da lasciare sbigottiti i nemici, che credettero che una divinità fosse giunta in aiuto di Geta »
(Cassio Dione, Storia romana)

ANFITEATRO DI EL-JEM

SPEDIZIONI ROMANE VERSO IL LAGO CIAD E IL FIUME NIGER

Le prime spedizioni romane in Africa verso il Lago Ciad e il fiume Niger furono le prime esplorazioni compiute in territori sub-sahariani al tempo dell'Impero romano, tra il I sec. a.c. ed il I sec. d.c.. I legionari romani non temevano di avventurarsi in luoghi assolutamente sconosciuti. 

Essi avevano a proprio vantaggio una coesione di gruppo ed un addestramento che li rendevano una potente macchina da guerra, e in più una capacità di cambiamento sulla base di apprendimenti nuovi. I romani copiavano dagli altri qualsiasi idea apparisse adatta a migliorare la situazione. In terra africana avevano tolto le armature di metallo e lo zaino pesante. Avevano alleggerito le quantità di cibo integrandole con frutta e piante locali per non incorrere nella disidratazione.

In età imperiale si avevano notizie, parte vere e parte leggendarie, sull'arcipelago indonesiano, sull'Arabia, sul fiume Niger, il principale fiume dell'Africa occidentale, e sui laghi equatoriali al centro del continente africano.

Queste esplorazioni avvennero insieme alla edificazione del limes romano nell'Africa settentrionale. In seguito, infatti, al consolidamento del potere romano nell'Africa mediterranea, tra il 146 a.c. ed il 42 d.c., iniziarono gli attriti con la bellicosa tribù nomade dei Garamanti che viveva nell'attuale regione del Fezzan, la vasta area del Deserto del Sahara appartenente all'attuale Libia.

I Garamanti erano nomadi che vivevano di commercio ed erano situati tra la regione Subsahariana (Niger, Ciad, Sudan, Mali, Burkina Faso, Benin) ed i possedimenti mediterranei greci (Cirene, Philaimon Bomoi) e pure con Cartagine, cui subentrò Roma al termine della III guerra punica.

Siccome il dazio dei nomadi sulle merci in transito era sempre più esoso, i commercianti italici chiesero ed ottennero una  spedizione contro i Garamanti che li liberasse definitivamente dalle pesanti gabelle.

Garama era la capitale del regno dei Garamanti (odierna Germa) famosa sia ai Greci che ai Romani per le cronache degli storici Erodoto, Plinio il Vecchio e Tacito.Sappiamo da Erodoto che nella Fasania, l'odierno Fezzan, viveva ai suoi tempi, vale a dire nel V sec. a. c., una popolazione, i Garamanti, che possedeva strane usanze ed era quanto mai bellicosa e fiera. 

Essi coltivavano con l'aratro dopo aver cosparso di terra fertile il sottostante terreno salato, i loro buoi pascolavano a ritroso per non conficcare nel suolo le lunghe corna e a bordo di carri trainati da quattro cavalli i Garamanti cacciavano gli Etiopi trogloditi, gli uomini più veloci nella corsa.

GERMA
Si trattava di quegli stessi Garamanti che nel 19 a c. il console Cornelio Balbo, attraversato con una colonna di 20.000 uomini lo sconfinato deserto rosso, raggiunse nel cuore del loro paese sconfiggendoli e facendoli di poi alleati di Roma. 
Un piccolo mausoleo sorge ancora nel luogo ove una volta esisteva l’antica capitale dei Garamanti, Garama (l’attuale Germa nell’Uadi el Agial),  il resto romano più meridionale all'interno dell'Africa, a testimoniarci l’impresa del del proconsole Lucio Cornelio Balbo nel 19 d.c. contro i Garamanti.

Scopo della spedizione romana era la conquista di questa città, l'eliminazione dei tributi dovuti ai nomadi del Sahara, nonché la conquista delle piste carovaniere per controllare la popolazione e magari guadagnare sulle gabelle in modo oculato. Queste spedizioni portarono i Romani al di là del Sahara in quelle terre che le carte geografiche rinascimentali riporteranno con la famosa dicitura "Hic sunt leones" (qui ci sono i leoni, cioè zona sconosciuta e pericolosa). 

Il che significa che anche queste imprese romane erano sconosciute all'epoca, vista l'ignoranza in cui era caduta la popolazione a causa della chiusura delle scuole voluta dalla religione cristiana.

Le origini della più antica rotta carovaniera del Sahara furono scoperte dall'archeologo francese Henry Lhote, che, tra il 1935 ed il 1950 studiò a fondo le pitture rupestri neolitiche della regione compresa tra la Libia meridionale, l'Algeria meridionale, il Niger settentrionale ed il Ciad settentrionale.

La rotta traversava le regioni dei Garamanti e dei Trogloditi. Lhote scoprì un graffito vicino ai pozzi di Arlit nell'attuale Niger nel Sahara meridionale, con un carro di oggia cretese in uso ai Garamanti, confermata da un ritrovamento analogo vicino ai pozzi di Ti-m-Missao sull' antica pista tra l'Hoggar e l'Adrar des Iforhas in Mali.

Si trattava della più antica rotta carovaniera del Sahara che lo traversava dalla costa libica della Sirte fino al fiume Niger, del I millennio a.c., Successivamente (1955), monete romane e ceramica italica vennero rinvenute sino in Costa d’Avorio.

Le ricerche di Lhote scoprirono che i legionari romani seguirono l'antica pista carovaniera attraverso il Sahara fino al fiume Niger. Impresa eccezionale, in quanto i Romani non possedevano la bussola, nè la reale estensione del Sahara, nè le eventuali oasi..

Avranno usato guide locali, probabilmente Garamanti, ma i romani non erano usi mettersi totalmente nelle mani degli altri, per cui avranno sicuramente inviato prima esploratori. Avranno rinunciato all'armatura per il clima torrido, e avranno lasciato molti dei pesi dello zaino per limitarsi ad armi, cibo e soprattutto acqua. I Romani peraltro pensavano che il Niger fosse parte del fiume Nilo.

LEPTIS MAGNA

LE STRADE ROMANE IN AFRICA

In Africa le strade furono soprattutto viae glareae, strade ghiaiate, avendo come fondo la roccia del deserto e non la terra. Si costruivano pertanto con una gettata di pietrame, comprimendolo senza pavimentarlo. Nei tratti che traversavano le città venivano invece coperte con spesse lastre rettangolari di pietra calcarea, levigata e bianca, intarsiate a spina di pesce. Le strade romane del Nordafrica permisero l'instaurarsi della civiltà romana.

Queste permettevano alle legioni di arrivare velocemente ovunque su un passaggio inadatto ai cammelli, per cui impedivano le incursioni delle tribù del deserto, inoltre i coltivatori berberi potevano portare velocemente ai mercati i loro prodotti: grano, vino e olive. 
Inoltre collegavano le città costruite dai Romani, ma conducevano soprattutto alle grandi proprietà dove l'agricoltura veniva praticata su larga scala.

 Un secolo dopo la conquista romana del Nordafrica e l'arrivo della III Legione Augusta, la Numidia (Algeria) e la Mauretania erano percorse da 4000 miglia romane di strade.



LUCIO CORNELIO BALBO (fiume Niger)

Nato a Cadice in Spagna, apparteneva alla Gens Cornelia, una delle più gloriose e ricche gentes aristocratiche dell'antica Roma. Fu pensatore e letterato, abile generale, politico e Pontefice Massimo.

- 19 a.c - Lucio Cornelio Balbo con il titolo di proconsole d'Africa nelle terre prima dei Getuli e poi Garamanti eseguì una ardita spedizione nella Libia sahariana. La spedizione partiva dal Golfo della Sirte nella Libia mediterranea, con un esercito di una decina di migliaia di uomini per 1.600 km nel profondo del deserto del Sahara, uno dei luoghi più caldi del pianeta, raggiungendo prima l'oasi di Cydamus (oggi Ghadames), ove lasciarono un presidio militare.

Quindi, dopo una marcia di circa 550 km, piegando poi ad angolo retto verso sud per altri 650 – 700 km attraverso l'Hamada el - Hamra, diedero battaglia per occupare i più importanti centri della regione, come Debris (odierna Adri) e Baracum (Al Biraq) nello Wadi Shati e Tabidium (Awbari), e la capitale dei Garamanti, Garama (Germa).

Da qui potrebbe inoltre, avrebbe inviato una spedizione esplorativa fino nel Fezzan, raggiungendo l'ansa del fiume Niger nell'attuale Mali, tra le odierne città di Gao e Timbuctù Pertanto aveva traversato l'intero Sahara sull'antica pista carovaniera aperta mille anni prima.

Per questi successi tornato a Roma ottenne il Trionfo nel Foro romano come risulta anche nei Fasti triumphales, e fu il primo cittadino romano non nato a Roma a ricevere questo onore.

CORNELIO BALBO MINOR
In seguito fece edificare a sue spese un nuovo teatro a Roma: il teatro di Balbo con l'annessa Crypta Balbi (nel 13 a.c.).

La conquista ha diverse fonti. Narra Plinio che la III Legio Augusta, al comando di Cornelio Balbo, scese verso sud, passando per Alasi (Abalessa nell'Hoggar ) e Balsa (Ilezy), sino a toccare diversi fiumi, tra i quali il fiume Dasibari.

Secondo Lhote, lo studioso ed esploratore francese, Balbo avrebbe percorso l'antica carovaniera lungo la sponda orientale del Bahr Attla, il "Mare di Atlantide", citato anche in un libro della Bibbia.

Lungo quella strada sono frequenti le raffigurazioni dei carri dei Garamanti.

I Romani passarono per la regione odierna di Tamanrasset per costeggiare l'attuale confine tra Algeria e Niger.

Sicuramente da questo itinerario giungevano a Roma avorio, oro, diamanti, lapislazzuli, animali esotici e pure schiavi. Per questa impresa gloriosa ma pure molto redditizia, Balbo ed i suoi legionari, tornati a Roma, ottennero il trionfo.



VALERIO FESTO

- 70 d.c. - Il legato della III Legione Augusta, Valerio Festo, verso la fine del regno di Vespasiano, apre un'altra strada verso il territorio dei Garamanti ripercorrendo la via di Cornelio Balbo.

Le orme di Cornelio Balbo, secondo Henri Lhote, furono seguite anche da una legione romana, quella del legato Valerio Festo, che si spinse nel profondo Sud del Sahara, giungendo al fiume Niger da un'altra direzione.

Questa antica via doveva essere nota alle guarnigioni romane insediate a Ghadames in Libia. Plinio il Vecchio elencando i luoghi della spedizione di Festo cita le medesime località dell'Algeria meridionale toccate da Cornelio Balbo: Alasi, l'antica Abalessa dell'Hoggar e cita anche Balsa, trascrizione  in lingua Tuareg di Ilezy. Poi, però, non attesta i fiumi incontrati da Cornelio Balbo, il che fa supporre che Valerio Festo abbia deviato dal percorso del suo predecessore.

Dalla regione algerina di Tamanrasset,  i Romani piegarono lungo il Tassili per entrare nell'odierno Niger sul Plateau Djiado, nel Deserto del Tenerè. Si diressero al Massiccio dell'Air, passando per l'attuale Arlit fino all'attuale Agadez, costeggiando la piana di Gadoufaoua. Di qui, proseguirono in linea retta per entrare in Mali, dove incontrarono il "Fiume Girin", cioè il fiume "Dasibari" di Cornelio Balbo.

La Tavola Peutingeriana registra un Flumen Girin  con l'annotazione "Questo fiume da alcuni chiamato Grin è da altri chiamato Nilo, si dice infatti che scorra da sotto la terra degli Etiopi [Africani] nel Lago Nilo".

Valerio in questa spedizione scoprì una via che permetteva di risparmiare 4 giorni di viaggio per raggiungere il paese di Garamanti. Gli abitanti di Oea avevano assalito Leptis Magna che aveva invocato l'aiuto dei Garamanti. Questi ultimi assalirono le terre di Leptis ma i romani fecero a tempo a inseguirli e ricacciarli, proprio grazie alla nuova via che scende da Trpoli a Murzuc tagliando il deserto roccioso presso la sua estremità orientale. Percorso seguito tutt'oggi dalle carovane.

