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AGRIPPINA MINORE

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Nome:Iulia Agrippina
Nascita: Ara Obiorum, 6 novembre 15
Morte: Miseno 59
Figlio: Nerone



LE ORIGINI

Giulia Agrippina, ovvero Iulia Agrippina, nacque il 6 novembre dell'anno 15, denominata Agrippina Minore, per distinguerla dalla madre Agrippina Maggiore.

Nel 39 a.c. alla tribù degli Ubi era infatti stato concesso dai romani di insediarsi sulla sponda sinistra del Reno; prendendo il nome di Ara Ubiorum o Oppidum Ubiorum, corrispondente all'odierna Colonia in Germania.  Fu quindi la fondatrice della moderna Colonia sul Reno (Colonia Agrippinense), sorta su un pacifico patto di convivenza tra i veterani romani delle campagne germaniche ed il popolo germanico degli Ubii, alleati dei Romani dai tempi di Giulio Cesare.

Gli abitanti di questa nuova città si chiamarono Agrippinensi.  Il suo favore verso il mondo celtico fu ancor più evidente quando concesse la grazia al re britannico Carataco, giunto a Roma in catene.

Agrippina nacque in un accampamento militare da Agrippina Maggiore, figlia del console Agrippa e nipote di Augusto, che seguiva instancabilmente e amorevolmente il marito Germanico, grande generale discendente dal famoso Marco Antonio e fratello del futuro imperatore Claudio.

Suo padre era impegnato in quell'anno in una campagna contro i Cherusci, che sei anni prima avevano sgominato le legioni romane di Publio Quintilio Varo nella famosa battaglia di Teutoburgo.
Germanico riuscì a sconfiggerli.

In giovane età ebbe la sua prima grande delusione, scoprendo che Augusto aveva designato quale erede non il padre Germanico, eroe delle guerre in Germania, ma Tiberio, marito di Giulia Maggiore, la figlia ribelle dell'imperatore.

Fratello del futuro imperatore Claudio, Giulio Cesare Germanico, era stato poi adottato per volontà di Augusto dallo zio e imperatore Tiberio nel 4 d.c., per cui era destinato a succedergli, se lo zio glielo avesse consentito.

Sulla storia della sua dinastia, Agrippina scrisse dei Commentari, utilizzati da Tacito e Plinio il Vecchio come fonte storica, mostrando così il suo elevato stato culturale insieme all'orgoglio per la sua onorata dinastia.

Nel 49 Agrippina minore chiese che il villaggio in cui era nata fosse innalzato al rango di colonia: fu allora istituita Colonia Claudia Ara Agrippinensium ("la colonia di Claudio e l'altare di Agrippina") o, più semplicemente, Colonia Agrippina. Gli abitanti di questa nuova città si chiamarono Agrippinensi. Nel 1993, la Città di Colonia ha eretto una statua ad Agrippina sulla facciata del proprio Municipio.



L'ODIATO TIBERIO

Agrippina era una donna molto infelice, le avevano praticamente assassinato quasi tutta la famiglia, ma era pure forte e intelligente, orgogliosa del suo censo e desiderosa di rivalersi.

Fin da ragazza odiò fortemente Tiberio, fratello di suo nonno Druso, fortemente sospettato di aver avvelenato il padre Germanico, invidioso della sua gloria per le sue conquiste militari e soprattutto per timore che succedesse al trono di Augusto.

Germanico non solo era un grande generale, perchè anche Tiberio lo era, ma era benvoluto da tutti: dal popolo, dagli amici, dai soldati, perchè sapeva parlare, capiva gli altri ed era estremamente gentile e aperto con tutti.

Lo scorbutico Tiberio, sempre chiuso, invidioso e cupo non poteva competere con la personalità solare di Germanico che il popolo avrebbe visto sul trono molto più volentieri che non lui.

Ma la morte di Germanico non placò il futuro imperatore. Lucio Elio Seiano, il prefetto del pretorio a cui Tiberio aveva delegato il governo, anche lui timoroso che Tiberio venisse scalzato, decise di liberarsi dei tre figli maschi di Germanico, destinati al trono, e di far fuori la madre e i suoi vecchi amici. Fu una strage.

- Il fratello maggiore di Agrippina, Nerone Cesare, fu esiliato e lasciato morire.

- L'altro fratello maggiore, Druso Cesare, fu rinchiuso nelle segrete del palazzo imperiale, dove impazzì e morì poco dopo.

- La madre, Agrippina Maggiore, fu invece confinata sull'isola di Pandataria (Ventotene) dove si lasciò morire di fame.

Allo sterminio sopravvissero solo Agrippina, le sorelle Giulia Livilla e Giulia Drusilla, e Gaio Cesare, cioè Caligola. Giulia Drusilla morì giovane di malattia.

- Giulia Livilla fu prima esiliata e poi fatta morire di fame.

Nel 29 Tiberio ordinò alla quattordicenne Agrippina di sposare Gneo Domizio Enobarbo di 16 anni più grande, uomo dissoluto, servile e crudele, spia di Seiano e poi di Tiberio ed ella lo odiò e disprezzò.

Dal matrimonio nacque un unico figlio, nel dicembre del 37, Lucio Nerone, e nel 40 Enobarbo morì di malattia.





CALIGOLA

Tiberio muore nel 37, e gli succede il fratello di Agrippina, Gaio Cesare, detto Caligola, nei primi mesi rispettoso e tranquillo.

L'anno dopo gli muore ventenne la sorella Drusilla, l'unica da lui amata, mentre vessò fortemente le altre sorelle si che Agrippina e Livilla si dice organizzassero una congiura, anche se non ce ne sono le prove storiche.

Anzi si disse che Agrippina ne fosse stata l'amante incestuosa, ma furono solo le calunnie che alcuni storici romani, e più ancora quelli successivi cristiani, riservarono alle donne romane che invece di tessere e filare la lana si occupavano di politica e detenevano un potere.

Scoperta la congiura, il marito di Livilla, Marco Vinicio, fu giustiziato e nel 40 le due sorelle vennero esiliate a Ponza.

Agrippina fu costretta a lasciare il figlio alle cure della zia paterna Domizia, donna corrotta secondo alcuni materna e dolce col piccolo secondo altri.

Ma non durò a lungo, nel 41 Caligola fu assassinato in una nuova congiura ad opera di Cassio Cherea e venne nominato nuovo imperatore Claudio.



CLAUDIO

Agrippina e Livilla furono riaccolte a Roma, ma Messalina, la moglie di Claudio, gelosa della bellezza di Livilla la accusò di adulterio con Lucio Anneo Seneca, il filosofo, e la mandò nuovamente in esilio. Il pavido Claudio, come sempre, non seppe opporsi alla moglie.

Pochi giorni dopo, la testa di Livilla fu portata a Roma. Agrippina restava l'unica sopravvissuta della famiglia di Germanico. Nessuno storico ha contemplato la disperazione di Agrippina che vede cadere trucidati tutti i suoi familiari, sia per l'affetto sia per la paura molto verosimile che venisse il suo turno.

Nel 42 sposò il ricco Gaio Passieno Crispo, ma nel 48 questi morì, forse ad opera di Agrippina stessa, o almeno qualcuno lo suppose, ereditandone l'ingente patrimonio. Non c'è alcuna prova storica di questa esecuzione però agli storici piacque pensarlo, per il solito antifemminismo contro le donne di potere o di intelligenza e indipendenza.

Ormai ricca Agrippina scelse di vivere sul Palatino, il quartiere più ricco di Roma dove si ergeva anche la reggia. Ora il suo ascendente era aumentato, non solo parente dell'imperatore Claudio ma ricca e indipendente. Nello stesso anno Messalina fu travolta dallo scandalo della bigamia e l'influente liberto Narciso la fece uccidere fingendo l'ordine dell'imperatore, anche per spianare la strada alla propria favorita, Elia Petina.

Successivamente Agrippina fece giustiziare Narciso. Questo non venne mai commentato, eppure il liberto l'aveva sbarazzata di una crudele antagonista, l'assassina di sua sorella. Ma Agrippina era intelligente e non voleva alla reggia un personaggio così potente e influente di cui non c'era da fidarsi. Quel che era accaduto a Messalina poteva accadere a lei stessa, e sicuramente aveva ragione, anche perchè Narciso era favorevole ad Elia Petina e non a lei.

Secondo Tacito e Svetonio, Agrippina ebbe in questo periodo una intensa e pervertita attività sessuale, anche con il fratello Caligola e Marco Emilio Lepido, marito di sua sorella Drusilla, oltre che amante dello stesso Caligola. Questo fu portato avanti da alcuni storici soprattutto cristiani che avevano sempre molto da ridire sulle romane importanti e pagane dell'epoca. I cristiani vedevano le donne pagane come oggi gli islamici vedono le donne occidentali, corrotte e licenziose.

Di ciò però si dubita molto, sia perchè all'epoca non erano viste di buon occhio le donne piuttosto indipendenti o addirittura di potere, per cui pressochè tutte calunniate e infamate, sia perchè la personalità molto controllata e freddina di Agrippina mal si concilia con tante sfrenatezze.

Agrippina non compare mai con vesti o gioielli molto lussuosi, il suo contegno era controllato ma non sprezzante, era piena di dignità e rispettava i costumi romani.

La figlia di Germanico teneva molto all'onore di suo padre e al nome, anch'esso da tutti venerato, di sua madre. Era attaccatissima al suo onore ed era semmai troppo rigida, come appare d'altronde nelle statue che la ritraggono, con un corpo molto poco sensuale e molto controllato.




L'AUGUSTA

Nel 49 Claudio dovette cercare una nuova moglie; Agrippina, appoggiata dal potente liberto Pallante, conquistò il cuore dell'imperatore. nonostante ne fosse la nipote. Occorse infatti una legge che togliesse in questo caso la proibizione alle nozze tra consanguinei.

Sono evidenti le ragioni per cui sposò l'imperatore, era l'unico modo per garantirsi l'intoccabilità, visto che la sua famiglia era stata completamente decimata dai nemici della sua famiglia.

Dagli attacchi del potere poteva difendersi solamente acquistando un potere più grande, tanto più che il suo forte carattere facilmente avrebbe avuto ragione dell'imbelle Claudio.

Nel 50 ottenne l’adozione di Nerone da parte di Claudio. Intanto, in Germania, i soldati presero a innalzare statue di Agrippina.

Claudio si spaventò, ma le concesse l'onore dell’omaggio dei sacerdoti sul Campidoglio. L’entusiasmo della folla fu tale che, nonostante l’ottima organizzazione, alla cerimonia ci furono morti e feriti.

Il popolo scandiva la parola «Augusta» come se, per la prima volta, sognasse un’imperatrice, sola, al comando. Claudio ne rimase sconvolto. Durante un’improvvisa rivolta popolare a Roma era stato l’arrivo di Agrippina a salvare Claudio dall’ira della folla. 

Chi governava in effetti fu lei, donna forte, risoluta e intelligente. Riuscì a far sposare suo figlio Nerone con Claudia Ottavia, figlia di Claudio e Messalina, inoltre convinse Claudio a designare erede al trono non il figlio Britannico, avuto da Messalina, ma Nerone stesso.

Avvicinandosi poi Claudio alla morte, egli si pentì di non aver lasciato il trono a Britannico, Agrippina. ne fu piuttosto risentita ma l'imperatore morì tra le perplessità di molti.

Quasi tutti pensarono che fosse stata Agrippina ad avvelenarlo, con i funghi e poi ordinando al medico Senofonte di dargli una sostanza fatale anziché un antidoto.

Comunque nell'ottobre del 54 Nerone venne incoronato imperatore.



NERONE

Agrippina divenne la flaminica del Divo Claudio e della Casa Giulia, ovvero la massima sacerdotessa dello Stato romano. Ce ne informa Tacito nonchè la statua in basanite rinvenuta a Roma sul Celio, ove fece costruire il tempio del Divo Claudio, eretto in onore dell'imperatore divinizzato.
Agrippina appare imfatti in veste di una Dea, dal teatro di Caere, ora nel Museo vaticano gregoriano.

Il potere di Agrippina, dopo l'ascesa al trono del diciassettenne Nerone, contava più dell'imperatore, anche ufficialmente. 

Infatti le monete emesse fra il 4 e il 13 dicembre del 54 d.c. riportano le teste di Agrippina e Nerone. 

Monete dedicate a Nerone, ma erano emesse per conto di Agrippina. 

In quel periodo Nerone era sotto il completo dominio della madre. Agrippina voleva continuare a governare con i metodi che aveva usato sotto Claudio. D'altronde era capace, autorevole, stimata e rispettata, sia dal senato che dal popolo.

Si comportò da vera imperatrice, riequilibrando le finanze dello Stato, dissestate da Messalina, impartendo a corte costumi più decorosi e morigerati, limitando anche le spese e gli eccessi dei liberti.

Benvoluta proprio per la sua dignità e i suoi costumi sia dal popolo che dal senato, ottenne da quest'ultimo il prestigioso titolo di Augusta, il titolo più alto e più ambito, già spettato a Livia, la consorte di Ottaviano.

Agrippina divenne così una delle più importanti figure femminili dell'Impero romano, l'unica che riuscì a raggiungere un potere equivalente a quello di un Princeps. Non esistevano ostacoli al suo potere che era tra l'altro un buon governo, ma non aveva fatto i conti con suo figlio.

Nerone sembrò avere un grande affetto per sua madre, tanto che, il primo giorno del proprio impero scelse come parola d’ordine «Ottima madre».

Agrippina non aveva molta considerazione di suo figlio Nerone con cui pertanto non condivideva il proprio potere e, quando il figlio prese a preferirle come consiglieri Sesto Afranio Burro e Lucio Anneo Seneca e a mostrare scarsa disponibilità al sacrificio, nonché a tradire Ottavia con la liberta Atte, ella cominciò ad esercitare pressione sul figlio, avvicinandosi al giovane Britannico, suo figliastro.

Nerone, insofferente dell'autorità materna, tolse di mezzo Britannico, avvelenandolo durante un banchetto. Da allora tra madre e figlio fu guerra aperta.

Sulla vicenda riferisce a Tacito negli "Annales", che sottolinea delle ombre, addirittura di incesto, gravanti sul legame tra Agrippina e Nerone: è certo che la madre si prodigasse molto per il figlio il quale, dal canto suo, iniziò ad essere esasperato dalle attenzioni della genitrice.

Le cose precipitarono nel 62, dalle nozze di Nerone con Poppea, la bella e spregiudicata figlia di Tito Ollio. La fonte tacitiana vede nella nefasta influenza di Poppea sul marito la causa della morte di Agrippina: la nuora avrebbe indotto Nerone a vedere nella madre, così assidua e presente, nonché donna di grande prestigio nella Roma del tempo, il principale ostacolo al conseguimento del potere assoluto.

Teniamo conto però che Tacito odiava tutte le donne di potere che infamò largamente e con poco spirito storico.
 


IL MATRICIDIO

Nerone la fece allontanare dalla corte e prese come amante la bella Poppea Sabina, la quale istigò l'imperatore a sbarazzarsi di sua moglie Ottavia e della stessa madre Agrippina.

Presto però fu accusata di voler sposare e portare sul trono Rubellio Plauto, pari a Nerone, in linea paterna, nella discendenza da Ottaviano Augusto.

Agrippina si salvò, ma il ripudio di Ottavia e il matrimonio di Nerone con Poppea Sabina, nel 58, le si ritorsero contro. Poppea era stata moglie di Rufrio Crispino, un capo della guardia pretoriana fatto condannare a morte da Agrippina. Poppea chiese vendetta al marito che l'accontentò. Tolse alla madre tutti gli onori e la privò della scorta dei germani.

Tentò tre volte di avvelenarla, ma lei si era premunita con gli antidoti. Quindi progettò un finto naufragio e la invitò, con una lettera affettuosissima, a Baia, perché andasse a festeggiare con lui le Quinquatrie, cerimonia in onore di Minerva, nell'anno 59.

La compagna di Agrippina, l'inconsapevole Acerronia Pollia, precipitata in mare insieme all'Augusta, cominciò a gridare ai marinai che giungevano, complici di Nerone, di essere Agrippina e di trarla in salvo, ma quelli la uccisero colpendola alla testa con i remi.

Agrippina si salvò dalla caduta in mare nuotando,  il che dimostra la sua forza e la sua intelligenza, perchè capì e non si fece vedere. Dovette assistere all'uccisione della sua amica e comprese l'ennesimo attentato, nuotando soprattutto sott'acqua benchè ferita.
Venne tratta in salvo da alcuni pescatori, che la condussero ad una villa nei pressi del lago Lucrino ma la notizia si diffuse perchè non avendone trovato il corpo i suoi assassini la cercarono sulla terraferma.

Quando il liberto della madre, Lucio Agermo corse da Nerone per annunciargli che Agrippina si era salvata, l’imperatore gettò ai suoi piedi un coltello, lo accusò di aver tentato di ucciderlo, denunciò come mandante sua madre e ne ordinò l'esecuzione.
Se ne incaricò Aniceto, già precettore di Nerone, circondò la villa sul lago di Lucrino dove Agrippina si era rifugiata e fece irruzione. 

Un sicario la colpì alla testa con una mazza e lei, benché ferita, ad Aniceto che si avvicinava per finirla porse il ventre gridando: "Colpite al ventre che lo ha generato!". I sicari colpirono molte volte.
L’imperatore volle andare a vedere di persona il cadavere martoriato della madre ammirandone la bellezza in preda alla follia.


CLAUDIO E AGRIPPINA MINORE E, A DESTRA, I GENITORI DI LEI,
GERMANICO E AGRIPPINA MAGGIORE


LA TOMBA

Tacito riferisce che venne cremata la notte stessa su un triclinio da banchetto e con esequie modestissime e, finché Nerone fu al potere, non ebbe nemmeno una pietra sepolcrale.

Tramanda Tacito che Agrippina sia stata sepolta nottetempo e di gran fretta a Bacoli; il monumento che ancora oggi lì viene indicato come "Tomba di Agrippina" porta in realtà un nome di fantasia, dato secoli fa ai resti di un odeion di una villa romana, situata sulla costa dell'antica Bauli.

Stando alla testimonianza di Tacito, la sua tomba si trovava invece sulla collina tra Baia e Bacoli e dunque dovrebbe situarsi lungo l'attuale via Belvedere.

Seppure in occasione di un recente allargamento della strada siano state rinvenute tutta una serie di tombe ad inumazione "alla cappuccina", di epoca romano-imperiale, di fatto attualmente nessun resto archeologico è assimilabile al mausoleo funerario al quale accenna lo storico romano.













PONTE EMILIO

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Il Ponte Emilio (Pons Aemilius) o Ponte Rotto, fu il primo ponte in muratura di Roma. Cavalcava il Tevere poco più a nord dell'antico Ponte Sublicio.

Fu il primo ponte della Roma repubblicana "Forum Bovarium area cum Trans Tiberim" (AD PONTEM AEMILIVM: Fast. Allif. and Amit., in Degrassi, Inscr. Ital. 13.2, 181, 191), ed ebbe varie ricostruzioni delle quali una sostanziale sotto Augusto (Coarelli, LTUR).
L'identificazione dell'unico arco rimasto in piedi di un ponte immediatamente a valle dell'Isola Tiberina, il Ponte Rotto, con il rifacimento augusteo del Ponte Emilio, è indiscusso (Richardson).

Un'iscrizione da un arco a testa di ponte (CIL VI, 878) registra la restaurazione augustea dopo il 12 a.c. L'iscrizione riporta "Fornix Augusti" (CIL VI 878) che però non trova tutti d'accordo come ad esempio D. Palombi, in LTUR II, 262-63 e F. Coarelli, in LTUR IV, 106-7; cf. Urbem 207 n.266.



GLI AUTORI DEL PONTE

Ne abbiamo diversi a cominciare da Manlio Emilio Lepido, come riportano Plutarco e Tito Livio, nonchè la testimonianza di una raffigurazione monetale, in connessione con la realizzazione della via Aurelia, intorno al 241 a.c. grande via consolare realizzata dal console Aurelio Cotta, corrispondente all'odierna via della Lungaretta

Manlio ne avrebbe fondato i soli piloni, il che è da interpretare che mentre i piloni erano in muratura, la cavalcata del ponte era di legno, considerando che prima di allora tutti i ponti erano fabbricati interamente in legno.

Pur essendo documentata questa paternità del ponte, esso viene normalmente attribuiti ai censori Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliore, nel 179 a.c., che non ne avrebbero realizzato i piloni, ma lo rifecero, probabilmente non i precedenti piloni ma solo la cavalcata del ponte in muratura, sostituendo all'originaria passerella lignea delle arcate in muratura, trasformandolo pertanto in un ponte di sola pietra. Ciò dovette avvenire in occasione del rifacimento del vicino porto fluviale.


Marco Emilio Lepido

Nato il 152 a.c.., politico e generale della Repubblica romana, fu edile nel 193 a.c. insieme a L. Emilio Paolo, promosse la costruzione del nuovo porto fluviale a sud del colle Aventino, l'Emporium, con una banchina di 500 m e un grosso edificio di 50 vani, i Navalia.

Dietro i Navalia c'erano gli horrea, magazzini per lo stoccaggio delle merci, di cui i più noti sono gli horrea Galbana. 

M. Emilio Lepido fu eletto console nel 187 e nel 175. e ricoprì le cariche di pontefice massimo e di censore nel 179 a.c.

È noto per aver dato il nome alla via Emilia, fatta da lui costruire per collegare Piacenza con Rimini che ha dato nome all'Emilia stessa.

La città di Reggio Emilia si chiamava in età romana Regium Lepidi in suo onore.


Marco Fulvio Nobiliore

Politico ed edile romano, nonchè generale dell'esercito quando era pretore in Spagna e combattè i Celtiberi. Venne eletto nel 179 a.c. censore e nel 189 console.


Cornelio Scipione e Lucio Mummio

Secondo Livio il ponte fu costruito, ovvero ricostruito da Publio Cornelio Scipione l'Africano e Lucio Mummio nel 142 a. c (Livio 40.51.4) sulle fondamenta poste da M. Emilio Lepido e M. Fulvio Nobiliore.

STAMPA DEL 1600
Pertanto i piloni risultano essere sempre gli stessi, fin dal 241 a.c., dunque se nel 142 si era ritenuto che i piloni fossero ancora validi, significa che erano intatti dopo un secolo, e che solo con Augusto vennero praticamente ricostruiti, forse anche interamente, cioè dopo due secoli e mezzo.

Ma non è un lungo tempo, perchè molti ponti romani resistono ancora dopo duemila anni.
Il fatto è però che durante l'era imperiale fiorirono i migliori ingegneri e costruttori.

Questa costruzione anteriore è archeologicamente associato con i resti di un pilastro appena a N del Ponte Rotto, su un asse leggermente diverso rispetto alla ricostruzione augustea (Blake; Coarelli 1988, 139 ss.).

Al tempo di Augusto, e soprattutto dopo il suo restauro, il Ponte Emilio deve aver effettuato il traffico più pesante tra le due rive per la sua struttura a sei moli (Coarelli 1988, 104, fig. 20).

L'importanza del ponte emerge dal fatto che le due principali arterie di allora, la Via Aurelia e la Via Campana, si biforcavano aldilà del ponte. Taylor (80), ha sostenuto che il ponte caricasse su di sè l'acquedotto dell'Aqua Appia di là del Tevere, soprattutto dopo Augusto ebbe restaurato e completato questo acquedotto con una linea aggiuntiva.




IL DESTINO DEL PONTE

Un primo completo rifacimento lo fece nel 12 a.c il Pontefice Massimo Augusto e perciò, in omaggio all'imperatore, fu soprannominato:
- Ponte Massimo.
Ebbe in seguito molti nomi: 
- Ponte di Lepido (pons Lepidi) - Ponte Lapideo (pons Lapideus),  
- Ponte Maggiore (pons Maior) 
- Ponte dei Senatori" (pons Senatorum),
- Ponte Janiculense
Nell'872 quando Giovanni VIII trasformò il Tempio di Portunus in chiesa con il nome di "S.Maria Egiziaca": per questo motivo il ponte fu chiamato:
- Ponte di s.Maria, detto Rotto.

Subì danni dalle piene del fiume e sotto papa Giulio III nel 1552 le arcate vennero completamente ricostruite. Un'altra alluvione lo distrusse nel 1557.

PONTE EMILIO 1880 DI ETTORE ROESLER FRANZ
Fu di nuovo ricostruito sotto papa Gregorio XIII nel 1575, come enuncia la lapide murata sull'arcata superstite. 

La grande alluvione del 1598 fece sparire tre delle sei arcate e il ponte non fu più ricostruito, e divenne il Ponte Rotto.

La metà del ponte rimasta in piedi, ancorata alla riva destra, fu trasformata in giardino pensile, una sorta di balcone fiorito sul fiume, fino alla fine del '700, quando la precaria stabilità del ponte divenne talmente evidente da fare abbandonare l'idea di passeggiare sul fiume.

Verso la fine dell'800 l'ingegnere Pietro Lanciani collegò delle passerelle metalliche sorrette da funi al troncone di ponte alla riva sinistra del fiume. 

Successivamente la passerella venne eliminata e le due arcate più vicine alla riva vennero distrutte a causa della costruzione dei moderni argini del fiume. 

Tale soluzione durò fino al 1887, quando fu decretato l'abbattimento della passerella e la creazione del nuovo e adiacente ponte Palatino che qui vediamo eretto accanto ai resti del Ponte Rotto. 

Per motivi tecnici connessi a questa nuova costruzione l'antico ponte venne privato di due delle tre arcate e definitivamente soprannominato "rotto", un misero troncone di pietra abbandonato nel fiume.

Attualmente resta una sola delle tre arcate cinquecentesche superstiti, che poggia sugli originali piloni del II secolo a.c.




Un altro "Ponte Rotto"

La denominazione di "Ponte Rotto" (pons fractus o pons ruptus) era stata data in precedenza anche ai resti del ponte romano conosciuto con i nomi di "Ponte di Agrippa", poi "Ponte Antonino" o "Ponte Aurelio", poi "Ponte di Valentiniano", fino alla ricostruzione di Ponte Sisto nel XV secolo. Pertanto anche Ponte Sisto ha origini romane.


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GNEO GIULIO AGRICOLA

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Nome: Gnaeus Julius Agricola
Nascita: Forum Iulii 13 giugno 40 d.c.
Morte: Roma 23 agosto 93 d.c.
Padre: Giulio Grecino
Incarico: Politico e Generale













Epigrafe:
IMP TITO CAESARI DIVI VESPASIANI F VESPASIANO AVG PM TR P VIIII IMP XV COS VII DESIG VIII CENSORI PATER PATRIAE ET CAESARI DIVI VESPASIANI F DOMITIANO COS VI DESIG VII PRINCIPI IVENTVTIS ET OMNIVM COLLEGIORVM SACERDOTI CN IVLIO AGRICOLA LEGATO AVG PRO PR MVNICIPIVM VERVLAMIVM BASILICA ORNATA

"Per l'imperatore Titus Caesar Vespasianus Augustus, figlio del Divino Vespasiano, Sommo sacerdote, dei poteri tribunizio nove volte, ha salutato Imperatore nel settore quindici volte, sette volte console, console designato per un periodo ottavo, censore, 'Padre della Patria', e a Cesare Domiziano, figlio del Divo Vespasiano, sei volte console, console designato per un periodo settimo 'Principe della Gioventù', e di tutte le confraternite sacerdotali, Gneo Giulio Agricola, legato dell'imperatore con propretorio potere, ornò la basilica Verulamium"

Agricola era nato nella colonia del Forum Julii, Gallia Narbonensis (Francia del sud il 13 giugno del 40 dc. – 23 Agosto del 93 dc). La familia di Agricola veniva da ranghi senatoriali ed entrambi i nonni avevano servito come governatori imperiali. Suo padre Julius Graecinus era un pretore diventato senatore nell'anno della sua nascita e si era anche distinto per la sua cultura filosofica. Tra l'agosto del 40 e il gennaio del 41, l'imperatore Caligola ordinò la sua morte perchè si era rifiutato di perseguire il cugino di secondo grado dell'imperatore, Marco Giunio Silano.
Sua madre era Julia Procilla. Tacito nella Historia romana la descrive come "una matrona di singolari virtù" e come una madre molto affettuosa verso il figlio. Agricola fu educato a Massilia (Marsiglia), e mostrò quello che veniva considerato un "malsano" interesse per la filosofia.

Gnaeus Julius Agricola  fu uno dei più grandi generali romani, di cui per giunta sappiamo molto, perchè Tacito, che era suo genero, scrisse un libro su di lui intitolato  "De vita et moribus Iulii Agricolae" cioè "Vita e morte di Giulio Agricola" oltre a molti dettagli archologici che lo riguardano nella Britannia del nord. Di certo Tacito fu preso dalla personalità prorompente eppure saggia di suo suocero per trasporla in un libro. Non trattavasi infatti di suo padre o di qualcuno della sua familia, la cui gloria gli avrebbe dato lustro, per giunta era un suocero, qualcuno che poteva avere una certa autorità su di lui e che invece evidentemente non ne ebbe ma fu invece un forte punto di riferimento per lui.

Pur essendo sfavorevole alla mania di conquista dell'impero romano, dal tono del libro si comprende l'ammirazione e la stima fortissima che Tacito ebbe in quest'uomo eccezionale, che univa ad una notevolissima intelligenza un grande coraggio, una forte capacità comunicativa, una immensa bravura come generale, una grande capacità organizzativa e amministrativa e una profondissima quanto rara onestà. Tutti, a cominciare dai suoi soldati lo stimavano e rispettavano, e là dove sorgevano controversie o si aspettavano consigli ci si rivolgeva a lui, uomo di grande liberalità e disponibilità.

Nato da una influente familia, la familia Julia di cui fu il più grande esponente Giulio Cesare, Agricola iniziò la sua carriera militare in Bretagna, sotto il governatore Gaius Suetonius Paulinus. Per la sua abilità e affidabilità presto venne nominato questore nella provincia dell'Asia nel 64 dc, poi Tribuno plebeo nel 66, e pretore nel 68. Egli supportò Vespasiano durante l''Anno dei 4 Imperatori (69), e gli venne concesso il comando militare in Britannia dall'ultimo imperatore.

Quando terminò il suo comando, nel 73, venne fatto patrizio a Roma e governatore della Gallia Aquitania. Nel 77 poi venne creato console e governatore della Britannia. Durante questo periodo egli completò la conquista del moderno Galles e del nord Inghilterra, e condusse il suo esercito fino al nord della Scozia, innalzando fortini attraverso molte delle basse terre, Lowlands. Venne richiamato dalla Britannia nell'85 dopo un servizio straordinariamente lungo, ritirandosi dalla carriera militare e politica.



DE VITA ET MORIBUS IULII AGRICOLAE

Dopo l'assassinio di Domiziano nel  96 dc, Tacito potè pubblicare questo libro che fu la sua prima opera storica. Durante il regno di Domiziano, Agricola, fedele generale imperiale, era stato il comandante più importante coinvolto nella conquista di gran parte della Gran Bretagna.

JULIUS AGRICOLA
Il tono orgoglioso di Tacito richiama lo stile del funebres laudationes (discorsi funebri).

Dapprima fa un rapido riassunto della carriera di Agricola prima della sua missione in Gran Bretagna, poi  narra la conquista dell'isola, poi fa una digressione geografica ed etnologica, presa non solo dalle note e ricordi di Agricola, ma anche dal De Bello Gallico di Giulio Cesare.

Tacito esalta il carattere di suo suocero, mostrando come un governatore della Britannia Romana e comandante dell'esercito, possa occuparsi di questioni di Stato con fedeltà, onestà e competenza, pur sotto il governo del folle e criminale Domiziano, descrivendone il regime di spionaggio e  repressione violenta.

Agricola rimase onesto e incorrotto, naturalmente in disgrazia sotto Domiziano, e morì senza cercare la gloria di un martirio ostentato. Tacito condanna il suicidio degli stoici, di alcun beneficio per lo Stato, non chiarisce  se la morte di Agricola è avvenuta per cause naturali o per ordine di Domiziano, anche se riporta delle voci di Roma secondo cui Agricola venne avvelenato per ordine dell'imperatore.

Per Tacito, Agricola fu un esempio di come, anche nel dispotismo, sia stato possibile tenere un comportamento corretto, evitando gli estremi opposti di servilismo e di opposizione inutile.

