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VIA LATINA

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PARCO ARCHEOLOGICO DELLE TOMBE DI VIA LATINA

La via Latina risale addirittura alla preistoria; il tracciato originario partiva grosso modo dall'isola Tiberina, (unico guado nel basso corso del Tevere), lasciato il Circo Massimo e superate le mura a porta Latina, la strada correva nella zona dove ora si trova il Parco delle Tombe della via Latina, che conserva diversi sepolcri,
Questa via naturale tra la valle del Tevere e la Campania era già in uso in età neolitica (circa 2500-1700 a.c.), e proprio perchè così antica non porta il nome del costruttore, con un tracciato definitivo tra il IV e il III sec. a.c. ma già percorsa dagli etruschi per colonizzare la Campania tra i secoli VIII e VI a.c.

Nel V sec. a.c. la potenza etrusca era però in declino, e così le popolazioni sannitiche si impadronirono della zona impedendone il transito; ma un secolo più tardi i Romani, che percorrevano quel tracciato sin dai primissimi tempi per commerciare con i popoli che abitavano a Sud, riuscirono a sottomettere Volsci, Ernici ed Equi, a garantirsi l'alleanza con Capua (340 a.c.) e a sciogliere la Lega Latina (338 a.c.), divenendo i padroni del Lazio meridionale. La regione così conquistata venne chiamata "Latium Novum" o "Adiectum", a differenza del "Latium Vetus", che era la regione della valle del Tevere fino a Segni.
Subito dopo Roma diresse le proprie mire espansionistiche più a Sud, affrontando le guerre sannitiche per la conquista della Campania e della Lucania; per questo motivo tra il 328 ed il 312 a.c. l'antica strada fu potenziata; la tecnica del basolato non era però ancora diffusa, per cui venne realizzata in ghiaia e terra battuta.

TRATTO PRIMA DI PORTA LATINA
A questa via, nel 312 a.c., se ne aggiunse una nuova, che attraversava la pianura pontina; la strada nuova prese il nome di via Appia dal costruttore Appio Claudio poi detto Cieco, mentre la vecchia (che esisteva prima della fondazione di Roma) fu chiamata semplicemente via Latina perché attraversava il territorio abitato dai popoli latini.

La Via Latina usciva da Roma appunto da Porta Capena, assieme alla Via Appia, vicino al Circo Massimo, in direzione sud-est per circa 200 km. Le due vie si separavano molto presto tanto che nelle Mura Aureliane ebbero ognuna una porta propria, Porta Latina e Porta Appia (poi Porta San Sebastiano).

Comunque deve aver preceduto la Via Appia come itinerario verso la Campania, poiché la colonia latina di Cales è stata fondata nel 334 a.c. e doveva essere accessibile da Roma per una strada, mentre la Via Appia è stata realizzata solo ventidue anni più tardi. Inoltre aveva un tracciato più semplice da costruire di quanto non sia occorso ingegneristicamente sia occorso per la via Appia. Nella parte iniziale ha senza dubbio preceduto la Via Labicana, anche se questa fu preferita in seguito.

PORTA LATINA
La via, larga quasi 4 m, portava quindi al passo dell'Algido (altezza 560m), che delimitava i Pratoni del Vivaro, dove Algido fu un avamposto degli Equi, alleati dei Volsci contro Roma, sin dal V sec. a.c. Saliva quindi verso Grottaferrata mantenedosi lievemente sulla destra dell'odierna Anagnina; qui se ne può individuare il percorso grazie ai ruderi dei sepolcri, tra cui quello nei pressi di Villa Senni al X miglio e quello di Metilio Regolo presso il ponte del bosco di Grottaferrata; sempre al X miglio si trovano gli interessanti resti archeologici della località Vicus Angusculanus, che poi venne chiamata ad decimum per via della presenza della pietra miliare relativa al decimo miglio della via Latina.

Successivamente la strada coincide con l'attuale Anagnina che dopo l'incrocio per Frascati, Grottaferrata e Rocca Priora cambia nome in Tuscolana; l'antica via Latina passa quindi sotto al Tuscolo; in località Molara nei pressi di Rocca Priora è stato portato alla luce un tratto dell'antica via visibile in uno slargo al centro della moderna via Tuscolana.

TORRE DELL'ANGELO
Poi oltrepassava i Colli Albani e riscendeva lungo le valli del Sacco e del Liri, nello stesso percorso della ferrovia che va a Napoli via Cassino, e rasentava in pianura le città collinari degli Ernici: Anagnia, Ferentinum, Frusino, etc.

A Fregellae scavalcava il Liris e poi attraversava Aquinum,di cui costituiva il Decumanum maximum, dalla Porta Romana e ne usciva dalla Porta Capuana, poi detta anche di San Lorenzo per la presenza nei pressi di una piccola chiesa dedicata al Santo, e proseguiva per Casinum e appunto per Capua. Oggi tracce della via Latina ad Aquino sono evidenti nelle tante basole disperse per ogni dove; nelle pareti dei vecchi casolari, nei muri a secco che costeggiano tante strade delle città, lungo viottoli e nei campi. La traccia principale però è un lungo tratto molto ben conservato che va dalla Porta Capuana al ponticello "sui laghi". 

Recentemente riportata alla luce dopo che nei primi anni ’50 vi furono scaricati centinaia di mc di terra di riporto, per la costruzione della via asfaltata che ora le corre accanto, costituisce chiara e suggestiva testimonianza di cosa fossero le vie consolari. Il tratto in questione è lungo circa 300 m ed è affiancato dai ruderi della chiesetta di San Tommaso, senza più tetto e con la parete di fondo crollata. Anche qui sono incorporati tra le mura notevoli frammenti di templi romani. 

DIMENSIONI DEGLI ACQUEDOTTI
Proprio di fronte, nel giardino di una casa privata, è posto il miliario LXXIX (79 da Roma). Su un lato vi è l’iscrizione 
"C(aius) Calvisius C(ai) f(ilius) Sabinus"
il console che probabilmente restaurò la via Latina nel 39 a.c.. Sul lato opposto c’è il nome Vespasiano e l’anno 77, forse quando ci fu un altro restauro della strada. Sempre di fronte ai ruderi della chiesetta di San Tommaso, c’è oggi una strada da poco realizzata che ricalca il tracciato di una piccola via che la tradizione afferma chiamarsi "degli orefici" forse per la presenza di botteghe. Durante la sua costruzione sono venute alla luce numerosissimi reperti di vario genere che sono stati riutilizzati per creare un suggestivo muro "archeologico" lungo la stessa via. All’inizio di questa strada, si notano le tracce di una stanza d’abitazione quasi sicuramente d’epoca romana.



LE VARIANTI

Pressoché parallela all’Appia che costeggiava il Tirreno, la Via Latina vi si riuniva appunto a Capua, dopo aver attraversato la Valle del Liri. Uscendo da Porta Capuana, scendeva in maniera alquanto ripida verso i cosiddetti Laghi attraversando un ponte e poi risaliva lungo un ripido pendio.

Quindi passava nel varco fra gli Appennini ed il gruppo vulcanico di Rocca Monfina ma la strada originale, invece di attraversarlo, girava bruscamente all'altezza di San Pietro Infine verso nord-est sopra le montagne verso Venafrum, mettendo così in comunicazione diretta con l'interno del Sannio e, tramite altre strade, con Aesernia, Cubulteria, Alifae e Telesia.

In seguito, tuttavia, ci fu con ogni probabilità la creazione di una variante, tra Rufrae (l'attuale Presenzano) e l'attuale San Pietro Infine, che abbreviava il percorso e che seguiva l'attuale percorso dell'autostrada e della ferrovia Napoli-Roma. I due tracciati si ricongiungevano vicino alla attuale stazione ferroviaria di Caianello e la strada portava a Teanum, Cales ed a Casilinum, la moderna Capua, dove attraversava il Volturno e si immetteva nella Via Appia.

ACQUEDOTTO CLAUDIO
La distanza fra Roma e Casilinum era di 129 miglia con la Via Appia, 135 con la vecchia Via Latina passando per Venafro, e di 126 passando per la variante di Rufrae. Resti considerevoli della strada esistono nelle vicinanze di Roma; per le prime 40 miglia, fino a Compitum Anagninum, non è seguita da alcuna strada moderna, mentre in seguito il percorso è sostanzialmente lo stesso dell'autostrada.

Il tracciato della via subì, durante tutto il III sec. a.c., uno straordinario lavoro di rettificazione, lavoro reso ancor più complesso dalle notevoli asperità del terreno; basti pensare che il tratto da piazza Galeria fino a Grottaferrata è un unico rettifilo di ben 15 km, comprendente persino un viadotto alto 7 metri dove la strada incontrava il fosso dei Cessati Spiriti.
Gli ingegneri romani anticiparono di fatto il criterio delle moderne autostrade: arrivare il più rapidamente possibile alla meta finale (Capua), tralasciando le città che erano lungo il percorso.
Anagni, Frosinone, Cassino ecc. erano collegate alla via Latina attraverso diramazioni, così come avviene oggi con l'autostrada del Sole.
Il percorso complessivo della via Latina, da Roma a Capua, era lungo in origine 147 miglia (15 in più rispetto alla via Appia costruita da Appio Claudio), ma fu progressivamente rettificata fino a misurare 129 miglia (circa 191 km), addirittura tre miglia in meno rispetto alla via Appia; il cammino poteva essere effettuato da un viaggiatore comune, a piedi, in cinque giorni.

ACQUEDOTTO FELICE

Il percorso della via Latina, nonostante non abbia conservato lo stesso nome, oggi è ripercorso pari pari dalla Statale Casilina, e più recentemente dall’Autostrada del Sole. Dal punto terminale del percorso, Casilinum, nasce il nome medioevale della strada, Via Casilina. Alcuni tratti dell'antico tracciato sono ancora visibili nel parco degli acquedotti a Roma, all'altezza degli studi di Cinecittà e vicino all'Acquedotto Claudio.




I RITROVAMENTI


PARCO ARCHEOLOGICO DELLE TOMBE DI VIA LATINA

E' uno dei complessi archeologici di maggior rilievo dei sobborghi di Roma che conserva ancora intatto l’aspetto tradizionale dell’antica campagna romana, situato poco oltre l’incrocio tra Via Appia Nuova e Via dell’Arco di Travertino. Vi si conservano un tratto di circa 450 m dell’antica Via Latina, ancora pavimentata per un lungo tratto dell'antico basolato in selce, e su entrambi i lati numerosi monumenti funebri. La scoperta e gli scavi dell’area sono stati eseguiti tra il 1857 ed il 1858 da Lorenzo Fortunati, un insegnante appassionato d’archeologia. 


TOMBA DEI  VALERI
- Subito dopo l’ingresso, sulla destra della strada, si trova un sepolcro a dado di cui rimane il nucleo in calcestruzzo e tufo,

completamente spogliato dei suo originario rivestimento in marmo o travertino, con la targa
della scoperta del sito ad opera di Fortunati e dei successivi scavi intrapresi per volere di papa Pio IX.Sulla targa è inciso:

PIO IX PONTIFICI MAXIMO
XII KAL(endae) MAI(ae) AN(nus) CHR(isti) MDCCCLVIII...

Pio IX Pontefice Massimo
il 20 aprile dell'anno del Signore 1858.
Lo scopritore Lorenzo Fortunati,
devoto alla Sua Divinità e Maestà,
abile ricercatore,
la Basilica di Stefano Protomartire
di cui nei secoli sopravvisse il solo nome,
la via latina, sepolcri, colombari, cimiteri
e il resto di monumenti mozzati
tutti preservati dalla terra e portati alla luce del sole.

L’interesse del Papa fu conseguenza del rinvenimento della Basilica, il ché portò inevitabilmente all’estromissione del Fortunati dagli scavi nella zona dopo una breve disputa legale tra questi ed il papato, in quanto Fortunati cercò di far valere le leggi dell'epoca che gli davano tutti i diritti sui ritrovamenti; l’apposizione della lapide "a memoria" dei suoi primi scavi già l'anno successivo alla scoperta resero chiaro che i ritrovamenti dell'archeologo erano "storia" ma nulla di più avrebbe ottenuto.

- Il secondo monumento sulla destra della via è il Sepolcro dei Corneli o Barberini, così chiamato per la famiglia aristocratica ultima proprietaria dell’area, anche chiamato Sepolcro dei Corneli da una epigrafe oggi scomparsa ma riportata in un disegno del 1600 di Pirro Ligorio e riportante il nome L. Cornelius. I Barberini furono una ricca e potente famiglia originaria della Toscana che raggiunse l’apice del potere con Maffeo Barberini che dal 1623 al 1644 fu Papa Urbano VIII; furono fra i principali finanziatori delle splendide opere della Roma Barocca; purtroppo per i loro scopi saccheggiarono le opere dell’antichità, da cui il detto "ciò che non fu fatto dai Barbari fu fatto dai Barberini".  
Databile intorno al 160 d.c. presenta due piani sopraterra e una camera sepolcrale sotterranea, circondata da un corridoio, utilizzato anch’esso per sepolture e pavimentato a mosaico. All’esterno si conservano decorazioni architettoniche fittili in origine dipinte. L’interno era coperto da volte affrescate e stuccate. Si tratta di un sepolcro a Tempietto in laterizi policromi della seconda metà del II sec. d.c., con la virtuosa tecnica raggiunta nell’utilizzo del mattone, con mattoni rossi utilizzati per realizzare le mura e le semicolonne e mattoni gialli utilizzati per realizzare i capitelli corinzi le architravature che avvolgono l’edificio e le cornici delle finestre e della porta.
La camera sotterranea seminterrata è accessibile dall’esterno dell’edificio e prende aria dalle strette feritoie poste alla base del monumento; in questa camera venne rinvenuto il sarcofago "Barberini" raffigurante il mito di Protesilào e Laodamìa conservato ai Musei Vaticani; il piano terra ha l’ingresso sul lato dell’edificio opposto alla strada e dal piano terra si accedeva al primo piano tramite delle scalette interne di cui restano tracce sulla parete cui erano addossate; restano tracce del pavimento a mosaico del piano terra mentre il solaio del primo piano fu abbattuto nell’ottocento per utilizzare la struttura come fienile; restano tracce degli intonaci che ricoprivano le pareti interne e la volta a crociera del secondo piano.

- Poco dopo il sepolcro Barberini, sul lato sinistro della via si trova il sepolcro Fortunati, con una struttura a pianta quadrata e camera sepolcrale sotterranea, a cui si accedeva dalla via Latina tramite una scala a due rampe di gradini che conservano ancora tracce del rivestimento in lastre di marmo. Il sepolcro presenta una camera funeraria, coperta da volta a crociera, con nicchie per le olle cinerarie nelle pareti che presentano tracce di pitture con elementi vegetali e animali.

TOMBA DEI CORNELI
- Sepolcro a pilastro
Più avanti sulla strada si trovano altri resti minori di sepolcri tra cui sulla sinistra il nucleo in opera cementizia di un sepolcro a pilastro spogliato del suo rivestimento.

- Proseguendo sul tracciato della via Latina, che conserva in alcuni punti la pavimentazione basolata, sul lato destro si trova il Sepolcro dei Valeri, la cui struttura in elevato attualmente visibile fu costruita alla fine dell’800 impostandosi sulla muratura originaria al fine di salvaguardare gli intonaci e gli stucchi della camera sotterranea. L’edificio, in laterizio e databile all’inizio del regno di Marco Aurelio (160-170 d.c.), era preceduto da un ingresso monumentale. 
La parte superiore del sepolcro, destinata alle cerimonie e ai banchetti funebri, è stata completamente ricostruita tra il 1859 e il 1861. L’ingresso, anch’esso ricostruito, presenta due colonne di cui quella originale in marmo cipollino; accanto due scale conducono alla camera funeraria, formata da un atrio e da due camere opposte, entrambe coperte da volta a botte riccamente decorata con stucchi raffiguranti menadi, satiri, nereidi, animali marini fantastici, figure danzanti e una figura femminile velata, trasportata da un grifone, che simboleggia l’anima del defunto. 
Attorno al sepolcro sono i resti di una stazione di posta (mansio); si intuisce quale fosse lo spazio destinato al marciapiedi; si noti il passo carrabile realizzato all'ingresso della stazione di posta tra le due basi delle colonne, alla sinistra dell'ingresso alla tomba. All’ingresso dalla strada si notano le basi di due colonne che probabilmente sorregevano due statue e il selciato della strada che entra nell’area della stazione a realizzare una sorta di passo carrabile. Sul fianco e sul retro del sepolcro sono state rinvenute due cisterne per l’acqua ed una piscina con pavimento in mosaico; Il fatto che la stazione di sosta sorgesse a fianco al monumento funebre non deve apparire strano; probabilmente gli stessi proprietari della stazione di sosta avevano dato in concessione l’uso del loro terreno per costruire il sepolcro e si occupavano della manutenzione dello stesso.

- Sul lato destro della via poco prima della fine del Parco, si staglia la facciata del cosiddetto sepolcro Baccelli, tutto ciò che rimane di una tomba che era rimasta integra nell’alzato fino al 1959, quando crollò gran parte dell’edificio.
La struttura a tempietto del II secolo d.c., ha due piani in laterizio con cornici, mensole ed architrave decorati, il piano terra per i riti funebri e una parte sopraelevata, e due camere funerarie sotterranee, attualmente non accessibili. Il sepolcro fu utilizzato nel XVI sec. come chiesa; di questo si conserva ora solo la facciata, essendo il resto crollato nel 1959.

INTERNO DELLA TOMBA
- Di fronte al Sepolcro dei Valeri si trova il Sepolcro dei Pancrazi, tomba in opera reticolata con ricorsi in laterizio, del tipo a tempietto, collocabile in età adrianea (117-138 d.c.) così chiamato per il riferimento all’iscrizione che cita il collegio funerario dei “Pancratii”, posta sulla fronte di un sarcofago di coniugi all’interno della prima sala ipogea. L’ambiente all’altezza del piano di calpestio, diviso in due camere, presenta dei pavimenti a mosaici in bianco e nero con scene marine, di epoca più tarda.
Di questo si conserva la sola camera sotterranea; venne scoperta dal Fortunati e per questo è arrivata a noi ancora integra; ma l’accesso creato dal Fortunati a provocò anche l’ingresso dell’acqua che aveva cominciato a distruggere i fregi della camera; per questo è stato costruito nell’ottocento l’edificio che ora portegge il sito. 
All’interno della camera vennero rinvenuti svariati sarcofagi (otto?); uno di questi riporta la scritta Pancratii, che ha dato il nome al sepolcro; questo sarcofago, del tipo strigilato e databile al III-IV secolo d.c., è ancora nel sito in quanto venne posto lì prima di costruire il sepolcro, ed è troppo grande per poter passare attraverso i varchi della camera, tanto che gli stessi ingegneri vaticani rinunciarono a portarlo via; gli altri sarcofagi si trovano ai Musei Vaticani.
Il pavimento della camera sepolcrale è in mosaico bianco e nero; lo stesso pavimento fu posto in opera con il sarcofago "inamovibile" già presente come si deduce da alcuni difetti nella messa in opera; i reperti più interessanti del sito riguardano gli stupendi stucchi ed affreschi della volta a crociera e della parte superiore delle pareti della camera.

La volta a crociera della camera è decorata con pitture e stucchi policromi, in buono stato di conservazione, raffiguranti diversi episodi mitologici. Completano la decorazione moltissime figurine di animali, satiri, menadi, amorini ed elementi vegetali. La ricchezza della decorazione e dei sarcofagi presenti nel sepolcro ha fatto ipotizzare che questo fosse di proprietà di personaggi di alto rango.

- Sulla sinistra accanto al sepolcro dei Pancrazi si trova il sepolcro Circolare di cui si conserva la sola parte sotterranea.
- Ultimo sepolcro visibile al lato sinistro della strada è quello dei Calpurni: racchiuso entro un recinto, è composto da un’unica camera sotterranea, coperta da una volta a crociera, che conserva tracce dell’originario rivestimento in intonaco e stucco; sul muro si aprono arcosoli per ospitare i sarcofagi.

- Villa di Demetriade e Basilica di Santo Stefano Protomartire
Nell’area alle spalle del sepolcro dei Pancrazi emergono i resti di una grande villa realizzata alla fine del I secolo d.c. e abitata sino agli inizi del VI sec. quando Demetriade, discendente della famiglia degli Anicii, fece erigere in un settore della villa una basilica dedicata a S. Stefano Protomartire, meta di pellegrinaggi ancora sino al XIII secolo, i cui resti sono tuttora parzialmente visibili.

La villa, scavata dal Fortunati e poi reinterrata; venne parzialmente distrutta dalla costruzione di un campo di calcio nel 1964; era disposta su terrazzamenti successivi del terreno e se ne conservano pochi resti quali le murature di un’ampia cisterna; moltissimi reperti quali pezzi di stucchi e statue sono stati portati ai Musei Vaticani. La villa risale al I - II secolo d.C. con successive ristrutturazioni; intorno alla metà del V secolo la proprietaria del complesso Demetriade, in accordo con il papa Urbano IV, vi costruì la Basilicadedicata a Santo Stefano Protomartire e dedicò quindi la villa a luogo di culto cristiano.Della Basilica posta al centro della villa si conservano discreti resti: il battistero, l’abside dietro l’altare, la camera al di sotto dell’altare e resti delle colonne a capitelli corinzi delle tre navate; al momento è possibile vedere il sito da via di Demetriade, dall'esterno del parco.



TRA VICOLO MANDRIONE E TUSCOLANA

Nei disterri occorsi per la costruzione della ferrovia de' Castelli romani, fra il vicolo del Mandrione e la Tusculana, attraverso il giruppo dei grandi acquedotti, sono avvenuti ritrovamenti di importanza non comune.

VIA DEL MANDRIONE
Scendendo da ponente verso oriente, ossia in direzione della città, s'incontrano da prima i piloni della Claudia e dell'Amene Nuovo, dei quali sono state ritrovate le fondamenta in opera quadra di sperone, con sustrato di opera a sacco. Queste fondamenta, sfiorate di sbieco dal taglio per la ferrovia, rimarranno visibili sull'una e sull'altra scarpata. 
Segue, a contatto delle arenazioni, ma dalla parte di oriente, un'antica strada, ben selciata a pentagoni basaltini, e profonda m. 1,30 sotto l'odierno piano di campagna. La strada è larga m. 3,80, corrispondenti a  13 piedi, e segna la zona di servitù dell'acquedotto. Nell'intervallo fra la strada e le arcuazioni della Marcia, Tepula e Giulia, che è largo m. 26,40, furono dissepolte sei tombe a cassettone, coperte alla cappuccina con tegoli battentati, marcati quasi tutti col noto bollo: 
OP DOL EX PRAED LVCILL VERI ■/////// (I),
salvo uno che porta l'impronta rotonda :
EX PRAED AVGVSTOR OPVS DOL
sic EX FIO OCFANIS HERMETIANI
sic ET VRIBCI
Gli scheletri uon avevano distintivo di sorta, né lucerna né ampolla, né moneta.

Segueno i piloni della Marcia, Tepula e Giulia, uno dei quali, non era altrimenti visibile prima di questi lavori ferroviari. Sarà mantenuto nella scarpata a destra. Consta di soli tre ordini di pietre poggiate sul suolo vergine. Alla distanza di 200 m, sempre verso levante, si è scoperta nel fondo della trincea la sommità di uno speco ampio e ben costruito. Può essere quello dell'Auiene vetere, ma non è possibile riconoscere il vero senza un saggio di esplorazione fatto espressamente.



PRESSO CROCEVIA CON L'ACQUASANTA

Nel taglio presso la via Latina sarebbero state ritrovati a fior di terra due mezzani bronzi di Antonino Pio e di Severo Alessandro.

Presso il crocevia dell'Acquasanta sono state scoperte:
- sei anfore, ridotte in frantumi
- due tubi di terracotta, saldati a stucco, del diam. di m. 0,16;
- quattro lucerne lisce ed una col rilievo di un eaue in corsa;
- due frammenti di puilvini a foglie di lauro.



PORTAFURBA

La ferrovia direttissima Roma Napoli, tronco Roma Segni, lascia la sede attuale (Roma-Ciampiuo) poco oltre il casello di Porta Furba, e piegando verso ponente, attraversa diagonalmente l'acquedotto Felice (Marcia Tepula Giulia), la via Latina coi suoi sepolcri, la marrana mariana, e finalmente l'acquedotto della Claudia ed Anione nuovo. Proseguendo quindi il corso rettilineo attraverso le tenute di Roma vecchia, Capannello, Posticciola e Frattoccliie, cade nella vecchia linea alla stazione di Ciampino.
Nei lavori intrapresi da poco, sul tratto che va dalla Porta Furba al gruppo degli aquedotti, sono avvenute le seguenti scoperte.

PORTA FURBA
A m. 15.5 prima di giungere all'acquedotto Felice sono apparse costruzioni, o meglio fondamenta di costruzioni, conosciute nelle mappe del suburbio sotto il nomo di Ruderi delle Vinacce. Tutti i muri sono rasi al piano del suolo, di maniera che non è possibile giudicare a quale edifizio appartengano: probabilmente a case coloniche, dipendenti dalla villa nobilissima delle vinaccie. Vi sono traccio di pavimenti a spica, di signino: come pure di pareti e di piani costruiti per intero con pezzi di concrezioni calcari alabastrine distaccate dall'alveo dei vicini acquedotti. Non vi ho trovato bolli ili mattone o altra memoria scritta o graffita. 

I soli oggetti ricuperati sono:
- un orologio solare marmoreo ben conservato;
- un pilastro scanalato coi canaletti pieni e vuoti;
- un rocchio di colonna,
- un torso di statuetta virile ignuda ad un terzo del vero.
Le fondamenta dei furnici della Miirria seno tuttavia nascoste dal terrapieno.

Sempre nel sito di via Latina furono ricuperati:

- uua fìgura acefala di fanciullo con la bulla appesa ad una larga fettuccia;
- un frammento di lastra marmorea con  incavo,  come di suola di sandalo, e che in origine doveva essere riempito con mosaico ;
- una nuca di busto muliebre con istrana acconciatura;
- un pezzo di cornice finamente intagliata.
- Nel taglio attraverso la linea della Claudia sono tornate in luce le fondamenta di tre piloni, con un solo ordine di pietre per ciascimo. Il suolo circostante è composto in gran parte di tartari alabastrini, prodotti dalle infiltrazioni dell'Anione nuovo.

FONTANA A CLEMENTE XII
- Il selciato della via Latina è tornato in luce a metà di distanza fra le arcuazioni della Marcia e della Claudia : è largo m. 3,8 : limitato da crepidine ed angusto marciapiede di terriccio battuto, al di là del quale sorgono i piantati dei sepolcri.

- Si è scoperta, sul lato sinistro, una fossa murata con muri a strati alterni di tufo e mattoni; lunga m. 2,20 larga m. 0,50 profonda m. 1,80. Vi erano stati gettati alla rinfusa circa 40 pezzi di un sarcofago marmoreo, che credo potrà ricomporsi per intero. Il sarcofago, di eccellente fattura, ha le testate rotonde, il corpo baccellato; e mostra nella fronte un clipeo di m. 0,40 di diametro con busto muliebre di tipo mammeiano.
- Segue un secondo cassettone di muro, alle due testate del quale stavano posti verticalmente due pezzi di travertino intagliati a guisa di pulvini.
- A m. 4,40 verso nord si è scoperto nel proprio luogo un cippo di travertino, terminato a semicerchio, alto m. U,7(), lungo m. 0,25 e contenente questa memoria:
dIs MANIBVS CLAVDIAE DONATAE V-AXXXVIII

- inoltre, fra la terra di scarico, è apparso uu frammento di sarcofago baccellato, con cartello scorniciato. Dalla parte opposta della strada sono stati scoperti ruderi forse di un sepolcro, forse di un tempietto, o di edicola, con basi attiche di marmo senza plinto, tegole e canali pure di marmo con antefisse ornate dì nascimenti e fave di fine intaglio, capitelli ionici, lastroni di bianco e di giallo ecc.


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SENTINUM (Marche)

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Oggi i ruderi della città romana di Sentinum affiorano nel Parco archeologico situato a sud di Sassoferrato in località di S. Lucia. Sentino era alla confluenza di tutte le strade che provenivano dall'Umbria e attraversavano la Gallia Senonia per giungere sull’Adriatico. I Galli non controllavano solo le strade principali, ma avevano recensito tutte le strade secondarie per difendere tutta la zona da attacchi nemici.

Dai rinvenimenti archeologici si evince che gli insediamenti gallici erano disposti in modo da creare uno sbarramento militare agli eventuali nemici, soprattutto dagli attacchi portati loro attraverso gli appennini.
Sbarrate le vie che attraversavano i valichi, lasciavano al nemico l'unica possibilità di penetrazione nelle pianure Sentinate attraverso la valle Camerte del fiume Esino, che era appunto militarmente ben guardata.

L’insediamento di Sentinum probabilmente risale al 600 a.c. ad opera del popolo Umbro in una località ancora non identificata. Tra le varie ipotesi, essa viene collocata nello stesso sito di S. Lucia o nel pianoro di Civitalba a circa 6 km da Sassoferrato.

Il nome dell’urbe è collegato alla famosa battaglia di Sentino del 295 a.c. dove i romani sconfissero la coalizione Italica formata dai Galli Senoni ed i Sanniti conquistando i territori del Medio Adriatico. Dopo la battaglia però la città umbra non subì un forte sviluppo e rimase a lungo solo un importante vicus.

Con la Guerra Sociale (91- 89 a.c.), si ebbe invece l'organizzazione amministrativa delle singole comunità e l'istituzione dei Municipi. Nelle comunità rurali, i pagi, organizzati per piccoli nuclei abitati, i vici, vennero creati gli edifici pubblici per le amministrazioni dei municipi. Così Roma fondò nuovi centri urbani, oppure, nel caso più frequente, ristrutturò e potenziò i vicus più importanti sia per l'entità della popolazione che per la posizione geograficamente ed economicamente più favorevole, per quest'ultimo motivo fu probabilmente ampliata e abbellita la Sentinum Romana.

MOSAICO DI AION DI SENTINUM
Il municipio romano di Sentinum, presso l’odierna Sassoferrato (AN), fondato all’inizio del I sec. a.c. e abbandonato tra la fine del IV e l’inizio del V sec. d.c., fu iscritto alla tribù Lemonia; è ricordato dalle fonti, oltre che per essere sorto non lontano dal luogo della battaglia che vide i Romani vittoriosi su Galli, Etruschi e Sanniti nel 295 a.c., per il fatto che nel bellum Perusinum, durante il conflitto tra Ottaviano e Lucio Antonio, nel 41 a.c., fu distrutto dal luogotenente di Ottaviano, Salvidieno Rufo. Subito dopo fu ricostruito più sontuoso dallo stesso Augusto.

Con la sua decadenza, concomitante alla caduta dell'Impero Romano, le sue bellissime opere furono depredate, in parte riutilizzate, in parte rilavorate per cancellare ogni traccia degli splendori pagani e in parte calcinate per farne calce, a favore soprattutto delle chiese di Sassoferrato ma anche delle abitazioni private.

Numerosi storici locali del XVIII e XIX secolo documentano rinvenimenti occasionali di reperti ma solo negli ultimi anni dell’Ottocento, durante i lavori per l’apertura della linea ferroviaria Fabriano - Urbino, vennero effettuati i primi scavi archeologici che permisero di ipotizzare la localizzazione e l’estensione dell’antica Sentinum.

Nel 1922, individuato in occasione di lavori agricoli, fu distaccato e portato al Museo Archeologico Nazionale di Ancona un mosaico pavimentale a tessere bianche e nere raffigurante mostri marini; e qualche anno più tardi, ne fu recuperato un altro raffigurante il mito del ratto d’Europa.

Le attività di scavo archeologico ripresero solo negli anni cinquanta grazie ai “Cantieri Scuola", individuando parte del tracciato stradale, di un settore delle mura e di alcuni edifici pubblici e privati della città romana ed una villa suburbana presso la chiesetta medievale di S. Lucia.

Gli scavi a Sentinum vennero interrotti di nuovo per circa un ventennio; ripresero solo nel 1974, quando si procedette alla rimessa in luce, al consolidamento e al restauro delle strutture già individuate fra cui quattro assi viari, un tratto delle mura, un complesso termale e una fonderia.



LA BATTAGLIA DI SENTINO

La Battaglia di Sentino fu uno dei principali avvenimenti bellici della Terza Guerra Sannitica (298-290 a.C.) tra Roma e una coalizione di popoli formata da Sanniti, Galli, Etruschi, Umbri, Sabini e Lucani. E' nota anche come Battaglia delle Nazioni ed è citata in numerosi testi di storia antica, a Sentinum (presso l'odierna Sassoferrato) i romani sconfissero Sanniti e Galli estendendo l'impero fino alle coste adriatiche.

BATTAGLIA CONTRO I SANNITI  (Rubens)
Nei combattimenti nel Sannio i sanniti avevano alcuni vantaggi  rispetto ai romani. Erano insediati in un territorio  aspro e montuoso, che potevano facilmente difendere e sul quale sapevano combattere; avevano un potenziale demografico consistente ed armi evolute, come il giavellotto.

Sembra che i Sanniti fossero alcune centinaia di migliaia più dei Romani. Il corpo dell’esercito era costituito dalla legio linteata, così chiamata per i teli di lino che avevano coperto l’area in cui si era svolto il giuramento prima della battaglia d’Aquilonia e i cui membri erano forniti d’armi rivestite d’oro e argento.
Nella battaglia di Sentino i Sanniti misero infatti in campo la formidabile legione Linteata, molto nota agli avversari per l'audacia, fedeltà e organizzazione dimostrate in diverse battaglie. La sconfitta di Sentino segnò l'inizio della decadenza del popolo Sannita, venuto dall’Italia meridionale per dare, insieme agli alleati Italici una svolta decisiva al conflitto contro Roma. La battaglia fu favorevole ai Romani ed i Sanniti dovettero soccombere per colpa dell'alleato Senone che durante lo scontro adottò una tattica sbagliata. Di conseguenza lo schieramento Sannita trovandosi con un fianco scoperto dovette retrocedere fino ad essere sopraffatto dai Romani e massacrato con il loro condottiero Gello Egnazio.

La Legio Linteata appare in un avvenimento del 309 a.c. narrato da Tito Livio negli Annales ed era una devotio alle divinità dell'Olimpo Sannita che, dopo una particolare cerimonia sacra, diventava una casta di guerrieri votata al sacrificio della vitao pur di difendere il proprio popolo. Fu chiamata "linteata" dalla copertura del recinto in cui era stata consacrata la nobiltà combattente. Molti reperti archeologici hanno confermato la storia di Livio.

La narrazione del rito sacrale del 293 a.c. ad Aquilonia per costituire la "Legio Linteata", di T. Lìvio  "alla guerra questi s'erano preparati con lo stesso impegno e con gran dovizia di fulgide armi; e ricorsero anche all'aiuto degli dei, giacché i soldati erano stati iniziati alla milizia prestando il giuramento secondo un antico rito, e s'era fatta una leva per tutto il Sannio con una nuova legge, in virtù della quale chi fra i giovani non fosse accorso alla chiamata dei comandanti, e chi si fosse allontanato senza il loro ordine, doveva essere consacrato alla vendetta di Giove. Poi tutto l'esercito ricevette l'ordine di radunarsi ad Aquilonia. Vi si raccolsero circa 60.000 uomini, il fiore delle milizie ch'erano nel Sannio".

Questi legionari Sanniti indossavano divise ed armi particolari che li distinguevano dagli altri militi regolari: "Subito dopo si aveva con ugual pericolo e con uguale glorioso successo la guerra nel territorio dei Sanniti, i quali, oltre alle altre apparecchiature belliche, fecero sì che le loro schiere spiccassero per il fulgore di nuove armi. Due erano gli eserciti: gli scudi del primo li cesellarono in oro, quelli del secondo in argento; la forma dello scudo era la seguente: più larga la parte superiore, da cui son protetti il petto e le spalle, e orizzontale in cima; più appuntito in basso, per lasciare libertà di movimenti. A protezione del petto avevano una corazza a maglia, e la gamba sinistra era riparata da uno schiniere. Elmi con paragnatidi e pennacchio, per mettere maggiormente in evidenza la statura gigantesca. Tuniche variopinte ai soldati con lo scudo dorato, a quelli con lo scudo argentato di candido lino".


I RESTI

"Le rovine sentinati, dall'VIII sec. ad oggi,  sono state una miniera archeologica per tutti i contadini, i proprietari e di curiosi o avidi ricercatori di antichità e di tesori... ed ogni casa colonica è costruita col materiale della città distrutta, ed ha per soglie, per architravi, per sedili, per altri usi vivissimi, per trabeazioni, colonne, capitelli, basi e simili oggetti di marmi finissimi  di graniti orientali della povera Sentino"

I dati raccolti nelle otto consecutive campagne di scavo hanno permesso di definire la mappatura quasi completa del contesto urbano della città. Lo scavo è iniziato riportando in luce gli strati relativi alla fase di fine IV - V secolo d.c., e un grande edificio a portico.

TERME
Nel 2005 lo scavo si è esteso al settore orientale di Sentinum, in corrispondenza dell’incrocio tra il cardine massimo e il decumano massimo, dove sono stati rinvenuti i resti di una grande fontana circolare. Tra i reperti riportati alla luce negli ultimi anni, notevole importanza rivestono le due teste marmoree, quella di epoca giulio-claudia, scoperta nel 2004, ora esposta nel Museo civico archeologico della città, che conserva numerose testimonianze storiche di Sentinum, e quella finissima di giovane efebo, rinvenuta nel 2008.

Pur possedendone la mappatura, i resti della città di Sentinum oggi visibili costituiscono solo una porzione modesta dell’antica Sentino che è ancora tutta da scoprire.

La cinta muraria, individuata in passato per brevi tratti, seguiva l’andamento naturale dei limiti del pianoro; nel settore nord-ovest è presente una fortificazione, costituita da conglomerato cementizio con paramento in opus vittatum di piccoli conci squadrati di pietra calcarea.

Il tracciato viario urbano ha un sistema ortoganale orientato secondo l’asse nord-sud. Si possono seguire per quasi tutta la loro lunghezza due arterie nord-sud, indicate come cardo A (arteria principale sulla quale si imposta il restante reticolo viario) e cardo B. Delle vie ad esse ortogonali si conservano alcuni tratti del decumanus A, del decumanus B e del decumanus C. Le strade, di larghezza variabile tra i m 3,8 e i 5 m, sono lastricate con grossi basoli di calcare bianco, delimitate da crepidini che fanno da contenimento ai marciapiedi laterali e dotate di sistema fognario.


TERME
Le Terme

Lungo il cardo B è ubicato un edificio pubblico ad uso termale, dotato di grande piscina rettangolare, circondata da peristilio, con frigidarium e tepidarium disposti sulla fronte occidentale, calidarium lungo il lato meridionale e orientale. L’impianto termale subì varie fasi costruttive, dall’età tardo-repubblicanafino agli inizi del III sec. d.c.


La  fonderia

All’incrocio del cardo B con il decumanus C è visibile un edificio adibito a fonderia, costituito da due locali contigui, all’interno dei quali sono stati rinvenuti i resti del forno fusorio e numerose scorie e scarti di lavorazione. 


Tempio

I resti di un tempio tetrastilo di epoca augustea


L'insula

Lungo il decumanus B, quasi al confine dell’area archeologica con la strada provinciale, è situato un complesso di ambienti pertinenti a diversi fabbricati, cui è stato convenzionalmente attribuita la denominazione di "Insula del Pozzo”, per la presenza nelle vicinanze di un pozzo antico.

All’interno dell’insula sono presenti pavimenti in mosaico, e resti di un atrio con colonne stuccate, disposte intorno ad una vasca rifasciata con lastroni di pietra.


Villa Suburbana

Nei pressi della chiesetta medievale di S. Lucia, lungo l’asse del cardo maximus che usciva dalla città in direzione sud, sono visitabili i resti di una grande villa suburbana di età imperiale, databile tra il I e il II sec. d.c. Al suo interno, un atrium, un grande peristilio, ambienti termali e stanze con pavimentazioni in mosaico o in opus sectile.




Edificio pubblico extraurbano

La sua dimensione era di 7000 m2 circa; comprende delle grandi terme pubbliche extra urbane ( fuori dalla città), una palestra, gli spogliatoi, un colonnato, pavimenti di vari tipi (mosaico a lisca di pesce, marmo...).

GENS ATIA O AZIA

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La gens Atia, talvolta chiamata Attia, poi Azia, era una famiglia della Roma antica che dichiarava di discendere da Atys, figlio di Alba Silvio e padre di Capi o Capiys. Atys fu il VI re di Alba Longa, città laziale fondata da Ascanio, figlio di Enea e perciò considerata la città madre di Roma. Essendo poi Azia la madre di Ottaviano i poeti si dettero da fare per trovarle una discendenza più onorevole possibile.
Nonostante le antiche origini comunque erano plebei. 

IL VASO RAFFIGURA AZIA FECONDATA DA APOLLO
IN FORMA DI SERPENTE
Il primo esponente della gens che ottenne celebrità è stato Lucio Azio, che fu tribuno militare nel 178 ac. Durante la guerra civile fra i sostenitori di Cesare e quelli di Pompeo, molti Atii si schierarono apertamente e presero parte ai combattimenti, a favore dell'uno o dell'altro.
La gens Attia, per quanto conosciuti dopo circa un secolo dei più notabili Atii, si ritiene appartenessero alla medesima gens.

Gli Atii sono noti per avere usato frequentemente alcune dei più comuni praenomina a Roma, tra cui Lucius, Marcus, Caio, Publio e Quinto.
I cognomina degli Atii sono Balbo, Rufo, Varo e Labieno. 
I Balbi Atii provenivano dalla città di Ariccia. Lo studioso veneziano Paolo Manuzio ha ipotizzato che la famiglia dei Labieni appartenesse alla gens Atia, parere seguito dalla maggior parte degli scrittori moderni.