LAGO CIAD


SPEDIZIONI DI SETTIMIO FLACCO E GIULIO MATERNO AL LAGO CIAD

Il Lago Ciad è il lago residuo di un lago fossile assai più vasto che, 10.000 - 12.000 anni or sono copriva gran parte dei territori degli attuali Ciad e Niger, giungendo a nord fino al massiccio del Tassili algerino, ad est fino al Bahr el Ghazal nel Sudan, ad ovest fino all'arco del fiume Niger ed a sud fino alla Repubblica Centrafricana.

Il lago, che tra il 1963 ed il 2001 si è ridotto del 90 % della  superficie, passando da 25.000 a meno di 1.500 Kmq, è compreso tra Ciad, Niger, Camerun e Nigeria. Altri quattro paesi, Repubblica Centrafricana, Algeria, Sudan e Libia, condividono il bacino idrologico del lago, e ne dipendono.

Al tempo delle spedizioni romane del I secolo d.c. il lago era ancora piuttosto vasto, mentre il Deserto Libico, traversato dai Romani per giungere al Lago Ciad, era ed è uno dei luoghi più aridi e desolati del pianeta.

Tra il 76 e l'86 d.c., sotto gl'Imperatori della Dinastia Flavia, Tito e Domiziano, due spedizioni militari, una guidata da Settimio Flacco, l'altra da Giulio Materno, con l'intento di penetrare nel favoloso regno dei Pigmei, raggiungono il "Paese dei rinoceronti", come lo descrive il cartografo Claudio Tolomeo, arrivando a stanziare una guarnigione sul "Lago degli ippopotami", a tre - quattro mesi di cammino (1.500 - 2.000 km.) in direzione sud rispetto al massiccio del Tibesti, attualmente al confine tra Libia e Ciad.

Durante il regno di Domiziano, Giulio Materno accompagnò il Re dei Garamanti. in quel momento evidentemente in buoni rapporti con Roma, in una spedizione militare contro gli etiopi. La penetrazione dalle coste libiche verso l’interno perseguita durante il I sec. d.c. comporta una costruzione di reti stradali, la pacificazione delle popolazioni del deserto e la ricerca di rapporti amichevoli con il regno dei Garamanti.

Ancora una volta il movente delle spedizioni romane fu la punizione di popolazioni nomadi che razziavano i territori romani della Sirte. Tolomeo racconta che, secondo quanto aveva appreso da Martino di Tiro, Settimio Flacco era partito dalle coste libiche (probabilmente da Leptis Magna) per recarsi nelle terre dei Garamanti, da dove raggiunse in tre mesi "la terra degli Etiopi" che "vivevano sulle rive del lago degli ippopotami".

LIBIA ROMANA
Sappiamo dalla stessa fonte che Giulio Materno era invece partito da Leptis Magna per Garama, dove si era unito al re dei Garamanti per raggiungere "dopo quattro mesi di viaggio la regione di Agisymba, che è popolata da rinoceronti e nella quale vivevano gli Etiopi",  e giunse fino al Agisymba regio, a circa 2500 km da Garama un paese montuoso dei massicci dell’Air, del Djado e del Tibesti oggi zone di confine fra Libia e Ciad. .

Qui infatti dovevano necessariamente passare le carovane provenienti dall’Africa nera, documentato dalle attestazioni di Garama attraverso i sontuosi mausolei romani della regione. Il commercio di oro, avorio e animali esotici è testimoniato dal forte dell’oasi di Abalessa nell’Hoggar alerino (1600 km a sud di Algeri) in uso forse già dall’alto impero e in grande auge nel IV sec. d.c.
Materno vi trovò ampie distese di savana predesertica popolata da un gran numero di specie animali, tra cui il rinoceronte nero bicorne ignoto all’epoca ai romani – che conoscevano solo il rinoceronte bianco ad un solo corno diffuso in Nubia e già noto nell’Egitto tolemaico. Compaiono infatti le immagini del rinoceronte nero sulle monete di Domiziano, evidentemente l’arrivo dei primi esemplari di questa specie sconosciuta aveva fatto notevole impressione aveva impressionato Roma.



TOLOMEO su - "Trattato Di Geografia" di Marino Tirio

"Settimio Flacco, conducendo l'esercito dalla Libia. arrivò dai Garamanti agli Ethiopi in tre mesi, camminando verso Mezogiorno. Et che Giulio Materno della gran Lepti, andando da Garame, insieme col re de' Garamanti incontra gli Ethiopi, camminando verso Mezzogiorno, arrivò in quattro mesi ad Agisimba. paese o provincia degli Ethiopi, ove si radunano i rinoceronti. Delle quai cose dette da Marino, nè l'una nè l'altra son da credere, si, perchè gli Ethiopi più adentro, non sono separati tanto dai Garamanri, che ne sieno lontani tre mesi di viaggio, essendo pur ancor essi più Ethiopi, 
o negri, che quei d'Agisimba, stando sotto il medesimo Re che hanno essi, si ancora per esser cosa del tutto ridicola, si che il viaggio degli eserciti del Re si facesse tutto verso una sola distanza, cioè dal Settentrione al Mezzogiorno, essendo quei popoli molti distesi o sparsi, di là o di qua verso Oriente, o verso Occidente, o che similmente detto esercito non si fosse fermato in alcun luogo, che si dovesse farne memoria o conto, in quello proposito della lunghezza del suo viaggio.

Laonde era convenevole a dire, che o coloro, che riferiron il viaggio, dicesser la bugia, o che dicendo verso Mezzogiorno, intendesser in quella guisa, che sogliono i paesani dir verso l'Austro, o verso l'Africo, usando impropriamente di nominar la parte principale, o maggiore, senza mirar sottilmente o con diligenza al proprio sito de' luoghi, che essi dicono."


L'itinerario

Non si hanno notizie particolareggiate dell'itinerario seguito dai due generali, ma sembra che da Leptis Magna si siano prima diretti a Ghadames presso gli alleati Garamanti. La spedizione di Flacco potrebbe aver preso la direzione occidentale in direzione di Sebha per giungere a Tmassah.

TOLOMEO ".... il paese di Agisymba, laddove si radunano rinoceronti, gazzelle ed antilopi è sottomesso al regno dei Garamanti ed è separato da esso da un'elevata catena montuosa",
Flacco sarebbe allora passato per le odierne Aozou e Bardai per giungere fino a Faya Largeau. Da qui, avrebbe poi piegato verso la depressione del Bodele e, dirigendosi ad Ovest, avrebbe incontrato il Lago Ciad e poi i fiumi in cui trovarono ippopotami e coccodrilli e sulle cui rive pascolavano rinoceronti, elefanti, giraffe, zebre, struzzi, antilopi e gazzelle (fiume Bahr Ergig), fiume Chari e fiume Logone.
Viceversa, la spedizione di Materno pare che - assieme ai Garamanti - abbia puntato dritto sull'Oasi di Cufra per entrare nell'Ennedi ciadiano. Di qui sarebbe sceso a Fada, all'Oasi di Archei, avrebbe attraversato la piana di Abechè per raggiungere i fiumi presso i quali erano stanziati elefanti e leoni (fiume Bahr Salamat e Bahr Aouk) al confine con l'attuale Repubblica Centrafricana.

LIBIA

SPEDIZIONE ROMANA ALLE FONTI DEL NILO

Non tutti sanno che già ai tempi dei romani, essendo già l'Africa del nord e parte dell'Africa centrale largamente esplorata. si cercavano le fonti del Nilo. La spedizione fu ordinata da Nerone, nel 62 o 67, per scoprire le sorgenti del Nilo.

Diverse spedizioni romane vennero organizzate tra il 19 a.c. e l'86 d.c., per esplorare e assicurare a Roma le vie carovaniere verso l'Africa subsahariana, come la spedizione romana verso il Lago Ciad e il fiume Niger. Roma infatti penetrò profondamente nell'Africa subsahariana e solo nel secolo XIX fu surclassata da esploratori contemporanei.

La spedizione venne affidata a due legionari, che risalirono il Nilo verso l'Africa equatoriale partendo da Meroe, vicino a Khartum (oggi capitale del Sudan).


Lucio Anneo Seneca

Seneca riporta che, intorno al 62, Nerone mandò alcuni legionari verso la città di Meroe in Nubia, al fine di esplorare tutto il Nilo a sud di quella capitale. La spedizione voleva informazioni sull'Africa equatoriale e sulle sue possibili ricchezze.
Seneca riferisce di aver udito da due Pretoriani il racconto del loro tentativo di scoprire il «caput Nili» (fonte del Nilo).e su questo tema scrisse un trattato: De Nubibus di "Naturales Quaestiones", che fornisce i dettagli della spedizione inviata da Nerone (62 d.c.), «caput mundi investigandum» (per esplorare la cima del mondo).

A Meroe, capitale del regno Meroe, a 200 km a nord della moderna Khartum e a 800 km a sud di Assuan, i due legionari ricevettero - come scrisse Seneca - le istruzioni del re Meroito e le lettere di raccomandazione per i re che avrebbero incontrato all'interno dell'Africa («A Rege Aethiopiae instructi Ausilio commendatique proximis regibus annuncio ulteriora»).

Partiti da Meroe, dopo molti giorni i legionari raggiunsero una palude immensa coperta di erbacce d'acqua, così fitta che né un uomo né una grande barca potevano passare, ad eccezione di qualche piccola barca con un uomo a bordo.

I romani esplorarono il Nilo Bianco da Meroe  fino in Uganda La descrizione data da Seneca è, secondo lo studioso Giovanni Vantini, anche ai nostri giorni un chiaro riferimento al Lago No, una palude immensa e malsana (infestata dalla malaria e dalla malattia del sonno, di 5,2 m di profondità, formata dalla confluenza del Bahr el Ghazal con il Nilo proveniente dall'equatore, e in certi tratti impenetrabile per i fitti arbusti e le sabbie mobili.

Per Vantini, che ha comparato gli scritti latini e la topografia attuale del Nilo, non è da escludersi che la guardia pretoriana sia arrivata anche in Uganda. Effettivamente, nella storia di Seneca si trova scritto: "Abbiamo visto due rocce, dalle quali la forza del fiume fuorusciva con potenza»  Lo scenario sarebbe quello di Murchison Falls, oggi Kabalega, dove il Nilo dal Lago Vittoria si immerge nel Lago Alberto, con un salto di quasi 50 m, in una gola con soli 10 m di larghezza.

Infatti nella parte superiore di Murchison Falls, il Nilo scorre attraverso un varco nella roccia di soli 7 m, lanciandosi per 43 m, per poi scorrere verso ovest nel lago Alberto. La corrente originata dal Lago Vittoria invia circa 300 mc al secondo di acqua sopra le cascate, strette in una gola con meno di 10 m di larghezza. « … (Il fiume Nilo) proviene da un lago molto grande delle terre » (Seneca: De Terrae Motu, NQ VI, 8,5)

I legionari dissero a Seneca che l'acqua del Nilo, che saltava tra le due rocce, proveniva da un lago molto grande della terra africana. E questo lago non può essere - secondo Vantini - che il Lago Vittoria, il lago più grande dell'Africa: l'unico fiume che lascia il lago, il Nilo Bianco (noto come Nilo Vittoria quando esce dal lago), lo fa a Jinja, nell'Uganda, sulla costa nord del lago e dopo vari km precipita nelle cascate Murchison.

Vantini ha scritto, nella pubblicazione Nigrizia del 1996, che i legionari hanno fatto un viaggio esplorativo, da Meroe fino in Uganda, di oltre 2.000 km.
Un'impresa encomiabile se si considera che navigarono su piccole barche per poter sorpassare le paludi del Sudd, infestate da coccodrilli.

IL NILO

Plinio il Vecchio

Plinio il Vecchio riferisce di un'altra spedizione del 67, forse per raccogliere informazioni per un'eventuale conquista da parte di Nerone del territorio dell'attuale Sudan. Così scrisse nel 70 di una spedizione di Nerone in vista di una guerra di conquista in Etiopia, che per i Romani erano tutte le terre a sud dell'Egitto romano.