Il lavoro può essere visto come l'apologia di una gran parte della classe dirigente: le persone che non desiderano il martirio, aveva collaborato con la famiglia Flavia con un valido contributo alla legislazione, al governo provinciale, all'ampliamento dei limiti di l'impero e alla difesa dei suoi confini.

Tacito imposta il dispotismo di Domiziano contro i meriti di Agricola: un ufficiale incorruttibile e un grande comandante, che ha rispettato il modello del mos maiorum ("il costume degli antenati"). Lo scrittore dice implicitamente che l'Impero deve essere accettato come un male necessario, si deve mantenendo però la propria dignità senza diventare correo di un despota arbitrario come Domiziano. Si può essere un funzionario onesto e scrupoloso, facendo il suo lavoro con serenità e in collaborazione con il regime, mantenendo il suo lavoro nell'interesse dello Stato, in attesa di un invecchiare meglio, quando uno scrittore diventa in grado, come Tacito stesso, di scrivere in libertà.



CURSUS HONORUM

Epigrafe:
IMP VESP VIIII T IMP VII COS CN IVLIO AGRICOLA LEG AVG PR PR
"Imperatore Vespasiano nove volte e Imperatore Titus sette volte console. Per Gnaeus Julius Agricola, propraetoriano legato dell'imperatore"



TRIBUNO MILITARE

Iniziò la sua carriera pubblica come tribuno militare, servendo in Britannia sotto Gaius Suetonius Paulinus, il generale che affrontò e vinse Boudicca,  dal 58 al 62. Probabilmente fece parte della Legio II Augusta, ma di sicuro fu scelto per entrare nello staff di Suetonius e partecipò alla soppressione della rivolta di  Boudica (o Budicca) nel 61.


QUESTORE IN ASIA

Tornato a Roma nel 62, sposò la patrizia Domitia Decidiana, da cui ebbe un figlio maschio. Agricola fu nominato questore nel 64, servendo nella provincia d'Asia, sotto il corrotto proconsole Salvius Titianus. In quel periodo nacque sua figlia, Giulia Agricola, ma suo figlio morì poco dopo. Divenne tribuno della plebe nel 66  e pretore nel giugno del 68, e nel frattempo l'imperatore Galba gli ordinò di compilare un inventario dei tesori dei templi.

Nel giugno 68 Nerone fu deposto e si suicidò, e iniziò la guerra civile detta "L'anno dei 4 Imperatori". Galba succedette a Nerone, ma fu assasssinato nel 69 da Otho, che salì al trono. La madre di Agricola fu assassinata nella sua tenuta in Liguria dalla flotta di predoni di Otho, così Agricola, sapendo che Vespasiano ambiva al trono gli dette tutto il suo appoggio.



COMANDANTE DELLA VALERIA VITRIX

Stabilitosi come imperatore Vespasiano dette ad Agricola il comando della Legio XX Valeria Victrix, stazionata in Britannia, al posto di Marcus Roscius Coelius, che aveva scatenato una rivolta contro il governatore Marcus Vettius Bolanus. La rivolta aveva portato un anno di guerra civile in Britannia, e Bolanus era un mite governatore. Agricola rimise la disciplina nella legione e riconsolidò il ruolo dei romani in quella terra. Nel 71 Bolanus fu rimpiazzato da un governatore più aggressivo, Quintus Petillius Cerialis, e Agricola mostrò tutte le sue doti di comandante contro i Brigantes nel nord Inghilterra.



GOVERNATORE DELLA GALLIA AQUITANIA

Quando terminò il suo comando nel 75, Agricola ottenne il titolo di patrizio e il governo della Gallia Aquitania. Nel 76 o 77 tornò a Roma con l'incarico di console suffetto, e promise sua figlia a Tacito che sposò Julia l'anno seguente; Agricola entrò a far parte del Collegio dei Pontefici, e tornò in Bretagna per la terza volta, ma come governatore.



GOVERNATORE DI BRITANNIA

Nell'estate del 78, mosse guerra e sconfisse gli Ordovici (tribù del Galles settentrionale), che avevano distrutto la cavalleria romana nel loro territorio. dopo di che sottomise di nuovo l'isola di Mona (Anglesey), che dopo essere stata conquistata da Svetonio Paolino nel 61 era stata ripresa da boudica regina dei Britanni. Agricola si guadagnò anche una buona fama come saggio, onesto e giusto amministratore che combattè ed eliminò la corruzione. Per la romanizzazione della Britannia, incoraggiò la costruzione di città sul modello di quelle romane e fece educare i ragazzi secondo i costumi romani. Poi nell'estate dell'80 guidò l'esercito fino all'estuario del fiume Taus in Scozia, dove fece costruire dei forti.



AGRICOLA IN IRLANDA

Narra Tacito che nell'82 Agricola attraversò il mare, ma non si sa quale, e sconfisse popoli fino ad allora sconosciuti ai romani. Si pensa trattarsi del mare del Clyde o Forth.

Tuttavia l'intero capitolo riguarda solo l'Irlanda. Agricola fortificò la costa britannica che guardava verso l'Irlanda e Tacito ricorda che il suocero diceva spesso che quest'isola poteva essere conquistata con una sola legione e poche truppe ausiliarie.

Egli aveva anche dato rifugio a un re irlandese cacciato dalla sua terra, un'ottima scusa per attaccare e conquistare l'Irlanda, ma la conquista non ci fu mai.

Secondo una tradizione irlandese però un leggendario sommo re, Tuathal Teachtmhar, esiliato da ragazzo dall'Irlanda, tornò dalla Britannia tra il 76 e l'80 alla testa di un esercito per riprendersi il trono. Inoltre, l'archeologia ha portato alla luce manufatti romani o romano-britannici in diverse località associate a Tuathal.
Recentemente è stato scoperto un possibile forte romano a Drumanargh vicino Dublino, che alcuni studiosi  credono usato da Agricola per una sua spedizione esplorativa in Hibernia nell'82.



INVASIONE DELLA CALEDONIA (SCOZIA)

Nell'anno seguente Agricola aveva raccolto una flotta e circondato le tribù al di là del Forth, e i Caledoniani insorsero in gran numero contro di lui. Attaccarono il campo della Legio IX Hispana di notte, ma Agricola inviò la cavalleria mettendoli in fuga. Intanto al generale nacque un altro figlio ma morì prima del suo primo compleanno.

Nell'estate dell'83 Agricola affrontò gli eserciti ammassati del Caledoni, guidati da Calgacus, nella battaglia di Mons Graupius. Tacito stima il loro numero a più di 30.000.  Agricola pose i suoi ausiliari in prima linea, mantenendo le legioni in riserva, basandosi su una stretta misura di combattimento per rendere inutili le sferzanti spade spuntate dei Caledoni.  I Caledoni sconfitti riuscirono però a fuggire nascondendosi nelle Highlands scozzesi. 10.000 i caduti Caledoniani e 360 ​​i romani.

Diversi autori si sono interessati alla battaglia del Mounth Grampian presso il Mare del Nord. In particolare, Roy, Surenne, Watt, Hogan hanno ipotizzato che il sito della battaglia possono essere stati Kempstone Hill, Megray Hill o  vicino al Camp Raedykes romano. Inoltre questi punti di altura sono in prossimità della Mounth Elsick, una via antica usata dai Romani e Caledoni per le manovre militari.

Soddisfatto della sua vittoria, Agricola prese ostaggi dalle tribù Caledonian. Egli può aver marciato il suo esercito fino alla costa settentrionale della Gran Bretagna, come testimonia il ritrovamento di una forte romano di Cawdor (nei pressi di Inverness). Egli incaricò il prefetto della flotta di navigare lungo la costa nord, confermando per la prima volta che la Gran Bretagna era davvero un'isola.



LA MORTE

Agricola fu richiamato dalla Britannia nell'85, dopo una permanenza in carica come governatore insolitamente lunga. Tacito sostiene che Domiziano lo fece richiamare perché i successi di Agricola avevano eclissato le proprie modeste vittorie in Germania. Il rapporto tra Agricola e l'Imperatore era duplice, da un lato ad Agricola furono concesse decorazioni trionfali e una statua (i più alti onori militari a parte un trionfo vero e proprio), dall'altro negò ad Agricola un posto pubblico civile o militare, nonostante la sua esperienza e fama. Gli fu offerta la carica di governatore della provincia d'Africa, ma la rifiutò adducendo motivi di salute o più probabilmente, come sostiene Tacito, temendo le macchinazioni di Domiziano. Nel 93 Agricola mori nella sua villa in Gallia Narbonese all'età di 53 Anni. Alcune voci attribuirono la sua morte ad un avvelenamento ordinato da Domiziano, ma non vi sono prove di ciò, anche se non può essere escluso.

CASA DELLA FARNESINA

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LA VILLA SUBURBANA

La Casa della Farnesina è una Domus romana, anzi una villa, sita nella zona Transtiberim, cioè in Trastevere, in parte sotto i giardini di villa Farnesina per cui ne ha tratto il nome. La casa fu rinvenuta casualmente durante gli scavi per la costruzione degli argini del Tevere, nel 1880.  A Roma si scava in genere per ritrovamenti casuali e raramente purtroppo, per programmazione. Finora è stato possibile scavare solo una metà posta sotto i giardini, mentre è sconosciuta la parte sotto le costruzioni di via della Lungara. Naturalmente si potrebbe scavare anche lì ma a costi molto più elevati.

PIANTA DELLA VILLA
Villa della Farnesina è considerata una delle residenze suburbane più lussuose dell’età augustea, e può essere confrontata con la villa dei Misteri di Pompei o con gli Horti Luculliani a Roma, permeate dal gusto scenografico di matrice ellenistica, specialmente nelle parti aperte verso il mare o su una valle, in questo caso  di un fiume.

Al centro di queste ville campeggiano sempre grandi esedre bordate da loggiati colonnati. Tali strutture si trovano spesso in numerosissime rappresentazioni dipinte nei "quadretti di paesaggio" di Pompei.

Non ci sono elementi che facciano risalire al nome del proprietario ma la somiglianza delle pitture, di cui la Villa è particolarmente ricca, con quelle della Casa di Livia e della Casa di Augusto ne fanno attribuire la costruzione per le nozze tra Giulia Maggiore, la figlia di Augusto, e il generale Agrippa. Inoltre lo stile classico delle pitture ha fatto datare le pitture al 30-20 a.c., il che confermerebbe l'attribuzione.



DESCRIZIONE

La villa è posta sull'asse nordest-sudovest sulle coste fiume e si diramava da una grandiosa esedra che fronteggiava il fiume con una grande scenografia prospettica.

La costruzione, circondata da giardini lussureggianti, sorgeva in una zona in cui proliferavano le attività artigianali, ospitando interiormente sale con preziosi mosaici pavimentali e volte stuccate in modo raffinato e impreziosite con l’oro.

Sulle pareti colorate emergono squisite pitture che raffigurano momenti di vita quotidiana oppure temi che vanno dalla mitologia al teatro e pure all'erotismo, con gusto e fantasia. Nella parte centrale della casa una piccola corte; nel lato sinistro altre sale più modeste ed alcune corti scoperte.

La villa era sorretta da tre muri concentrici, con un prospetto esterno a speroni che proseguiva anche oltre il porticato.

Questo era rivolto al fiume verso il quale tendevano gli avancorpi laterali. Il lato verso Trastevere era invece percorso da un lungo criptoportico con volte su pilastri.

Oltre esso, sulla strada, si trovava un lunga fila di ambienti con cellette per botteghe e magazzini. Insomma un centro commerciale e una zona movimentata verso la strada e una villa imperscrutabile e silenziosa dalla parte del fiume.
La parte centrale della casa presentava una piccola corte, dove si aprivano due cubicoli e un oecus. Sull'esedra si apriva un altro cubicolo estivo. Il resto dell'avancorpo sinistro era occupato da sale di minor pregio e da alcune corti scoperte.


La Sala nera

SALA NERA
Tra le stanze della casa c'è una grande sala decorata con pitture a sfondo nero, in campi divisi da esili colonnine dipinte.

In basso lo zoccolo è ornato con motivi a meandro. Particolarmente interessante è il fregio con scene egiziane, che sembrano illustrare un testo letterario che non ci è noto, e che verte su una controversia ed il relativo giudizio, forse un popolare romanzo alessandrino.

In generale le scene sono composte da una prima parte, dove si vede l'insorgere della controversia, e una seconda dove si vede un giudizio vero e proprio con un saggio giudice.

Il fondo monocromatico e la funzione decorativa dell'esile intelaiatura architettonica colloca queste pitture nel cosiddetto "III stile pompeiano", anti-barocco, con le pareti concepite unitariamente invece che come pretesto per i giochi prospettici. La stesura poi "a macchie", molto ricercata, deve i suoi modelli all'ambiente egiziano del I sec. a.c.


Il cubicolo "B"

Il cubicolo "B" ha una parete di fondo con pitture ben conservate. Una firma sulla parete reca il nome di uno dei pittori che realizzarono la decorazione, Seleukos, nome di origine siriaca. La parete è tripartita verticalmente, come si usava nel periodo, priva però della prospettiva illusionistica tipica del II stile.

CUBICOLO "D"
La parte centrale presenta infatti un'edicola dipinta con un quadro, che non allude a un paesaggio retrostante.

In basso è dipinto uno zoccolo e i pannelli sono a sfondo rosso; in lato la parte centrale è decorata da timpano, mentre quelle laterali sporgono con due corpi dove si aprono nicchie e edicolette.

Al centro presenta uno sfondo scuro sul quale si stagliano esili vittorie alate e un colonnato prospettico appena accennato.
La scena nel quadro centrale è un episodio dell'infanzia di Dioniso, tratto da un originale greco del IV sec. a.c., mentre due quadretti laterali, sorretti da genietti femminili alati, hanno sfondo bianco e scene di gineceo disegnate in uno stile arcaizzante, ripreso da originali del V sec. a.c.
Colpisce l'uso eclettico della decorazioni: grandi superfici di colore e intelaiatura architettonica esile tipica del III stile, decorazioni accessorie neoattiche (genietti, vittorie, acroterii, racemi...) e quadri classici riprodotti in grande dimensione.

La scena del quadro centrale riguarda Ino-Leucotea, approdata a Roma dopo il suicidio e la sua trasformazione in Dea marina. Ino, figlia di Cadmo, era la seconda moglie di Atamante, col quale aveva avuto due figli, Learco e Melicerte.

CUBICOLO "D"
Poiché aveva persuaso Atamante ad accogliere il piccolo Dioniso, e ad allevarlo insieme ai loro figli, Era si era incollerita perché avevano accolto un figlio degli amori adulterini di Zeus, e pertanto li fece impazzire entrambi.

Atamante uccise Learco con uno spiedo, scambiandolo per un cervo, e Ino gettò in un paiolo d'acqua bollente Melicerte e poi si gettò in mare con il cadavere del bambino.

Le divinità marine ebbero pietà di lei e la trasformarono in una Nereide col nome di Leucotea ("la Dea Bianca") mentre il figlio diventava il piccolo dio Palemone. Infatti il corpo del bambino era stato trasportato da un delfino fin sull'Istmo di Corinto e qui veniva raccolto da Sisifo, fratello di suo padre Atamante, il quale lo seppellì, gli innalzò un altare vicino ad un pino e gli tributò onori divini sotto il nome di Palemone, facendone il nume tutelare dei giochi Istmici, protettore dei naviganti.

Quanto ad Ino-Leucotea, che diverrà poi Mater Matuta, Ovidio racconta che al suo arrivo a Roma aveva incontrato le Baccanti che celebravano i riti dionisiaci, le quali, istigate da Era, che ancora non aveva perdonato ad Ino di aver fatto da nutrice a Dioniso fanciullo, si erano scagliate su di lei e stavano per straziarla. Alle sue grida era accorso Ercole, che l'aveva liberata e poi affidata a Carmenta, madre di Evandro, la quale le annunciò che a Roma le sarebbe stato tributato un culto insieme al figlio, che sarebbe stato onorato col nome di Portunno.


I Cubicoli B D E

PITTURE DI GIARDINO
I cubicoli “B”, “D” ed “E” erano tutti coperti da volte a botte, uno dei sistemi più semplici di copertura che veniva utilizzata per coprire spazi di forma di solito rettangolare, le volte sono dipinte con stucchi, oggi staccati e conservati al Museo delle Terme.

I riquadri minori presentano motivi di amorini, grifi, Arimaspi (popolo leggendario citato da autori greci e latini, tra i quali Plinio il vecchio, abitanti in un territorio posto a nord-est della Grecia), candelabri, girali; mentre i riquadri maggiori sono decorati con paesaggi idilliaci.
 

Le pitture di giardino

Dalla casa della Farnesina provengono anche due frammenti di pitture di giardino, di poco posteriori agli affreschi del ninfeo sotterraneo della villa di Livia (40-20 a.c.).
Si tratta di due fontane marmoree a forma di vaso, poste su un letto verde e circondate da rientranze di una staccionata di canne. Ricordano molto le pitture della casa di Livia, probabilmente effettuate dalla scuola della stessa taberna artistica, se non dallo stesso autore.


Stucchi


STUCCO DELL'INIZIAZIONE DIONISIACA DI CESARIONE
I cubicoli "B", "D" ed "E" erano coperti da volte a botte coperte da stucchi, oggi pure staccati e conservati al Museo delle Terme. La decorazione è organizzata in zone piccole e grandi di forma quadrata, rettangolare e a meandri, coi bordi composti da leggeri kymatia.

I riquadri minori presentano motivi di carattere arcaicista o grottesco (Vittorie, amorini, grifi, Arimaspi, candelabri, girali). I riquadri maggiori sono invece decorati da paesaggi idilliaci (cubicoli "B", "D" e angoli dell'"E"), cicli di scene dionisiache (angoli dei cubicoli "B" e "D") e scene del mito di Fetonte (centro del cubicolo "E").

CUBICOLO "A"
Nel "D" notiamo soprattutto il pannello centrale con la scena di iniziazione dionisica, con un sileno nell'atto di compiere la mystica vannus (la cista chiusa contenete il fallo) alla presenza di un fanciullo col capo coperto, l'iniziato, di una donna patrocinante e di un inserviente.

Lo sfondo è essenziale, con un platano (albero dionisiaco), un pilastro (a sinistra) e una quinta con tendaggi (a destra). Si assiste in queste scene a tendenze in atto anche in pittura quali l'assottigliamento degli elementi e la rarefazione della composizione.

Particolarmente curata è la disposizione simmetrica e la resa dei dettaggli nonostante il bassissimo rilievo, che testimonia il livello raggiunto nell'età augustea in questo tipo di decorazione.
Qualcuno sostiene trattarsi dell'iniziazione di Cesarione, figlio di Cesare e Cleopatra, che però era morto da parecchi anni, per giunta fatto uccidere dallo stesso Ottaviano. Difficile pensare che qualcuno volesse rinverdirne il ricordo, specie se la casa sia appartenuta effettivamente ad Agrippa.



OGGI

Il percorso archeologico odierno inizia varcando una porta che si apre su di un lungo Cripotoportico coperto, ai cui lati si possono vedere frammenti di affreschi che danno l’idea di come lo stesso fosse un tempo, nel 20 a.c. Le volte del criptoportico poggiano su pilastri; al termine del corridoio, dalla parte della strada, si presentano vari piccoli ambienti che erano destinati a botteghe o magazzini.

Oltrepassato il corridoio si entra nelle stanze da letto, i cubicula, sulle cui pareti emergono affreschi che richiamano il mondo femminile in cui domina il rosso, tanto caro all'istinto e allo stile pompeiano, mentre sui pavimenti spiccano grossi frammenti di mosaici policromi di epoca repubblicana e imperiale.

Il fasto degli affreschi viene messo in risalto dall’illuminazione, che con un sistema biodinamico riproduce gli effetti del colore e della temperatura che durante la giornata ha la luce solare. Si ha in questo modo la sensazione di vivere, anche se solo visivamente, come gli abitanti della casa.

Le pitture e gli stucchi della casa sono state staccate nel corso degli scavi e si trovano oggi nel Museo Nazionale Romano, sezione di Palazzo Massimo, anche se spesso vengono spostate per partecipare a mostre in tutto il mondo.



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ERMEO PALATINO

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Il tempio “E’ caratterizzato da una pianta di larghezza poco inferiore alla lunghezza, con la metà anteriore occupata dal portico colonnato e la metà posteriore costituita da tre celle, per tre diverse divinità, o da una sola cella fiancheggiata da duealae o ambulacri aperti”. Il tempio era accessibile non tramite un crepidoma perimetrale, ma attraverso una scalinata frontale. L'area del tempio è divisa in due zone: una antecedente o pronao con otto colonne disposte in due file da quattro, una posteriore costituita da tre celle uguali e coperte, ognuna dedicata ad una particolare divinità."

Questa è la descrizione che Vitruvio dà dal tempio ideale romano, ma egli è vissuto nel I sec. a.c. mentre l'ermeo palatino risale al V sec. a.c. e l’architettura religiosa romana di questo secolo ha lasciato poche tracce in quanto costruita con materiali deperibili. Le informazioni provengono però proprio dai testi di Vitruvio, che descrisse l'architettura presente nella sua epoca ma anche del passato, classificando i templi più antichi, di era monarchica, sotto un nuovo ordine, quello tuscanico. La colonna tuscanica aveva un capitello simile a quella dorica, era rastremata ma non scanalata e presentava un basamento.

RICOSTRUZIONE DELL'AUDITORIUM DELL'ERMEO PALATINO

Al culto di Mercurio venne infatti dedicato un tempio vicino al Circo Massimo, sul colle Palatino, nel 495 a.c. La costruzione si ergeva su un podio di 2,5 - 3 m su cui si ergeva un portico a colonne. Il tempio era costruito in mattoni crudi e legno e rivestito in pietra. Aveva acroteri, antefisse e culmen, il tutto in terracotta decorata, ma soprattutto aveva la statua del Dio Hermes, assimilato poi al latino Mercurio, in terracotta policroma.

HERMES
Nel santuario di Portonaccio presso Veio venne rinvenuto l'Apollo cosiddetto di Veio, alto circa 1,80 m, con altre sculture in terracotta in dimensioni naturali, tra cui un frammento della testa della statua di Hermes, ovvero il Turms etrusco, statue modellate tra il 510 e il 490 a.c., contemporanee dunque alla statua e all'ermeo palatino, che ornavano il culmen del tetto del tempio tuscanico dedicato a Minerva, a 12 m di altezza.

Le statue furono realizzate modellando separatamente il corpo e la testa, le braccia e le gambe, ma furono cotte intere e quindi dipinte: in nero i capelli, in rosso scuro la pelle e in diverse sfumature di ocra la veste e il mantello. Gli influssi erano sia greci che etruschi.

Il tempio di Portonaccio è il primo tempio tuscanico di cui si abbia notizia, codificato in età augustea da Vitruvio, eretto in Etruria nel 510 a.c. Il tempio avrebbe avuto una pianta quadrata di 60 piedi di lato, suddivisa in un pronao con due colonne in facciata tra ante profondo 24 piedi e in un blocco retrostante di tre celle affiancate, profonde 30 piedi.

Le colonne, alte 21 piedi, erano di tufo stuccato come i muri, rivestiti all’interno del pronao da più ordini di pitture su lastre fittili, mentre tutta la copertura era in legno, schermato da terrecotte policrome, con riporti bronzei e immagini in terracotta, per lo più modellate a mano, come la serie di grandi antefisse e di teste di grifo.

In epoca molto arcaica, l'iconografia di Hermes era diversa da quella del periodo classico: un dio barbuto e dotato di un fallo enorme ma, nel V - VI secolo a.c. la sua figura venne trasformata in quella di un giovane dall'aspetto atletico mentre l'altra figura fu assorbita da Priapo. Tutti i resti dell'epoca lasciano pensare che nell'ermeo palatino fosse raffigurato l'Hermes greco giovane e bello, protettore dei viaggiatori, dei commercianti e dei ladri.


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SPALATUM - SPALATO (Croazia)

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IL PALAZZO DI DIOCLEZIANO

Spalato  è una città della Croazia che sotto l'impero romano si chiamò "Spalatum"

Da quanto è risultato dalle ricerche archeologiche la storia di Spalato inizia come Colonia Siracusana, fondata durante il regno di Dionisio il vecchio (395 a.c.) con il nome di Aspálathos. Divenne in seguito città romana, sviluppatasi intorno allo sfarzoso palazzo dell'imperatore Diocleziano, fatto costruire nel 295-304 d.c.
LA CATTEDRALE DI SPALATO

Nei secoli successivi, gli abitanti della vicina Salona, già porto illirico e in seguito popolosa città romana, per sfuggire alle incursioni degli Avari e degli Slavi, si rifugiarono fra le sue mura: secondo alcuni il nome romano della nuova città-palazzo "Spalatum" deriva proprio dal latino Salonae Palatium.

In alcune carte medievali la città, ove allora i Dalmati neolatini parlavano lo scomparso "dalmatico"è anche chiamata Spalatro. Successivamente si susseguirono vari domini: l'Impero Bizantino, nel quale la città riuscì man mano a ritagliarsi una certa autonomia, quindi il Regno Croato, del quale era formalmente la capitale.

Spalato accoglie come resti romani sia il Palazzo di Diocleziano, sia la porta Aurea. Nelle vicinanze sono notevoli le rovine romane di Salona e gli scavi archeologici andrebbero ampliati, ma il paesaggio circostante è stato occupato, nel secolo scorso, da una vasta zona industriale.




DIOCLEZIANO

Diocleziano, della famiglia romana Valeria, nacque nel 243 d.c. a Dioclea, piccolo borgo vicino a Salona (5 km da Spalato) che al tempo era la città più importante della costa, governata dalla Roma imperiale.

DIOCLEZIANO
Distintosi in campagne militari, nel 277 si trasferì da Salona a Roma e ottenne l'impero nel 284, governando soprattutto sull'Impero Romano d'Oriente, visto che durante il suo regno si stabilì una tetrarchia di quattro 'comandanti' che si suddivisero il territorio.

Egli ottenne numerosi successi militari e nel 295 diede inizio alla costruzione della sua residenza, che terminò in dieci anni. All'inizio del IV secolo (305) decise di rinunciare al proprio titolo, abdicare (unico caso nella storia imperiale romana) e ritirarsi dalla vita politica, prendendo residenza stabile nel proprio palazzo, che aveva un accesso diretto al mare, immerso in una lussureggiante vegetazione, tra le sue terme di acqua calda e i suoi fedeli seguaci.

Il palatium era una sontuosa villa imperiale, ma anche un villaggio bastante a se stesso e pure una fortificazione militare. Esso comprendeva la residenza per l’imperatore e la sua corte, il resto occupato dalla guarnigione e numerosi magazzini. Dopo otto anni di vita serena, anche se spesso turbata dalle continue vicissitudini dell’impero romano, Diocleziano vi morì di morte naturale.





IL PALAZZO DI DIOCLEZIANO

Il Palazzo di Diocleziano è un imponente complesso architettonico fatto edificare dall'imperatore Diocleziano, molto probabilmente fra il 293 ed il 305, allo scopo di farne la propria dimora. Il palazzo con le sue mura coincide col nucleo originario del centro storico della città, visto che secondo le fonti, poteva ospitare circa 2000 persone.

Si tratta probabilmente del palazzo romano meglio preservato al mondo, grazie al fatto che molte delle sue strutture sono state riutilizzate, nel corso dei secoli, per servire differenti finalità.

Dopo aver riformato l'Impero romano, con l'entrata in vigore del sistema della tetrarchia, Diocleziano abdicò ritirandosi nel palazzo appositamente fattosi costruire e che doveva essere già completo o quasi. 

All'interno del palazzo, oltre agli edifici, c'erano tre templi religiosi (uno rettangolare dedicato a Giove, uno circolare dedicato a Cibele e un altro pure rotondo dedicato a Venere) e il mausoleo dell'imperatore, che vi fu sepolto nel 312, all'età di 68 anni.

Si tratta più di una fortezza che di un palazzo e in origine la sua cinta muraria misurava 215x180 metri e conteneva all'interno la residenza imperiale, vari templi e un mausoleo, in una superficie totale di 30.000 metri quadrati.

Oggi è ancora possibile vedere il vestibolo del palazzo originario, la piazza della fortezza, circondata da un colonnato, il Tempio di Giove e i resti del Mausoleo, trasformati in una cattedrale.

 Il tempio di Giove venne infatti riadattato a Battistero di San Giovanni; diverse chiese furono erette all'interno e l'intero palazzo venne occupato gradualmente da abitazioni civili, soprattutto dopo la distruzione della città di Salona (614) che cadde nell'oblio fino al 1800, quando gli scavi archeologici (oggi visitabili a 5 km) la riportarono alla luce.

Gli abitanti in fuga trovarono riparo tra le mura del palazzo di Diocleziano e praticamente diedero vita ad un nuovo nucleo cittadino: Spalato appunto, dove oggi tutto è mescolato e imprevedibile, ci sono colonne romane che spuntano dentro a una banca o a un ristorante o sostengono un palazzo veneziano di oltre mille anni più recente.

Il palazzo si presentava dunque come una sorta di grande villa fortificata, dedicata alla figura sacra dell'imperatore, per il quale esisteva già un mausoleo, destinata quindi ad ospitarlo anche dopo la morte, nelle cui mura si possono riconoscere ancora oggi le quattro porte d’entrata: la Porta Aurea (a nord), la Porta Argentea (ad est), la Porta Ferrea (ad ovest) e la Porta Bronzea, a sud.

La pianta del palazzo ricalca quella di un castrum romano ed il materiale usato per la sua costruzione venne fatto arrivare dall'isola di Brac e dall'Egitto, così come dalla Grecia e dall’Italia. Nel complesso per la sua costruzione furono necessari dieci anni. Il rifornimento idrico del palazzo era notevole, alimentato da un acquedotto a partire dalla sorgente di Jadro.

Il palatium aveva la pianta tipica degli accampamenti militari romani: due strade perpendicolari, il cardo ed il decumanus, che si intersecano e da cui si dipartono numerose vie trasversali perpendicolari a scacchiera, però con una forma leggermente trapezoidale (il lato sud era leggermente irregolare per il declivio del terreno verso il mare), con un lato affacciato direttamente (all'epoca) sul mare e quattro poderose torri quadrate agli angoli.
lI Decumanus separava la residenza imperiale dalla zona a nord, dove erano situate la servitù ed i militari.

In origine, la sua cinta muraria in opus quadratum, alta 18 m e spessa 2 m, misurava 215,50 m per 175-181 m. In queste mura si aprono tuttora vari torrioni quadrati e quattro porte, affincate da torri a base ottagonale: la Porta Aurea (a nord), la Porta Argentea (ad est), la Porta Ferrea (ad ovest) e la Porta Aenea o bronzea, sul mare a sud. Le poderose mura furono una sorta di novità rispetto alle ville romane dei secoli precedenti e si resero necessarie per via dei tempi cambiati in cui l'impero romano non era più inattaccabile come un tempo.

Si è conservata una bellissima sfinge di marmo nero accovacciata tra due colonne, si sa che Diocleziano ne fece trasportare ben 11 dall'Egitto, risalenti al 1.500 a.c., dove saranno finite le altre 10? Vendute o distrutte come idoli blasfemi?

LA PORTA AUREA IN EPOCA ROMANA


LA PORTA AUREA

La Porta Aurea è inquadrata da edicolette pensili e sormontata da archetti su colonnine pensili (oggi delle colonne restano solo le mensole di base e i capitelli). Le altre due porte (Argentea e Ferrea) hanno decorazione più semplice. Ciascuna era dotata di controporta e cortile d'armi. 

Da qui partivano le vie colonnate che dividevano il complesso in quattro riquadri principali: i due a nord ospitavano caserme, servizi e giardini (poco conosciuti, organizzati su peristili centrali e con file di stanzette lungo le mura), mentre la parte meridionale, ove si sono conservate più consistenti vestigia monumentali, ospitava il quartiere imperiale.

Dalla prosecuzione colonnata della strada nord-sud si poteva giungere al portico detto "peristilio" giro di colonne che cingono uno spazio delimitato), con quattro colonne sostenenti un archivolto a serliana.