Poichè Labieno non è stato mai trovato come cognome per il nome Atius nè in altra gens, si pensa si trattasse di una gens separata.



ESPONENTI FAMOSI

- Lucio Azio, il primo tribuno della seconda legione durante la guerra con gli Istri nel 178 ac.;

- Marco Azio Balbo, padre del pretore del 62 ac.;

- Marco Azio Balbo figlio, pretore nel 60 ac. e nonno di Augusto;
Cesare ebbe due sorelle, entrambe chiamate Gliulia, di queste: Giulia minore, sposò Marco Azio Balbo, da cui ebbe due figlie, nipoti di Giulio Cesare, entrambe della gens Azia per nascita e solo imparentate con la gens Iulia per parte di madre:

- Azia maggiore, nata nell'85 e morta nel 43 ac.,  figlia di Marco Azio Balbo e della sorella di Gaio Giulio Cesare, Giulia minore. Come narra Svetonio (De vita Cesaribus) fu la madre del primo imperatore romano, Augusto e di Ottavia minore, a sua volta moglie, per alcuni anni, di Marco Antonio. Azia andò in sposa in seconde nozze a Gaio Ottavio, goverantore della Macedonia, e fu madre di Ottavia minore e di Ottaviano, il futuro Augusto, entrambi pronipoti di Cesare. Una sua figliastra, più anziana, fu Ottavia maggiore, figlia di un precedente matrimonio di Gaio Ottavio con Ancaria. Nel 59 ac. Gaio Ottavio morì sulla strada per Roma dove doveva essere investito del titolo di console. Azia maggiore si risposò con il padre del cognato, Lucio Marcio Filippo console del 56 ac. che divenne quindi patrigno di Ottaviano. Morì durante il primo consolato del figlio Ottaviano, nell'autunno del 43 ac.: il suo funerale, per volere di Ottaviano, avvenne secondo i più alti onori.

Azia minore,  che sposò Lucio Marcio Filippo, console suffetto nel 38 a.c.. 
LABIENUS ATIA

- Quinto Azio Varo, generale della cavalleria di Cesare, uno dei suoi legati in Gallia, probabilmente lo stesso che servì Cesare durante la Guerra Civile.

- Caio Azio, sostenitore di Gneo Pompeo durante la guerra civile, che aveva la proprietà di Sulmona ma si arrese a Cesare quando la popolazione aprì i cancelli alle armate di Marco Antonio nel 49 a.c.

- Publio Azio Varo, sostenitore di Pompeo durante la guerra civile, morto nella battaglia di Munda;

- Azio Rufo, generale dell’esercito di Pompeo in Grecia nel 48 ac. Accusò Lucio Afranio di tradimento per la sua sconfitta in Spagna nella guerra precedente.

- Publio Attio Atimeto, medico di Augusto.

Publio Attio Atimeto, un altro medico, probabilmente di epoca più tarda, durante il I sec. dc.

- Attio Labeo, poeta romano, autore della criticata e derisa traduzione dei testi di Omero, vissuto sotto Nerone.

PUBLIO OVIDIO NASONE

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Nome: Publius Ovidius Naso
Nascita: Sulmona, 20 marzo 43 a.C.
Morte: Tomi, 17
Mestiere: poeta/scrittore














LE ORIGINI

Brunetto Latini scrisse di lui:
"E in un ricco manto
vidi Ovidio Maggiore
che gli atti de l'amore
rassembra e mette in versi"

Publio Ovidio Nasone, poeta latino, nacque a Sulmona nel 43 a.c., da un'antica e ricca famiglia equestre, come narra in un'elegia dei "Tristia" (Sulmo Mihi Patria Est) e fu uno tra i maggiori poeti elegiaci. Seneca il Vecchio ricorda che Ovidio declamava raramente, per lo più suasorie, declamazioni su "quaestiones infinitae", cioè su una situazione storica o mitica interloquendo con un personaggio per indurlo o dissuaderlo dal compiere un atto esistenziale, con due distinti discorsi pro e contro, ad esempio se Alessandro Magno deve affrontare o no il viaggio attraverso l'oceano; se i trecento spartani alle Termopili devono resistere o fuggire; se Cicerone deve o meno bruciare i propri scritti in cambio della salvezza dalla vendetta di Antonio.

Ebbe una forte tendenza alla galanteria, allo stile ammiccante all'erotismo, ad un certo ateismo di maniera, (rifiutò l'aiuto di Apollo o delle Muse per ispirare i suoi scritti) e l'indifferenza alla vita politica caratteristici della ricca gioventù dell'epoca, che certamente non piacquero ad Augusto, rispettoso degli Dei, della tradizione e della morale.

Ovidio è il più giovane dei poeti elegiaci ma si differenzia da loro in quanto, pur ribellandosi alle tradizioni tradizioni, usufruivano dei loro benefici, Ovidio rifiuta questa contraddizione, poiché rifiuta i valori rigidi della vecchia società per aprirsi alle mode del tempo, cercando di assecondare il gusto volubile del pubblico.
Pertanto propone nei suoi testi un'etica sessuale molto libera, come si può capire già dal titolo degli Amores, dove non c'è una sola donna al centro della narrazione e dirà egli stesso che una donna non gli basta, pur ammettendo che non sarebbe giusto. Non rimprovera né critica chi segue la morale tradizionale, ma lui non la segue.
L'amore non è l'unico tema dei suoi scritti, come l'elegìa non è l'unico genere letterario che usa.

Ovidio si sposa per tre volte: ma se, nei primi due casi, divorzia presto, ma ne ottiene la figlia Ovidia, a sua volta scrittrice e colta. Il terzo matrimonio avviene con Fabia, fedele consorte nella gioia e nel dolore, amata, si dice, teneramente fino alla fine. Comunque durante il suo esilio la moglie restò a Roma, il che fa porre in dubbio questo grande amore.

Gli affetti familiari non impedirono che Ovidio si dedicasse alla vita romana del tempo, mondana e salottiera. Lo scrittore ne diventò uno dei protagonisti, già famoso e ricercato a venti anni. giocano a suo favore La sua sensibilità, lo spirito arguto e la signorilità, che gli aprirono le porte dei salotti culturali romani. Forse anche sua moglie ci aveva preso gusto e non se la sentì di abbandonare gli agi di Roma.



poeta doctus
GLI STUDI

Si recò a Roma insieme al fratello Lucio (morto poi prematuramente), nel 31 a.c., all'età di 12 anni, e qui studiò grammatica e retorica presso grandi maestri, come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Forse la famiglia voleva per lui una carriera forense e politica, secondo alcuni il padre premeva perchè diventasse comunque un oratore, ma Ovidio percepì che il suo destino era nella poesia, al punto che tutto ciò che tentava di dire, come egli stesso narra, lo esprimeva in versi  "et quod temptabam dicere versus erat".

Più tardi Ovidio, all'età di 18 anni, com'era costume di ogni erudito, andò ad Atene per approfondire gli studi, visitando durante il viaggio di ritorno le città dell'Asia minore; si recò anche in Egitto e per un anno soggiornò in Sicilia.



L'ESORDIO

"Presi un pugno di sabbia e glielo porsi, scioccamente chiedendo un anno di vita per ogni granello; mi scordai di chiedere che fossero anni di giovinezza."

Tornato a Roma, Ovidio intraprese la carriera pubblica, ma senza eccellere, divenendo uno dei decemviri stilibus iudicandis e dei tresviri, una sorta di polizia giudiziaria. Non aspirando al Senato, contrariamente al fratello e contro la volontà di suo padre, perseguì invece gli studi letterari venendo a contatto con il circolo di Messalla Corvino (filorepubblicano e poi filoaugusteo) e poi nel circolo di Mecenate (filoaugusteo), conoscendo i più importanti poeti del tempo: Orazio, Properzio, Gallo, Tibullo e, seppure per poco tempo, Virgilio. Qui Ovidio trovò amicizia, serenità e creatività poetica.

Ovidio esordì con una raccolta di elegie, Amores, in cinque libri, composta fra il 23 ed il 14 a.c. ed in seguito ridotta a tre libri. Vi si canta una donna  chiamata Corinna, che non si sa sia reale o meno. Compose poi una "summa" di lettere fittizie, le Heroides, scritte da donne leggendarie (Didone, Fedra, ecc.) ai propri innamorati, di ispirazione alessandrina che rispecchia l'evoluzione sociale femminile nel mondo romano dell'epoca. L'arte di amare gli ispirò tre opere: la famosa Ars amatoria, i Remedia, e un poemetto sui belletti femminili: De medicamine faciei feminae.

La vera ambizione di Ovidio era comunque quella di comporre un'epopea e dopo una Gigantomachia scrisse le Metamorfosi. Nei suoi quindici libri Ovidio muove dal caos primevo e segue la storia del mondo fino a Cesare. Forse lo muoveva una fede neopitagorica per cui il concetto di mutamento diventa il principio del divenire universale.



LE OPERE

"Io non avrei il coraggio di difendere costumi disonesti e di impugnare armi ingannatrici in difesa delle mie colpe. Anzi, confesso, se confessare i peccati può in qualche modo giovare; ma ora, dopo la confessione, ricado come un insensato nelle mie colpe"
(Amores, Libro Secondo)

Si dividono in tre gruppi: 

1) Opere giovanili o amorose:
  •  Amores, in tre libri: 49 carmi che narrano la storia d'amore per una donna chiamata Corinna (personaggio forse solo letterario), secondo lo stile e le convenzioni dell'elegia amorosa: il poeta è asservito alla domina, soffre per le sue infedeltà, è geloso degli altri ammiratori e contrappone la vita militare alla vita amorosa. Ma Ovidio non soffre drammaticamente come Catullo e mantiene sempre un certo distacco intellettuale: vede l'amore come un gioco ribaltando così i temi tradizionali, giungendo ad amare due donne contemporaneamente, chiedendo all'amata di non essergli fedele ma di nascondergli i tradimenti affinché lui possa fingere di non sapere.
  • Medea: tragedia a noi non pervenuta, ma lodata dai contemporanei.
  • Heroides: 21 lettere che Ovidio immagina scritte da eroine ai loro amanti. Tre lettere hanno anche la risposta da parte dell'uomo amato. Un filone totalmente nuovo: il filone erotico-mitologico che viene per la prima volta svolto in forma epistolare (forse in analogia con le suasoriae). Vi sono numerosi parallelismi con l'epica e con la tragedia, soprattutto nei monologhi delle eroine euripidee, con rivisitazioni e riscritture di alcuni miti (come nella lettera di Fedra a Ippolito, lettera di una scaltra seduttrice anzichè di una donna disperata).
  • Ars amatoria, in tre libri.
    "Quanto più amore mi trafisse,
    quanto più crudelmente m'arse, su di lui
    tanto più grande prenderò vendetta"

    Un capolavoro della poesia erotica latina in cui Ovidio si fa praeceptor amoris, con uno stile elegante e ironico. I primi due libri sono dedicati agli uomini, per la conquista della donna con le tecniche di seduzione, e come far durare l'amore. Il III libro  dà consigli alle donne, in cui l'oggetto della caccia non è più l'amore, ma il sesso. Ovidio consiglia di non innamorarsi, ma di giocare all'amore, perciò ammette anche il tradimento che è anzi incoraggiato: "fallite fallentes" (ingannate gli ingannatori), perchè tanto il tradimeno è sucuro. Ovidio specifica che non si riferisce al rapporto del matrimonio e neanche alle donne perbene, bensi alle liberte, alle schiave e alle cortigiane, menzionando tramite l'abbigliamento le donne che per statuto morale e sociale non possono accedervi, cioè le vestali e le fanciulle vergini, le sole che usassero bende di lana per cingere il capo e annodare sul collo. Le matrone invece usavano l'instita, che applicata alla parte posteriore della stola, scendeva fino a i piedi. Questi indumenti erano vietati alle cortigiane, alle libertae e alle libertinae, o schiave libere. In tal modo, ai lettori, che conoscevano queste usanze, giungeva chiaro il proposito del poeta, di rivolgersi soltanto alle donne libere, che fossero giovani o mature. Secondo Ovidio le donne giovani sono più esigenti e difficili da conquistare, mentre le donne in età più avanzata, sfiorite dal tempo, sono esse stesse a concedersi e a voler conquistare. Nonostante le precisazioni si sa bene che saranno le matrone a leggere il libro e che è alle matrone che esso si rivolge. Abbastanza per scandalizzare il moralizzatore Augusto.
  • Medicamina Faciei Feminae:  sui cosmetici delle donne, di cui sono pervenuti solo 100 versi: i primi 50 costituiscono il proemio, i successivi 50 propongono 5 ricette di creme da applicare sul viso.
  • Remedia amoris: 400 distici elegiaci per resistere all'amore o liberarsene.


2) Opere maggiori o della maturità 
  • Metamorfosi, in 15 libri di esametri. Il capolavoro di Ovidio, ultimato poco prima dell'esilio, contiene più di 250 miti di trasformazioni mitiche, dal Caos all'apoteosi di Cesare e Augusto. L'opera si chiude con una preghiera agli Dei, affinché preservino a lungo l'imperatore Augusto. Scritto in esametri, in quindici libri, vi si trova tutta la storia mitica greco-romana, ma riorganizzata da Ovidio in una serie di racconti concatenati da un ordine cronologico, anche se con eventi anteriori al fatto narrato o posteriori. Le storie si legano tra loro in base a rapporti familiari, parentele, affinità o diversità. Un racconto molto articolato, talvolta artificioso, con una straordinaria capacità di dare un filo logico alle storie più disparate. Sono storie di metamorfosi, in cui i personaggi "narrati" diventano narratori a loro volta intrecciando la propria ad altre vicende. L'opera ebbe un gran successo.
  • Fasti, in 6 libri. Avrebbe dovuto essere di 12 libri, uno per ogni mese dell'anno, ma Ovidio ne scrisse solo 6 (da gennaio a giugno) a causa dell'esilio. Un'opera di erudizione per illustrare le feste religiose e le ricorrenze del calendario romano introdotto da Cesare, dove Ovidio esponeva le cause mitiche delle cerimonie rituali, con aneddoti, episodi mitici di Roma, nozioni di astronomia, nonchè usanze e tradizioni popolari. Ma l'intento celebrativo rimane un po' freddo, mancando all'autore l'interesse storico, il sentimento religioso, e soprattutto il senso patriottico della grandezza di Roma.

3) Opere dell'esilio:
  • Tristia, in 5 libri di distici elegiaci ed Epistulae ex Ponto, in 4 libri. Ovidio riprende qui un tratto tipico della poesia elegiaca, il lamento. Ne derivano un centinaio di componimenti, raggruppati in questi 5 libri. Le elegie dei Tristia sono senza destinatario, mentre quelle delle Epistulae sono indirizzate a vari personaggi romani (tra cui la terza moglie del poeta, rimasta a Roma) affinché potessero intercedere presso l'imperatore per porre fine all'esilio o almeno trasferire il poeta in una località più vicina a Roma. Ma si tratta di elegie monotone e autocommiserative.
  • Epistulae ex Ponto, lettere poetiche indirizzate a vari personaggi romani.
  • Ibis, carme imprecatorio contro un anonimo avversario di Ovidio, prima suo amico e poi calunniatore.
  • Halieutica, poemetto sulla pesca nel Ponto.
  • Phaenomena, poema astronomico non pervenuto.

Inoltre carmi vari, a cui allude nelle Epistulae ex Ponto; sono: 
  • carme in lingua getica, in onore di Augusto e della famiglia imperiale (De Caesare);
  • carme, sempre in lingua getica, in onore di Tiberio, vincitore degli Illiri;
  • elogio funebre di Messalla Corvino;
  • epitalamio per le nozze dell'amico Paolo Fabio Massimo.

Opere erroneamente attribuite

Non sono di Ovidio, né il poemetto Nux di 182 versi (elegia in cui un noce si lamenta delle sassate che riceve ingiustamente dai passanti), né una Consolatio ad Liviam di 474 versi, carme consolatorio alla moglie di Augusto per la morte del figlio Druso, nel 9 a.c.



IL DECLINO

Nell'8 d.c., al culmine del suo successo, il poeta fu colpito da un ordine di Augusto, che non fu revocato nemmeno dal successore Tiberio, che lo relegava a Tomi, l'attuale Costanza, sulle coste del Ponto (il Mar Nero), colonia romana già sottomessa da Pompeo nel 64 a.c.. Si trattò, è vero, di una "relegatio" che, a differenza dell’ "exilium", non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni. nonostante le ripetute suppliche, sue e dei suoi amici, all'imperatore affinché fosse sottratto da quell'esilio a mezzo di genti barbare.

Secondo alcuni non furono i libri le cause del suo esilio, e le ipotesi  congegnate sono state le più assurde, non dettate dalla situazione ma a seconda delle simpatie nutrite verso Augusto e l'impero, senza alcun riferimento storico.

Nei Tristia, scrive:
"Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error
alterius facti culpa silenda mihi"
"Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore:
di questo debbo tacere la colpa"

Il poeta dunque attribuisce l'esilio ad un carmen et error, ma tale vaga espressione ha favorito il proliferare di interpretazioni diverse, alcune probabili, altre più fantasiose, riguardo al possibile errore:

  • Ovidio avrebbe avuto illecite relazioni con l'imperatrice Livia Drusilla, cantata negli Amores con lo pseudonimo di Corinna;
  • si ipotizzò che Ovidio  avesse avuto una relazione con Giulia, figlia di Ottaviano e che Ottaviano si fosse vendicato, ma l'amante di Giulia era ampiamente conosciuto.
  • che avesse involontariamente assistito ad una scena incestuosa fra Giulia ed Ottaviano e questa denota solo un odio verso il personaggio di Augusto che fu uomo estremamente corretto e pulito.
  • sarebbe stato sospettato di favoreggiamento e forse di correità nelle relazioni di Giulia iunior, nipote di Augusto e moglie di Lucio Emilio Paolo, col giovane patrizio Decimo Bruto Silano; nello stesso anno, pure Giulia minore, nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Tremiti, accusata di adulterio con un giovane patrizio.
  • avrebbe scoperto illeciti rapporti di Augusto a corte o avrebbe curiosato imprudentemente sulla condotta privata e sulle abitudini intime dell'imperatrice Livia;
  • avrebbe assistito a qualcuno degli sfoghi di ira a cui era soggetto Augusto, specialmente dopo il disastro di Publio Quintilio Varo;
  • avrebbe partecipato alla congiura di Agrippa Pòstumo, pretendente al trono contro Tiberio, sostenuto dalla madre Livia, o avrebbe difeso Germanico contro Augusto.
Nel "carmen" si allude evidentemente all’ "Ars amatoria", il suo trattato sull'amore libertino che, contemporaneamente alla condanna, venne ritirato dalle biblioteche pubbliche: trattato, evidentemente, in contrasto col programma augusteo di restaurazione morale dei costumi. Riguardo l’ "error", l'ipotesi più accreditata è che Ovidio sia stato coinvolto, come testimone o  complice, in uno scandalo di corte, che l'imperatore desiderava restasse segreto.
Se però si fosse trattato di uno scandalo l'esilio non avrebbe garantito ad Augusto la segretezza, e non gli sarebbe stato difficile farlo morire in modo poco visibile.

Sembra trattarsi piuttosto di una punizione a monito, per aver tentato di corrompere la moralità della famiglia e pure per essersi fatto beffe degli Dei che Augusto con tanta solerzia voleva ristabilire nei culti e nella fede. E visto che la fede pagana non venne mai obbligata presso la popolazione ma piuttosto favorita, l'imperatore doveva togliere dai salotti culturali di Roma un simile sobillatore di costumi.

Ma forse c'è di più, Ovidio scriveva ciò che faceva o cercava di fare, di certo amava le avventure e non solo con liberte o schiave, ma anche con affascinanti matrone. Se avesse osato sfiorare la famiglia di Augusto avrebbe avuto molto di più della relegatio, ma di certo avrà insidiato il talamo di qualche amico di Augusto, che di certo non approvava certe licenze, visto che neanche lui, e tanto meno Livia si consentivano. La relegatio è stata la punizione di tanta audacia.



LA MORTE

Morì a Tomi, oggi Costanza, nel 18 d.c., sotto il regno di Tiberio, dopo 10 anni di esilio.

Nel 1923, J.J. Hartmann propose una nuova teoria: che Ovidio in realtà non abbia mai patito la relegatio, e che il riferimento all'esilio sia il prodotto della sua fervida immaginazione. Questa teoria è stata sostenuta e respinta negli anni '30 del '900, soprattutto da autori olandesi.
Nel 1985, uno studio di Fitton Brown ha avanzato nuove argomentazioni a sostegno dell'ipotesi, con polemiche e confutazioni.. L'esilio in effetti non viene mai menzionato da Ovidio, e vi sono riferimenti ad esso nemmeno dagli storici che hanno trattato l'età di Augusto come Tacito o Svetonio. Le eccezioni, di poco posteriori alla morte di Ovidio, sono costituite da due brevissimi passaggi in Plinio il Vecchio, e in Stazio. Poi, più niente fino al IV secolo, con brevi menzioni in Girolamo e nell'Epitome de Caesaribus.
Oggi, tuttavia, la maggior parte degli studiosi ritiene poco credibili le ipotesi che negano la realtà dell'esilio di Ovidio.

CULTO DI EROS - CUPIDO

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« A primavera, quando
l'acqua dei fiumi deriva nelle gore
e lungo l'orto sacro delle vergini
ai meli cidoni apre il fiore,
e altro fiore assale i tralci della vite
nel buio delle foglie;

in me Eros,
che mai alcuna età mi rasserena,
come il vento del nord rosso di fulmini,
rapido muove: così, torbido
spietato arso di demenza,
custodisce tenace nella mente
tutte le voglie che avevo da ragazzo. »

(Ibico - poeta del VI sec. ac.)



EROS


Figlio della Terra e del Tartaro

Nelle più vecchie teogonie, Eros è considerato come un dio nato, contemporaneamente alla Terra, dal Caos originario che tiene unito l’universo, o almeno così si crede, perchè il primo che ne scrisse, e che abbiamo trovato è Esiodo che la racconta diversamente.

Siamo in Grecia all'incirca nel 700 a.c. ed Esiodo espone la religione corrente secondo cui dal Caos si originarono la Terra (Gea) e il Tartaro e insieme partorirono Eros. Nella Teogonia di Esiodo, Eros è un Dio creatore, il primo Dio, nato dal Caos     primordiale contemporaneamente a Gea; senza lui nessuno degli altri Dei sarebbe sorto. 


Figlio di Urano e Afrodite

Ma nel VI sec. a.c. per Saffo il Dio era figlio di Urano (Cielo) e Afrodite (Venere).


Figlio di Ares e Afrodite

Viceversa nel V sec a.c. il poeta Simonide sostiene che Eros era figlio di Ares (Marte) e Afrodite (Venere).


Figlio di Penia e Poros

Arriviamo a Platone e siamo nel IV sec. a.c., e nel Simposio è descritto, per bocca di Socrate come il primo nato tra gli Dei e figlio di Penia (Mancanza) e Poros (Espediente). Socrate e gli invitati al convitto ricercano l'essenza dell'amore. Tutti attribuiscono all'amore uno stato di bellezza e positività, estetica e benessere uniti. Socrate invece narra il mito insegnatogli da Diotima, in cui parla di una mancanza dell'amore.
Eros rappresenterebbe così la ricerca di completezza che causa l'amore e gli espedienti a cui sono pronti gli amanti, ma per altri il discorso è più profondo perchè prevede una ricerca interiore dell'anima. 

L' Eros, sempre nel Simposio, esprimeva la consuetudine educativa della buona società dell’epoca, la relazione amorosa tra due uomini, dei quali uno aveva il nome di erómenos (amato), un giovinetto timido e sottomesso tra i 12 e i 20 anni, mentre l’altro, di nome erastés (amante), era di solito un uomo maturo con buona cultura e soprattutto con buona posizione economica o almeno di prestigio.
Questo rapporto, definito uranico, cioè sublime e celeste nel Convivio si oppone a quello tra due sessi che sarebbe decisamente di ordine inferiore, il primo della Venere Uranica e il secondo della Venere pandemica, cioè sessuale. L'amore tra l'uomo maturo e il giovinetto sarebbe oltre la semplice relazione sessuale, perchè riguarderebbe l’educazione del giovinetto alla futura vita pubblica. Per un fanciullo di buona nascita era infatti un privilegio avere le attenzioni di un uomo nobile e affermato. L'adulto non doveva però cedere all'innamoramento ma doveva essere contenuto nei sentimenti, chi doveva abbandonarsi all'adorazione era invece il giovinetto che con i piaceri del suo corpo doveva compensare le fatiche e le amarezze dell'altro senza troppo pretendere. Insomma l'adulto si comportava come un padre alquanto pedofilo.

Non scambiamo questo tipo di relazione con l'omosessualità che è tutt'altra cosa, come un rapporto etero può essere sano o corrotto a seconda di chi lo pratica. Questo costume erotico passò anche a Roma, anche se in chiave minore, si che, mentre era sano e giusto che un uomo libero maturo avesse per amante un adolescente, era invece molto sconveniente che lo stesso uomo andasse con un altro maschio maturo, perchè trattavasi allora di perversione. Il problema stava nella passività o attività del soggetto. Era normale essere passivi per i giovinetti, gli schiavi e le donne; era anormale per gli uomini fatti greci o romani. Non a caso Catullo si scagliò contro Cesare e Mamurra, ambedue generali adulti che amoreggiavano tra loro, definendoli invertiti e abominevoli, mentre Catullo correva dietro, oltre alla bella Lesbia, anche agli adolescenti.

In Grecia l’amore tra uomini era preferito a quello tra persone di diverso sesso, e per questo veniva ricercato nella pratica dei simposi, ritrovi di soli uomini. Le donne erano generalmente ritenute inferiori non solo fisicamente ma anche intellettualmente, e ciò faceva sì che un uomo fosse più propenso a cercare diletto (sessuale e spirituale) nella compagnia di un suo pari. Per evitare però che le donne contraddicessero questo principio, si impediva loro di studiare e perfino di uscire, tenendole in uno stato di infanzia perpetua.


Figlio di Iride e Zefiro

Secondo fonti più tarde Eros sarebbe i figlio di Iride e Zefiro. 

Nell'aspetto era un efebo molto bello e indipendente da chiunque, anche da Zeus e dalla stessa madre, anzi poco rispettoso visto che aveva osato colpire entrambi con le frecce d'amore. Era così egoista e indisciplinato che Zeus consigliò ad Afrodite di ucciderlo (ma non era immortale?). Ma Afrodite non ne ebbe il coraggio e lo nascose nel bosco dove venne allevato dagli animali selvatici rendendolo ancora più capriccioso e malvagio verso uomini e Dei.
Eros era oggetto di un culto particolare a Tespie in Beozia, dove si celebravano, ogni quattro anni in suo onore, delle feste dette Erotidie. 



CUPIDO 

CUPIDO PREPARA L'ARCO


« Perciò, in quanto figlio di Poros e di Penìa, Amore si trova in questa condizione: in primo luogo è sempre povero e tutt'altro che tenero e bello, come invece ritengono i più, anzi è aspro, incolto, sempre scalzo e senza casa, e si sdraia sulla terra nuda, dormendo all'aperto davanti alle porte e per le strade secondo la natura di sua madre, e sempre accompagnato dall'indigenza. Invece per parte di padre insidia i belli e i virtuosi, in quanto è coraggioso e ardito e veemente, e cacciatore astuto, sempre pronto a tessere intrighi, avido di sapienza, ricco di risorse, e per tutta la vita innamorato del sapere, mago ingegnoso e incantatore e sofista; e non è nato né immortale né mortale, ma in un'ora dello stesso giorno fiorisce e vive, se la fortuna gli è propizia, in altra invece muore, ma poi rinasce in virtù della natura del padre, e quel che acquista gli sfugge sempre via, di modo che Amore non è mai né povero né ricco, e d'altra parte sta in mezzo fra la sapienza e l'ignoranza. »

(Platone, Simposio, 203c-d-e)

A Roma Eros cambia nome diventa Cupido, molto simile al Dio greco, ma alcuni lo chiamano Amore e altri non distinguono tra Amore e Cupido. Cicerone ipotizzò che Amore fosse figlio di Giove e Venere e Cupido fosse figlio della Notte e dell'Erebo; Seneca invece non faceva distinzioni e scrisse che era figlio di Venere e Vulcano.

Sulle pareti di Pompei il graffito di un ignoto::
Amore mi detta ora che scrivo e Cupido mi guida la mano: possa io morire se scelgo di essere un dio, ma senza te


Figlio della Notte e del Vento

Gli Orfici, siamo nel VI sec. a.c. elaborarono invece un altro mito per cui la Notte dalle ali nere fu amata dal Vento e depose un uovo d’argento nel grembo dell’Erebo; da quell'uovo nacque Eros che mise in moto l’Universo. Eros fu dunque un ermafrodito dalle ali d’oro, con quattro teste, con cui ruggiva come un leone, muggiva come un toro, sibilava come un serpente e belava come un ariete. La Notte, che chiamò Eros con il nome di Ericepeo e di Fetonte Protogeno, visse con lui in una grotta e assunse il triplice aspetto di Notte, Ordine e Giustizia. Dinanzi a quella grotta sedeva l’inesorabile madre Rea che battendo le mani su un bronzeo tamburo costringeva gli uomini a prestare attenzione agli oracoli della Dea. Eros creò la terra, il cielo, il sole e la luna; mentre la triplice Dea governò sull’Universo, finché il suo potere passò nelle mani di Urano.

« Uomini nati nel buio della vostra vita, simili alla stirpe caduca delle foglie, essere fragili, impasto di fango, vane figure d’ombra, senza la gioia delle ali, fugaci come il giorno, infelici mortali, uomini della razza dei sogni, date ascolto a noi: immortali e sempre viventi, creature del cielo, ignari di vecchiezza, esperti di indistruttibili pensieri. Ascoltate da noi tutta la verità sulle cose del cielo e la natura degli uccelli, sull'origine degli dèi e dei fiumi, e dell'Erebo e del Caos. Conoscerete il vero, e da parte mia direte a Prodico di andare alla malora, per l'avvenire. In principio c'erano il Caos e la Notte e il buio Erebo e il Tartaro immenso; non esisteva la terra, né l'aria né il cielo. Nel seno sconfinato di Erebo, la Notte dalle ali di tenebra generò dapprima un uovo pieno di vento. Col trascorrere delle stagioni, da questo sbocciò Eros, fiore del desiderio: sul dorso gli splendevano ali d'oro ed era simile al rapido turbine dei venti. Congiunto di notte al Caos alato nella vastità del Tartaro, egli covò la nostra stirpe, e questa fu la prima che condusse alla luce. Neppure la razza degli immortali esisteva avanti che Eros congiungesse gli elementi dell'universo. Quando avvennero gli altri accoppiamenti, nacquero il cielo e l'oceano e la terra, e la razza immortale degli dèi beati»
(Aristofane. Gli uccelli 685-702.


Figlio di Ilizia

Per altri Eros è considerato il figlio dell’Ilizia, la Dea della nascita, “colei che aiuta le donne in travaglio”, perchè l'amore più grande è quello materno.
Infatti Cupido, fornito di ali nere, secondo alcuni d'oro, e di frecce arco e faretra, aveva il potere di far innamorare tutti quelli che colpiva coi dardi fatali.

Cupido corrisponderebbe al Dio Imeros della mitologia greca mentre Amore si considera corrispondente ad Eros. 
Il filosofo Hilmann attribuisce ad Himeros il desiderio fisico e l'eccitazione cioè l'amore pandemio; Anteros sarebbe invece l'amore corrisposto e la complicità, mentre Pothos, o Poros sarebbe il desiderio struggente per l'irraggiungibile e l'incomprensibile, Pothos invece, fratello di Eros e figlio di Afrodite e Crono, simboleggerebbe il desiderio, personificato su una rupe davanti al mare in attesa dell'amore che non arriverà mai e riguarda tutte le infinite peregrinazioni della mente dietro all'impossibile, che ci spinge sempre a cercare qualcosa che non troveremo mai.

« Uomini nati nel buio della vostra vita, simili alla stirpe caduca delle foglie, essere fragili, impasto di fango, vane figure d’ombra, senza la gioia delle ali, fugaci come il giorno, infelici mortali, uomini della razza dei sogni, date ascolto a noi: immortali e sempre viventi, creature del cielo, ignari di vecchiezza, esperti di indistruttibili pensieri. Ascoltate da noi tutta la verità sulle cose del cielo e la natura degli uccelli, sull'origine degli dèi e dei fiumi, e dell'Erebo e del Caos. Conoscerete il vero, e da parte mia direte a Prodico di andare alla malora, per l'avvenire. In principio c'erano il Caos e la Notte e il buio Erebo e il Tartaro immenso; non esisteva la terra, né l'aria né il cielo. Nel seno sconfinato di Erebo, la Notte dalle ali di tenebra generò dapprima un uovo pieno di vento. Col trascorrere delle stagioni, da questo sbocciò Eros, fiore del desiderio: sul dorso gli splendevano ali d'oro ed era simile al rapido turbine dei venti. Congiunto di notte al Caos alato nella vastità del Tartaro, egli covò la nostra stirpe, e questa fu la prima che condusse alla luce. Neppure la razza degli immortali esisteva avanti che Eros congiungesse gli elementi dell'universo. Quando avvennero gli altri accoppiamenti, nacquero il cielo e l'oceano e la terra, e la razza immortale degli dèi beati »
(Aristofane. Gli uccelli 685-702.


ANTEROS

In realtà di Anteros si parla nel mito di Iside ed Osiride, dove la Dea alla ricerca del corpo di Osiride fatto a pezzi, naviga lungo le coste del Nilo e piange disperatamente il compagno morto. Anteros che l'accompagna a un certo punto non ce la fa più a sopportare la disperazione della Dea si che si getta in mare e affoga.

EROS GRECO
Ma se ne parla anche nel mito greco, perchè Afrodite, dopo esser diventata moglie di Vulcano,  poi diventa l'amante di Marte con cui genera Anteros (l'ante Eros, colui che precede l'Eros, come dire il precursore) e successivamente diventò l'amante di Mercurio e da lui ebbe un figlio che fu Eros. Ora Eros cresceva solo se stava con Antero, ma come Antero s'allontanava Eros tornava bambino. Anteros è un amore immaturo, l'amore per un partner da cui ci si aspetta l'amore totale, la soddisfazione di tutti i desideri.

Così in questa aspettativa ci sono conferme e delusioni continue, il classico: "Mi ami? Ma quanto mi ami?", un saliscendi di emozioni contrastanti, di gioie e dolori. Ma senza aver mai amato in questo modo non si è sperimentato l'amore tormentoso non si può sperimentare l'altro, quella della comprensione profonda di sè e dell'altro.

L'Antero di Iside non sopporta il dolore, cerca solo la gioia e non condivide le sofferenze, non regge alle forti emozioni. E senza questa capacità non c'è vero amore.

« Ma per me Eros non dorme
in nessuna stagione:
come il vento di Tracia infiammato di lampi
infuria accanto a Cipride
e mi riarde di folli passioni,
cupo, invincibile,
con forza custodisce l'anima mia. »

(Ibico, fr. 286)

Cicerone invece ipotizzò che Amore fosse figlio di Giove e Venere e Cupido fosse figlio della Notte e dell'Erebo; Seneca non fa distinzioni e scrisse che era figlio di Venere e Vulcano.

In un mito il suo amore per Psiche fu osteggiato da Afrodite, costringendo Psiche, colpevole di aver scorto le sembianze del Dio, a scendere nell'Ade uscendone vittoriosa.

Un po' decaduto  in età classica, il culto di Eros tornò in primo piano nella religiosità  dionisiaca e misterica, recuperando un lato notturno e infero che regola la vita e la morte. Compaiono qui le numerose figurazioni ellenistiche e romane di eroti o amorini connessi all'iniziazione del neofiata o dell’anima nell'aldilà, vicenda cui si collega la favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio nelle Metamorfosi.

Il pensiero di Platone ha lasciato una traccia profonda nel medioevo e del rinascimento, intrecciandosi con l'esegesi dell'amore cristiano, non eros ma agape, come amore di Dio per gli uomini e degli uomini per Dio. Così in ambito  teologico, l'eros di Platone tende alla dottrina di Agostino in cui il fine ultimo del comportamento perfetto in terra porta in cielo alla contemplazione della divinità. 
E così l'amore platonico per gli efebi si è santificato nell'amore puro tra Dio e gli uomini. L'amore tra i sessi sarebbe invece cosa peccaminosa e brutale.



AMORE E PSICHE

Nella storia di Apuleio, Psiche, bellissima mortale, sposa Amore-Cupido senza conoscerlo, perchè lui le si presenta solo durante la notte. Spinta dalle sorelle invidiose a scoprire la sua identità, commette una grave colpa nei confronti del Dio rischiando la separazione perpetua da lui.

AMORE E PSYCHE
Psiche, una principessa fanciulla è talmente bella che gli uomini le offrono sacrifici e la chiamano Venere. Così la divinità gelosa invia suo figlio Eros perché la faccia innamorare dell'uomo più brutto e avaro della terra e sia coperta dalla vergogna di questa relazione. E qui Venere ci fa una figura da schifo. I genitori di Psiche, nel frattempo, consultano un oracolo che risponde:

« Come a nozze di morte vesti la tua fanciulla ed esponila, o re, su un'alta cima brulla. Non aspettarti un genero da umana stirpe nato, ma un feroce, terribile, malvagio drago alato che volando per l'aria ogni cosa funesta e col ferro e col fuoco ogni essere molesta. Giove stesso lo teme, treman gli dei di lui, orrore ne hanno i fiumi d'Averno e i regni bui."(IV, 33) »

Psiche viene allora portata su una rupe e abbandonata. E qui i genitori ci fanno una figura doppiamente da schifo. Cupido però la scorge e se ne innamora, così la fa trasportare da Zefiro nel suo palazzo dove si incontreranno sempre al buio perchè Venere non se ne accorga.
La passione notturna è forte ma una notte Psiche, istigata dalle sorelle, che Eros le aveva detto di evitare, con un pugnale ed una lampada ad olio decide di vedere il volto del suo amante, per paura sia un essere orrido e bestiale.
Estasiata dalla bellezza del Dio non si accorge che una goccia d'olio cade dalla lampada e brucia la pelle di Eros che sentendosi tradito l'abbandona per sempre. Ma dal tasto un 'idea dei lineamenti del maschietto Psiche non se l'era fatta? E poi perchè al buio, avevano Venere nella porta accanto? Ma non sottilizziamo, sono le esigenze che giustificano il mito, che in realtà avrebbe un sottinteso più profondo.

Psiche disperata tenta più volte il suicidio, ma gli Dei glielo vietano, così vaga per le città alla ricerca del suo sposo, si vendica delle sorelle e prega gli Dei, finchè giunta al tempio di Venere si consegna a lei.
Questa storia ha ispirato diverse favole tra cui La bella e la Bestia

Venere sottopone Psiche a diverse prove: doveva suddividere un mucchio di granaglie con diverse dimensioni in tanti mucchietti uguali; ma le formiche l'aiutarono, poi doveva raccogliere la lana d'oro di un gruppo di pecore molto aggressive, per cui al tramonto coglie solo la lama rimasta sui cespugli. Poi doveva raccogliere l'acqua da una sorgente su una cima tutta liscia e a strapiombo, però venne aiutata dall'aquila di Giove.

 Per ultimo deve discendere negli Inferi e chiedere a Proserpina un po' della sua bellezza. Psiche disperata vuole gettarsi giù dalla torre che però si anima le spiega come fare. Durante il ritorno, però per curiosità apre l'ampolla col dono di Proserpina, che in realtà è un sonno profondo. Eros però la risveglia e chiede aiuto  a suo padre.

Così, per volontà di Giove, Psiche diventa Dea e sposa Eros. Gli Dei festeggiano con un grande banchetto dove Bacco fa da coppiere, le tre Grazie suonano e il Vulcano cucina il pranzo. Più tardi nasce la figlia, concepita da Psiche durante una notte di passione e viene chiamata Voluttà.

Fine del mito, e inizio dei commentatori, dagli antropologi agli psicologi, a trovare significati reconditi. Eros non potrebbe essere guardato con occhi profani e Psiche, che è l'anima deve purificarsi per poter guardare il Dio nel suo splendore.



IL MITO PATRIARCALE

Distorsioni patriarcali, il maschile non è l'Eros, che è sempre femminile. C'è poco da mescolare le carte, noi abbiamo una mente che si riferisce, nel presente, nel passato e nel futuro, all'esterno ed è il nostro maschile. E abbiamo un dentro che comprende istinti, sentimenti ed emozioni che è il nostro femminile. La mente, che percepiamo ad altezza fronte è il maschile, ed è la parte che decodifica il mondo, che organizza e che si rapporta con l'esterno, ed è :Maschile. Questa parte però risente di tutto ciò che gli è stato trasmesso o che gli è stato fatto, nel bene e nel male.

La parte femminile la percepiamo all'altezza del cuore, in parte anche nello stomaco e nella pancia, ed è il Femminile, che avverte tutto ma è continuamente bloccata dal maschile mentale che tenta di proteggerla e di adeguarla, ma in realtà l'imprigiona e la snatura.

Ora è la Dea nuda che non può essere impunemente svelata, non è la mente. "Io sono Colei che è, che è sempre stata e sempre sarà, e nessun uomo ha mai osato alzare il mio velo"
Questo lo dicevano le Grandi Madri sumere e ittite, un detto poi copiato dal Dio ebraico Javhè, però solo parzaialmente perchè il velo da sollevare sul Dio era imbarazzante.