Forse si tratta della medesima spedizione, comunque la prima nella Storia a partire dall'Europa verso l'Africa equatoriale. Probabilmente duro' diversi mesi, superando le paludi sudanesi chiamate Sudd durante la stagione secca e poi raggiungendo la zona del nord Uganda.


Diogene

Sicuramente il resoconto della spedizione era noto ai mercanti greci e romani che risiedevano in Egitto, tant'è che un mercante greco-romano vissuto tra il 70 e il 130 d.c., tal Diogene, si spinse lungo la costa orientale del Sinus Arabicus (l'attuale Mar Rosso verso la Terra di Punt (probabilmente la costa dell'attuale Somaliland) e sbarcò ad Adulis, un emporio frequentato nell'attuale Eritrea.

Di lì proseguì sempre via mare per Rhapta, un estremo emporio (citato anche dall'opera "Periplus Maris Erythraei") che era situato sulla costa dell'attuale Tanzania, presso la città di Mitwara, non distante dal confine col Mozambico, da dove marciò per venticinque giorni nell'interno del continente, fino a due grandi laghi dietro i quali si ergevano imponenti le montagne innevate da dove sorgeva - a suo dire - il Nilo. Egli chiamò rispettivamente Monti della Luna le vette innevate dei Monti Meru e del Kilimangiaro, Laghi della Luna il Lago Vittoria, il Lago Eyasi e il Lago Natron e Altopiani della Luna tutta l'area dell'attuale Parco nazionale del Serengeti.


Marino di Tiro

Successivamente, il geografo Marino di Tiro ripropose l'epopea della spedizione di Diogene, finché questa non venne fissata anche da Claudio Tolomeo, il quale attestò che al centro continente africano vi erano sicuramente quei grandi laghi dai quali usciva il Nilo sceso da monti imbiancati di neve e di ghiacci come Montagne della Luna. Tolomeo pone i Lunae Montes 7° a S dell'Equatore, mentre in realtà si trovano in sua prossimità:
 « Ai loro piedi vi erano dei laghi che corrispondono al bacino alimentatore del Nilo»
probabilmente descrisse col nome di Montagne della Luna il gruppo del Ruwenzori.


Età Augustea

Le Campagne augustee lungo il fronte africano ed arabico degli anni 30 a.c.- 6 d.c. permisero all'impero romano di occupare buona parte delle coste orientali del bacino del Mediterraneo e di aprire nuove vie commerciali tra il Mar Mediterraneo e gli imperi orientali fino all'estremo oriente.

Sotto Augusto, "si vis pacem para bellum" (se vuoi la pace prepara la guerra) furono coinvolte quasi tutte le frontiere, dall'oceano settentrionale fino alle rive del Ponto, dalle montagne della Cantabria fino al deserto dell'Etiopia.

Le campagne di Augusto miravano a consolidare i confini annettendo nuovi territori. Ora per la frontiera meridionale africana, ad oriente, dopo la conquista nel 30 a.c., Augusto fece dell'Egitto la prima provincia imperiale, retta da un prefetto di rango equestre, il prefetto d'Egitto, a cui Ottaviano aveva delegato il proprio imperium sul paese, con ben tre legioni di stanza (III Cyrenaica, VI Ferrata e XXII Deiotariana).

Ad occidente la provincia d'Africa e la Cirenaica conobbero diverse guerre contro le popolazioni nomadi del deserto del Sahara come i Garamanti dell'attuale Libia, o i Nasamoni della Tripolitania, o i Musulami della regione di Theveste, o i Getuli ed i Marmaridi delle coste mediterranee centrali. 

Augusto schierò nel corso del trentennio di guerre:

- per il fronte africano occidentale: la Legio III Augusta;
- per il fronte egizio: la Legio III Cyrenaica, la Legio VI Ferrata, la Legio XII Fulminata e la Legio XXII Deiotariana.

I popoli combattuti e battuti dai romani nel sud dell'Egitto:

- i Blemmi e i Megabari, che vivevano lungo la sponda orientale del Nilo ed erano soggetti ai Kushiti;
- i Trogoditi che vivevano sulle montagne lungo la costa del Mar Rosso;
- i Nobati (indipendenti dai Meroiti) e che vivevano sulla sponda occidentale del Nilo;
- i Kushiti dei regni di Napata e Meroë.

ALGERI - TIPASA

FRONTE AFRICANO ORIENTALE

La provincia romana dell'Egitto, cioè Alexandreae et Aegyptus, fu istituita da Augusto, dopo le morti di Cleopatra e Cesarione. L'Egitto  provincia imperiale governata da un prefetto scelto dall'Imperatore nell'ordine equestre: il praefectus Alexandreae et Aegypti.
Il principale interesse romano per l'Egitto era costituito dalla approvvigionamento di grano per la città di Roma.

- 29 a.c. - Il primo prefetto d'Egitto, Cornelio Gallo, dovette reprimere un'insurrezione nel sud della provincia e condurre un esercito a sud per stabilire un protettorato (zona cuscinetto), sulle terre comprese tra la prima e la seconda cataratta del Nilo.
- Nella parte settentrionale della Nubia (la regione del Triakontaschoinos, che si estendeva per 300 km a sud di Philae) fu quindi posto un tyrannus quale "sovrano cliente" dei Romani.

- 25 a.c. - Il nuovo prefetto d'Egitto, Elio Gallo, fu inviato da Augusto attraverso l'Arabia Felix fino al regno di Saba, a sottomettere i ricchi territori degli Arabi, prendendo così possesso delle vie di comunicazione commerciale con il golfo Persico.

Il viaggio si rivelò, però, pieno di insidie per il mancato aiuto di Silleo, posto a capo degli alleati Nabatei, il quale non fornendo adeguate informazioni sui territori esplorati e le strade da percorrere, costrinse i Romani a soffrire oltremodo fame, sete, stanchezza e numerose malattie.

Gallo inoltre commise un errore, facendo costruire 80 grandi navi, tra biremi e triremi, oltre ad alcune navi più leggere, sebbene non vi fossero battaglie navali, tanto più che gli Arabi non erano abili, negli scontri terrestri nè in quelli marittimi.

Quando capì l'errore, fece costruire altre 130 navi da carico, su cui salpò con 10.000 fanti della guarnigione romana d'Egitto, e truppe di alleati romani, tra cui 500 ebrei (inviati da Erode) e 1.000 Nabatei (inviati dal re Obodas II).

Dopo un viaggio difficile di 14 giorni, giunse sulle coste arabe, nella terra dei Nabatei, avendo perduto molte delle sue imbarcazioni insieme al loro equipaggio, a causa della navigazione difficoltosa. Ciò fu causato dal tradimento di Silleo, il quale aveva sostenuto non vi fosse modo per un esercito di arrivarvi via terra, sebbene vi fossero numerose vie carovaniere che conducevano dall'Egitto a Petra in tutta sicurezza.

PETRA (Giordania)
D'altronde il re dei Nabatei, Obodas II, non si curava degli affari pubblici nè di quelli militari (caratteristica di molti re arabi, come tramanda Strabone), lasciando tutto nelle mani di Silleo.

Quest'ultimo esplorò il paese insieme ai Romani, lasciando a loro la distruzione di città e popolazioni, per poi affermarsi come unico dominatore sulle genti, dopo aver tolto di mezzo anche i Romani, provati da fame, fatica e malattie. Gallo fu costretto a fermarsi per tutto il 25 a.c., in attesa di recuperare i malati.

- 24 a.c. - La colonna romana si rimise in marcia, lungo le rotte per l'India, costringendo i Romani a trasportare l'acqua sui cammelli, per la scarsa conoscenza dei luoghi da parte della guide. Il viaggio durò ben trenta giorni, ma alla fine furono raggiunti i territori del "re dei Tamudeni", un certo Areta accolse i Romani in modo amichevole offrendo a Gallo doni di benvenuto.

Il paese successivo  apparteneva a tribù nomadi ed era totalmente desertico. Si chiamava Ararenê ed impiegò 50 giorni per attraversarlo, poiché non esistevano strade. Giunse, quindi, alla città di Negrani il cui territorio era pacifico e fertile, ed il cui re era fuggito, lasciando la città ai romani.

Raggiunse un fiume dopo sei giorni, dove gli Arabi attaccarono battaglia lasciando sul campo ben 10.000 morti, contro due soli morti Romani, non avendo armi adeguate e non essendo abituati a combattere.

Dopo Gallo occupò la città  Asca, anche questa abbandonata dal re. poi la città Athrula, che si arrese senza condizioni, dove Gallo pose una sua guarnigione per predisporre le forniture di grano.
Arrivò poi a Marsiaba, che assediò per sei giorni, ma dovette rinunciare per mancanza d'acqua. Gallo fu così costretto a fermarsi a soli due giorni di marcia dal paese che produceva spezie, raggiunto a caro prezzo dopo sei lunghi mesi di marce in territori inospitali, soprattutto a causa della guide corrotte.

Accortosi finalmente del tradimento di Silleo, riportò l'esercito decimato in Egitto. A Negrani ebbe luogo una nuova battaglia. Poi raggiunse Hepta Phreatae, che possedeva ben sette pozzi. Da qui, marciando attraverso un paese pacifico, arrivò nel villaggio Chaalla, e di nuovo in un altro villaggio chiamato Malotha, vicino a un fiume. Traversò un paese deserto con pochi luoghi irrigati, fino al villaggio Egra sul mare. Sessanta giorni per tornare, contro i sei mesi dell'andata.

Qui predispose una nuova flotta e attraversò il Mar Rosso raggiungendo Myoshormos, Coptos, e infine Alessandria d'Egitto, dove Silleo fu processato e decapitato. Terminava così l'amara avventura romana nella penisola arabica, dopo aver raggiunto lo Yemen.

Intanto i Kushiti del nord dell'attuale Sudan attaccarono la provincia egiziana, in particolare le città/forti di Syene, Elefantina e Philae, intervenne il nuovo prefetto d'Egitto, Gaio Petronio, che
con le forze rimaste a difesa della provincia ( 10.000 armati), sconfisse un esercito di 30.000 Kushiti costringendoli a ritirarsi a sud di Pselchis.

Non contento di aver fatto numerosi prigionieri e di aver occupato Pselchis, decise di compiere una campagna nel paese dei Kushiti. Occupò la città di Qasr Ibrim, si spinse ancora più a sud fino a Napata, una delle loro due capitali, distruggendola completamente e rendendo schiavi i suoi abitanti.

Al contrario la seconda capitale, Meroe, riuscì invece a salvarsi dall'assedio romano. Di queste due ultime campagne ne parla lo stesso Augusto nelle sue Res Gestae:
« Per mio comando e sotto i miei auspici due eserciti furono condotti, all'incirca nel medesimo tempo, in Etiopia e nell'Arabia detta Felice, e grandissime schiere nemiche di entrambe le popolazioni furono uccise in battaglia e conquistate parecchie città. In Etiopia arrivò fino alla città di Nabata, di cui è vicinissima Meroe. In Arabia l'esercito avanzò fin nel territorio dei Sabei, raggiungendo la città di Mariba. »

- 22 a.c. - In seguito ad un nuovo attacco da parte dei Kushiti della regina Candace, il prefetto d'Egitto Petronio tornò a condurre le proprie armate e li sconfisse. La regina Candace, costretta da Petronio al pagamento di pesanti tributi, ottenne da Augusto, un trattato di pace ed amicizia.
Frattanto Petronio lasciava a guardia dei confini meridionali un'unità ausiliaria di 500 armati nella fortezza collinare di Primis a circa 200 km a sud di Syene.

- 15 a.c. - Augusto nominò proconsole della provincia di Creta e Cirenaica un certo Publio Sulpicio Quirinio. L'incarico in Cirenaica potrebbe essere stato necessario per far fronte alle continue scorrerie delle tribù berbere di Garamanti e Marmaridi, due tribù del deserto del Sahara libico che abitavano a sud di Cirene.

PIAZZA ARMERINA

Il Periplo del Mare Eritreo

La scoperta dei cicli monsonici rappresentò per i romani la possibilità di intrattenere rapporti commerciali diretti con l’Impero Kusana e con gli stati indiani in un momento in cui la pressione parthica sulla Via della seta si faceva sempre più stringente.