Attraverso il peristilio verso sud si accedeva a un vano a base circolare coperto da cupola e poi ad un vano rettangolare con colonne che faceva da vestibolo d'accesso agli appartamenti privati dell'imperatore, disposti sul lato lungo il mare, sul quale si affacciavano con un loggiato a semicolonne che inquadravano gli archi; alle estremità e al centro si trovavano tre serliane ( elemento architettonico composto da un arco a tutto sesto affiancato simmetricamente da due aperture sormontate da un'architrave; fra l'arco e le due aperture sono collocate due colonne)

Il peristilio è uno degli ambienti meglio conservati tutt'oggi, e pare che avesse la funzione di scenografia per le cerimonie ufficiali alle quali partecipava come protagonista l'imperatore. Dal peristilio infatti si accedeva ad est e ad ovest ad ambienti di culto:

PORTA AUREA OGGI
A ovest erano presenti due edifici rotondi, di uso sconosciuto, ed un tempio tetrastilo probabilmente dedicato a Giove, del quale restano ancora oggi delle rovine, poi trasformato in battistero (il pronao è però perduto);
A est si ergeva l'edificio a base ottagonale del mausoleo imperiale, cinto da una serie di colonne (peristasi) e coperto a cupola, all'esterno protetta da un tetto piramidale; in seguito il mausoleo venne trasformato in cattedrale, sfuggendo così all'iconoclastia cristiana.

L'appartamento privato era diviso in due metà simmetriche, divise dalla prosecuzione sotterranea della via colonnata. Si conoscono nella parte occidentale le sostruzioni verso il mare e una basilica privata, affiancata da una doppia fila di stanze a pianta centrale, oltre a un complesso termale. La metà orientale del palazzo è conosciuta in maniera scarsa e lacunosa.

La villa, come alcuni altri esempi tardo-repubblicani, è costruita a modello di un castrum, con le mura di cinta e i torrioni, ma fece da ispirazione anche il complesso dei palazzi imperiali del Palatino.Il palazzo di Diocleziano è un palese esempio delle tendenze architettoniche nell'età di Diocleziano, improntate a tendenze conservatrici, come per esempio anche nelle terme di Diocleziano a Roma, di impostazione analoga a quelle di Caracalla.

Come tipologia di villa fortificata si conoscono alcune derivazioni coeve, come quella di Mogorjelo in Erzegovina. 
Suggestioni assolutistiche e orientali sono date dagli ambienti di rappresentanza (soprattutto il "peristilio" con le due ali sacre), assimilabili a quelli del palazzo imperiale di Antiochia e, nel secolo successivo, di Costantinopoli. Orientale è anche la scelta di porre sul fondo gli ambienti di rappresentanza e l'uso delle vie colonnate. La sostanza e la componente ideologica, invece, sono più schiettamente romane, soprattutto nell'aspetto militarizzato e nelle scelte conservatrici dell'impianto.

L'edificio è l'antecedente più vicino ai castelli medievali, ma anche ai monasteri fortificati, con il peristilio che funge da centro. Si ipotizza inoltre che la struttura ottagonale della cattedrale-mausoleo abbia costituito un modello per la tipologia del battistero.



LA PORTA ARGENTEA

La porta Argentea è collocata sul lato est, dove l'estendersi dell'abitato ha nel tempo creato una nuova piazza adibita a mercato.

Nei piani superiori vi erano le sale da pranzo e ambienti di cui ancora si ignora la funzione. Sul lato ovest c'è la Porta ferrea, sopra cui fu costruita un'altra piccola chiesa dedicata a San Teodoro, solo in seguito intitolata alla Madonna del Campanile (Gospa od Zvonika), il cui antico campanile preromanico è il più vecchio di tutta la costa dell'Adriatico orientale.

In questa ala, ai piani superiori, c'erano sale di ricevimento e private dell'imperatore.



LA PORTA BRONZEA

Il lato sud dà sul mare, che un tempo era molto più vicino di oggi e doveva bagnare direttamente la porta bronzea. Vi si potevano attraccare direttamente le barche.



LA PORTA AENEA

Al centro della facciata meridionale del palatium si trova la porta Mjedena (Porta Aenea), semplicemente il passaggio coperto tramite al quale si accedeva nella parte interna del palazzo.



LE TERME

In quest'area si trovavano le terme, dotate di una piscina circolare di acqua calda, il calidarium e di una sala di riscaldamento provvista di aria calda. 

Dalle descrizioni pervenute e dalle ricostruzioni archeologiche, si è capito che da questo lato al primo piano c'era un corridoio percorso da finestre, loggette, passaggi che permettevano di vedere direttamente il mare e le sue isole. Molto impressionante il Vestibulum, una sala d'ingresso circolare, la cui cupola è sprovvista di copertura. Doveva essere ricoperta da splendidi mosaici, in origine, e se questo era solo l'ingresso, ancor oggi attraente, figurarsi il resto.



I SOTTERRANEI

Imboccando le scale che sotto si aprono, si raggiungono i sotterranei, le 'cantine di Diocleziano', che erano ambienti di 'supporto' per gli appartamenti del piano superiore, che era l'abitazione dell'imperatore.

 Le 'cantine' perfettamente conservatesi, sono oggi di fondamentale interesse perchè ci informano su come dovessero essere i piani superiori, oggi distrutti o stravolti dalle ristrutturazioni. I sotterranei sono costituiti da un dedalo di camere divise da massicci pilastri e volte.
 


LA CATTEDRALE

La cattedrale di Spalato, che conserva l’originale pianta ottagonale a 24 colonne, è situata in quello che un tempo era il Mausoleo di Diocleziano, convertito a chiesa cristiana nel VII secolo. Nello stesso periodo, il corpo di Diocleziano venne rimosso e gettato chissà dove e al suo posto venne messo il santuario dedicato a San Doimo.

CATTEDRALE
Nella parte situata dietro la cattedrale, dirigendosi a nord-est è situato un mosaico pavimentale policromo, piuttosto trascurato, soggetto alle intemperie e i passanti vi gettano anche i rifiuti. E' anche poco distinguibile, perchè coperto di polvere.

E' situato in una porzione recintata ma che non abbiamo capito a cosa effettivamente appartenga. La cosa singolarissima è che se fosse dell'epoca di Diocleziano (e i mosaici policromi come questo a quell'epoca erano la norma) non si spiegherebbe la presenza delle croci, simbolo cristiano per eccellenza che lui avversava.

Se fosse paleocristiano (dopo la sua morte certamente, dunque IV sec. come minimo) o più tardo si accorderebbe con la presenza del nodo di Salomone, retaggio di una tradizione 'pagana' ma spesso impiegato nell'iconografia cristiana cattolica. Per ora è un mistero spiegare questo lacerto musivo, che doveva essere originariamente bellissimo e far parte chiaramente di un ambiente di una certa importanza.



IL BATTISTERO DI GIOVANNI BATTISTA

In uno stretto passaggioa ovest del Peristilio e in asse con la cattedrale, ci si infila per raggiungere il Tempio di Giove, l'unico dei tre templi che Diocleziano aveva fatto erigere nel palazzo ad esser pervenuto fino a noi: quelli circolari di Cibele e Venere, circondati da colonne e un deambulatorio, sono scomparsi, restando di essi solo brandelli di mura e di pavimento inseriti in alcune delle abitazioni.

L’edificio è a base quadrangolare e sorge su una base rialzata. Ai lati della scala, a sinistra, si trova una delle undici sfingi egiziane fatte portare da Diocleziano, priva della testa. Sul frontone in alto corre un bellissimo fregio scolpito con dieci soggetti legati alle divinità del mondo classico.

Due formelle col 'Green Man' o uomo fogliato o dei boschi, mentre quelle accanto mostrano un 'Ercole bambino' le cui gambe confluiscono in due serpenti con la testa coronata, non devono trarre in inganno, sono medievali.

L’interno della cella, piuttosto oscuro, ha un soffitto con volta a botte, a cassettoni con motivi di volti (o maschere) entro triplici riquadri decorati. Sappiamo che questo tempio pagano venne trasformato nel VII sec. in un battistero cristiano dedicato a san Giovanni Battista.

SOFFITTO DEL BATTISTERO
Sul coperchio del primo sarcofago si trova scolpita una vistosa croce, che ai lati presenta alcune lettere e una croce, al termine della quale c'è un foro (come di serratura). Elementi ben curati che fanno ritenere siano contestuali alla sepoltura in oggetto. Invece nella parte sinistra del coperchio del sarcofago, un chiarissimo esemplare di Triplice Cinta incisa, che ricorda l' alquerque trovata nella cripta.
Il triplice quadrato concentrico, o 'filetto', come l'arquerque, è un caratteristico passatempo romano che si trovava soprattutto nei fori dove si paticava la giustizia. I gradini delle basiliche e delle tribune ne avevano parecchi, visto che la gente si annoiava ad aspettare oppure ad ascoltare.
Molti amanti del mistero hanno tentato di ricavarvi significati profondi, in realtà sono materiali di riporto romani riutilizzati in svariatissimi modi.



SOLONA

Salona fu, sotto l'Impero romano, la capitale della regione della Dalmazia, posta a pochi chilometri dal palazzo di Diocleziano, dove nacque l'imperatore Diocelziano che quando si ritirò nel 305 si trasferì in un palazzo nei pressi di Salona.

Salona fu poi la sede dei magistri militum per Illyricum, Marcellino e Giulio Nepote; quest'ultimo vi ritornò dopo essere stato deposto dal soglio imperiale romano nel 476 e qui morì nel 480, forse per opera del vescovo di Salona, quel Glicerio, che era stato imperatore prima di Nepote ed era stato obbligato a prendere i voti. 

Nel 600 gli Slavi vi giunsero senza entrarvi. Nel 639 Salona fu distrutta da un attacco degli Avari: i superstiti si trasferirono a Spalatum, il villaggio fortificato, che era sorto attorno al palazzo di Diocleziano e che divenne poi la città di Spalato.



OGGI

Il palazzo di Spalatp oggi è quindi il centro storico della città di Spalato e numerose parti di esso sono state riusate nei secoli, permettendo la loro conservazione, seppure con le inevitabili manomissioni stratificate, fino ai giorni nostri.

Nel 1979 è stato iscritto dall'UNESCO nell'elenco di siti e monumenti del Patrimonio dell'umanità.


LE FESTE - II

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CERIMONIA SACRA

LUDI

Per i più antichi calendari romani che risalgono al tempo dei decemviri queste feste non sono incise a lettere maiuscole, ma in caratteri piccoli, quindi devono essere aggiunte fatte dopo il 449 ac.

Inoltre, nel 322 ac, i Ludi Romani sono menzionati come regolari feste annuali, quindi devono essere state stabilite tra queste date, e l'anno 367 ac, quando così tante modifiche sono state effettuate, e quando ci viene detto un giorno è stato aggiunto a questi giochi e  l'aediles curulis incaricato a sovrintenderle, sembra la data più ragionevole da supporre.

Eppure Livio e gli altri autori che identificano l'identità Ludi Magni coi Ludi Romani non sono del tutto in errore: per la disposizione dei due tipi di giochi che era simile.

Una prova incidentale di questo è che quando Gneo Pompeo Magno nel 70 ac, fece i ludi votivi essi durarono 15 giorni, come i ludi Romani, e troviamo somme simili, vale a dire. 200.000 assi, elargiti per entrambi Ludi Magni e Ludi Romani.

Gli attuali ludi Romani consistevano prima in una solenne processione, una cerimonia, poi una corsa di carri in cui ogni carro alla maniera omerica portava un autista e un guerriero, il quale al termine della gara saltava giù e correva a piedi.

Questa pratica era propria dei ludi Romani. Nella corsa, ogni guidatore aveva un secondo cavallo condotto per mano, come appare dai cavalieri romani che spesso utilizzavano nei primi tempi due cavalli in battaglia, come i Tarentini nella guerra greca. Questi auriga erano chiamati desultores.

Molto probabilmente, vi era in origine solo una gara di ogni genere, e solo due competidores in ogni concorso, dal momento che in tutti i periodi nelle gare dei carri gareggiavano tanti quanti erano le cosiddette fazioni, che origine erano solo due, la bianca e la rossa.

Questi pochi eventi autorizzarono alcune esibizioni minori, come pugili, ballerini, gare di equitazione giovanile (ludus Trojae). Ne conseguì che la corona vinta dal vincitore  (per lo stile greco questo era il premio della vittoria) doveva essere posta sulla sua bara del morto.

Inoltre, durante la festa il guerriero che aveva vinto in una guerra vera (al contrario di guerra immaginaria) portava il bottino che avevo vinto al nemico, e veniva incoronato con una corona.

Dopo l'introduzione del dramma nel 364, avvennero delle rappresentazioni nei Ludi Romani, e nel 214 ac sappiamo che dei ludi scenici occupavano quattro giorni della festa. Nel 161 ac la Phormio di Terence venne rappresentata in questi giochi.



LUDI SAECULARES

I Ludi saeculares, originariamente Ludi Terentini,  erano una celebrazione religiosa, nel quadro di sacrifici e spettacoli teatrali, tenuti a Roma per tre giorni e tre notti per segnare la fine di un saeculum e l'inizio del successivo.

Un saeculum, presumibilmente la più lunga durata possibile della vita umana, era considerato come 100 o 110 anni di lunghezza.

Secondo la mitologia romana, i Giochi secolari iniziarono quando un sabino di  Valesio pregò una cura per la malattia dei figli e in modo soprannaturale venne istruito a sacrificare nel Campo Marzio agli Dei Pater e Proserpina, divinità celtiche e greche dell'oltretomba.

Alcuni autori antichi tracciarono celebrazioni ufficiali dei Giochi nel lontano 509 ac, ma le uniche celebrazioni romane chiaramente attestate sotto la Repubblica ebbero luogo nel 249 e nel 140 a.c.

Essi fecero sacrifici agli Dei inferi per tre notti consecutive.

I giochi vennero fatti rivivere nel 17 a.c. dal primo imperatore di Roma Augusto, con sacrifici notturni sul Campo Marzio ora trasferiti alle Moire (i fati), le Ilythiae (dee del parto), e alla Terra Mater (la "madre terra").

I Giochi del 17 a.c. introdussero anche sacrifici diurni alle divinità romane sui colli Capitolino e Palatino. Ogni sacrificio veniva seguito da opere teatrali. Più tardi gli imperatori svolsero le celebrazioni nell'88 e nel 204 d.c., dopo intervalli di circa 110 anni.

Tuttavia vennero tenuti anche da Claudio nel 47 d.c. per celebrare il 800° anniversario della fondazione di Roma, che ha portato ad un secondo ciclo di giochi nel 148 e nel  248.

I Giochi sono stati abbandonati sotto i successivi imperatori cristiani per quell'avversione al divertimento e la propensione alla severità e all'espiazione caratteristica di tale religione.

Le celebrazioni dei Giochi sotto la Repubblica Romana sono scarsamente documentate.

Anche se alcuni antiquari romani li rintracciano nel lontano 509 ac., alcuni studiosi moderni ritengono che la prima celebrazione ben attestata abbia avuto luogo nel 249 ac., durante la II guerra punica.

Secondo Varrone, scrittore e studioso del I sec. ac., i Giochi sono stati introdotti dopo una serie di presagi portati a consultazione dei Libri Sibillini dai quindecimviri.

In conformità alle istruzioni contenute nei libri, i sacrifici vennero offerti a Taranto nel Campo Marzio per tre notti, alle divinità infere di Dis Pater e Proserpina.

Varrone conferma che fu fatto voto di ripetere i giochi ogni cento anni, e un'altra celebrazione ebbe effettivamente luogo nel 149 o 146 ac, all'epoca della III guerra punica. Tuttavia gli studiosi Beard, Nord e Price suggeriscono che i giochi del 249 e del 140 ac. si svolsero a causa delle pressioni della guerra, e che solo dopo il 140 ac. potevano considerarsi le regolari celebrazioni del centenario. Questa sequenza avrebbe portato ad una festa nel 49 ac, ma a quanto pare le guerre civili impedirono questo ad Augusto.

I giochi vennero fatti rivivere nel 17 ac da Augusto, I imperatore di Roma. La data venne giustificata da un oracolo sibillino che dettò per i Giochi una celebrazione ogni 110 anni e una nuova ricostruzione della storia dei Giochi la cui prima celebrazione repubblicana sarebbe avvenuta nel 456 ac.
Prima dei giochi, gli araldi fecero il giro della città invitando la gente a "uno spettacolo, che non avevano mai visto e che non avrebbero visto mai più".

Il quindecimviri sedettero sul Campidoglio e nel tempio di Apollo sul Palatino, e distribuirono gratuitamente ai cittadini torce di zolfo e di asfalto, per essere bruciato come mezzo di purificazione. (Questo potrebbe essere stato ricavato dai rituali purificatori del Parilia, per l'anniversario della fondazione di Roma.)

Fecero anche offerte di grano, orzo e fagioli. Il Senato decretò un'epigrafe incisa per i giochi a Taranto, che sopravvisse per informarci della loro procedura. I sacrifici notturni vennero fatti non alle divinità infere Dis Pater e Proserpina, ma alla Moire (destino), alle Ilythiae (dee del parto), e alla Terra Mater (la "Terra madre").

Queste erano divinità più benefiche, che tuttavia condividevano con Dis Pater e Proserpina le caratteristiche di essere greche e senza culto nello stato romano.

Questi i sacrifici notturni alle divinità greche sul Campo Marzio alternati con sacrifici diurni a divinità romane sui colli Capitolino e Palatino.





LUPERCALIA

Festa forse preromana e pastorale, celebrata il 15 febbraio per l'anniversario della fondazione del suo tempio, per allontanare gli spiriti malvagi e purificare la città, portando salute e fertilità.

I Lupercalia erano rivolti a Februa, un possibile rituale d'apertura e di purificazione nella stessa data, da cui prende nome il mese di febbraio.

Secondo alcuni la festività si svolgeva a metà febbraio perché questo era il mese più freddo in cui i lupi, affamati, si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi.

Lupercus in effetti era il Dio dei pastori. Però nel rito non c'è nulla che richiami nè i pastori, nè il gregge nè i lupi. Per giunta le pelli indossare dai sacerdoti sono di capra.

I Lupercalia si credevano avere un nesso con l'antica festa greca dell'Arcadian Lykaia (dal greco antico: lykos = lupus) e il culto di Lycaean Pan, equivalente greco di Faunus, istituito da Evandro.

Nella mitologia romana, Lupercus è un Dio identificato talvolta col Dio romano Faunus, equivalente del greco Pan.

Le origini della festa infatti, secondo Dionisio di Alicarnasso e Plutarco, erano stati istituiti da Evandro, che aveva recuperato un rito arcade.

Tale rito consisteva in una corsa a piedi degli abitanti del Palatino (allora chiamato Pallanzio, dalla città dell'Arcadia di Pallanteo), senza abiti e con le pudenda coperte dalle pelli degli animali sacrificati, tutto in onore di Pan Liceo ("dei lupi").

Secondo Plutarco erano riti di purificazione celebrati nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, Romolo e Remo sarebbero cresciuti allattati da una lupa.

Anche secondo Dionisio di Alicarnasso i Lupercalia ricordano l'allattamento di Romolo e Remo da parte di una lupa, però nel rito non c'è traccia di lupi nè di lupe.

L'apologeta cristiano Giustino scrive del " Dio Lycaean, che i Greci chiamano Pan e i Romani Lupercus " nudo salvo la cintura di pelle di capra, che si trovava nel Lupercale, evidentemente una statua. Lì, alle Idi di febbraio, una capra e un cane venivano sacrificati, e venivano bruciate dalle Vestali torte di farina salate.

Secondo la leggenda narrata da Ovidio, al tempo di Romolo vi sarebbe stato un lungo periodo di sterilità nelle donne. Donne e uomini si recarono perciò fino al bosco sacro di Giunone, ai piedi dell'Esquilino, e qui fecero la loro supplica.

Attraverso lo stormire delle fronde, la Dea rispose che le donne dovevano essere penetrate (inito, da Inuus, altro nome di Fauno) da un sacro caprone sgomentando le donne, ma un augure etrusco interpretò che sacrificando un capro e tagliando dalla sua pelle delle strisce colpì con queste la schiena delle donne e dopo dieci mesi lunari le donne partorirono.

La festa era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; soltanto intorno alle anche portavano una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale.


MATRONALIA

O Feriae Matronali, era una festa che celebrava la Dea del parto ("Juno che porta i bambini alla luce"). Una celebrazione della maternità (mater) e delle donne in generale.

Prima della riforma del calendario romano da Giulio Cesare, questo era il primo giorno del nuovo anno. Veniva condivisa anche con la prima giornata delle Feriae Marti.

La data della festa era associata alla dedica di un tempio a Giunone Lucina sull'Esquilino intorno al 268 ac., e forse anche in commemorazione della pace tra Romani e Sabini.

In quel giorno, le donne avrebbero partecipato ai rituali del tempio, anche se i dettagli non sono stati conservati, eccetto il fatto che portavano i capelli sciolti (quando il decoro romano li richiedeva raccolti sulla nuca), e non era permesso indossare cinture o nodi nel loro abbigliamento in qualsiasi luogo si trovassero.

A casa, le donne ricevevano regali dai loro mariti e dalle figlie, e i mariti romani dovevano offrire preghiere per le loro mogli. Le donne dovevano preparare i pasti per gli schiavi domestici (che non lavoravano in quel giorno), come si faceva nei Saturnalia.



MEDITRINALIA

Fu una festa piuttosto oscura celebrata l'11 ottobre in onore del nuovo anno, in cui si offrivano libagioni agli Dei per la prima volta nell'anno. La festa veniva così chiamata dal termine "medendo", poichè i romani poi iniziavano a bere il vino nuovo, che mischiavano con il vino vecchio e che serviva a migliorare il vino.

Varrone e Festo (uniche fonti, oltre ai calendari) ricordano che in tale occasione si beveva recitando i versi:

"vetus novum vinum bibo
veteri novo morbo medeor"

(bevo vino vecchio e nuovo
pongo rimedio ad un male vecchio e nuovo).

Il "nuovo" vino in ottobre è ancora mosto che viene preparato (ridotto per bollitura e aromatizzato) per essere utilizzato come bevanda dolce (come il moderno "vino cotto" marchigiano e abruzzese) o come rimedio ("medicamento") da mescolare a mosto debole al fine di migliorare la qualità del futuro vino.

Poche informazioni sulle Meditrinalia sopravvissero della primitiva religione romana, anche se la tradizione qualcosa tramandò.

Si sapeva che il culto era collegato a Giove e che era stata un'importante cerimonia agricola dell'antica Roma, ma oltre a questo, c'è solo speculazione.

Meditrina che era una Dea romana sembra essere stata una invenzione tardo romana per spiegare l'origine del Meditrinalia.

Secondo altri veiniva dal verbo mederi «medicare, curare»; ma per altri ancora Meditrina era Dea della guarigione.

Comunque già Varrone nel I sec. a.c. ne parla come di festa in disuso.
La prima idea di associare i Meditrinalia con una tale Dea fu nel II secolo del grammatico Sesto Pompeo Festo, sulla cui base le fonti moderne affermano essere stata la Dea romana della salute, la longevità e il vino, con significato etimologico di "guaritore "suggerito da alcuni.



MERCURALIA

Mercuralia è una celebrazione romana conosciuta anche come il "La festa di Mercurio", Dio dei mercanti e del commercio.

MERCURIO
Il 15 maggio i commercianti, usando rami di alloro, si cospargevano il capo il capo, le loro navi e le loro merci, e i luoghi dei loro affari con acqua prelevata dal pozzo di Porta Capena. 

Per altri si tratta di una fontana ma si sa che in zona c'era la Fonte di Mercurio, detta anche Aqua Mercurii Caperna, sacra anch'essa ai mercanti, con una statua del Dio e varie decorazioni purtroppo oggi ignorate.

Commercianti di terra e di mare offrivano preghiere a Mercurio, che nei miti era stato un ladro, un eloquente, un ribelle delle leggi, un astuto ingannatore. 

Sembra ci fosse anche l'usanza di accendere un falò e di danzarvi attorno gettando nel fuoco i rami di alloro usati per la benedizione dei commerci.

Probabilmente la corporazione dei mercanti trascorreva la serata del Idi di maggio e festa insieme.



NEPTUNALIA

Le Neptunalia erano una festa oscura e arcaica di due giorni in onore di Nettuno Dio delle acque, celebrato a Roma nel calore e la siccità dell'estate, probabilmente 23 luglio (Varrone, De Lingua Latina VI.19).

Era uno dei giorni comitiales, quando commissioni di Cittadini potevano votare in materia civile o penale.

Nel calendario antico questo giorno è contrassegnato come Nept. ludi et Feriae, o Nept. ludi, per cui Leonhard Schmitz concluse che la festa veniva celebrata con i giochi.

Rispetto alle cerimonie di questa festa non si sa nulla, tranne che le persone usavano costruire capanne di rami e fogliame (umbrae, Secondo Festo), in cui probabilmente banchettavano, bevevano e si divertivano. (Orazio Carmina, Tertulliano De Spectaculis)



OPICONSIVIA

Il 25 agosto, l'Opiconsivia (o Opeconsiva o Opalia) festa romana in onore di Ops, di solito conosciuta come Opis, o come Opus.

E anche questo nome venne dato al 19 dicembre, il giorno in cui si celebravano le Opalia in suo onore (qualche accenno anche il 10 agosto e il 9 dicembre).

La parola consivia in latino (o consiva) deriva da conserere ("seminare"), quindi Opiconsivia è "la semina di colture", in quanto Ops viene da "colture", nel senso di "ricchezze, beni", da cui il termine italiano opulento.

Ops era legata a Consus, il suo consorte, "il seminatore", che proteggeva il grano raccolto.

Le furono dedicati due santuari, uno sul Campidoglio e l'altro nel Foro.

Opis è ritenuta una Dea ctonia, colei che fa crescere la vegetazione.

Dal momento che la sua dimora era dentro la terra, fu invocata dai suoi adoratori, seduti a terra, con le mani che toccavano il suolo, come narra Macrobio (Saturnalia, I: 10).

Consus sembra essere un alternativo di Saturno in aspetto ctonio come consorte, poichè Ops è la Madre Terra, ovvero la Grande Madre degli Dei, e la Grande Dea.

Come tale, Ops è una manifestazione di Rhea, Cibele, Demetra, Magalesia, Bona Dea, Magna Mater e così via, che personifica la terra come datrice di tutte le ricchezze.

Nella mitologia romana, il suo consorte, il Dio Conso, era il protettore di cereali e silos sotterranei (silos), e come tale venne rappresentato da un seme di grano.

Ma si confuse a volte con il Dio Consigliere a causa della somiglianza linguistica, ma che è completamente distinto dall'altro.

La festa di Consus, Consualia, veniva celebrata due volte l'anno: una volta il 21 agosto, dopo il raccolto, e una volta il 15 dicembre, dopo la semina delle colture era finita.

Le Consualia vennero istituite da Romolo, e per commemorate il rapimento (e inseminazione) delle Sabine da parte dei Romani.

Consus è stato identificato con Neptunus equester, il nome alternativo e la controparte di Poseidone Hippios.
Poseidone (Nettuno) era stata associato al cavallo fin dai tempi arcaici.

La festa Opiconsivia era controllata dalle Vestali e i flamines di Quirino, uno dei primi Dei sabini, assimilato a Romolo divinizzato, poi incluso nella prima e più antica Triade Capitolina, insieme a Marte, allora Dio dell'agricoltura, e Giove.

La Gran sacerdotessa indossava un velo bianco, caratteristico delle Vestali. Una corsa di carri veniva eseguita nel Circo Massimo, mentre cavalli e muli, dalle teste coronate di fiori, partecipavano alla celebrazione.



PARENTALIA

Parentalia era una festa romana per l'onore e il culto degli antenati divinizzati. Il primo giorno del festival, alle Idi di febbraio (il 13), una Vergine Vestale eseguiva i riti di apertura al pubblico per il collettivo dei parenti romani presso la "tomba della vestale Tarpea".

Secondo Barba e altri, il resto del Parentalia era essenzialmente domestico e familiare.

Ovidio descrive offerte sacre di fiori, ghirlande di frumento, sale, pane imbevuto di vino e violette alle "ombre dei morti" (i Mani in Festus, divinità buone) presso le tombe della famiglia della necropoli extra-murale, a rafforzare gli obblighi reciproci protettivi dei legami tra i vivi e i morti.

Questo era un dovere legale del paterfamilias (capo della famiglia).

I Parentalia terminavano il 22 febbraio nei riti notturni di Feralia, quando il paterfamilias affrontava gli aspetti malvagi e distruttivi degli Dei Manes.

I Feralia erano un placamento e un esorcismo: Ovidio lo presuppone una cerimonia più rustica, primitiva e antica degli stessi Parentalia.

Sembra funzionasse come rituale di purificazione per Caristia, il giorno successivo, quando la famiglia teneva un banchetto informale per festeggiare l'amicizia tra di loro e il loro benevolo morto ancestrale (i Lari).

L'enfasi sul culto collettivo dei Mani e degli antichi parenti, comporta un  l'aldilà vago e privo di individuazione.

Più tardi il culto rivestì qualità personali, e nel culto imperiale, acquistarono un numen diventando un Dio.

Da Parentalia a Caristia tutti i templi erano chiusi, i matrimoni erano proibiti, e "magistrati si mostravano senza insegne" (quindi niente di uggiciale poteva essere fatto). W. Warde Fowler descrivono il Parentalia come "Praticamente un rinnovo annuale del rito della sepoltura".



PARILIA

Festa annuale agricola del 21 aprile, per purificare pecore e pastori.. Veniva eseguita in riconoscimento alla divinità romana Pales, antica Dea poi divenuta Dio di pastori e pecore. Mentre la festa sembra aver avuto origine prima della fondazione di Roma nel 753 ac.

La maggior parte dei riferimenti fanno distinzioni tra le forme rurali e urbane, che illustra la combinazione della cerimonia con altri aspetti della religione romana nel contesto urbano.

Le Parilia sono descritte nei Fasti di Ovidio, un poema elegiaco sul calendario religioso delle cerimonie di Roma antica.

La sequenza della festa rurale era condotta dal pastore stesso.

Dopo che l'ovile era stato decorato con rami verdi e una corona sul cancello, il resto della cerimonia si svolgeva in modo sequenziale.

Al primo segno di luce del giorno, il pastore avrebbe purificato le pecore: dallo spazzare la stalla a fare un falò di paglia, rami di ulivo, alloro, e zolfo.

Dai rumori prodotti dalle fiamme si interpretavano i presagi favorevoli o meno.

Il pastore saltava attraverso la fiamma, trascinandolo trascinando le sue pecore. Offerte di miglio, torte, e il latte venivano poi presentati prima a Pales, che segna il secondo tratto della cerimonia. Dopo queste offerte, il pastore avrebbe bagnato le mani di rugiada, con la faccia ad est, e ripeteva una preghiera quattro volte.

Tali preghiere chiedevano assistenza a Pales per liberare il pastore e il gregge dai mali. Portato acerca dai misfatti accidentali (ad esempio, violazione accidentale di luoghi sacri e attingere acqua da una sorgente sacra).

La parte terminale della festa rurale prevedeva l'uso della bevanda burranica, una combinazione di latte e sapa (vino cotto). Dopo il consumo di questa bevanda, il pastore sarebbe saltato attraverso il fuoco per tre volte, portando e fine alla cerimonia.

La forma urbana della Parilia, d'altra parte, è mescolata con altre pratiche religiose romane e realizzate da un sacerdote. Ovidio personalmente partecipò a questa forma e descrisse le sue esperienze nei Fasti.

Alla cerimonia dei centri rurali, la forma urbana aggiungeva due ingredienti provenienti da altre feste religiose: la Fordicidia e il Cavallo ottobre. Nelle Fordicidia si sacrificava una mucca incinta a Tellus per promuovere il bestiame e la fertilità campo. Il vitello nascituro veniva quindi rimosso dal grembo materno e bruciato.

Il cavallo di ottobre è il cavallo di destra della squadra che ha corsa delle bighe vinta da proprietari il 15 ottobre dell'anno precedente. Insieme, le ceneri del vitello non nato e il sangue dalla testa del cavallo di ottobre sono mescolati dalle Vestali e venivano aggiunti al falò di paglia.

Va ricordato che l'attribuzione del sangue di cavallo all'Equus di ottobre è stato chiamato in causa da G. Dumézil: infatti fonti antiche dicono solo del sangue di un cavallo mutilato e sangue di cavallo, non specíficatamente riferendosi all'Equus di ottobre.

Properzio chiama in realtà l'uso di sangue di cavallo una novità. Malthus lo giudica frutto di pura speculazione, e improbabile per ragioni pratiche.