Non a caso Eros viene dichiarato maschio nell'era del patriarcato e della pedofilia, cioè il tentativo di fare a meno della donna sostituendola con efebi, quindi femminei. La sessualità in qualunque forma è rispettabile se riguarda soli adulti, se non c'è coercizione nè fisica nè morale e se non comporta mali fisici. La ricerca di efebi non era omosessualità, di tutto rispetto, ma pedofilia.

Afrodite comunque fu sempre l'Eros per eccellenza in ogni parte del mondo, era la Dea lussuriosa che era vergine, cioè senza marito, ma che si accoppiava spesso e volentieri, come le sue sacerdotesse. La mente osserva e deduce, ma chi ama è l'anima. Per questo l'Eros è definito Penia nel Simposio, perchè la mente sente e soffre la mancanza dell'Eros, perchè l'Eros è solo anima.












LE PROVINCE ROMANE

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LE GUERRE DI ESPANSIONE IN ITALIA

Una provincia romana è la più grande unità amministrativa dei domini in territorio straniero dell'antica Roma, precedentemente durante la Repubblica nel suolo italico, e da Augusto in po fuori di esso. (il termine provincia proviene pertanto dai Romani cioè dal latino).

PROVINCE ROMANE (zoommabile)
Cacciato l'ultimo re etrusco e instaurata la repubblica nel 509 a.c., Roma dovette affrontare le guerre contro le popolazioni italiche più vicine: Etruschi, Latini, Volsci, Equi. Tutte popolazioni che commerciavano in concorrenza e premevano ai confini per estendersi, per cui o si conquistava o si diventava conquistati e  chiavi. Roma conquistò subito il Lazio, poi condusse altre guerre: contro Galli, Osco-Sanniti e la colonia greca di Taranto, alleata con Pirro, re dell'Epiro, conquistando l'Italia centrale fino alla Magna Grecia.

Durante il III ed il II sec. a.c. il dominio di Roma si estese al Mediterraneo occidentale con le tre guerre puniche (264-146 a.c.) contro Cartagine, la sconfitta dei Galli sul Po e la conquista di Numanzia nella penisola iberica.

Dal 200 al 133 a.c. Roma combattè, nel Mediterraneo orientale, tre guerre macedoniche (212-168 a.c.) contro la Macedonia, contro Antioco ed il regno seleucide, conquistando e distruggendo Corinto (nel 146 a.c.), ed ereditando il Regno di Pergamo (133 a.c.). Iniziarono così le prime province romane: la Sicilia, la Sardegna e Corsica, la Spagna, la Macedonia, la Grecia, l'Africa.



I GOVERNATORI

L'organizzazione dei nuovi territori annessi alla res publica romana, veniva di solito realizzata dal generale che li aveva conquistati, per mezzo di una lex provinciae ("legge della provincia" per la "redactio in formam provinciae" o "costituzione in forma di provincia"), emanata in base ai poteri a lui delegati con l'elezione alla carica. La legge doveva quindi essere ratificata dal Senato, che poteva inoltre inviare delle commissioni di legati con poteri consultivi e di controllo.

Il termine provincia, dopo l'estensione del territorio romano tra la fine del III e il II sec. a.c., designò poi non solo la sfera di competenza di un magistrato, ma il territorio su cui esercitava i suoi poteri. La legge stabiliva la suddivisione in circoscrizioni amministrative ( conventus, da cui la chiesa prese ) e il grado di autonomia delle città già esistenti. Non sempre tuttavia la legge seguiva immediatamente alla conquista, soprattutto in epoca più antica.

Le province erano governate da magistrati appositamente eletti (pretori) dal popolo tramite i suoi rappresentanti, o da consoli o pretori di cui veniva prolungata la carica (prorogatio imperii per cui diventavano proconsoli e propretori), aiutati nell'amministrazione finanziaria da proquestori e da altri funzionari (cohors praetoria).

(zoommabile)


ETA' REPUBBLICANA

Le province erano sottoposte a tributo (vectigal) e sfruttate economicamente con più o meno generosità a seconda della risposta delle province, a volte conquistate in via pacifica, come per i testamenti regali che portarono all'acquisizione del regno di Pergamo, della Cirenaica, della Bitinia e dell'Egitto e nei quali si prevedeva il rispetto delle precedenti autonomie cittadine.

Roma d'altronde proteggeva da qualsiasi attacco nemico, che di solito brutalizzava gente e beni devastando terre e città. Per contro Roma amava edificare splendidi edifici pubblici che abbellivano le città, con acquedotti, portici, fori, statue, fontane e giardini. Inoltre avviava con la provincia scambi commerciali stabiliti con nuove vie di comunicazione, a iniziare dalle strade, che arricchivano la popolazione.

Le città occupate dai romani conservarono in grado variabile la propria autonomia (spesso in relazione all'atteggiamento tenuto nei confronti del vincitore):

- civitates stipendiariae - (città stipendiarie), obbligate a pagare un tributo come comunità e, se si trovavano in provincia, venivano comprese in questa.
- civitates liberae - (libere), per concessione, revocabile, da parte di Roma,
- civitates sine foedere liberae - (non federate ma libere) lasciate libere con un ordinamento giuridico regolato da una legge data da Roma, che si riservava il diritto di revocarla, conservavano le loro magistrature, assemblee, il loro diritto patrio per atto unilaterale (lex data) di Roma, che poteva, tuttavia, abrogare la lex in qualsiasi momento
- civitates liberae et immunes - (libere ed esenti da ytibuto), per concessione, revocabile, da parte di Roma, non erano sottoposte a tributo, anche quando dovevano fornire milizie terrestri e navali e grano in caso di guerra;
- civitates immunes - (immuni dal tributo) non incluse in una provincia e non soggette a tributo
- civitates foederatae - (alleate) per patto, che intervenivano in aiuto in caso di guerra o che potevano chiedere aiuto se attaccate,  o  (civitates sine foedere liberae),
civitates imminuto iure - avvenuta l'incorporazione – sopportavano oneri senza poter partecipare alla vita politica di Roma, che le trattava in modo più benevolo se erano municipes Caerites e meno generosamente se erano municipes aerarii.
civitates optimo iure - con l'annessione a Roma, avevano acquistato il diritto di reggersi con il loro antico ordinamento giuridico e i loro cittadini potevano inoltre partecipare alla vita politica romana recandosi nell'Urbe, dove erano convocati comizi e concili della plebe;
- civitates sine suffragio -. annesse senza concessione della cittadinanza romana- municipii - la concessione ad altre città dello status di municipio, con la romanizzazione dei territori conquistati.
colonie - di cittadini romani o italici,

Il governatore esercitava un potere assoluto (imperium) militare, amministrativo, finanziario e giuridico, sia penale che civile. La provincia era suddivisa in distretti giudiziari (conventus o diocesi), ciascuno con il proprio capoluogo.

Così una piccola potenza regionale ancora all'inizio del IV sec. a.c. potè diventare caput mundi nel giro di 500 anni,  non solo per l'efficienza militare delle legioni, non solo per la determinazione politica del Senato e del popolo romano, ma anche per il consenso suscitato fra le genti non romane (italiche prima e provinciali poi), a cominciare dai socii italici, dapprima per la spartizione dei bottini in guerra, poi (dopo la guerra sociale) per la partecipazione effettiva alla vita politica dell'Urbe, che permetteva la carriera, il commercio e la sicurezza di non venire attaccati dai nemici.
Per quanto riguarda, invece, il consenso nelle province (che a differenza dell'Italia erano sottoposte a tributum), è interessante la definizione di Santo Mazzarino: «L'impero romano era un'unità supernazionale, di cultura romano-ellenistica, il cui ideale era la pax affidata a un esercito permanente». Ma prima di lui l'aveva detto Augusto: - Si vis pacem para bellum - cioè se vuoi la pace prepara la guerra. E a quei tempi era assolutamente vero.



LE COLONIE

Esistevano due tipi di colonie: quelle formate da cittadini romani, i cui abitanti avevano la cittadinanza romana col riconoscimento di tutti i diritti, e un'amministrazione cittadina sotto il controllo di Roma, e quelle di diritto latino, con magistrati locali, autonomia amministrativa e, in alcuni casi, con l'emissione di monete, con l'obbligo di fornire, in caso di guerra, l'aiuto richiesto da Roma secondo la formula togatorum.

Gli abitanti delle colonie latine non erano Cives Romani Optimo Jure, ma possedevano lo ius connubii e lo ius commercii secondo i diritti del Nomen Latinum. Le colonie venivano fondate secondo il diritto latino sia come forma di controllo della diffusione della cittadinanza romana, considerata giustamente superiore alle altre visto che possedeva codici e leggi dove altrove erano ignote, sia per motivi pragmatici,: non essendo direttamente governate da Roma come le colonie di diritto romano ma avendo magistrati propri potevano meglio e più velocemente prendere decisioni per difendersi da pericoli imminenti.
Una colonia romana era una comunità autonoma, situata in un territorio conquistato da Roma in cui si erano stanziati dei cittadini romani, legata da vincoli di eterna alleanza con la madrepatria. La più antica fu Anzio, fondata nel 338 a.c. Inizialmente servivano da avamposto per controllare un territorio che sarebbe stato ulteriormente colonizzato, come Aquileia  per l'espansione romana verso il nord. Verso la fine della Repubblica le colonie servirono soprattutto per dare di che vivere ai veterani dell'esercito romano, cioè un terreno da coltivare e una casa, riducendo inoltre la pressione demografica dell'Urbe, e talvolta per separare genti oltremodo ribelli affinchè non si coalizzassero e rinfocolassero tra loro (vedi i sanniti).



LA ROMANIZZAZIONE

Lo strumento principale di diffusione attraverso il quale Roma esercitò quell'opera di integrazione e di assimilazione delle province che assicurò per alcuni secoli stabilità e compattezza all'Impero furono le città dove risiedevano i ceti privilegiati, dove veniva distribuita e consumata la ricchezza prodotta dalle campagne, nonchè il centro di diffusione dei modelli di comportamento della società romana. Le città vennero per lo più ricostruite sul modello del foro romano, concentrando le attività pubbliche, sia laiche che religiose e commerciali in un centro ben organizzato che forniva molte opportunità di lavoro.

PROVINCE ROMANE 68 - 69 a.c. (zommabile)
Il processo di romanizzazione, cioè l'assimilazione culturale e politica del sistema romano, fu rapido ed esteso soprattutto nei primi secoli dell'Impero. Uno dei metodi privilegiati fu la costruzione di scuole dove si imparava latino e cultura. I padroni mandavano alla scuola non solo i figli e i liberti ma pure gli schiavi, tanto è vero che il grado di alfabetizzazione nell'impero romano era come quello di oggi. Con l'avvento del cristianesimo invece il latino non si parlò più nemmeno a Roma, perchè le scuole vennero tutte chiuse tranne quelle riservate ai sacerdoti. La lingia volgare, cioè del volgo, nacque così.

Il sistema economico e burocratico imperiale forniva, inoltre, grandi opportunità di carriera non solo agli aristocratici, e ai cittadini di rango equestre, ma pure ai plebei e ai liberti, per non parlare dell'incremento fantastico dei commerci grazie alle grandi comunicazioni viarie e pure navali.

La romanizzazione permeò l'Occidente e le province più romanizzate furono la Gallia Narbonense, la Spagna e l'Africa, dove si affermarono la lingua e la cultura latina, fu invece minore in Oriente, dove la lingua greca e la cultura ellenistica rappresentarono un ostacolo insormontabile alla penetrazione della romanità.



PROVINCE IN EPOCA REPUBBLICANA
  • Sicilia (Sicilia): annessa come provincia nel 241 a.c. e con vari mutamenti di ordinamento fino alla lex Rupilia del 131 a.c. Era governata da un Propretore di rango pretorio e di rango senatoriale. La sua capitale era Syracusae (Siracusa)
  • Sardegna e Corsica (Sardinia, annessa nel 238 a.c et Corsica annessa nel 237). La provincia era governata da un pretore (attestato a partire dal 227 a.c, con capoluogo inizialmente a Nora e quindi a Carales (Cagliari), in Sardegna, cui Cesare attribuì lo stato di municipio. Ambedue dipesero da un unico propretore.
  • Spagna Citeriore (Hispania Citerior) e Spagna Ulteriore (Hispania Ulterior): annesse nel 218 a.c. e costituite province nel 197 a.c. l'Hispania assorbì totalmente la cultura latina, ne adottò la lingua, i costumi e le leggi, acquisendo un'importanza fondamentale all'interno dell'Impero romano.
  • Macedonia (Macedonia): conquistata nel 168 a.c. e inizialmente divisa in quattro "repubbliche" e costituita quindi come provincia nel 146 a.c. Dopo la conquista di Corinto nel 146 a.c., anche parte della Grecia venne probabilmente annessa alla nuova provincia di Macedonia.
  • Africa (Africa): creata nel 146 a.c. dopo la distruzione di Cartagine e poi ampliata con parti del regno di Numidia.
  • Asia (Asia): creata nel 133 a.c. dopo la morte di Attalo III di Pergamo, che aveva lasciato in eredità allo stato romano il suo regno, ampliato con i territori ceduti dai Seleucidi nel 188 a.c.
  • Gallia Transalpina (Gallia Transalpina): il territorio da Tolosa alle Alpi fu annesso nel 121 a.c.  e nel 118 a.c. venne fondata la colonia di Narbona chiamata Gallia Narbonensis.
  • Gallia Cisalpina (Gallia Cisalpina): dopo la progressiva conquista del territorio e deduzione di colonie nel corso del III e II sec. a.c. la costituzione in provincia dovette avvenire poco dopo il conferimento della cittadinanza agli abitanti dell'Italia peninsulare nel 90 a.c. Durante le conquiste di Cesare, le Gallia Transalpina e Cisalpina erano state riunite sotto il suo comando, e vi si erano aggiunti man mano i territori conquistati della Gallia Comata. Nel 42 a.c. la provincia fu abolita e i confini settentrionali dell'Italia vennero portati ufficialmente alle Alpi
  • Cirene e Creta (Cyrene et Creta): nel 96 a.c. Tolomeo Apione, figlio di Tolomeo VII, lasciò il proprio regno di Cirenaica in eredità allo stato romano e la costituzione in provincia avvenne nel 74 a.c. Nel 67 a.c. venne annessa anche Creta e sotto Augusto nel 27 a.c. le due province vennero riunite.
  • Bitinia e Ponto (Bythinia et Pontus): nel 74 a.c Nicomede IV lasciò in eredità allo stato romano il proprio regno di Bitinia; dopo la terza guerra mitridatica e la sconfitta del Ponto Pompeo creò la nuova provincia nel 63 a.c.
  • Cilicia e Cipro (Cilicia et Cyprus): secondo alcuni la Cilicia era stata già annessa dal 101 -100 a.c., ma venne creata probabilmente come provincia solo dopo il 67 a.c. da Pompeo. Dal 58 a.c. vi fu annessa anche l'isola Cipro in seguito al discusso testamento di Tolomeo Alessandro (morto nell'88 a.c.). 
  • Siria (Syria): deposto l'ultimo sovrano seleucide, Antioco XIII, Pompeo creò la nuova provincia nel 64 a.c.
  • L'Illirico (Illyricum), come la Macedonia, era stato diviso in tre "repubbliche" indipendenti nel 168 a.c. La Dalmazia venne conquistata da Cesare nel 46 a.c. 
  • La Palestina venne vinta da Pompeo nel 63 a.c. ma la governarono Erode Antipatro, Erode il Grande, che riebbe il titolo di re, e i tre figli di quest'ultimo.
  • La Numidia fu suddivisa tra il regno di Mauretania e la nuova provincia dell'Africa Nova nel 46 a.c., mentre la vecchia provincia d'Africa prese il nome di Africa Vetus.  Il regno di Mauretania, lasciato in eredità nel 33 a.c. allo stato romano dal re Bocco II, venne in seguito assegnato nel 25 a.c. al re Giuba II, della famiglia reale numida.


IL SUOLO ITALICO

L'Italia costituiva il territorio di  Roma, ager romanus, in quanto tale non era una provincia. Durante il principato di Augusto venne suddivisa in undici regiones:
- Latium et Campania, 
- Apulia et Calabria, 
- Lucania et Bruttii, Samnium, 
- Etruria, 
- Picenum, 
- Umbria, 
- Aemilia, 
- Venetia et Histria, 
- Liguria, 
- Transpadana.

Gli abitanti liberi della penisola erano tutti cittadini romani e non pagavano l'imposta fondiaria (ius italicum), tale imposta era riservata ai cittadini dei territori provinciali, territori considerati proprietà del popolo romano, una proprietà che andava riconosciuta attraverso il pagamento dell'imposta fondiaria.



ETA' IMPERIALE

Già Cesare si era premurato di porre ai confini dell'impero, come governatori, i suoi comandanti più abili e fidati, che erano in grado di affrontare gli attacchi nemici e di correre in suo aiuto qualora fosse necessario. Affidò ai senatori le più tranquille e meno attaccabili.

PROVINCE ROMANE 117 d.c. (zommabile)
Memore di ciò Augusto affidò 
alcune province, le più antiche e ormai pacificate, in cui non erano necessarie le legioni, al controllo del Senato (province senatorie) e furono rette da proconsoli e propretori, eletti per un anno. I questori si occupavano dell'amministrazione finanziaria e i procuratori imperiali dell'amministrazione delle proprietà del princeps (res Caesaris).

Le altre province (province imperiali), che richiedevano un presidio legionario o di fondamentale importanza per le finanze dello stato, rimasero sotto il diretto controllo dell'imperatore investito dell'imperium proconsulare maius a vita, con poteri proconsolari prevalenti sugli altri proconsoli. Nelle province l'imperatore inviava un proprio rappresentante, il legatus Augusti pro praetore un ex pretore o un ex console, nominato al di fuori del cursus honorum e per un periodo di tempo variabile, con un procurator Augusti preposto alla riscossione tributaria e al pagamento del soldo all'esercito, e un legatus legionis per ogni legione presente sul territorio.

L'Egitto era invece governato da un prefetto di rango equestre nominato dall'imperatore. Il primo prefetto fu il poeta e praefectus fabrum di Ottaviano, Gaio Cornelio Gallo. L'Egitto fu sempre considerato dai Romani una provincia, e non, come la storiografia ottocentesca voleva, un dominio privato di Augusto.

Dall'età di Claudio nacquero le province di rango procuratorio, rette da un procurator Augusti. Questi nuovi territori, anche di grandi estensioni ma con poche città, erano rette da un procuratore di rango equestre, a cui l'imperatore affidava la provincia a tempo indeterminato, col titolo di procurator Augusti. Le province procuratorie non avevano di norma stanziamenti legionari; quando questo accadeva il procuratore riceveva il titolo di procurator pro legato. L'esercito stanziato in queste province era costituito solo da auxilia. Il procuratore presidiale si occupava di amministrazione, difesa, giustizia e di tributaria.

Al tempo di Nerone erano province procuratorie:

- Raetia, 
- Noricum, 
- Mauretania Tingitana, 
- Mauretania Caesariensis, 
- Alpes Maritimae, 
- Alpes Cottiae, 
- Alpes Poeninae, 
- Thracia, 
- Cappadocia, 
- Iudaea, 
- Sardinia.

Le province potevano passare, a seconda delle necessità contingenti da senatorie a imperiali o viceversa per volontà dell'imperatore che controllava anche sull'amministrazione delle province senatorie e interveniva spesso nella nomina dei governatori. Le province più grandi o con più legioni  vennero suddivise in province più piccole, allo scopo di evitare che un unico governatore avesse troppo potere nelle sue mani.

Rispetto al regime tributario:
- le province senatorie erano sottoposte allo stipendium, somma fissa raccolta autonomamente dalle singole città.
- le province imperiali, come l'Egitto, furono sottoposte ad una rilevazione catastale, con il tributo che ricadeva direttamente sul suolo e sui singoli proprietari.
- i cittadini romani pagavano invece le tasse sulle manomissioni, sulle vendite all'asta e la vicesima hereditatum (tassa di successione).



LE NUOVE PROVINCE IMPERIALI

Roma conobbe la sua massima espansione nel II sec. sotto l'imperatore Traiano. I confini dell'impero vennero resi stabili e fissati sui fiumi Reno, Danubio ed Eufrate e le espansioni successive tennero conto di questi confini, mentre le enclaves ancora formalmente indipendenti vennero  inserite nell'organizzazione provinciale.
  • L'Egitto (Aegyptus) era stato lasciato a Roma per testamento dal re Tolomeo XI  durante il suo brevissimo regno nell'80 a.c., ma la sua diretta annessione fu ritardata. Dopo la sconfitta di Azio del 31 a.c.  divenne una provincia equestre, con un prefetto munito di imperium che agiva come suo rappresentante: il praefectus Alexandreae et Aegypti. La provincia era costituita nell'aprile del 29 a.c..
  • L'Illirico (Illyricum) venne creato nella riforma augustea  provincia senatoria, poi provincia imperiale nell'11 a.c. La regione venne definitivamente sottomessa nel 9 d.c. da Tiberio e poi suddivisa con la creazione della Mesia, e quindi con la suddivisione in Illirico superiore (poi Dalmatia) e inferiore (poi Pannonia),  più tardi suddivisa in Pannonia superiore e inferiore. La Mesia conservò fino alla conquista della Dacia sotto Traiano il carattere di terra di occupazione militare a difesa dei confini.
  • La Tracia venne istituita come provincia procuratoria sotto Claudio nel 44-46 e vi fu annesso il Chersoneso Tracico, distaccato dalla Macedonia.
  • La Galazia (Galatia), venne annessa nel 25 a.c. alla morte del re Aminta unendovi il regno del Ponto Polemoniaco e la Cappadocia, nel 17, più tardi nuovamente distaccata come provincia autonoma. 
  • La nuova provincia di Licia e Panfilia  (staccata dalla Galazia), venne creata sempre sotto Claudio nel 43 dc.
  • La Palestina alla morte di Erode il Grande nel 4 a.c. il regno venne diviso tra i tre figli e nel 6 venne creata la prefettura di Iudaea, un distretto sottoposto all'autorità del legato di Siria. Tra il 38 e il 41 Erode Agrippa I, nipote del primo Erode, ottenne il titolo di re e acquisì progressivamente i territori del regno, compresa la prefettura di Giudea. Alla sua morte nel 44 l'intero regno fu trasformato  in provincia autonoma, retta da un procurator Augusti. Dopo la ribellione del 66-73, con la distruzione di Gerusalemme, il governatore fu un legato imperiale. Un'altra rivolta ebraica vi fu tra il 114 e il 117 e un'altra nel 132-136 in seguito alla fondazione della Colonia Iulia Aelia Capitolina sul sito di Gerusalemme.
  • Asturia e Galizia, le regioni montuose della Spagna settentrionale furono definitivamente sottomesse tra il 27 e il 25 a.c.  e il territorio venne diviso in tre nuove province: Betica, Tarraconense e Lusitania. 
  • Tra il 27 e il 16 a.c. vennero inoltre riorganizzati i territori conquistati da Cesare nelle Gallie: alla Gallia Transalpina, ora Gallia Narbonense (Gallia Narbonensis) si aggiunsero le Tres Galliae: l'Aquitania, la Gallia Belgica e la Gallia Lugdunense (Gallia Lugdunensis).
  • Il Norico (Noricum) venne conquistato in modo pacifico, nel 16 a.c. e inizialmente si conservò formalmente la monarchia locale nella capitale, l'oppidum di Noreia. La provincia procuratoria del Norico fu creata da Claudio.
  • La Rezia (Raetia) fu pacificata a partire 15 a.c., mediante due spedizioni condotte da Druso e da Tiberio. La provincia procuratoria di Raetia venne creata anch'essa da Claudio. Inizialmente comprendeva anche le Alpi Pennine (Vallis Poenina o Alpes Poeninae), al più tardi staccatasi e riunitisi con le vicine Alpes Aterctianae (Graiae) con Settimio Severo. 
  • Le Alpi Marittime (Alpes Maritimae) e le Alpes Cottiae furono organizzate in province solo con Nerone per assicurare le comunicazioni con la Gallia attraverso i passi alpini e il controllo del portorium, il diritto per il passaggio: il trofeo di La Turbie, o trofeo delle Alpi, che celebra le vittorie contro le tribù alpine, elenca le genti sconfitte nei due distretti. 
  • Il regno di Cozio, che si era sottomesso pacificamente ai Romani, si mantenne infatti sino a Nerone, sotto la denominazione di prefettura.
  • La Dacia venne conquistata nel corso di due campagne militari condotte da Traiano contro il re Decebalo nel 101-102 e 105. Le province procuratorie della Dacia vennero create da Adriano: la Dacia Inferior, dal 120  al 169, mentre la Dacia Porolissensis, elevata a provincia dal 119 al 168, venne ridotta insieme alla Dacia Inferior in distretto finanziario sotto il comando del legato delle tre Dacie.
  • Le due province germaniche, Germania superior e Germania inferior, nacquero dalla  disfatta di Varo ingaggiato da Augusto, con risultati disastrosi, che voleva portare il confine fino all'Elba. 
  • Gli Agri Decumates, oltre il Reno, vennero annessi abbastanza pacificamente da Domiziano alla Germania superiore nell'83. Le due province furono essenzialmente territori di occupazione militare a difesa dei confini.
  • La Britannia venne annessa sotto Claudio nel 43, probabilmente per controllare un territorio che poteva rappresentare un pericolo per le province galliche.
  • La provincia di Mesopotamia fondata nel 115 con la campagna contro i Parti di Traiano, venne divisa in province, facendovi rientrare il territorio della Siria a oriente dell'Eufrate e quello dell'Iraq settentrionale. Fu abbandonata da Adriano soli due anni più tardi nel 117. 
  • Il regno di Mauretania venne accorpato sotto Caligola, che ne fece uccidere nel 40 l'ultimo re Tolomeo. Claudio ne fece due province imperiali, rette da procuratori, la Mauretania Caesariensis e la Mauretania Tingitana.
  • La Mesopotamia settentrionale tornò romana per le campagne partiche di Lucio Vero del 163-166  fino al regno di Commodo. Perduta nuovamente attorno al 192, fu riconquistata da Settimio Severo nel 197 e governata da un prefetto di rango equestre, il Praefectus Mesopotamiae, sul modello del prefetto d'Egitto. Nella provincia furono dislocate due legioni appena formate: la I Parthica e la  III Parthica.


NUOVE E VECCHIE PROVINCE IMPERIALI

- Gallia: suddivisa in IV Provinciae con 64 Civitates e XV tribù confederate
Aquitania (Gergovia)
Lugdunensis (Lutetia Parisorum)
Belgica (Durocortorum Remorum) con la temporanea occupazione del litorale germanico (12 a.C.-9 d.C.)
Narbonensis (Massilia), provincia senatoria
- Hispania: distinta in Ulterior e Citerior e suddivisa in IV Provinciae
Baetica: provincia senatoria con IV districtes (Corduba, Gades, Astigi, Hispalis)
Lusitania: con III districtes (Emerita, Pax Iulia, Scallabis e distretto autonono di Vettonia)
Asturia et Gallaecia: distinta in Transmontana e Augustana (Asturica Augusta)
- Sicilia: provincia senatoria (Syracusae)
- Sardinia et Corsica: provincia senatoria (Caralis)
- Dalmatia poi suddivisa in
Illyricum: provincia senatoria o Dalmatia propriamente detta (50 d.C.)
Superius Illyricum (Salonae)
- Alpes
Maritimae (Forum Germanorum)
Cottiae: II districtes (Segusio, Eburodunum)
Gratiae et Poeninae: III districtes (Medullia/Forum Iulii, Ceutronia/Axima, Poeninae/Drusomagus)
- Raetia et Vindelicia (Augusta Vindelicorum)
- Pannonia o Inferius Illyricum poi distinta in
Inferior (Aquincum)
Superior (Carnuntum)
- Noricum (Virunum), con i distretti Superior (Lauriacum) e Inferior (Vindobona)
- Moesia
Superior (Naissus)
Inferior (Oescus)
- Macedonia: provincia senatoria e temporaneamente imperiale (Thessalonica) costituita da IV confederazioni tribali; dal 148 è unita all'Achaia



LE RIFORME DI DIOCLEZIANO

L'imperatore Diocleziano riformò radicalmente l'impero attraverso la Tetrarchia (284-305), con cui divise l'impero in quattro parti, ognuna difesa e amministrata da un Augusto o da un Cesare, subordinato all'augusto. Alla morte o all'abdicazione dei due Augusti, i due Cesari diventavano Augusti e designavano altri due Cesari. Nel 290, Diocleziano suddivise l'Impero in un centinaio di province che includevano le regiones d'Italia, anche se queste ultime non furono mai chiamate tali. Le province vennero raggruppate in dodici diocesi, ognuna governata da un vicario.

RIFORMA DI DIOCLEZIANO (zommabile)
La Diocesi, dapprima una suddivisione amministrativa dell'Impero romano, designò poi un territorio di fedeli cristiani seguiti ed amministrati da un vescovo. Solo i proconsoli e il prefetto urbano di Roma (e in seguito Costantinopoli) erano esenti, direttamente subordinati ai tetrarchi. Il vicario controllava i governatori delle province: proconsules, consulares, correctores, praesides e giudicava in appello le cause già decise in primo grado. I vicari non avevano poteri militari, infatti le truppe della diocesi erano sotto il comando di un comes rei militaris, che dipendeva dal magister militum e aveva alle sue dipendenze i duces ai quali era affidato il comando militare nelle singole province.
Il sistema della tetrarchia durò poco, per via degli eserciti tutt'altro che disposti a deporre il potere politico che avevano avuto fino ad allora con numerosi vantaggi e privilegi. Già con la morte di Costanzo Cloro (306) le truppe stanziate in Britannia acclamarono suo figlio Costantino I che, tradendo il giuramento fatto alla Tetrarchia, iniziò la guerra civile con gli altri tre pretendenti. Dopo aver battuto Massenzio e Massimino, restarono Licinio e Costantino che stipularono una pace. Ma nove anni dopo, nel 324, Costantino attaccò e sconfisse Licinio, che venne relegato in Tessaglia dove morì in seguito, assassinato dopo essere stato accusato di complotto. Il sistema tetrarchico non venne più restaurato.




TETRARCHIE SOTTO DIOCLEZIANO



TETRARCHIA D'ORIENTE

- Augusto d'Oriente (Diocleziano) -
- Diocesi Pontica: Bitinia, Galatia, Paflagonia, Cappadocia I, Cappadocia II, Diospontus, Pontus, Polemoniacus, Armenia I, Armenia II. 
- Diocesi Asiana: Hellespontus, Asia, Caria, Panfilia, Lycia, Lidia, Pisidia, Phrygia I, Phrygia II.
capitale Nicomedia
- Diocesi d'Oriente: Isauria, Cilicia, Cipro, Augusta Euphratensis, Siria Coele, Osroene, Mesopotamia, Fenicia, Augusta libanese, Palestina I, Palestina II, Arabia, Aegyptus Herculia, Aegyptus Iovi, Tebaide, Libia superiore, Libia inferiore.

Cesare d'Oriente -
- Diocesi delle Pannonie: Noricum ripense, Noricum mediterraneo, Dalmazia, Pannonia superiore, Pannonia inferiore, Savense, Valeria.
capitale Sirmio
- Diocesi delle Mesie: Moesia I, Praevalitana, Dardania, Dacia mediterranea, Dacia ripensis, Epirus vetus, Epirus nova, Macedonia, Thessalia, Acaia, Creta.
- Diocesi della Tracia: EuropaTraciaHaemimontusRodopeMesia IIScythia



TETRARCHIA D'OCCIDENTE

- Augusto d'Occidente (Massimiano) -
- Diocesi Italiciana: Latium et Campania, Apulia et Calabria, Lucania et Bruttii, Samnium, Picenum, Umbria et ager Gallicus, Etruria, Aemilia, Liguria, Venetia et Histria e Transpadana,Sicilia, Sardegna e Corsica, Alpes Cottiae e la Raetia. Capitale Milano.
- Diocesi d'Africa: Africa proconsulare zeugitana, Byzacena, Mauretania Sitifensis, Mauretania Caesariensis, Numidia miliziana, Numidia cirtense, Tripolitania.

- Cesare d'Occidente (Costanzo Cloro) -
- Diocesi delle Britannie: Maxima Caesariensis, Britannia I, Britannia II, Flavia Caesariensis.
capitale Augusta Treverorum
- Diocesi delle Gallie: Lugdunensis I, Lugdunensis II, Belgica I, Belgica II, Germania I, Germania II, Alpes Poeninae et Graiae, Sequania.
- Diocesi di Vienne: Viennense, Alpes Maritimae, Aquitanica I, Aquitanica II, Novempopulana, Narbonensis I, Narbonensis II.
- Diocesi delle Spagne: Betica, Baleari, Cartaginiense, Tarraconense, Galizia, Lusitania, Mauretania Tingitana



DA COSTANTINO A TEODOSIO

Anche se venne abolito il titolo di Cesare, le quattro suddivisioni amministrative vennero restaurate nel 318 dall'Imperatore Costantino I, nella forma di prefetture del pretorio, i cui prefetti cambiavano frequentemente. Costantino creò anche una seconda capitale, Nova Roma (che presto cambiò nome in Costantinopoli), che divenne la Capitale della parte orientale dell'Impero. decise di costruire una seconda capitale in una zona strategica nel punto di passaggio tra Europa e Asia Minore: Costantinopoli. Tra le questioni irrisolte ci furono quella dell'arruolamento dell'esercito, sempre più composto da germani, e le differenze sociali tra città e campagna.

PROVINCE NEL 4° SECOLO (zommabile)
Il cristianesimo divenne religione ufficiale dell'impero grazie ad un editto emanato nel 380 da Teodosio che la imponeva come unica e sola religione ossequiabile, pena la confisca dei beni e la morte. Teodosio fu l'ultimo imperatore di un impero unificato: alla sua morte i figli, Arcadio ed Onorio, si divisero l'impero. La capitale dell'Impero romano d'Occidente divenne Ravenna

Roma, ormai dimenticata, venne saccheggiata dai Visigoti comandati da Alarico nel 410 e di nuovo nel 455, da parte di Genserico, re dei Vandali. La ricostruzione di Roma, ormai regno in terra della spiritualità cristiana, venne curata dai papi Leone Magno e dal successore Ilario, che però non si occuparono tanto delle difese quanto di costruire chiese; come si disse: Roma aveva più chiese che case, e più preti che abitanti. Infatti nel 472 la città fu saccheggiata per la terza volta da Ricimero e Anicio Olibrio. La deposizione di Romolo Augusto del 22 agosto 476 decretò la fine dell'impero romano d'occidente e l'inizio dell'oscura era medievale.
In Italia Roma cessò di essere residenza imperiale, che venne spostata prima a Mediolanum (Milano) e poi a Ravenna. Nel IV sec. la struttura amministrativa dell'Impero venne modificata più volte. Le Province e le diocesi vennero divise per formarne di nuove, la prefettura del pretorio dell'Illirico venne abolita e riformata. Con la morte di Teodosio I nel 395, l'Impero venne diviso definitivamente in due parti: l'Impero romano d'Occidente e l'Impero romano d'Oriente.
Le diocesi divennero 13 , 6 in Occidente e 7 in Oriente. 



IN ORIENTE:

- PREFETTURA DEL PRETORIO D'ORIENTE -

- Diocesi d'Egitto: Aegyptus I, Aegyptus II, Augustamnica I, Augustamnica II, Arcadia d'Egitto, Thebais Superior, Thebais Inferior, Libia superior, Libia inferior.
- Diocesi d'Oriente: Cilicia I, Cilicia II, Isauria, Cipro, Siria, Siria Salutare, Siria Eufratense, Osroene, Mesopotamia, Fenicia, Fenicia Libanese, Palestina I, Palestina II, Palestina Salutare, Arabia.
- Diocesi del Ponto: Bitinia, Galatia I, Galatia II Salutaris, Paflagonia, Cappadocia I, Cappadocia II, Helenopontus, Pontus Polemoniacus, Armenia I, Armenia II.
- Diocesi d'Asia: Asia, Hellespontus, Panfilia, Caria, Lidia, Lycia, Lycaonia, Pisidia, Phrygia Pacatiana, Phrygia Salutaria, Insulae.
- Diocesi di Tracia: Europa, Tracia, Haemimontus, Rhodope, Mesia II, Scythia.


- PREFETTURA DEL PRETORIO DELL'ILLIRICO -

- Diocesi di Dacia:
Dacia mediterranea, Moesia I, Praevalitana, Dardania, Dacia ripensis.
- Diocesi di Macedonia: Macedonia I, Macedonia II Salutaris, Thessalia, Epirus vetus, Epirus nova, Acaia, Creta.



IN OCCIDENTE:

- PREFETTURA DEL PRETORIO D'ITALIA -

- Diocesi dell'Italia Suburbicaria:
Campania, Tuscania et Umbria, Picenum Suburbicarium, Apulia et Calabria, Bruttia et Lucania, Samnium, Valeria, Sicilia, Sardegna e Corsica.
- Diocesi dell'Italia Annonaria: 
Venetia et Istria, Cozie, Liguria, Aemilia, Flaminia et Picenum Annonarium, Alpes Cottiae, Raetia I, Raetia II, Dalmazia, Noricum mediterraneum, Noricum ripense, Pannonia I, Pannonia II, Savia, Valeria ripensis.
- Diocesi d'Africa: 
Africa proconsularis, Byzacena, Mauretania Sitifensis, Mauretania Caesariensis,  Numidia, Tripolitania.


- PREFETTURA DEL PRETORIO DELLE GALLIE -

- Septem Provinciae:
Lugdunensis I, Lugdunensis II, Lugdunensis III, Belgica I, Belgica II, Germania I, Germania II, Alpes Poeninae et Graiae, Maxima Sequanorum, Viennense, Alpes Maritimae, Aquitania I, Aquitania II, Novempopulana, Narbonensis I, Narbonensis II.
- Diocesi di Spagna: 
Betica, Baleari, Cartaginiense, Tarraconense, Galizia, Lusitania, Mauretania Tingitana.
- Diocesi di Britannia: 
Maxima Caesariensis, Britannia I, Britannia II, Flavia Caesariensis, Valeria.



OCCIDENTE E ORIENTE DIVISI: 395 d.c.

Mentre l'Impero d'Occidente cadde nel 476 a causa delle invasioni barbariche, nell'Impero d'Oriente, o Impero bizantino, Giustiniano I fece importanti riforme nel 534-536 abolendo, in alcune province, la separazione tra autorità civile e militare. I successori di Giustiniano istituirono poi gli Esarcati nel 580 in Italia e in Africa, e nel 640 le prefetture e le diocesi vennero abolite e sostituite dai themata, circoscrizioni militari difese da soldati-contadini locali. Queste riforme portarono all'unione dei poteri civili e militari nelle mani di un'unica persona, l'esarca negli esarcati in Occidente e lo strategos nei themata. L'istituzione dei themata (o temi), pur provocando la graduale scomparsa delle prefetture in Oriente, non portò subito all'abolizione delle province: infatti le vecchie province continuarono a esistere all'interno dei temi fino al IX secolo, amministrate dal proconsole del tema.

TEMPIO BONA DEA SUBSAXANA

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NEL CENTRO DELL'IMMAGINE
IL TEMPIO ALLA BONA DEA SUBSAXANA
L'antico santuario della Bona Dea ‘sub saxo’ sull'Aventino, secondo il Coarelli addirittura il più importante santuario della regione, era comunque famoso e citato da Cicerone, ma soprattutto era riservato unicamente alle donne con assoluto divieto di accesso ai maschi, come è ampiamente dimostrato dalle fonti, tra cui Ovidio, Festus, Cicerone e Macrobio. Il tempio, posto nell'era nord orientale del colle, era prospiciente a sud con l'estremità orientale del Circo Massimo.

L'antico colle si divideva in un "Aventino" vero e proprio, tra il fiume Tevere e la valle in cui sorse il Circo Massimo e "Aventino minore" (attualmente "collina di San Saba"). In età repubblicana entrambi i settori all'interno delle Mura serviane sembrano essere stati compresi nella denominazione "Aventino", ma con la suddivisione augustea della città in 14 regioni furono suddivisi tra le regioni XIII (poi Aventinus) e XII (Piscina Publica).

La sua locazione nella Regio XII è attestata dagli antichi cataloghi Regionali (aedem Bonae Deae Subsaxanae), che lo danno situato sotto la potente roccia del Colle Aventino, la roccia da cui si suppone remo abbia tratto i suoi auspici per la fondazione di Roma, come narra Ovidio nei Fasti.
  Di antichissima origine, sicuramente di epoca monarchica, del resto il colle fu inserito nell'Urbe dal re Anco Marzio, venne fatto restaurare poi da Livia in epoca imperiale, emula dei lavori di restauro di Augusto.
Ovidio - Fasti - restituit, ne non imitata maritum esset.
Festus - non liceat ... in aedem Bonae Deae virum introire.

LOCAZIONE IN PIANTA
Ricostruito probabilmente sotto Adriano, fu ritenuto di culto privato da alcuni studiosi, ma è difficile da credersi perchè le donne venivano da tutta la regione per onorare la Dea Bona, col tempio dunque aperto sempre e comunque, difficile da credere per un tempio privato. Tanto più che il famosissimo tempio era un centro di guarigioni, come attestato dal fatto che dei serpenti si muovevano intoccati e innocui per il tempio, in cui era anche custodito un magazzino di erbe medicinali.
Per molte ragioni il Saxum con l'area che forma il vasto angolo nord della cima posta a sud est, il cosiddetto “Aventino minore”, un punto di strategica importanza incluso entro le Muea Serviane, a circa 50 m a sud della chiesa di Santa Balbina.

Anche se i più autorevoli studiosi pongono in tal luogo il santuario, c'è comunque chi lo pone nella zona est dell'Aventino aldifuori delle mura,  e qualcuno addirittura sulla Via Appia, dove forse era collocato un altro santuario alla Dea. Purtroppo i rilevamenti del lato nord dell'Aventino furono distrutti dalla massiccia edificazione sul colle degli anni 1930 e seguenti.