Il “Periplo del Mare Eritreo” è una sorta di manuale compilato ad uso dei marinai che compivano i viaggi verso l’India partendo dai porti egiziani con l’indicazione dei principali empori, della distanza fra essi, delle migliori stagioni in cui viaggiare e delle principali merci commerciate nei singoli centri. Esso risalirebbe alla metà del II sec. d.c. o almeno all’età severiana.

Un ruolo centrale in queste linee marittime era rappresentato dai porti del corno d’Africa e dell’Arabia meridionale dove la presenza romana appare sicuramente attestata. Adulis sulla costa eritrea ( 60 km a sud di Massaua) doveva essere il centro principale dei commerci romani, una ricca città con edifici monumentali, nota per il commercio dei vetri egiziani come per il vino e l’olio mediterraneo.

Qui vi sono tracce di una frequentazione romana dal II d.c. all’età bizantina, con frammenti di anfore, frammenti vitrei di tazze a squame e coppe baccellate, vasi di porfido e vetri millefiori.. Probabilmente tramite Adulis gli stessi materiali sono penetrati sugli altopiani etiopici fino ad Aksum.

Ancora più a sud a Port Durnford nella regione somala del Bur Gao quasi al confine keniota nel 1912 è stato scoperto un tesoretto di monete, con emissioni di Nerone, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Costantino, Costantino II e Costante. Questo fatto conferma i dati dell’India meridionale e di Ceylon che vedono nel IV secolo il periodo di maggior attivismo romano sulle linee commerciali dell’Oceano Indiano.

Si rammenta che nel suo studio sulle monete romane in Africa Charlesworth riporta saltuari ritrovamenti di monete in Madagascar e Zimbabwe fino al Natal e alla regione del Capo e che si tratta nella quasi totalità di emissioni di età tetrarchica e costantiniana.



FRONTE AFRICANO OCCIDENTALE

Ad occidente la provincia d'Africa e la Cirenaica combatterono numerose guerre contro i nomadi:

- 29/28 a.c. - Lucio Autronio Peto, console suffetto del 33 a.c., ottenne un nuovo trionfo ex Africa nel 28 a.c. per i successi ottenuti l'anno precedente contro le popolazioni attorno alla provincia romana;

- 22/21 a.c. - Lucio Sempronio Atratino, console suffetto del 34 a.c., ottenne il suo trionfo ex Africa il nel 21 a.c.;

ARCO DI TRIONFO DI PALMIRA
DISTRUTTO DALL'ISIS
- 20 a.c. - Lucio Cornelio Balbo, partito da Sabrata, occupò la capitale dei Garamanti, Garama, e si addentrò fino al Fezzan, nel profondo deserto del Sahara, raggiungendo prima l'oasi di Cydamus dopo una marcia di circa 550 km, piegando poi ad angolo retto verso sud per altri 650-700 km attraverso l'Hamada el-Hamra, ed infine riuscendo ad occupare i più importanti centri della regione (come Debris e Baracum nell'odierno distretto di Wadi al-Shatii e Tabidium) e la capitale dei Garamanti, Garama (Germa).

Da qui sembra avere, inoltre, inviato una spedizione esplorativa al comando di Septimus Flaccus fino nel Fezzan meridionale ed oltre, probabilmente raggiungendo l'ansa del fiume Niger. Per questi successi meritò il Trionfo nel Foro romano come risulta anche nei Fasti triumphales.

- 1 a.c.-2 d.c. - È forse a questi anni che potrebbero attribuirsi nuove campagne vittoriose (forse ancora del proconsole Publio Sulpicio Quirinio, come suggerisce Dione), contro il popolo dei Marmaridi a sud della provincia di Creta et Cyrene.
Ottenne importanti successi contro le popolazioni dei Nasamoni, costrette al termine delle operazioni militari a pagare un tributo all'impero. In seguito a queste operazioni le legioni III e XXII presero l'appellativo di Cyrenaica.

- 3-5 d.c. - Il console Lucio Passieno Rufo, divenuto governatore della provincia dell'Africa proconsolare, otteneva gli ornamenta triumphalia per aver sconfitto le popolazioni nomade di Getuli e Musulami. A causa di questi eventi, fu necessario aumentare il contingente romano della provincia d'Africa a 2 legioni: vale a dire la legio XII Fulminata, posizionata a Thugga, insieme alla legio III Augusta.

- 5-6 d.c. - Il console Cosso Cornelio Lentulo batteva prima i Musulami e poi i Getuli, ottenendo gli ornamenta triumphalia ed il cognomen trasmissibile anche ai figli di Gaetulicus (Getulico).

La conquista del settore strategico del fronte africano, grazie all'occupazione “diretta” delle coste orientali del bacino del Mediterraneo e quella “indiretta” (tramite rapporti di clientela) della parte occidentale (Mauretania),  rese questo bacino, un mare interno all'impero romano (chiamato per l'appunto dai Latini "mare internum nostrum").

Queste campagne permisero, inoltre, alle armate augustee di penetrare all'interno dei deserti del Sahara ed arabico, per migliorare le vie commerciali tra il Mar Mediterraneo, la Mesopotamia, l'altopiano iranico, l'India, fino all'estremo oriente (impero cinese), grazie all'intermediazione degli Arabi Lakhmidi.

ELMI ROMANI

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L'elmo è uno dei mezzi difensivi usati in combattimento che l'umanità ha usato con diversissime fogge. L'impero romano e prima di esso la Res Publica Romana seppero attingere ovunque idee e modelli che potessero migliorare lo stile di combattimento dei suoi legionari.

ELMI MINOICI FATTI CON ZANNE DI CINGHIALE
1450 -1400 A.C.

L'elmo romano, dal latino cassis, di metallo, oppure galea, di cuoio, venne utilizzato dall'esercito romano nel corso degli oltre dodici secoli di vita, dalla data della fondazione della città 753 a.c. fino alla caduta dell'Impero romano d'Occidente, avvenuta nel 476, subì numerose modifiche nella forma, nei materiali che lo componevano e nelle dimensioni. La sua funzione principale era quella di coprire il capo del fante, e il cavaliere romano dalle armi d'offesa del nemico.

Le fonti di ispirazione degli elmi romani sono stati: Gli elmi greci, gli elmi etruschi, gli elmi italici, gli elmi celtici, gli elmi gallici. Nell'impero bizantino si ebbe l'influenza degli elmi persiani.

I modelli qua sotto riportati sono stati tutti adottati, spesso con varie modifiche, dai fanti e dai cavalieri romani nelle diverse epoche e nei diversi luoghi.



ANTICA GRECIA

Nell'antica Grecia si distinguevano vari tipi di elmi:

- quello beotico, (Grecia meridionale), usato per la cavalleria, particolarmente tra i Tessali ed i Macedoni;
- quello frigio - che vediamo di solito nell'immagine del Dio Mitra, che però probabilmente non era un elmo ma un berretto; 
- quello ionico (dell'Asia Minore), talvolta ornato;
- quello attico (la parte penisola della Grecia), con guanciali movibili;
- quello corinzio, (da Corinto, città della Grecia centro-meridionale nella periferia del Peloponneso) con paranuca e guanciali fissi;
- quello calcidico,  un elmo in bronzo, indossato dagli opliti greci, particolarmente popolare in Grecia nel V e IV secolo a.c., ma esistente già da tempo:
- quello ellenistico (da Alessandro all'Impero Romano) a visiera sporgente. 


ELMO BEOTICO

L'elmo non limitava nè la vista nè l'udito, pur proteggendo le orecchie, soprattutto dai colpi provenienti dall'alto.

L'immagine qui a lato, tratta dal cosiddetto "sarcofago di Alessandro", mostra l'elmo svasato e ondulato nella visiera a tutto tondo.

Viene il dubbio, come a molti è venuto, che la visiera sia di cuoio pesante e non di metallo.

In effetti appare strano che un cavaliere debba troppo ripararsi dai colpi dall'alto, combattendo egli da cavallo.

Era comunque piuttosto leggero. non disponeva di nasale e guanciali, ma aveva un paranuca ed una grande visiera.

Filippo II ed Alessandro lo resero obbligatorio alla cavalleria dell'esercito macedone. 

Il vantaggio di questo elmo era di lasciare intatte vista e udito, permettendo di muoversi agevolmente là dove occorreva.

Il modello inoltre ne permetteva una notevole leggerezza che, come si vede dall'equipaggiamento molto ridotto, era importante.

Infatti era vitale poter all'occorrenza saltare giù dal cavallo colpito senza farselo cadere addosso e proseguire il combattimento a piedi.




ELMO FRIGIO

Di origine greca, fu in uso nella Grecia classica (compresa la Macedonia), Tracia, Dacia, mondo Ellenistico e Italia nella II metà del I millennio a.c..

Deve il suo nome alla somiglianza con il berretto classico usato dai frigi.

Non aveva paraguance, nè paranuca, nè protezione nasale, ma solo una minutissima visiera che doveva servire a far si che il colpo dall'alto non scivolasse sul naso del soldato.

Aveva una linea molto semplice e arrotondata che doveva far scivolare il colpi via dal capo.

In questo modello, ma erano per lo più simili, ha solo un fregio floreale sulla punta dell'elmo.

Si pensa però di creazione siracusana, era in dotazione nell'esercito di Alessandro Magno e veniva utilizzato prevalentemente dalla fanteria.

È noto anche come elmo tracio, da non confondere con quello indossato dai gladiatori durante i combattimenti.



ELMO ATTICO

Elmo di bronzo con paraguance e un brevissimo paracollo. Si noti la testa di grifo in cima e le ali di grifo (animale mitologico greco) ai lati.

Originario dell'antica Grecia, fu ampiamente utilizzato in Italia e nel mondo ellenistico fino all'Impero romano avanzato.
Quello in foto è un elmo attico da cerimonia del 300 a.c.

Il suo primo utilizzo nelle file dell'esercito romano risalirebbe ai primi anni della Repubblica romana, introdotto probabilmente dai popoli italici limitrofi.
Simile all'elmo calcidico, se ne differenziava per l'assenza di paranaso. Era dotato di paraguance mobili che venivano legate con un laccio di cuoio.

Era dotato di una punta in cima all'elmo, sulla quale era fissata una piuma dritta, oppure ai lati nel caso (come ci racconta Polibio) fossero fissate tre di colore nero o rosso, oltre ad una, seppur minima, protezione per il collo nella parte posteriore.

Le decorazioni si trovavano sulla fronte abbastanza in alto e sui paraguance. Sopravvisse a lungo grazie soprattutto al suo aspetto. Fu infatti utilizzato da generali, imperatori e membri della guardia pretoriana.



ELMO CORINZIO

Elmo corinzio della seconda metà del VI sec. a.c., realizzato in bronzo fuso e decorato a incisione.
La fusione si faceva all'epoca in terracotta con le matrici o in terra.

La fusione su matrice usava due corpi già modellati e posti uno dentro l'altro con dei distanziatori che permettono di far colare il metallo.

La fusione in terra deve creare la forma (nella quale immettere il metallo fuso) nella terra (particolari sabbie).
Per poter realizzare la suddetta forma è necessario disporre di un modello, cioè di un pezzo uguale o meglio simile all’oggetto che si vuole costruire.

L'elmo di tipo corinzio greco antico fu creato a Corinto e ne prese il nome.

Era un tipo di elmo di bronzo che nella sua forma tarda copriva tutta la testa ed il collo, con delle fessure per occhi e bocca. Una grande proiezione ricurva proteggeva la nuca, in modo simile alla galea.

Per la forma e le decorazioni l'elmo si fa risalire all'area apula, e probabilmente dalla zona di Gioia del Colle, in cui si era insidiato un ceto guerriero aristocratico a partire dall’età arcaica.

La caratteristica di questi modelli fu che praticamente la fusione avveniva tutta  in un pezzo unico che comprende paraguance, paranuca e paranaso, il che ne fa un elmo di un certo peso, anche se lo strato del bronzo non è molto spesso.
Si può osservare una ricca e raffinata decorazione che segue la fattura dell’intero oggetto: un tratto marcato per rappresentare sopracciglia e bordi, uno molto più fine per gli altri elementi figurativi.



ELMO CALCIDICO

Questo elmo venne ampiamente indossato nello stesso periodo nella Magna Grecia.

Venne utilizzato anche dall'esercito romano a partire dal VI secolo a.c.