QUINQUATRIA

Quinquatria o Quinquatrus era una festa sacra a Minerva, celebrata il 19 marzo.

Era chiamata così secondo Varrone, perchè si teneva il quinto giorno dopo le Idi, nello stesso modo in cui i Tusculani chiamano una festa nel sesto giorno dopo le Idi Sexatrus o uno sulle settimo Septimatrus.

SACERDOTESSA MATRONA
Anche Festus afferma che i Falisci chiamavano una festa il decimo giorno dopo le Decimatrus Ides. Sia Varrone e Festo dicono che i Quinquatrus duravano un solo giorno, ma Ovidio dice invece che venissero celebrate per cinque giorni, ed erano per questo motivo chiamato con tal nome: che il primo giorno non si versava alcun sangue, ma che gli ultimi quattro c'erano gare di gladiatori.

Sembrerebbe che però è stato solo il primo giorno della festa propriamente detta, e che gli ultimi quattro erano forse un'aggiunta fatta nel tempo di Cesare per gratificare le persone, molto appassionate ai combattimenti di gladiatori.

Gli antichi calendari assegnavano infatti un solo giorno per la festa. Ovidio dice che questa festa è stata celebrata in commemorazione del compleanno di Minerva.

In base a Festo era sacra a Minerva perché il suo tempio sull'Aventino fu consacrato in quel giorno.

Il quinto giorno del festival, secondo Ovidio, le trombe utilizzate in riti sacri venivano purificate, ma questo sembra essere stato in origine una festa separata chiamata Tubilustrium, che veniva celebrata come sappiamo dagli antichi calendari il 23 marzo e sarebbe quando i Quinquatrus, esteso a cinque giorni, cadeva l'ultimo giorno della festa.

Essendo la festa sacro a Minerva, sembra che le donne erano abituate a consultare cartomanti e indovini in questo giorno. Lo causò Domiziano celebrando ogni anno nella sua villa Albani ai piedi dei colli Albani, e istituì un collegio di sovrintendere alla celebrazione, che consisteva di spettacoli di belve, la mostra di opere teatrali e di gare di oratori e poeti.

Alle Quinquatria nel 59, Nerone invitò la madre, Agrippina Minore, nella sua villa nei pressi di Baia, nel tentativo di assassinarla. Il suo vecchio precettore, Aniceto, che avevo sollevato da capitano della flotta di Miseno, si era impegnato a costruire una nave che potesse affondare senza dar sospetto.

Agrippina sbarcò a Bauli, tra Baia e Capo Miseno, e completò il suo viaggio in lettiga. Dopo il banchetto, quando era scesa la notte, venne indotta a tornare a Bauli nel vascello che era stato preparato per la sua distruzione. Ma il meccanismo non ha funzionò come previsto, e Agrippina riuscì a nuoto a raggiungere la riva, da cui tornò al suo villaggio sul lago Lucrino. Nerone però riuscì nel suo obiettivo, con un ulteriore aiuto di Aniceto.

Inoltre vi era un'altra festa di questo nome chiamata Quinquatrus Minusculae o Minores, celebrata alle Idi di giugno, in cui i tibicines traversavano la città in processione fino al tempio di Minerva.



QUIRINALIA

Quirino era in origine un Dio sabino della guerra. I Sabini avevano un insediamento non lontano da Roma, ed eressero un altare, al Quirino sul Colle Quirinale, uno dei sette colli di Roma.

Quando i Romani vi si stabilirono, assorbirono il culto di Quirino insieme alle credenze precedenti per influenza greca, e per la fine del I sec. ac.

Quirino era considerato Romolo divinizzato.
Questi divenne un importante Dio dello stato romano, essendo incluso nella prima Triade Capitolina, insieme a Marte (dio dell'agricoltura) e Giove.

Varrone osserva un culto iniziale di un Capitolium Vetus sul Quirinale, dedicato a Giove, Giunone e Minerva, tra i quali Marziale fa una distinzione tra il "vecchio Jupiter" e il "nuovo".

In tempi più recenti, però io, Quirino diventò meno importante, fino a perdere il suo posto nella triade capitolina.

Più tardi ancora, Romani cominciarono ad allontanarsi da questi culti di stato in nome di culti mistici più personali e mistici (Bacco, Cibele e Iside).

Alla fine, venne adorato solo dai suoi flamen, i Flamen Quirinales, tra cui rimase, però, uno dei patrizi flamines maiores, i "maggiori flamini" che ha preceduto il Pontifex Maximus.

Nell'arte romana, il Dio veniva raffigurato come un uomo barbuto con abiti religiosi e militari. Tuttavia, pochissimo fu rappresentato in seguito, e spesso associato con il mirto. La sua festa è stato il Quirinalia, tenutasi il 17 febbraio.



ROBIGALIA

Robiga (= verde o vita), insieme a suo fratello, Robigus, erano le divinità della fertilità dei Romani.

Sicuramente trattavasi di antiche divinità italiche preromane il cui culto rimase anche se in forma molto minore.

La sua festa è il Robigalia ed è il 25 aprile.

Le litanie maggiori ("Litania Maggiore", o "Romana) o maggiori Rogazioni, vennero introdotte in sostituzione cristiana delle Robigalia.

Robigus era il Dio della muffa rossa, o ruggine.

Un esempio di magia simpatica, le Robigalia venivano celebrate ogni anno il 25 aprile, in cui un cucciolo da latte (lacteus Catulo) veniva sacrificato vicino alla Porta Catularia per placare Sirio, la Stella del Cane in modo che la maturazione grano avvenisse senza essere attaccato dalla muffa.

La festa è menzionata da Columella.



SATURNALIA

Saturnalia era un'antica festa romana tenuta in onore del Dio Saturno diventando una delle feste più popolari. Era caratterizzata da buffonate e dall'inversione dei ruoli sociali, in cui schiavi e padroni si scambiavano le parti, con risultati divertenti.

I Saturnalia vennero introdotte intorno 217 ac per sollevare il morale dei cittadini, dopo una sconfitta militare schiacciante per mano dei Cartaginesi. Originariamente Celebrato per un giorno, il 17 dicembre, vide crescere la sua popolarità fino a diventare una settimana di spettacolo, che terminava il 23. Gli sforzi per abbreviare la celebrazione non ebbero successo.

Augusto cercò di ridurre a tre giorni, e Caligola a cinque. Questi tentativi causarono strepito e rivolte massicce tra i cittadini romani. I Saturnalia coinvolgevano i sacrifici tradizionali, un letto sacro (lectisternium) posto di fronte al tempio di Saturno e lo scioglimento delle funi che legavano la statua di Saturno durante tutto il resto dell'anno.

Veniva eletto un Principe dei Saturnalia come maestro di cerimonie per il procedimento. Oltre al rito pubblico c'erano una serie di feste celebrate privatamente.

Le celebrazioni hanno includevano la vacanza scolastica, la realizzazione e la donazione di piccoli regali (Saturnalia et sigillaricia) e un mercato speciale (Sigillaria).

Il gioco d'azzardo veniva permesso per tutti, anche agli schiavi, comunque, anche se ufficialmente condonato solo in questo periodo, avveniva pure durante il resto dell'anno.

Era un momento per mangiare, bere e divertirsi. Non veniva indossata la toga, ma vesti colorate da colorate, e il pileo (il cappello dei liberti) indossato da tutti. Gli schiavi erano esenti da punizioni e trattavano i loro padroni con poco rispetto. per giunta facevano un banchetto serviti dai loro padroni.

Il sovvertimento sociale comunque non era eccessivo, spesso infatti erano gli schiavi a preparare il banchetto, anche se servito dai padroni. E' anche logico che non si esagerasse poichè successivamente i padroni potevano vendicarsi.

Orazio nella sua satira utilizza un'impostazione dei Saturnali per un franco scambio tra uno schiavo e il suo padrone in cui la schiava critica il suo padrone per essere egli stesso asservito alle sue passioni.
"Epigrammi marziali" è una serie di poesie ciascuno basato su saturnalia, probabili regali, alcuni costosi, alcuni molto economici.
Per esempio: tavolette di scrittura, astragali, salvadanai, pettini, stuzzicadenti, un cappello, un coltello da caccia, una scure, diverse luci, palline, profumi, tubi, un maiale, una salsiccia, un pappagallo, tavoli, bicchieri, cucchiai , articoli di abbigliamento, statue, maschere, libri e animali domestici.

Plinio nelle Epistole (II sec dc) descrive una suite appartata di camere del suo villaggio Laurentina che usa come un rifugio: " Soprattutto durante i Saturnali quando il resto della casa è rumoroso con la licenza della vacanza e grida festose. In questo modo non ostacolo i giochi del mio popolo e non ostacolo il mio lavoro o studio ".

Macrobio nei Saturnali ha scritto:
"Intanto il capo dello schiavo domestico, la cui responsabilità era di offrire sacrifici per i Penati, di gestire le disposizioni e per indirizzare le attività dei collaboratori domestici, è venuto a raccontare al suo padrone che la famiglia aveva banchettato secondo l'usanza rituale annuale. Perchè in questa festa, in case che mantengono il corretto uso religioso, devono prima di tutto rispettare gli schiavi con una cena preparata come fosse per il padrone, e solo in seguito la tabella è di nuovo per il capo della famiglia.

Il consueto saluto per l'occasione è un "Io, Saturnalia!" - Io (pronunciato "eo") essendo una interiezione latina ("Ho, lode a Saturno").
Seneca il Giovane scrisse di Roma Durante Saturnalia circa 50 ac:
"Ora è il mese di dicembre, quando la maggior parte della città è in frenesia. Redini allentate per la dissipazione pubblica; ovunque puoi sentire il suono di grandi preparativi, come ci fosse una differenza reale tra le giornate dedicate a Saturno e quelli per le transazioni economiche ... Fossi stato qui, avrei volentieri conferito con te per quanto riguarda il piano della nostra condotta; se dobbiamo comportarci nel nostro solito modo, o, per singolarità, prendere una cena migliore e buttare via la toga".

Il poeta Catullo descrive i Saturnalia come i giorni migliori. Era tempo di celebrazioni, di visite agli amici, di regali, di candele, di figurione di terracotta (sigillaria). Per comprendere il significato della festa, è importante realizzare che lo stato degli schiavi nell'antico Impero era molto diverso da quello accordato agli schiavi d'Europa e del resto del mondo.

Gli schiavi domestici non avevano diritti legali per sé, ma avevano personali distinzioni accordate dal padrone che non furono concesse in seguito. Gli schiavi erano considerati membri essenziali di ogni famiglia e di una ricca donna romana (per esempio) che trascorreva molte ore a settimana intimamente interessata al loro benessere e alle loro difficoltà.



SEMENTIVAE

Le Sementivae, note anche come Sementivae Feriae o Dies Sementina (nel paese chiamato Paganalia), era una festa romana di semina.

Era un tipo di Feriae conceptivae [o conceptae].

Questi giorni liberi si svolgevano ogni anno, ma non su giorni fissi, bensì ogni anno venivano fissati dai magistrati o sacerdoti (quotannis a magistratibus concipiuntur sacerdotibus) in onore di Cerere (Dea dell'agricoltura) e Tellus (Madre Terra).


Paganalia

"Quando il seme è stato posto nella terra è produttivo. E i buoi, coronati di ghirlande,stanno in piedi davanti al truogolo pieno, Il tuo lavoro tornerà con il calore della primavera.

Lasciate che l'agricoltore appenda il faticoso aratro al suo posto: la terra invernale cura ogni sua ferita. Pastore, lascia il resto del terreno, quando è finita la semina, e lascia che gli uomini che hanno lavorato la terra riposino.
Lasciate che il paese riceva festeggiamenti: gli agricoltori, per purificare il villaggio, offrono i dolci annuali sui focolari del villaggio.

Propiziate Tellus e Cerere, le madri delle colture, con i propri semi, e le interiora di una scrofa incinta."
TELLUS
 P. Ovidius Naso, Fasti, 1662-674

La metà iniziale della manifestazione era una festa in onore di Tellus che si svolgeva dal 24 gennaio al 26 gennaio.
La festa in onore Ceres si verificava una settimana più tardi, a partire dal 2 febbraio.

Le Sementina si tenevano a Roma ai tempi della semina con lo scopo di pregare per un buon raccolto, duravano solo per un giorno,  fissato dai pontefici. Allo stesso tempo, i Paganalia venivano osservati nei paesi.



ROSALIA

Il 10 e il 31 maggio, le legioni romane a Duro Europa celebravano le Rosalia. Queste collegavano un rito di primavera con un rito di morte (come del resto fa il cristianesimo). 

STENDARDI
Solo per questa volta i rituali erano svolti da unità militari per i compagni caduti e dopo per i mebri della propria famiglia. 
Apprendiamo per la prima volta questa celebrazione da un calendario militare della Syria. 

Non sappiamo se le Rosalia venivano celebrate alle medesime date dalle altre legioni dell'Impero Romano, ma sappiamo da altre fonti che le Rosalia erano comuni per l'esercito romano.

Poichè i calendari militari differivano sa quelli romani, è possibile avessero date fisse per tutte le legioni.

Benchè ogni legione avesse le sue feste, comunque il mese di maggio era legato alla morte, con i Lemuria, per cui ragionevolmente tutte le legioni onoravano le Rosalia in questo stesso mese.

Al centro di ogni accampamento romano vi era un piccolo tempio, il saculum. Qui si tenevano gli stendardi militari; le aquile della legione e gli stendardi e i vessilli per manipoli e coorti. Di fronte al sacullum stava un altare. 
Nei Rosalia gli stendardi venivano posti intorno all'altare. Venivano adornati di corone di rose con preghiere o ringraziamenti. Purtroppo non conosciamo i dettagli del rituale. Per coronare la festa si facevano Ludi (giochi di gara) tra i legionari.



SEPTIMONTIUM

Il Septimontium ( o Sptimonzium) era la festa romana dei sette colli di Roma. Veniva celebrata a settembre (o, secondo i calendari in ritardo, l'11 dicembre), in genere poi venne celebrato dal 10 al 12 dicembre in memoria della inclusione dei sette colli nella cinta muraria.

Venivano sacrificati sette animali per sette volte in sette luoghi diversi all'interno delle mura della città, vicino i sette colli. I giochi includevano le corse dei cavalli e dei carri.

In quel giorno gli imperatori erano molto liberali col popolo.

Durante il Septimontium nel periodo repubblicano, i Romani evitavano di usare carrozze trainate da cavalli. Erano ammesse solo nei giochi.



TUBILUSTRIUM

Nella Roma antica il mese di marzo era il tradizionale inizio della stagione di campagne militari, e il Tubilustrium era una cerimonia per preparare l'esercito alla guerra. La cerimonia coinvolgeva le tubae, trombe sacre.

J. Quasten, però sostiene che il termine comune per le trombe di guerra, tubae, non è la stessa forma di tubi. Egli afferma che tubi venne utilizzato solo per le trombe dei sacrifici e questa cerimonia era una festa per pulire e purificare le trombe utilizzati nei sacrifici, un buon esempio,  sostiene, del legame speciale tra la musica e il culto nel rito romano.

La festa si teneva il 23 marzo, l'ultimo giorno della festa Quinquatria tenuto in omaggio al dio romano Marte e Nerine, Dea Sabina. L'evento aveva luogo una seconda volta il 23 maggio. La cerimonia si svolgeva a Roma, in un edificio chiamato la Sala dei Calzolai (atrio sutorium) e prevedeva il sacrificio di un agnello. I Romani che non partecipavano alla cerimonia si sarebbero ricordati della cosa vedendo il ballo dei Salii per le vie della città.



VENERALIA

I Veneralia (1 aprile) erano l'antica festa romana di Venere Verticordia ("Che cambia i cuori"), la Dea dell'amore e della bellezza. Il culto della dea Fortuna Virile era anche parte di questa festa. A Roma, le donne, rimossi i gioielli dalla statua della Dea, la lavavano, e poi la ornavano con fiori, e similmente a loro veniva bagnata nei bagni pubblici indossando corone di mirto sulle loro teste. Era generalmente un giorno per le donne dedicato a cercare aiuto divino nei loro rapporti con gli uomini.



VINALIA

I Vinalia erano feste romane in onore di Giove e Venere. La prima si teneva il 19 agosto, e la seconda il I di maggio.

I Vinalia del 19 agosto, in cui venivano dedicati a Venere i giardini e i giardinieri, probabilmente una corporazione, si prendevano una vacanza, sono stati chiamati Vinalia Rustica, e vennero istituiti in occasione della guerra dei Latini contro Mezentius, nel corso della cui guerra il popolo promise di libare a Giove tutto il vino della vendemmia successiva.

Lo stesso giorno, però, cadde la dedica del Tempio di Venere Obsequens, fondato da Q. Fabius Gurges nel 295 ac, il più antico tempio databile a Venere.
Le Vinalia urbana (o priora), e le Vinalia rustica (o altera) erano feste separate: le Vinalia urbane venivano celebrate il 23 aprile mentre lr Vinalia rustica venivano celebrate celebrate il 19 agosto.

Entrambe le celebrazioni avevano un rituale dedicato alla raccolta e per la buona natura dei semi. Per i Romani, i festeggiamenti Vinalia erano una delle tradizioni romani più importanti.

Giove veniva adorato alle Idi di ogni mese, e così le Vinalia. Anche se i festeggiamenti erano in origine finalizzati ad adorare Giove, nel tardo impero romano il festival incorporò Venere, come Dea del giardino e del vino. Ovidio fa un riferimento alla Dea del giardino e del vino (Venere) e alle Vinalia urbane.


Vinalia urbana
I Vinalia urbane venivano celebrate in onore delle vendemmia dell'anno precedente, fornendo così un'opportunità per banchettare e bere. Nei primi giorni della festa, i Romani offrivano una libagione a Giove, tuttavia, Venere venne ad essere associata con il Vinalia.

Il 23 aprile c'era il versamento rituale del vino in un tempio di Venere. Questo vino veniva però dedicato a Giove.


Vinalia Rustica
Il Vinalia rustica venivano celebrate il 19 agosto da tutti gli abitanti del Lazio, la regione del centro Italia dove si trova Roma. Questa festa era simile ai Vinalia urbana, perchè originariamente sacro a Giove e più tardi condotto presso i templi di Venere in suo onore.

In questa occasione, il sacerdote di Giove, Flamen Dialis, offriva agnelli preferito a Giove sull'altare, mentre schiacciava grappoli d'uva tra le sue mani. A causa del bere intenso e della possibile perdita di controllo, le donne delle classi superiori venivano controllate durante questa festa e si davano loro vini con più basso tenore di alcool.



VOLTURNALIA

Volturnalia era la festa romana del 27 agosto dedicata a Volturno, Dio delle acque e delle fontane. Il Fiume Volturno era un Dio tribale che fu più tardi identificato come Dio del fiume Tevere. Il fiume Volturno, nel sud Italia, è così chiamato per la divinità. Volturno è stato il padre della Dea Giuturna, che è stata identificata con un centro nel Lazio vicino al fiume Numicus e poi con una piscina vicino al Tempio di Vesta nel Foro di Roma. Entrambi venivano onorati in questa giornata con feste, bere vino, e giochi.



VOLCANALIA

Le Volcanalia erano parte del ciclo delle quattro feste della II metà di agosto (Consualia il 21 agosto, Volcanalia il 23, il 25 e Opiconsivia Volturnalia su 27) relative alle attività agricole di quel mese e in rapporto simmetrico con quelli di la seconda metà di luglio (Lucaria il 19 luglio e il 21, il 23 e Furrinalia Neptunalia il 25).

Mentre le feste di luglio riguardavano la natura selvaggia (bosco) e acque (superficiali e acque sotterranee il Neptunalia le Furrinalia) in un momento di pericolo causato dalla loro penuria, le feste di agosto erano dedicate al raccolto (Consualia) e all'abbondanza (Opiconsivia), minacciati da due elementi: il fuoco (Volcanalia) e le piene (Volturnalia).

I Volcanalia erano una festa annuale che cadeva il 23 agosto in onore di Vulcano, quando in estate i granai e le riserve di grano rischiavano di bruciare. Varrone citando gli Annalex Maximi, rievoca il re sabino Tito Tazio che dedicò altari a varie divinità tra cui Vulcano

Il più antico santuario di Roma, chiamato vulcanale, risaliva ai tempi della monarchia e si trovava fuori le mura, poi ebbe un tempio nel Campo Marzio dal 214 ac.

Durante la festa si facevano dei falò in onore del Dio, in cui il pesce vivo o piccoli animali venivano gettati in sacrificio.

Si ricorda che durante i Vulcanalia i romani usavano appendere vestiti e manufatti al sole. Inoltre si doveva iniziare a lavorare alla luce di una candela, probabilmente per propiziare un uso benefico di fuoco dal Dio. Anche la seconda delle due cerimonie annuali dei Tubilustria, o purificazione delle trombe, era sacro a Vulcano.

Il Ludi Volcanalici, si tennero una sola volta il 23 agosto del 20 ac, entro il recinto del tempio di Vulcano, e venne usato da Augusto per celebrare il trattato con la Partia e per il ritorno degli stendardi legionari che erano stati persi durante la battaglia di Carre nel 53 ac.

Al culto del Dio era preposto un Flamen, uno dei flamines minores, chiamato Flamen Volcanalis, il quale officiava pure un sacrificio alla Dea Maia, da eseguirsi ogni anno alle calende di maggio.

Vulcano è stato tra gli Dei placati dopo il grande incendio di Roma nel 64 dc. In risposta al medesimo incendio, Domiziano (imperatore 81-96) stabilì un nuovo santuario di Vulcano sul Quirinale. Allo stesso tempo, un vitello e un cinghiale rosso vennero aggiunti ai sacrifici fatti sui Vulcanalia, almeno in quella zona della città

Il sacrificio in questa occasione era costituito da pesci che gettò il popolo nel fuoco (Varrone, Ling. Lat. VI.20). Inoltre era consuetudine in questo giorno di iniziare a lavorare a lume di candela, probabilmente considerato come un inizio di buon auspicio  per l'uso del fuoco, come il giorno era sacro al Dio di questo elemento (Plin. Epist. III.5). E 'stato il giorno di questa festa che il console Q. Fulvio Nobiliore ricevè una severa sconfitta dal Celtiberi, nel 153 a.c.. A conseguenza di ciò divenne un altro giorno di festa per placare il Dio. (Appia, Hisp. 45).

GENS ABURIA

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La gens Aburia era una gens plebea romana sorta verso la fine della Repubblica e il I sec. dc. Il primo membro illustre di questa gens fu Marco Aburio, praetor peregrinus nel 176 ac..

Gli Aburii sono noti per aver usato i praenomina Marcus, Gaius, e Decimus. I primi Aburii si trovarono senza un cognomen, come accadde a molte delle gens romane. Le monete emesse da questa gens portano l'abbreviazione Gem., che probabilmente sta per Geminus. Nel I secolo dc., fu utilizzato il cognomen Bassus.

Forse l nome si trasformò poi da Aburio ad Arborio, tanto è vero che da Decimus Aburius Bassus, ebbe origine un nipote chiamato Aemilius Magnus Arborius.



MEMBRI FAMOSI

MARCO ABURIO (Marcus Aburius): 
 (si ignorano le date di nascita e di morte) fratello di Gaio Aburio, vissuto nel II sec. ac., fu tribuno della plebe nel 187 ac. e praetor peregrinus nel 176 ac. (Liv. xli. 18. 19.). Il pretore pellegrino. figura istituita nel 242 ac., aveva giurisdizione nelle controversie tra cittadini romani e stranieri, o tra stranieri, soprattuto per la sempre maggiore presenza romana nel Mediterraneo, specie dopo la disfatta di Cartagine.
Fu padre di due magistrati monetari: Caius Aburius Geminus e Marco Aburius Geminus.
Aburio si oppose a Marcus Fulvius il proconsole nella sua richiesta di celebrare un trionfo,ma ritirò la sua opposizione per l'influenza del suo collega Tiberius Gracchus. (Liv. xxxix. 4. 5.)


ABURIO GEMINUS
GAIO ABURIO (Gaius Aburius): 
 (si ignorano le date di nascita e di morte) vissuto nel II sec. ac., fratello di Marco Aburio, tribuno della plebe nel 185 ac fu uno degli ambasciatori inviati da Scipione l'Africano a Massinissa e a Cartagine, era l'uomo di coraggio e di alta diplomazia di cui Scipione si fidava più di qualunque altro. Gaio andò inoltre a Cartagine in cerca di uomini e di elefanti da assoldare per portare guerra alla Macedonia.


GAIO ABURIO GEMINUS (Gaius Aburius): 
 (si ignorano le date di nascita e di morte) vissuto nel II secolo ac., fu magistrato monetario nel 134 ac.; figlio di Marco Aburio.


MARCO ABURIO GEMINUS (Marcus Aburius M. f. Geminus): 
 (si ignorano le date di nascita e di morte) vissuto nel II secolo ac., fu magistrato monetario nel 132 ac.; figlio di Marco Aburio.


DECIMO ABURIO BASSO (Decimus Aburius Bassus):  
(si ignorano le date di nascita e di morte) vissuto nel I secolo dc, senatore, nominato console suffetto (consul suffectus) nel settembre e ottobre dell'85 dc.


EMILIO MAGNO ARBORIO (Aemilius Magnus Arborius)
ebbe come nonno Decimus Aburius Bassus, e come padre  Cecilius Argicius (Arborius).


QUARTIERE IMPERIALE SCOPERTO A ROMA

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VIA DEL TRITONE, DAL CANTIERE SPUNTA UN QUARTIERE IMPERIALE

Durante i lavori per realizzare un nuovo grande magazzino riaffiorano una domus, terme e strade.

Nel cantiere dove sorgerà il futuro palazzo de La Rinascente, stanno riaffiorando straordinari reperti antichi: non solo le strutture originali dell’Acquedotto Vergine, ma anche un intero quartiere della Roma imperiale.

È qui che è stata scoperchiata una sequenza di «insulae» (i condomini, su più piani, dell’antica Roma) separate da tratti di strada. Ancora, una «domus» riccamente decorata e un vasto impianto termale. A caratterizzarli, splendidi pavimenti in «opus sectile», decorati cioè con intarsi di marmi dei più variegati colori, che orchestrano disegni geometrici, accanto a mosaici di tessere bianche e nere che compongono fasce dai motivi vegetali.



LE INDAGINI

L’intera area di cantiere, dove sorgerà il futuro palazzo de La Rinascente, si estende per circa 4000 metri quadrati, tra via del Tritone e via Due Macelli. Ed è in questo sito che nel 2011 sono partite le indagini archeologiche della Soprintendenza, prima sotto la guida dell’archeologo Roberto Egidi, poi ereditate dalla Filippi. Il primo gioiello ad essere riportato alla luce è stato l’Acquedotto Vergine, l’unico ancora funzionante dopo duemila anni, anche «solo» per alimentare le grandi fontane del centro, prima fra tutte la Fontana di Trevi.



LA VALORIZZAZIONE

E' allo studio il progetto di valorizzazione dell'«Aqua Virgo» all'interno dell'edificio, che sarà restaurato e reso visibile al pubblico. «Il bellissimo prospetto delle arcate in blocchi quadrati di tufo col marcapiano in travertino sarà musealizzato nel piano interrato del nuovo edificio», racconta Roberto Egidi. Quello della Rinascente sarà un nuovo affaccio sull’Acquedotto Vergine.

Ma non finisce qui. «L'area finora indagata ha restituito numerosi ambienti in opera laterizia di epoca imperiale, adibiti probabilmente in un primo momento ad ”insulae” abitative divise da due tracciati stradali». E gli antichi basoli riaffiorati evocano il sistema degli assi stradali. «All'interno di parte di questi ambienti si impianta una ricca domus decorata da pavimentazioni marmoree e mosaici». E le decorazioni davvero catturano l’attenzione degli studiosi, per via dell’elaborata scacchiera di marmi policromi che compongono variegate forme geometriche.

 «Un'altra area è occupata da un impianto termale, tuttora in corso di scavo», aggiunge la Filippi «ci vorrà ancora qualche mese per verificare la consistenza archeologica nel sottosuolo e completare le indagini». Un tesoro che potrebbe far slittare di qualche mese i tempi presunti di conclusione dei lavori del palazzo che, come indica il cartello del cantiere, sono previsti per il 21 dicembre del 2014. Comunque, da prassi nelle procedure di archeologia urbana «i risultati saranno valutati in relazione al progetto».

CESONE QUINZIO

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OFFERTA DELLA DITTATURA A CINCINNATO

La storia di Cincinnato non finì con Cincinnato, perchè costui aveva un figlio Cesone Quinzio. Il padre, alto componente della Curia nonchè esponente della gens Quinctia, gens così potente da aver avuto anche consoli, era finito in così gravi ristrettezze economiche da essersi trasferito oltre il Tevere ad arare personalmente la terra per vivere. Ma la sorte cambiò e venne eletto Dittatore.



LEX TERENTILIA

Nell 462 a.c. Roma, dopo una serie di vittoriose battaglie con i vicini, entrò in un periodo di pace e qui tornarono i vecchi contrasti politici fra i diritti dei patrizi e quelli dei plebei. La guerra aveva sospeso i contrasti ma queste leggi a favore dei meno abbienti non erano ancora state codificate nelle Leggi delle XII tavole.

Il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa presentò la sua legge, la Lex Terentilia per molti anni dibattuta e mai approvata, che proponeva un comitato di cinque cittadini per stendere le norme che vincolavano il potere dei consoli, che disponevano di poteri illimitati.

Mentre il pretore Quinto Fabio con discorsi cavillosi era riuscito a fermare la discussione, si ebbe il ritorno del console Lucio Lucrezio Tricipitino, che con Tito Veturio Gemino Cicurino che aveva sconfitto in battaglia i Volsci e gli Equi.

Lucrezio riportò a Roma un abbondante bottino e la plebe gli attribuì il trionfo, a Veturio solo l'ovazione, non si sa perchè. La cosa finì lì ma l'anno successivo, il 461 a.c., i consoli Publio Volumnio Amintino Gallo e Servio Sulpicio Camerino Cornuto e tutti i tribuni ripresentarono la Lex Terentilia.

Ma si riporta Volsci ed Equi facendo base ad Anzio avessero ripreso le armi. I consoli indissero la consueta leva militare e, di conseguenza, fu sospesa la discussione legislativa. I tribuni della plebe accusarono i patrizi di boicottare ancora la legge, ritenendo che i nemici erano appena stati sconfitti e che quindi non c'era pericolo, opponendosi alla leva.



CAESO QUINCTUS

 Tito Livio, lo storico padovano del I secolo così ce lo presenta:
 « Vi era un giovane, Cesone Quinzio, fiero della sua nobile discendenza e della sua corporatura imponente e robusta. A questi doni divini egli aveva saputo aggiungere molti meriti militari e un'arte oratoria che lo rendeva capace di parlare nel Foro: nessuno era considerato, in tutta la città, più pronto di lingua e di mano. 

LEX TERENTILIA
Quando si piazzava in mezzo al gruppo dei patrizi egli torreggiava tra gli altri quasi che nelle sue parole e nella sua forza, fossero radunati tutti i consolati e tutte le dittature; lui, da solo, sosteneva tutti gli attacchi dei tribuni e del popolo. 
Più volte, quando egli ebbe in mano la situazione, i tribuni furono cacciati dal Foro, più volte la plebe (il popolo) fu dispersa e messa in fuga. Chi osava tenergli testa se ne andava malconcio e privo di ogni difesa ed era evidente che, se gli fosse stato permesso di agire in quel modo, per la legge non c'era speranza. » (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 11., Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

Quando i tribuni della plebe vennero ridotti al silenzio, Caeso non desistè e continuò il suo attacco.
Non sappiamo se a torto o a ragione ma Aulo Virginio mise Cesone sotto processo per capitis; omicidio.

Però non lo imprigionarono, certi che da libero avrebbe di certo peggiorato la sua posizione.

Per provocarlo Virginio ogni tanto ripresentava la stessa legge, e Cesone Quinzio sembrava aver dichiarato guerra a tutta la plebe.
Virginio sobillò così i plebei, provocando scontri e violenze.

Così riporta i suoi discorsi Livio:

« Quiriti, non vi rendete conto che è impossibile avere contemporaneamente Cesone come concittadino e la legge approvata? Ma cosa parlo di legge, lui è nemico della libertà e batte in superbia tutti i Tarquini. 
Aspettate che diventi console o dittatore, questo che è un privato cittadino e si comporta, come potete constatare da re prepotente e tracotante.» (Ibid., III, 11.)
E sembra che il popolo fosse d'accordo.