Le mura di contenimento del periodo repubblicano non sembrano aver preservato comunque una traccia di luoghi di culto, per cui alcuni hanno localizzato il tempio della Bona Dea nell'area est del colle, forse vicino agli Horti Asiniani.

BONA DEA
La festa della Bona Dea veniva celebrata a Roma il 3 dicembre ed era una divinità collegata alla salute e alla fecondità, ma il cui nome non poteva essere pronunciato. Il culto era misterico, cioè con rituali assolutamente segreti, riservato alle sole adepte nei riti iniziatici e a tutte le donne in quelli estesi ma sempre privati e proibiti agli uomini. Sembra che la Dea avesse un tempio sul colle Aventinus ed uno minore in Trastevere. Per altri anche uno sulla Via Appia.

Tuttavia l'anniversario della dedicatio del tempio di Bona Dea sul colle Aventinus veniva celebrata il primo maggio di ogni anno, una festa così popolare che fu detta Calendimaggio e che il cristianesimo dovette sostituire con la festa della Madonna alla stessa data. Infatti anticamente si festeggiava al Calendimaggio (calende di maggio) il fiorire della primavera già iniziata nell'equinozio di primavera, che segnava l'inizio dell'anno.

Identificata pure con Fauna, sorella di Fauno ella resistette ai suio tentativi di seduzione fintanto che egli, preso da grande ira, non la battè con i rami di mirto. Secondo un’altra versione, Fauna è figlia di Fauno e avrebbe resistito al vino e alle frustate con cui il padre voleva piegarla a unirsi con lui.
Secondo la versione di Lattanzio era invece la moglie di Fauno, molto abile in tutte le arti domestiche e molto pudica, al punto di non uscire dalla propria camera e di non vedere altro uomo che suo marito. Un giorno però trovò una brocca di vino, la bevve e si ubriacò, e quando Fauno la ritrovò la fece morire percuotendola col bastone di mirto. Da questi miti è spiegato il divieto di introdurre il mirto nel suo tempio. Il mirto, già sacro a Venere, presuppone una qualche connotazione sessuale o orgiastica e forse il patriarcato punì in tal modo le sacerdotesse della Dea lussuriosa.

ARA DEDICATA
ALLA BONA DEA
Quali rappresentanti al femminile dello stato, le donne dell’aristocrazia erano preposte alla celebrazione del culto che veniva svolto strettamente in privato escludendo qualunque figura maschile, compresi gli animali. La divinità laziale prima e romana poi, era venerata nelle calende di maggio nel suo tempio sull’Aventino, e nella notte tra il 3 e il 4 dicembre nella casa del magistrato in carica, dove riceveva un sacrificio e una libagione dalla moglie del magistrato, dalle matrone e dalle Vestali.
Infatti, quando nel 62 a.c. Publio Clodio si travestì da donna, per partecipare segretamente al culto che si celebrava nella casa di Giulio Cesare, seguì una grave crisi politica, dovuta a questa profanazione che prevedeva la pena di morte.

Si narra che Ercole, escluso egli stesso, aveva istituito, per vendetta, presso il suo Altare, posto poco lontano da quello della Dea, cerimonie dove le donne non potevano partecipare. Le donne romane il primo maggio si riunivano in un luogo segreto chiamato Opertum che sembra fosse in un bosco sacro sull'Aventino. Le fonti la dicono rappresentata a Roma con scettro in mano come Giunone, un tralcio di vite si curvava sulla sua testa e al suo lato era un serpente.


Santa balbina

Si hanno notizie della prosecuzione del culto della Dea fino al IV sec. d.c., dopodichè scomparve ma comparve la chiesa di Santa Sabina che risale al 495, e nei pressi della chiesa si trovano resti delle mura serviane.


Da Filippo Caraffa:

CHIESA DI SANTA BALBINA
"Ricordata nel Martirologio Romano al 31 marzo che tratta del suo battesimo a Roma, presa dagli atti leggendari dei ss. Alessandro, Evenzio, Teodulo, Ermete e Quirino. L'autore fa di Balbina Ia figlia del martire Quirino creando una parentela arbitraria. La II parte, riguardante la sepoltura sulla via Appia, è stata inventata da Adone, poiché negli atti suddetti non si trova nessuna notizia in proposito. NelI'antichità Balbina non ha avuto culto né è commemorata nel Martirologio Geronimiano. Floro, nel suo Martirologio, la ricorda il 18 gennaio, tratto in errore da una commemorazione mal compresa del Martirologio Geronimiano. Adone la ricorda al 31 marzo, aggiungendo arbitrariamente che era sepolta nel cimitero di Pretestato sulla via Appia, perché, essendo figlia del martire Quirino, doveva essere sepolta vicino a lui.
La Vita leggendaria di Balbina è pervenuta tramite la passio Alexandri, forse del VI sec, che confonde papa Alessandro con l'omonimo martire nomentano; la seconda è una passio ss. Balbinae et Hermetis, una specie di appendice, per cui Balbina era figlia del martire Quirino, il quale, convertitosi alla fede cristiana, fu battezzato insieme a lei da papa Alessandro. Essendosi Balbina ammalata gravemente, fu portata dal padre al papa, che allora era imprigionato, e ne fu risanata. Arrestata insieme col padre per ordine dell'imperatore Adriano (117-35), dopo non pochi tormenti fu decapitata.

A Roma erano indicati col nome di B. un titolo del quale si ha notizia nel sinodo del 595, ed un cimitero situato tra la via Appia e l'Ardeatina. Probabilmente fu la fondatrice dell'uno e dell'altro, ed in seguito, secondo un costume caro agli antichi agiografi, fu elevata alla dignità di martire."

Santa Balbina viene rappresentata con la croce e uno scettro, e anche la Bona Dea era rappresentata con lo scettro. Inoltre guariva dalle malattie, soprattutto alla gola e anche il tempio della Bona Dea provvedeva alle gusrigioni, inoltre S. Balbina era vergine e così la Bona Dea, il nesso fa pensare a una sostituzione in piena regola.

SICILIA - (Province Romane)

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TAORMINA

"Sicilia Romana provincia est, insula iucunda aqtue amoena. Apud Siciliae oras nautarum parvae casae sunt, sed in insula etiam agricolae sunt. Uvae, olivarumque copiam terra incolis praebet. Silvae etiam in insula sunt, at saevae ferae non sunt. Feminae saepe sub plantis aras Dianae sacras visitant. Agricolae hostias deis mactant. Insulae puellas poetae celebrant. Non solum nautarum audacia, sed etiam agricolarum industria clara est. Incolarum parsimoniam et diligentiam laudant advenae et in Sicilia libenter cosistunt."
"La Sicilia è una provincia romana, un'isola bella e armoniosa. Presso le coste della Sicilia, i marinai hanno delle piccole case, ma sull'isola ci sono anche agricoltori. La terra fornisce agli abitanti un'abbondanza di uva e di olive. Ci sono anche dei boschi sull'isola, ma non ci sono bestie feroci. Le donne spesso visitano i sacri templi di Diana. Gli agricoltori sacrificano vittime agli Dei. I poeti dell'isola elogiano le fanciulle. E' famosa non solo l'audacia dei marinai, ma anche l'attività degli agricoltori. Gli stranieri lodano la diligenza e la parsimonia degli abitanti e vanno in Sicilia con piacere."
La Sicilia aveva lo stesso territorio di oggi, e la sua dominazione romana iniziò il 10 marzo 241 a.c. con la vittoria di Torquato Attico e Catulo sulle truppe cartaginesi di Annone nella battaglia delle Egadi, la battaglia navale conclusiva della I guerra punica in cui Cartagine subì alle isole Egadi una sconfitta pesante di uomini e  di navi, e, privo di risorse, dovette chiedere pace a Roma.
« L'impresa fu, essenzialmente (per Cartagine, ma pure per Roma), una lotta per la vita. Nell'erario, infatti, non c'erano più risorse per sostenere quanto si erano proposti.»
(Polibio, Storie, I, 59, 6,)

Si « pose fine alla contesa, dopo che furono redatti i seguenti patti: "Ci sia amicizia fra Cartaginesi e Romani a queste condizioni, se anche il popolo dei Romani dà il suo consenso. I Cartaginesi si ritirino da tutta la Sicilia e non facciano la guerra a Gerone né impugnino le armi contro i Siracusani né contro gli alleati dei Siracusani. I Cartaginesi restituiscano ai Romani senza riscatto i prigionieri. I Cartaginesi versino ai Romani in vent'anni duemiladuecento talenti euboici d'argento". »
(Polibio, Storie, I, 61, 4)

Per celebrare la sua vittoria Gaio Lutazio Catulo eresse un tempio a Giuturna presso il Campo Marzio nell'area odierna Largo di Torre Argentina e Roma governò sulla Sicilia con capitale Syracusae (Siracusa).




L'AMMINISTRAZIONE

La regione ebbe vari ordinamenti
- fino alla lex Rupilia del 131 a.c., fu governata da un Propretore di rango pretorio e dell'ordine senatorio. 
- A partire da Augusto fu affidata ad un proconsole, sempre dell'ordine senatorio.
- Al tempo della riforma tetrarchica entrò a far parte della diocesi Italiciana. 
- Con Costantino I o sotto i suoi eredi, venne inclusa nella prefettura del pretorio d'Italia e nella diocesi dell'Italia Suburbicaria.

La struttura amministrativa della provincia di Sicilia venne descritta nelle Verrine di Cicerone, ma è assai probabile che essa sia venuta delineandosi già negli anni compresi tra il 241 a.c. e il governatorato di Marco Valerio Levino (210-207 a.c.), che dovette riorganizzare l’isola riconquistata. 

Il territorio venne infatti posto sotto il controllo di un questore con sede a Lilybaeum (Marsala), ma la definitiva strutturazione amministrativa avvenne nel 227 a.c., con a capo un pretore, e il primo fu Gaio Flaminio, con autorità di questore. La caduta di Siracusa nel 211 a.c portò all’unificazione della provincia, di cui la città diviene capitale e dunque sede amministrativa principale; il numero dei questori viene portato a due, uno dei quali a Lilybaeum. 

Venne costruita la via Valeria tra Messina e Lilybaeum e una via interna da Agrigento a Palermo, voluta dal console del 200 a.c. Gaio Aurelio Cotta. La gran parte dei centri della Sicilia rientrava nella categoria delle civitates decumanae, soggette al pagamento annuale di una tassa (decuma) sui prodotti agricoli.

C'erano poi le civitates censoriae, i cui territori, vennero in parte confiscati e trasformati in ager publicus populi Romani (terreno pubblico di proprietà dello stato romano), e a volte lasciati in usufrutto alle comunità dietro un canone d’affitto (locatio censoria) appaltato dai censori di Roma. Le civitates foederatae erano invece esenti dalla tassazione ordinaria. 

Gli interessi economici legati all’isola costituirono un fattore di immigrazione romana e italica. Gli immigrati presenti sull’isola fin dalla fine del III secolo a. c. risultano però slegati dalle realtà amministrative locali, inquadrati nei conventus civium Romanorum, del tutto indipendenti dalle città di residenza. La dominazione romana si concluse nel 440, con la spedizione del vandalo Genserico, che conquistò l'isola.

SELINUNTE


DURANTE LA REPUBBLICA (241 - 27 a.c.)

« [Sicilia] prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare [...] »
« [La Sicilia] fu la prima a insegnare ai nostri antenati quanto fosse eccellente dominare su popoli stranieri »
(Marco Tullio Cicerone, In Verrem, II, 2,2.)

I superstiti romani della battaglia di Canne furono relegati in Sicilia, con il divieto di allontanarsi da lì prima che la guerra fosse finita. Il tiranno Geronimo di Siracusa, durante la II guerra punica, cambiando le alleanze, attirò nuove truppe romane alle porte di Siracusa. 
Anche i Cartaginesi mandarono truppe nell'isola e fra Palermo, Siracusa, Agrigento e Enna. Roma e Cartagine si affrontarono direttamente in battaglie e assedi alternandosi a tratti nel controllo dell'isola. La conclusione di questa parte della guerra avvenne con la presa di Siracusa da parte delle forze di Marco Claudio Marcello, con la morte di Archimede che aveva aiutato la sua città con i suoi macchinari: gli specchi ustori (212 a.c.).
Siracusa, in seguito a questi eventi, fu inglobata nella provincia di Sicilia, diventandone la sua capitale. Roma iniziò a intervenire in Sicilia in occasione di un conflitto scoppiato tra i Mamertini di Messina e i Siracusani, durante la I guerra punica. I Mamertini, chiesero, ed ottennero, l'aiuto di Roma che intervenne militarmente nell'isola, anche per contrastare la crescente potenza cartaginese nell'isola. 
I cartaginesi miravano a controllare la Sicilia che, a sua volta, controllava il passaggio tra il Mediterraneo orientale ed occidentale. Roma si alleò coi Mamertini e nel 264 a.c. inviò truppe in Sicilia. Gerone II, che aveva tradito alleandosi a Cartagine, di fronte alle legioni di Valerio Messala capitolò e ottenne la pace versando 100 talenti, da allora divenne fedele alleato di Roma fornendole aiuti, soprattutto grano e macchine da guerra. In breve tempo, così, rimasero in campo solo i due eserciti romano e cartaginese. Al termine della guerra Roma aveva occupato quasi tutta l'isola, eccetto Siracusa che conservò un'ampia autonomia (pur dovendo accettare la supremazia romana).




LA I PROVINCIA

La Sicilia divenne così la I provincia territoriale di Roma e una delle più prospere e tranquille, sebbene ebbe due rivolte servili, nella Sicilia orientale dal 136 al 132 a.c. capeggiata da un certo Euno e soffocata dal console  Publio Rupilio; poi nella Sicilia occidentale dal 101 al 98 a.c. capeggiata da Salvio Trifone e soffocata da Manio Aquilio: entrambe descritte da Diodoro Siculo, che illustra, fra l'altro, una massiccia presenza di schiavi in Sicilia (200.000 circa), del loro sfruttamento e delle attività economiche.

Nell'82 a.c., Pompeo Magno, generale romano ricco e ambizioso, fu inviato in Sicilia dal dittatore Silla, per sbaragliare Mariani che vi rimanevano, e garantire il rifornimento di grano per Roma, senza cui la popolazione si sarebbe sicuramente rivoltata. Pompeo si occupò della resistenza con molta durezza si che è nota la risposta di pompeo a chi se ne lamentava: "Smettete di citare leggi, noi portiamo armi".
Dopo la battaglia di Porta Collina, che segnò la definitiva sconfitta dei mariani, Gneo Carbone fuggì in Africa e poi a Pantelleria, dove fu catturato da Pompeo che lo trasse in catene nella prigione di Marsala, dove fu giustiziato, "affrontando la morte e piangendo come una donna" (Tito Livio)

Poi il governo isolano fu riorganizzato sotto la guida di un pretore, coadiuvato da due questori, uno a Siracusa e l'altro a Lilibeo e da un consiglio provinciale che però non aveva poteri effettivi.

Nel 70 a.c. il pretore Cecilio Metello batté i pirati che infestavano i mari della Sicilia e della Campania, i quali si erano spinti a saccheggiare Gaeta, Ostia (nel 69-68 a.c.) e rapito a Miseno la figlia di Marco Antonio Oratore. Nel corso della successiva guerra piratica di Pompeo, il settore di mare attorno alla Sicilia fu affidato a Plozio Varo. Nel 61 a.c. fu questore  Publio Clodio Pulcro, dove si recò attorno alla metà di maggio per fare ritorno a Roma dopo un solo anno.

Nel 42 a.c. Sesto Pompeo, figlio del Magno, dopo aver raccolto proscritti e schiavi dall'Epiro ed aver compiuto diversi atti di pirateria, senza avere un suo proprio territorio, occupò dapprima Messana e poi l'intera Sicilia. Qui prima uccise il pretore Quinto Pompeo Bitinico e poi vinse il legatus di Ottaviano, Quinto Salvidieno Rufo Salvio (nel 40 a.c.). Il successivo accordo fra i triumviri, Antonio, Ottaviano e Lepido riconobbe nel 39 a.c. a Sesto Pompeo, la giurisdizione sulla Sicilia (controllando i rifornimenti di grano), oltre che su Sardegna e Corsica. Più tardi, però, Sesto Pompeo fu sconfitto da Agrippa poiché impediva gli approvvigionamenti di grano.



DURANTE L'IMPERO (27 a.c. - 284 d.c.)

PIAZZA ARMERINA
Col regime augusteo, la Sicilia tornò a prosperare mantenendo sia la cultura greca che quella latina. Augusto sostituì la vecchia decima con una nuova imposta fissa ma meno gravosa e cambiò l'organizzazione amministrativa delle comunità locali, ancora legata ai vecchi schemi organizzativi greci, concedendo la cittadinanza romana a Messina, Centuripe e alcune altre città, fondando colonie di veterani in varie località della Sicilia (Siracusa, Tauromenio, Palermo, Catania, Tindari e Termini), e creando municipi latini, dei quali alcuni soggetti a tassazione e alcuni altri esenti.



INVASIONE VANDALA (284 - 440 d.c.)

Genserico, capo dei Vandali, una volta occupata la ex-provincia romana d'Africa, cominciò ad esercitare la pirateria, tanto che unitisi ai pirati Berberi, razziarono le coste siciliane a partire dal 337. Appropriatisi di una parte della flotta navale romana d'Occidente, ormeggiata nel porto di Cartagine, nel 440 organizzarono incursioni sul Mar Mediterraneo, soprattutto in Sicilia e Sardegna, Corsica e le isole Baleari. Nel 441 essendo la flotta romana d'Occidente incapace di difendersi dagli attacchi dei Vandali, arrivò nelle acque siciliane una flotta orientale, inviata da Teodosio II, ma anch'essa inefficiente, e quando i Persiani e gli Unni, forse pagati da Genserico, attaccarono l'Impero d'Oriente, la flotta rientrò a Costantinopoli. L'impero romano d'occidente continuò la resistenza in Sicilia con i generali Ricimero nel 456 e con Marcellino ed i suoi legionari dalmati nel 461.

AFRODITE MORGANTINA
In seguito alle guerre puniche si erano avuti grandi accaparramenti di terre e ciò portò alla formazione di grandi latifondi lavorati da manodopera servile, le cui cattive condizioni di lavoro portarono alle rivolte. In questi latifondi fu incoraggiata soprattutto la coltura del frumento e ciò fece dell'isola uno dei granai di Roma e una delle province romane più ricche. Ciò dette impulso anche ad altre attività nell'isola, principalmente l'industria navale che sfruttava le dense foreste isolane, e il commercio, soprattutto con Gallia, Spagna e Africa.
Durante la repubblica romana, tutte le città avevano una certa autonomia ed emettevano monete di piccolo taglio, però diverse tra loro per l'organizzazione amministrativa.

Messina Tauromenio era una civitas foederata, fondata dai Greci nel 756 a.c. col nome di Zancle. I Romani la conquistarono nel 264 a.c. e, dopo la caduta dell'impero romano, passò ai Bizantini e poi agli Arabi.
Netum (= Noto) era una civitas foederata, in quanto già alleata di Roma.
Segesta e Palermo erano liberae ac immunes.
Altre erano civitates decumanae, cioè pagavano la decima secondo il sistema già in uso ai tempi di Gerone II fornendo così a Roma un tributo annuo di circa 2 milioni di moggi di grano (un quinto del fabbisogno dell'Urbe).
Altre città ancora erano le civitates censoriae, comunità la cui terra era stata confiscata e resa ager publicus e per la quale dovevano pagare un affitto, oltre alla decima.

Con l'avvento del regime imperiale il latifondismo rimase la principale forma di conduzione fondiaria, ma nonostante il declino della coltura cerealicola continuarono a fiorire villaggi e piccoli possedimenti e non si ebbe alcuna diminuzione della popolazione. La situazione economica dell'isola cominciò a decadere durante il governo degli Antonini e fu compromessa con le invasioni barbariche e il successivo dominio bizantino.




LE CITTA'

"Gaio Eio (questo me lo concederamno senza discutere tutti coloro che si sono recati a Messina) è il mamertino più ragguardevole in quella città sotto tutti i punti di vista. La sua casa è senza paragone la più nobile di Messina, e senza dubbio la più conosciuta, la più disponibile per i nostri concittadini, un modello di ospitalità. Prima dell’arrivo di Verre questa casa era così adorna da rappresentare un ornamento anche per la città. Infatti proprio Messina, che deve le sue bellezze alla posizione naturale, alle mura e al porto, è addirittura sprovvista e priva di quegli oggetti di cui costui si diletta. 4. Ora, in casa di Eio c’era una cappella privata molto antica, oggetto di grande venera zione, lasciataglia dai suoi antenati: in essa spiccavano quattro bellissime statue di squisita fattura, universalmente note, che potevano deliziare non solo codesto fine intenditore, ma anche ciascuno di noi, che costui chiama profani: la prima era Cupido di marmo, opera di Prassitele [...] Ma, per tornare alla cappella privata di Eio, c’era da una parte questa statua marmorea di Cupido, di cui sto parlando, dall’altra un Ercole di bronzo di fattura egregia, attribuito se non erro a Mirone (e l’attribuzione è sicura). Parimenti, di fronte a queste divinità, stavano due piccoli altari che potevano far comprendere a chiunque il carattere sacro della cappella: si trovavano inoltre due statue in bronzo di mo deste proporzioni, ma di straordinaria eleganza, che rappresentavano nel portamento e nel modo di vestire quelle fanciulle che, con le braccia sollevate, sostengono sul capo un canestro con certi arredi sacri secondo il costume delle ragazze ateniesi: si chiamano appunto Canefore...."
Cicerone - Actio secunda in Verrem.



SIRACUSA

TEATRO DI SIRACUSA
I Romani, impegnati nella I guerra punica, non avrebbero portato guerra in Sicilia, se Messina non si fosse offerta spontaneamente al dominio di Roma. Ierone dapprima si schierò coi cartaginesi ma quando Siracusa fu minacciata dai romani (263) lo statista lungimirante chiese pace, l’ottenne e rimase fedele alleato di Roma per mezzo secolo. Alla sua morte, il nipote Geronimo, scambiò le alleanze ma Roma invio il console Claudio Marcello che espugnò la città, un quartiere dopo l’altro, dopo un tremendo assedio durato due anni (214 a.c.), dove venne ucciso sia pure per errore, il grande Archimede che aveva difeso la città.
Stupenda doveva essere Siracusa, con l’agorà, i templi, i palazzi, le mura, prima della conquista romana. Marcello stesso ne rimase incantato e Plutarco ci dice che “mentre guardava la bella città sotto di lui, pianse a lungo; nonostante la gioia e il compiacimento per la vittoria fu preso da compassione vedendo le ricchezze accumulate in un’epoca lunga e felice, dissiparsi così, nello spazio di un’ora…”.

Splendida per il fiorire dell’architettura e delle arti plastiche, Siracusa ebbe anche una intensissima vita culturale. Basti dire che qui convennero alcuni tra i pensatori più importanti dell’antichità greca: Stesicoro, Saffo, Simonie, Bacchilide, Pindaro, Eschilo, Platone e molti altri.

RICOSTRUZIONE
Fu la patria di Epicarpo, creatore della commedia, che nel grandioso teatro greco toccò momenti di inimitabile splendore con le opere di Senario, Filemone e Sofrone, anch’essi Siracusani. Qui ebbero i natali, ancora, il poeta Teocrito, il filosofo Filolao, lo storico Filisteo e il fisico Archimede.
Come ricorda Cicerone, nonostante la moderatezza di Marcello che risparmiò scrupolosamente tutti gli edifici sacri e profani di Siracusa per preservare la bellezza della città, molti degli oggetti che l’adornavano furono portati a Roma.

Riunita tutta l’isola in una sola provincia con due pretori, uno a Siracusa e l’altro a Lilibeo, la Sicilia trascorse lunghi anni di tranquillità. Ma la sostituzione dei grandi pascoli alle piccole fattorie portò a un impoverimento tale che gli agricoltori, esasperati si ribellarono ben due volte nel II sec. a.c. Le rivolte vennero definite le Guerre degli Schiavi (135-132 a.c. e 104-102 a.c.). Alle malversazioni dei pretori si aggiungevano, poi, le spoliazioni colossali di Verre e di Sesto Pompeo.
Alla fine del I secolo a.C. Siracusa era così mal ridotta che Augusto tentò di ripopolarla e di ricostruirla e sull’isola nacquero lussuose residenze dei romani facoltosi, imponenti architettonicamente e decorate con dipinti, mosaici e marmi. I romani ne costruirono il grande anfiteatro e il ginnasio, mentre il teatro greco subì numerose ristrutturazioni.



CATANIA

Catana o Catina (Catania), conquistata all'inizio della I guerra punica nel 263 a.c., dal console  Massimo Valerio Messalla. Del bottino faceva parte un orologio solare che fu collocato nel Comitium a Roma. Da allora la città divenne soggetta al pagamento di un'imposta a Roma (civitas decumana). È noto che il conquistatore di Siracusa, Marco Claudio Marcello, vi costruì un ginnasio. Intorno al 135 a.c., nel corso della I guerra servile, fu conquistata dagli schiavi ribelli. Un’altra rivolta capeggiata dal gladiatore Seleuro nel 35 a.c. fu domata probabilmente dopo la morte del condottiero.

TEATRO DI CATANIA
Nel 122 a.c. a seguito dell’attività vulcanica dell’Etna, fu fortemente danneggiata dalle ceneri vulcaniche stesse piovute sui tetti della città che crollarono sotto il peso. Il territorio di Catina, dopo essere stato nuovamente interessato dalle attività eruttive del 50 del 44, del 36 e infine dalla disastrosa colata lavica del 32 a.c. che rovinò campagne e città etnee, nonché dai fatti della disastrosa guerra che aveva visto la Sicilia terreno di scontro fra Ottaviano e Sesto Pompeo, si avviò sulla lunga e faticosa strada della ripresa socio-economica già in epoca augustea. Tutta la Sicilia alla fine della guerra viene descritta come gravemente danneggiata, impoverita e spopolata in diverse zone.

Nel libro VI di Strabone accenna alle rovine delle città di Syrakusæ, Katane e Kentoripa. Dopo la guerra contro Sesto Pompeo, Augusto vi dedusse una colonia. Plinio il Vecchio annovera la città che i romani chiamano Catina fra quelle che Augusto dal 21 a.c. elevò al rango di colonie romane assieme a Syracusæ e Thermæ (Sciacca).

Solo nelle città che avevano ricevuto il nuovo status di colonia furono insediati gruppi di veterani dell’esercito romano. La nuova situazione demografica certamente contribuì a cambiare quello che era stato, fino ad allora, lo stile di vita municipale a favore della nuova "classe media". Nonostante questi continui disastri, che costituiscono una delle costanti della sua storia, Catania conservò una notevole importanza e ricchezza nel corso della tarda repubblica e dell'impero: Cicerone la definisce «ricchissima», e tale rimase nel tardo impero e nel periodo bizantino, come testimoniano le fonti e i numerosi monumenti d'epoca. Le grandi città costiere come Catina, nel medio-impero estesero il controllo, anche a fini esattoriali dello stipendium, sull’entroterra dell’isola che si andava spopolando a causa dei latifondi agricoli.



PALERMO

ANFITEATRO DI SIRACUSA
Palermo di scontri fra Cartaginesi e Romani, finché nel 254 a.c. la flotta romana assediò la città, costringendola alla resa e rendendo schiava la popolazione che venne costretta al tributo di guerra per riscattare la libertà Ottenuto il tributo gli uomini tornarono a casa sani e salvi. Asdrubale tentò la riconquista ma venne sconfitto da Metello, il console romano. Ci provò di nuovo Amilcare nel 247 a.c. accampandosi alle pendici di Monte Pellegrino (monte Erecta), ma la città, riconosciuti i benefici della dominazione romana restò fedele a Roma ottenendo la Pretura, l'Aquila d'oro e il diritto di battere moneta, restando una delle cinque città libere dell'isola. Ai cartaginesi non restò che tornare in patria.
Il periodo romano è stato di tranquillità e prosperità, Palermo divenne libera ac immunis, facente parte della provincia di Siracusa, e successivamente con la divisione dell'Impero la Sicilia, e con essa Palermo, furono attribuite all'Impero Romano d'Occidente.



MESSANA (Messina)

SELINUNTE
Consegnata dai Mamertini ai Romani nel 264 a.c. ottenne dopo la fine della guerra lo status di civitas libera et foederata (città libera ed alleata, formalmente indipendente), unica in Sicilia insieme a Tauromenium (Taormina). Il nome greco Messanion fu tradotto in latino come Messana.

Durante la repubblica fu attaccata durante le guerre servili (102 a.c. Cicerone, nelle orazioni contro Verre, la definì civitas maxima et locupletissima (città grandissima e ricchissima). Pompeo attaccò nel 49 a.c. la flotta cesariana che si riparava nel porto della città. Successivamente divenne una delle principali basi di Sesto Pompeo, che vi sconfisse la flotta di Ottaviano e venne in seguito saccheggiata dalle truppe di Lepido. In seguito divenne probabilmente municipio.



HENNA (ENNA)

Durante il regno di Gerone II le legioni romane riuscirono a sottomettere Henna dopo lunghe battaglie e un'orribile strage commessa da Lucio Pinario, uno dei generali del console Claudio Marcello, il conquistatore di Siracusa nel 212 a.c.
La presa di Henna fu una delle più ardue imprese mai condotte in Sicilia, poichè la città era arroccata su un altipiano imprendibile, e difesa da una fortezza d'origine sicana. Ma i romani ricorsero alla rete fognaria per infiltrarsi fino in cima al monte e conquistare la roccaforte, denominata da allora Henna Urbs Inexpugnabilis.

PIAZZA ARMERINA
Dopo la conquista romana ottenne il titolo di municipalità libera e divenne il cosiddetto granaio di Sicilia, pagando però  la decima dei prodotti agricoli a Roma. Questo sfruttamento provocò nel 135 a.c. la I guerra servile, capitanata da uno schiavo siro di nome Euno che si proclamò re e fece battere moneta col nome di Basileus Antiocos. Per ben tre anni tenne in scacco i romani perché la rivolta si era estesa a tutta l'isola con molte atrocità soprattutto verso le famiglie patrizie. Pertanto la riconquista romana sottopose la città ad un duro regime vessatorio culminato poi nelle espoliazioni del pretore saccheggiatore Verre che provocarono anche la dura protesta di Cicerone con le sue Verrine.

Con la costituzione dell'impero romano Enna riottenne il suo titolo di municipalità e la conservò anche dopo la caduta di questo. Quando iniziarono le invasioni barbariche fu proprio la sua posizione elevata e inespugnabile a salvarla. Nel 535 cadde sotto il dominio dell'impero romano d'oriente riacquistando la sua importanza proprio come roccaforte militare bizantina.



DREPANA (Trapani)

La Battaglia di Trapani, battaglia navale tra Roma e Cartagine durante la I guerra punica nel 249 a.c. avvenne vicino alla costa di Drepana o Drepanon come allora veniva chiamata la città, e fu disastrosa per la sconfitta dei romani a causa dell'imprudenza del condottiero Publio Claudio Pulcro. Con la battaglia delle Egadi del 241 a.c., i Romani poterono finalmente occupare Trapani. 

MOSAICO DI NOTO


MARSALA

Anch'essa meta di villeggiatura dei romani con ricchissime ville e isolati di grande bellezza. Fra tante l’insula romana di Capo Lylibeo, del IV sec. d.c. con un’area piuttosto ampia, anticamente delimitata da due strade lastricate. Si tratta di una lussuosa abitazione con annesso impianto termale. Ben conservati il frigidarium per i bagni di acqua fredda e il caldarium, per i bagni di acqua calda. Molto bella la pavimentazione a mosaico.
L’insula si trova nelle vicinanze dell’antico decumano maximo, la via principale di epoca romana, che partiva dal promontorio di Capo Boeo e percorreva quella che oggi è la Via XI Maggio.



NOTO

Noto, nel comprensorio di Siracusa, vanta una notevole area archeologica di grande interesse storico, poiché la sua fondazione si fa risalire presumibilmente intorno al 448 a.c. Nel 1971, nel corso di scavi illegali, fu scoperta una villa romana, posta a destra del fiume di Tellaro. La struttura si localizza leggermente in superficie, ma sotto una fattoria (masseria) del XVIII secolo, con magnifici mosaici.


LA LEGIONE CINESE

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ABITANTI DEL GANSU CON CHIARI TRATTI OCCIDENTALI

"I soldati di una legione fantasma, di cui nel mondo antico non si seppe più nulla dopo una spedizione in Oriente, fondarono l'unico centro romano presente in Cina, ossia la città di Liquian, sito archeologico della provincia orientale di Gansu. A parlare della scoperta della città e delle sorti dei legionari dispersi è il periodico Archeologia Viva nel numero in edicola. La legione scomparsa era al comando di Licinio Crasso, triumviro al pari di Cesare e Pompeo, che avviò una campagna contro i Parti in Turchia durante la quale il suo esercito fu sgominato e lui stesso venne decapitato.Plinio racconta che i sopravvissuti caddero tutti prigionieri e furono trasferiti dai Parti in una regione al nord dell'attuale Afghanistan. Tuttavia,quando nel 20 a.c. Romani e Parti firmarono la pace e si accordarono per la restituzione dei prigionieri, i superstiti della sfortunata legione erano spariti nel nulla. Al mistero avrebbe dato risposta Bau Gau, un cronista dell'Impero Han (206-220 d.c.). Secondo Bau Gau quegli stessi prigionieri vennero sconfitti da un condottiero cinese nel 36 a.c. Questi "stranieri" vennero deportati in Cina per difendere la strategica provincia orientale di Gansu. E' qui che i superstiti della legione fondarono Liquian, nome con cui in Cina ancora si indica la romanità."



Da LA REPUBBLICA:

- Quei legionari romani che abitavano in Cina

PECHINO - CAI Junnian ha i capelli biondi, il naso aquilino e gli occhi verdi. Vive a Liqian, un villaggio al margine del deserto nella contea di Yongchang, nel Gansu. È un cinese, ma ha l'aspetto da europeo. I compaesani lo chiamano "Cesare", lo prendono in giro e sono convinti che discenda da un' antica famiglia romana. Il test del Dna ha stabilito che il 58% dei suoi geni sono occidentali. Nella regione è una celebrità. Mangia con i soldi di chi, con un vago sgomento, paga per vederlo.

Luo Ying è la copia di un gladiatore del Colosseo e per tutti è "Luoma", il romano. Un' azienda di Shanghai, dopo averlo visto in tv, lo ha assunto come «uomo immagine» per trattare con i clienti del Mediterraneo. Il villaggio dimenticato dell' Asia dove i cinesi hanno la faccia da romani sta diventando famoso e potrebbe custodire un segreto. Proprio qui, lungo le tracce cancellate della Via della Seta, si sarebbe persa una legione di 6000 soldati romani, guidati dal primogenito del generale Marco Crasso. Era il 53 a.c. e per la storia quei legionari, sfuggiti alla guerra contro i Parti, sono misteriosamente scomparsi.

I discendenti delle milizie di Crasso, decapitato dagli antenati dei persiani nei territori dell' attuale Iran, si sarebbero stabiliti tra Tibet e Turkestan, oggi Qinghai, per evitare di essere eliminati dai guerrieri cinesi dell'imperatore Wu, dinastia Han. Furono i primi, involontariamente, a collegare Oriente e Occidente, travolgendo le convinzioni geografiche dell' epoca. Per antropologi e archeologi sarebbe la conferma di una scoperta rivoluzionaria: proverebbe che i due imperi più potenti dell' umanità, il romano e quello cinese, non si limitarono a sfiorarsi grazie al commercio, ma entrarono direttamente in contatto. I libri di storia oggi raccontano che prima di Marco Polo, nel tredicesimo secolo, solo una visita di diplomatici di Roma, nel 166 dopo Cristo, riuscì a raggiungere Pechino.

Gli studiosi dell' università di Lanzhou sono certi che presto i testi dovranno essere riscritti. Nel corso di una campagna di scavi hanno riportato alla luce a Liqian i resti di un' antica fortificazione. Ha forma e sistema costruttivo uguali alle strutture di difesa seminate dai romani in Europa, Asia e Africa. Identica anche la canalizzazione dell' acqua. Un gruppo di antropologi ha scoperto che gli abitanti del villaggio, che non hanno mai viaggiato al di fuori della regione, adora i tori e organizza giochi simili alla tauromachia. Un esame genetico ha stabilito che alcune famiglie sono inspiegabilmente di origine caucasica, elemento che induce gli esperti a concludere che discendono dai legionari perduti dell' esercito di Crasso.

La leggenda sta appassionando la Cina ed è sulle prime pagine dei giornali. Archeologi e antropologi italiani e cinesi, riuniti nel nuovo Centro di studi italiani dell' Università di Lanzhou, in primavera amplieranno così gli scavi fino a ripercorrere verso ovest i 7000 km della Via della Seta.
«Contiamo di dimostrare- dice Yuan Honggeng, direttore del Centro - che le relazioni tra i due più straordinari imperi della storia vanno anticipate di parecchi secoli».
La cinesizzazione delle milizie scomparse solleva però anche scetticismo.
 «Il Dna europeo degli abitanti di Yongchang - dice Yang Gongle, storico dell' Università Normale di Pechino - non prova l' origine romana».
Speranze e dubbi degli accademici non scoraggiano però l'entusiasmo popolare: i sosia dei legionari sono star di tv e giornali. -

(Possiamo commentare l'articolo ricordando che le autorità cinesi non sono molto contente che dei cittadini cinesi si vantino di una prossimità col mondo europeo seppure antico, per cui non è facile, anche se fosse vero, che possano riscontrare l'agognato DNA occidentale mediterraneo.)

PROVINCIA CINESE DEL GANSU


Da   CORRIERE DELLA SERA


NEL DESERTO DEL GOBI VIVE UNA POPOLAZIONE CON TRATTI SOMATICI «ROMANI»

«Noi cinesi, discendenti delle legioni di Crasso»
Secondo gli studiosi di Pechino, in alcuni villaggi il 46% degli abitanti ha legami genetici con gli europei.
Il contadino Luo Ying: «Gli italiani mi somigliano

Ai confini del deserto del Gobi, in una modesta fattoria spazzata da un vento glaciale, a volte Luo Ying sogna l' Italia: «Mi piacerebbe andare a vedere se i romani mi somigliano». 
Naso diritto e affilato, occhi castani, sopracciglia folte e statura alta, questo contadino cinese ventiseienne viene considerato un «europeo» dai propri vicini... 
In questi villaggi del distretto di Yongchang, nella provincia di Gansu, sono qualche centinaio a presentare tratti somatici stranieri. Certi hanno capelli castani, rossi o ricciuti, altri hanno occhi chiari oppure un naso troppo grosso per essere Cinese. La carta d' identità di Luo Ying è però categorica: lui è proprio d'etnia han, cioè cinese. 
«Siamo cinesizzati da molto tempo - afferma Song Guorong, il portavoce di questi cinesi non proprio come gli altri -. Ma noi discendiamo sicuramente dai legionari romani venuti qui duemila anni fa». 

 COMPOSIZIONE DI UNA LEGIONE ROMANA
A 7000 Km da Roma, la spiegazione è piuttosto sorprendente. Alcuni legionari romani sarebbero quindi vissuti in Cina tredici secoli prima di Marco Polo? Addossato ai monti Quinlan - al di là dei quali si entra in territorio tibetano - il villaggio di Zhelaizhai, una decina di chilometri a sud di Yongchang, domina il corridoio di Hexi, antico passaggio strategico della via della seta. 
Dal 1994, un bizzarro padiglione dalle colonne doriche vi ospita un cippo commemorativo. 
«Un tempo - afferma Han Wenyang capo del piccolo borgo - c'era una legione romana in questo posto, che si chiamava Liqian». 
Fu Homer Hasenpflug Dubs, un sinologo americano, a proporre per primo, nel 1955, questa spiegazione basata sugli scritti di Plutarco, di Plinio e sul libro degli Han dell est (dinastia cinese, 25-220 d.c.). 
Ecco la sua teoria: 
- nel 53 a.c. Marco Licinio Crasso, triumviro di Roma con Cesare e Pompeo, inizia una campagna contro i Parti con 42.000 uomini. Crasso viene ucciso a Carre, nell'attuale Turchia ed una parte delle sue truppe, caduta nelle mani del nemico, viene inviata in Asia centrale (Turkmenistan) per combattere gli antenati degli unni. Poi se ne perdono le tracce. -

Nel 36 ac., un esercito cinese riesce per proprio conto a catturare la capitale degli unni (oggi Tashkent, in Uzbekistan) e ne fa decapitare il capo, il quale minacciava da anni il fianco occidentale dell' Impero di mezzo. Fonti cinesi dell'epoca descrivono fortificazioni e formazioni di battaglia conosciute a quel tempo soltanto dai romani. I cinesi accettano la resa di un migliaio di combattenti e ne portano con sé 145, in cattività. Per Dubs, non c' è dubbio: si tratta dei resti della legione perduta di Crasso.