Il nome deriva dalla città di Chalcis in Eubea, dove venne fabbricato in origine.

Sviluppato sulla base dell'elmo corinzio, era più leggero, offriva un più ampio campo visivo e, lasciando più spazio per le orecchie, non attutiva il suono.

Presentava una calotta simile a quella dell'elmo corinzio, e le paragnatidi (copertura per le guance) inizialmente erano fisse.

Successivamente vennero collegate tramite delle cerniere, di modo che lo spostamento con i movimenti permettessero di udire meglio i rumori esterni.

Inoltre all'occorrenza potevano anche essere tolte.

Il paranaso, tipico dell'elmo corinzio, tese a non essere più utilizzato e quindi a sparire completamente.

Aveva la classica maniglia da elmo e una lunga punta in cima, cui potevano essere legate piume o ornamenti vari, soprattutto per innalzare apparentemente l'altezza del combattente, ma di nessuna utilità pratica.



ELMO ELLENISTICO

L'elmo ellenistico risale all'epoca di Alessandro Magno. 
Il grande Alessandro, nato nel 356 a.c., era il figlio del re Filippo II di Macedonia.

Fu inoltre allievo di Aristotele, che avrebbe avuto un influsso costante su di lui, A soli venti anni salì al trono di Macedonia, in seguito all’assassinio di suo padre.

Due anni dopo intraprese la grande spedizione che lo avrebbe reso immortale.
Le conquiste lo misero in contatto con numerosi paesi e culture: Siria, Egitto, Persia, Battriana, India.

Fondò nuove città praticamente ovunque ed il suo arrivo ebbe un impatto duraturo su architettura, arte, lingua, e modi di vita in un processo passato alla storia come Ellenismo.

Un sincretismo elegante e ricco che si riversò su tutto il mondo mediterraneo, particolarmente sul potente impero romano, capace di comprendere e accogliere qualsiasi tipo di cultura e di arte che potessero arricchirlo.



ELMI ETRUSCHI

Gli elmi etruschi derivarono da quelli greci e corinzi, con una serie di varianti appositamente studiate per facilitare i vari tipi di combattimenti. Molti elmi romani furono copiati da questi.


ELMO ETRUSCO CORINTIO

L'elmo etrusco-corinzio (450 - 400 a.c.) era una versione di quello greco, dove al contrario di quest'ultimo non copriva l'intero viso, ma si portava sulla testa come un cappello.

Fu il primo elmo utilizzato dalle schiere dell'esercito romano.

Fu introdotto molto probabilmente dagli Etruschi che lo utilizzavano ma pure dai popoli della Magna Grecia, che fin dal VII secolo a.c. entrarono in contatto con i Romani.

Fu però utilizzato solo dai cittadini romani che per censo risultarono tra i più facoltosi, ovvero quelli della I classe, a causa del suo costo molto elevato.

Sappiamo che era ancora in uso ai tempi di Cesare.

Nella sua forma tarda l'elmo cambiò totalmente coprendo tutta la testa ed il collo, con delle fessure per occhi e bocca.

Una grande proiezione ricurva proteggeva la nuca, in modo simile alla galea romana. L'elmo offriva ottima protezione in battaglia, ma impediva significativamente vista e udito.



ELMO ETRUSCO A CAPPELLO

Per questo, quando non c'era un combattimento, per comodità l'oplite greco lo indossava ruotato indietro sulla nuca (come la Dea Atena in molte raffigurazioni).

Per questa ragione di poca praticità l'elmo venne spesso sostituito con un altro più sobrio e pratico,

Anch'esso definito Etrusco Corinzio, un elmetto praticamente a cappello, di buon spessore, ma senza paraguance, paranuca e paranaso.

Detto elmo compare pure sulla Colonna Traiana. Una grande proiezione ricurva proteggeva la nuca, in modo simile alla galea romana. Questa abitudine portò a una serie di varianti in Italia, dove le fessure erano quasi chiuse, dato che il casco non era più calato sul viso ma indossato come un copricapo.

Sappiamo che i romani sperimentavano ogni arma da difesa e da offesa che reperivano dai loro nemici uccisi o vinti e fatti prigionieri in battaglia.

Così copiarono elmi da tutti i popoli ma sempre revisionandoli e adattandoli al proprio stile di combattimento.

Combattendo per lo più a testuggine, era importante che la lancia nemica non potesse giungere negli occhi dei combattenti, per cui le fessure vennero rimpicciolite.

Per i romani, come per i greci, l'importante era l'assetto del combattimento e l'unisono coi compagni, raggiunto attraverso un severissimo allenamento.

Anche se l'elmo corinzio classico cadde in disuso presso i Greci a favore di tipi più aperti, i tipi italo-corinzi rimasero in uso fino al I secolo d.c., essendo utilizzato, tra gli altri, dall'esercito romano.

I romani ne fecero la loro predilezione perchè riparava loro il viso che era molto esposto dovendo badare assolutamente alla posizione corretta rispetto ai sui combattenti vicini. L'elmo qui a fianco risale al 500 a.c.

Si tentò comunque di alleggerire un po' il peso del bronzo facendo fusioni più leggere, ribattendole però sugli orli o creando delle pieghe sul bronzo, come si osserva nell'ultima figura, per aumentare la resistenza del metallo.



ELMO ETRUSCO DI SPERLONGA

Gli etruschi furono grandi combattenti e grandi navigatori, ma ebbero il torto di non spalleggiarsi tra loro.

Le loro magnifiche e liberali città -stato sottovalutarono il popolo romano e non si unirono mai per combatterlo.

Se l'avessero fatto il destino del mondo sarebbe stato diverso.

I Romani, rozzo ma valoroso popolo di guerrieri impararono tutto dai raffinati Etruschi, dall'arte del navigare, a quella di innalzare edifici, di fondere e di creare opere d'arte.

Ma soprattutto impararono l'arte della guerra. L'elmo in questione è in bronzo, fornito di paraguance, ma senza paracollo nè paranaso.



ELMO DI NAGAU

Elmo etrusco del V sec. a.c. L'Elmo di Negau è un elmetto di bronzo facente parte di un gruppo di 28 reperti simili datati circa al 400 a.c. Furono rinvenuti nel 1811 vicino il villaggio di Zenjak, presso Negau, nel ducato di Stiria, ora Negova, Slovenia. 

Gli elmetti hanno la tipica forma etrusca vetulonica, spesso descritta come tipologia Negau. Furono sepolti nel 50 a.c. dopo l'invasione romana della zona.

Elmetti di tipo Negau erano generalmente indossati dai sacerdoti al momento della deposizione di questi manufatti e questo fa supporre che furono interrati a Zenjak per motivi cerimoniali.

Il villaggio di Zenjak fu di grande interesse per gli archeologi nazisti, tanto da essere stato rinominato Harigast per un breve periodo durante la II guerra mondiale. 
Il nome viene dall'iscrizione sul casco "'Harigast il sacerdote'" Il sito non è mai stato sottoposto a scavi condotti in maniera scientifica.


ELMO VILLANOVIANO

Questo tipo di elmo, di origine villanoviana, viene da alcuni considerato etrusco, in quanto molti ritengono che la civiltà etrusca sia una elaborazione di quella villanoviana.

Riteniamo profondamente diverse le due civiltà, ma comunque questo elmo fu posto lungamente in dotazione all'esercito etrusco.

Poichè i romani molto presero dagli etruschi, adottarono anch'essi questo tipo di elmo, a partire dal primo esercito romuleo.

Presentava una cresta metallica che dal lato frontale si congiungeva con quello posteriore. La forma in cima era a punta. 

Era formato da due parti perfettamente simmetriche che erano saldate insieme lungo la cresta di metallo di bronzo.

Sicuramente era di grande effetto scenografico, forse però un po' appesantito dalla cresta metallica. Si noti la guarnizione a perlinato che fu caratteristica non solo del villanoviano ma dello stile etrusco che lo trasferì nei gioielli trasformando il perlinato in autentiche sferette minuscole d'oro.


ELMI ILLIRICI


L’elmo è in lamina di bronzo fusa e lavorata a martello, con calotta sferica distinta alla sua base da una leggera carenatura; alla sommità della calotta è presente una doppia cresta a rilievo affiancata da costolature per l’applicazione del cimiero. 

L’elmo presenta inoltre una tripla costolatura a rilievo sulla fronte, due paraguance (paragnatidi) angolari e appuntiti verso il vertice inferiore, e il paranuca estroflesso con stretta tesa orizzontale. 

I margini della calotta, dei paraguance e del paranuca sono rivestiti da rinforzi decorativi composti da una fila di rivetti circolari. 

La datazione è compresa tra la fine del VII e la prima metà del VI a.c.



ELMI SANNITI

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull'Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. 

Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della penisola.

Dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come guerre sannitiche, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l'occasione nel corso dei due secoli seguenti.

La guerra che prese nome da Pirro, fu in realtà una quarta guerra sannitica, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente.

I Sanniti si meritarono l'elogio di Livio: 

"NON SFUGGIVANO LA GUERRA E PREFERIVANO SUBIRE LA CONQUISTA PIUTTOSTO CHE NON TENTARE CON OGNI MEZZO LA VITTORIA"

Del periodo sannita ci sono pochissimi documenti a disposizione degli Storici, se si escludono alcuni scritti di Tito Livio il resto si basa solamente su supposizioni e leggende dato che i Romani distrussero tutto quello che poterono e per quello che non poterono ne proibirono la diffusione. 

I Romani avevano un odio terribile nei confronti dei Sanniti, sicuramente tutto questo era dovuto alla famosa sconfitta delle "Forche Caudine" (321 a.c.)




ELMI CELTICI


ELMO DI MONTEFORTINO

Verso la fine del V sec.e gli inizi del IV sec. a.c. fu introdotto un nuovo tipo di elmo, stavolta di provenienza celtica, chiamato Montefortino dal nome di una necropoli in provincia di Ancona, e che venne utilizzato fino al I sec. a.c.

Era costituito da una semisfera molto allungata, che offriva pertanto una maggiore resistenza ai colpi dall'alto.

Nella parte più alta dell'elmo era collocato un apice, a volte fabbricato a parte e poi aggiunto, oppure fuso direttamente con l'elmo.

Su questo si inserivano delle piume, con lo scopo di far sembrare più alti i soldati all'occhio del nemico, come ci racconta lo stesso Polibio nel descrivere gli Hastati.

La protuberanza era infatti riempita di piombo per mantenere fermo il piolo del pennacchio, a volte invece composto da crine di cavallo come risulta nella grande Ara di Domizio Enobarbo del 113 a.c.

L'elmo Montefortino fu catalogato dal Robinson con sei lettere (A, B, C, D, E, F) alle quali corrispondono sei tipologie diverse.

Si nota in tutti i modelli l'assenza di un rinforzo frontale e il paranuca è solo accennato.

Il modello qui a fianco infatti presenta una modesta visiera eseguita in fusione a corpo unico, cioè non saldata.

I modelli più recenti assomigliavano molto ai coevi elmi Coolus.

Sappiamo infine che l'elmo di Montefortino era in uso nelle coorti urbane, come testimonia un suo esemplare reperito che riporta questa incisione:

AURELIUS VICTORINUS MIL COH XII URB

(Aurelio Vittorino della XII coorte urbana milliaria)



ELMO COOLUS

Coolus Manheim

L'elmo di tipo Coolus prende il nome da Coole in Francia dove è stato reperito.
Questo tipo di elmo esiste fin dal III sec. a.c., ma iniziò a sostituire il Montefortino solo nel I sec. a.c.

Non è molto diverso dall'elmo Montefortino, però la sua forma semisferica stavolta non è allungata.

I primi due modelli (A e B) erano molto semplici, ma fin dal modello "C" si aggiunsero il rinforzo frontale e un paranuca pronunciato.

Questi due elementi servivano per proteggere il soldato dai colpi sulla testa che sarebbero altrimenti scivolati, ferendolo sulla schiena o in viso.

Anche questo elmo presentava un apice e due grandi paragnatidi, era assente però una protezione per le orecchie.


Coluus di Schaann

L'elmo Coolus fu catalogato dal Robinson con nove lettere (A, B, C, D, E, F, G, H, I) alle quali corrispondono nove tipologie diverse.