IL PROCESSO

Avvicinandosi il processo Cesone cominciò a capire che poteva essere condannato, per cui cominciò a cercare alleati e  "mortificandosi andava in giro a raccomandarsi".

 « Tito Quinzio Capitolino Barbato, che era stato tre volte console, ricordava i molti titoli di merito di Cesone e della famiglia, affermando che mai nemmeno a Roma si era avuto un ingegno così grande e precoce valore. Cesone era stato suo soldato di prima fila e aveva combattuto il nemico proprio sotto i suoi occhi. 
Spurio Furio ricordava che Cesone, mandato da Quinzio Capitolino era corso in suo aiuto in un frangente di grande pericolo; si diceva convinto, anche che nessuno più di Cesone avesse contribuito a risollevare le sorti della battaglia. Lucio Lucrezio, console l'anno precedente, e le cui gloriose imprese erano ancora ben vive nella memoria di tutti, divideva i suoi meriti con Cesone, ricordava gli scontri, enumerava le sue splendide azioni in missione e sul campo di battaglia. » (Tito Livio, ''Ibid., III, 12)

Il padre, Lucio Quinzio detto Cincinnato (riccioluto) chiedeva semplicemente comprensione per gli errori giovanili e un perdono basato sul fatto che lui Lucio Quinzio non aveva mai fatto male ad alcuno. Ma il malanimo contro Caeso era forte.

Marco Volscio Fittore, che era stato tribuno della plebe qualche anno prima, testimoniava che durante la peste, un gruppo di giovani vagabondava per la Suburra con intenzioni poco raccomandabili. Era nata una rissa e il fratello di Marco Volscio, colpito da un pugno di Cesone, era caduto ed era stato portato a braccia a casa sua dove era morto. Marco Volscio era convinto che fosse morto per il colpo subito ma non era stato possibile ottenere giustizia dai consoli degli anni precedenti.

« Volscio gridava queste accuse in tutte le occasioni, e l'animo della gente ne fu tanto inasprito che poco mancò che Cesone fosse linciato dal popolo. Virginio ordina che sia arrestato e messo in carcere. I Patrizi oppongono violenza a violenza.» (Ibid., III, 13.)

Tito Quinzio dichiara che essendo ancora non condannato non si poteva imprigionare Cesone, però teme che possa fuggire.
« I tribuni cui Cesone si era appellato esercitano il diritto di intercessione con una decisione che accontenta tutti: si oppongono alla sua carcerazione, deliberano che l'imputato compaia in giudizio e che, in previsione di una sua possibile fuga, fornisca una garanzia in denaro al popolo.» (Ibid., III, 13.)



LA SUPERCAUZIONE

Alla fine venne deliberato che Cesone dovesse essere garantito da dieci mallevadori che versassero ognuno l'altissima cauzione di tremila assi. A quanto scrive Livio, questo fu il primo caso di malleveria fornita, al pubblico erario di Roma, da un imputato in un processo.

A Cesone fu concesso di allontanarsi dal Foro e quello durante la notte andò esule in Etruria. Il giorno del processo Cesone non si presentò e divenne esule volontario, ma non poteva più riavere la cauzione che era stata pagata dal padre. Infatti i tribuni della plebe si vendicarono:
« Virginio volle tenere lo stesso i comizi, ma i suoi colleghi cui era stato interposto appello, sciolsero l'adunanza. Con grande rigore la cauzione fu richiesta al padre il quale fu costretto a vendere tutti i suoi beni e ad andare a vivere per un po' di tempo in un tugurio, oltre il Tevere, quasi fosse stato condannato al confino.» (Ibid., III, 13.)

E in quel tugurio, solo pochi mesi dopo, i senatori di Roma trovarono Cincinnato e la moglie quando dovettero nominare un dittatore, qualcuno di così bravo ed integro da sconfiggere i nemici della città ed evitare di vendicarsi.



IL PADRE DI CESONE

Nel 458 a.c. il console Lucio Minucio Esquilino Augurino era rimasto assediato nel suo accampamento durante la guerra contro gli Equi. Nemmeno l'altro console, Gaio Nauzio Rutilo, che pur stava vincendo contro i Sabini sembrava in grado di intervenire. Nei momenti di grave crisi Roma eleggeva un dittatore con pieni poteri: per unanime consenso fu deciso di eleggere Lucio Quinzio Cincinnato.

Narra Livio che i senatori si recano ai Prata Quinctia dove trovano Cincinnato che sta lavorando la terra. Lo pregano di indossare la toga per ascoltare quanto stanno per dire. Racilia viene inviata alla capanna per recare l'indumento. Cincinnato si deterge il sudore, si riveste e i senatori lo pregano di accettare la dittatura.

Cincinnato accetta e torna a Roma traversando il Tevere su una barca "noleggiata a spese dello Stato" e, preceduto dai littori viene "scortato a casa" dalla folla degli amici.

« Accorse in massa anche la plebe, la quale però non era altrettanto lieta di vedere Quinzio, sia perché giudicava eccessiva l'autorità connessa alla dittatura sia perché, grazie a tale autorità, quell'uomo rappresentava per loro un'accresciuta minaccia. E quella notte a Roma, tutti vegliarono »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III))

Ma Cincinnato si dimostrò al di sopra di meschine ripicche. Il giorno seguente radunò l'esercito e lo condusse con marcia forzata al soccorso dei concittadini assediati nel loro stesso accampamento. Quella stessa notte iniziò la battaglia del Monte Algido che vide la sconfitta degli Equi.

E Cesone? La storia non ne parla ma suo padre sicuramente come premio si sarà fatto restituire la congrua cauzione pagata per salvare un figlio molto irruento ma poco eroico.

PONTE FABRICIO

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STUDIO DEL PIRANESI

Pons Fabricius, o Ponte Fabricio (Fabrizio) è il ponte che collega il Circo Flaminio  e il Foro Olitorio all'isola Tiberina, costruito da, e chiamato da lui Lucius Fabricius, curatore viarum nel 62 a.c. (Dio Cass 37.45.3; Hor, sab 02/03/36: ... Ha Fabricio ... posa; Salamito) in connessione con la rivitalizzazione del culto di Esculapio sull'isola (Degrassi 524;  Esculapio, Aedes).

Dopo l'alluvione del 23 a.c., le iscrizioni indicano che il ponte è stato almeno in parte restaurato dai consoli Q. Lepido e M. Lollio nel 21 aC (CIL I2 751, VI, 1305, Blake, Richardson).

Taylor (80-82) ha recentemente suggerito che il Ponte Fabricio e il ponte Cestio potrebbero essere serviti come incroci di acquedotti, ma non sembra esserci prova conclusiva di questo.

FONDAMENTA
L'antico ponte, con due soli archi che poggiano su un unico pilastro, è ancora in uso, e di recente ha subito un restauro. E' l'unico ponte che abbia conservato il suo aspetto originale di epoca non solo antica ma addirittura repubblicana.

Il ponte Fabricio o Ponte dei Quattro Capi, o Pons Judeaorum, ponte dei Giudei, è il più antico ponte di Roma, dopo Ponte Milvio, ancora esistente nella struttura originale, il che dimostra l'abilità ingegneristica romana anche in questo settore.

Costruito nel 62 a.c., si estende sulla metà del fiume Tevere, da Campo Marzio sul lato est dell'Isola Tiberina, mentre dall'altro lato il ponte Cestio, a ovest dell'isola, porta all'altra riva del Tevere. 

La denominazione Quattro Capi. cioè "quattro teste" si riferisce alle due colonne di marmo delle erme bifronti (in realtà quadrifronti) di Giano sul parapetto, che vennero trasferite qui dalla vicina Chiesa di San Gregorio (Monte Savello) nel XIV secolo. Sono situate all'entrata del ponte verso Campo Marzio e secondo alcuni le erme di Giano quadrifronte servivano per delle balaustre probabilmente in bronzo.

Come scritto da Dio Cassio, il ponte fu costruito nel 62 ac., l'anno in cui fu eletto console Cicerone, per rimpiazzare un ponte di legno più antico distrutto da un incendio. Venne così commissionato da Lucius Fabricius, curatore delle strade e membro della gens  Fabricia di Roma.

IL PONTE OGGI

DESCRIZIONE

Il Ponte Fabricio ha una lunghezza di 62 m ed è largo 5,5 m. E' costituito da due archi a sesto ribassato, con una luce di ventiquattro m e mezzo, sostenuti da un pilastro centrale nel centro del flusso. Il suo nucleo è costruito in tufo e peperino, mentre il suo esterno è realizzato in mattoni e travertino. Ma i mattoni non sono originali, in quanto si riferisce a un restauro seicentesco del 1679 ad opera di Papa Innocenzo XI, della ricca famiglia degli Odescalchi.

Gli Odescalchi erano aristocratici dediti all'attività bancaria e commerciale d'intermediazione (in particolare cambiavalute), tanto da essere una delle famiglie più ricche della Lombardia spagnola. 

Questo fatto permise ad Innocenzo XI, ormai pontefice, di disporre di notevoli capitali personali devoluti alla Chiesa e ai suoi progetti di crociata, tanto da mandare in rovina il banco di famiglia. 

Così per risparmiare le lastre di travertino che sarebbero servite a restaurare degnamente il ponte romano, le fece rimpiazzare coi mattoni. 

Ma di questo cattivo gusto non ebbe rimpianti perchè anzi se ne vantò in un'iscrizione sulla testa del ponte.

Il pilastro che sostiene gli archi ha una base a forma di sperone sul lato a monte, ma con forma arrotondata verso valle; sopra il pilone si apre un arco largo sei metri, con lo scopo di alleggerire la pressione delle acque durante le piene fluviali. 

Alle due estremità si trovavano due piccoli archi di tre metri e mezzo di larghezza, che giocavano lo stesso ruolo di stabilità del ponte durante le piene, oggi però non più visibili perchè interrati.

L'ISCRIZIONE


L'ISCRIZIONE

Un'iscrizione romana originale incisa sul travertino ne commemora la costruzione:

,L . FABRICIVS . C . F . CVR . VIAR | FACIVNDVM . COERAVIT | IDEMQVE | PROBAVIT.
(Lucius Fabricius, figlio di Gaius, sopraintendente alle strade, curò e approvò questa costruzione)
L'iscrizione è ripetuta 4 volte, su ogni arco e su entrambi i lati del ponte. Venne poi restaurato dai consoli Marco Lollio e Quinto Lepido nel 23, come è citato in un'iscrizione più piccola posta sui due lati di una sola arcata, a causa di una piena del fiume.

La parte sinistra della scritta principale - le lettere L FABRICIVS - e, nella seconda riga - le lettere FACIVNDU, oltre la metà dei seguenti M - sono in uno stile diverso dal resto delle lettere. Queste lettere sono più delineate e finemente sagomate.  La progettazione di queste lettere è ovviamente il risultato di una tecnica diversa e / o una diversa norma estetica.

A lettere differenti corrisponde esattamente una differenza di colore dei blocchi di pietra, come se nuove pietre avessero sostituito le vecchie, corredate con una nuova iscrizione. Così ho dovuto accontentare di una ipotesi non specificato che parte dell'arco era stato preso da un diluvio in un momento successivo e che era stato sostituito e arredata con una nuova iscrizione.

Infatti l'iscrizione: Marco Lollio, figlio di Marco, e Quinto Lepido, figlio di Marco, Consoli, approvarono ciò secondo un decreto del Senato, fa pensare che i consoli, effettuate le riparazioni al ponte, probabilmente in conseguenza della inondazione nel 23 ac che distrusse Ponte Sublicio a valle dell'Isola Tiberina al di là del Ponte Emilio ( oggi Ponte Rotto), dovettero rifare, oltre a una porzione di ponte, una porzione della dedica originale di Fabricius.

Il che conferma quanto gli antichi romani dessero valore ai documenti del loro passato e quanto li rispettassero, convinti che il valore dei loro avi e predecessori fossero un forte incentivo a perseguire la stessa nobiltà d'animo, lo stesso coraggio e la stessa tradizione che aveva reso grande Roma.


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COLONIA AUGUSTA EMERITA (Spagna)

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La Colonia romana di Augusta Emerita (oggi Merida), posta sulla riva destra del fiume Guadiana, venne fondata nel 25 a.c. da Ottaviano Augusto, per accogliere i soldati emeriti dell'esecito romano provenienti da due legioni veterane delle Guerre Cantabrihe: la Legio V Alaudae e la Legio X Gemina.

La città fu la capitale della provincia romana della Lusitania. Il termine emerito veniva dato ai soldati che avevano finito con onore il tempo della loro vita militare. Ad essi spettava una liquidazione sostanziosa che spesso, per non sovraccaricare l'erario dello stato, veniva sostituita con l'attribuzione di una terra nei luoghi occupati.

Sotto le insegne romane Merida iniziò subito un periodo di grande splendore sì da divenire negli ultimi anni del regno di Augusto una delle più importanti città di tutto l'impero. Per questo e per i suoi imponenti monumenti è stata chiamata la Roma Spagnola. Era situata sulla cosiddetta via de la Plata ("via dell'argento"), che univa la Cantabria alla Betica.

Oltre agli edifici vi sono state rinvenute molte epigrafi, ritratti eccellenti di epoca giulio-claudia e rilievi.Oggi il Complesso archeologico di Mérida è uno dei più grandi siti spagnoli ed è stato dichiarato Patrimonio Mondiale dall'Unesco.

IL TEATRO OGGI


TEATRO DI MERIDA

Venne costruito nell'attuale Estremadura, nella Spagna meridionale, il 16-15 a.c. e dedicato dal console Marco Vipsanio Agrippa, giunto al suo terzo consolato. Fu collocato fuori città e adiacente alle sue mura, e venne restaurato alla fine del I o all'inizio del II sec. d.c., probabilmente dall'imperatore Traiano. La scena venne ricostruita in marmo in epoca flavia e di nuovo venne restaurato tra il 330 e il 340 durante il regno di Costantino, quando vennero aggiunti una passerella intorno al monumento e nuovi elementi decorativi.

Quando il cristianesimo venne dichiarato unica religione di Stato di Roma, gli spettacoli teatrali vennero giudicati immorali e banditi: il teatro venne abbandonato e si ricoprì di terra a parte le zone alte di sedili (summa cavea), in parte poggianti su una collina chiamata "Cerro de San Albin".
Venne dichiarato patrimonio dell'Umanità dall'Unesco nel 1993

RICOSTRUZIONE
Costruito seguendo fedelmente i principi enunciati nel trattato di Vitruvio, l'edificio mostra somiglianze con i teatri di Dougga (Tunisia), Orange (Francia) e Pompei (Italia). Pertanto corrisponde ad un tipico modello romano, con il diametro della cavea di circa 86 m (282 piedi).

La tribuna è costituita da una zona semicircolare (cavea), con una capacità di 6.000 spettatori e divisa in tre zone: il più basso livello chiamato l'ima cavea (22 gradini), il livello medio chiamato i media (5 gradini) e un livello superiore chiamato Summa, attualmente in pessimo stato.

La parte inferiore, dove sedevano le classi sociali più abbienti, è scavata e segue la pendenza del terreno, senza sostegni artificiali, secondo la tradizione greca, e come altri teatri in Spagna. La parte che emerge dal terreno è chiusa da muro pieno.

Questa parte è divisa in cinque settori radiali (cunei) delimitati da scale per la circolazione, e in orizzontale, lungo un corridoio (praecintio) che lo separa dagli spalti superiori, supportato da un sistema complesso di archi e volte a botte.
L'orchestra era uno spazio semicircolare pavimentato in marmo bianco e blu. Qui su tre gradini, in origine di marmo, venivano collocati i sedili mobili dei senatori e degli alti funzionari. L'orchestra era separata da questi sedili da un parapetto di marmo, di cui ci sono resti frammentari.

All’orchestra e alla cavea tripartita perfettamente semicircolari si accedeva mediante numerose porte ricavate nell’involucro esterno, alcune corrispondenti a gallerie voltate radiali che conducevano a una galleria interna con opportune uscite ad uso dell’ima e della media cavea, altre corrispondenti a scale che risalivano alle uscite per la summa cavea cinta da un portico cieco anulare.

STATUA DEL TEATRO
Il proscenio rettangolare si componeva di un proscenio a nicchie di sezione alternata, di un palco o pulpitum profondo e infine la parte anteriore della scena (fronte scena) articolato in tre esedre con le rispettive porte sceniche e ornato da due registri di colonne marmoree di genere corinzio con statue nel mezzo. sono la vista più spettacolare del teatro, con di 7,5 m di larghezza, 63 di lunghezza e 17,5 di altezza.

Un portico triplice retrostante a due navate intorno a un ampio giardino completavano l'imponente spettacolo, e non mancava un’esedra destinata al culto imperiale.
Le due colonne corinzie con basi e cornici di marmo, ospitavano diverse sculture e tre porte, una porta centrale (Valva regia) e due porte laterali (valvae hospitalia).

Si notano interruzioni nella disposizione dei blocchi, in linea con il dinamismo strutturale e compositiva della scena. Non si sa come fosse il frontale originale palcoscenico, anch'esso costruito sotto l'imperatore Traiano.

I costruttori del teatro furono gli unici a seguire appieno l’esempio romano, dei teatri di Pompeo e dei Balbi e, a suo modo, del teatro di Marcello, nell’offrire agli spettatori portici anche con spazi di servizio e giardini di diletto per il pubblico godimento, senza dimenticare l’omaggio all'Imperatore e dell’Impero.

Fino alla fine del XIX sec., gli unici visibili i resti del teatro erano le cosiddette "sette sedie", la cima delle gradinate, di cemento romano coperto con blocchi di granito che proseguivano nella facciata dell'edificio.

Gli scavi del teatro iniziarono nel 1910 diretti dall'archeologo José Ramón Mélida, con risorse limitate e una metodologia insufficiente per ricostruire il teatro fino alla fine del XIX secolo, quando fu riesumata la maggior parte dell'edificio, documentata da numerose colonne, avori, statue e altri materiali da costruzione, in particolare la parte anteriore.

Negli anni 1960 e 1970 la fase anteriore è stata ricostruita sotto la direzione dell'architetto e archeologo José Menéndez Pidal y Álvarez.Oggi, oltre a esser il monumento più visitato, dal 1933 è la sede del Teatro Classico di Merida.

L'ANFITEATRO


L'ANFITEATRO

Situato accanto al teatro, sul fianco di una collina, c'è poi l'anfiteatro, anch'esso costruito da Agrippa nell'8 a.c.,   È ancora abbastanza ben conservato.
Era una costruzione popolare più profonda del teatro, e venne creato, e usato, per le lotte tra gladiatori e tra le bestie o uomini e bestie, le cosiddette venationes.

Aveva un'arena ellittica, una cavea capace di contenere 15000 spettatori e aveva gli assi di 126 m x 102, mentre l'arena era di m 64 x 41. I gradini più bassi erano destinati ad uomini di alto rango secondo l'usanza romana e solo questi gradini sono sopravvissuti ai giorni nostri.

L'arena aveva una 'fossa Bestiaria' in centro, come si nota nella foto, che veniva coperta con legno e sabbia. Questa fossa era utilizzato per alloggiare gli animali che più tardi sarebbe affrontare i gladiatori.
La tribuna era distinta in ima, media e summa cavea, con un'arena centrale. scale e corridoi che collegavano le diverse parti.

La cavea aveva una fila riservata per la classe dirigente e 10 in più per il cittadino comune pubblico. Anche costruito due stand ubicati su entrambi i lati dell'asse minore, una sopra l'ingresso principale e un altro fronte. Sotto di loro sono state le iscrizioni con i quali potrebbero datare l'anfiteatro.

L'anfiteatro si trova in queste condizioni, perché fu teatro di guerra dei Romani contro i Cartaginesi nelle guerre puniche. Come venne proibito l'uso dei teatri iniziò lo spoglio di pietre e ornamenti per le
nuove costruzioni.



IL CIRCO MASSIMO

Il Circo Massimo era l'ippodromo di Merida, il più grande edificio della città, posizionato a 400 metri ad est delle mura di cinta dell'antica città di Augusta Emerita e usato per le corse dei carri. Fu edificato su modello del Circo Massimo di Roma, con oltre 400 m di lunghezza e 100 m di larghezza.

RESTI DEL CIRCO
Esattamente, l'arena misurava 403,75 metri di lunghezza e 96 metri di larghezza, ben più largo di ciò che era consuetudine costruire, e poteva contenere circa 30000 spettatori. Anch'esso fa parte del Parco Archeologico di Merida. La distanza tra i carceres e la balaustra centrale (o "spina") era di 127 m. La lunghezza poi dell'intera "spina" centrale era di 244 m  e larga 8,6 m. Lo circondava un muro alto 30 piedi.

Non c'è accordo tra gli studiosi sulla datazione del circo, del resto costruito e utilizzato per diversi anni prima della sua inaugurazione ufficiale.

Sembra sia stato costruito intorno al 20 a.c. e inaugurato circa 30 anni più tardi, probabilmente durante il regno del successore di Augusto, Tiberio. Si trovava molto al di fuori delle mura della città, ma vicino alla strada che collegava la città di Toledo e Cordova.

Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, e l'ascesa del cristianesimo, il circo fu in uso oltre i teatri, perchè la corsa dei cavalli era considerata meno peccaminosa degli spettacoli del teatro e dell'anfiteatro.

Il circo di Merida è molto ben conservato al contrario del Circo Massimo di Roma e di tanti altri circhi sui cui spazi vennero costruiti nuovi edifici. Il circo di Merida comprendeva numerose strutture, come
la Porta Pompae, la Porta Triumphalis, la spina (parete longitudinale), e la Tribuna dei Giudici.

Un museo dedicato al circo si trova vicino al bordo centrale del Circo e permette l'ingresso nella zona recintata attorno al circo.

Il piano dell'arena era di forma allungata a forma di U, con una estremità semicircolare e l'altra appiattita. Una spina longitudinale formata una divisione centrale all'interno, per fornire una meta continua per due cavalli e cocchio a quattro cavalli da corsa. La pista era circondata da cellae terra, con stand più livelli di cui sopra.

La prima campagna di scavi cominciò nel 1920 e portò alla luce parte dei 12 carceres, oltre alla vicina tribuna laterale ed un arco di ingresso al circo. Gli scavi proseguirono dal 1970, portando alla luce, man mano, nuove zone della cavea per tutta la sua lunghezza fino alla curvatura finale, oltre al podio riservato alle personalità della città. Un'iscrizione rivela di un certo "Sabiniano, auriga, che riposa in pace e che visse 46 anni", forse um abile auriga vincitore di molti premi e idolo delle folle di Augusta Emerita.




PONTE ROMANO SULLA GUADIANA

Il ponte romano cavalca il fiume Guadiana, il più lungo ponte sopravvissuto dei tempi antichi, avendo
all'epoca una lunghezza complessiva stimata di 755 metri con 62 campate.

Oggi, ci sono 60 campate (tre dei quali sono sepolti sulla riva sud) su una lunghezza di 721 m tra i pilastri. Compresi gli approcci, la struttura è pari 790 m.

E' il nodo nevralgico della città, collegamdosi a una delle arterie principali della colonia, il Decumanus Maximus strada est-ovest principale, tipica degli insediamenti romani.
La posizione del ponte venne accuratamente selezionata su un guado del fiume Guadiana, che ha offerto come supporto un'isola centrale che lo divide in due canali. 

La struttura originale non ha continuità col presente, essendo stato composto da due sezioni di archi unite all'isola. In epoca romana vi furono molti restauri, con aggiunta di almeno cinque sezioni consecutive di archi in modo che la strada non venisse tagliata durante l'inondazione periodica del Guadiana.

ACQUEDOTTO

ACQUEDOTTO DI MILAGROS

L'Acquedotto Miracoloso è una bellissima rovina romana, il ponte di un acquedotto, cioè parte dell'acquedotto costruito per fornire acqua ad Augusta Emerita. Si trova nella Valle dell'Alberregas, dove si snoda seguendo l'orografia del terreno. Per la sua costruzione sono stati utilizzati diversi tipi di materiali: mattoni, conci, muratura e roccia naturale.

Esso presenta tre ordini di archi. Possedeva torri di distribuzione, piscina limaria e, alla fine, un serbatoio terrazzato per la decantazione dell'acqua. Nella zona della valle di Albarregas raggiunge un'altezza di 25 m. I materiali utilizzati per la costruzione, granito e mattoni, creano un originale effetto cromatico. Le arcate a tutto sesto sono rafforzate da archi posti a differente altezza.

ACQUEDOTTO DI MILAGROS A TRE ARCHI
L'acquedotto era parte del sistema di alimentazione che portava l'acqua a Merida dalla diga di Proserpina e si trova a 4-5 km dalla città e risale agli inizi del I sec. a.c..
Resta solo un piccolo tratto di questo acquedotto romano, composto da 38 pilastri in piedi ad arco di 25 m(82 piedi) di altezza, lungo un percorso di circa 830 m (2.720 piedi). 
Restano per una lunghezza di 827 m le arcate alte 25 metri ciascuna.

E 'costruito in opera mista - conci di granito intervallate da mattoni rossi - che utilizza una disposizione a doppia arcata. 

La struttura in origine portava l'acqua alla città da un serbatoio chiamato il Lago de Proserpina, alimentato da un ruscello chiamato Las Pardillas, a circa 5 km (3,1 miglia) a nord-ovest di Mérida.

Si pensa sia stato costruito nel I sec. d.c., con una seconda fase di costruzione (o ristrutturazione) intorno al 300 d.c.. Nei secoli successivi, gli abitanti di Mérida lo soprannominato il "Acquedotto Miracoloso" per il timore che potesse crollare.

L'acquedotto è stato uno dei tre costruiti a Mérida, gli altri due sono i 15 chilometri (9.3 miglia) di lunghezza Aqua Augusta, alimentato dal serbatoio Cornalvo, e di San Lázaro, alimentato da canali sotterranei.
Ne restano 37 piloni, alcuni con triplici arcate superiori



PONTE DI ALBARREGAS

Nelle immediate vicinanze dell'acquedotto di Milagros ci sono le rovine del Ponte di Albarregas, un piccolo ponte a quattro arcate parallele, posto a nord di Merida, sulla via militare che porta a Salamanca
Si chiama così perchè sembra un miracolo che stia ancora in piedi.

Venne descritto come "Più lungo di 400 piedi e largo 25, alto altri 25 m sopra la pelo dell'acqua. Ha quattro archi più grandi e due più piccoli dalla parte della città".

Fu costruito durante il regno di Augusto, per cavalcare il fiume Alabarregas prima che si getti nel fiume Guadiana ad appena qualche centinaio di metri a valle. Da qui partiva la Via de la Plata che arrivava ad Astorga, lunga 145 km.

Secondo altri invece risalirebbe all'epoca di Traiano e si suppone allora che il suo ingegnere fosse lo stesso del ponte di Alcantara, Caio Lucio Lacero, o dei suoi allievi, avendo uno stile molto simile.
Il portico è abbastanza ben conservato, in particolare la sezione che attraversa la valle del fiume Albarregas.




ACQUEDOTTO DI SAN LAZARO

Questo acquedotto portava l'acqua da torrenti e sorgenti sotterranee situate a nord della città, la parte sotterranea dell'acquedotto è molto ben conservato. Invece della struttura costruita per attraversare la valle Albarregas, restano solo tre colonne e le arcate vicino al monumento del circo romano e ad un altro acquedotto del XVI sec., in cui il materiale è stato riutilizzato da l'acquedotto romano.



TEMPIO DEL DIVO AUGUSTO

Trattavasi di un tempio esastilo periptero su zoccolo, di epoca augustea, era consacrato al culto dell’imperatore. Ne restano solo le basi.

IL TEMPIO DI DIANA


TEMPIO DI DIANA

Questo tempio è un edificio comunale appartenente al foro della città, edificato in epoca augustea con elementi architettonici in granito locale stuccato.

Si tratta di uno dei pochi edifici di carattere religioso ben conservato, sfuggito miracolosamente alla distruzione cristiana che investì templi ed altri edifici. Nonostante il nome, erroneamente attribuito all'epoca della sua scoperta, l'edificio era dedicato al culto imperiale, cioè ad Augusto.

E' stato dunque costruito alla fine del I sec. a.c. o all'inizio in epoca augustea. Successivamente è stato in parte riutilizzato per il palazzo del Conte di Corbos, il che lo ha preservato dalla distruzione.

Elevato su alto podio, il tempio è rettangolare e circondato da colonne, si trova di fronte alla parte anteriore del Forum della città. Questo fronte è formato da sei colonne di ordine corinzio con i fusti montati a sezioni sovrapposte, che sostengono un timpano sormontato da un arco. Esso è principalmente costruito in granito.



ARCO DI TRAIANO

ARCO DI TRAIANO
Un arco di ingresso, forse per il forum provinciale. Si trovava sul Cardo Maximus, una delle principali vie della città ed era collegato al Foro cittadino.

Realizzato in granito e in origine col fronte con marmo, misura 13,97 m di altezza, 5,70 m di larghezza e 8,67 m di diametro interno.

Si è creduto avesse un carattere trionfale, anche se potrebbe essere l'entrata al Forum Provinciale.

Immerso nel dedalo di costruzione moderna e mascherato da case vicine, questo arco si erge maestoso e ammirato dai viaggiatori e storici di tutti i tempi.

Il suo nome è arbitrario, in quanto l'iscrizione commemorativa andò persa secoli fa.



CASA DEL MITREO

Casa patrizia della seconda metà del I sec., scoperta fortuitamente nel 1960, sulle pendici meridionali del Monte S. Albino. Il complesso è stato recentemente ristrutturato e coperto.
Deve questo nome alla sua vicinanza col Mitreo. Tutta la casa è costruita in blocchi di pietra grezzo con angoli rinforzati. Risale al II sec. d.c. e fu abbandonata nel IV sec.

Ha un vestibolo di entrata, poi un peristilio a quattro colonne con giardino interno e una sala del famoso Mosaico Cosmogonico nel settore occidentale, una rappresentazione allegorica degli elementi della natura (fiumi, vento, ecc),  con allegorie del Nilo e dell'Eufrate, con a guardia la figura di Aion.

Segue poi, attraverso un corridoio, un cortile peristilio colonnato, usato probabilmente come sala da pranzo estiva e un'altra stanza che conserva pitture murali.

Attraverso un altro corridoio si giunge al terzo cortile porticato con un giardino chiamato viridarium, con tracce di pitture e mosaici con motivi geometrici, da cui si accede alle camere da letto e, infine, la camera matrimoniale in cui appare un mosaico rappresente Eros.

Ci sono anche alcuni locali sotterranei, che potrebbero essere quelli utilizzati in estate per tenere fuori il calore. Conserva anche una cisterna, agenzie eventualmente altre aree di servizio e alcuni bagni.


I COLOMBARI

Il Columbaria sono due edifici funerari senza tetto, parte di una necropoli fuori dalle mura della città romana. Sono i migliori esempi di costruzioni funerarie in Emerita, realizzati in pietra e granito grezzo. Entrambi gli edifici hanno conservato le epigrafi identificativi delle famiglie originarie che li possedevano: i Voconii e gli Iulii.

Recentemente l'area è stata trasformata in una passeggiata e parco. Citazioni di Epicurei e stoici sono visualizzati in pannelli, e i resti e gli alberi tombali sono mescolati a pannelli esplicativi dei riti funebri romani. Due mausolei romani sono sullo stesso sito. L'area era accessibile tramite la Casa del Mitreo.



CASA DELL'ANFITEATRO

Era così chiamata perchè stava accanto all'anfiteatro e fu scoperta nel 1947.

In realtà si trattava di due case: la Casa del Castello d'acqua, e l'attuale Casa dell'Anfiteatro.

Trattasi di casa patrizia della stessa epoca con magnifici pavimenti a mosaico.
E' situata ad est dell'anfiteatro, aldifuori della cinta muraria.



RICOSTRUZIONE
IL PORTICATO DEL FORO 

Eretto nel I sec., fu restaurato nel secolo scorso con importanti ritrovamenti, molti dei quali sono conservati nel Museo Nazionale di Arte Romana.

Il monumento è costituito da un edificio porticato con una parete che ospita diverse nicchie per statue delle quali alcune ritrovate.

Si loca nei pressi del Tempio di Diana in uno dei due forum di Mérida:
uno provinciale locale e uno situato nel Cardus Maximus..