Tratti somatici particolari. Restava ancora da localizzare Liqian. Nella primavera del 1989, uno storico cinese, Guan Yiquan, ed un ricercatore australiano, David Harris, identificano come sito più probabile Zhelaizhai. Guan Yiquan stava per pubblicare un lavoro sull'argomento quando morì, nel 1998. Il manoscritto rimase poi in un cassetto, malgrado i tentativi del figlio di farlo pubblicare. Nel frattempo, diversi storici cinesi tentarono di demolire la tesi di Dubs.
All'università di Lanzhou, capoluogo del Gansu, lo storico Chen Zhengyi continua però a credervi. Nei mesi scorsi, ha fatto anche una nuova scoperta: Liqian in realtà dev'essere pronunciata «Lijian», e si tratterebbe della trascrizione fonetica della parola latina «legio» (legione). 
Il corridoio di Hexi è stata un' importante via di passaggio per i mercanti arrivati dall'ovest, precisa Chen Zhengyi. Dunque, vi è sempre stata una mescolanza di popolazioni, ma solo la zona di Yongchang presenta una simile concentrazione d'abitanti dai tratti somatici così particolari. Nel 1999, alcuni genetisti venuti da Pechino hanno esaminato il sangue a 2000 persone provenienti dal paese. Secondo lo storico, il 46 per cento dei test ha rilevato una forma di legame genetico con gli europei; ma questo non dimostra ancora niente.

Contattati dall' Università di Pechino all'inizio dell' anno, alcuni genetisti italiani hanno ribattuto che le legioni erano costituite soprattutto da mercenari greci. A tutt'oggi, il mistero di Zhelaizhai resta totale. Da una decina d'anni, però, numerosi abitanti di quest'angolo perduto del Gansu si compiacciono di credere di aver forse avuto per antenati dei gloriosi legionari romani. 
«Roma antica o meno, tutto ciò non è molto chiaro - ammette Luo Ying con un sorriso da seduttore latino -. Ma non trova che ci somigliamo, lei ed io?» 

POSIZIONE DELLA LEGIONE
La legione perduta è arrivata in CinaVicino al deserto dei Gobi, a un passo dalla Mongolia, c'è un paese i cui abitanti hanno tratti europei. Secondo una teoria, sarebbero i discendenti di una legione romana dispersa nel 53 ac.

Gu Jianming vive a Liqian, un piccolo centro a 300 chilometri dalla città più vicina, nel nord della Cina. Quando è nata sua figlia è rimasto molto sorpreso nel constatare che aveva i capelli biondi. "Li abbiamo tagliati, ma sono ricresciuti dello stesso colore. A scuola la chiamano 'capelli gialli'". Gu Jianming non sapeva nulla, come nessuno dei suoi concittadini, di una teoria sviluppata da un professore di Oxford, Homer Dubs, negli anni Cinquanta, anche perché in epoca maoista questo genere di idee venivano rifiutate a priori.

Dubs aveva raccolto storie e leggende mettendo assieme una teoria per spiegare la strana diffusione di tratti caucasici a Liqian. Secondo Dubs tutto ebbe inizio nel 53 a.c., quando Crasso fu sconfitto dai Parti nell'attuale Iran. 

Una legione dell'esercito romano allo sbando avrebbe perduto la strada e avrebbe cominciato a vagare fino ad arrivare in Cina. Dubs collegava questa ipotesi a documenti storici cinesi che racconterebbero della cattura da parte degli Unni, diciassette anni dopo, di 145 uomini che si schieravano "a lisca di pesce", una formazione identificata nella "tartaruga" romana. Gli Unni erano un potente gruppo nomade multietnico stanziato tra la Mongolia e il nord della Cina, proprio nella zona in cui si trova Liqian. Ora una spedizione scientifica eseguirà dei test del DNA per verificare l'eventuale presenza di caratteri riconducibili alle popolazioni europee.

Questi test lavorano sul DNA mitocondriale e soprattutto sul cromosoma Y, la cui catalogazione dei marcatori ha già permesso l'elaborazione della storia della diffusione della razza umana nel mondo a partire dall'Africa 50.000 anni fa.

La strada di europei e cinesi si è divisa circa 35.000 anni fa, quando le popolazioni centro-asiatiche contraddistinte dal marcatore M9 si sono divise in popoli europei, siberiani e americani, contraddistinti dal marcatore M45, e in quelli est asiatici, contraddistinti dai marcatori M175 e M122. Trovare una forte percentuale di marcatori M45 o M173 negli abitanti del villaggio proverebbe l'origine europea.

Naturalmente più di questo non sarebbe possibile provare geneticamente, quindi l'ipotesi della Legione Perduta, che richiama alla mente le storie di Harry Turtledove, difficilmente può trovare conferme definitive.



www.mondocina.it

DOMENICA, 21 NOVEMBRE 2010 08:23

LANZHOU – Quando i primi archeologi arrivarono a Liqian, nella provincia del Gangsu, rimasero immediatamente colpiti dall’aspetto degli abitanti del villaggio. Alcuni di loro avevano occhi grandi e verdi, nasi pronunciati e capelli biondastri. I loro tratti somatici erano europei, più che cinesi. Ma questa era solo la prima di una serie di sorprese. Perché, quando si misero al lavoro, gli archeologi scoprirono i resti di una fortificazione che aveva una struttura molto simile a quelle dell’antica Roma.

I fatti in questione risalgono al 1998. Qualche anno più tardi, gli abitanti di Liqian furono sottoposti a una serie di test genetici che evidenziarono le loro origini caucasiche. Alcuni studiosi, a quel punto, non ebbero più dubbi: era qui, in quest’area remota ai bordi del deserto del Gobi, che erano arrivati i 5.000 legionari di Crasso sopravvissuti alla disfatta di Carre.



SCAVI ARCHEOLOGICI PER CONFERMARE LA TESI

E’ per confermare questa tesi, che lascia spazio a molti dubbi, che il Centro di studi italiani dell’Università di Lanzhou ha deciso di eseguire degli scavi lungo l’antica Via della Seta, il reticolo di percorsi che collegava due dei più grandi imperi dell’antichità. La speranza è di ritrovare i resti della legione perduta di Crasso, o quelli delle fortificazioni che i soldati romani avrebbero costruito durante la loro permanenza in Cina.

La leggenda della legione perduta di Marco Licinio Crasso, il generale romano che fondò il primo triumvirato con Cesare e Pompeo, parte dalla terribile sconfitta che i suoi legionari subirono a Carre. Era il 53 a.c. e l’esercito della Repubblica romana, forte di oltre 40.000 soldati, fu spazzato via da 10.000 parti. Anche Crasso fu ucciso nella battaglia, ma lo storico e filosofo Plutarco, nelle sue “Vite Parallele”, racconta che 5.000 romani riuscirono a sfuggire alla morte. Nessuno di loro, tuttavia, fece ritorno a Roma. Da qui l’ipotesi che si siano spinti ad Oriente, arrivando fino all’attuale provincia cinese del Gangsu.

Gli archeologici cinesi non sono i primi a ipotizzare questa tesi. Nel 1957, nel suo studio “A Roman City in Ancient China”, il sinologo statunitense Homer H. Dubs si spinse anche oltre, arrivando a ipotizzare che intorno al 35 a.c. vi fu uno scontro sul fiume Talas tra soldati cinesi e soldati romani. Fonti cinesi parlano di una formazione a scaglia di pesce, che secondo Dubs sarebbe la classica formazione a testuggine utilizzata dai romani. E sempre secondo Dubs, i soldati in questione sarebbero quelli sopravvissuti, 18 anni prima, alla disfatta di Carre.



TRA MITO E REALTA’

Una tesi, quella di Dubs e degli archeologi cinesi, che è certamente affascinante, ma che è ancora lontana dall’essere provata. Gli indizi a favore non mancano. Tanto per dirne una, il villaggio dove vivrebbero i discendenti dei legionari di Crasso, Liqian, ha un nome molto simile a quello utilizzato nella Cina antica per indicare l’Impero Romano, vale a dire Lijian. E poi ci sono i test genetici, che proverebbero che in una manciata di cinesi di oggi scorre il sangue dei romani di un tempo.

Ma si tratta, per l’appunto, soltanto di indizi. E di indizi che possono essere tutti confutati. I test genetici, ad esempio, mostrano esclusivamente che gli abitanti di Liqian hanno discendenze caucasiche. Ma non hanno discendenze caucasiche anche gli uiguri, gli abitanti della vicina provincia della Xinjiang?

Eppure gli uiguri non sono imparentati con gli antichi romani, ma con i turchi.E chi può provare che le tracce di sangue caucasico non derivino dai mercanti che, partendo da Occidente, sono arrivati in queste aree in epoche successive a quella dell’antica Roma? Marco Polo, ad esempio, arrivò da queste parti 1.300 anni dopo la disfatta di Carre.

Si può dubitare anche dell'indizio dell'antica fortificazione di Liqian, dall'aspetto vagamente romano. A Liqian vi sono soltanto un cumulo di rovine da cui non è possibile carpire alcuno stile architettonico. L'unica cosa riconoscibile è la pianta della fortificazione, che si snoda attraverso strade perpendicolari, ma questo è un particolare che accomuna le città dell'antica Roma con quelle di diverse dinastie imperiali cinesi.

Eppure è fuori di dubbio che l'impero romano e quello cinese avessero una reciproca conoscenza dell'esistenza dell'altro. Le merci dell'uno arrivavano, attraverso l'Asia Centrale e il Medio Oriente, fino ai mercati dell'altro: ne sono un esmpio le sete che venivano indossate dai patrizi romani, in un tempo in cui era la Cina l'unico luogo in cui si confezionava il prezioso tessuto. Sembra inoltre quasi accertato che, a partire dai primi anni del II secolo d.c., diversi inviati romani siano giunti nel Regno di Mezzo, come testimoniano le fonti del tempo.

Ma affermare che una legione romana si sia stabilita in Cina nel 53 a.c., e che quella legione fosse formata dai resti dell'esercito romano sconfitto a Carre, è un'ipotesi che rimane piena di dubbi. Gli scavi archeologici dell’Università di Lanzhou mirano a dissiparli. Ma non sarà un’impresa facile.

PORTA SANQUALIS

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Una delle più antiche porte di Roma, aperta sulle mura serviane, di sicuro la prima aperta sul lato occidentale del colle Quirinale, dal nome molto dibattuto (per alcuni deriverebbe da Porta Sanguinis), ma di certo derivato dal nome del vicino tempio di Semo Sancus (Fest. 343, 344, 345), generalmente locato dalle fonti a sud di questo, sul Collis Mucialis, vicino all'odierna Piazza Magnanapoli (RhM 1894, 410‑411; HJ 399; Richter 44, 290; cf. Jord. I.1.213; Hermes 1891, 142‑144).

Era posta sul meno scosceso dei tre avvallamenti dell’alto dirupo, per consentire l’accesso alla città da quella parte. La sua posizione è quasi certamente identificabile con i resti del muro che è tuttora visibile nell’aiuola centrale di largo Magnanapoli, all’inizio di via Nazionale: tre filari di blocchi di tufo, probabilmente relativi ad un lato della porta, su cui una lapide, posta dal Comune avverte: “Mura urbane dell’epoca dei Re, tornate in luce nel novembre 1875”.

- Festo: "Sanqualis Porta appellatur proxima aedibus Sanci", il qual passo trovasi da copisti travestito in Aedibus Anci. La verità però della correzione da noi data da questo passo si riconosce da quello che in Festo stesso si legge, imperrocchè alla voce Sanqualis Porta si dice: "Sanqualis Porta appellata est ab avi Sanquali, ideoque eodem est nominem quo avis ipsa appellatur". E alla voce Sanqualis avis: "Sanqualis avis appellatur quae in commentariis auguralibus ossifraga dicitur, quia in Sangi Dei tutela est." Ma Sangi è certamente lo stesso che Sanci, nome cangiato per una somiglianza di pronunzia, e come l'augello come Sanquale ancora chiamavasi un augello a lui sacro, che gli antichi appellavano ossifraga, e siccome questo sacello si mostra nelle vicinanze del Tempio di Quirino, non lungi dalla chiesa odierna di S. Andrea de' Gesuiti, la Porta Sanquale sarà stata nelle vicinanze dell'odierno palazzo Papale. - (Antonio Nibby - Accademia reale Ercolanese - 1820)



SEMO SANCUS

Sancus, o Samo Sanco, o Sanquale, era il Dio di origine sabina che proteggeva i giuramenti, i matrimoni, i contratti, l'ospitalità, i commerci e in particolar modo i patti giurati in nome e in onore del Dio. I sabini in effetti abitarono da soli il colle prima della fusione con gli elementi latini stanziati sul Palatino. Perfino i patti internazionali con altri popoli venivano conservati nel suo tempio. Da lui derivano le parole santo e santificare tanto usati nel cristianesimo, ma pure la parola sanzione, cioè punizione a chi contravviene un patto, e il termine legislativo sancire, cioè stabilire per legge.



COLLE MUCIALE

Il Quirinale era un colle, non un monte, e la descrizione degli Argei (Varrone, LL V.51) conserva i nomi di alcune sue parti in cui il colle era diviso: collis Latiaris, a sud; collis Mucialis, a nord del Latiaris, da Via di Magnanapoli a monte Cavallo; collis Salutaris, da Monte Cavallo alla chiesa di S. Andrea; e collis Quirinalis, posto ad est.



LE MURA SERVIANE

MURA SERVIANE
Rimangono ancora molti tratti delle mura Serviane, che risultano agli studiosi del IV secolo ac. ma possono aver subito rifacimenti e ricostruzioni con blocchi in tufo di Grotta Oscura, mentre la cinta più antica doveva essere eretta con blocchi di cappellaccio. Infatti tratti del muro di VI secolo ac. sono state ritrovate sul Viminale presso le Terme di Diocleziano e sull’Aventino sotto la chiesa di S.Sabina, con parti di restauro di IV secolo ac. con blocchi di tufo di Grotta Oscura.
Costruite dunque da Servio Tullio alla metà del VI sec. ac., vennero sostituite dal cappellaccio all'opera quadrata di blocchi di tufo giallo, con la porta Sanqualis che si apriva sul margine meridionale del colle Quirinale. Alcuni resti in blocchi di tufo furono portati alla luce nei pressi di Largo Magnanapoli, con una struttura di forma rettangolare allungata e spazio aperto interno.
Presso l’attuale salita del Grillo è ancora visibile un tratto delle mura serviane, del IV sec.ac., di blocchi di tufo giallo di Grotta Oscura. Tra le mura si apre un arco a conci di tufo di Monteverde di età tardo-repubblicana, simile a quello presso la porta Raudusculana, sull’Aventino. Il tempio del Dio Sanco presso la porta, fu ricostruito e dedicato nel 466 ac., da Tarquinio il Superbo.



L'ARCATA DI TUFO

Al termine della valle fra i colli Quirinale e Viminale (corrispondente alla lunga via Nazionale), di fronte ai Mercati Traianei, nel mezzo di uno spartitraffico decorato con alberi esotici si trova un piccolo frammento del muro, come si è descritto sopra.

Ma la cosa più interessante e meno visibile è nell'atrio del palazzo storico dirimpetto allo spartitraffico, Palazzo Antonelli, al civico 157, che ora ospita uffici della Banca d'Italia. Trattasi di un’arcata di tufo (inglobata ora nell’androne9), simile a quella visibile nei pressi della porta Raudusculana. Considerata la notevole altezza dell’arcata dal livello originario del suolo, dovrebbe trattarsi di una postazione per armi da lancio. L’area era infatti esposta verso il Campo Marzio che, sebbene integrato nel circondario di Roma, era però esterno alle mura. 
Le tecniche costruttive dell’arcata risalgono all’87 ac., secondo altri però ad un periodo ancora precedente. Chiedendo però al portiere di poter vedere "l'arco romano", egli vi indicherà ciò che è ritenuta essere l'originale Porta Sanqualis, che venne incorporata nella struttura dell'edificio probabilmente nello stesso punto in cui sorgeva: un'abbinamento architettonico davvero insolito. Altri piccoli frammenti di età romana sono esposti nel medesimo atrio, e nell'adiacente cortile.

Sarebbe possibile che un monumento così antico, un cimelio della Roma degli albori possa giacere così occulta, invisibole ai più e senza neppure un cartello? Ebbene, purtroppo si, in Italia è possibile.


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TANAQUIL

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Nome: Gaia Caecilia o Gaia Cyrilla
Marito: Tarquinio Prisco
















TANAQUIL

Tanaquil (anche Gaia Caecilia, Gaia Cyrilla, Caia Caecilia o Caia Cyrilla; ... – ...) è stata la moglie di Lucumone, un greco col nome etrusco che poi cambiò ancora nome in Lucius Tarquinius Priscus, meglio noto come Tarquinio Prisco, V re di Roma.

Caia Caecilia, o Gaia Caecilia, peraltro fu a Roma una Madre Terra, Dea del fuoco, della guarigione e delle donne. Da taluni venne chiamata Gaia Cirilla, ma Cirilla in greco significa "Signora", parola che in etrusco si traduce con "Turan", che era pure il nome della Venere etrusca. Invece Tanaquil significherebbe "Il Dono della Grazia".
Ma c'era un'altra Caia, anche se alcuni studiosi le hanno accumunate, e sembra si trattasse invece di due Dee: Caia Taracia e Caia Caecilia, quest'ultima conosciuta come Tanaquil, una regina di Roma, anche se alcuni la ritengono la nuora di Tanaquil.



TARACIA

Caia Taracia, o Gaia Taracia fu una vestale molto ricca che alla sua morte lasciò molte terre ai romani che le dedicarono una statua per ringraziamento. Ma in realtà fu la Madre Terra, detta appunto Gaia, quella per cui gli sposi prendevano il nome, nel giuramento di nozze, di Gaia e Gaio, giurando appunto alla Terra. Ma parecchie Grandi Madri vennero declassate a ninfe o addirittura a donne, come Acca Larentia che venne spacciata per una prostituta alla faccia delle feste Larentalia, la Dea lupa declassata ad animale alla faccia della festa dei Lupercali ecc. ecc.




GAIA CECILIA

Comunque Caia Taracia non ebbe a che fare con Gaia Cecilia, che era invece un'etrusca di Tarquinia e di nobile discendenza, educata nella medicina e nella matematica, come solo in Etruria si faceva, perchè a Roma le donne studiavano raramente, e pure in sordina.
Tanaquil fu una delle donne più influenti nella storia politica romana, perchè in quanto etrusca era abituata a interessarsi di politica, ma soprattutto di religione, avendo un retaggio matriarcale proprio degli etruschi. Che gli etruschi derivassero in gran parte da Creta sembra evidente, se non altro perchè, a parte molti decori identici a quelli cretesi, avevano il simbolo del labris, l'ascia bipenne, esattamente come loro.
L'ascia bipenne non era ovviamente un'arma perchè sarebbe stata pesante e scomodissima, ma un simbolo cretese prima e minoico dopo, e dire che rappresenti i fulmini implica una grande fantasia perchè la forma è tutt'altro. Il labris è un simbolo lunare, ed esattamente della luna nascente e calante, e tutte le società matriarcali furono lunari, cioè adoratrici della luna. Infatti anticamente anche l'anno era lunare, e non solo presso gli etruschi ma presso tutte le società primitive, tanto è vero che alcuni popoli come i cinesi e come gli ebrei, lo usano ancora.

Dall'attribuzione da parte di Tito Livio (Storie, I, 34 e 39) a Tanaquilla (Tanaquil) di capacità divinatorie «esperta qual era, come lo sono di solito gli etruschi, nell'interpretazione dei celesti prodigi» consegue che anche le donne dell'aristocrazia potevano interpretare i segni degli Dei, o che ella stessa era sacerdotessa.



LA DONNA ETRUSCA

La donna etrusca portava un nome proprio oltre al nome patronimico, al contrario delle romane che portavano il solo nome di famiglia, cioè patronimico, in più, continuava a portare il proprio patronimico o il proprio nome anche da sposata (ad es. su di un sarcofago da Tarquinia del V-I secolo a.c. si legge "Larthi Spantui, figlia di Larc Spantu, moglie di Arnth Partunu"). Essa partecipava ai banchetti e a qualsiasi manifestazione o spettacolo, come gli uomini e insieme agli uomini e poteva fare tutto ciò che gli uomini facevano tranne avere cariche politiche, però potevano partecipare alle assemblee politiche ed esprimere i loro pareri che, anche se non vincolanti per legge, lo erano nei fatti.

La presenza di sacerdotesse etrusche è sostenuta da Massimo Pallottino (Studi Etruschi 3, 1929, p. 532) e da Mauro Cristofani (Studi Etruschi 35, 1980 p. 681). Il Trono della tomba di Verucchio, provincia di Rimini, mostra un uomo e una donna di alto rango trasportati in corteo, su carri imponenti, verso un luogo dove si svolge un rito, gestito da due sacerdotesse alla presenza di guerrieri armati di elmo e lancia, e nella parte alta numerose donne intente a varie attività, tra cui quella del lavoro su telai.

Un'epigrafe su un sepolcro di Tarquinia IV-III sec. ac. rivela: “il giudice Ramtha è stata moglie di Larth Spitus, è morta a 72 anni, ha generato 3 figli” (Arnaldo d'Aversa, La Donna Etrusca, p. 57). Quindi le etrusche non solo lavoravano ma adivano ad alte cariche.

Aristotele (IV sec. ac.) afferma che «gli Etruschi banchettano con le loro mogli, sdraiati sotto la stessa coperta» (Fragm. 607 Rose). Viceversa in Grecia le uniche donne ammesse ai banchetti erano le etere.

Il ritrovamento in deposizioni femminili di coppie di morsi di cavallo e di carri, rivela il prestigio e la libertà delle donne etrusche. La loro partecipazione a manifestazioni pubbliche è testimoniata dalle pitture della tomba Tarquinese delle Bighe ( VI - V sec. ac.) in un fregio su tutte le pareti della camera funeraria dove si svolgono varie gare sportive mentre il pubblico è rappresentato da uomini e donne (matrone con velo e giovinette con tutulus). Nella tribuna, una matrona con velo (forse una sacerdotessa) è rappresentata in prima fila e due giovinette, più arretrate, assistono ai giochi tra uomini. La matrona con un gesto solenne sembra dare inizio alla gara delle bighe.

Plauto (III-II secolo ac.) allude all'uso delle donne etrusche di prostituirsi per procurarsi la dote (Cistellaria 296-302): "Io ti chiamo per ricondurti tra le ricchezze, e sistemarti in una doviziosa famiglia, dove avrai da tuo padre ventimila talenti per dote. Perché la dote non la debba fare qui da te, seguendo la moda etrusca, prostituendo vergognosamente il tuo corpo!". Sappiamo da fonti storiche (Gaio Lucilio - II sec. ac. cita "le cortigiane di Pyrgos": apud Servio, Ad Aeneid., R, 164), e anche archeologiche, che in Etruria la prostituzione veniva praticata nella sua forma più "nobile": la prostituzione sacra (diffusa in Siria, Fenicia, Cipro, Corinto, Cartagine, Erice). Il santuario del porto di Pyrgi (Santa Severa) era costituito da due templi principali, uno greco e uno tuscanico più recente, racchiusi da un recinto sacro che lungo un lato presentavano tante piccole cellette che servivano appunto per la prostituzione sacra. Questa pratica elevava il lignaggio delle ierodule che alla fine del sacerdozio facevano matrimoni d'alto rango.



LA SACERDOTESSA

Dunque Tanaquil era probabilmente di classe sacerdotale, tanto è vero che conosceva i rituali e la divinazione e il rispettò che si conquistò nel popolo derivò dal fatto che alcune qualità paranormali le ebbe. E' molto infantile pensare che miracoli e prodigi siano solo del cristianesimo e che nelle altre religioni non siano esistite. Certamente un tempo la gente era meno istruita e più credulona, ma questo non ha stroncato  i miracoli di una religione, ma di tutte le religioni del mondo, cristiana inclusa. I miracoli portentosi non esistono più, gli unici miracoli sono le guarigioni inspiegabili, che però si verificano anche con persone atee.

Tanaquil comunque vide che il marito non era considerato a Tarquinia e anzi emarginato in quanto greco, per cui lo incoraggiò a lasciare Tarquinia per emigrare a Roma, la metropoli dove ogni razza e provenienza era accettata, l'urbe illuminata e civilizzata: Roma, la Caput Mundi. Dunque fu lei e non suo marito a decidere il trasloco il che la dice lunga sulla personalità dell'etrusco, e non si pensi che Tarquinio fosse un debole, perchè fu valoroso generale di molte battaglie quando indossò la corona romana.

Il destino si espresse sul futuro di Lucumone, infatti al loro arrivo a Roma un'aquila prima rubò il berretto al marito poi tornò indietro e lo lasciò ricadere sulla sua testa. Tanaquil che sapeva interpretare i presagi vise in questo il favore degli Dei e un avvenire glorioso per il marito. Cambiato così il suo nome in Gaia Cecilia, ella cominciò a frequentare l'alta società di Roma, inserendosi ed inserendo il marito
nella vita sociale e politica di Roma.



LA REGINA

Col suo aiuto Tarquinio fece una brillante carriera fino alla sua elezione a re, col nome di Tarquinius Priscus, nome aggiunto dopo per distinguerlo dal suo successore, Tarquinio il superbo. Egli governò dal 616 al 578 ac. Tanaquil interpretò altri presagi ed indicazioni relative alla regalità: un giorno il suo la sua ancella Ocrisia, mentre offriva dolci ai Lari del focolare domestico, scorse tra le fiamme l'immagine di un Dio e di una regina. Tanaquil le disse di vestirsi come una sposa e di chiudersi nella sua stanza. Quella notte Ocrisia venne visitata da un Dio, per alcuni Vulcano,per altri uno dei Lares, e rimase incinta, poi dando alla luce un bambino Servio Tullio. In un'altra leggenda si narra che Tanaquil avesse scorto una corona di fiamme attorno alla testa dl bambino, un auspicio che le fece predire il futuro re.



LA VEDOVA

Intanto il maggiore dei figli di Anco Marzio, nella speranza di ottenere il trono che riteneva gli fosse stato usurpato da Tarquinio, organizzò un complotto e lo uccise. L'intelligente Tanaquil, adunando attorno a sè gli armati e i consiglieri più fedeli, annunciò al popolo che il re era ferito ma che non era morto, ordinando riti di guarigione.

Intanto fece accettare Servio Tullio come reggente, nominato dallo stesso Tarquinio, in attesa della guarigione del re, e quando più tardi annunciò che il re era morto (molto tempo dopo che in realtà era morto), Servio, che del resto era etrusco anch'egli, e che era diventato già Magister Populi, cioè aiutante del Rex Sacrorum, era già stato accettato dal popolo come il VI re di Roma.

Tanaquil, al contrario delle donne romane, non aveva preso il nome familiare, era una donna intelligente, molto forte e indipendente, e spesso il suo nome fu più famoso e potente di quello del marito.



LA MORTE

Dopo la sua morte, Tanaquil venne divinizzata, probabilmente assimilandola ad una Dea Gaia precedente, una Dea ancora viva nelle donne nella cerimonia di nozze. Come parte del rituale, la sposa diceva: Ubi tu Gaius, Gaia ego, che significa "Dove sei Gaio, io sono Gaia", ed entrando nella nuova casa lei dichiarava "Il mio nome è Gaia". Del resto e spose romane indossavano un velo rosso proprio in memoria di Gaia che er Dea del fuoco e delle donne.

I Romani onorarono Gaia / Tanaquil per le sue abilità domestiche, in quanto la Dea Madre aveva insegnato alle donne a tessere e a filare, inventando anche il fuso e il telaio. Non a caso le Dee Madri creavano il mondo tessendolo al telaio. Si narra che nel Tempio della Fortuna a Roma si conservava una toga che Tanaquil aveva tessuto per Servio Tullio. Allo stesso modo, spesso nei santuari cristiani si tiene un pezzo del velo di una madonna miracolosa.

Plinio narra che nel tempio Semo Sancus vi fosse una statua dedicata a Tanaquil col nome di Gaia Caecilia, dove venivano conservate le sue reliquie. Ma lo storico nota che più che come una donna virtuosa era adorata come una Dea.

Nel tempio di Semo Sancus  venivano conservati il suo fuso, la sua conocchia la sua cintura delle erbe e perfino le sue pantofole, insieme con la statua in bronzo di Caia Cecilia. Gli oggetti addosso a questa statua si credettero avesser poteri di guarigione. Le erbe erano il suo aspetto guaritivo, il fuso e la conocchia la capacità di tessere e filare, le pantofole erano in realtà le scarpe etrusche, una specie di babbucce con la punta rivolta all'insù che le Etrusche indossavano con grande raffinatezza. Queste scarpe erano in effetti o di cuoio morbido dipinto e ricamato o di velluto trapunto con piume, perle, pietre preziose e nastri lucidi. Un paio di scarpe regali potevano valere cifre altissime.

Inoltre, Caia Cecilia sarebbe stata collegata al Dio del fiume Tevere, Tiberinus e con l'isola nel mezzo del fiume, forse con un piccolo santuario insieme a Tiberinus, in cui si faceva una offerta e una festa l'otto dicembre.

Tanaquil era dunque associata con i Lari, il focolare e la profezia che da sempre appartiene alla Madre Terra, tanto è vero che Giove per oracolare dovette ingoiare la Dea Meti, appunto Dea oracolare, che da quel momento in poi emise oracoli nientemeno che dalla pancia di Giove.
I suoi collegamenti con Acca Larentia (la Madre dei Lari) e i Lari stessi la collegano alla natura e al lato infero, cioè agli spiriti dei morti. Spesso le grandi personalità vengono divinizzate, così accadde probabilmente a Ercole, a Romolo, e pure a Cesare, perchè la gente crea i suoi idoli e i suoi eroi. Ma quando l'eroe è un'eroina il culto è molto forte, perchè al potere divino si associa la comprensione e la compassione che è pertinente al mondo femminile.

GENS ANICIA

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Le prime notizie sulla gens Anicia si hanno nel II sec. a.c.  e permangono fino al termine del VI sec. d.c.. Questa gens ebbe importanti personaggi politici e militari, compresi tre pontefici, Felice III, Sant'Agapito e Gregorio Magno.
Gli Anicii usarono i praenomina: 
Lucius, Amnius, Quintus, Sextus, Marcus, Gnaeus, Titus, Gaius, Aurelius, Petronius e Flavius per gli uomini e Tyrrenia e Demetrias per le donne. 
E come cognomina usarono: Praenestinus, Gallus, Faustus, Paulinus, Auchenius, Bassus, Proba, Faltonia, Iulianus, Hermogenianus, Olybrius, Maximus, Boëthius e Albinus.
Il primo membro illustre della gens fu Lucio Anicio Gallo, console nel 160 a.c.




PERSONE ILLUSTRI


LUCIO ANICIO GALLO

- (Lucius Anicius Gallus): vissuto nel II sec. a.c, fu console del 160 a.c.; fu il primo membro della propria gens ad ottenere prestigiose cariche pubbliche nella Repubblica romana. Fu pretore nel 168 ac. e fu incaricato da Lucio Emilio Paolo di condurre la guerra contro Genzio, re degli Illiri, che si era rivoltato contro Roma e si era alleato con Perseo.
Lucio Anicio era accampato nei pressi di Apollonia e, ricevuto l'ordine, era deciso a raggiungere Appio Claudio, che si trovava sulle rive del fiume Genuso, in modo da operare all'unisono contro gli Illiri.
Informato però che i pirati illiri stavano razziando le coste tra Apollonia e Dyrrhachium, decise di muovere rapidissimamente la flotta romana contro le navi pirate, catturandone alcune e facendo fuggire tutte le altre.
Quindi sempre in velocità corse in aiuto di Appio Claudio e i Bessaniti, assediati dalle truppe di Genzio. L'arrivo delle truppe romane spaventò il re degli Illiri, che tolse l'assedio e si rifugiò nella sua roccaforte di Scodra, mentre il resto del suo esercito si arrendeva ai Romani.
Lucio Anicio fu clemente con quelli che si arresero e, perciò, tutte le città illiriche seguirono l'esempio dell'esercito: così che l'esercito Romano avanzò molto velocemente verso Scodra.
Sotto le mura della città Genzio affrontò in campo aperto l'esercito avversario, ma fu facilmente sopraffatto. Il re illirico, terrificato dagli avvenimenti e dalla loro velocità, chiese una tregua di tre giorni, che gli furono garantiti. Genzio sperava che, nel frattempo, il fratello Caravanzio giungesse con dei rinforzi. Non vedendolo arrivare e disperando in aiuti dalla Macedonia, Genzio stesso uscì dalla città e si diresse verso il campo romano per arrendersi subito senza condizioni.
Lucio Anicio Gallo entrò in Scodra e per prima cosa liberò i legati fatti prigionieri dagli Illiri ed inviò Perperna, uno dei legati, a Roma per informare il Senato della completa vittoria su Genzio. L'intera campagna era durata meno di trenta giorni! Il Senato stabilì tre giorni di festeggiamenti e, al suo ritorno a Roma, Lucio Anicio Gallo celebrò il proprio trionfo su Genzio.
Nel 155 ac. fu uno degli ambasciatori inviati alla corte di Prusia II, per chiedere conto del comportamento nei confronti di Attalo II, re di Pergamo.


CNEUS ANICIUS

un legato di Paullu nella guerra macedone, del 168 a.c.. (Liv. xliv. 46).


TITIUS ANICIUS

disse che "Cicerone gli aveva dato come commissione di comprare un posto nei sobborghi per lui", 54 a.c.. (Cic. ad Qu. Fr. iii. 1. § 7).


CAIUS ANICIUS

- senatore e amico di Cicerone la cui villa era confinante con la sua. Cicerone gli dette una lettera di introduzione per Q. Corniiiciu in Africa, quando Anicius andava lì con il privilegio di una leyatio libera (Diet, of A nt. s.v. Legatui in b. c. 44. (Cic. ad Q,u. Fr. ii. 19? ad Fain, vi 26, xii. 21.)



ANICIA ANATOLIA

- (Anicia Anatolia): vissuta nel III sec. dc, fu martire nel 249;


SESTO COCCEIO ANICIO FAUSTO PAOLINO

- proconsole d'Africa (260 circa)


ANICIO FAUSTO

- (Anicius Faustus;  298-300; ... – ...) Un politico dell'Impero romano. Prima del 298 fu console suffetto, in quanto il consolato del 298 fu il suo secondo. Tra il 299 e il I marzo 300 fu praefectus urbi.
Fu forse figlio di Sesto Cocceio Anicio Fausto Paolino, e forse va identificato con (o era fratello di) Sesto Anicio Fausto Paoliniano; potrebbe essere stato il padre di Amnio Anicio Giuliano e Sesto Anicio Paolino.


AMNIO ANICIO GIULIANO

- (Amnius Anicius Iulianus): vissuto nel IV sec. d.c. fu discendente di un ramo originario della Byzacena che aveva raggiunto il patriziato alla metà del III sec.dc. Suo figlio fu Amnio Manio Cesonio Nicomaco Anicio Paolino, console del 334.
Giuliano fu console del 322 e praefectus urbi dal 13 novembre 326 all'8 settembre  329. Lucio Aurelio Avianio Simmaco lo definì il più ricco e influente personaggio della sua epoca, e gli dedicò un epigramma.


AMNIO MANIO CESONIO NICOMACO ANICIO PAOLINO 

- (Amnius Manius Caesonius Nichomacus Anicius Paolinus iunior Honorius): vissuto nel IV secolo d.c., fu fu console 334, figlio del precedente; Paolino fu praefectus urbi di Roma nel 334-335 e console nel 334. Fece erigere una statua equestre a Costantino I nel Foro Romano; questa statua, di cui rimane una dedica, era collocata o a occidente della Cloaca o a oriente dei Rostra vandalica.


FLAVIO ANICIO EMOGENIANO OLIBRIO 

(Flavius Anicius Hermogenianus Olybrius): vissuto nel IV sec. d.c., figlio di Sextus Petronius Probus, uno dei personaggi più influenti dell'epoca, console nel 371, e di Anicia Faltonia Proba; suoi fratelli furono Anicius Probinus, Anicius Petronius Probus e Anicia Proba.

Nacque con suo fratello Probinus a Rome, e da adulto condivise con lui il consolato dell'anno 395, tutti e due molto giovani. Per l'occasione venne dedicato ai fratelli un panegirico da Claudiano (Panegyricus de consulatu Probini et Olybrii). Nonostante provenissero da una famiglia senatoriale pagana, Olybrius e Probinus erano Cristiani; d'altronde ai tempi di Theodosius I, era difficile essere eletti se non si era cristiani
Con suo fratello ricevete una dedica nel lavoro Exempla elocutionum di Arusianus Messius, e ambedue ricevettero una lettera (Epistles, v) da Quintus Aurelius Symmachus nel 397.
Flavio sposò Anicia Iuliana avendo un figlio e una figlia, Demetria.


ANICIO PAOLINO

- (Anicius Paulinus; floruit 379-380; ... – ...) fu un politico dell'Impero Romano.

Cristiano e appartenente alla potente gens Anicia, probabilmente figlio di Amnio Manio Cesonio Nicomaco Anicio Paolino, console nel 334, o di Sesto Anicio Fausto Paolino, console nel 325. Fu onorato a Capua come patronus originalis.
Paolino fu il primo proconsole a governare sulla Campania, nel 378/379.
Il 24 aprile 380 era in carica come praefectus urbi di Roma. Nel 382/3 fu onorato con un'iscrizione a Gortyn. Nel 396 partecipò ad un'ambasciata senatoriale insieme a Piniano e Postumiano.


QUINTO CLODIO ERMOGENIANO OLIBRIO

 (Quintus Clodius Hermogenianus Olybrius;  361-384; ... – ...) fu un politico dell'Impero romano.

Era un cristiano, figlio di Clodio Celsino Adelfio e di Faltonia Betizia Proba, una poetessa. Sposò Tirennia Anicia Giuliana, appartenente alla gens Anicia in quanto figlia del praefectus urbi del 382 e console del 408 Anicio Auchenio Basso, da cui ebbe una figlia, Anicia Faltonia Proba.

Fu vir clarissimus, consolare della Campania (prima del 361; patrono di Formia), proconsole d'Africa (361), praefectus urbi (369-370), prefetto del pretorio per l'Illirico e per l'Oriente, console nel 379. Era ancora vivo nel 384, ma morto nel 395.
Durante la prefettura dell'Urbe, che fu quieta e temperata, arrestò due sospetti avvelenatori, ma le indagini andavano per le lunghe a causa della sua malattia, così il caso passò al prefetto dell'annona Massimino; gli succedette Publio Ampelio.
Fu console posterior rispetto al poeta Decimo Magno Ausonio perché questi era prefetto anziano: mentre infatti Ausonio venne nominato prefetto del pretorio in Gallia nel tardo 377, Olibrio venne nominato prefetto per l'Illirico dall'imperatore Graziano probabilmente all'inizio del 378, forse in previsione dello scontro con i Goti in Tracia (che culminò con la sconfitta e morte di Valente nell'agosto alla Battaglia di Adrianopoli); era a Sirmio quando venne nominato console da Graziano.
Prima dell'assunzione del consolato, venne nominato prefetto del pretorio in Oriente.


SESTO ANICIO FAUSTO PAOLINO

- Appartenente alla gens Anicia, suo padre era probabilmente Anicio Fausto, suo fratello Amnio Anticio Giuliano (console del 322). Anicio Paolino era probabilmente suo figlio o suo nipote. Va forse identificato con quell'Anicio che fu il primo senatore di gran nobiltà a convertirsi pubblicamente al Cristianesimo.

Proconsole d'Africa, nel 325 divenne console prior con Giulio Giuliano; tra il 331 e il 333 tenne l'importante carica di praefectus urbi di Roma.


TIRRENIA ANICIA GIULIANA

- appartenente alla gens Anicia in quanto figlia del praefectus urbi del 382 e console del 408 Anicio Auchenio Basso, da cui ebbe una figlia, Anicia Faltonia Proba. Sposò Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio.


ANICIO AUCHENIO BASSO  

- (console 408), il figlio.


ANICIO AUCHENIO BASSO  

- (console 431). il nipote.


ANICIO AUCHENIO BASSO 

- (prefetto 382), il padre. Sposò Tirrenia Onorata.


ANICIA TIRRENIA ONORATA 
- sposò Anicio Auchenio Basso.


FLAVIO ANICIO PROBINO

- (Flavius Anicius Probinus): vissuto nel IV secolo d.c., fu console nel 395;
Probino era figlio di Anicia Faltonia Proba e di Sesto Petronio Probo, uno dei più influenti uomini della sua epoca e console nel 371, e fratello di Flavio Anicio Probino, col quale divise il consolato per l'anno 395; in questa occasione ai due fratelli venne dedicato un panegirico da parte di Claudio Claudiano (Panegyricus de consulatu Probini et Olybrii), da cui si evince che i due fratelli erano nati e cresciuti a Roma e che all'epoca del consolato erano molto giovani.
Sebbene fossero originari di una famiglia appartenente all'aristocrazia senatoriale romana, tradizionalmente pagana, Olibrio e Probino erano cristiani; la nomina a consoli di questi due cristiani potrebbe essere stato un segnale, voluto dall'imperatore Teodosio I, proprio l'anno seguente all'usurpazione e restaurazione pagana di Flavio Eugenio.
Olibrio e Probino ricevettero la dedica dell'opera Exempla elocutionum di Arusiano Messio e una lettera di Quinto Aurelio Simmaco.
Sposò Anicia Giuliana, sua parente, da cui ebbe un figlio e una figlia, Demetria.


DEMETRIADE

Anicia Demetriade o Demetria (latino: Demetrias; Roma, 398 - Roma, dopo il 440) fu una nobildonna romana, membro della potente famiglia degli Anici, in contatto con diversi uomini di Chiesa, di cui fu la patrona e la destinataria di trattati e lettere.
Anicia Demetriade, chiamata «Demetriade» nelle fonti, mentre il nome «Anicia» è stato ricostruito dagli storici (Kurdok, pp. 190-224). nacque nel 398 circa ("Non aveva più di quindici anni nel 413" Agostino d'Ippona, Lettere, 188). figlia di Anicio Ermogeniano Olibrio, patrizio di famiglia senatoriale e cristiano, console nel 395, e di Anicia Giuliana (Sofronio Eusebio Girolamo, Epistulae, 130) e dunque membro delle nobile e influenti gentes Anicia e Amnia; descritta come la più nobile e ricca persona del mondo romano negli anni 410. Comunque anni bui, in cui avvenne il Primo sacco di Roma da parte dei Visigoti guidati da Alarico e il fratello Ataulfo, per cui Demetriade lasciò la città con sua madre Giuliana e con la nonna paterna Anicia Faltonia Proba e si recò a Cartagine, dove le tre nobildonne furono imprigionate dal comes Eracliano, che le liberò solo dopo il pagamento di un enorme riscatto.