L'elmo su descritto fu nominato Elmo Coolis Manheim, dal luogo del suo reperimento.

Un elmo simile, a calotta semisferica, ma senza apice,  fu chiamato Coluus di Shaan.

Questo aveva però una piccola visiera sul fronte, una maniglia sul retro che assolveva anche il compito di impedire ai colpi dall'alto di scivolare fino alle spalle.

Era inoltre fornito di ampie paraguance che erano attaccate con una cerniera, per cui avevano una certa mobilità migliorando la questione dell'udito.



ELMI GALLICI


ELMO AGEN PORT

Gli elmi Agen-Port sono particolari elmi diffusi durante le campagne di Cesare e hanno alcune caratteristiche che possono essere considerate progenitrici degli elmi gallici imperiali.

Poco dopo la conquista della Gallia da parte di Gaio Giulio Cesare (58-50 a.c.), le legioni del nord cominciarono ad abbandonare piano piano l'elmo di tipo Montefortino ed etrusco-corinzio, a vantaggio di un elmo di tipo gallico.



ELMO TIPO B

Molto influenzato dagli elmi gallici pure nelle decorazioni.
E per questa ragione vennero chiamati elmi gallico imperiali.

Gli elmi gallico imperiali presentavano un coppo semisferico e, come gli italico imperiali, un esteso paranuca e un rinforzo frontale.

Dopo la guerra di Traiano in Dacia del 101 d.c. vennero aggiunti dei rinforzi incrociati sul coppo, in quanto i Daci utilizzavano spade ricurve con le quali superavano lo scudo romano e colpivano dall'alto.

Gli elmi gallico imperiali sono caratterizzati dalla presenza sulla parte frontale del disegno in rilievo di due sopracciglia.
Questi elmi furono stati prodotti prevalentemente in ferro, in pochi casi però potevano essere in bronzo.

Naturalmente il ferro era un acciaio dolce, difficilmente attaccabile dalla ruggine. Inoltre poteva essere di uno strato molto più sottile del bronzo in quanto presentava un'altissima resistenza ai colpi.



ELMO DI TIPO C

E' un elmo imperiale italico di tipo C.
E' di bronzo e risale alla seconda metà del I secolo d.c., piuttosto ben conservato.

E' stato rinvenuto probabilmente nell'area del Vallo di Adriano (catalogazione del Robinson imp. italico C); altezza cm 19,5, larghezza cm 11,5, peso 1225 grammi. 

Presenta tutte le parti complete praticamente integre (ad esclusione delle decorazioni frontali), anche se probabilmente il bottone sommitale (inciso) è stato riposizionato in maniera errata durante il restauro.



ELMO DI TIPO D

Questo elmo del I sec. d.c. è stato rinvenuto sul fondo del Reno a Mainz (Germania). E si trova al Museo di Worms.

Come si può vedere l'elmo di tipo "D" era decorato con motivi dorati e nonostante ciò sembra che fosse un prodotto di massa.

Esso vuole rappresentare alla lontana un ricco elmo argentato e dorato, e in un certo senso gli somiglia.

Di certo doveva dare l'idea ai nemici di un equipaggiamento molto ricco, quindi con grandi risorse in battaglia.

Gli attacchi dei paraguance e la parte posteriore risultano molto rinforzati, forse per proteggere meglio il legionario dalle spade ricurve dei Daci durante la conquista della Dacia degli anni 101-106.



ELMO DI TIPO E

Questo elmo del I – II sec. d.c., è stato rinvenuto sulla stele tombale del soldato di cavalleria Dolano e si trova al Museo di Wiesbaden in Germania. 

Esso veniva dato in dotazione alla cavalleria ausiliaria.

Il tipo "E", molto simile al precedente tipo "D" per motivi decorativi.

Però era supportato da dei ganci dove era attaccata una cresta, tanto che si è supposto potesse appartenere ad un'unità speciale come la guardia pretoriana.



ELMO DI TIPO G

L'elmo di tipo di tipo "G" era considerato da Robinson come il tipico elmo della metà del I secolo, benché l'elmo di Coolus rimase in dotazione all'esercito romano fino agli inizi del II secolo.

Il miglior esempio di questo elmo proviene da Mainz-Weisenau.

Ritrovamenti archeologici di questo genere di elmo sono stati poi trovati in Britannia nell'antico sito di Camulodunum, e databile alla rivolta di Budicca del 61.

Erano di produzione delle officine italiche e di ispirazione greco-italica soprattutto nella forma del coppo, leggermente allungata in avanti (visibile maggiormente nei primi modelli), e delle paragnatidi (paraguance).

Erano di vario tipo. Qui a fianco se ne notano un paio di modelli in cui la calotta è abbastanza profonda e il secondo tipo è fornito di vari rinforzi, sopra e sulla fronte.

L'elmo di tipo "G" era praticamente identico al tipo "D" ma con una maggiore protezione del collo anche da attacchi laterali.

Il disco nella parte posteriore era infatti sia obliquo sia incurvato.

Come tutti gli elmi non agganciati sotto la gola, aveva una maniglia per poterlo portare facilmente, ad esempio per poterlo infilare al braccio quando non si era in combattimento, permettendo così di lasciare le mani libere.

Oppure si infilava sull'elsa della spada portandolo appeso sul fianco. Anche questo era un particolare di peso, perchè se la temperatura era molto alta, il poter levare l'elmo era un sicuro refrigerio.

Erano particolari importanti sia per la salute corporea, sia per poter riposare meglio nei momenti di pausa, ma anche perchè con la mano libera si poteva tenere un altro oggetto.



ELMO DI TIPO H

Il tipo "H"è simile al tipo "G", ma con un diverso stile di sopracciglia e una protezione del collo più inclinata.

Il più completo esempio di questo tipo proviene dagli scavi in Germania lungo il fiume Lech, nei pressi di Augusta. Tale casco è databile dalla prima metà del I sec. fino al III sec.

Il tipo "H"è uno dei tipi meglio conservati. Era molto decorato e particolarmente rinforzato internamente. La parte superiore presenta delle "ali d'Aquila" o forse delle "sopracciglia".

La protezione posteriore per il collo era molto profonda. Questo elmo sembra fosse in dotazione all'esercito romano durante la dinastia degli Antonini e dei Severi.

L'elmo romano in foto, venne adoperato dalla cavalleria ausiliaria, e risale al III sec. d.c., Come si vede è riccamente decorato, ed è stato rinvenuto a Heddernheim in Germania.



ELMO DI TIPO I

Il tipo "I", databile come il precedente "H" al periodo della prima metà del I sec. fino al III secolo, presentava un identico design, ma era fatto in ottone, invece che di ferro.

Un esempio di questo casco lo troviamo nell'antico sito di Mogontiacum, ed apparterrebbe ad un soldato di nome L. Lucrezio Celeris della Legio I Adiutrix (legione che qui soggiornò tra il 70 e l'86.

È infine ipotizzabile che su questo elmo vi fosse una cresta fissata trasversalmente o verticalmente (a seconda della carica che si ricopriva).

E potevano essere fissate anche della piume, suggerendo si trattasse della carica di alto rango come quella di un Optio.



ELMO HAGUENAU

Prende il nome dal museo di Haguenau (Francia) in cui è conservato. Quest'elmo può essere considerato l'ultimo della lunga linea evolutiva degli elmi italici; sempre forgiato in un unico pezzo di bronzo fuso e battuto.
Si diffuse sul finire del I secolo a.c., in particolar modo nell'area centro europea e in Britannia, mentre la maggior diffusione si ha intorno alla metà del I sec. d.c. 
In questa tipologia il paranuca risulta sempre più esteso, sia inclinato che orizzontale, a supporto delle mutate tecniche di combattimento e a maggior protezione delle vertebre cervicali che, a causa delle nuova posizione rannicchiata assunta usualmente dai legionari, risultavano più vulnerabili.

La novità più vistosa è in ogni caso il cercine paracolpi posizionato sulla parte anteriore della calotta, che proteggeva l'elmo dai colpi inferti dall'alto.

In molti di questi elmi il bottone apicale, più spesso fuso con il coppo che applicato, ma a volte anche assente, veniva forato per il posizionamento del pennacchio (crista). Invece altri elmi presentavano piccoli tubicini in prossimità delle paragnatidi, per l'inserimento di piume colorate.

C'era poi l'elmo quello del primo Impero, l'elmo di tipo haguenau, quello che tutti noi conosciamo attraverso i tanti film dedicati ai romani. 

Questo elmo fu adottato dal 9 d.c. al 70 d.c. Aveva dei paraorecchie che fungevano anche da proteggi guance, ma non erano fissi, ma mobili uniti con dei cardini, come piccoli sportelli. 

Il proteggi nuca, che si apriva tipo ventaglio, era incurvato, garantendo un'ottima protezione, infine era dotato di una piccola visiera, che serviva per proteggere il naso da eventuali fendenti dall'alto.



ELMO WEISENAU

L'elmo di Weisenau, definito anche come elmo di tipo C, (dal nome della cittadina presso Mainz dove ne sono stati rinvenuti alcuni)
derivò dai tradizionali elmi celtici in ferro, quali il modello Agen - Port (in uso nel I secolo a.c.), e pure da modelli precedenti quali il celtico orientale e occidentale.

E' stato classificato anche "imperiale italico" (catalogati dal Robinson da A a H mentre la tipologia leggermente precedente, denominata "imperiale gallica"è catalogata dal Robinson da A a K), elmo che compare poco dopo la tipologia Haguenau, nella prima età imperiale

Fu uno dei più antichi elmi conosciuti di questa tipologia è stato rinvenuto ad Haltern (Germania), località abbandonata dalle truppe romane nel 9 d.c.

L'elmo Weisenau nella versione "imperiale italico" non presenta, a differenza del "imperiale gallico" le grandi ali o "sopracciglie" sulla parte frontale della calotta, e inoltre venne prodotto in bronzo, secondo la tradizione italica.

A differenza del modello Port,  il paranuca, fuso in un unico pezzo con il coppo, è molto più ampio, e prevede un incavo per le orecchie.

VARIAZIONI DEGLI ELMI ROMANO GALLICI
Le paragnatidi (paraguance) erano anatomiche, incernierate e variamente decorate, anche la calotta presentava decorazioni.

Alla sommità aveva un sistema amovibile di fissaggio delle piume (crista), nonchè un cercine paracolpi frontale, e una maniglia sul paranuca.

E' possibile che il modello Port e il modello Weisenau abbiano convissuto per un certo periodo, il primo forse destinato alle truppe ausiliarie, il secondo ai legionari.

Nel corso del II secolo d.c. le mutate tecniche di combattimento (spade più lunghe e dunque posizione più eretta da parte dei legionari), portarono ad un andamento sempre più verticale del paranuca; altro sviluppo fu l'aggiunta sulla calotta di un rinforzo a croce, evoluzione introdotta forse per le campagne daciche (modello Theilenhofen).

Gli ultimi esemplari di elmo Weisenau sono databili a cavallo del II-III secolo d.c. con la tipologia conosciuta come Niedermörmter.



ELMI BRITANNICI

"Andrà all'asta da Christie's a Londra il 7 ottobre l'elmo romano trovato con un metal detector da un cacciatore di tesori. Si tratta di un elmo da cavalleria romano, completo della maschera facciale. Il copricapo risale a circa 2.000 anni fa.

Il ritrovamento è avvenuto nel pressi del villaggio di Crosby Garrett in Cumbria, nel Nord Est dell'Inghilterra.
In Gran Bretagna gli oggetti antichi di bronzo non sono coperti dal Treasure Act, legge del 1996 secondo cui lo Stato ha diritto di prelazione solo su reperti vecchi di oltre 300 anni e composti per almeno il 10 per cento d'oro o argento. 

Diverso è il caso di un oggetto di bronzo che può così finire sul libero mercato, fatto che non ha mancato di suscitare polemiche: i proventi saranno divisi a metà tra scopritore e proprietario del campo. 
Christie's ha stimato l'elmo per 300mila sterline (463mila euro): poco secondo esperti citati dal Guardian, secondo cui il prezioso manufatto potrebbe essere venduto per mezzo milione e oltre. Cercherà di acquistarlo il Tullie House, museo di Carlisle in Cumbria."