TERME ROMANE DI SAN LAZARO

Queste fonti termali nel Parco di San Lazaro, frequentati dai cittadini di alto rango che venivano ad assistere agli eventi del Circo romano.



TERME ROMANE E FOSSA PER LA NEVE A VIA REYES HUERTAS

Neve e bagni di acqua fredda utilizzati dai romani: sono unici durante l'Impero Romano. Ma furono utilizzate anche per la conservazione di prodotti deperibili.



CONVENTO DI S. ANDREA

Recenti scavi nel sito del monastero hanno rivelato interessanti resti archeologici. Pavimentazioni a mosaico del III e IV sec. decoravano una ricca casa romana locata tra le mura della città.  



CASTELLUM AQUAE 

Situato sulla sommità della strada del Calvario, era il terminale dell'acquedotto dei Milagros e il punto principale di distribuzione dell'acqua attraverso la città.



TEMPIO DI MARTE

RESTI DEL TEMPIO DI MARTE
Ovvero la chiesa di Santa Eulalia, originaria del IV sec. e ricostruita nel XIII sec.

Reimpiega in un piccolo portico su strada elementi attribuiti ad un tempio dedicato a Marte.

Sull'architrave fra due colonne c'è la scritta latina Vetila, moglie di Paolo, dedica questo tempio a Marte, scritta corretta in epoca paleocristiana in una dedica a Santa Olalia, cioè Eulalia. Non si esclude che la chiesa sorga sulle rovine del tempio di Marte.

Nella raccolta di rilievi decorati, effettuati in zona, alcuni facevano parte di un fregio e cinque appartenevano all’architrave del tempio dedicato a Marte, dell’epoca di Adriano.

LE CISTERNE ROMANE


CISTERNE DI CORNALVO E PROSERPINA 

Locati nei pressi di Mérida, sembra siano i più antichi serbatoi in Spagna: Palude Parco Naturale Cornalvo e Riserva Proserpina. In genere considerati di origine romana, anche se alcuni studiosi propendono per origini medievali. Il lago di Proserpina a 4 km da Merida è un bacino artificiale opera romana che raccoglieva l'acqua per la città.


COPIA TEMPIO CONCORDIA DI ROMA RITROVATA IN SPAGNA
FU FATTO ERIGERE A MERIDA SU ORDINE DELL'IMPERATORE TIBERIO

Madrid, 30 lug. - (Adnkronos) - Le vestigia di un importante tempio di eta' romana sono state scoperte in Spagna.
Durante gli scavi nel sito di Merida sono emersi, infatti, i resti di un tempio che ha straordinarie somiglianze con il tempio della Concordia del foro di Roma.

TEMPIO DELLA CONCORDIA A ROMA
I resti del tempio di Merida hanno rivelato un disegno e una proporzione identici all'edificio
sacro di Roma, con colonne alte circa 15 m.

Durante lo scavo sono tornati alla luce numerosi resti di vasi utilizzati durante le cerimonie di culto ed anche monete dell'eta romana e di altra epoca.

Tra queste ultime spicca la scoperta di 20 soldi d'oro del periodo dei Visigoti, di cui finora non si conoscevano esemplari in Spagna.

Il tempio di Merida, secondo quanto hanno accertato gli archeologi spagnoli, fu costruito per ordine dell'imperatore Tiberio, figlio di Claudio Tiberio Nerone e di Livia Drusilla. 

Il tempio della Concordia edificato nella citta' spagnola fu innalzato come simbolo della potenza imperiale di Roma e per diffondere il culto del pantheon dei Romani e dello stesso imperatore Tiberio. L'ipotesi degli studiosi dell'Istituto di archeologia di Merida e' che la costruzione del tempio sia cominciata intorno al 30 dopo Cristo. Se ne conservano alcuni resti architettonici.



TERME DI ALANGE

Sono stati localizzati nella vicina città di Alang, presso Merida, circa 18 km a sud della città, fuori le mura, un complesso importante frequentato da esponenti di spicco della società romana, tra cui un senatore e governatore di Cappadocia probabilmente in tempi di Massimino, Licinio Serenianus, che grato per la guarigione della figlia Serena Varinia, ha offerto lo spazio in onore di Giunone Regina.
Le terme sono un edificio rettangolare di 33 m a lati lunghi e 16 nei minori.

Il suo orientamento è da ovest a est con due rotonde o sale gemelle. Queste sono di notevoli proporzioni: 10.90 m di diametro e 13,86 m di altezza. Al suo centro si trovano piscine, percorsi circolari, scale. La copertura è a cupola emisferica, al centro della quale c'era un'apertura circolare o oculo per la luce e la ventilazione delle camere.
Le volte erano state decorate con dipinti che era ancora possibile intravedere alla fine del XVIII secolo, con specie vegetali. Nel cortile, costruito in muratura, c'era l'altare votivo alla dea Giunone.












MARCO VALERIO MARZIALE ( 40 - 104 d.c.)

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Nome Latino: Marcus Valerius Martialis
Nascita:  40 d.c. ad Augusta Bilbilis (Spagna)
Morte: 104 d.c. ad Augusta Bilbilis (Spagna)
Personaggio: Scrittore, poeta












Di lui scrisse Gaio Plinio Cecilio Secondo:
"Era un uomo ingegnoso, acuto e pungente, che aveva nello scrivere moltissimo di sale e di fiele e non meno di sincerità."


LE ORIGINI

Marco Valerio Marziale, M. Valerius Martialis, nacque ad Augusta Bilbilis (Calatayud), nella Spagna Tarragonese, nel 40 d.c., da famiglia benestante che gli cosentì ampi studi. Morì nello stesso paese natio nel 104 d.c., all'età di 64 anni. Le notizie biografiche su Marziale provengono principalmente dai suoi numerosi cenni autobiografici.

Ebbe la sua prima educazione a Tarragona, sotto la guida di grammatici e retori e praticò anche diversi sport, ma era tentato dalla vita variegata e fantastica dell'Urbe per cui a 24 anni, nel 64 d.c., lasciò la famiglia e la tranquilla vita di provincia per recarsi a: Roma.



LA VITA

Marziale aveva un animo piuttosto schivo, era consapevole del proprio valore come scrittore, ma sapeva altresì di non essere bravo ad accattivarsi gli animi. Attribuiva ciò alla sua incapacità di adulazione, ma in realtà  era piuttosto caustico nei rapporti.

MARCO VALERIO MARZIALE
A Roma pertanto frequentò il circolo che più facilmente l'avrebbe accolto, quello dei suoi conterranei, il circolo iberico del quale Seneca era il personaggio più importante. Marziale dovette però trovarsi altri protettori quando Seneca cadde in disgrazia, insieme alla sua famiglia, a seguito del fallimento della congiura di Gaio Calpurnio Pisone contro Nerone.

Nel 65 dunque dovette frequentare altri circoli ma senza entrare nelle grazie di alcuno, per cui campava alla meglio, rimediando inviti a pranzo e a cena tenendo allegri i commensali con la lettura dei propri epigrammi. Cambiò due volte abitazione, la seconda volta come proprietario sempre nella zona del Quirinale. Dovette adattarsi a svolgere la professione del cliens,cliente, soprattutto trovandosi a Roma senza mezzi sotto l’impero di Vespasiano, poi di Tito e Domiziano. Marziale dovette adattarsi a svolgere anche il compito di poeta di corte.

Verso l'80, in occasione dell'inaugurazione dell'Anfiteatro flavio, Marziale pubblicò il primo libro di epigrammi: Liber de spectaculis (sugli spettacoli del Colosseo) che gli procurò delle lodi. Grazie a questo ebbe dall'imperatore Tito lo ius trium liberorum, che comportava una serie di privilegi per i cittadini che avessero almeno tre figli, nonostante il poeta non fosse nemmeno sposato. Il successore di Tito, Domiziano, confermò i privilegi concessi dal fratello. L’opera celebra assieme al Colosseo anche tutti i monumenti dell’antichità, come le piramidi, i palazzi di Babilonia, ma nessuno di essi poteva competere con il Colosseo. Nei confronti dell’imperatore ebbe un atteggiamento da cortigiano e in cambio ottenne il titolo di tribuno militum che gli permise di iscriversi all’albo dei cavalieri.

Nell' 84, gli venne donato un terreno agricolo nei pressi di Nomentum (Mentana prov. Roma) dove si recava nei periodi primaverili e estivi per respirare aria di campagna. Non se ne mostrò molto grato visto l'epigramma che scrisse per l'occasione, dicendo all'amico che aveva capito male: non voleva un terreno ma un torrone.

Verso l'anno 84 o 85 comparvero altri due libri di epigrammi: "Xenia" (doni per gli ospiti) e Apophoreta (doni da portar via alla fine del banchetto), composti esclusivamente di monodistici. L'accoglienza dei libri deluse le aspettative del poeta che nell'87 fece un viaggio in Emilias e si ritirò per alcuni mesi a Forum Cornelii (Imola), ospite di un potente amico. Lì pubblicò il suo terzo libro ma poi lo riprese la nostalgia dei salotti di Roma, e vi fece ritorno.

Dopo l'assassinio di Domiziano nel 96, sotto i principati di Nerva e poi di Traiano, Marziale tentò di ingraziarsi i nuovi governanti, ma era ormai troppo noto per i suoi passati rapporti con l'odiato predecessore di Nerva, condannato alla damnatio memoria. Sotto Traiano in particolare Marziale fu emarginato e per questo forse si decise a tornare in patria, in Spagna, grazie al prestito di denaro di Plinio il Giovane.

Scrittore intelligente, satirico, pungente, ironico, sottile, adulatore per convenienza, invidioso, nemico delle donne, impietoso con i difetti fisici, infermità comprese, non trovò un altro valido mecenate e per 34 anni contattò e sollecitò le persone che contavano a Roma, sostenendosi con gli introiti delle vendite dei suoi scritti e con elargizioni mai di grande valore.

Negli ultimi anni di permanenza a Roma, poteva permettersi la presenza nella propria casa di qualche schiavo, di un mulo ed anche di un segretario, vivendo, a suo dire, in un modo faticoso e travagliato. I suoi sogni di fama e ricchezza non si realizzarono mai. Egli non si sposò né ebbe figli.

Visse a Roma sino al 98 d.c., poi, probabilmente conscio di non avere più futuro, tornò in Spagna nel suo paese natio. Tra il 90 e il 102, quindi parte a Roma e parte in Spagna, pubblicò complessivamente altri otto libri di epigrammi.

A Bilbilis una ricca vedova di nome Marcella, ammirata dall'arte del poeta, gli addolcì gli ultimi anni della vita, facendolo vivere agiatamente col dono di una casa e di un podere. Evidentemente la famiglia che gli aveva potuto elargire studi raffinati, aveva nel frattempo prosciugato ogni bene, altrimenti il poeta non avrebbe avuto bisogno dell'aiuto della vedova.


Marziale morì a circa 64 anni a Bilbilis come attesta una lettera dell'anno 104, inviata da Plinio il Giovane a Cornelio Prisco, nella quale il mittente dà un giudizio sul poeta spagnolo, che gli aveva indirizzato alcuni epigrammi di elogio per la sua attività di avvocato.

Ironia della sorte, fu proprio una rappresentante del sesso da lui tanto odiato che gli diede conforto, e senza alcun recondito scopo, negli ultimi anni della sua vita.
 Scrisse in complesso 1561 epigrammi, in più in distici elegiaci, poi in endecasillabi ed in giambi.



LO STILE

Si espresse in modo schietto e conciso, ricorrendo a espressioni volgari che all'epoca non erano bandite come fu poi col cristianesimo. Usò l'ambiguità, i giochi di parole, i doppi sensi, la battuta finale ad effetto. I suoi epigrammi erano destinati alla recitazione nelle sale di declamazione, in realtà invasero i banchetti.

Marziale sostenne una poesia profondamente radicata nella quotidianità, nel realismo e nei comportamenti umani, tratta i costumi dei suoi contemporanei con arguzia, senza moralismo e con lo scopo di divertire il lettore, ricorrendo per questo anche a contenuti licenziosi e volgari, ma, come lui stesso dice di sè “Licenziosa è la mia pagina, onesta è la mia vita”. Escluse però gli attacchi personali e i nomi, anche perché Domiziano aveva emesso un editto contro gli scritti diffamatori.

La caratteristica degli epigrammi di Marziale è la concisione e la battuta, che prese in parte da Catullo e i neoteroi, concludendo con una battuta comica e inaspettata.

Non fu però di grande sensibilità, deridendo personaggi deboli o infelici, come le prostitute, gli invertiti, gli impotenti, i poveri, le donne vecchie o brutte,  i difetti fisici, le donne infedeli e gli uomini cornuti, i medici che fanno morire i pazienti e i tic.

In molti casi questi epigrammi riflettono la vita del poeta, costretto a vivere da cliens e abituato ad aspettare gli avanzi dei banchetti.

Marziale osserva la superficie della società con occhio disincantato ma pure impietoso, osserva gli sfaccendati che ciondolano tra le terme e il circo, indugia sui contenuti osceni deridendo personaggi di infimo livello, le prostitute, gli invertiti e impotenti oppure sui vizi e difetti dei poveracci, le donne vecchie, oppure è molto crudele e impietoso nei confronti dei difetti fisici, deride la vecchiaia, la miseria, i guerci, le donne infedeli e gli uomini cornuti, i medici che fanno morire i pazienti e i tic.

Marziale cercò di adulare i potenti ma senza grande successo, ricevendo in cambio la sportula, un donativo in cibo o danaro, un piccolo podere in Emilia e un appartamento a Roma. Non volle mai fare la carriera di avvocato, che disprezzava, o che non era in grado di fare.



LE OPERE

Marziale afferma perentoriamente l'epigramma come strumento letterario, di lui ci sono pervenuti infatti dodici libri di epigrammi, preceduti da una prefazione in prosa che spiega la composizione dell'opera, per un totale di 1561 componimenti. Con gli epigrammi egli si occupò di parodia, di satira, di politica e di erotismo. Quelli monotematici sono noti con un nome: nel caso di Xenia e Apophoreta il nome è dato dall'autore stesso che numerò i dodici libri di epigrammi vari. 


Liber de spectaculis

Chiamato anche Liber spectaculorum, nell'edizione del filologo Gruterus del 1602, fu pubblicato nell'80 e rappresenta la prima raccolta di epigrammi di cui abbiamo notizie, visto che nessun epigramma giunto fino a noi precede questa data. La raccolta contiene 33 o 36 epigrammi in distici elegiaci che descrivono e magnificano i vari spettacoli offerti al pubblico in occasione dell'inaugurazione del Colosseo ad opera dell'imperatore Tito, figlio di Vespasiano.


Xenia e Apophoreta

Nell'edizione che suddivide i lavori di Marziale in quindici libri, queste due raccolte costituiscono rispettivamente il XIII e XIV libro, secondo l'ordine in cui sono riportati nei manoscritti, anche se ritenuti successivi solo al I libro. Sono composti esclusivamente di epigrammi in distici elegiaci. I titoli, o lemmata, che menzionano l'oggetto descritto di volta in volta furono dati dall'autore stesso. Ci sono epigrammi in cui Marziale rimpiange la sua terra “Vibilis”, la vita della campagna comparata a Roma

I "doni per gli ospiti" (xenia) sono una raccolta di 127 (124 e 3 introduttivi) epigrammi che accompagnavano i doni che ci si scambiava durante i Saturnali, brevi descrizioni di cibi e bevande, leggere e divertenti.
I "doni da portar via" (apophoreta), invece, sono quelli (221 più due introduttivi) che accompagnavano i doni destinati ai commensali alla fine di un convivio. Questi doni venivano sorteggiati tra gli invitati, creando spesso situazioni curiose o comiche, come un pettine assegnato a un calvo, su cui il poeta poteva sbizzarrirsi divertendo i lettori.

Ciò che risalta spesso è la sua insofferenza verso la vita da cliente, e abituato ad aspettare gli avanzi dei banchetti, che vive come una mortificazione in contrasto con le aspirazioni e i sogni della sua vita. Gli altri epigrammi sono di argomento vario e seguono diversi filoni: descrittivi, celebrativi, dedicati alla figura di un atleta, artista, potenti, rievocativi di fatti recenti; ci sono epigrammi di carattere riflessivo in cui Marziale riflette sulla sua filosofia di vita, che
rispecchia quella del giusto mezzo, che Marziale ricerca altrimenti dovrebbe scegliere la miseria.

Ciò che prevale, comunque, è l'aspetto comico-satirico, spesso reso dal fulmen in clausula, la tendenza a concentrare gli elementi comici e pungenti nella chiusa dei componimenti, terminati con una battuta inaspettata. Lo spirito di moltissimi suoi componimenti sta nel finale dell'epigramma, a volte assurdo, rivelatore, iperbolico o rivelatore. Marziale dimostra di riuscire sempre a cogliere la comicità che si annida nelle situazioni reali, specie nei vizi e nei difetti umani. 

Rare volte è delicato e lirico, come nella poesia funebre. vedi l'epigramma dedicato a Erotion, una bimba morta a sei anni, per la quale il poeta chiede alla terra di non gravare sul suo piccolo corpo, giacché lei non l'ha fatto su di essa. 
Rifiuta invece il genere 
epico e la 
tragedia greca, considerandoli troppo lontani dalla realtà quotidiana. Frequente invece la polemica letteraria, spesso usata per difendersi da chi considerava il genere epigrammatico di scarso valore artistico, o che gli rimproveravano di essere aggressivo o osceno. Da non sottovalutare comunque il carattere permaloso e fumino dell'autore.

La lingua da lui usata risulta colloquiale e quotidiana. Il suo costante realismo gli permette però di sviluppare un linguaggio ricco facendo passare nella letteratura molti termini e locuzioni che non avevano mai trovato posto prima. Riesce, infine, a dimostrare grande duttilità nell'alternare frasi eleganti e ricercate a frasi sconce e spesso vernacolari.

NEMI RIAFFIORA IL NINFEO DI CALIGOLA

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RICOSTRUZIONE DEL NINFEO

http://www.archeo.it/mediagallery/fotogallery/2136

ROMA - La posizione era privilegiata, quasi a voler abbracciare tutto il panorama. Da qui l’imperatore Caligola riusciva a godersi lo spettacolo mozzafiato del suo adorato lago di Nemi, a pochi metri dal Tempio di Diana. La struttura doveva essere imponente: i giochi d’acqua impreziosivano l’emiciclo, mentre filari di colonne incorniciavano la platea chiudendosi sulla fronte con due tempietti.

L’effetto scenografico era ampliato dal gioco di terrazze studiate in funzione del leggero pendio.
È così che gli studiosi della Soprintendenza ai beni archeologici del Lazio hanno ricostruito lo straordinario ninfeo di Caligola rinvenuto nel complesso del Santuario di Diana.

La scoperta è frutto dell’ultima campagna di indagini condotte nei mesi estivi dalla Soprintendenza con l'Università di Perugia (l’undicesimo anno di collaborazione) sotto la direzione scientifica di Giuseppina Ghini.



LA PLANIMETRIA

Le possenti murature indagate e studiate hanno svelato l’articolata planimetria del monumento.

RICOSTRUZIONE DEL NINFEO
«Il ninfeo appare così situato su una terrazza superiore - racconta la Ghini - e presenta un orientamento diverso rispetto alla terrazza inferiore su cui si susseguono i monumenti del tempio di Diana e del teatro.

L'analisi della pianta testimonia la presenza di un emiciclo situato sopra una platea, che era a sua volta accessibile attraverso scalinate, e sormontata da ambienti colonnati.

Gli studi permettono di datarlo all'età Giulio-claudia e quindi di attribuirlo ad un intervento da parte di Caligola».

È noto quanto Caligola, il terzo imperatore di Roma, morto assassinato a 29 anni per mano dei suoi stessi pretoriani, e di cui nel 2012 è stato celebrato il bimillenario della nascita (12 a.C.), fosse legato al Santuario di Diana a Nemi, uno dei più importanti luoghi di culto dell'antichità.

«Caligola ebbe un rapporto preferenziale con il Santuario - riflette la Ghini - le due famose navi ancorate nel lago, lunghe oltre settanta metri e larghe venti, avevano una doppia funzione: la prima era una nave palazzo, con cui dalla sua villa sul lago l'imperatore poteva raggiungere il Santuario, la seconda una nave cerimoniale, a bordo della quale sono stati rinvenuti oggetti di culto».



STATUA DI CALIGOLA
LA STORIA DEL TEMPIO

Le nuove indagini consentono oggi di ricostruire nel dettaglio, attraverso le prove archeologiche, la storia e le fasi del santuario.

E all’epoca di Caio Cesare Germanico, soprannominato Caligola per via della «caliga» il tipico sandalo che, come racconta Svetonio, amava calzare, si riferiscono le strutture del Ninfeo, così come altri interventi nell’area:

«L'imperatore ebbe un ruolo strategico nel rinnovare l'apparato decorativo del Santuario, inserendo oltre al Ninfeo anche corredi di statue della famiglia Giulio-claudia».

E prima di Caligola, il folle e trasgressivo (almeno a leggere le memorie biografiche di Svetonio) le indagini hanno consentito agli archeologi di individuare la fase arcaica del santuario, finora solo ipotizzata, fino a riconoscere gli interventi di fine IV-inizi III sec.a.C., e dell’epoca tardo-repubblicana.

IL RITROVAMENTO DELLA STATUA
Oltre alle strutture murarie sono tornati alla luce numerosi materiali, tra cui statuine in terracotta, vasi con iscrizioni sacre a Diana, oggetti votivi.

Ma l’ultima campagna ha messo in campo per la prima volta anche imprese hi-tech. Come rivela la Ghini l’intera area, infatti, è stata ispezionata con ricognizioni «a volo d’uccello» di un drone nelle ultime due settimane di settembre.

«I risultati sono ancora in corso di elaborazione», avverte la direttrice del Museo delle Navi di Nemi.

Partner strategici sono stati il Politecnico di Monaco sotto la guida di Wolfgang Filser e quello di Milano, con la direzione di Cristiana Achille e Nora Lombardini, che hanno effettuato quest'anno anche un rilevamento speciale che permetterà la ricostruzione in 3D del Tempio di Diana e di alcune aree del Santuario, compreso il Ninfeo di Caligola.

In collaborazione col Comune di Nemi, che da poco ha acquisito l’area del Tempio, sarà predisposto un percorso di visita dell’area.


Sabato 05 Ottobre 2013 -



PRECEDENTEMENTE

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=155955

Caligola, salvata la statua fatta in pezzi
ritrovata a Nemi insieme alla sua villa


Una grande villa con un ninfeo a forma di ventaglio, giochi d'acqua e al centro la statua dell'imperatore raffigurato come Zeus: il comprensorio intorno al lago di Nemi era il vero regno dell'imperatore Caligola, che si spostava da una riva all'altra con due navi gigantesche.

FOTO DEL TRONO POCO DOPO IL RITROVAMENTO
È il quadro che riemerge dopo il recupero da parte della Guardia di Finanza di una statua monumentale di grande livello qualitativo trafugata, da cui gli archeologi sono partiti per compiere nuovi scavi e rilevamenti nell'area, trovando un nuovo sito e 250 reperti di straordinario interesse.

Statua monumentale, ma ridotta in pezzi, per poterla trasportare con maggiore facilità. Prima dissotterrata dal sito sul lago di Nemi, poi nuovamente sepolta a Isola Sacra. 

I finanzieri che tenevano d'occhio strani e ingiustificati movimenti, hanno rinvenuto i reperti nei pressi di Ostia Antica, in un tir, 
«nascosti da calcinacci e destinati - ha spiegato Rossi - a essere stivati per una destinazione straniera, probabilmente la Svizzera».

DETTAGLIO DEL TRONO
Una volta restaurata, la statua tornerà a Nemi, dove sarà conservata nel Museo delle navi romane (meravigliosi reperti andati distrutti nel 1944). 

Gli scavi hanno riportato alla luce un vasto ninfeo, a forma di ventaglio, con giochi d'acqua e presumibilmente al centro la nicchia con la statua dell'imperatore.

Nel sito sono stati rinvenuti in totale 250 reperti, di cui un centinaio sono frammenti della statua monumentale, a partire dalla testa dove, ha sottolineato la Sapelli, sono riconoscibili i tratti caratteristici della gens Giulio Claudia. 

La parte inferiore del corpo comprende anche il bellissimo 
dettaglio del trono, che da un lato 
lascia intravvedere il cuscino dalle frange pesanti, mentre frontalmente, ecco la decorazione in formelle, contenenti una Nike con vaso, e una fanciulla fiore. 

Altri dettagli sono il ricco panneggio sulla spalla sinistra, lo scettro e forse il globo, che erano i classici attributi degli imperatori quando si facevano ritrarre nei panni di Zeus.

DETTAGLIO DEL TRONO
Le indagini archeologiche stanno cercando di identificare anche il proprietario originario della dimora che ospitava il ninfeo, edificata forse in tarda epoca repubblicana. 

«Probabilmente di un Caio Iulio Siliano, nome che appare sopra una fistula». Dopo il suo insediamento nella villa che fu di Cesare, Caligola potenziò l'intera area, dal Santuario all'annessione di edifici preesistenti. 

La nave palazzo e la nave cerimoniale consentivano all'imperatore di spostarsi da una riva all'altra con la pompa adeguata. 

E nel ninfeo a ventaglio, invece di un fauno, troneggiava la sua raffigurazione in vesti divine, una villa per gli ozi, dove il giovane e folle sovrano, che calzava i sandali degli esploratori, si svagava sul lago.


Martedì 12 Luglio 2011 - 19:51




TROVATA LA TOMBA DI CALIGOLA?

La tomba perduta di Caligola è stata trovata, secondo la polizia italiana, dopo l'arresto di un uomo che cercava di contrabbandare all'estero una statua dell'imperatore romano famigerato recuperata dal sito.

Con molti dei monumenti di Caligola distrutti dopo essere stato ucciso dai suoi pretoriani a 28 anni, gli archeologi sono desiderosi di scavare alla ricerca dei suoi resti.

LE CALIGAE
I funzionari della squadra archeologica italiana di polizia fiscale la scorsa settimana hanno arrestato un uomo vicino al lago di Nemi, a sud di Roma, mentre aveva caricato su un camion parte di una statua alta 2, 5 metri.

L'imperatore aveva una villa su quel lago, come pure un tempio galleggiante e un palazzo galleggiante, alcuni dei loro manufatti erano stati recuperati al tempo di Mussolini, ma distrutti successivamente nella guerra.

La polizia ha detto che la statua aveva un paio di "caligae", gli stivali militari favoriti dall'imperatore.

La statua è stimata a un valore di 1 milione di euro. Il suo raro marmo greco, il trono di Dio e vesti ha convinto la polizia che potesse provenire dalla tomba dell'imperatore. 
Sotto interrogatorio, il tombarolo, di cui non è stata fornite le generalità, li ha condotti sul luogo, dove inizieranno gli scavi oggi.

ARRIA MAGGIORE

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Arria (lat. Arria) maggiore fu una matrona romana, così chiamata per aver avuto una figlia anch'essa di nome Arria, detta appunto Arria Minore. Arria Maggiore fu la moglie devotissima di Cecina Peto (Caecina Paetus) di gloriosa gens etrusca, che morì suicida alla morte del marito. La sua storia, spesso tacciata di essere leggenda, la conosciamo invece piuttosto bene dalle lettere di Plinio il Giovane, che la scrisse dopo aver parlato personalmente con la nipote di Arria, di nome Fannia, nonchè dalla documentazione di Tacito. I due coniugi si amavano molto e Arria era una donna di fortissimo carattere.

"Mi pare che abbia evidenziato le azioni e le parole di uomini valorosi e di donne illustri, alcuni più famosi, altri più importanti. La mia opinione è stata confermata dalla chiacchierata di ieri con Fannia. Questa è la nipote di quell'Arria che fu per il marito di esempio e di consolazione nella morte. Raccontava molte cose di sua nonna non meno importanti di questa, ma meno conosciute; penso che queste saranno per te che leggi tanto ammirevoli quanto lo furono per me ascoltarle. Cecina Peto, suo marito, era malato, e anche suo figlio era malato, entrambi molto gravemente, come sembrava. 


Il figlio, di singolare bellezza, di pari modestia e non meno caro ai genitori che per il fatto di essere figlio, morì.
Ella preparò il funerale e condusse le esequie cosicche il marito non sapesse; anzi ogni volta che entrava nella sua stanza fingeva che il figlio fosse vivo e spesso, se chiedeva cosa facesse il ragazzo, rispondeva: "Ha riposato bene e assume cibo volentieri". Dopo, quando le lacrime trattenute per lungo tempo le sfuggivano, si nascondeva; allora si abbandonava al dolore; ritornava sorridente, con gli occhi asciutti e il viso composto, come avesse lasciato il dolore  fuori. Certamente memorabile l'azione di lei di stringere il pugnale, trafiggersi il petto, estrarre la lama, porgerla al marito e aggiungere parole immortali e quasi divine: "Peto, non fa male!". Ma tuttavia per colei che faceva e diceva queste cose, la gloria e l'eternità si ponevano davanti agli occhi; c'è qualcosa di più grande di trattenere le lacrime, nascondere il lutto e di sostenere a tal punto il ruolo di madre dopo aver perso il figlio senza promessa di eternità, senza promessa di gloria?" 
(Plinio il giovane - Epistole III 16)

Narra dunque Plinio che sia il padre che il figlio di Arria erano afflitti dello stesso male che li inchiodava sul letto e che il figlio morì mentre il marito era ancora molto malato. Temendo che la notizia della morte del figlio potesse togliere al marito la voglia di guarire ella gli nascose la notizia. Pertanto tutto da sola organizzò e fece eseguire il funerale, dicendo al marito che il bambino migliorava ma che non poteva ancora alzarsi dal letto.

Quando sentiva che il dolore stava per strapparle le lagrime, la donna usciva dalla stanza del marito e ritornava quando l'animo suo s'era quietato. Il padre d'altronde le chiedeva continuamente notizie del figlio, a cui ella rispondeva: “Ha dormito e mangiato bene” Così Cecina guarì, ma ebbe la malaugurata idea di partecipare a una congiura.

E' Tacito che ci narra la storia. Cecina ebbe l'idea di associarsi a Scriboniano che, carico di debiti, tentò di spodestare l'imperatore Claudio dal trono, già inviso al senato per la sua stoltezza. Ma per le rivolte occorre denaro e così la rivolta fallì e i rivoltosi vennero puniti. Scribonio venne ucciso tra le braccia di sua moglie, la quale, per evitarsi guai maggiori, fece il nome di altri congiurati, tra cui Cecina. Le ritorsioni furono violentissime, molte mogli vennero giustiziate insieme ai mariti, molti furono strangolati e gettati sulle scale Gemonie, solo ai figli venne risparmiata la vita, che venne risparmiata anche ad Arria in quanto amica di Messalina. Pertanto annientata la ribellione del 42 d.c guidata da Lucius Arruntius Camillus Scribonianus, Caecina fu condotto prigioniero a Roma per aver cospirato con lui.

SCULTURA DI ARRIA MAGGIORE (Lovre)
Arria scongiurò il capitano della nave di portarla via col marito. “Bisogna pure - lei disse - che ad un ex console voi diate degli schiavi per servirlo a tavola, per vestirlo e calzarlo, e questo posso farlo io.” Ma i soldati furono irremovibili, così Arria prese una barca da pesca e seguì la nave fino a Roma. Qui seppe che Cecina era stato condannato a morte, lasciandogli l'onore del suicidio in quanto console romano. Allora Arria attaccò di fronte a tutti la moglie del capo dei ribelli Scribonianus per aver fornito prove al processo, gridando: « Io devo ascoltare te, che puoi continuare a vivere dopo che Scribonianus è morto nelle tue braccia?»

Gli astanti compresero allora che Arria aveva intenzione di suicidarsi e tentarono di dissuaderla. Suo genero, Thrasea, tentò di persuaderla chiedendole se avesse voluto che sua figlia si uccidesse se lui fosse stato condannato a morte. Arria ribadì che se sua figlia fosse vissuta tanto a lungo e felicemente con Thrasea quanto lei stessa aveva fatto con Caecina, avrebbe acconsentito. Da quel momento fu controllata attentamente, ma Arria ribadì che potevano impedirle di suicidarsi come voleva ma non di morire, poi corse a testa in avanti, contro un muro svenendo per il colpo violento. Quando si riprese, urlò: « Vi ho detto che l'avrei fatto nel modo più difficile se mi aveste impedito di farlo nel modo più facile». Allora i parenti accettarono l'inevitabile fine.