Mentre si trovavano a Cartagine, sua madre e sua nonna furono in contatto col vescovo Agostino d'Ippona, che le aiutò a seguire una vita religiosa. Demetriade, che aveva 15 anni nel 413 (Agostino d'Ippona, Lettere, 188), doveva sposarsi, ma seguiva segretamente una vita ascetica, influenzata da Agostino. Non rivelò la propria scelta ai suoi parenti, per paura di contrariarli, ma quando il suo matrimonio fu vicino, decise di raccontare alla madre e alla nonna della sua intenzione di non sposarsi e di prendere il velo. Le sue parenti furono molto contente e, nel 413, prese il velo in una cerimonia presieduta dal vescovo Aurelio di Cartagine.

Per aiutarla nella sua vita spirituale, Giuliana e Proba chiesero a diversi uomini di Chiesa di inviare consigli a Demetriade. Agostino rispose consigliandole di leggere il suo De sancta virginitate, Girolamo le inviò una lunga lettera con molti consigli, mentre Pelagio, un teologo avversario di Agostino, le indirizzò un trattato sotto forma di lettera, la Epistola ad Demetriam.

Più tardi, Demetriade tornò alla sua città nativa, Roma; a questo periodo è fatta risalire l'anonima Epistula ad Demetriadem de vera humilitate, scritta nel 440 da papa Leone I o, secondo un'altra interpretazione, nel 435 da Prospero di Aquitania, in cui si attaccano le posizioni di Pelagio sulla base delle tesi di Agostino.

Demetriade eresse una chiesa dedicata a Stefano protomartire lungo la via Latina, a tre miglia da Roma, su una delle sue proprietà. Morì durante il pontificato di papa Leone I (440-461).


ANICIA FALTONIA PROBA

(... – Africa, 432) aristocratica romana. Apparteneva ad una famiglia di alto rango  imparentata con la gens Petronia, con la gens Olybria e con la gens Anicia. Suo padre era Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio (console nel 379), suo marito Sesto Petronio Probo (console nel 371), da cui ebbe Anicio Ermogeniano Olibrio (console nel 395), Anicio Probino (console col fratello nel 395), e Anicio Petronio Probo (console nel 406); sua nipote era Demetriade e sua nuora Anicia Giuliana, la moglie di Olibrio.

ANICIA FALTONIA
Nel 395 era già vedova.
Cristiana, era in contatto con diversi personaggi della cultura dell'epoca, tra cui Agostino di Ippona, che scrisse su sua richiesta il "De orando deo" e Giovanni Crisostomo. Si trovava a Roma nel 410, in occasione del sacco ad opera dei Visigoti di Alarico I: fuggì in Africa, ma qui venne trattata male da Eracliano, ribelle all'imperatore Onorio, cui dovette pagare un riscatto per evitare che le donne del suo seguito fossero importunate.
Ereditò molti possedimenti in Asia, di cui donò le rendite al vescovo romano per distribuirle ai poveri. Morì in Africa nel 432.

Proba era molto istruita, come molte delle donne della sua famiglia. La nonna Faltonia Betizia Proba era stata una poetessa, Anicia compose forse l'epigrafe per il marito, la nipote Demetriade fu amica di Sofronio Eusebio Girolamo, che la descrive come istruita.  Faltonia Betizia Proba compose un centone che da taluni è attribuito, per ragioni di similitudine con un'opera degli anni 390, ad Anicia Proba.

Agostino indirizzò a Proba le lettere 130 e 131, a Proba e Giuliana la lettera 150 e citò Proba in De bono vid. (24). Giovanni le indirizzò la lettera 169.


ANICIA GIULIANA

- (Anicia Iuliana): vissuta nel IV secolo d.c., fu moglie di Flavio Anicio Ermogeniano Olibrio;


ANICIO OLIBRIO

- (Anicius Olybrius): vissuto nel V sec. d.c., fu senatore, console nel 464 e imperatore romano nel 472;


ANICIA GIULIANA 

- L'unica figlia di Anicio Olibrio; Anicia Giuliana ( Costantinopoli, 463 – 528) fu l'unica figlia dell'augusto Anicio Olibrio, imperatore dell'Impero Romano d'Occidente nel 472. Giuliana è una delle figure di spicco della vita culturale e religiosa della Costantinopoli di inizio VI sec., mecenate dell'architettura e della letteratura.
Era figlia di Placidia, figlia dell'augusto Valentiniano III, e di Anicio Olibrio, imperatore d'Occidente nel 472.

ANICIA GIULIANA
Nel 478, l'augusto Zenone, imperatore d'Oriente, propose il suo matrimonio con Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti, per restaurare l'Impero Romano d'Occidente e ottenere così l'aiuto dei patrizi che restavano nell'Italia per una spedizione comandata dal re ostrogota, e incorporare questa provincia governata dal 476 da Odoacre. Giuliana rifiutò questo progetto e sposó il console Flavio Areobindo Dagalaifo Areobindo, dal quale ebbe un figlio, Olibrio, che fu anch'egli console di Costantinopoli nel 491.

Giuliana stessa aspirò a divenire augusta nel 518, il figlio ebbe l'occasione di essere incoronato imperatore d'Oriente come successore di Anastasio I; Flavio Anicio infatti era l'ultimo rappresentante delle dinastie di Valentiniano e Teodosio nonché imparentato con Anastasio per averne sposato la nipote Irene. I desideri di Giuliana vennero frustrati dall'elezione del comandante delle guardie di palazzo, Giustino I.
Giuliana commissionò una basilica dedicata a San Polieucto, che fu la più grande di tutta la cristianità fino alla costruzione di Hagia Sophia. Si trovava nel centro della città di Costantinopoli, a mezzo cammino tra il palazzo imperiale e la basilica dei Santi Apostoli, il mausoleo degli imperatori d'Oriente costruito dall'augusto Costantino I, fondatore della città. Il fregio commemorativo della fondazione specifica che i mosaici dell'atrio erano dedicati alla figura di Costantino e spiega che il proposito di Giuliana era onorare la fede di questo imperatore e quella del suo avo Teodosio I, i primi imperatori cristiani.

Costruì poi una Chiesa dedicata a Santa Maria Theotokos ("madre di Dio"), a Crisospoli, suburbio asiatico di Costantinopoli. Riparó la chiesa di Santa Eufemia, costruita da sua nonna, l'imperatrice Licinia Eudossia, e da suo padre, l'augusto Anicio Olibrio.

Morì a Costantinopoli nel 528. Era parente del filosofo Boezio, anche lui membro della gens Anicia.
Apparve ritratta nel Codex Aniciae Julianae, la prima versione miniata del Dioscoride, un trattato sulle erbe medicamentose, opera donatale dal popolo di Costantinopoli per ringraziarla della costruzione della chiesa dedicata alla Madonna.

Un busto marmóreo, che oggi si trova nel Metropolitan Museum of Art a New York, è stato identificato come il suo ritratto. Rappresenta a una donna patrizia, è del VI secolo e proviene da Costantinopoli. È possibile che si trovasse nell'atrio di San Polieucto, insieme ad un'altra statua la cui testa si trova nel Musée Sait-Raymond di Toulouse e che rappresenterebbe sua madre Placidia.


ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO BOEZIO

« Nulla è più fugace della forma esteriore, che appassisce e muta come i fiori di campo all'apparire dell'autunno. »
(Boezio, citato da Umberto Eco ne Il nome della rosa) 

TEODORICO
- (Roma 475 - Pavia 525) Fu un filosofo  romano. 
Noto come Severino Boezio, o ancor più semplicemente come Boezio, le sue opere influenzarono la filosofia cristiana del Medioevo, tanto che alcuni lo collocano tra i fondatori della Scolastica. 
La Chiesa cattolica lo venera come santo e martire, festeggiandone la ricorrenza il 23 ottobre. 

In realtà venne ucciso per ordine di Teoderico che un re cristiano, nella lunga epoca in cui i cristiani si scannavano tra loro per facezie, tipo la natura divina del Cristo se veniva nell'utero della madonna, o alla sua nascita, e se alla sua nascita, prima o dopo del taglio ombelicale ecc. In questo caso cattolici contro ariani e Teodorico era ariano. Naturalmente vinse Teodorico.


PAPA FELICE III

- della gens Anicia (Roma, ... – Roma, 1º marzo 492), fu il 48º vescovo di Roma e papa della Chiesacattolica, che lo venera come santo. Fu papa dal 13 marzo 483 alla sua morte. Perchè fu dichiarato santo non si sa, perchè di lui si sa solo che fu:
- fu figlio di un ecclesiastico
- sembra che prima di accedere agli ordini sacri, sia stato sposato ed abbia avuto un figlio, Gordiano, padre a sua volta del futuro Papa Agapito I e di Palatino, a sua volta padre di un secondo Gordiano e nonno di Papa Gregorio I. Ma era un Papato o una monarchia ereditaria?
Insomma questi i suoi meriti.


FLAVIO ANICIO OLIBRIO

- (Flavius Anicius Olybrius): deel V sec. d.c., fu console nel 491; politico dell'Impero romano d'Oriente, imparentato con la Casata di Teodosio e con gli imperatori Anicio Olibrio e Anastasio I.
Il padre di Olibrio era Areobindo, parente del magister militum alano Aspar e console del 506. La madre di Olibrio era Anicia Giuliana, figlia dell'imperatore romano Anicio Olibrio e di Placidia, appartenente alla Casata di Teodosio.

Nel 491, mentre era ancora un infante, Olibrio venne innalzato al consolato. In seguito sposò Irene figlia di Paolo, fratello dell'imperatore Anastasio I: questo matrimonio servì a rafforzare le pretese dell'imperatore nell'anno della sua elevazione al trono tramite la creazione di un legame con la dinastia di Teodosio I.


FLAVIO VOLUSIANO 

- (Flavius Volusianus; ... – 3 aprile 511) fu un politico romano sotto il regno degli Ostrogoti.
Era padre di Flavio Anicio Massimo, console del 523. Tra il 476 e il 483 aveva raggiunto il rango di vir clarissimus, come attestato da una iscrizione sul sedile a lui riservato nel Colosseo.
Fu console nel 503; nel 510/511 aveva raggiunto il rango di patricius, e fece parte di una commissione il cui compito era giudicare alcuni nobili accusati di magia.
Morì il giorno di Pasqua, probabilmente nel 511 (quando Pasqua cadde il 3 aprile).


BENEDETTO DA NORCIA

San Benedetto da Norcia (Norcia, 480 circa – Montecassino, 21 marzo 547) è stato un monaco, fondatore dell'ordine dei Benedettini. Viene venerato come santo.
San Benedetto, fratello di santa Scolastica, nacque verso il 480 nella città Umbra. Il padre Eutropio, figlio di Giustiniano Probo della gens Anicia, era Console e Capitano Generale dei Romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Abbondanza Claudia de' Reguardati di Norcia; quando ella morì, secondo la tradizione, i due fratelli furono affidati alla nutrice Cirilla.

san benedetto
All'età di 17 anni, insieme con la sua nutrice Cirilla, si ritirò nella valle dell'Aniene presso Eufide, dove secondo la leggenda avrebbe compiuto il primo miracolo, riparando un vaglio rotto dalla nutrice. Lasciò poi la nutrice e si avviò alla valle di Subiaco, presso gli antichi resti di una villa neroniana, della quale le acque del fiume Aniene alimentavano tre laghi. 

A Subiaco incontrò Romano, monaco di un vicino monastero che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all'interno del Monastero del Sacro Speco), dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell'anno 500. A 12 anni fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi, ma come racconta san Gregorio Magno nel II Libro dei Dialoghi, sconvolto dalla vita dissoluta della città «ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell'immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e cercò l'abito della vita monastica perché desiderava di piacere soltanto a Dio».

Conclusa l'esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo che alcuni monaci tentarono di ucciderlo con una coppa di vino avvelenato, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trenta anni, predicando la "Parola del Signore" ed accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci ed un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale.

Negli anni tra il 525 ed il 529, a seguito di un altro tentativo di avvelenamento con un pane avvelenato, Benedetto decise di abbandonare Subiaco per salvare i propri monaci. Si diresse verso Cassino dove, sopra un'altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani.

Nel monte di Montecassino Benedetto compose la sua Regola verso il 540. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l'obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero) e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca e l'obbedienza all'abate, il "padre amoroso" (il nome deriva proprio dal siriaco abba, "padre") mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora ("prega e lavora").

A Montecassino Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l'omaggio dei fedeli in pellegrinaggio e di alcune personalità come Totila re degli Ostrogoti, che il monaco ammonì, e l'abate Servando.

Benedetto morì il 21 marzo 547 dopo 6 giorni di febbre fortissima e quaranta giorni circa dopo la scomparsa di sua sorella Scolastica, con la quale ebbe comune sepoltura. Secondo la leggenda devozionale spirò in piedi, sostenuto dai suoi discepoli, dopo aver ricevuto la comunione e con le braccia sollevate in preghiera, mentre li benediceva e li incoraggiava.

Il mistero delle reliquie: 
- un frammento di costola (Benedettine del Calvario di Orléans), 
- un altro frammento di costola (Benedettine del Santo-Sacramento di Parigi), 
- l'estremità superiore del radio sinistro (Grande seminario di Orléans), 
- la parte inferiore del radio destro e la parte inferiore del perone sinistro (entrambi all'abbazia della Pierre-qui-Vire), 
- un frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Santa Marie di Parigi), 
- l'estremità inferiore del radio sinistro (abbazia di Saint-Wandrille), 
- un frammento di falange dell'alluce sinistro (abbazia Notre Dame de la Garde), 
- un frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Timadeuc), la rotula sinistra (abbazia di Aiguebelle), un frammento dell'omero sinistro (abbazia della Grande Trappe). Secondo i monaci
benedettini di Montecassino, invece, le reliquie autentiche sono sempre restate a Montecassino.


FLAVIO ANICIO MASSIMO 

- (Flavius Anicius Maximus; ... – 552) è stato un senatore romano e patricius di Roma, all'epoca parte del regno degli Ostrogoti. Celebrò gli ultimi giochi nell'anfiteatro flavio.

Massimo era discendente dell'imperatore romano  Petronio Massimo e membro come lui della nobile gens Anicia; il padre era Volusiano, console del 503, e aveva un fratello di nome Marciano e uno zio paterno di nome Liberio. Massimo si sposò una prima volta nel 510, poi ottenne, ancora in giovane età, il consolato in Occidente sine collega per l'anno 523: in tale occasione ottenne il permesso di re Teodorico di celebrare l'evento con delle venationes al Colosseo, gli ultimi giochi mai tenuti lì, ma il re si lamentò per lo spreco di denaro.

Tra il 525 e il 535 fu elevato al rango di patricius; re Teodato gli diede in moglie nel 535 una principessa ostrogota, lo nominò primicerius domesticus e gli assegnò le proprietà di Marciano, che in seguito Giustiniano I gli fece dividere con Liberio.

Durante la guerra gotica, nel 537, fu allontanato da Roma con altri senatori per volere di Belisario, il quale temeva se la intendesse con i Goti assedianti, per poi tornarvi alla fine dell'assedio (538). Il 17 dicembre 546, però, il re goto Totila riuscì a prendere l'Urbe, e Massimo e altri senatori si nascosero nella basilica di San Pietro in Vaticano. Catturato e inviato in Campania, si trovava ancora lì quando, nel 552, Narsete liberò Roma: i senatori si incamminarono per l'Urbe, ma i Goti, inferociti dalla morte di Totila, li uccisero tutti.


ANICIO FAUSTO ALBINO BASILIO

- (Anicius Faustus Albinus Basilius): vissuto nel VI sec. d.c., ultimo console romano, nel 541; fu un uomo politico dell'Impero bizantino, l'ultimo console della storia romana, se si esclude il consolato dell'imperatore Giustino II del 566.
Non sono note le sue origini, sebbene il suo nome suggerisca che appartenesse alla famiglia aristocratica romana dei Decii: è probabile che fosse il nipote del console del 480, Basilio, e forse era figlio del console del 493, Albino.

Il 1º gennaio 541 assunse il consolato a Costantinopoli senza collega. Il dittico consolare di Albino Basilio elenca i suoi titoli al momento dell'assunzione del consolato: vir inlustris, comes domesticorum, patricius e console ordinario.. Era a Roma quando Totila entrò in città il 17 dicembre 546, e fu costretto a fuggire.


PASSARA

- Vissuta nel VI secolo d.c., fu moglie di Germano Giustino, cugino di Giustiniano I; e nipote dell'imperatore Giustino I. Passara, della nobile famiglia degli Anicii, gli diede tre figli: Giustino, Giustiniano e Giustina.


PAPA AGAPITO I 

GERMANO GIUSTINO
MARITO DI PASSARA
- (Agapetus Anicius): vissuto nel VI secolo d.c., fu sommo pontefice dal 535 al 536; (Roma, ... – 22 aprile  536) fu il 57º vescovo di Roma e Papa, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse.

Era figlio di un certo Gordiano, un presbitero romano ucciso durante i disordini occorsi ai giorni di Papa Simmaco e che, secondo alcuni genealogisti, era figlio di Papa Felice III: Agapito sarebbe dunque un rappresentante della Gens Anicia e dal fratello Palatino discenderebbe in linea diretta Papa Gregorio I.

Il suo primo atto ufficiale fu quello di bruciare l'anatema che Papa Bonifacio II aveva scagliato contro il rivale Dioscuro. Confermò i decreti del Concilio di Cartagine dopo la liberazione dell'Africa dai Vandali, per cui i convertiti dall'arianesimo erano non idonei ad accedere agli ordini sacri e quelli già ordinati erano ammessi alla sola comunione laica. Accolse anche un appello da parte del vescovo di Riez, condannato per immoralità, ordinando di sottoporre l'imputato ad un nuovo processo.

Nel frattempo, Belisario stava preparandosi ad invadere l'Italia. Il re gotico Teodato supplicò il pontefice di recarsi a Costantinopoli e di usare la sua influenza sull'imperatore Giustiniano.
Partì e nel 536 vi giunse e fu ricevuto con tutti gli onori ma capì che Giustiniano voleva ristabilire i diritti dell'Impero in Italia.
Il Papa tolse tuttavia tolse il patriarca Antimo dalla sede di Costantinopoli e consacrò personalmente il suo successore legalmente eletto. Al fine di allontanare da se ogni sospetto di favorire l'eresia, Giustiniano consegnò al Papa una confessione di fede scritta, che questi accettò con la condizione che "anche se non posso ammettere in un laico il diritto di insegnare la religione, tuttavia osservo con piacere che lo zelo dell'imperatore è in perfetto accordo con le decisioni dei Padri".


PAPA GREGORIO I

(Gregorius Anicius): vissuto nel VI secolo d.c.; detto papa Gregorio Magno ovvero il Grande (Roma, 540 circa – Roma, 12 marzo  604), fu il 64º vescovo di Roma e Papa, dal 3 settembre 590 fino alla sua morte. La Chiesa cattolica lo venera come santo e dottore della Chiesa.


La leggenda dell'incesto

Ancora neonato, sarebbe stato affidato al mare dalla madre, che lo aveva posto all'interno di una cesta nella quale sarebbe stato trovato e poi allevato da un pescatore. All'età di sei anni sarebbe entrato in un convento, successivamente lasciato per inseguire una carriera da cavaliere. Viaggiando fino alla sua terra di origine, vi avrebbe sposato la regina del luogo, che era, a sua insaputa, sua madre. Dopo aver scoperto questo doppio incesto, avrebbe speso diciassette anni nel pentimento prima di essere, infine, eletto papa.
Questo mito ha ispirato il romanzo L'eletto di Thomas Mann.

Gregorio Magno nacque da una famiglia aristocratica forse imparentata con quella senatoria degli Anici, discendendo dai papi Felice II e Agapito. Gregorio era figlio di Gordiano e di Silvia. Dal 572 al 573 fu praefectus urbi di Roma.

Grande ammiratore di Benedetto da Norcia, decise di trasformare i suoi possedimenti a Roma (sul Celio) e in Sicilia in altrettanti monasteri e di farsi monaco, quindi si dedicò con assiduità alla contemplazione dei misteri di Dio nella lettura della Bibbia.
Non poté dimorare a lungo nel suo convento del Celio poiché, dopo essere stato ordinato diacono, papa Pelagio II lo inviò verso il 579 come apocrisario, presso la corte di Costantinopoli, dove restò per sei anni, e si guadagnò la stima dell'imperatore Maurizio I, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio.

Al rientro a Roma, nel 586, tornò nel monastero sul Celioma, ma il 3 settembre 590 fu chiamato al soglio pontificio. Gregorio inviò una lettera all'Imperatore Maurizio in cui lo pregava di non ratificare l'elezione, ma il praefectus urbi di Roma, intercettò la lettera e la sostituì con la petizione del popolo che chiedeva che Gregorio fosse eletto papa.


La peste

Gregorio Magno
In quel tempo Roma era afflitta da una terribile pestilenza. Gregorio fece andare il popolo in processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria Maggiore, cosa che, ovviamente, aumentò i contagi. Cessata l'epidemia, più tardi una leggenda disse che, durante la processione, era apparso sulla mole Adriana l'arcangelo Michele che rimetteva la spada nel suo fodero come per annunziare che le preghiere dei fedeli erano state esaudite. Da allora la tomba di Adriano mutò il nome in quello di Castel Sant'Angelo e una statua dell'angelo vi fu posta sulla cima.

Fu amministratore energico, sia nelle questioni sociali e politiche, e trattò con molti paesi europei; con il re visigoto Recaredo di Spagna, convertitosi al cattolicesimo, Gregorio fu in continui rapporti, e fu in eccellente relazione con i re franchi. Con l'aiuto di questi e della regina Brunechilde, riuscì ad operare la conversione della Britannia, (naturalmente forzata) che affidò ad Agostino di Canterbury, priore del convento di Sant'Andrea. In meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent, Edelberto, si convertirono, naturalmente in modo forzato.

Dovette adoperarsi per difesa di Roma, assediata nel 593 da Agilulfo, re dei Longobardi, coi quali poi riuscì a stabilire rapporti di buon vicinato e avviò la loro conversione dall'eresia ariana al cattolicesimo grazie anche al sostegno della regina Teodolinda.


I Longobardi

Mentre Roma era minacciata dai Longobardi e le truppe che dovevano difendere la città erano mal pagate e vi era il rischio che si rivoltassero, Papa Gregorio invocò più volte l'aiuto militare dell'Impero, ma non fu ascoltato. I Longobardi continuavano a devastare l'Italia: nel 590 furono da essi devastate le città di Minturnia (nei dintorni di Formia), Tauriana (Calabria) e Fano, facendo fuggire il clero e facendo prigionieri, che dovettero essere riscattati dal Papa.

Nel 591, inoltre, il duca di Spoleto, Ariulfo, iniziò a condurre una politica espansionistica a danni dei Bizantini, conquistando le città del corridoio umbro che collegava Roma con Ravenna e assediando la Città Eterna da cui si ritirò solo dopo aver estorto un tributo; nel frattempo anche Napoli era minacciata dai Longobardi. L'esarca non intervenne in aiuto di Roma, nonostante le richieste di aiuto di Papa Gregorio, il quale, dopo l'assedio, scrisse all'arcivescovo di Ravenna, Giovanni, lamentandosi per il comportamento dell'esarca, che «...rifiuta di combattere i nostri nemici e vieta a noi di concludere la pace».Papa Gregorio, infatti, premeva per una tregua tra Imperiali e Longobardi affinché ritornasse la pace nella penisola e si ponesse fine alle devastazioni belliche, ma Romano non era d'accordo e fece di tutto per ostacolarlo.


L'esarca Romano

Nel 592 Romano, venuto a conoscenza che Papa Gregorio era in trattative con il ducato di Spoleto per una pace separata, si mosse per rompere le trattative, un po' perché non tollerava che il Pontefice  trattasse col nemico senza autorizzazione imperiale, un po' perché concludere la pace in quel momento avrebbe lasciato il corridoio umbro in mani longobarde.

Nel 592 l'esarca riconquistò delle città del Corridoio umbro, rompendo le trattative di pace che Papa Gregorio aveva avviato con i Longobardi. Re Agilulfo, per reazione, giustiziò il duca longobardo traditore Maurisione, reo di aver consegnato la città all'Impero, e poi assediò Roma, nel 593. Gregorio si vide costretto a convincere Agilulfo a levare l'assedio alla Città Eterna pagando di tasca propria 5000 libbre d'oro. Scrisse poi all'Imperatore Maurizio: «Con i miei stessi occhi, ho visto i romani legati come cani da una corda al collo che venivano condotti via per essere venduti come schiavi in Francia».

L'Imperatore Maurizio, concordando con la politica dell'esarca Romano, accusò il Papa di infedeltà all'Impero e di stupidità per i suoi tentativi di negoziazione. Il pontefice replicò: «l'Italia ogni giorno viene condotta prigioniera sotto il giogo dei Longobardi e, mentre non si crede affatto alle mie argomentazioni, le forze dei nemici crescono oltre misura».  
Le trattative di pace non andarono avanti, perché sempre ostacolate dall'esarca Romano, «la cui malizia è persino peggiore delle spade dei Longobardi, tanto che i nemici che ci massacrano sembrano dolci in comparazione con i giudici della Repubblica che ci consumano con la rapina...»
Nel 596, alcuni affissero su una colonna a Ravenna uno scritto satirico insultante il Pontefice e la sua politica per il raggiungimento della pace, il quale volle scomunicare gli autori del gesto.

Nel 596 i Longobardi attaccarono la Campania e la Calabria, espugnando Crotone. Nel 597 la sorella dell'Imperatore Maurizio, Teoctista, inviò al papa 30 libbre d'oro, che permisero al pontefice di riscattare i prigionieri fatti nella presa di Crotone: «...molti uomini e molte donne nobili sono stati portati via come preda e i figli sono stati separati dai genitori, i genitori dai figli e le mogli dai mariti». Il denaro non fu però sufficiente a riscattare tutti i prigionieri.
Alla fine del 598, Longobardi e Imperiali firmarono finalmente una pace, ma dopo tre anni dopo la pace venne violata dall'esarca. La guerra tuttavia durò poco e già a partire dal 603 la pace tra Longobardi e Bisanzio veniva rinnovata ogni anno per tutta la durata del regno di Agilulfo.

Quando l'Imperatore, per fermare la fuga dei decurioni, i quali, per sfuggire alle loro responsabilità, entravano in monastero, promulgò un editto con cui vietava ai funzionari pubblici e ai soldati privati di farsi monaci, Papa Gregorio protestò sulla proibizione ai soldati imperiali di diventare «soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero.

Nel 595 i rapporti divennero maggiormente tesi; quando l'Imperatore lo definì in una lettera "sciocco" per il suo tentativo di fare pace con i Longobardi di Spoleto, il Papa, offeso rispose:
« ...Mi è stato detto di essere stato ingannato da Ariulfo, e sono stato definito "sempliciotto",... che significa indubbiamente che sono uno sciocco. E io stesso debbo confessare che avete ragione... Se non lo fossi, non avrei mai accettato di patire tutti i mali che ho sofferto qui per le spade dei Longobardi. Voi non credete a quello che dico riguardo ad Ariulfo, riguardo al fatto che sarebbe disposto a passare dalla parte della Repubblica, accusandomi di dire menzogne. Dato che una delle responsabilità di un prete è di servire la verità, è un grave insulto essere accusati di menzogna. Sento, inoltre, che viene riposta più fiducia nelle asserzioni di Leone e Nordulfo, invece che alle mie... Ma quello che mi afligge è che la stessa tempra che mi accusa di falsità permette ai Longobardi di condurre giorno dopo giorno tutta l'Italia prigioniera sotto il loro giogo, e mentre nessuna fiducia è riposta nelle mie asserzioni, le forze del nemico crescono sempre di più... »
(Papa Gregorio Magno, Epistole, V,40.)

Lo scontro tra Papa e Imperatore si acuì nel 595 quando il Patriarca di Costantinopoli, Giovanni Nesteute, si proclamò Patriarca Ecumenico, dichiarandosi di autorità pari al Papa. Di fronte alle proteste di Papa Gregorio, il patriarca chiese all'Imperatore il sostegno contro il Pontefice. L'Imperatore scrisse quindi una lettera a Papa Gregorio, esortandolo a porre fine alla querela avendo la Chiesa bisogno di pace, e non di controversie religiose. Papa Gregorio rispose lodando l'Imperatore per la sua volontà di riportare la pace nella Chiesa, ma precisa che è stato il Patriarca a iniziare la contesa, usurpando un titolo non suo:
« ...Quando noi lasciamo la posizione che ci spetta, e assumiamo noi stessi onori indecenti, alliamo i nostri peccati con le forze dei barbari... Come possiamo scusarci per predicare una cosa al nostro gregge, e poi mettere in pratica l'opposto? ... Maestri di umiltà e generali di superbia, noi nascondiamo i denti da lupo dietro un volto da pecora. Ma Dio ... sta infondendo nel cuore del nostro Più Pio Imperatore la volontà di restaurare la pace nella Chiesa.
Questa non è la mia causa, ma quella di Dio stesso. Fu a Pietro... che il Signore disse: "Tu sei Pietro, e su questa pietra fonderò la mia Chiesa". Colui che ricevette le chiavi del Regno dei Cieli... non fu mai chiamato Apostolo Universale; e ora il più Santo Uomo, il mio vescovo collega Giovanni rivendica il titolo di Vescovo Universale. Quando vedo questo sono costretto a urlare "O Tempora, o mores!"
Tutta l'Europa è nelle mani dei Barbari... e, malgrado tutto, i preti ... cercano ancora per sé stessi e fanno sfoggio di nuovi e profani titoli di superbia!
»
(Papa Gregorio Magno, Epistole, V,20.)

Nonostante un decreto dell'Imperatore Foca (successore di Maurizio) avesse riconosciuto il primato della Chiesa di Roma, i patriarchi di Costantinopoli non abbandonarono più il titolo di "Patriarca Ecumenico" che aveva causato la contesa con la Chiesa di Roma; e realizzando che non era possibile vietare loro di utilizzarlo, i Papi stessi, a partire dal 682 ca., cominciarono a utilizzarlo per loro stessi.

Nel 595 papa Gregorio Magno denunciò all'imperatrice Costantina l'elevata pressione fiscale in Sicilia, Sardegna e Corsica, politicamente non facenti parte all'epoca dell'Italia (Sardegna e Corsica facevano parte dell'Esarcato d'Africa): in Corsica i genitori erano costretti a vendere i figli e molti si trasferirono per la disperazione in territorio longobardo, mentre in Sicilia un funzionario di nome Stefano confiscava le proprietà a suo arbitrio:

« Essendo venuto a conoscenza che molti dei nativi della Sardegna ancora ... fanno sacrifici agli idoli..., ho inviato uno dei vescovi dell'Italia, che... convertì molti dei nativi. Ma mi ha narrato che... quelli nell'isola che sacrificano gli idoli pagano una tassa al governatore della provincia per fare ciò. E, quando alcuni sono stati battezzati e hanno cessato di sacrificare agli idoli, il suddetto governatore dell'isola continuava a richiedere da essi il pagamento della tassa... E, quando il suddetto vescovo parlò con lui, egli replicò che aveva promesso un suffragium così grande che non ce l'avrebbe fatta a pagarlo se non agendo in questo modo. Ma l'isola di Corsica è talmente oppressa da così tanti esattori e da così tante tasse, che i suoi abitanti possono difficilmente farcela a pagarle se non vendendo i loro figli. Per cui i proprietari terrieri della suddetta isola, abbandonando la Pia Repubblica, sono costretti a cercare rifugio nella nefandissima nazione dei Longobardi... Inoltre, in... Sicilia si dice che un certo Stefano, chartularius nelle questioni marittime, commetta così tante iniquità e oppressioni, ... confiscando senza alcun processo legale proprietà e case, che se desiderassi elencare tutti i suoi misfatti giunti alle mie orecchie, non mi basterebbe nemmeno un grande libro... Sospetto che tali misfatti non siano giunti alle vostre Più Pie Orecchie, perché se fosse stato così, non sarebbero affatto continuati fino ad oggi. Ma è ora che il Nostro Più Pio Signore [l'Imperatore] venga a conoscenza di ciò, così che possa rimuovere un così grave peso di colpa dalla sua anima, dall'Impero e dai suoi figli. Lo so ch'egli dirà che quel che si ritrae da queste isole, è impiegato nelle spese delle armate per loro difesa; ma è questo forse il motivo del poco profitto ch'elle ricavano da tali riscossioni, essendo tolte altrui non senza mescolanza di colpa... » (Papa Gregorio Magno, Epistole, V,41.)
 Morì il 12 marzo 604.


I canti gregoriani

GREGORIO
Il canto gregoriano  è il canto rituale in lingua latina adottato dalla Chiesa cattolica e prende il nome da Gregorio I. Mentre non si sa se abbia scritto egli stesso dei canti (i manoscritti più antichi contenenti i canti del repertorio gregoriano risalgono al IX secolo), la sua influenza sulla Chiesa fece sì che questi prendessero il suo nome.

Una leggenda narra leggenda di san Gregorio Magno che avrebbe dettato i suoi canti ad un monaco, alternando tale dettatura a lunghe pause; il monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal pontefice, per vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi, assistendo così al miracolo: una colomba (che rappresenta naturalmente lo Spirito Santo), posata su una spalla del papa, gli stava a sua volta dettando i canti all'orecchio.


Attila della letteratura 

Papa Gregorio, oltre che "Magno", venne soprannominato dai suoi contemporanei "Attila della letteratura" per la sua opera metodica di annientamento dell'antico sapere, che sarebbe culminata con l'aver dato alle fiamme la Biblioteca Palatina. 

Papa Gregorio avrebbe messo particolare attenzione anche nel distruggere i monumenti e le statue dell'antica Roma, tanto che il successore al soglio pontificio, papa Sabiniano, sarebbe stato a lungo tentato di distruggere le opere create da Gregorio, in una sorta di damnatio memoriae contro l'enorme scempio da questi perpetrato.
(Luigi Bossi, Della istoria d'Italia antica e moderna Libro III, Cap. XXVIII, Vol. XII, pagg. 730-735, Giegler-Bianchi & C., Milano, 1820)

LEGIO VIII AUGUSTA

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EQUIPAGGIAMENTO  DELLA LEGIONE


LEGIO VIII GALLICA VETERANA MATINENSIS

era un'unità militare romana di epoca tardo repubblicana, la cui origine potrebbe essere antecedente alla conquista della Gallia di Gaio Giulio Cesare. Era infatti a quel tempo presente nella Gallia Cisalpina.



LABARO
I PARTE

- Sappiamo di una legione VIII che prese parte alla guerra sociale negli anni 90-89 a.c., ma non siamo in grado di dire se si trattasse della stessa utilizzata da Cesare trent'anni più tardi.

- Sempre di una legio VIII abbiamo notizia nella Gallia Transalpina negli anni 67-65 a.c. quando l'allora governatore C. Calpurnio Pisone pose fine ad una rivolta di Galli Allobrogi.
- Nel 62 ac. partecipò, invece, insieme alla legio VII e IX a sedare la cospirazione di Catilina nel Piceno.



II PARTE

All'inizio del proconsolato di Gaio Giulio Cesare (58 ac.) era acquartierata, insieme alle legioni VII e IX, nella Gallia Cisalpina, in zona Aquileia.(Cesare - De Bello Gallico - 1 10)
Prese parte alla successiva conquista della Gallia di Cesare degli anni 58-50 a.c. partecipando ad una lunga serie di battaglie e campagne militari, tra cui:
- a Genava nella fase finale della battaglia. La battaglia si svolse nell'anno 58 a.c. tra l'esercito romano guidato da Gaio Giulio Cesare e gli Elvezi, con parziale vittoria romana.
- battaglia del fiume Arar. la battaglia si svolse nell'anno 58 a.c. tra l'esercito romano guidato da Gaio
Giulio Cesare e gli Elvezi, con buona vittoria romana durante l'attraversamento del fiume.

MONETA CON L'EFFIGE DELLA LEG VIII
- battaglia contro gli Elvezi (nel 61 a.c) quando decisero, sotto la pressione delle tribù germaniche, di migrare dall’Altipiano svizzero alla Saintonge e, per questo, si prepararono ad attraversare il territorio dei Sequani. Cesare racconta che le tribù galliche chiamarono lui, governatore della Gallia Narbonense, per difenderle da questa migrazione. Così, lasciato il suo luogotenente (Tito Labieno) a presidiare Ginevra (avamposto degli Allobrogi), reclutò cinque nuove legioni in Italia e si preparò ad affrontare gli Elvezi con 29.000 uomini. con gli Elvezi di 368.000 unità di cui 92.000 abili alle armi. Gli Elvezi decisero di intraprendere il lungo viaggio, distruggendo prima tutti i loro villaggi e i loro beni, così da non avere alcun motivo per ritornare sui loro passi.
- Battaglia di Bribacte .Scontratisi con l'esercito romano quando erano ormai nel territorio degli Edui, gli Elvezi vennero sconfitti nella Battaglia di Bibracte e i superstiti (circa 110.000) furono costretti a tornare sull’Altopiano.

- Battaglia di Alesia. Sempre Cesare ci informa che nel 52 a.c. circa 8.000 Elvezi partirono (con tutte le altre popolazioni celtiche della Gallia) in soccorso di Vercingetorige assediato dai Romani ad Alesia.
- in Alsazia contro le genti germaniche di Ariovisto (nel 58 ac.);
- sul fiume Axona. La battaglia del fiume Axona fu combattuta nel 57 a.c. tra l'esercito ed i Belgi, nell'ambito delle campagne galliche di Giulio Cesare.
- Battaglia sul fiume Sabis, comattuta contro i Nervii, nel 57 a.c. nelle moderne Fiandre tra l'esercito di Cesare e un'alleanza di tribù belgiche Il comandante delle truppe romane, venne sorpreso e quasi sconfitto; ma una combinazione di difesa ostinata, capacità di comando e arrivo delle truppe di rinforzo permise ai Romani di mutare una sconfitta in una vittoria determinante.

- battaglia contro i Belgi (nel 57 a.c); Cesare venne a sapere che tutte le tribù di quella regione, con gruppi di Germani giunti dall'altra sponda del Reno, erano scese in guerra sotto il re Galba dei Suessioni. Cesare si accampò lungo il fiume Aisne, con un presidio a difesa del ponte, lasciando dall'altra parte del fiume Quinto Titurio Sabino con sei coorti e facendo fortificare il campo. I Belgi assaltarono Bibracte,  a cui Cesare inviò truppe in aiuto. Fallito il tentativo di conquistare l'oppidum, i Belgi marciarono verso Cesare e posero il loro campo a due miglia da quello romano. La battaglia di Avarico del 52 a.c. tra  Cesare e l'esercito gallico dei Biturigi, fu favorevole ai romani, che massacrarono l'intera popolazione dell'oppidum gallico.
- poi a Gergovia, nel 52 a.c. tra l'esercito di Cesare e l'esercito di Vercingetorige, che inflisse una sconfitta ai Romani. Qui Marco Petronio era centurione della Legio VIII di Cesare e si sacrificò con i suoi soldati per conquistare Gergovia (epigrafe);
- ma soprattutto nella difficile e determinante battaglia di Alesia, Cesare, ferito nell'amor proprio per aver perso la sua invincibilità, seppe reagire attirando il capo della coalizione dei Galli in trappola. Vercingetorige, infatti, commise l'errore strategico imperdonabile, di rifugiarsi nella piazzaforte di Alesia. Qui, una volta raggiunto da Cesare, fu posto sotto assedio senza più alcuna possibilità di scampo. Neppure l'esercito di soccorso inviato dall'intera Gallia, forte di ben 240.000 armati, fu in grado di spezzare l'assedio dei 50.000 Romani. Ciò portò alla sottomissione definitiva delle genti galliche nel 52 ac.

EPIGRAFE DI UN LEGIONARIO
DELLA LEG VIII
- Nell'inverno del 52-51 ac. la legione era con il legato Gaio Fabio, insieme alla VIIII del legato Lucio Minucio Basilo, presso i Remi (probabilmente nei pressi di Durocortorum e Bibrax), per proteggerli dai vicini Bellovaci ancora in rivolta.(De Bello Gallico)
- Con l'inizio della guerra civile, la legione si trovava nei pressi di Matisco nella Gallia Comata o forse ad Aquae Sextiae nella Gallia Narbonense.
- Prese parte prima all'assedio di Marsiglia, organizzato da Cesare, e condotto da Gaio Trebonio e da Decimo Bruto, durò dalla primavera del 49 al 25 ottobre del 49 a.c. e si concluse con la resa dei massilioti alle forze cesariane.-  poi alla campagna in Hispania del 49 ac. La Campagna di Lerida fu una campagna militare tra giugno e l'agosto del 49 a.c., che vide coinvolte le legioni di Giulio Cesare e l'armata spagnola di Pompeo, guidata dai suoi legati Lucio Afranio e Marco Petreio. Diversamente da altri episodi della guerra civile, si trattò più di una campagna di guerra, che comportò assedi, inseguimenti e scaramucce, piuttosto che di un vero scontro campale.
- L'anno successivo fu trasferita in Macedonia dove combatté prima a Dyrrhachium il 10 luglio 48 a.c. nei pressi di Dyrrhachium (Durazzo, Albania) tra gli eserciti di Pompeo e Cesare. Cesare provò a circondare Pompeo chiuso in Durazzo, ma Pompeo riuscì a penetrare l'ala destra di Cesare, le cui
truppe si demoralizzarono e, malgrado l'intervento del loro generale, si diedero alla fuga.
- poi nella decisiva battaglia di Farsalo, con la netta vittoria della fazione cesariana, e la definitiva sconfitta di Pompeo.
- Prese poi parte alla battaglia di Tapso nel 46 ac. in Africa. L'esercito della Repubblica senatoriale, condotto da Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica e dal suo alleato Giuba I di Mauretania, si scontrò con le forze di Gaio Giulio Cesare, che finirono per avere il sopravvento.