ELMI TARDO IMPERIALI

ELMO TARDO IMPERO

È un tipo di elmo facilmente producibile su larga scala, grazie anche alla sua forma. Fu soprattutto utilizzato dalle legioni delle province orientali a partire dal IV sec.

In questo elmo è possibile riconoscere l'influenza dei vicini Persiani, dove la forma assomiglia ad una semicoppa sferica.

I paraguance sono ridotti all'essenziale. Sembra potesse essere usato da fanti e cavalieri.



ELMO INTERCISA

Questo tipo di elmo, di ispirazione sasanide, si diffuse verso la fine del III sec.

Era di notevole facilità costruttiva, perciò si diffuse molto rapidamente.

Il coppo era composto da due parti unite da una striscia di metallo in rilievo che lo percorreva dalla parte frontale alla nuca.

Il paranuca e le paragnatidi venivano uniti al resto dell'elmo da parti in cuoio.

Probabilmente l'intero elmo aveva uno strato di argentatura; le decorazioni più comuni consistevano in due occhi sulla parte frontale o rappresentati come croci sull'intera calotta.



ELMO BERKASOVO

Questa tipologia di elmo risale alla metà del IV secolo. Un elmo di grande impatto visivo e di raffinata lavorazione, spesso dorato e inciso. Solo raramente privo di paragnatidi.

La calotta era composta o da due parti unite tra loro, come avveniva con la tipologia Intercisa, o da quattro parti unite da un rinforzo a croce.

Sulla parte frontale era presente un paranaso a forma di "T" e il paranuca era collegato alla calotta con ganci e fibbie.

Le paragnatidi venivano applicate tramite parti di cuoio oppure strisce di metallo e rivetti.

Non erano diritte ma inclinate e arcuate in modo la seguire la linea delle guance.

Alcuni elmi di questo tipo erano molto decorati, a seconda dell'importanza del possessore vi si potevano incastonare addirittura pietre preziose.

L'elmo di sopra è decorato con una piccola cresta e con piccolissime semisfere.

Questo di lato, molto più ricco e costoso, aveva una cresta più evidente, con un cordulo a semicerchio fissato con  pirolini più alti e più bassi terminanti a sferette.

Le paragnatidi erano invece più lunghe ed estese, paranuca invece non molto ampio.

Di gran lusso, sicuramente riguardante un generale, era incastonato di pietre tonde, rettangolari e a navetta, in questo caso di colore azzurro, probabilmente degli zaffiri o delle tormaline.

Le pietre però potevano essere di diverso colore, o di diversi colori nell'ambito del medesimo elmo, una vivacità e ricchezza, spesso anche sovraccarica, che fu caratteristica del periodo bizantino, dato l'influsso orientale.

Spesso l'elmo era realizzato in ottone e poi ricoperto a foglia d'oro come si vede nell'elmo qui a fianco.

Vi si notano le paragnatidi piuttosto lunghe, diritte e strette, il paranaso e le semisfere piccolissime che lo ornano, una caratteristica della gioielleria dell'Asia minore che riguardò anche gli etruschi.



SPANGEMHELM

Diffusosi tra il V e il VI secolo, era stato precedentemente utilizzato dalla cavalleria roxolana, raffigurata nella Colonna traiana, e nel IV sec. dalla cavalleria romana.

Era composto da più segmenti metallici saldati con dei rivetti.

La calotta era composta da quattro o sei spicchi saldati da una striscia metallica che ne percorre tutta la circonferenza nella parte inferiore; tra uno spicchio e l'altro erano presenti delle bande metalliche che confluivano sulla cima del coppo.

I più importanti ritrovamenti sono avvenuti in Egitto a Der el Medineh e in Alsazia a Baldenheim. La tipologia Spangenhelm-Der el Medineh presentava una calotta allungata, un paranaso e sia paragnatidi che paranuca, saldati alla calotta tramite delle cerniere.

La tipologia Spangenhelm-Baldenheim, invece, aveva un coppo più basso, paragnatidi più strette, ed era assente il paranaso. Esso venne usato dai romani sia per la fanteria che per la cavalleria.


ELMI CON MASCHERE 

ELMI CON MASCHERE FUNEBRI

ELMI CON MASCHERE FUNEBRI

Nel cimitero dell’antica Archontiko, vicino alla città di Pella, l’archeologo Pavlos Chrysostomou ha annunciato il ritrovamento di 50 nuove tombe.

Tra gli oggetti trovati spiccano due elmetti di bronzo con intarsi in oro, armi di ferro, statuette e ceramiche; inoltre, su alcuni cadaveri, bocche e toraci erano coperti con lamine d’oro fatte appositamente per i funerali.

Sono 965 le tombe finora recuperate negli ultimi nove anni ad Archontiko (sebbene le prime scoperte nel sito risalgano al 1996).  Gli archeologi stimano che tutto ciò rappresenti poco più del 5% del cimitero, grande 20 ettari.

Archontiko era il centro urbano più importante dell’antica regione della Bottiaia (o Bottiaea) fino alla fine del V secolo a.c., quando Pella divenne capitale: le tombe infatti vanno dall’Età del ferro all’inizio dell’Età ellenistica.

ELMI CON MASCHERE DA CAVALLERIA

ELMI CON MASCHERE DA CAVALLERIA

Elmo e maschera della cavalleria romana.

E' noto infatti l’uso, nella cavalleria romana soprattutto dell’Impero, di maschere di bronzo che coprivano il volto dei cavalieri, a volte in un pezzo solo con l’elmo.
Le maschere davano una loro temibilità per l'aspetto freddo e impenetrabile.
Se ne faceva molto uso anche nei popoli orientali e sicuramente i romani lo copiarono da questi.

ELMI DA CERIMONIA


ELMI DA CERIMONIA

Il primo è un elmo da cerimonia celtico, il secondo è un elmo da gladiatore, di quelli che i gladiatori potevano permettersi quando erano molto forti e famosi. In tal caso era lo stesso vincitore del circo a scegliersi l'abbigliamento e il lanisco lasciava fare, perchè il personaggio faceva guadagnare molto di più. Il gladiatore famoso era infatti riconoscibile pure dagli spalti se indossava un abbigliamento particolare, magari una maschera che lo contraddistingueva da tutti gli altri.

In quanto all'elmo celtico o comunque straniero, indossare l'elmo nemico, soprattutto se dorato e lavorato, insomma da cerimonia, ben si addiceva al vincitore di quel nemico che ne poteva orgogliosamente mostrare le spoglie.


Soprattutto nel trionfo si usava un elmo e un'armatura da cerimonia, e talvolta l'elmo con maschera ricordava quello del nemico vinto, oppure era proprio l'elmo del nemico vinto.



A seconda dell'epoca e dell'importanza del personaggio gli elmi da cerimonia potevano essere in bronzo, ferro, ottone in genere argentati o dorati, ma non mancarono anche elmi da cerimonia con decori sovrapposti in oro ed anche pietre preziose.



ELMI DI GLADIATORI

L'armamento dei gladiatori, e pertanto anche i loro elmi, che in età repubblicana era legato all’arbitrio individuale, fu regolamentato durante il principato di Augusto, insieme alla definizione di precise classi gladiatorie.

Nacquero così i mirmilloni, i reziari, i traci, i secutor, per citarne alcuni, tutti raccolti in familiae guidate con disciplina dal lanista, imprenditore che faceva commercio di gladiatori e li affittava all’organizzatore degli spettacoli gladiatorii, i munera. La più famosa e grande scuola imperiale di gladiatori a Roma era il ludus magnus, situata vicino all’anfiteatro Flavio.


TRACE

Il “Thraex” apparteneva alla categoria dei gladiatori "Parmularii”. 
Aveva un piccolo scudo rettangolare o circolare (parma) e una corta spada curva chiamata “Sica”.

Indossava due schinieri che arrivavano fino al ginocchio e cosciali fatti da strisce di cuoio o metallo, sovrapposte che proteggevano la parte superiore della gamba fino all’inguine.

Un parabraccio poteva arrivare sino alla spalla e oltre.
Per la testa, indossava un elmo (galea) dall’ampia visiera che proteggeva anche il volto, sormontato da un lophos metallico con una protome a testa di grifone, animale mitologico dal corpo di leone e dalla testa di uccello rapace.


MIRMILLO (Mirmillone) 

Della categoria dei gladiatori "Scutati”.

Infatti aveva un grande scudo rettangolare (scutum) che copriva completamente il corpo dalla spalla fin sotto il ginocchio.

Impugnava un gladio e si proteggeva con un solo schiniere nella gamba sinistra, una manica e un parabraccio.

Per la testa, il mirmillone, indossava un elmo (galea) dall’ampia visiera e che proteggeva anche il volto, sormontato, almeno in origine, da un lophos metallico a forma di pesce.
In pratica ha lo stesso elmo del Trace.


 SECUTOR

Apparteneva alla categoria dei gladiatori “Scutati” come i mirmillones da cui probabilmente deriva visto che l’armamento utilizzato è pressoché identico.

Come l’altro gladiatore infatti anche il secutor si proteggeva con lo scutum e utilizzava per l’attacco il gladius, portava elmo (galea), manica, e l’ocrea alla gamba sinistra.

A differenza del mirmillone però combatteva solamente contro il reziario e perciò alcune parti del suo armamento furono “specializzate” per rendere più difficoltosa la lotta all’avversario.

L'elmo indossato era completamente liscio e con forme tondeggianti, per impedire alla rete di trovare appigli e quindi era più facile che scivolasse via, specie se il reziario, una volta lanciata, la strattonava per far perdere l’equilibrio al secutor.

Lo scudo aveva forma tondeggiante nella parte superiore, per impedire alla rete di incastrarsi negli spigoli. L’elmo aveva inoltre solo due piccoli fori per gli occhi, che rendevano quasi impossibile al tridente di colpire il volto. Alcuni secutores portavano particolari gorgere per una maggiore protezione al collo.


SCISSORES

Usati come supporto nei combattimenti tra Secutores e Retiarii. Di solito erano con due Secutores.
La loro caratteristica era una mezzaluna affilatissima sul braccio sinistro, usata per tagliare le reti dei Retiarii, mentre col braccio destro impugnavano un gladio o una sica.

L'elmo era simile a quello dei Secutores e come protezione al busto avevano una lorica.


HOPLOMACUS (Hoplomaco)

In origine erano i Sanniti, ma con la riforma di Augusto, il loro nome fu cambiato in Hoplomachi. Apparteneva alla categoria dei gladiatori considerati “Scutati”.

Vestivano alla vita uno stretto balteus variamente colorato e frangiato, e indossavano un elmo pesante dagli ampi paragnati e spiovente paranuca con alto pettine sulla calotta.

Il braccio destro aveva una manica di cuoio rinforzato per parare i colpi degli avversari. Brandivano una lancia (o un gladio) e con la sinistra impugnavano uno scudo rotondo.

Indossavano due schinieri che arrivavano fino al ginocchio e dei cosciali di strisce di cuoio o metallo, sovrapposte che proteggevano fino all’inguine.


DIMACHAERUS (Dimacherio)

Apparteneva alla categoria dei gladiatori “leggeri" e prendevano il loro nome da Di-màcheros, cioè chi nell’arena duellava con due corte spade.

Potevano vestire una semplice tunica senza altra protezione (né elmo né armatura) e solo le loro braccia potevano essere coperte da maniche di cuoio rinforzato o ricoperte di cotta di maglia.

In altra immagine il gladiatore indossa una tunica (forse è una lorica hamata), ha un elmo avvolgente e le gambe protette da gambali.

Ma queste logiche di combattimento lasciano molto perplessi (poco protetti: nel primo caso a testa e corpo, nel secondo alle braccia), a meno che questi gladiatori combattessero solo fra di loro (come i Provocatores) dove qualsiasi tipo di protezione non favoriva o sfavoriva l'avversario.


PROVOCATORES

Prendevano il nome dal verbo provocare, che nel linguaggio militare indicava i legionari armati 
alla leggera (velites) che aprivano il combattimento, provocando il nemico in battaglia.

Erano quelli che "riscaldavano" il pubblico, erano proposti all'inizio dei combattimenti. 
Il loro 
armamento ricordava proprio i legionari: erano dotati di gladio, grosso scudo trapezoidale curvo, 

elmo da legionario (con l'aggiunta di protezioni al viso),  protezione al braccio armato e schiniere alla sola gamba sinistra.