Infatti Arria aspettò con Peto l'ultima sua ora, quindi, ai timori del marito, gli tolse il pugnale dalle mani e se lo conficcò nel petto, poi lo estrasse e glielo consegnò proferendo le parole famose: " Paete, non dolet", "Peto, non fa male".

Ma la storia non è finita, anzi si ripete, in quanto anche il marito di sua figlia, Thrasea Peto, Arria Minore, fu condannato al suicidio per aver cospirato contro Nerone nel 66 d.c. Arria, come la madre, mostrò il desiderio di suicidarsi, ma stavolta i parenti riuscirono a dissuaderla. Più tardi venne esiliata da Domiziano (93 o 94 d.c.), ma potè tornare a Roma alla morte dell'imperatore.

Commento:
sicuramente molto innamorata e devota del marito, ma che aveva una figlia se l'era dimenticato. Anche in natura i piccoli vengono prima di tutto, e fra gli umani una madre è tale non perchè ha figli ma perchè ha senso materno. Si possono fare figli senza essere materne, o non avere figli ed essere madri dentro.


FONTANA DI ORFEO

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Via Giovanni Lanza fu aperta nel 1885 per collegare l'Esquilino a piazza Venezia con la demolizione di gran parte del quartiere della Suburra nonchè  rialzo del terreno rispetto al livello originario.
Lo sdoppiamento tra le due arterie ricalca la struttura stradale dell'Argileto ("Argiletum") che, attraversata parte della "Subura", si suddivideva tra il "vicus Patricius" (via Urbana) e il "clivus Suburanus" (via in Selci).
Fin dalla Roma antica la depressa e insalubre Suburra, valle compresa tra il Viminale e l'Oppio, era nota come quartiere popolare e malfamato, con modeste abitazioni e taverne, dove ebbe dimora Giulio Cesare ed antichissimi culti orientali.
Solo nell'età di Augusto la zona venne inserita nei programmi della Roma monumentale: sulle pendici del "Fagutal", propaggine occidentale del colle Oppio, nell'area compresa tra via delle Sette Sale e via in Selci, fu eretto il primo grande edificio di uso pubblico, il portico di Livia (15 a.c.), una grande piazza rettangolare circondata da un doppio colonnato, con fontane agli angoli e un altare al centro; mediante una scalea, uno dei lati era collegato al "clivus Suburanus".

Alla sommità di questa arteria, in prossimità dello sbocco tra via in Selci e piazza S. Martino ai Monti, si trovava una fontana di Orfeo, ricordata in un epigramma di Marziale.
Nella via in Selci, si giunge invece al monastero di S. Lucia con l'annessa chiesa, anticamente (V sec.) detta "in Orphea" proprio per la sua vicinanza alla fontana di Orfeo.



DESCRIZIONE

Nel clivo summo suburbano esisteva la fontana di Orfeo, detta pure Lacus Orphei, un monumento contenuto da due colonne lisce sormontate da capitelli corinzi, con una volta a conchiglia nella parte superiore r un fondo semicilindrico con rilievi di alberi e fronde.
La Fontana gettava acqua da due rivoli laterali, a mezza altezza appena all'interno delle colonne, che si riversavano in una grande vasca semicircolare in basso. Due rivoli uscenti da sotto le erme che facevano da base alle colonne si riversavano invece in due catinelle laterali, dove, per caduta libera l'acqua defluiva nella vasca semicircolare contornata nella parte esterna da alcuni gradini di marmo che la contenevano.

Dalla vasca posta a terra emergevano una specie di rocce su cui si muovevano diversi animali in pose diverse: un cavallo, un lupo, un ariete, un leone, una pantera e forse altro. Il complesso statuario allude al mito secondo cui Orfeo incantava le bestie feroci con la lira trasformandoli in animali mansueti.
Sullo sfondo del ninfeo si stagliava la statua di Orfeo con la sua lira, il berretto frigio, il mantello e una corta veste che scopriva le gambe. La fontana era ornata sopra e ai lati da due corti obelischi, mentre al centro si stagliava l'immagine di Ganimede in atto di essere rapito dall'aquila. Questo ultimo complesso allude forse al mito per cui, una volta perduta l'amata Euridice, Orfeo rivolgesse le sue attenzioni amorose unicamente ai maschi.



LE FONTANE SUCCESSIVE

VILLA MEDICEA DI CASTELLO (Firenze)
Vi si ispirarono diverse fontane, come quella della Villa medicea di Castello in cui si assiste a uno zoo di animali selvaggi e feroci di diverse latitudini sovrastanti una vasca che alloggia in un ninfeo.

 Fu realizzata dal Tribolo, che oltre all'architettura scolpì le vasche, e forse portata a termine da Giorgio Vasari, avvalendosi delle sculture del Giambologna, una piccola parte delle quali, raffiguranti vari volatili, si trova oggi al Museo del Bargello.

Vi si accede da un portale fiancheggiato da due colonne tuscaniche, rivestita di concrezioni calcaree, mentre sul soffitto della prima camera e sull'arco che introduce alla seconda si trovano mosaici policromi a motivi geometrici e figurativi fatti a ciottoli e conchiglie. L'interno è composto da una stanza principale e una seconda più piccola che si apre come un'"abside". Su ciascun lato è presente una fontana comporta da una vasca marmorea sormontata da gruppi di animali in pietre diverse. Al centro della grotta esisteva una statua di Orfeo colla sua lira, Purtroppo la statua di Orfeo che stava sullo sfondo con la sua lira fu tolta, rimossa in epoca imprecisata forse per antipatia ai culti pagani.



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CICONIAE NIXAE

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UN PUNTO DI RIFERIMENTO

Il 15 del mese si celebrava l’ "October Equus". Durante la cerimonia un cavallo veniva sacrificato in un punto del Campo Marzio detto "Ciconiae Nixae", ossia le "cicogne poggiate" oppure le "cicogne appollaiate".  Il calendario di Filocalo osserva che il cavallo prende posto al nixae, un oscuro punto di riferimento, più probabilmente uno altare ad est del Trigarium, forse un altare di Nixi, o del ciconiae nixae.
La vittima sacrificale era l’equino posto a destra della biga vincente in una gara di corsa, cui seguiva una competizione fra gli abitanti della Subura e quelli della Via Sacra per ottenerne la testa.
Se a vincere fossero stati gli abitanti della Subura, la testa sarebbe stata appesa sulla torre Mamilia, fossero stati invece a vincere gli abitanti della Via Sacra avrebbero appeso la testa a una parete della Regia. La coda dell’equino veniva consegnata alle Vestali, che avevano il compito di raccoglierne il sangue, per poi usarlo nelle cerimonie purificatorie di aprile. Questo il rito, ma sul luogo preciso vi sono dubbi..

Le Ciconiae Nixae sono menzionate solo nel catalogo Regionari nella Regione IX proprio in questa forma, mentre sono indicate come Nixas dC nel calendario di Filocalo, e, come Ciconiis de sue (a. 354 id ad ottobre CIL I 2 P332.)  in una iscrizione (CIL VI 31931 = 0,1785).
Si suppone che con questo nome venisse designato un determinato quartiere, probabilmente una piazza aperta, sulla riva del Tevere, in cui c'era una statua, o forse un rilievo su uno degli edifici circostanti, di due o più cicogne con zampe incrociate. Probabilmente era un po 'a sud del Mausoleo Augusti, nei pressi della Piazza Nicosia attuale, e sembra essere stato un approdo per il vino imbarcato (CP 1908, 70-71).

Un gruppo di tre statue in ginocchio (Nixi pl. nixae) o in piedi, stavano davanti al tempio di Minerva sul Campidoglio. Questo gruppo era stato portato a Roma da Manio Acilio Glabrione tra il bottino sequestrato ad Antioco il Grande dopo la sua sconfitta alle Termopili nel 191 ac, o forse dal saccheggio di Corinto nel 146.



DUE PUNTI DI RIFERIMENTO

Il Nixae Ciconiae era un punto di riferimento, o più probabilmente due distinti punti di riferimento, nel Campo Marzio di Roma antica. In un nuovo dizionario topografico della Roma antica, Lawrence Richardson riguarda un solo sito chiamato Ciconiae Nixae come "ipotetico", facendo notare che il soggetto "è stato a lungo dibattuto dai topografi ".
Le due parole peraltro sono giustapposte nei Cataloghi Regionari  e si trovano nella Regione IX vicino al fiume Tevere. Nel calendario di Filocalus del IV sec. si cita vagamente che il cavallo di ottobre annunci il successo "ad nixas", cioè presso il "Nixae ", suggerendo che le "Ciconiae regionaries" dovrebbero essere prese come voce separata. Secondo qualche iscrizione infatti la Ciconiae era un altro punto di riferimento che riguardava le spedizioni di vino sul Tevere.

Tuttavia a Bisanzio tre cicogne in pietra, posizionate a faccia o intersecantesi tra loro, formavano uno dei talismani a protezione della città. Esichio dice che Apollonio di Tiana li aveva installati per spaventare le cicogne reali, incolpate di aver avvelenato l'approvvigionamento di acqua facendo cadere serpenti velenosi nelle cisterne.
La assurda leggenda nascondeva sicuramente un mito più antico, quello della Dea Cicogna o delle tre Dee Cicogne, portatrici di nascite e Nixae erano dette appunto le Dee della nascita, da cui la leggenda che i bambini li portino le cicogne. Nella antica religione romana inoltre, la Nixi di (o Nixi DII), anche nixae, significavano la nascita della divinità. Tanto potere avevano ancora le tre cicogne che al tempo di Esichio ancora erano in auge.
Nixi, anche di Nixi, DII Nixi o nixae, erano le antichissime Dee del parto, chiamate al momento di proteggere le donne in travaglio. Esse venivano rappresentate in ginocchio o accovacciate, le più comuni posizioni del parto nell'antichità. Varrone (I sec. ac) ha detto che enixae era il termine per le donne in travaglio provocato dalle Nixae, che supervisionano le pratiche religiose del parto. Nella iconografia del mito greco del resto, la posa in ginocchio si trova anche in rappresentazioni di Leto (Latona romana) dando alla luce Apollo e Artemide ( Diana ), e di Auge che dà alla luce Telefo, figlio di Eracle.



LE NIXAE CICONIAE SUL TEVERE

Per tutto questo il riferimento unico sembra più convincente, tanto più che connesso al tempio del Sol sull'Aventino c'era un portico (Hist. agosto Aur 35,3.) in cui sono stati memorizzati i dati Procura vina (ib. 48,4: in porticibus templi Solis vina Procura ponuntur), cioè il vino che era stato portato dal Nixae Ciconiae ( CIL VI.1785 = 31.931;.. cf Porticus Gordiani). Diversi grandi magazzini vicino all'isola del Tevere accoglievano infatti una vasta riserva di vino.

Il Nixae Ciconiae si troverebbero dunque nel Campus superiore al di sopra l'ansa del fiume. Le banchine qui offrivano prodotti agricoli sfusi, grano e gli animali per il Forum Suarium nelle vicinanze. I suoi limiti erano costituiti dall'altare di Dite e Proserpina (rinvenuto presso la Chiesa Nuova nel 1888) e il corso del fiume. Per la presenza di fonti calde fu considerato un luogo collegato agli Inferi e fu legato al culto di Dite e di Proserpina.

L'altare della Nixae, entro il Tarento o Terento nella zona generale del Campo Marzio, è stato il luogo del sacrificio annuale del cavallo ottobre, ed era una parte del Campo Marzio, alla sua estremità occidentale, vicino al fiume Tevere. L'altare era probabilmente sotterraneo, come era l'altare vicina Dis Pater e Proserpina.Il Tarentum ha dato il nome ai giochi rituali che vi si trovavano ( ludi tarentini) che sono diventati i Giochi Saecular. Una lunga iscrizione segna in occasione di questi giochi sotto Augusto nel 17 ac e rileva un sacrificio notturna effettuata per il Ilithyis, Eileithyiai , le controparti greche del Nixae come dee di nascita. La frase nuptae Genibus nixae (" spose lavoratrici in ginocchio ") compare due volte in questa invocazione. L'atteggiamento di devozione o riverenza espressa da Genibus nixae o genu Nixa, che potrebbe anche essere tradotto come "in ginocchio", è ricorrente nei testi latini e le iscrizioni.


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HORTI DI DOMIZIA

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A Roma nel I secolo a.c. molti personaggi della fine della repubblica, oltre alle lussuose residenze di città vollero avere un hortus e, intorno al centro di Roma, si creò una fascia di grandi parchi alberati.
Le pendici del Pincio cominciarono quindi a popolarsi di fastose ville verso la fine dell'età repubblicana, con le fastose domus di Scipione Emiliano e di Pompeo, e quella famosa di Lucullo, costruita subito dopo il trionfo nel 63 a.c. su Mitridate, con le immense ricchezze tratte dal bottino.

Gli Horti Luculliani occupavano le pendici della collina pinciana, con una serie di terrazze accessibili attraverso scale monumentali. La parte più alta, a cui si giungeva da una scalinata trasversale a due rampe, apriva una grande esedra, al di sopra della quale vi era un edificio circolare, identificato come un tempio dedicato alla Dea Fortuna.

La parte più importante di questi horti era il giardino, ricco di statue, vialetti, fontane, siepi, balaustre, alberi, ruscelli, esedre e terrazzamenti.




HORTI DOMIZI

"Sull'alto del monte, dietro la Chiesa di S. Maria del Popolo si sono scoperti, nel ridurre quel luogo a pubblica passeggiata, molte sostruzioni di grande fabbricato, oltre a quelle che già si conoscevano e che sostengono quella parte del colle lungo il suo lato settentrionale e per un tratto dell'orientale, facendo ivi funzione di mura della Città. Per la vicinanza al nominato sepolcro della gente Domizia si credettero comunemente queste rovine appartenere agli Horti di tale famiglia.
Secondo Plutarco sarebbero invece gli Horti che Pompeo fece acquistare in suo nome dal suo liberto Demetrio.

L'attribuzione è incerta perchè lì trovasi effettivamente il sepolcro della famiglia Domizia, e spesso negli Horti si ospitavano i sepolcri familiari, però alcuni Horti Domizi si tramanda fossero in Trastevere."

Si sa che Adriano fece costruire il suo mausoleo, oggi  Castel S. Angelo, sopra gli Horti domiziani.
In effetti in epoca romana il territorio dell'odierno rione Prati consisteva in vigneti e canneti facenti parte delle proprietà di Domizia, moglie di Domiziano, da cui la zona prese il nome di Horti Domitii ("Orti Domiziani") e in seguito di Prata Neronis ("Prati di Nerone").

All'inizio dell'età imperiale, magnifiche Villae ed Horti,, cioè domus con immensi giardini, come quelle possedute  da Agrippina, moglie di Germanico e madre di Caligola, detti appunto Horti Agrippinae, e da Domizia, moglie di Domiziano, detti appunto Horti Domitiae, furono ricavati vicino alle pendici del Gianicolo e del colle Vaticano.



DOMITIA LONGINA

Domizia Longina era la figlia di Gneo Domizio Corbulone, grande generale di Nerone, e nipote di Cesonia, quarta ed ultima moglie di Caio detto Caligola. Era sposata al senatore Elio Lamia quando Domiziano se ne innamorò, e dopo l'ascesa al trono la sposò nell'82 d.c., mandandone a morte il marito.

Venuto poi a conoscenza di una sua presunta relazione di Domizia con l'attore Paride, Domiziano mise a morte il presunto amante e costrinse la moglie all'esilio, ma forse fu solo per aver mano libera con un'altra donna. Infatti in quel periodo l'imperatore ebbe una relazione con la nipote Giulia, figlia del defunto fratello Tito, che gli era stata in precedenza proposta in moglie, ma che aveva rifiutato preferendole Domizia.
Dopo la prematura morte di Giulia, Domiziano richiamò dall'esilio Domizia, che rimase con lui fino al suo assassinio.



GLI HORTI SUL TEVERE

Dalla Forma Urbis si nota che gli Horti Domitiani erano davvero sul Tevere, nella zona dove fu edificato il mausoleo di Adriano, ma anche dall'altra parte del Tevere, in una zona chiamata Posterula Domitiae, il che fa presupporre che gli Horti fossero circondati da mura con una posterula, piccola porta, che immetteva a sud, mentre sulla zona del fiume c'erano i porti della Posterula domitiae. La vista sul Tevere fa presupporre horti a terrazzamenti che sicuramente degradavano poi in un porticciolo.

LA FONTANINA

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La "Fontanina", di forma quadrangolare in marmo bianco lunense, fu rinvenuta a Roma nel Giardino Longhi, di Onorio Martino Longhi, l'architetto che all'interno della ricostruzione e riorganizzazione di Trastevere, promossa da Paolo V, progettò il giardino di S. Francesco a Ripa, in vicolo del Muro Nuovo, ora scomparso e un tempo situato nell’area del Lungotevere, non lontano dall’odierno Ponte Garibaldi.

La notizia della scoperta, avvenuta il 9 aprile del 1880, si trova in una pagina di uno dei Registri denominati “Giornali degli oggetti rinvenuti”, conservati nell’Archivio.
Il documento contiene una dettagliata descrizione del ritrovamento ed il disegno del monumento completo di misure.

Risalente probabilmente al II sec. d.c., la "Fontanina"è conservata al Museo Nazionale Romano, nella sede delle Terme di Diocleziano.

Essa presenta quattro facciate decorate nella parte centrale da scalette composte da undici gradini, alla cui sommità si trova la valva di una conchiglia che comunica, attraverso un forellino, con il bacino centrale.

Negli angoli invece sono scolpite a rilievo quattro teste di Oceano (o di divinità fluviali) con la bocca forata per il passaggio dell’acqua e più in basso sono raffigurati geni alati del tipo pompeiano (putti) che cavalcano delfini.

Bibliografia:

Museo Nazionale Romano, "Le Sculture", I, 3, Roma 1979, pp. 208 – 209, inv. N. 860 (Maddalena Cima);
Archivio Storico Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, "Giornali degli oggetti rinvenuti nel Tevere", vol. 233, p. 110 (oggetto n. 1414).


DECIMO GIUNIO GIOVENALE ( 50-127d.c.)

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Nome: Decimo Giunio Giovenale
Nascita: 50 d.c.
Morte: 127 d.c.
Professione: retore e poeta










LETTERA DI MARZIALE A GIOVENALE

«Mentre tu forse ti aggiri inquieto,
Giovenale, per la chiassosa Suburra,
o consumi la collina di Diana signora;
mentre da una soglia all'altra dei padroni
la toga sudata ti sventola e su e giù
per il Celio maggiore e il minore ti schianti le gambe,
me, dopo tanti dicembri, la mia bramata,
Bilbili, superba d'oro e di ferro,
ha accolto e fatto contadino».
………….
«.mi godo lunghi e sfacciati sonni.
 per recuperare quanto ho perduto a Roma
dove per trent'anni non ho mai potuto dormire.
Qui si ignora la toga; se chiedo una veste, mi si dà
la più vicina, da una sedia azzoppata.
E quando mi alzo, mi accoglie il focolare
con una gran bracciata di sterpi del querceto qui accanto,
che la contadina incorona tutto intorno di pentole.
Così mi piace vivere, così mi piace morire».

Decimo Giunio Giovenale (50-127 d.c.) visse al tempo degli imperatori Traiano ed Adriano, tra il I e II sec. d.c.. Nacque ad Acquino, nel Lazio, da una famiglia poco benestante secondo alcuni per cui dovette andare a Roma, diventare clientes e pagarsi così gli studi di retorica,  rivelando ben presto scarso interesse per la filosofia, ma secondo altri la sua famiglia era benestante per cui potè fornirgli, prima ancora di venire a Roma, di tutti gli studi necessari.
Le notizie sulla sua vita sono poche e incerte, ricavabili dai rari cenni autobiografici presenti nelle sue sedici Satire scritte in esametri giunte fino ad oggi e da alcuni epigrammi a lui dedicati dall'amico Marziale. Sembra che venisse adottato da un ricco liberto,  probabilmente soldato prima e poi maestro di scuola, prima di redigere, a Roma e già in età avanzata (forse quarantenne), le 16 "Satire" che compongono la sua opera. Forse esercitò l’avvocatura, ma probabilmente con scarso successo. Non mostra amare, invece, la filosofia.

Poiché nella prima satira, scritta poco dopo il 100 d.c., si definisce non più iuvenis (v.25), quindi almeno quarantacinquenne, la data di nascita deve essere approssimativamente fra il 50 e il 60. Intorno ai trent'anni cominciò forse ad esercitare la professione di avvocato, dalla quale però non ebbe i guadagni sperati e ciò lo convinse a dedicarsi alla scrittura, alla quale arrivò in età matura, circa a quarant'anni.



 IL CLIENS INSODDISFATTO

Visse soprattutto all'ombra di uomini potenti, nella scomoda posizione di cliente, come del resto il suo amico Marziale, ha contatti anche con Stazio e Quintiliano, ma forse questa condizione ebbe anche rovesci di carriera, o per lo meno si creò delle inimicizie. Privo di libertà politica e di autonomia economica fu proclive al pessimismo, ma non fu l'unica causa, perchè Giovanale era piuttosto invidioso di chi aveva successo e il fatto di non riuscire a farsi amicizie lo attribuiva alla sua incapacità di fingere. Pertanto chi sorrideva era un falso, e solo lui era sincero.
Giovenale, di indiscussa bravura, era tuttavia un misantropo e soprattutto le donne che odia apertamente e che pertanto, come i potenti, non saranno state amichevoli con lui. Giovenale odiava i protetti di successo e odiava le donne che avrebbe voluto totalmente asservite ai maschi, inoltre odiava ferocemente gli omosessuali, che denigrano la classe del maschio potente. (forse proprio a causa delle allusioni più o meno esplicite contenute nella sua opera): per questo motivo, a 80 anni, secondo alcuni, sarebbe stato fatto governatore dell'Egitto dall'imperatore Adriano (in realtà, si sarebbe trattato di un esilio). E lì sarebbe morto, di sicuro dopo il 127 (ultimo accenno cronologico rinvenibile nelle sue satire).

Giovenale considerò la letteratura mitologica ridicola, troppo lontana dalla morale corrotta in cui viveva la società romana del suo tempo, così considerò la satira indignata non soltanto la sua musa e l'unica forma letteraria in grado di denunciare l'abiezione della società contemporanea. Del resto nella civiltà che lo attorniava, ebbe in orrore tutto ciò che non è "romano": detestava gli orientali, l'ellenismo, i liberti arricchiti, tutto ciò che, a suo giudizio, sottraeva ai romani le proprie conquiste.

L'eterno rimpianto dei tempi antichi è per Giovenale rimpianto della sopraffazione dell'uomo sulla donna, dei padri sui figli di cui avevano diritto di vita e morte, e soprattutto della condanna agli omosessuali. Ovvero l'omosessualità andava bene solo se esercitata sugli adolescenti, una pedofilia insomma, ma tra pari era molto sconveniente.
Ma Cesare faceva sesso con donne e uomini, e tutti adulti, e Ottaviano che amava solo la sua livia ed era un moralizzatore, considerava Mecenate come un fratello, e Mecenate era omosessuale.



COME PERSIO

Come scrittore di satire, Giovenale è stato spesso accostato a Persio, anche se Giovenale non crede che la sua poesia possa influire sugli altri  perché non ha fiducia nell'uomo, in lui sono connaturate l'immoralità e la corruzione.

I motivi di questo canonico accostamento sono i seguenti:
- entrambi manifestano l'intenzione programmatica di ricollegarsi alla tradizione della satira latina di Lucilio (più che di Orazio);
- entrambi rivestono il ruolo del poeta censore del vizio e dei costumi ed utilizzano le forme ed i toni dell'invettiva: la satira non è più il sorriso condiviso tra poeta e lettore sulle comuni miserie dell'umanità, ma il grido di sdegno del maestro di morale che addita ex cathedra i comportamenti negativi; essi dunque recuperano il rigorismo cinico-stoico, un atteggiamento etico profondamente inviso ad Orazio;
- dal punto di vista dello stile, condividono entrambi il manierismo anticlassico che emerge come reazione al classicismo di regime, rispettivamente augusteo (Persio) e flaviano (Giovenale). La destinazione dei loro scritti è ormai esclusivamente la recitatio, e gli espedienti retorici utilizzati sono studiati e diretti a questo fine;
- sono inoltre sorprendentemente accomunati dalla cronologia relativa alla tematica che trattano: Giovenale scrive dell'età di Persio (quella giulio-claudia), pur vivendo diversi decenni dopo: nella satira 1° afferma infatti polemicamente che parlerà dei morti, non perché i vivi siano meno corrotti, ma perché i defunti non sono in grado di vendicarsi.

Mentre la satira di Lucilio ed Orazio era una conversazione costruttiva, arguta, garbata, ironica verso gli altri e verso se stessi, la satira di Giovenale, come quella di Persio, è irosa, livida e moralista, piena di quella rabbia suscitata dalle aspettative insoddisfatte. Orazio prende nota e in fondo ride della piccineria di certi uomini, Giovenale è rabbioso perchè questi uomini piccini sono stati preferiti a lui.

L'intento moralistico, come in Persio, è una delle componenti più importanti di Giovenale, così come l'astio sociale, perchè nessuno darebbe i giusti onori ai grandi letterati come Mecenate, Virgilio ed Orazio che invece ebbero nel periodo augusteo, perché i tempi sono mutati, e lui è povero e solo.

Questa avversione alle iniquità e le ingiustizie, che lo portò anche a  versi di protesta, interpretata da alcuni come spirito democratico, non fu in favore degli emarginati, che anzi disprezzava come deboli, ma contro coloro che avendo il potere non gli riconoscevano il suo valore. Più che un democratico  Giovenale fu un idealizzatore del passato, quando il governo aveva una sana moralità "agricola".

Negli ultimi anni della sua vita il poeta rinunciò alla violenta indignazione per un atteggiamento più distaccato e indifferente, riavvicinandosi alla tradizione satirica. Le riflessioni diventano più pacate, ma della vecchia rabbia coperta.



LA POESIA E LA RETORICA

« Stulta est clementia, cum tot ubique
vatibus occurras, periturae parcere chartae»
« È stupida clemenza,
in questo brulicare di poeti,
graziare carte condannate al macero »
(Sat. I, 1, 17-18)

Con Giovenale si afferma la seconda corrente sofistica, costituita da autori come Tacito e Giovenale ma anche dai poeti novelli, cioè quelli che riprendevano con un'imitazione manieristica la poesia alessandrina e i neotereoi. Adriano stesso era uno di questi poetae novelli.



PUBBLICAZIONE DELLE SATIRE

Le Satire di Giovenale costituiscono l'unica produzione letteraria giunta ai nostri giorni del poeta latino: 3873 esametri, suddivisi in 16 satire, pubblicate in 5 libri secondo un ordine forse indicato dall'autore stesso:
I:    1-5;
II:   6;
III:  7-9;
IV: 10-12;
V:   13-16.
Divisibili anche in due gruppi:

1-7: componimenti più originali in cui prevale l'indignatio;
6-16: componimenti in cui il tono è maggiormente tradizionale e moralistico;

Dell'ultima satira ci rimangono solo i 60 esametri iniziali. Questa lacuna, presente in tutti i codici deriva sicuramente dalla perdita di una pagina dell'archetipo, secondo Ettore Paratore. Le satire di Giovenale sono l'ultima espressione del genere definito da Quintiliano come romano per eccellenza (satura tota nostra est, Quint. Inst. orat., X, 1, 93), il che tra l'altro doveva convenire benissimo a Giovenale, odiatore dei Graeculi e della loro letteratura e filosofia.

Intorno al 100 Giovenale pubblica la prima raccolta di satire, in età relativamente avanzata se, come sembra ragionevole, era più anziano o coetaneo di Marziale. È il suo momento di sbottare: Semper ego auditor tantum? Dovrò sempre stare solo a sentire? (Sat. I,1).


La Data

Probabilmente la morte di Domiziano nel 96 e anche l'amicizia con Marziale, che gli dedicò diversi epigrammi, lo spinsero ad uscire allo scoperto,  per farsi finalmente ascoltare.
La composizione o la pubblicazione è da collocarsi grazie a poche ma sicure indicazioni cronologiche interne fra il 100 e poco dopo il 127 d.c. Infatti nella Prima satira (che però non tutti gli studiosi ritengono la prima in ordine cronologico) si trova un accenno al processo contro Marco Prisco, proconsole d'Africa ed emulo di L.Verre, mosso da Plinio il Giovane nel 100, mentre un'allusione al consolato di Lucio Emilio Iunco (cos. 127) compare nella quindicesima satira, la penultima:
« Nos miranda quidem, sed nuper consule Iunco
gesta super calidae, referemus moenia Copti. »
« noi invece una strana vicenda, accaduta da poco, quando era console Iunco
narriamo quale avvenne tra le mura della calda Copto, »
(Sat. XV, 5, 27-28)
In base a questo accenno è lecito ritenere che la pubblicazione sia di poco posteriore al 127. Nella stessa satira Giovenale riferisce di una conoscenza diretta dell'Egitto, che è tra i pochi tratti biografici sicuri, ma che probabilmente ha dato origine alla diceria riferita in un breve biografia, probabilmente del IV sec. riportata dal codice Pithoeanus in base alla quale Giovenale sarebbe stato inviato in Egitto in esilio da un potente personaggio offeso da una sua satira, per morirvi poco dopo di crepacuore.
Scrisse comunque fino all'avvento dell'imperatore Adriano e non si sa con certezza la data della sua morte, sicuramente posteriore al 127, ultimo termine cronologico ricavabile dai suoi componimenti.



LO STILE

Giovenale non è snello e scorrevole come quello di Orazio, ma altisonante e magniloquente; si perde il gusto del ridiculum in favore del sublime, con un intenzionale riferimento alla tragedia ("stile satirico sublime"): insomma molto di testa e poco sentito, se non nella rabbia giustificata da un intreccio di moralismi.
Il presunto "realismo" giovenaliano non è la realtà: tutto in lui è esasperato, contorto e grottesco.
L'intento della satira di Giovenale è diverso da quello di Orazio che dà un divertente spaccato della società, e pure di Persiom che intende detrahere pellem, strappare la maschera di perbenismo della società, lo scopo di Giovenale è invece di restituire, o almeno così crede, il senso del male ad una società che ne ha perso la cognizione ed esibisce il vizio come una moda. Per cautelarsi da odi e vendette, attacca in genere le generazioni passate, l'ambientazione abbraccia principalmente l'età giulio-claudia e l'età dei Flavi.
Infine non bisogna dimenticare un altro tratto caratteristico dello stile giovenaliano: la tendenza alla sententia lapidaria ed icastica, che condensa una situazione in un flash di straordinaria efficacia. Gran parte dei "modi di dire" latini di uso comune in italiano proviene da Giovenale ("panem et circenses", "quis custodiet
custodes?", "mens sana in corpore sano", etc.).
Metro: esametro.



LE SATIRE

Tutta la società romana del suo tempo è da Giovenale giudicata e condannata: i figli viziosi dell'aristocrazia, soggiogati dai vizi importati dall'oriente, la plebe si pasce di spettacoli gladiatori e corse (panem et circenses) le donne, piuttosto  che filare la lana nella domus del marito o del padre, sono diventate ninfomani,  come la Messalina/Licisca nella sesta satira.
L'indignazione di Giovenale non è giustificata perchè ai suoi tempi la ricchezza non è più il solo appannaggio dell'aristocrazia dominante ma sorgono nuove classi facoltose di nuove mercanti, liberti compresi, le scuole sono ormai aperte a tutti e la cultura dall'élite senatoria si estendono a nuove aree di popolazione e si arricchiscono della finezza culturale greca, nuove convenzioni sociali e nuove leggi consentono un miglioramento della condizione femminile, ma ciò non piace a Giovenale, che odia la raffinatezza, la cultura greca, le donne e i gay.