Subito dopo la legione sembra sia stata sciolta ed i suoi veterani inviati in Campania a Casilinum.




II PARTE

- Pochi anni più tardi, nel 44 ac., mal adattandosi alla vita civile, i veterani di questa legione chiesero ad Antonio (e/o Ottaviano) di ricostituire la legione VIII, che fu utilizzata l'anno seguente nella battaglia di Mutina (43 a.c.), ricevendo da Ottaviano una ricompensa di 20.000 sesterzi per la vittoria conseguita.

ONORIFICENZA IN ARGENTO DEDICATA
AD UN SOLDATO DELLA LEG VIII
Rimase con i triumviri durante la battaglia di Filippi (42 ac.),
- per prendere le parti di Ottaviano durante l'assedio di Perugia (41 ac.),
- e con quest'ultimo rimase fino ad Azio (31 ac.).

Questa legione non sembra sia, pertanto, da identificare con la omonima VIII di Marco Antonio, reclutata in Oriente, probabilmente durante il suo soggiorno a fianco della regina d'Egitto, Cleopatra VII e che combatté sul fronte opposto.

Dopo Azio la gloriosa Legio VIII di Cesare confluisce nell'VIII Augusta.



ONORI DI BATTAGLIA

Ricevettero degli appellativi che non solo procurarono ai legionari molti soldi, ma pure il loro rispetto e prestigio in guerra e in pace.
- Veterana (dai veterani di Cesare);
- Gallica (dopo la conquista della Gallia);
- Mutinensis (dopo la vittoriosa battaglia di Mutina).

PUBLIO DECIO MURE

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MORTE DI PUBLIO DECIO MURE
Nome: Publius Decius Mus
Nascita: ?
Morte: 340 a.c.
Consolato: 312, 308, 297, 295 a.c.
Politico e condottiero Romano

Diu atque acriter apud montem vesuvium pugnatur. Sub vesperum Decius Mus consul putat dubiam romanorum victoriam, quare ad ponteficem maximum conversus, haec verba dixit:

" Diis hostiam magnificam immolare debemus ".
Tunc pontifex maximus:
" Ut dei benevoli sint erga romanos, satis non est copiam boum et ovium immolare; necesse est, consul, tuam vitam immolari! ".

Decius Mus, pietate insignis qua eius nomen ad sidera pervenereat, pontifici paret et primus romanorum in medios hostes se conicit et vitam diis immolat.
Tunc Romani, muris splendida pietate adducti, latinorum copias fugant.



PUBLIO DECIO MURE I

Publio Decio Mure (Publius Decius Mus; ... – 340 ac.) fu uomo politico, condottiero romano ed eroe del IV secolo ac.



I GUERRA SANNITICA

Publio Decio, al quale fu attribuito il cognome Mure, (che il realtà significherebbe il topo: mus, muris). militò sotto il console Valerio. Tribuno militare nel 343 ac., secondo la tradizione e grazie ad un audace stratagemma, salvò dai Sanniti l’esercito di Aulo Cornelio Cosso Arvina, sventando, durante la I guerra sannitica l'aggiramento dell'esercito consolare spintosi nelle gole presso Saticula (S. Agata dei Goti);


Quando un giorno l’esercito romano fu bloccato in un luogo angusto, Decio scorse un alto colle sovrastante gli accampamenti dei nemici e presa una guarnigione, occupò la vetta. I  nemici a questo punto si spaventarono pensando che volessero attaccarli dall'alto si che si volsero a lui per sostenerne l'urto. Questa manovra dette un certo spazio al console Valerio, permettendogli di condurre via l’esercito in marcia verso un luogo non pericoloso. 

Decio stesso durante la notte tempestosa, riuscì ad evadere incolume tra le sentinelle dei nemici oppresse dal sonno. Per cui gli fu donata dall’esercito la corona civica che era solita essere data a colui che avesse liberato i cittadini dall’assedio.

Per questo suo atto di eroismo, gli fu permesso di partecipare al trionfo dei consoli.
« A entrambi i consoli venne accordato il trionfo sui Sanniti e dietro di loro nella sfilata veniva Decio, coperto di decorazioni e onusto di gloria: i soldati, nei loro rozzi cori, ne citarono il nome un numero non inferiore di volte rispetto a quello del console. »
(Livio, Ab Urbe condita libri, VII, 38.)



LA GUERRA LATINA

Eletto console nel 340 ac. insieme al collega Tito Manlio Imperioso Torquato, dovette affrontare i Latini alle falde del Vesuvio, nell'anno in cui ebbe inizio la guerra latina. Con l'altro console, arrulolati gli eserciti, attraversando i territori dei Marsi e dei Peligni, per evitare quelli controllati dai Latini, arrivò nei pressi di Capua, nel castro posto presso il fiume Veserim, dove i romani fecero base per le successive operazioni di guerra, insieme al collega Tito Manlio Torquato.

"Decio mure si ferma, nella battaglia contro i latini dell anno 340 a.c., vedendo l suoi soldati già ritirarsi e il nemico attendere con impegno la vittoria sempre piu, il primo tentativo fu di persuadere i soldati affinchè si opponessero ai nemici...".
Poichè entrambi i consoli avevano sognato che avrebbe vinto il popolo al quale fosse morto il comandante in battaglia, (oppure, secondo altri, avendo i consoli appreso dagli aruspici che i Romani avrebbero vinto se uno di loro si fosse immolato, Decio si sacrificò con la Devotio), si accordarono perchè durante il combattimento si sacrificasse agli Dei Mani colui che si fosse trovato in difficoltà con la propria schiera.

Dunque Decio morì durante battaglia del Vesuvio, facendo un atto di devotio, ovvero si immolò agli Dei Mani in cambio della vittoria, promessa dagli aruspici a condizione che uno dei due consoli si immolasse. Era questo l’atto della devotio, una forma speciale di voto agli Dei.
« In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: «Abbiamo bisogno dell'aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni» »
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9)

Quindi Publio Decio Mure, vestita la toga pretesta, montò a cavallo tutto bardato per battaglia, gridò le parole di rito e si lanciò furioso tra i nemici, bene in vista di fronte ad entrambi gli schieramenti combattenti. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra, abbattuto dai dardi e dalle schiere latine. Ma questo gesto, che i Romani consideravano rituale, diede ai suoi una tale fiducia ed un tale vigore che essi si gettarono tutti assieme nella battaglia ottenendo la vittoria.

Fu così Decio a sacrificarsi, uno dei migliori della gioventù romana, dal momento che la sua schiera era incalzata maggiormente dai nemici. Pagando il prezzo della sua giovane vita lasciò la vittoria e la vita ai suoi compagni.

Così Tito Manlio, insieme al collega Decio Mure, condusse i romani alla vittoria nella sanguinosa Battaglia del Vesuvio, dove l'altro console trovò la morte.

DEVOTIO ROMANA


PUBLIO DECIO MURE II

Publio Decio Mure, figlio del precedente Publio Decio Mure (uno dei primi consoli plebei), Publius Decius Mus (... – 295 ac.), è stato a sua volta un console romano.

Membro della gens plebea Decia, fu console romano nel 312, 308, 297 e 295 ac. e censore nel 304 ac. Fu membro di una famiglia che era nota per essersi sacrificata nelle Devotio sul campo di battaglia per Roma.
Decio Mure fu eletto console per la prima volta nel 312 ac. assieme a Marco Valerio Massimo Corvino. Quando scoppiò la guerra con i Sanniti, Mure dovette rimanere a Roma per una malattia e a combattere fu inviato il suo collega. Quando gli Etruschi si unirono in guerra ai Sanniti, il Senato ordinò a Mure di nominare un dittatore.

Nel 309 ac. servì come legatus sotto il dittatore Lucio Papirio Cursore e l'anno successivo fu rieletto console, questa volta assieme a Quinto Fabio Massimo Rulliano. Mentre il suo collega affrontava in guerra i Sanniti, Mure fu incaricato della guerra contro gli Etruschi, nella quale egli ebbe un tale successo da obbligare gli Etruschi a richiedere una tregua.

Nel 306 ac. Mure fu nominato magister equitum a fianco del dittatore Publio Cornelio Scipione Barbato.
Nominato censore insieme a Rulliano nel 304, e nel 300 ac. Mure sposò con successo la causa dell'apertura del pontificato ai plebei in contrapposizione ad Appio Claudio Cieco.
Console nel 297, di nuovo accanto a Rulliano, combatté contro gli Apuli; Questa volta entrambi i consoli si recarono nel Sannio per far guerra ai Sanniti. In questa campagna, Mure riuscì a sconfiggere un esercito sannita vicino a Maleventum (in occasione della vittoria il nome della città fu cambiato da Maleventum a Beneventum). L'anno successivo gli fu prorogato il comando nel Sannio come proconsole.

La terza guerra sannitica mise assieme una coalizione formidabile di Etruschi, Sanniti,  Umbri e Galli contro Roma. Quando Rulliano fu unanimemente chiamato al consolato, mise come condizione per l'accettazione che Mure fosse nuovamente il suo collega. Così, nel 295 ac., Mure fu eletto al consolato per la quarta volta.

Mentre inizialmente Mure fu di stanza nel Sannio, gli eventi del nord imposero che entrambi gli eserciti romani fossero uniti per affrontare il nemico. Quando gli eserciti si scontrarono presso Sentino, Publio Decio Mure comandava l'ala sinistra dell'esercito romano. Affrontate dai Galli, le sue truppe iniziarono a ritirarsi sotto i loro attacchi. Visto lo scompiglio creatosi nella battaglia e temendo l'accerchiamento da parte dei Sanniti, il console recitò il complesso rituale della devotio e si scagliò nel più folto della mischia, per esservi ucciso. La battaglia, terminò con la vittoria dei Romani e dei loro alleati Piceni.

Il poeta Accio lo fece protagonista di una sua "pretesta" che contribuì ad immortalarne la fama. La Pretexta era una tragedia in cui l'attore, data la solennità dell'argomento, indossava, al postodella solita toga, una toga paetexta, cioè bordata di porpora, come indossavano i re o i senatori ecc.



REALTA' O LEGGENDA

L'episodio famosissimo della devotio fece sì che in tempi successivi lo stesso gesto fosse attribuito anche al padre e al figlio, entrambi omonimi. Il padre morì nella battaglia del Vesuvio nel 339 ac. nella guerra contro i Latini, mentre il figlio morì sconfitto da Pirro nella battaglia di Ausculum (Ascoli Satriano) mentre era console nel 279 ac.. Alcuni storici moderni sostengono che l'unica reale devotio sia stata quella della battaglia di Ausculum (Ascoli Satriano), mentre quella narrata anche dallo storico romano Livio durante la guerra contro i Sanniti sia una versione rielaborata con elementi leggendari. Tuttavia non si hanno prove per sostenere questa teoria. Pertanto nulla lascia supporre che le devotio non fossero tutte e tre nell'ambito della stessa familia.



PUBLIO DECIO MURE III

PIRRO
Publio Decio Mure (Publius Decius Mus; ... – 279 ac.) fu uomo politico della Repubblica romana.

Figlio del precedente Publio Decio Mure, console nel 279 ac. combattè nella battaglia di Ascoli Satriano (attuale provincia di Foggia) avvenuta nel 279 a.c. tra i Romani, agli ordini dei consoli Publio Decio Mure e Publio Sulpicio Saverrione, e le forze unite tarantine, sannite ed epirote, sotto il comando del re Pirro dell'Epiro.

Fu combattuta nell'ambito del conflitto romano-tarantino per il controllo della Magna Grecia. Fu vinta dalla lega tarantina ma con forti perdite, tanto che a Pirro fu attribuita la celebre frase: "Un'altra vittoria così e sarò perduto". Sconfitto nella battaglia di Ascoli Satriano da Pirro, morì sul campo come gli avi immolandosi agli Dei con la Devotio.
(Cicerone, Tuscolanae Disputationes, I.37.89)

ATENEO DI ADRIANO

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IL MESSAGGERO
di Elena Panarella

ROMA - Ogni scavo a Roma riserva delle vere sorprese. Così, dopo la scoperta della struttura che forse sosteneva la sala da pranzo rotante di Nerone sul Palatino, a piazza Madonna di Loreto di fronte all’Altare della Patria, gli scavi per la metro della linea C, hanno portato alla luce l’Ateneo di Adriano, costruito per ospitare poeti, filosofi, letterati e scienziati.
La scoperta risale al 2007 e oggi i lavori di scavo hanno restituito all’area archeologica centrale uno dei più importanti edifici pubblici ritrovati negli ultimi 70 anni, ben conservato e affidato alla Soprintendenza speciale per i beni archeologici.

Ma qual é il destino di questo strepitoso edificio? «Ovviamente il restauro delle strutture - dice chiaramente durante un sopralluogo l’archeologa Rossella Rea, direttrice del Colosseo - ma si sta lavorando per arrivare alla valorizzazione e alla fruizione pubblica, assai desiderata dai romani e dai turisti, a giudicare dalla quantità di meravigliati passanti che si affacciano quotidianamente dalle aperture lasciate nella recinzione del cantiere». E aggiunge: «A un passo dal Foro di Traiano questa scoperta può ulteriormente qualificare l’area di Piazza Venezia.

E, se in futuro sarà possibile realizzare la fermata della metro C, il sito archeologico entrerà a far parte di un percorso turistico d’eccezione, in condominio con l’uscita della metropolitana». Intanto, mentre il traffico scorre, dietro la grossa recinzione si nasconde l’ultima straordinaria novità dei ritrovamenti archeologici: il posto in cui anche a Roma, come ad Atene, si discuteva e si effettuavano rappresentazioni pubbliche. A partire dal 123 d.C., data ricavata dai numerosi laterizi bollati con coppie consolari, secondo l’archeologa: «Si può ipotizzare che autori e retori, al centro di ogni aula dell’auditorium (tre in tutto), leggessero o declamassero recitationes o lezioni di retorica; mentre il pubblico trovava posto a sedere o in piedi sulle gradonate, allora rivestite da marmi come le pareti, che ne conservano oggi solo una modesta porzione al piede, dopo lo spoglio medievale».

Le indagini del sito sono state condotte dall’archeologo Roberto Egidi e, per la parte post-antica, da Mirella Serlorenzi, archeologa medievista, che spiega: «In base alla cronologia, ai metalli identificati e ai lingotti ritrovati, tra le varie ipotesi, c’è quella che proprio qui si trovasse la Zecca bizantina di Roma per la produzione di monete bronzee».



IL FATTO STORICO

I lavori per la metro C a Roma hanno portato alla luce diversi importanti monumenti. Tra questi, in Piazza Venezia, spicca un auditorium probabilmente costruito dall’imperatore Adriano nel 133 d.C. Conosciuto come “Athenaeum”, l’istituto filosofico poteva ospitare fino a 200 persone ed era modellato su quello nel tempio di Atena ad Atene.

L’archeologo Roberto Egidi dice: “Adriano, che era un imperatore colto, volle ristabilire la tradizione della recita pubblica, conferenze e gare poetiche, come succedeva nella Grecia classica”.

Gli scavi hanno svelato due gradinate contrapposte usate come posti a sedere – ancora parzialmente coperti dal crollo dei piani superiori a causa di un terremoto verificatosi nell’849 -, un corridoio e, al centro, un pavimento in granito con listelli color giallo antico simile a quelli delle biblioteche che Adriano fece costruire ai lati della Colonna di Traiano, 50 metri più in là. Il ritrovamento era peraltro inaspettato, visto che non è presente nella Forma Urbis Severiana, la pianta di Roma antica del 203-211.

Molti reperti archeologici – incluse taverne Romane riutilizzate fino all’alto medioevo e fondamenta di palazzi del XVI secolo – sono stati recuperati in Piazza Venezia.

Le indagini archeologiche sono necessarie solo per le scale ed i condotti d’aria: i 25 km di metropolitana giaceranno infatti fra i 25 e i 30 metri di profondità, sotto il livello di qualunque passata abitazione umana. In ogni caso, la maggior parte degli scavi deve ancora raggiungere i livelli dell’epoca romana; molte sorprese potrebbero attendere.

Altri edifici rinvenuti in diversi luoghi sembrano appartenere al colonnato del Gymnasium greco voluto da Nerone, ad un canale che attraversava Campo Marzio e che portava fino al Tevere, e ad una parte di mura Aureliane tra San Giovanni e Porta Metronia. Ma ci sono anche testimonianze risalenti all’Età del rame e all’Età del bronzo (IV-III millennio a.C.) scoperte nell’area di Pantano Borghese.

Il punto della situazione è stato fatto durante il convegno “Archeologia e infrastrutture – sviluppo economico e patrimonio culturale”, a cui hanno partecipato anche il sottosegretario ai beni culturali, Francesco Giro, il soprintendente ai beni archeologici di Roma, Angelo Bottini e il professore Andrea
Carandini.

Qui un video di Euronews. (repubblica.it)


Roma, riaffiora l'ateneo di Adriano
Ritrovata la scuola dei filosofi


La sala rettangolare è venuto alla luce durante gli scavi per il metrò
I lavori non si fermano, spostata di pochi metri l'uscita della linea C
di CARLO ALBERTO BUCCI

LE memorie di Adriano erano nascoste sotto appena cinque metri di terra. E sono venute alla luce in faccia all'Altare della Patria. Hanno la forma inedita di una doppia scalea contrapposta, come nella Camera dei Lord. Ma si tratta probabilmente degli scranni dell'Athenaeum. Adriano fece costruire l'ateneo nel 133 dopo Cristo per ospitare poeti, retori, filosofi, letterati, scienziati e magistrati, invitati a cimentarsi in greco e in latino in orazioni, gare di versi, dibattiti infuocati.

Un auditorium famoso che Aurelio Vittore definisce ludum ingenuarum artium. E che l'imperatore filosofo fece costruire a sue spese sul modello di quello visto nel tempio di Atena ad Atene. Ma di questo istituto filosofico a Roma si erano perse le tracce. E la caccia alle sue vestigia è aperta da anni.

L'ipotesi che in quell'angolo di piazza Venezia dove non si è mai scavato prima, sotto i pini abbattuti l'anno scorso per poter proseguire le indagini, possa esserci proprio l'Athenaeum che Adriano volle edificare al suo ritorno dal viaggio in Palestina, sarà illustrata dagli archeologi della Soprintendenza speciale di Roma quando, il 21 ottobre, il commissario per la metropolitana, Roberto Cecchi, farà il punto sull'andamento dei lavori in tutta la città. Ma la notizia del ritrovamento è doppiamente buona: verrà musealizzato un edificio sconosciuto (non è presente nella Forma Urbis, la pianta del 203-211) ma nel contesto dell'uscita della metro C che potrà passare pochi metri più in là.

A Roma dunque un'altra scoperta importante, dopo il recente ritrovamento della struttura che forse sosteneva la sala da pranzo rotante di Nerone sul Palatino. Tutto nasce nell'aprile del 2008. Durante un primo sondaggio accanto alla chiesa di Santa Maria di Loreto, a piazza Venezia apparve una scala monumentale. E si pensò all'ingresso di un edificio pubblico d'età imperiale. Ma subito dopo il soprintendente archeologo Angelo Bottini precisò che quei gradini sembravano fatti più per stare seduti che per essere saliti. Ora è arrivata la scoperta della "scala gemella". E ha preso corpo l'ipotesi Athenaeum: ecco le gradinate dell'aula magna.

Gli scavi devono essere ultimati. E i lavori vanno avanti nonostante il cattivo odore che si sente da quando la nettezza urbana ha deciso di appoggiare lì accanto un suo camion per la raccolta dei rifiuti. Ma sbirciando oltre la recinzione del cantiere di "Roma Metropolitane", appare già chiara la forma della sala rettangolare: due gradinate contrapposte ancora parzialmente coperte dal crollo del piano superiore. Gli spalti hanno sei gradoni ciascuno ma uno dei due è più corto perché contiene le uscite dalla sala, che misura circa venti metri di lunghezza per tre di larghezza. Al centro, dove l'imperatore e i poeti verseggiavano, c'è un pavimento in granito con listelli color giallo antico.

È lo stesso tipo di pavimenti delle biblioteche che Adriano fece costruire ai lati della Colonna di Traiano, 50 metri più in là. Pavimenti tutti allo stesso livello. Legati quindi da un piano urbanistico unitario, monumentale e illuminato.



COMMENTO

Ci dicono più meno le stesse cose, forse abbiamo scoperto l'ATHENAEUM, viene da dire: "Bella scoperta!" Lo sappiamo tutti che se scavi in qualunque parte di Roma scopri opere d'arte. Delle volte capita di assistere a dei lavori di manutenzione per fognature ecc, e immancabilmente si vedono pezzetti di anfore romane, o manici di anfore romane sparsi ovunque, perchè i picconi hanno già fatto e ancora fanno molti danni. Giorni fa una domus patrizia vicino a Santa Croce in Gerusalemme con opus reticolatum, aperta e richiusa, immediatamente. E le cose che c'erano dentro? Mistero.

Così oggi chiedo, e le cose dell'Ateneo, o qualsiasi cosa sia? Erme, iscrizioni, statue mutile, niente di tutto ciò? A Roma si trovano reperti antichi cercando nella base terra degli alberi delle strade, ma da quando si lavora per le METRO A B C ecc. non si trova una breccola. Conoscendo il ricchissimo sottosuolo di Roma siamo certi che i reperti sono stati trovati, ma bisogna vedere che fine hanno fatto. Perchè di solito i nostri reperti spariscono salvo ritrovarli dopo anni nei musei stranieri.

Poi hanno il coraggio di chiamarli "rubati", come se una statua uno se la potesse mettere sotto braccio e portarsela via come una cartella. Per imbracare una statua occorre una ditta specializzata in questo tipo di imballi, occorre una grande competenza, larghezza di mezzi, grandi spazi e tempo a disposizione. E mentre il museo spalancava le porte con le statue che venivano trainate fuori con le gru, il direttore e tutti gli altri che facevano?

Allora le cose sono due: - O qualcuno sottrae i reperti come è stato fatto fino ad ora per tutto ciò che è stato ritrovato (ed è un patrimonio enorme) sotto le metro, oppure ci si decide a farci vedere i ritrovamenti dell'ateneo. In caso contrario sarà l'ennesima sparizione dei nostri beni archeologici e nazionali. Come sempre fino ad ora.-



LAVORI DELLA METRO

La linea C della capitale doveva essere inaugurata nel 2000, invece si sta scavando ancora. Mentre i costi sono schizzati da 1,9 a 3,3 miliardi di euro (pubblici). Con tanti regali ai soliti noti (privati). In esclusiva, la durissima relazione della Corte dei Conti su una grande opera che è soltanto una grande vergogna (01 febbraio 2012)

All'alba del 2012, dopo ventidue anni di attese e una massa infinita di risorse pubbliche dilapidate, dopo centinaia di annunci solenni, perizie e collaudi milionari, varianti e arbitrati miliardari, ci vorrebbe un'altra linea metropolitana, oltre a un cantiere aperto e dalle incerte prospettive, un pozzo senza fondo che rischia di ingoiare chissà ancora quanto denaro.

E già, perché dal 2000 sotto i ponti, ma sarebbe meglio dire sotto terra, è passato di tutto, dalle spese incrementate alle stazioni cancellate. Senza contare la serie infinita di varianti (39 fino al luglio 2011) che hanno reso insufficienti anche gli oltre 3 miliardi di euro stanziati dal Cipe nel 2009, a fronte del miliardo 900 milioni di euro previsti nel 2001 per la realizzazione dell'opera. Soldi che sono serviti a mettere in piedi un costosissimo business, economico e politico, gestito da una lunga serie di amministrazioni capitoline, da Francesco Rutelli a Walter Veltroni fino all'attuale sindaco Gianni Alemanno. E che vede coinvolti personaggi come Angelo Balducci, quello di Anemone e Bertolaso, chiamato come consulente al capezzale della Metro C; per non parlare di Andrea Monorchio, ex ragioniere generale dello Stato, ingaggiato per collaudare i lavori e i grandi costruttori raccolti nella Metro C spa, incaricata della realizzazione dell'opera e che tra gli azionisti allinea la Vianini di Francesco Gaetano Caltagirone, patron del "Messaggero", e altri giganti come Astaldi, Ansaldo, Cooperativa Muratori e braccianti di Carpi e il Consorzio cooperative costruzione.

Risultato del ventennale lavorio? Una risposta arriva adesso dalla Corte dei Conti che, dopo una lunga istruttoria, ha appena depositato un'esplosiva relazione, un documento di 182 pagine scritto dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, con la quale si fa per la prima volta il punto sulla reale situazione dei lavori e dei costi della linea C mettendo a fuoco sprechi e ritardi. Mazzate pesantissime, in molti casi: «L'opera risulta non priva di incognite sulla complessiva fattibilità», scrivono per esempio i giudici contabili sottolineando come si siano «esaurite anzitempo le risorse per la sua realizzazione integrale», mentre il progetto originario appare «notevolmente ridimensionato per l'abbandono di qualificanti opere integrative e complementari nelle tratte centrali».

E l'Ateneo? Si sa che Adriano, all'incirca nel 126 - 128, gli anni in cui tornò a Roma dopo i lunghi viaggi, fece costruire sul Campidoglio un Ateneo perchè vi si insegnasse filosofia, retorica e giurisprudenza. Adriano era una appassionato della filosofia greca, la sua barba lunga si riferiva proprio al costume greco che tanto ammirava.



L'ATENEO DI ADRIANO

L’Ateneum di Adriano imperatore, noto dalle fonti storiche, mai trovato. Ecco cosa rappresenta, anzi di cosa fa parte, la scalinata imperiale emersa a piazza Venezia durante gli scavi per la metro C. A 5 m di profondità, proprio di fronte al Vittoriano, è emersa l'ultima straordinaria novità dei ritrovamenti archeologici a Roma: il posto in cui anche a Roma, come ad Atene, si discuteva e si effettuavano rappresentazioni pubbliche.

La scalinata individuata due anni fa ha una consorella, proprio di fronte, appena scoperta e purtroppo nascosta sotto il palazzo delle assicurazioni in cui è stata interrata: in mezzo, un pavimento a marmi policromi che fungeva da cavea. L’esatta riproduzione dell’Ateneum che l’imperatore Adriano aveva fatto erigere ad Atene, accanto alla grande biblioteca eretta nel 132 d.c.,un auditorium per rappresentazioni e dibattiti, per la recitazione di retori e poeti.

Tutto è iniziato col ritrovamento di una prima grande scala, in cemento romano, ricoperta in marmo. Cinque gradoni imponenti, per una larghezza di 15 metri, iemersi due anni fa grazie agli scavi per l’uscita della Metro C a piazza Venezia.

I gradoni scendono verso il palazzo delle Assicurazioni Generali e atterrano davanti a una pavimentazione in granito e marmi gialli. L’impianto è chiuso da entrambi i lati da pilastri in laterizi che sono collassati, probabilmente a causa di un terremoto. I laterizi sono fatti da mattoni «bipedali» romani, cioè quei grandi e spessi quadratoni giallognoli di lato 59 cm Sui pilastri ci sono i segni di un grande incendio, probabilmente quello del 390 d.c.

Adriano era solito dire «a sud dell’Acropoli c’è l’Atene di Teseo, a nord dell’Acropoli c’è l’Atene di Adriano». Ad Atene la Biblioteca di Adriano si trova sul confine del Foro romano, a nord. Costruita dall’Imperatore nel 132 a.c. è l’edificio più grande di Atene. Accanto alla biblioteca l’Ateneum era un luogo molto caro all'imperatore. Lo si conosce dalle descrizioni storiche, il suo gemello romano rappresenta dunque un soccorso inaspettato per la conoscenza archeologica imperiale.


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SVETONIO GAIO TRANQUILLO

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Nome: Gaius Suetonius Tranquillus
Nascita: 70 d.c.
Morte: 126 o 140 d.c.



LE ORIGINI

SVETONIO
Gaius Suetonius Tranquillus, scrittore romano d'età imperiale, nato secondo alcuni in Algeria, secondo altri in un luogo imprecisato del Latium vetus, forse Ostia, (70 d.c. - 126 o 140 dc) da una ricca famiglia di ceto equestre, il padre, Svetonio Leto, era tribuno militare. Svetonio studiò retorica e giurisprudenza, divenendo avvocato. A Ostia avrebbe avuto la carica religiosa locale di pontefice di Vulcano (solitamente conferita a vita).

Le sue notizie le desumiamo dalle sue stesse opere e da Plinio, che in una lettera a Traiano ne sottolinea la rettitudine e l'erudizione. Svetonio rifiutò tuttavia la carriera di amministratore o di soldato riservata in genere al suo rango. Fu un erudito, autore di molte opere di argomenti diversi (anche in greco), amante degli studi più che della vita pubblica. Fu uomo di gusti raffinati e rara sensibilità, antiquario, studioso enciclopedico, con grande interesse per le antichità e la cultura romana.



SOTTO TRAIANO

Uomo dedito agli studi, intimo amico e corrispondente di Plinio il Giovane, fu al suo seguito quando Plinio divenne legato in Bitinia. Successivamente fu da lui presentato a Traiano che, da quale estimatore di uomini qual'era, lo seppe apprezzare, conferendogli lo ius trium liberiorum, una sorta di sussidio familiare che in casi eccezionali veniva concesso anche a scapoli benemeriti.

Lavorando per l'Imperatore Traiano, ebbe l'occasione di consultare la foltissima libreria regia che lo spinse a mettere per iscritto in un unico grande libro (De vita Caesarum) la vita dei dodici principes che si susseguirono dopo Gaio Giulio Cesare (ma vi sono anche dei capitoli dedicati a Cesare). Fu però suo grande difetto quello di farsi influenzare, riguardo alle vite di alcuni Cesari, come Caligola e Nerone, dal suo rango e dalla presenza di fonti storiche del tempo di per sé corrotte e parziali.



SOTTO ADRIANO

Plinio cercò di avviarlo alla carriera retorica e forense, ma la passione di Svetonio furono le ricerche erudite, soprattutto nel genere biografico. Grazie all'amicizia del prefetto del pretorio Setticio Claro, a sua volta amico di Plinio, intorno al 120 Svetonio riuscì ancora a diventare segretario "ad epistulas" (incaricato cioè della corrispondenza) nei servizi dell'imperatore Adriano.

VESPASIANO
Aveva già mostrato le sue ottime qualità di funzionario amministrativo, prima come sovrintendente di tutte le biblioteche pubbliche di Roma, poi come "a studiis" (quasi un ministro della cultura e dell'istruzione). Tutte queste mansioni, e specialmente quella di quella di segretario, cioè
curatore della corrispondenza imperiale, gli permisero di accedere agli archivi del Palatino, permettendoci di ricostruire e di conservare documenti che, senza di lui, sarebbero andati perduti.

Come membro della corte imperiale e procurator a studiis e a bibliothecis (sovrintendete degli archivi e biblioteche imperiali), Svetonio aveva a disposizione decreti, leggi, senatus consulta, e verbali del Senato, importanti per il suo lavoro, a cui unì fonti non ufficiali, scritti propagandistici, diffamatori e anche testimonianze orali, per alimentare il gusto per l'aneddoto e il curioso per un suo gusto personale ma pure per alleggerire gli argomenti e tenere desto il lettore.
Alcuni esempi:

- Il paradiso è come un uovo e la terra è come il tuorlo.
- Il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle.
- [Vespasiano] Al figlio Tito che lo criticava per aver imposto una tassa anche sulle urine, il padre, mettendogli sotto il naso il denaro della prima riscossione: "Puzza?" gli domandò. E alla risposta negativa, aggiunse: "Eppure è dalla latrina che viene"
- La volpe  perde il pelo ma non il vizio.
- Fino a quel tempo Epidio, segnato per calunnia, aprí una scuola e insegnò, tra gli altri, a Marco Antonio e ad Augusto. A questi, che una volta gli rinfacciavano che nell'amministrare lo stato seguisse soprattutto i princípi politici del consolare Isaurico, Gaio Canuzio rispose di voler essere discepolo di Isaurico piuttosto che del calunniatore Epidio. Questo Epidio andava ripetendo di essere nato da Epidio nucerino, che si dice fosse un tempo precipitato nella fonte del fiume Sarno, apparso poco dopo con le corna, sparito all'istante e annoverato tra gli dèi.
- Quando giunse la notizia... [sconfitta di Varo a Teutoburgo] dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: "Varo rendimi le mie legioni!". Dicono anche che considerò l'anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza.



FINE DEL LAVORO SOTTO ADRIANO

Setticio Claro, anch'egli amico di Plinio, e sopravvissuto alla di lui morte, continuò a proteggerlo finchè egli stesso non ebbe un rovescio politico, a quel punto anche l'incarico di Svetonio presso la corte ebbe fine.

Nel 122, Adriano lo allontanò con un pretesto, perché, a quanto pare, alcuni dignitari, fra cui Svetonio, avevano instaurato un'eccessiva familiarità nell'ambiente dell'imperatrice Sabina. Non si sa se vi fosse qualche ragione ignota, o per una epurazione dei quadri dirigenti, o per la morte di Plinio, suo protettore.
Svetonio, così, trascorse gli ultimi anni della sua vita immerso negli studi ed attendendo alla pubblicazione delle sue vaste e numerose opere.



LE OPERE MINORI

Svetonio è noto soprattutto come autore del "De viris illustribus" e del "De vita Caesarum", ma abbiamo notizie di molti altri scritti, alcuni riportati nella "Suda" (il lessico greco-bizantino composto intorno al 1000), ed altri. 
Tutte queste opere "minori", scritte in greco o in latino, sono andate perdute, ma ricordarne almeno i titoli e gli argomenti, fa capire la vastità dellaconoscenza e degli interessi di questo validissimo autore: 
CALIGOLA
  • "Historia ludicra", sui giochi romani;
  • "De anno romanorum", sul calendario; 
  • "De genere vestium", sull'abbigliamento; 
  • "De notis", sulle abbreviazioni e sui segni diacritici usati dagli editori; 
  • "De republica Ciceronis", sul pensiero politico appunto dell'Arpinate; 
  • "De regibus", sui re stranieri; 
  • "De institutione officiorum", sui pubblici incarichi; 
  • "De rebus variis"; 
  • "De vitiis corporalibus", sui difetti fisici; 
  • "De rerum natura"; "De animalium naturis" 
  • le due opere enciclopediche: "Roma" sulla vita pubblica e privata dei Romani 
  • "Prata", sul mondo umano e su quello fisico. Si può supporre che alcune di queste opere fossero confluite o facessero parte delle due enciclopedie.
  • Frammenti di argomento storico-antiquario (sul gioco della dama), 
  • grammaticale (opere filologiche e lessicografiche) 
  • scientifiche (sulla natura e gli animali). L'insieme dei frammenti, in parte latini e in parte greci, è tuttavia troppo esiguo per consentire un'analisi di tali opere e verificarne la paternità.


DE VIRIS ILLUSTRIBUS

Dell'opera, pubblicata dopo il 113 d.c., si conserva pressoché intatta soltanto la sezione riservata ai grammatici e ai retori (21 grammatici e 5 retori), anche se mancante della parte finale. Il De viris illustribus ("I personaggi famosi"), che trova un precedente in Cornelio Nepote, analizza personalità illustri suddividendole in cinque categorie:
  • poeti (De poetis), 
  • grammatici e retori (De Grammaticis et rhetoribus), 
  • oratori (De oratoribus), 
  • storici (De historicis) 
  • filosofi (De philosophis). 
Ma nei fatti nell'opera sugli "uomini illustri" della latinità, Svetonio cita:
  • i grandi politici, 
  • i geni militari, 
  • gli oratori, 
  • i poeti,  
  • gli scrittori,
  • i grammatici, 
  • i rètori, 
  • i filosofi,
  • gli studiosi
Di questi purtroppo ci restano solo grammatici e rètori, che ci ha permesso però di comprendere l'insegnamento a Roma e altri dati della sua storia. Degli altri "uomini illustri", disponiamo solo di notizie staccate o frammentarie. Quelle sugli scrittori (Terenzio, Virgilio, Orazio, Lucano) furono tra l'altro utilizzate da san Gerolamo per la sua "Cronaca", ed è quindi possibile, almeno in parte, ricostruirle.

Nelle sue biografie Svetonio raccoglieva una massa di documenti senza troppo controllarne e criticarne la validità, e pure senza valutazioni personali, egli semplicemente riferisce i dati e li confronta tra loro. E’ un testimone della tradizione scolastica che si svilupperà fin nel Medio Evo. 

Dopo l'indice degli scrittori, Svetonio offre brevi ritratti, alcuni brevissimi, di coloro che hanno contribuito allo studio della grammatica a Roma, con pochi dati biografici, ma con le novità che ciascun grammatico ha apportato. Delle altre sezioni rimangono solo alcune vite, sulla cui reale attribuzione a Svetonio ci sono controversie. Si ricordano la Vita Terentii, la vita di Orazio, la vita di Lucano e la vita di Virgilio.

Per ogni biografia, Svetonio segue lo stesso schema appreso dai biografi ellenistici: 
DOMIZIANO
  • prima il nome dell'autore trattato, 
  • poi fa seguire le origini familiari, 
  • le notizie sulla condizione sociale, 
  • sugli studi e sulla formazione letteraria, 
  • oppure alla carriera politica prima dell'assunzione al potere
  • poi  i principali atti di governo,
  • quindi passa a fornire notizie sulle qualità morali ed intellettuali, 
  • sui fatti più salienti della vita, 
  • sulle opere, 
  • conclude coi dati relativi alla morte ed alle statue dedicate all'autore.
Il biografo si sofferma su aneddoti e curiosità, a volte in modo un po' dispersivo, apprezzato da alcuni e criticato da altri, cogliendo i fatti intimi e privati del soggetto. Quindi spesso insiste su episodi in cui il personaggio era stato in rapporto con personaggi famosi e potenti, come  nel caso di Orazio con Augusto.



DE VITA CAESARUM 

Le biografie più importanti di Svetonio restano ovviamente quelle delle "Vite dei Cesari", in 8 libri, pubblicate dopo il 121 d.c., per l'alto contributo storico, e perchè sostituirono parecchio delle parti
ormai perdute degli "Annali" e delle "Storie" di Tacito.
Esse comprendono, in ordine cronologico, i ritratti di dodici Imperatori romani, tra cui lo stesso Cesare, a cui seguono Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano.
Esse ci sono giunte praticamente in versione integrale, mancando solo una breve parte iniziale. Tuttavia, le biografie degli imperatori (12, da Cesare a Domiziano) non sono propriamente opere storiche, perchè non rispettano granchè nè la cronologia nè il susseguirsi dei fatti, ignorandone spesso le loro cause e i loro effetti, una specie di innumerevoli gossip dell'epoca, ma comunque, proprio per l'epoca che riguardano, importantissimi. 

Ogni fatto è, invece, anche qui classificato secondo una categoria del modello alessandrino: 
CESARE
  • nascita
  • infanzia, 
  • origine,
  • carattere,
  • ritratto fisico,
  • ritratto intellettuale,
  • attività militari,
  • giochi offerti al popolo, 
  • morte 
  • funerale 
  • testamento
La componente critica personale o valutativa del biografo è praticamente nulla, il che per certi versi è meritorio, essendo egli un grande studioso ma poco addentro nei meandri della politica. Inoltre Svetonio attinge spesso notizie da opere ormai perdute degli storici dell'impero, opere perite nei grandi falò purificatori che il cristianesimo operò sul paganesimo.

Espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine” (Vita Claudii XXIII, 4) (notare l'errore del nome Cristo, che d'altronde non era un personaggio allora così famoso).

Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica” (Vita Neronis XVI, 2)

Mentre il contemporaneo Plutarco partecipava emotivamente al racconto, Svetonio è più preso più dalla copiosità della documentazione che dai fatti stessi. Colpisce anche una certa caratterizzazione negativa degli imperatori del I sec. caratterizzato spesso da eccessi (soprattutto in Caligola, Nerone e Domiziano) forse incoraggiato dallo stesso Adriano, al fine di contrapporre il suo buon governo a quello dei suoi predecessori, oppure per sua scelta onde mettere in risalto le qualità di Adriano. Non mancano però talvolta effetti drammatici e intuizioni psicologiche sui personaggi.



VITA DI CESARE 
(come scriveva Svetonio)


Svetonio così racconta di Cesare:
"Si dice che fosse, alto, ben proporzionato e di colorito chiaro. Aveva il viso troppo pieno e gli occhi neri e vivaci. Godeva di ottima salute, ma negli ultimi tempi soffriva di svenimenti e di incubi notturni: due volte, mentre svolgeva la sua attività, fu anche colto da attacchi epilettici ".