ANDABATI

Combattevano a cavallo come spiega la parola greca. 

Cercavano alla cieca di raggiungere l’avversario guidandosi sul rumore della sabbia e sul tintinnio delle armi poiché un elmo a tutta calotta, senza buchi toglieva ad essi la vista.

L’introduzione di tale specialità sviliva la qualità del combattimento riducendo il tutto ad una buffonata tra ciechi, anche se gli spettatori ne apprezzavano la goffaggine.

Riempivano gli spazi tra un combattimento e l'altro, o l'ora del pranzo, quando il circo si svuotava per riempirsi nuovamente nel pomeriggio. L'elmo riprodotto è di fantasia ma poteva essere uno del genere.



SUPERCOLLA DEI ROMANI

« I guerrieri romani riparavano i propri accessori di battaglia con una supercolla che conserva ancora le sue proprietà adesive a distanza di 2000 anni, secondo quanto scoperto al Rheinischen Landes Museum di Bonn, Germania.

Nella mostra, Behind the St1ver Mask è possibile vedere le prove di questo antico adesivo usato per montare foglie di alloro in argento sugli elmi dei legionari.

Frank Willer, direttore del restauro del museo, ha trovato le tracce di questa supercolla mentre esaminava un elmo dissotterrato nel 1986 nei pressi della città tedesca di Xanten, in quello che una volta era il letto del fiume Reno.
L’elmo, che risale al I sec. a.c. è stato affidato al museo per il restauro.  

"Ho scoperto la colla per caso, mentre rimuovevo un piccolo campione del metallo con una minuscola sega. Il calore prodotto dallo strumento fece staccare le foglie d’argento dell’elmo, rivelando tracce della colla"

ha spiegato Willer, stupito che, nonostante la lunga esposizione agli elementi, la supercolla non avesse perso le sue proprietà.

Altri accessori per la battaglia conservati nel museo mostrano tracce di decorazioni d’argento molto probabilmente incollate al metallo tramite lo stesso adesivo. 

Sfortunatamente gli oggetti sono troppo deteriorati perché sia possibile rinvenire tracce della supercolla. Tuttavia, l’elmo trovato a Xanten presenta una quantità del materiale sufficiente a stabilire le modalità di utilizzo dell’adesivo.

Secondo le analisi, la colla dei Romani era fatta di bitume, resina e grasso animale» ha fatto sapere Willer a conferma di alcuni studi condotti dai ricercatori della University of Bradford e Liverpool (Gran Bretagna) negli anni ’90. "

(Fonte: Hera n° 97 febbraio 2008)

Finora i ricercatori tedeschi non sono riusciti a ricreare la supercolla. Sempre secondo quanto comunicato da Willer, alla colla «veniva probabilmente aggiunto qualche tipo di materiale inorganico come la fuliggine o la sabbia di quarzo per renderla più resistente ».

DIDIO GIULIANO

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DIDIO GIULIANO

Nome completo: Marcus Didius Salvius Julianus
Nascita: Mediolanum, 30 gennaio 133
Morte: Roma, 1 giugno 193
Predecessore: Pertinace
Successore: Settimio Severo
Coniuge: Manlia Scantilla
Figli: Didia Clara
Dinastia: nessuna
Padre: Quinto petronio Didio Severo
Madre: Emilia Clara
Regno: 28 marzo - 1 giugno, 193 d.c.


Marco Didio Salvio Giuliano, ovvero Marcus Didius Salvius Julianus, (Mediolanum, 30 gennaio 133 – Roma, I giugno 193) è stato un imperatore romano per un ridottissimo periodo, dal 28 marzo al I giugno del 193. per circa due soli mesi.

Didio era un ricchissimo senatore, originario di Mediolanum (Milano), che divenne imperatore comprando l'impero dai pretoriani che lo vendevano all'asta al migliore offerente. Venne riconosciuto dal Senato, visto che era uno di loro, e dai pretoriani che gli avevano venduto l'impero, ma non dalle legioni, che desideravano i loro generali al comando.


La Carriera

Didio Giuliano da giovanissimo arrivò a Roma, accolto in casa di Domitia Lucilla, la madre di Marco Aurelio, parente di sua madre Aemilia Clara. Grazie a tale parentela ebbe una carriera rapida e di gran successo, divenendo questore a ventiquattro anni, uno meno dell'età minima, fu poi edile e pretore nel 162, prefetto della Gallia Belgica nel 170, durante il regno di Marco Aurelio.
Sotto Commodo fu prefetto dell’Annona, console e governatore prima della Bitinia e poi dell’Africa. Quindi fu legatus, una specie di generale, della XXII Primigenia a Mogontiacum,

PRETORIANI
Questa legione, la XXII Primigenia, era stata dedicata alla Dea Fortuna Primigenia, e fu creata dall'imperatore Caligola nel 39, ed era ancora presente a Moguntiacum (Magonza) per la difesa del confine retico. I simboli legionari erano il capricorno ed Ercole, quest'ultimo fuori uso dal III sec. in poi.

Successivamente fu nominato governatore della Gallia Belgica, della Dalmazia, della Germania Inferiore e infine prefetto dell'annona.

Sotto Commodo rischiò di essere condannato per una denuncia, ma l'imperatore non credette all'accusa e lo nominò prima governatore della Bitinia, poi console insieme a Pertinace e infine governatore dell'Africa. 


Pertinace

Alla morte di Pertinace, prefetto dei pretoriani, col quale sembra avesse un buon rapporto, fu nominato imperatore al posto di Sulpiciano, perché aveva offerto più sesterzi (25.000 secondo l'Historia Augusta) ai pretoriani di quest'ultimo. Lo stesso giorno fu riconosciuto anche dal senato, che nominò augustae la moglie Manlia Scantilla e la figlia Didia Clara. 
Le cose andarono così:

Il 28 marzo 193, Pertinace venne assassinato dalla guardia pretoriana, durante una sommossa dei soldati insoddisfatti del denaro promesso dall'imperatore alla sua salita al trono. Questo assassinio non preventivato, non aveva un candidato per sostituirlo.


Sulpiciano

Sulpiciano, che era il suocero di Pertinace, inviato nei Castra Pretoria a controllare la situazione, chiese ai soldati assassini di Pertinace, di acclamarlo imperatore, promettendo una forte somma di denaro. Qualcuno pensa si fosse offerto come reggente al posto del giovane figlio di Pertinace, Publio Elvio Pertinace. Sulpiciano stava per essere acclamato imperatore quando Didio Giuliano, un facoltoso senatore, offrì più denaro ai pretoriani per ottenere l'impero.

Allora i pretoriani misero il trono all'asta, con Sulpiciano dentro l'accampamento e Giuliano fuori la porta d'ingresso, che offrivano sempre più denaro. Alla fine il vincitore fu Giuliano, sia perché offrì di colpo un aumento notevole di 5.000 sesterzi, promettendone 25.000 (pari ad otto anni di paga) per ciascun pretoriano, sia perché insinuò che Sulpiciano, suocero di Pertinace, avrebbe poi messo a morte gli assassini dell'imperatore appena morto.

Giuliano non fece mettere a morte Sulpiciano; ma,malgrado il suo buon governo, i generali degli eserciti fedeli a Pertinace non lo riconobbero, Così iniziò la guerra civile tra quattro fazioni. Giuliano venne assassinato dalla popolazione inferocita all'arrivo di Settimio Severo, il quale sconfisse poi i rivali Nigro in Oriente (194) e Albino in Occidente (197); il fatto che Sulpiciano sia stato messo a morte nel 197 potrebbe indicare che durante questa guerra civile sostenne Albino.

Manilia Scantilla

Eutropio la definì "mulier deformissima" senza dare altre indicazioni e lasciando gli storici liberi di fare congetture. Comunque non era più giovane ed era più grande del marito e inoltre aveva problemi ad un occhio e forse anche nel resto del corpo.

MANILIA SCANTILLA
( la moglie)
Nonostante tutto Manlia Scantilla divenne la moglie di Marco Didio Giuliano nel 153 e da questo matrimonio nacque una figlia, Didia Clara, con la quale fu eletta al rango di augusta dal Senato romano in occasione dell'elevazione del marito a imperatore.

Lo storico Erodiano (Historiae, ii.6.7) afferma che furono le due donne a suggerire a Didio di partecipare all'asta dove comprò la carica imperiale. 

Forse le due donne non si resero conto del pericolo che costituiva all'epoca indossare la porpora.
Però in seguito, narra la Historia Augusta (Didius Julianus, 3.5), quando Didio si instaurò a palazzo, le due donne qualche dubbio lo ebbero, "come se avessero presagito la fine prossima", Con l'avvicinarsi delle truppe di Settimio Severo (Leptis Magna 146 – Eboracum 211) a Roma, il Senato destituì Didio, che aveva regnato solo pochi mesi.

Dopo la morte del marito, che venne decapitato, fu Manlia a seppellirlo, al V miglio della Via Labicana. Il nuovo imperatore Settimio non fece nulla contro la vedova, e ovviamente nemmeno alla figlia, e a cui il Senato ritirò i titoli di Augusta, che decise di ritirarsi a vita privata per cui di lei non si hanno altre notizie.

Per la breve durata del regno del marito, appena 66 giorni fino al primo giugno del 193, sono pochi i busti di Scantilla, ma uno in ottime condizioni fu ritrovato nel 1872 nel sito di Villa Palombara, a Piazza Vittorio, dove si stava procedendo alle sistemazioni del quartiere Esquilino di Roma.


DIDIA CLARA (la figlia)

DIDIO

La grande somma promessa ai pretoriani costrinse Didio, ad intervenire nella politica monetaria, operando un "signoraggio" (il primo della storia romana), ovvero diminuendo la percentuale di argento nelle monete per poterne battere di più; fu allora che la zecca di Roma iniziò a coniare molte monete con l’effeggie di Manlia Scantilla che oggi rappresentano la quasi totalità delle immagini rimaste dell’imperatrice.

Nella "Vita di Didio Giuliano, III" si afferma che il popolo fu sempre ostile a Didio, schernendolo perfino per la sua frugalità (ma nella Historia Augusta si ritiene una notizia falsa).  Ma soprattutto questi dovette temere gli eserciti delle province, che non gli avevano giurato fedeltà, e che si ribellavano: Clodio Albino con gli eserciti della Britannia, Pescennio Nigro con quelli della Siria e Settimio Severo con quelli dell'Illirico.


Settimio Severo

Dopo l'assassinio di Commodo, il Senato aveva cercato di salvare la dinastia antonina con la nomina di Pertinace nel 193, appoggiato anche dai pretoriani, che poi cambiarono idea e lo uccisero. 

SETTIMIO SEVERO
Invece le truppe proclamarono imperatore Settimio Severo a Carnuntum, sede del governo e del comando militare in Pannonia.

Severo, per vendicare la morte dell'imperatore, scese in Italia a punire i pretoriani e prendere il trono dell'impero. 

Il Senato gli oppose il senatore Didio Giuliano, che fece dichiarare Settimio Severo nemico pubblico mentre le legioni di Siria proclamarono Pescennio Nigro e quelle di Britannia invece Clodio Albino, legittimato col titolo di Cesare da Settimio.

Settimio Severo sconfisse tutti i rivali tra il 194 e il 197 (Pescennio Nigro fu sconfitto presso Isso nel 194 e nel 197 Clodio Albino a Lione), in seguito a una sanguinosa guerra civile (193-197).

Didio Giuliano mandò ambasciatori preparando però l'esercito. Propose a Settimio di associarlo al trono, ma questi rifiutò. I pretoriani abbandonarono allora il loro protetto e obbligarono il senato a dichiararlo decaduto. Il nuovo imperatore, dichiaratosi vendicatore di Pertinace, fece sfilare i pretoriani disarmati fuori le mura di Roma e li sostituì con truppe di origini asiatiche, africane e danubiane.

Rimasto solo venne ucciso dai pretoriani in un luogo remoto del Senato mediante decapitazione il I giugno 193. Settimio Severo giunto a Roma restituì il corpo di Didio Giuliano a Scantilla che potè fare il funerale e seppellirlo.

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