Per Giovenale è difficile non scrivere satire per via della quotidiana indignatio, strumento scelto per la denuncia dei vizi degli uomini. Denuncia non rivolta verso individui in particolare, per via della scarsa libertà politica dell'epoca. Giovenale vede lo sfacelo morale dei suoi tempi dove i suoi coetanei vedono l'approssimarsi di una nuova "età dell'oro" dopo la fosca stagione domizianea.
Non crede alla possibilità di un riscatto e rinnega il pensiero moralistico tradizionale che propone, di fronte alla corruzione e al vizio, risposte di carattere filosofico (la posizione del saggio stoico), di morale sociale. Giovenale non solo rifiuta, ma anzi demistifica questa morale consolatoria, che in ultima analisi lascia tutti i vantaggi pratici ai corrotti, riservando alle persone oneste solo il conforto della propria integrità morale: ben magra consolazione, di fronte al piatto vuoto.
Gli oggetti di denuncia sono:

- la realtà;
- il clientelarismo; nella seconda satira parla della salutatio mattutina e della sportula (ossequio al patrono con relativa mancia);
- la corruzione dei costumi; nella terza satire racconta di Umbricio, onesto e povero cliente, che con un discorso lungo e approfondito critica la vita romana attuale e la Roma greca, rievocando il mos maiorum (costume degli antichi) ormai corrotto dalle influenze orientali;
- la futilità dei problemi affrontati dall'imperatore; nella quarta satira narra del dono di un rombo (un pesce) all'imperatore, il quale convoca il consiglio imperiale per decidere come cuocerlo;
- la donna; nella quarta satira fa invettiva contro la donna nel matrimonio;
Nella seconda parte della produzione satarica di Giovenale al posto dell'indignatio subentra il ludus, quindi l'ironia e lo scherno.


Gli argomenti

Libro 1°:

I - Introduzione - contro le declamazioni Il poeta si chiede quanto dovrà sopportare che cattivi poeti e letterati occupino la ribalta, assieme a tutti gli altri corrotti. Il poeta decide di descrivere quel che vede, anche se conviene alla fine con un interlocutore che è più sicuro parlare dei morti. Giovenale sostiene che la sua satira si oppone alle vacue declamationes alla moda e la sua Musa ispiratrice è la dilagante corruzione morale: di fronte allo spettacolo del vizio assunto a sistema di vita è "difficile est saturam non scribere"; se anche la natura si oppone, i versi li fa l’indignazione: si natura negat, facit indignatio versum.
Il perchè se la prenda coi cattivi poeti e non con chi li giudica sembra evidente. Giudicare chi ha il potere è pericoloso.

II - Vengono ora colpiti i viziosi che fingono virtù; poi coloro che mascherano i loro vizi sotto il mantello della filosofia greca. Gli Orientali sono per Giovenale l'estremo della degradazione umana, siano essi Graeculi che sussurrano nelle orecchie dei loro protettori, togliendo spazi ai buoni romani di stirpe rustica (come l'autore) che così sono ridotti alla vita miserabile del cliente, o Egiziani descritti come poco più che bestie, dedite al cannibalismo.
Persino una cortigiana, Larronia, li giudica severamente; almeno lei non nasconde i propri vizi, e le donne perdute, con poche eccezioni, non affettano costumi maschili; ma i pervertiti invece si vestono effeminatamente in pubblico; c'è chi difende cause in vesti trasparenti, chi sposa un suonatore di corno; ma peggio ancora che partecipare ai misteri della Bona Dea, vestito e truccato da donna, è quel che ha osato fare un Gracco, quando è sceso come gladiatore nell'arena. Insomma fustiga l'ipocrisia dei perbenisti e insieme l'omosessualità dilagante, per lui una vera fissazione.

III - caotica e decadente Roma. Un amico del Poeta, di nome Umbricio, lascia Roma resa invivibile dal caos e dalla mancanza di ordine pubblico per stabilirsi in Campania. Alla corrotta, persino pericolosa vita nell'Urbe e la modesta ma sana e virtuosa vita nei piccoli municipi italici. Roma è una città i cui quartieri poveri sono pericolosi e malsani, a differenza delle fastose dimore dei ricchi; beati i tempi che, sotto re e tribuni, videro Roma contenta di una sola prigione.
- In una cittadina assistiamo a una rappresentazione teatrale, col pubblico che assiste rapito, ben diverso dallo smaliziato e schizzinoso pubblico dell'Urbe, e con i maggiorenti confusi e indistinguibili tra la folla.
IV - Uno dei bersagli preferiti di Giovenale, un liberto arricchito, ha speso una somma enorme per una triglia che mangerà da solo. Su questo spunto si innesta la narrazione di una seduta dei consiglieri dell'Imperatore Domiziano (adombrato nella perifrasi calvo Nerone) convocati in gran fretta per decidere della... cottura di un rombo di enormi dimensioni che un pescatore aveva appena recato in dono. La scena termina coi consiglieri che, sempre in bilico sul baratro della disapprovazione, gareggiano in piaggerie.

V - Descrive il disagio dei clientes umiliati alla cena del ricco Virrone attraverso il dialogo con un cliente che, una volta tanto, invece di dover fare la fila per la sportula è stato invitato a cena dal suo patrono; ma anche così, quale differenza fra il cibo che gli viene servito e quello del padron di casa e degli ospiti di riguardo! Al poveretto non è nemmeno permesso dare opinioni sul servizio; i raffinati schiavi che servono il padrone (a lui è destinato un magro africano) lo guardano di traverso. Se solo un dio gli donasse la rendita di un cavaliere, tutto cambierebbe, ma in realtà il patrono fa questo, insinua Giovenale, solo per godersi lo spettacolo delle sue sofferenze.


Libro 2°:

VI - Contro le donne, immorali e viziose. E' la più lunga (occupa da sola un intero libro); un vero saggio di misoginia, mettendo al bando l'immoralità e i vizi delle donne. Per correggere la pazzia di un amico che vorrebbe sposarsi, nonostante Roma offra innumerevoli modi di suicidarsi, Giovenale descrive a quali abissi di corruzione le donne siano ormai giunte, sedotte dagli esempi della malsana letteratura greca e dal desiderio di apparire sofisticate; notevole in particolare la descrizione dell'insaziabile lussuria di Messalina, prima moglie dell’imperatore Claudio, che si  si prostituisce nei bordelli col nome di Licisca, “lassata viris, nondum satiata, recessit” (stanca, ma non sazia, smise) Messalina, definita Augusta meretrix ovvero "prostituta imperiale"
Ma la disapprovazione si estende a tutte le donne che non rispettino il modello ideale della matrona dei tempi della repubblica, quindi anche alle donne troppo colte o desiderose di avere un ruolo nella società.  .
Le descrizioni  di Giovenale sui comportamenti delle matrone romane sono piene di livore, si racconta di avvelenamenti, omicidi premeditati di eredi sia pure i propri figli, gli schiavi maltrattati, e ovviamente tradimenti e leggerezze morali imperdonabili agli occhi di Giovenale. Significativa questa frase pronunciata da una matrona come riassuntiva di quanto esposto: "O demens, ita servus homo est?" ("Oh stupido, così schiavo è l'uomo?")(satira VI,222).


Libro 3°:

VII - La decadenza degli studi, delle arti e della letteratura è legata alla crisi dei costumi: Chi vuol declamare deve affittarsi le sedie per gli spettatori, Stazio deve vendere un suo poema inedito ad un mimo, perché non c'è più un Mecenate. Inutile anche cercare la gloria come storico, avvocato, maestro di declamazione; la sola speranza ormai è nell'intervento dell'Imperatore.

VIII - Tema della nobiltà di nascita e di spirito. La vera nobiltà: nascere titolati non significa essere nobili; quella che conta è la nobiltà dei sentimenti. La nobiltà che risiede solo nella illustre progenie, e non ha da esibire che alberi genealogici o statue di antichi consoli non ha alcun valore; Cetego e Catilina con le loro azioni indegne hanno trascinato la loro famiglia nel fango, e un homo novus senza antenati ha guadagnato gloria imperitura opponendo alla loro corruzione le virtù italiche.

IX - In forma dialogica, un ritratto vivido e umoristico di un povero gigolo, Nevolo,  un omosessuale che si guadagna da vivere soddisfacendo gli appetiti dei ricchi e all'occasione delle loro mogli, che si lamenta del suo destino e anela a un'impossibile "redenzione": in pochi squarci lirici delle satire vediamo una rappresentazione idealizzata ma commossa della vita nei municipia, nelle antiche e un po' dimenticate città italiche come Aquino, sua patria. Si lamenta comicamente della propria condizione soggetta agli sbalzi d'umore dei suoi "patroni", e vagheggia un improbabile mutamento di fortuna.


Libro 4°:

Nel 4° e 5° libro Giovenale assume un atteggiamento più distaccato, pur non rinunciando del tutto alla violenta indignatio, propugna come unici veri beni quelli interiori, quali la virtù, mentre quelli esteriori non sono che apparenza e non portano alla felicità, con uno stile un po' stoico, ma non convince.

X - Sulla insensatezza dei desideri umani. Se quello che chiediamo agli Dèi non ci giova perché continuiamo a chiederlo? Ricchezza e potere sono causa di rovina, come per Seiano, delle cui statue fuse sono stati fatti pitali. La fama di oratore è stata esiziale a Demostene e Cicerone; se questo avesse solo pubblicato i suoi ridicoli versi sarebbe morto di vecchiaia, ma la sua seconda filippica lo ha perduto. Una lunga vita? guarda Nestore e Priamo, vissuti per vedere la rovina della patria o della famiglia. La bellezza che le madri implorano per i figli fu fatale a Lucrezia, a Ippolito, a tanti altri. Solo desiderio lecito è mens sana in corpore sano. Siamo noi a fare dea la Fortuna e l'innalziamo in cielo.

XI -  Il poeta invita l'amico Persico ad una cena in una sua casa in campagna; non si aspetti cibi lussuosi o lusso sfrenato, come presso tanti riccastri di Roma, alcuni dei quali si sono ridotti alla miseria. Cibi sani e gustosi, freschi, serviti da schiavi che non soffrono il freddo e le percosse, non sanno scalcare alla perfezione, ma ti guardano in faccia e capiscono il latino se li interroghi. Niente danzatrici seminude, ma letture da Omero e Virgilio, e piacevoli conversari su chi sia il miglior poeta, poi, dimentichi delle beghe familiari e dei giochi in corso a Roma, un bel bagno di sole e un salto alle rustiche terme, piaceri da godere con moderazione. Ma se Giovenale ama tanto il vivere parco, perchè si arrabbia tanto per il lusso altrui?

XII - Contro i cacciatori di eredità. Il poeta sta per celebrare con un sacrificio la salvezza insperata di un amico naufragato; non certo perché spera di ereditare da lui (ha già tre figli) ma per amicizia. Nessuno ormai conosce questo puro sentimento, tutto si fa per interesse; se c'è una ricca eredità in ballo qualcuno potrebbe arrivare a sacrificare sua figlia, come Ifigenia.


Libro 5°:

XIII - Questa volta si scaglia contro gli imbroglioni. Un amico ha subito una truffa per diecimila sesterzi, Giovenale tenta di consolarlo con una serie di consolidati luoghi comuni; non sa forse che dare denaro al prossimo è pericoloso? guarda nei tribunali, quante cause di questo tenore; e se anche si vince, raramente si recupera il denaro. Per fortuna i sesterzi non erano duecentomila! Chi ruba non crede più agli Dèi, o si convince che non si interessino a lui, ma aspetta che gli capiti un malanno, ecco che lo assale la paura della punizione. il rimorso, non la vendetta, è la prova che gli Dèi non sono ciechi e sordi.

XIV -  Tema dell’educazione dei figli e dell’utilità degli exempla. Giovenale esalta l’educazione che un tempo i genitori impartivano ai propri figli, fondata sull’onestà e sulla parsimonia. Nell’epoca contemporanea invece contano solo i soldi: "nessuno ti chiede donde venga il denaro, purché tu ne abbia". E' la cattiva educazione che i figli ricevono dai genitori tramite l'esempio; perché meravigliarsi se un figlio sperpera il resto del patrimonio che il padre ha quasi dilapidato costruendo ville? La figlia di un'adultera impara l'arte nella stessa casa materna. Sola l'avarizia non si insegna, i giovani non vi prestano orecchio, solo da anziani possono diventarlo.. Però impareranno la disonestà perfettamente e il padre che l'ha inculcata ne farà presto le spese; il padre si premunisca contro il veleno. Al cattivo esempio dei contemporanei è decisamente preferibile la moderazione dei buoni tempi antichi;

XV - Quando il poeta si trovava in Egitto ha assistito ad un terribile conflitto tra due città del Delta in cui uno degli sconfitti è stato sbranato e divorato. Giovenale prende spunto da questo episodio di cannibalismo verificatosi in Egitto nel 127 per attaccare superstizione e fanatismo religiosi; gli uomini dovrebbero sentirsi tutti fratelli, ora invece sono peggio dei serpenti; perché c'è chi non crede a Polifemo e ai Lestrigoni?  Proprio questa satira potrebbe avere originato la notizia del viaggio in Egitto dell'autore ormai ottuagenario.
Avendolo l'imperatore Adriano allontanato da Roma, con il pretesto di un incarico militare, per punirlo di alcuni versi offensivi nei confronti di un suo protetto (forse il bellissimo Antìnoo), pur nell'incertezza della notizia, emerge proprio da questa satira, vv. 43-45, una conoscenza diretta dell’Egitto: "… per la corruzione dei costumi, come io stesso ho constatato, quel popolo barbaro non è inferiore alla famigerata Canopo".

XVI - Giovenale descrive i privilegi della vita militare. E' incompleta. Si tratta solo di un frammento di sessanta esametri in cui il poeta elenca ad un amico, secondo il consolidato schema, i vantaggi della vita militare; il soldato è giudicato nella sua coorte e chi vuole testimoniare contro deve aver coraggio a sfilare davanti a tutti quei soldati. Anche questa satira è alla base delle dicerie circa il presunto incarico militare in Egitto di Giovenale.



L'ESITO

Giovenale non è mai menzionato (con l'eccezione di Marziale) da scrittori contemporanei, o del II e III secolo. La prima menzione come autore è in Ammiano Marcellino, XXVIII,4, 14, attorno al 380. Gli scrittori cristiani apprezzarono il moralismo e l'odio contro la Roma pagana. In generale, dal Medioevo in poi, tutti gli scrittori di satire vi si ispirano (Dante Alighieri lo pone nel limbo delle anime illustri Purg. XXII, 13-15), anche se scelgono il modello di Orazio.

IL GIOVANE GIOVENALE
Rispetto ad Orazio le satire di Giovenale sono molto più veementi, meno controllate per via dell'intensità del contenuto. incontrerà il favore del pubblico nel IV. Ben noto fu anche a Petrarca, agli umanisti, poi ad Ariosto, Parini, Alfieri, Hugo e Carducci.
Bene accolta dal cristianesimo fu pure la sua misoginia. Giovenale odia le donne, in special modo quelle emancipate e libere, a suo dire oscene e spudorate, in parole povere quelle che non lo ameranno mai.

Ma forse ancor più odiata fu l'omosessualità, che Giovenale divide in due categorie, quello che non può farne a meno e quello che lo fa di nascosto. Entrambi sono per lui condannabili, ma il secondo  particolare, perchè può nascondersi ed essere stimato nonostante l'onta. Così il poeta rimpiange l'antico pastore latino non contaminato dai costumi orientali,  contrapposto al molle omosessuale  urbano e raffinato. Ne è talmente scandalizzato che nella seconda satira dice sulle unioni tra omosessuali:
« Liceat modo vivere; fient, fient ista palam, cupient et in acta referri »
« Vivi ancora per qualche tempo e poi vedrai, vedrai se queste cose non si faranno alla luce del sole e magari non si pretenderà che vengano anche registrate. »
(Giovenale, Satira II, vv 135-136.)

Il disprezzo per gli omosessuali chiama in causa anche gl'imperatori Ottone e Domiziano, sfiorando il reato di lesa maestà (satira VII, 90-92) per via del quale si suppone sia stato esiliato in Egitto alla fine della sua vita: avrebbe infatti osato prendersi gioco della relazione tra l'imperatore Adriano e il bellissimo Antinoo, suo amante noto soprattutto per la sterminata quantità di ritratti pervenutici. Tuttavia, la notizia del presunto esilio di Giovenale ci è tramandata da un anonimo biografo addirittura del VI secolo.

E' evidente la paura di Giovenale per le proprie tendenze omosessuali, che, come accade ancora oggi, tanto più si fanno esigenti tanto più devono essere represse violentemente all'esterno, senza poterle riconoscere al proprio interno.

Muore dopo il 127 (termine post quem ricavabile dal riferimento ad un fatto accaduto sotto il consolato di Iunco del 127), ma non conosciamo la data precisa.



SATIRE 3.1 - 20

Anche se sono turbato per la partenza di un vecchio amico,
tuttavia lo approvo per il fatto che ha deciso di stabilirsi nella
solitaria Cuma, e di donare almeno un cittadino alla Sibilla.
Cuma, porta di Baia, è un approdo piacevole, luogo di rifugio
delizioso. Io poi alla Suburra preferisco persino Procida.
Infatti quale luogo, tanto misero, tanto desolato abbiamo visto,
da non ritenere che sia peggio aver timore degli incendi, dei
continui crolli, dei mille pericoli di questa città tremenda, e dei
poeti che recitanto i loro versi in pieno agosto?
Mentre tutta la casa trovava posto su un carro solo, Umbricio si
fermò presso gli archi antichi e l’umida porta Capena.
Qui, dove di notte Numa dava convegno alla sua amica, ora
tempio e bosco della sacra fonte s’affittano ai guidei, i cui unici
beni sono un cesto e del fieno (ogni albero infatti deve pagare la
sua tassa al popolo e la selva, dopo che sono state allonanate le
Camene, è ridotta in miseria); scendiamo nella valle di Egeria e
nelle sue grotte, differenti da quelle naturali.
Come sarebbe più presente la volontà del dio nelle acque, se
l’erba chiudesse ancora con una cornice verde le unde e i marmi
non violassero il tufo nativo.


- E le opportunità di riso universale che lui offre,  le
sottovaluti? Un mantello informe e sdrucito, una toga
sordida come poche, una scarpa col cuoio rotto che  si
slabbra o i margini di tutti quegli strappi ricuciti che
mostrano lo spago or ora usato!
Niente di piú atroce ha la sventura della povertà che
rendere l’uomo oggetto di riso. ‘Vergogna, fuori! via dai
cuscini dei cavalieri chi non ha il censo imposto dalla
legge! il posto è riservato ai figli dei ruffiani, in qualunque
casino siano nati! Qui, tra i rampolli azzimati di  un
gladiatore o di un maestro d’armi, può battere le mani solo
il figlio di un banditore ben nutrito!
’ Cosí piacque a
quell’inetto di Otone che volle segregarci.

- Accade mai che sia ben visto un genero con meno averi e
dote della sposa, qui, fra questi? che un povero sia
nominato erede? o accettato in consiglio dagli edili? Da
tempo avrebbero dovuto i Quiriti in miseria a schiere
serrate migrare. Non è facile che emerga chi alle proprie
virtú vede opporsi la penuria del patrimonio; a Roma poi
lo sforzo è disumano: una casa da miserabili costa
un’enormità e cosí mantenere servi o mangiare un
boccone. Farlo poi con stoviglie di terraglia ci sembra una
vergogna, ma non lo troveresti indegno scaraventato in
mezzo ai Marsi o alla tavola dei Sabini, dove un saio
ruvido e scolorito ti farebbe felice.
Del resto, diciamo la verità, in gran parte d’Italia la toga
s’indossa solo da morti. Persino quando le solennità
festive vengono celebrate in un teatro d’erba e sulla scena
torna una farsa ben nota, mentre tremano i marmocchi in
grembo alle madri per il ghigno livido delle maschere,
vestiti tutti a un modo puoi vederli, dai posti d’onore a
quelli del popolo; e agli edili, come segno dell’alta carica,
 basta una tunica bianca per primeggiare.
Fra noi invece l’eleganza dell’abito è tutto e il superfluo si
attinge a volte in borse altrui. Male comune questo:
viviamo tutti da straccioni pieni d’arie. Ma perché farla
lunga? a Roma tutto ha un prezzo. Per salutare Cosso
qualche volta o perché Veiento, sia pure a labbra chiuse, ti
getti uno sguardo, tu quanto paghi? Chi si rade, chi ripone
la chioma dell’amato e la casa trabocca di focacce  in
vendita: prendile e tienti stretta questa fregatura. Come
clienti, non c’è verso, siamo costretti a versare tributi, ad
aumentare i redditi di servi per benino.


- E qui Umbricio dice:
«A Roma non c’è piú posto per un lavoro onesto, non c’è
compenso alle fatiche; meno di ieri è ciò che oggi possiedi
e a nulla si ridurrà domani; per questo ho deciso di andarmene
là dove Dedalo depose le sue ali stanche, finché un
accenno è la canizie, aitante la prima vecchiaia e a Lachesi
resta ancora filo da torcere: mi reggo bene sulle gambe e
senza appoggiarmi a un bastone: giusto il tempo per
lasciare la patria.
Artorio e Càtulo ci vivano, ci rimanga chi muta il nero in
bianco, chi si diverte ad appaltare case, fiumi e porti,
cloache da pulire, cadaveri da cremare e vite da offrire
all’incanto per diritto d’asta.
Un tempo suonavano il corno, comparse fisse delle arene
di provincia, ciarlatani famosi di città in città; ora offrono
giochi e quando la plebaglia abbassa il pollice decretano la
morte per ottenerne il favore; poi, di ritorno, appaltano
latrine. E perché mai non altro? Sono loro quelli che la
fortuna, quando è in vena di scherzi, dal fango solleva ai
massimi gradi.
Ma io a Roma che posso fare? Non so mentire. Se un libro
è mediocre non ho la faccia di lodarlo o di citarlo; non so
nulla di astrologia; non voglio e mi ripugna pronosticare la
morte di un padre; non ho mai studiato le viscere di rana;
passare ad una sposa bigliettini e profferte dell’amante lo
sanno fare altri, e di un ladro mai sarò complice: per
questo nessuno mi vuole quando esco, come se fossi un
monco, un essere inutile privo della destra.
Chi si apprezza oggi, se non un complice, il cui animo in
fiamme brucia di segreti, che mai potrà svelare?
Niente crede di doverti e mai ti compenserà chi ti fa parte
di un segreto onesto; ma a Verre sarà caro chi sia in grado
di accusarlo quando e come vuole.
Tutto l’oro che la sabbia del Tago ombroso trascina in
mare non vale il sonno perduto, i regali che prendi e con
stizza devi lasciare, la diffidenza continua di un amico
potente.
La gente che piú cerco di evitare, quella amatissima dai
nostri ricchi, faccio presto a descriverla e senza  riserve.
Una Roma ingrecata non posso soffrirla, Quiriti; ma
quanto vi sia di acheo in questa feccia bisogna chiederselo.
Ormai da tempo l’Oronte di Siria sfocia nel Tevere e con
sé rovescia idiomi, costumi, flautisti, arpe oblique,
tamburelli esotici e le sue ragazze costrette a battere nel
circo.
Sotto voi! se vi piace una puttana forestiera con la mitra
tutta a colori! O Quirino, quel tuo contadino indossa
scarpine e porta medagliette al collo impomatato! Lasciano
alle spalle Sicione, Samo, Amídone, Andro, Tralli o
Alabanda, tutti all’assalto dell’Esquilino o del colle che dal
vimine prende nome, per farsi anima delle grandi casate e
in futuro padroni.
Intelligenza fulminea, audacia sfrontata, parola pronta e
piú torrenziale di Iseo, eccoli: chi credi che siano? Dentro
di sé ognuno porta un uomo multiforme: grammatico,
retore, pittore e geometra, massaggiatore, augure,
 funambolo, medico e mago, tutto sa fare un greco che ha
fame: volerebbe in cielo, se glielo comandassi.
In fin dei conti non era mauro, sàrmato o trace quello che
s’applicò le penne, ma ateniese d’Atene.
Ed io? non dovrei evitare la porpora di questa gente? che
prima di me firmi un documento o sul letto migliore alle
cene si stenda chi a Roma è giunto con lo stesso vento che
porta prugne e fichi secchi? Non conta proprio niente,
nutriti d’olive sabine, aver respirato sin dall’infanzia l’aria
dell’Aventino? Adulatori senza pari, questo sono, gente
pronta a lodare le chiacchiere di un inetto, le fattezze di un
amico deforme, a confrontare il collo oblungo di un
invalido con quello di Ercole mentre da terra solleva
Anteo, ad ammirare con voce strozzata che piú stridula
non è nemmeno quella del gallo quando copre la sua
gallina. Adulazioni simili anche a noi sarebbero permesse,
ma a quelli per lo piú si crede. Quale attore infatti meglio
di un greco interpreta Taide, la moglie o Dòride senza un
velo di trucco? Non è un commediante che recita, è una
donna! E giureresti che dal ventre in giú sia tutto una
pianura sgombra con alla fine un’esile fessura.
Antíoco, Stràtocle e Demetrio, con quell’effeminato di
Emo, non sono eccezioni di meraviglia: è tutto un paese di
commedianti. Ridi e lui scoppia a ridere piú forte; vede un
amico in lacrime e lui piange senza provar dolore; ai primi
freddi invochi un po’ di fuoco e lui indossa una pelliccia;
dici che hai caldo ed eccolo che suda.
Troppo diversi siamo, è chiaro: chi notte e giorno senza
posa è in grado di assumere l’espressione dei visi  altrui,
pronto ad applaudire e lodare se l’amico ha ruttato bene,
pisciato senza inciampi o se il pitale d’oro ha rimbombato
finendo capovolto, ha tutto dalla sua.
Aggiungi in piú che niente è sacro o al sicuro dal  loro
cazzo, non la madre di famiglia o la figlia vergine, non il
moroso imberbe o il figlio intatto; e se non c’è di meglio ti
stuprano la nonna.
 [Per farsi temere non c’è segreto che gli sfugga della tua
casa.] Ma lascia perdere le chiacchiere che si fanno ai
ginnasi, visto che parliamo di greci, e ascolta la
scelleratezza di un maggiorente paludato: quel vecchio
stoico intendo, cresciuto sulla riva dove caddero le penne
 del cavallo di Gòrgone, che denunciandolo fece uccidere
Bàrea, discepolo e amico. Dove regna un Protògene,  un
Ermarco o un Dífilo, che per vizio innato non vogliono
amici in comune, ma solo a sé legati, non c’è posto per un
romano. Basta una goccia di veleno, sí, quello di patria
natura, istillato da un greco in orecchie meschine, e subito
vengo messo alla porta, perdendo anni e anni di servizio:
in nessun luogo importa meno disfarsi di un protetto.
Non illudiamoci che l’affannarsi in corse notturne  di un
poveraccio avvolto nella toga abbia rispetto e merito, se un
pretore può scaraventare di brutto il littore a salutare il
risveglio di Albina e Modia, prima che il collega lo preceda
dalle due vedovelle. 




LE MASSIME FAMOSE

- Dovrò io sempre soltanto ascoltare?
Semper ego auditor tantum?


- L'onestà è lodata e muore di freddo.
Probitas laudatur et alget. (I, 74)


- Da ciò le ire e il pianto. (I, 168).
Inde irae et lacrymae.


- Nessuna fiducia nell'aspetto esteriore. (II, 8)
Frontis nulla fides.


- Nei numeri è la sicurezza.
Defendit numerus. (II, 46)


- La critica è indulgente coi corvi e si accanisce con le colombe.
Dat veniam corvis, vexat censura columbas. (II, 63)


- Che cosa farò a Roma? Non so mentire.
Quid Romae faciam? Mentiri nescio. (III, 41)


- Ciascuno ha tanta reputazione
quanti sono i quattrini nella sua cassaforte.


- Quantum quisque sua nummorum servat in arca,
tantum habet et fidei. (III, 143-144)


L'amara povertà non ha in sé nulla di più crudele
del fatto che rende ridicoli gli uomini.
Nil habet infelix paupertas durius in se
quam quod ridiculos homines facit. (III, 152-153)



- Non è facile emergere per coloro alle cui virtù è ostacolo la scarsezza dei mezzi.
Haud facile emergunt quorum virtutibus obstat res angusta domi. (III, 164)


- Tutti qui viviamo in una condizione di ambiziosa povertà. (III, 182-183)
Hic vivimus ambitiosa | paupertate omnes.


- A Roma tutto | ha a un prezzo.
Omnia Romae | cum pretio. (III, 183-184)


- Un uccello raro sulla terra, e in tutto simile a un cigno nero.
Rara auis in terris nigroque simillima cycno. (VI, 165)


- Ma chi farà la guardia ai guardiani stessi?
Sed quis custodiet ipsos custodes? (VI, 347-348)


- Nulla è più insopportabile di una donna ricca. (VI, 460)
Intolerabilius nihil est quam femina dives.


- Un uomo fortunato è più raro di un corvo bianco.
Felix ille tamen corvo quoque rarior albo. (VII, 202)


- Tutti desiderano possedere la conoscenza, ma relativamente pochi sono disposti a pagarne il prezzo.
Omnes discere cupiunt artem oratoriam, sed nemo magistris vel rhetoribus debitam dignamque laboris molestissimi mercedem vult solvere. (VII)


- La virtù è la sola e unica nobiltà. (VIII, 20)
Nobilitas sola est atque unica virtus.


- Pane e giochi.
Panem et circences. (X, 81)

- Animo equilibrato in un corpo sano.
Mens sana in corpore sano. (X, 356)


- Nessun colpevole può essere assolto dal tribunale della sua coscienza. (XIII, 2-3)
Se | iudice nemo nocens absolvitur.


- Un uomo subisce una pena infamante per un crimine che ad un altro conferisce una corona. (XIII, 105)
Ille crucem sceleris pretium tulit, hic diadema.


- La vendetta è il piacere abietto di una mente abietta. (XIII, 190-191)
Semper et infirmi est animi exiguique voluptas | ultio.


- Il bambino ha diritto a tutto il rispetto.
Maxima debetur puero reverentia. (XIV, 47)


- Quanto più i quattrini aumentano, tanto più ne cresce la voglia.
Crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit. (XIV, 139)


- La natura, dando le lacrime al genere umano, attesta di averlo dotato
anche di un cuore facile alla commozione.


- Questa è la parte migliore della nostra coscienza.
humano generi dare se natura fatetur,
quae lacrimas dedit. Haec nostri pars optima sensus. (XV, 131-133)

- Chi abbraccerebbe la virtù per se stessa, se anch'essa non riservasse dei vantaggi?


- Coloro per i quali l'unica gioia consiste nel mangiare possono dare soltanto quell'unico, bestiale significato alla propria esistenza.


- È pura follia fare una vita da poveraccio per essere ricco quando morirai.


- I giovani sono tutti diversi tra loro; i vecchi, invece, si assomigliano tutti.


- Il viaggiatore con le tasche vuote al ladro canterà in faccia.
- In molte case un amante ha salvato un matrimonio in crisi.


- Le lacrime delle donne sono solo sudore degli occhi.


- L'infelice povertà nulla ha in sé di più doloroso, che l'esser esposta ai motteggi degli uomini.


- Molti individui, come i diamanti grezzi, nascondono splendide qualità dietro una ruvida apparenza.


- Nessuno ha mai raggiunto gli abissi della malvagità tutti in un colpo.


- Questo voglio, così comando, che il mio volere valga da ragione.


- Se vuoi gustare veramente un piacere, conceditelo raro.


- Una moglie perfetta, bella, elegante, ricca, feconda, di buona famiglia e di ottima moralità ­ ammesso che esista ­ sarebbe insopportabile per chiunque. Quale nobiltà, quale bellezza, quale virtù valgono tanto da sentirsele rinfacciate di continuo?

- Puoi vedere il figlio di gente libera scortare lo schiavo di
un ricco; e un altro regalare a Calvina o a Catiena quanto
incassa un tribuno di legione, per godere di loro una o due
volte; ma tu, se ti arrapa il faccino di una puttana in
ghingheri, ti blocchi ed esiti a far scendere Chione dal
trono.


- Produci a Roma un testimone degno di chi ospitò la dea
dell’Ida, si mostri Numa o chi dal tempio in fiamme salvò
l’atterrita Minerva: prima s’indagherà sul censo, per ultimo
sulla moralità. ‘Quanti schiavi mantiene? quanta terra
possiede? con che numero e ricchezza di piatti cena?’

- Ognuno gode di fiducia pari al denaro che serra in
cassaforte. 


- Su tutti gli dei puoi giurare, di Samotracia o nostri, l’idea è
che un povero, snobbato dagli stessi dei, non tenga conto
delle folgori divine.
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