E poi:
“Non solo si tagliava i capelli e si radeva con diligenza, ma addirittura si depilava, cosa che alcuni gli rimproveravano. Sopportava malissimo il difetto della calvizie, per la quale spesso fu offeso e deriso, e per questo si era abituato a tirare giù dalla cima del capo i pochi capelli”…

1)  Aveva quindici anni quando perse il padre; nell'anno successivo gli fu conferita la carica di Flamendiale. Separatosi da Cossuzia, donna di famiglia equestre, ma molto ricca, alla quale era stato fidanzato fin dalla più giovane età, sposò Cornelia, figlia di Cinna, quello stesso che era stato eletto console per quattro volte. Da lei ebbe una figlia, Giulia, e neppure Silla potè costringerlo a divorziare; allora il dittatore lo privò della sua carica sacerdotale, della dote della moglie e dell'eredità familiare, inserendolo quindi nella lista dei suoi avversari. Cesare fu costretto così a starsene nascosto, a cambiare rifugio quasi ogni notte, quantunque ammalato piuttosto gravemente di febbre quartana. Finalmente, per intercessione sia delle Vergini Vestali, sia di alcuni suoi parenti, ottenne la grazia. Si dice che Silla, rifiutatosi a lungo di accogliere le preghiere dei suoi più illustri amici e oppostosi tenacemente alle insistenti richieste, alla fine, vinto, abbia esclamato, non si sa bene se per intuizione o per uno strano presentimento: "Esultate e tenetevelo stretto, ma sappiate che colui che volete salvo ad ogni costo un giorno sarà la rovina del partito aristocratico che voi avete difeso insieme con me. In Cesare, infatti, sono nascosti molti Marii".

2)  Fece il servizio di leva in Asia, presso lo stato maggiore di Marco Termo. Mandato da costui in Bitinia per cercare una flotta, si attardò presso Nicomede e qui corse voce che si fosse prostituito a quel re. Egli stesso alimentò questa diceria quando, pochi giorni più tardi, ritornò in Bitinia con la scusa di ricuperare un credito concesso ad uno schiavo affrancato, divenuto suo cliente. Tuttavia gli ultimi anni della sua campagna militare gli procurarono una fama migliore e Termo, in occasione della conquista di Mitilene, gli fece assegnare la corona civica.

GIULIO CESARE
3) Prestò servizio anche in Cilicia, agli ordini di Servilio Isaurico, ma per poco tempo. Era giunta infatti la notizia della morte di Silla e allora, con la speranza di qualche nuova discordia, che già si profilava per opera di Marco Emilio Lepido, si affrettò a rientrare a Roma. Qui tuttavia, nonostante le vantaggiose proposte, si guardò bene dal far lega con lo stesso Lepido, perchè diffidava delle sue capacità e soprattutto perchè gli sembrava che le circostanze fossero meno favorevoli di quanto avesse immaginato.

4)  Quando la discordia civile fu domata, Cesare incriminò per concussione Cornelio Dolabella, un ex console che aveva meritato il trionfo. Poichè l'imputato era stato assolto, decise di andarsene a Rodi, un po' per sottrarsi ad eventuali vendette, un po' per seguire durante quel periodo di inattività e di riposo, le lezioni di Apollonio Molone, a quel tempo il più celebre maestro di oratoria. Durante la navigazione verso Rodi, avvenuta nella stagione invernale, fu fatto prigioniero dai pirati presso l'isola di Farmacusa, e rimase con loro, non senza la più viva indignazione, per circa quaranta giorni, in compagnia di un medico e di due schiavi. I compagni di viaggio, infatti, e tutti gli altri servi erano stati inviati immediatamente a Roma per raccogliere i soldi del riscatto. Quando furono pagati i cinquanta talenti stabiliti, venne sbarcato su una spiaggia e allora, senza perdere tempo, assoldò una flotta e si lanciò all'inseguimento dei pirati: li catturò e li condannò a quel supplizio che spesso aveva minacciato loro per scherzo. Mitridate, intanto, devastava le regioni vicine al suo regno e Cesare, per non apparire inattivo, mentre altri si trovavano in difficoltà, da Rodi, dove era giunto, passò in Asia con un certo numero di truppe che aveva raccolto, scacciò dalla provincia il luogotenente del re e ridiede fiducia alle popolazioni incerte e dubbiose.
5)  Durante il suo tribunato militare, la prima carica che ottenne con il suffragio popolare dopo il suo ritorno a Roma, appoggiò vigorosamente coloro che volevano ripristinare l'autorità tribunizia, da Silla indebolita. Fece poi votare la legge Plozia che concedeva il ritorno in patria a L. Cinna, fratello di sua moglie, e a quelli che, con lui, al tempo della sommossa civile, prima avevano seguito Lepido e poi, alla sua morte, si erano rifugiati presso Sertorio. Sull'argomento tenne addirittura una pubblica arringa.

6)  Quando divenne questore, dalla tribuna dei rostri pronunciò, secondo la consuetudine, il discorso funebre in onore della zia Giulia e della moglie Cornelia che erano morte. Proprio nell'elogio della zia riferì di lei e di suo padre questa duplice origine: "La stirpe materna di mia zia Giulia ha origine dai re, quella paterna si congiunge con gli dei immortali. Infatti da Anco Marzio discendono i Marzii, e tale fu il nome di sua madre. Da Venere hanno origine i Giulii, alla cui gente appartiene la nostra famiglia. Vi è dunque nella stirpe la santità dei re, che si innalzano sugli uomini, e la solennità degli dei, sotto il cui potere si trovano gli stessi re". Rimpiazzò poi Cornelia con Pompea, figlia di Quinto Pompeo e nipote di L. Silla; da lei divorziò più tardi, sospettandola di adulterio con Publio Clodio. Si andava dicendo che Clodio si era introdotto da lei, in vesti femminili, durante una pubblica cerimonia religiosa. Il Senato dovette ordinare un'inchiesta per sacrilegio.
7)  Sempre come questore gli fu assegnata la Spagna Ulteriore; qui, con delega del pretore, percorse i luoghi di riunione per amministrare la giustizia, finchè giunse a Cadice dove, vista la statua di Alessandro Magno presso il tempio di Ercole, si mise a piangere, quasi vergognandosi della sua inettitudine. Pensava infatti di non aver fatto nulla di memorabile all'età in cui Alessandro aveva già sottomesso il mondo intero. Allora chiese subito un incarico a Roma per cogliere al più presto l'occasione di compiere grandi imprese. Nello stesso tempo, turbato da un sogno della notte precedente (aveva sognato infatti di violentare sua madre) fu incitato a nutrire le più grandi speranze dagli stessi indovini che gli vaticinarono il dominio del mondo quando gli spiegarono che la madre, che aveva visto giacere sotto di lui, altro non era che la terra stessa, considerata appunto madre di tutti.

8)  Lasciata dunque, prima del tempo, la provincia, si recò a visitare le colonie latine che lottavano per ottenere i diritti di cittadinanza. Molto probabilmente avrebbe tentato qualche grosso colpo se i consoli, prevenendo i suoi progetti, non avessero trattenuto per un po' di tempo le legioni arruolate per un'operazione militare in Cilicia.

9)  Non di meno anche a Roma tentò qualcosa di più grande: infatti pochi giorni prima di accedere alla carica di edile venne sospettato di aver complottato con l'ex console Marco Crasso, d'accordo con Publio Silla e con L. Autronio, condannati per broglio elettorale, dopo essere stati designati consoli. Il piano prevedeva di attaccare il Senato al principio dell'anno e uccidere tutti quelli che avevano preventivamente stabilito.  Compiuta la strage, Crasso sarebbe divenuto dittatore, Cesare sarebbe stato da lui nominato maestro della cavalleria e, organizzato lo Stato a loro piacimento, sarebbe stato riconferito il consolato a Silla e Autronio. Fanno menzione di questa congiura Tanusio Gemino, nella sua storia, Marco Bibulo nei suoi editti, e C. Curione, il padre, nelle sue orazioni. Anche Cicerone, in una lettera ad Axio, sembra alludere a questo complotto quando dice che Cesare, una volta console, si assicurò quella sovranità che si era promesso come edile. Tanusio aggiunge che Crasso, o perchè pentito, o perchè timoroso, non si fece vedere il giorno stabilito per la strage, e di conseguenza neppure Cesare diede il segnale che si era convenuto secondo gli accordi. Curione dice che, come segnale, Cesare avrebbe dovuto far cadere la toga dalla spalla. Lo stesso Curione, ma anche M. Actorio Nasone affermano che aveva pure cospirato con il giovane Gneo Pisone, al quale, proprio perchè sospettato di una congiura a Roma, sarebbe stata assegnata, in via straordinaria, la provincia spagnola. Si sarebbero accordati per provocare una rivoluzione, nello stesso tempo, Pisone fuori e Cesare a Roma, facendo insorgere gli Ambroni e i Galli Traspadani. La morte di Pisone mandò a monte il duplice progetto.

10)  Quando era edile adornò non solo il comizio, ma anche il foro e le basiliche di portici provvisori per esporvi una parte delle molte opere d'arte che possedeva. Organizzò, o con la collaborazione del collega in carica, o per conto proprio, battute di caccia e giochi; così avvenne che anche delle spese sostenute in comune si ringraziava soltanto lui. E il suo collega Marco Bibulo non nascondeva che gli era toccata la stessa sorte di Polluce: come infatti il tempio dei due fratelli gemelli, eretto nel foro, veniva indicato soltanto con il nome di Castore, così la generosità sua e di Cesare solo a Cesare era attribuita. Per di più Cesare offrì anche un combattimento di gladiatori, tuttavia meno grandioso di quello che aveva progettato. La verità era che i suoi nemici si erano preoccupati perchè aveva raccolto da ogni parte una enorme quantità di gladiatori: per questo si stabilì che a nessun cittadino fosse lecito possederne in Roma più di un certo numero. -



MODELLI E FONTI

Il modello, per entrambe le opere, è quello delle biografie "alessandrine", con influenze formali dagli "elogia" e dalle "laudationes funebres" romane. Tuttavia Svetonio inaugura un nuovo genere conforme ai tempi del principato e ai gusti letterari dell’epoca, meno elegante ma più da salotto.

TACITO
Tra le fonti sembra che Svetonio abbia trascurato Tacito, forse perché non ne condivideva le idee; ha sicuramente fatto poi un accurato spoglio degli archivi imperiali per le biografie sui Cesari, integrandole con fonti meno serie, cioè dicerie, ricordi personali o di altri, inserendo così nella raccolta aneddoti divertenti e talvolta piccanti.

Infatti molto insistè sulla vita privata degl’imperatori descrivendone eccessi e intemperanze, debolezze e scandali, in cui alcuni studiosi scorgono una tendenza all'obiettività e di demistificazione, per fornire un ritratto integrale e fedele del personaggio. Per questo la sua storiografia è stata definita "minore" soprattutto rispetto a quella "aristocratica" di Tacito.

Riguardo allo stile, Svetonio scrive "senza prolissità e senza ricercatezze arcaicizzanti o preziosismi moderni, con una lingua fondamentalmente chiara e semplice, e con un fraseggio gustosamente rapido e vivace". Secondo altri è sobrio ma privo di eleganza, per altri ancora un semplice elenco di dati.

IL SIMBOLISMO DI MEDUSA

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Medusa è un creatura mitica greca, prima bellissima e poi mostruosa. Insieme a Steno ( la forte) ed Euriale (colei che salta lontano) era una delle tre Gorgoni, figlie di Forco e di sua sorella Ceto, due orrendi mostri marini, e l'unica a non essere immortale.

Nelle rappresentazioni più antiche era orrenda, esattamente come le sue sorelle Steno ed Euriale. In versioni più recenti tuttavia (Pindaro, Ovidio) Medusa è stata considerata come una donna bellissima che riusciva ad affascinare gli uomini che non riuscendo a trattenersi si voltavano a guardarla, trasformandosi in pietra. Diciamo che era riaffiorato l'antico mito.



LA MEDUSA GRECA


IL I MITO

Secondo il mito Poseidone si invaghisce di Medusa e, trasformatosi in aquila marina, la rapisce, portandola in un tempio consacrato ad Atena dove la seduce. Medusa che possedeva una splendida capigliatura, nasconde, per vanità, il volto dietro un’egida della Dea.

Viene da chiedersi come nascondersi il volto possa essere un atto di vanità, ma non è semmai vanitoso chi mostra anzichè chi nasconde? Mistero.

Dura è la punizione che Atena le infligge: La bella capigliatura viene mutata in un groviglio di vipere velenose ed i suoi denti vengono mutati in zanne. Medusa viene trasformata in un mostro orribile il cui sguardo pietrifica ogni creatura vivente.

Condannata a vivere in solitudine in un antro cavernoso, terminerà la sua misera esistenza per mano dell'eroe Perseo, figlio di Zeus e Danae.



PERSEO

Questi, fornito da Hermes di una falce e dalla Dea Atena di uno scudo lucido e riflettente come specchio, dopo aver sottratto alle tre Graie (anche loro figlie di Forco) il loro unico occhio ed il loro unico dente, le costringe a rivelare il luogo dove vivevano le Ninfe Stigie. Dopo essersi fatto consegnare dalle Ninfe un paio di calzari alati, un sacco, ed il magico elmo del signore degli inferi Ade, che rende invisibile chi lo indossa, Perseo vola verso occidente fino alla terra degli Iperborei, dove trova le Gorgoni addormentate fra grigie statue, consunte dalla pioggia, di uomini e belve pietrificati da Medusa.

Utilizzando lo scudo come specchio per non incrociarne lo sguardo letale, Perseo, la cui mano è guidata da Atena, con un solo colpo di falcetto, decapita Medusa. Dal collo della Gorgone, secondo Ovidio, nascono i figli che aveva generato dopo l'unione con Poseidone, il cavallo alato Pegaso ed il guerriero Crisaore con una falce dorata in mano.

Dal suo sangue nascono anche il corallo rosso e Anfesibena. Perseo non affronta Crisaore e, riposta la testa della gorgone nel sacco, si alza in volo. Benché Steno ed Euriale, destate dai loro nuovi nipoti, si lanciassero all'inseguimento, egli riesce ad allontanarsi sano e salvo, protetto dall’elmo che rende invisibili.

La testa di Medusa viene usata, in seguito, per pietrificare Atlante che viene mutato nel monte omonimo. Il titano, infatti, gli aveva negato ospitalità temendo, a causa la profezia di un oracolo, per i pomi d'oro del suo giardino.

Perseo pietrifica, successivamente, e salvando Andromeda, un orribile mostro marino scatenato da Poseidone contro la città di Argo. La principessa, figlia del re Cefeo e della regina Cassiopea che aveva osato confrontarne la bellezza con quella delle nereidi, avrebbe dovuto essere sacrificata, a causa dell'offesa fatta al Dio, in cambio della salvezza della città.
Secondo un'altra versione non era la principessa ad essere stata superba ma i suoi sudditi, orgogliosi della sua bellezza.

La mortifera testa viene usata anche contro Fineo (o Agenore), zio di Andromeda, e duecento dei suoi seguaci, poiché, durante il matrimonio della fanciulla, aveva avanzato, con la complicità di Cassiopea, pretese sulla nipote ed, infine, contro Polidette, perfido re di Serifo ed i suoi seguaci, poiché aveva costretto sua madre Danae a rifugiarsi in un tempio per difendere da lui la sua virtù.

Infine, la testa di Medusa viene donata da Perseo ad Atena che, accettatala, la pone al centro della propria Egida fondendola con essa. Il suo scudo, da allora, assunse la capacità di ridurre in pietra chiunque.
Secondo una variante Perseo seppellì la testa ad Argo.
Secondo un'altra variante Perseo fece un tale casino con la testa della Medusa che Atena gli impose di darla a lei, e così la pose nell'egida, ovvero sul pregevole petto ove è di solito raffigurata.



IL II MITO 

Secondo un altro mito Medusa era bellissima e viveva nel lontano nord dove non giungeva mai il sole.
Essendo però molto curiosa, ella volle vederlo, e chiese alla Dea Athena il permesso di visitare il sud. Athena rifiutò di accompagnarla nel viaggio. Medsa si arrabbiò molto e disse che Athena non aveva dato il permesso perchè era gelosa della sua bellezza.
Athena si adirò a sua volta trasformando i suoi capelli in serpenti e la maledì facendola diventare così brutta che chi la guardava rimaneva pietrificato.

E' una vera mania pensare che le donne stiano sempre a interrogare lo specchio su chi è la più bella del reame. Athena che combatteva e marciava in mezzo ai corpi maciullati e sanguinolenti delle guerre, non era tipina da arrabbiarsi se qualcuna era più bella, anche perchè le donne vogliono essere la più bella semmai per i maschi, e Athena di maschi non ne voleva. Si fece addirittura autorizzare da Giove per restare vergine, come se la faccenda non fosse sua e non potesse farne ciò che voleva. Ma ormai era patriarcato pieno.



IL III MITO 

Nettuno si innamorò di Medusa, ed ottenne i suoi favori nel tempio di Minerva. Questa violazione del santuario fece talmente adirare la Dea sempre vergine, che ella mutò le belle chiome di Medusa, che avevano ispirato l'amore di Nettuno, in serpenti. 



IL IV MITO

Secondo altri Poseidone violentò Medusa nel tempio di Minerva, ma Athena evidentemente non potendosela prendere con Nettuno se la prese con Medusa, in quanto Dea ma mortale, quindi poco potente. Bello schifo.



IL V MITO

Secondo Apollodoro, Medusa e le sue sorelle vennero al mondo coi serpenti sulla testa, al posto dei capelli, con ali gialle e mani di bronzo. I loro corpi erano coperti da scaglie impenetrabili, e il loro sguardo aveva il potere di uccidere trasformando la gente in statue. 
Perseo rese immortale il proprio nome conquistando la testa di Medusa. In realtà non aveva fatto nulla, aveva fatto tutto Atena perfino guidandogli la mano e regalandogli diversi attrezzi magici. Insomma avrebbe potuto farlo perfino un bambino.

Dal taglio della testa di Medusa sgorgò tanto sangue che formò tantissimi serpenti che infestarono l'Africa. La testa di Medusa sullo scudo di Minerva aveva ancora il potere di pietrificare i nemici. 



IL VI MITO

Alcuni supposero che le Gorgoni fossero una nazione di donne, che Perseo vinse e conquistò. Forse amazzoni?



IL VII MITO

Secondo Ovidio (Metamorphoses, IV. 779ff), la ragione della disputa sta nel rapimento di Medusa da Poseidone nel tempio della Dea Vergine. La Dea pensava di aver punito Medusa trasformando il suo viso, il che rende Medusa vittima innocente per la seconda volta. 


L'ATHENA-MEDUSA

In realtà i serpenti erano un attributo di Athena, come illustrato dalla famosa statua di Fidia e come indicato da alcuni poemi orfici che la denominano 'la Serpentina'. 
Comunque lo stato ipnotico era una delle caratteristiche della Dea dagli occhi cerulei il cui uccello è la civetta, "con uno sguardo che non batte ciglio".

Infine, poiché lei ha posto la testa di Medusa al suo scudo, in battaglia o nei momenti di collera la Dea  assume l'aspetto terrificante del mostro. Così, nell'Eneide (11, 171), esprime la sua ira facendo uscire le fiamme dagli occhi. Queste osservazioni hanno lo scopo di dimostrare che Atena e Medusa sono i due aspetti indissociabili dello stesso potere sacro.



Il figlio di Medusa

Ora il mito prosegue e narra che dal sangue di medusa nacque Pegaso. Per alcuni nacque dal terreno bagnato dal sangue versato quando Perseo tagliò il collo di Medusa. Secondo altri, Pegaso sarebbe balzato dal collo tagliato del mostro, insieme a Crisaore, un gigante armato di una spada d'oro.

Pegaso venne inizialmente utilizzato da Zeus per trasportare le folgori fino all'Olimpo. Poi grazie alle briglie avute in dono da Atena, venne addomesticato da Bellerofonte, che se ne servì per uccidere la Chimera. Dopo la morte dell'eroe, causa una caduta da Pegaso, il cavallo alato torna sull'Olimpo.

Durante la gara di canto tra Muse e Pieridi, Pegaso aveva colpito con uno zoccolo il monte Elicona, che si era accresciuto fino a minacciare il cielo dopo aver udito il celestiale canto delle Dee. 

Da quel punto o nacque una sorgente, chiamata Ippocrene, o "sorgente del cavallo". Terminate le sue imprese, Pegaso prende il volo verso la parte più alta del cielo e si trasformò nella omonima costellazione. Pegaso è il cavallo mitico dell'eroe, come Bucefalo era il cavallo eroico di Alessandro Magno, anche lui destinato all'immortalità seguendo il destino dell'eroico padrone.



LA MEDUSA ROMANA

La Medusa romana però ha caratteristiche molto diverse da quella greca, o almeno come fu vissuta nell'impero romano. Per capire la differenza occorre comprendere che i Romani ritenevano di poter portare dalla loro parte anche una divinità nemica per varie ragioni:
  • perchè Roma era già destinata dagli Dei ad essere Caput Mundi, perciò cara agli Dei,
  • perchè Roma poteva offrire templi e culti tali alla divinità che questa sicuramente ci guadagnava nel confronto con qualsiasi altra potenza al mondo,
  • perchè i cittadini di Roma erano talmente tanti che tra culto pubblico e culto privato la divinità avrebbe raccolto molte più offerte e dediche che non in qualsiasi altra città.
  • perchè i sacerdoti romani avevano riti con cerimoniali segreti ed esclusivi, tipo la Evocatio, da indurre qualsiasi divinità a passare dalla parte di Roma.
Pertanto una divinità terribile come la Medusa diventava una fedele alleata che poteva aiutare contro i nemici. Pertanto essa aveva più di un uso e significato:
  • essa diventava una guardiana delle città, per cui spesso veniva collocata sulle mura perimetrali,
  • laddove non c'erano mura, vedi Roma, veniva posta all'esterno degli edifici pubblici e dei monumenti, sempre a guardia della città,
  • in un ambito minore veniva posta sugli edifici delle case e soprattutto sulle porte sia delle case che dei templi, sulle quali venivano scolpite, un'usanza che le chiese cristiane copieranno scolpendo mostri sulle loro porte soprattutto nel medioevo ma fino al '700,
  • come simbolo apotropaico veniva usato come ciondolo di bracciali e collane.
  • ma soprattutto venne ampiamente usato a monito dei nemici come protomi sulle navi, sculture di pietra nei porti, borchie sugli scudi con la sua effige, ma pure come rilievo nell'armatura per generali  e personaggi importanti.
La Medusa veniva di solito scolpita a fianco a teste di leone e di lupo (cioè di lupa) a sottolineare la pericolosità delle legioni romane ma anche Athena, cioè Minerva, serviva ai capi dell'esercito non solo per l'acume nelle strategie delle battaglie, ma per quella Medusa che portava sullo scudo e sul seno.

Minerva era nel mito romano e per i comandanti delle legioni, ciò che Marte era per i soldati. Ella era l'ispiratrice delle tattiche intelligenti, non a caso Cesare compativa quei soldati i cui generali combattessero solo con le armi dei legionari senza l'ingegno tattico, perchè di certo molti dei suoi uomini sarebbero morti.

Ma Minerva aveva anche un altro aspetto, mediato soprattutto dall'Athena greca: il furore nella battaglia quando veniva risvegliata la Medusa. Anche nell'Iliade la Dea Athena rivela un aspetto terribile in cui, in preda alla collera, fa uscire ardenti fiamme dai suoi occhi divini. Nei momenti di abbattimento o di rabbia era alla Medusa che l'esercito si rivolgeva, perchè quando Minerva scuoteva lo scudo con l'orrido volto i soldati nemici venivano afferrati dallo scoramento e dal panico, iniziando a fuggire in modo incontrollato. Nerva, l'imperatore grande seguace di Minerva, si affidò alla Dea e Medusa per le vittorie del suo esercito, promettendole edifici, statue e onori per ottenere le vittorie nelle sue battaglie.  

Per questo nessun generale trascurava di portare in battaglia la sua effige, e pure altre divinità nei loro templi ne accoglievano l'effigie, come ad esempio la Diana Nemorense a Nemi nel suo santuario. Lo testimonia un archeologo inglese che ne eseguì gli scavi nel 1938, rilevando varie immagini bronzee di Medusa, immagini finite come al solito non si sa dove, probabilmente nei musei o in collezioni private stranieri.

JULIA AUGUSTA TAURINORUM - Torino (Piemonte)

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Si sa che nel III sec. a.c. la pianura piemontese nell'area ove attualmente sorge la città, era già abitata popolo dei Taurini, nati dalla fusione tra Liguri e Galli.

Per l'etimologia di Torino esistono due ipotesi. Una legata al termine celtico taur (o thor) che significa monte. Un'altra legata a una leggenda per cui, nei pressi di un villaggio neolitico, un temibile drago sarebbe stato sconfitto da un toro (taurus) che un contadino avrebbe fatto inebriare con un otre di vino.

La lotta tra i due animali sarebbe stata così sanguinosa che il toro, dopo aver sconfitto il mostro, morì per le ferite, e il popolo, in onore della vittima, decisero di chiamarsi Taurini.

Visto che così a lungo si è tramandata dovrebbe trattarsi del duello di due capi tribù, che un tempo si sfidavano anzichè fare la guerra, (un po' come Orazi e Curiazzi) di cui il vincitore non sarebbe sopravvissuto e come accade, avrebbe ricevuto molti onori e una specie di divinizzazione.


ANNIBALE

Nel 218 a.c. Annibale discese dalle Alpi mentre i Taurini, allora in guerra con gli Insubri, che già alleati di Roma si ribellarono appoggiando Annibale e poi Amilcare nel 200 a.c. Invece i Taurini decisero di rimanere fedeli a Roma e cercarono di sbarrare il passo ad Annibale. Sia Polibio che Appiano lo testimoniano insieme al fatto che Taurasia, posta di vedetta ai punti di attraversamento del Po, resistette ai Cartaginesi per tre giorni e poi soccombettero.




IULIA AUGUSTA TAURINORUM

Prima del 100 a.c. non esisteva ancora una città ma gruppi abitazioni Tauriniche, finchè nel 58 a.c., durante la campagna in Gallia, Giulio Cesare insediò un castrum, alla confluenza del Po e della Dora Riparia.

Nel 44 a.c., poco dopo la morte di Cesare, il triumvirato trasferì nell'area torinese una colonia detta Julia Taurinorum. La definitiva fondazione di Torino avvenne poi per opera di Augusto, che intorno al 28 a.c..  trasferendovi una seconda colonia, il cui impianto è ancora rilevabile nel centro di Torino, con il nome di Julia Augusta Taurinorum. La colonia, inscritta nella tribù Stellatina, ebbe la sua strutturazione definitiva nel I sec. con l'edificazione delle mura.

MUSEO DI TORINO
La Julia Augusta Taurinorum si sviluppò con il caratteristico impianto urbanistico romano, con un perimetro di circa 2.875 metri, e una superficie di 45 ettari, avente la forma di un quadrangolo con un angolo smussato. 

Torino in epoca romana non dovette superare i 5.000-7.000 abitanti. Nel 69 fu parzialmente distrutta da un incendio a seguito dello scontro tra gli eserciti di Otone e di Vitellio.

Nel 240 anche Augusta Taurinorum è minacciata dall'incursione dei Marcomanni. Costantino I, nello scontro che lo contrappose a Massenzio, si scontrò vittoriosamente presso il capoluogo piemontese, nell'area compresa tra Torino e Rivoli. L'evento viene generalmente ricordato come Battaglia di Torino del 312.

Durante il IV e V sec. anche Augusta Taurinorum è interessata all'insediamento di gruppi di barbari spesso costituiti da truppe poste a guardia degli sbocchi dei passi alpini; prima sono i Dalmati Divitensi, insediati da Costantino I, poi i Sarmati, e poi, forse, anche gli Alamanni.

All'inizio del V secolo tutto il Piemonte fu vittima di numerose incursioni barbare, con la scomparsa di quei municipia che non possedevano una cinta muraria; così finiscono Industria, Pollentium, Augusta Bagennorum, Pedona e Libarna.

Le ultime notizie che possediamo su Torino prima della caduta dell'impero romano d'occidente sono il nome di un suo vescovo: Massimo II e la circostanza che ormai la città non è più nota come Julia Augusta Taurinorum, bensì come Taurinos / Taurinis / Taurinus.



CENTURIAZIONE

CESARE
Anche Torino, come ogni città romana, venne fondata attraverso una centuriazione romana, lo schema urbanistico geometrico di una pianta di una città o di un territorio agricolo, che veniva tracciato, con l'aiuto di una riga e una squadra, in ogni nuova colonia dove i Romani si stabilivano.

Lo schema più usuale fu quello dell’ager centuriatus. L’agrimensore, dopo aver scelto il centro della città (umbilicus) tracciava da questo due assi stradali perpendicolari tra loro: il primo in direzione est-ovest, chiamato decumano massimo, il secondo di direzione nord-sud, detto cardo massimo.

Queste due strade venivano prolungate per tutto il territorio agricolo passando per le quattro porte delle mura della città.
L'agrimensore si poneva nell’umbilicus con lo sguardo a ovest e definiva il territorio: col nome ultra ciò che vedeva davanti, citra quanto aveva alle spalle, dextra quello che vedeva alla sua destra e sinistra quello che vedeva alla sua sinistra.
Poi si tracciavano da una parte e dall'altra degli assi iniziali i cardini e i decumani secondari (limites quintarii). Erano assi stradali posti paralleli ad intervalli di 100 actus (circa 3,5 km). Il territorio risultava così suddiviso in superfici quadrate chiamate saltus.
La rete stradale veniva ulteriormente infittita con altre strade parallele ai cardini già tracciati ad una distanza tra loro di 20 actus(710,40 m). Le superfici quadrate risultanti da questa ulteriore divisione erano le centurie.



LE MURA

La cinta muraria superava i cinque m di altezza e i due m di spessore con quattro porte: Decumana, Prætoria, Principalis Dextera e Principalis Sinistra; la cinta era rafforzata da cinque torri angolari ottagonali e torrette di guardia su ciascun lato, in corrispondenza dello sbocco delle vie cittadine e un certo numero di posterle o posterule posizionate in corrispondenza di ciascuna torretta. L'interno delle mura presentava l' intervallum, o camminamento per le ronde. 

La strada principale era il decumanus maximus che collegava Porta Prætoria con Porta Decumana lungo l'attuale via Garibaldi; incrociata dal cardo maximus che collegava le porte Principalis Dextera e Principalis Sinistra, lungo l'attuale tracciato di via San Tommaso e via Porta Palatina. L'incrocio tra le due strade e stradine derivate dettero luogo a 72 insule, edificate a un solo piano, eccezionalmente a due, che costituirono il centro della città.

Tranne che per il teatro, le cui fondazioni sono state rinvenute all'inizio del XX sec. nei pressi della Porta Principalis Dextera, i resti più importanti della Torino romana consistono nella porta stessa (ora Porta Palatina) affiancata da tratti di mura e dalle fondamenta delle sue strutture interne; nella Porta Decumana inglobata nel castello di piazza Castello (torri verso Palazzo Madama); nelle fondamenta di una torre angolare in via della Consolata ed in un tratto di muro visibile nelle sale sotterranee del Museo Egizio.

Attraverso la Porta Palatina entrava in città chi arrivava dalla Pianura Padana. In epoca romana era la Porta Principalis Sinistra. Le vie romane erano lastricate e dotate di marciapiedi rialzati, ed avevano una larghezza di 4/5 metri, al massimo 8 metri (secondo il Ruffa). L’interasse della griglia viaria era di circa 75 m ed era contrassegnato, sulla cinta muraria, da una serie di torri.

Alcuni ulteriori resti delle mura sono inoltre stati rinvenuti nel sottosuolo durante la realizzazione del parcheggio sotterraneo di Via Roma, che da Piazza Carlo Felice va fino in Piazza Castello. Questi resti sotterranei sono visibili in alcuni sbocchi pedonali del parcheggio.

Il recinto delle mura separava il tessuto urbano dai rioni suburbani, ma questo non divideva in due categorie i cittadini anche perché molti avevano proprietà sia all’esterno delle mura che all’interno. Dell’impianto viario originario, in gran parte coincidente ancora oggi con la griglia del nucleo storico centrale, esistono varie ricostruzioni storiche; tra le più note citiamo quella ottocentesca di Carlo Promis e quella di Alfredo d’Andrade del primo '900.

PORTA PALATINA


PORTA PALATINA

La Porta Palatina (nota anche al plurale, come Porte Palatine  o Tor Romane, cioè Torre romana), era la Porta Principalis Dextera che consentiva l'accesso da nord alla Julia Augusta Taurinorum. Straordinariamente ben conservata rappresenta la principale testimonianza archeologica dell'epoca romana della città, nonché una delle porte urbiche del I secolo a.c. meglio conservate al mondo.Insieme all'antico teatro, posto a poca distanza, è compresa nell'area del Parco Archeologico torinese.

Già Porta Doranea, con allusione al borgo Dora, il suo nome attuale è sicuramente successivo all'epoca romana e deriva dal latino Porta Palatii. Questo nome deriverebbe o alla sua prossimità col Palatium, l'edificio che fu sede imperiale dei sovrani Longobardi, oppure dalla probabile presenza di un anfiteatro che sorgeva presso il Borgo Dora e che sarebbe stato interamente demolito.

COME DOVEVA APPARIRE LA PORTA PALATINA
Anche se finora non si sono trovate tracce dell'anfiteatro, le sue citazioni e la sua memoria seppure leggendaria fanno intedere che l'anfiteatro sia davvero esistito. Del resto poco si è fatto finora per ritrovarlo, e le leggende archeologiche si sa che nascondono quasi sempre una realtà..

Trattavasi di una porta ad cavædium, cioè una struttura a doppia porta con statio, un cortile quadrangolare sul lato interno, di cui permangono alcuni resti davanti ai varchi. Alte più di trenta m, le due torri angolari hanno la base quadrata e il corpo sfaccettato a sedici lati.
Solo la torre destra e l'interturrio centrale risalgono però all'epoca romana. Il prospetto dell'interturrio è lungo circa venti m con finestre ad arco nel primo ordine e finestre con piattabanda piana nel registro superiore.
In basso si aprono i due fornici carrai e due più piccoli varchi pedonali posti ai lati; le scalanature lungo le pareti interne dei varchi rivelano un sistema di saracinesche, o grate, manovrate dal piano superiore. Accanto alla porta si nota parte del basolato di epoca romana, caratterizzate dai solchi del carri.

La coppia di statue bronzee raffiguranti Cesare Augusto e Giulio Cesare non sono originali ma copie risalenti all'intervento di restauro del 1934. Esse, tuttavia, sono oggetto di contestazione, in quanto poste erroneamente nell'area interna occupata dalla statio e non esternamente dove si presuppone sarebbero state collocate.



IL TEATRO

Il Teatro romano sta nell'area del Parco Archeologico di via XX Settembre. Risalente al 13 a.c., fu attivo fino al III secolo e rappresenta l'unica infrastruttura della città romana ad aver lasciato molte testimonianze delle tre fasi costruttive successive. Dopo secoli di decadimento è stato riportato alla luce nel 1899, su volere di re Umberto I.

Il teatro sorgeva nel quadrante nord-orientale della città, nel quartiere patrizio non lontano dal forum. Venne edificato su un declivio per sfruttarne la pendenza e a ridosso delle mura che racchiudevano il centro abitato. Dagli scavi si può infatti notare l'intervallum, il camminamento ricavato tra il perimetro delle mura e gli edifici in prossimità di esse.

Fu poi in seguito rimaneggiato e ampliato. Rappresenta uno degli esempi di teatro più piccoli nel suo genere e strutturalmente simile al teatro romano di Augusta Raurica, attuale Basilea.

Inoltre, la vicinanza con la Porta Principalis Dextera potrebbe suggerire che fosse abitualmente frequentato anche dagli abitanti delle campagne vicine.

Probabilmente il teatro non era l'unica struttura di intrattenimento della piccola Julia Augusta Taurinorum, poiché vi era anche un anfiteatro che, secondo alcune ipotesi, era fuori della Porta Principalis Dextera, presso l'attuale via Borgo Dora, oppure fuori della Porta Principalis Sinistra, in prossimità dell'attuale piazza San Carlo.


Il I Teatro

Il teatro fu quasi sicuramente una delle prime costruzioni romane realizzate intorno al 13 a.c., a seguito della conquista dei territori da parte delle truppe romane dell'imperatore Augusto, per elevare allo status di città il modesto villaggio rinominato Julia Augusta Taurinorum.

La sua edificazione fu probabilmente finanziata con il contributo di Marcus Julius Cottius (Cozio), nemico ma in seguito alleato e præfectus civitatis dell'imperatore Augusto.

L'edificio più antico era originariamente costituito da una cavea semicircolare e da una parete con tre portali che costituiva la scena; essa era infine affiancata da due annessi laterali (parascænia).

L'intero edificio era quindi circondato da un recinto ligneo che si raccordava ad un portico rettangolare post scænam. Per ovviare al clima piovoso della zona la cavea era probabilmente coperta da una seconda sovrastruttura lignea.

Dopo circa mezzo secolo il teatro venne restaurato e ampliato per l'aumento della popolazione. Le strutture mobili in legno, di cui non c'è traccia, furono sostituite da elementi in muratura e fu ricostruita anche la scena con dispositivi per la scenografia. Lo spazio retrostante la  scena fu ampliato fino alla  cinta muraria, edificando un portico quadrangolare che inglobò quello precedente. Questo primo ampliamento si potrebbe attribuire a Cozio II o a suo figlio Donno, rispettivamente figlio e nipote del prefetto Marcus Julius Cottius.

In Età Flavia tra il 70 e il 90 d.c., il teatro fu completamente ristrutturato. Per aumentarne la capienza la cavea fu ingrandita con un ordine di scalinate esterno e fu realizzata una nuova facciata curvilinea in sostituzione della precedente. Ad essere ampliato fu anche il portico dietro la scena che venne dotato di un peristilium con un nuovo colonnato in pietra che ospitava locali di servizio e camerini per gli attori.

Potè così accogliere fino a tremila persone e probabilmente ospitò delle naumachìe, visti i canali di scolo rinvenuti nelle vicinanze e sotto il tracciato dell'attuale via Roma.

Il teatro fu utilizzato per più di due secoli fino al cristianesimo che vietò le rappresentazioni teatrali.

Al termine del IV secolo l'edificio divenne cava di materiali per la costruzione della prima cattedrale, la basilica di Cristo Salvatore.
Quasi irriconoscibile e in gran parte spogliato dei marmi più pregiati, i resti vennero completamente distrutti dal primo assedio francese del Cinquecento.



ANFITEATRO

http://www.lastampa.it/2013/02/17/cronaca/quando-a-torino-c-erano-i-gladiatori-e6MUztiBFFiC8fqNH7Y7UJ/pagina.html

"Dove oggi gli ufficiali dell’esercito si laureano in scienze strategiche, duemila anni fa combattevano i gladiatori di Augusta Taurinorum. Versavano sangue e inseguivano effimere glorie in un’anfiteatro ellittico, che sorgeva nell’area prossima all’Arsenale di Torino, odierna sede della Scuola di Applicazione d’Arma. Qui lo colloca, dopo attente ricerche, ma anche con somme cautele, il maestoso plastico della «Torino Romana», realizzato dall’architetto Gianfranco Gritella.

Fuori mura si notano i sobborghi. In riva al Po, fra magazzini, lavorano attività commerciali e produttive. A fianco delle strade che escono dalla città, a debita distanza dalla mura, si allineano necropoli. Una delle più importanti è fra Stura e Dora. Nella zona di Porta Marmorea un secolo fa vennero alla luce resti di un sepolcro monumentale, di un personaggio importante. Ma è la mole ellittica dell’Anfiteatro la prima che incontra il viandante che giunge da Mezzogiorno. Per ricostruirla con il sobborgo, che probabilmente la cinse, i ricercatori hanno lavorato con le immagini di altri anfiteatri simili. Perché di questa presenza ben poco si conosce. L’unico indizio archeologico è un grande collettore fognario fra le odierne vie Roma, Arcivescovado e Venti Settembre, in grado di soddisfare lo scarico di acque di un edificio pubblico monumentale."

L’occupazione francese durò circa venticinque anni, fino al 1562, e Torino dovette assistere alla distruzione delle fortificazioni della città, della chiesa di San Cristoforo degli Umiliati sede degli Agostiniani, e alla distruzione totale dell’anfiteatro romano. Il nuovo governatore francese di Torino, Martino Du Bellay, ordinò di cancellare del tutto le insegne sabaude, modificare le istituzioni, sostituirle con il modello francese.

Nel 2006, in occasione di XX Giochi Olimpici Invernali, l'area è stata completamente ridisegnata. Il progetto è stato commissionato dalla Città di Torino e realizzato dagli architetti Aimaro Isola, Giovanni Durbiano e Luca Reinero. Il nuovo Parco Archeologico intende in primo luogo riportare la Porta Palatina alla sua funzione primaria, consentendo al visitatore un "ingresso ideale" nella zona della città più antica e ricca di storia.

L'intera area corrispondente a piazza Cesare Augusto è divenuta così un ampio giardino, delimitato da opere murarie e filari di alberi. Nella parte antistante corso Regina Margherita è stato realizzato un bastione simile a quello che Napoleone fece demolire nel 1800, destinato ad ospitare nottetempo i carretti del vicino mercato di Porta Palazzo. Alcuni contestano la realizzazione di tale opera, denunciando una scarsa coerenza stilistica delle strutture murarie realizzate con le vestigia romane presenti.
Tuttavia, si può ritenere che l'opera debba essere considerata come un richiamo alla storia della città  nella sua interezza, comprendendo quindi anche opere e stili successivi all'epoca romana.


Gli scavi

I resti attuali furono riportati alla luce soltanto tra il 1899 e il 1906, per la costruzione della nuova ala di Palazzo Reale, commissionata da re Umberto I.
L'architetto e studioso Alfredo D'Andrade si oppose fermamente alla demolizione dei resti, facendo modificare l'ampliamento della manica di Palazzo Reale, consentendone il restauro e la conservazione dei resti.

I lavori di risistemazione terminarono nel 1911 e i resti del teatro sono attualmente visibili sia nella parte esterna accanto al vicino Duomo di San Giovanni, che nella parte sotterranea del palazzo adiacente, sede del Museo di Antichità.



IL FORO

Il Forum, a ridosso dei due assi viari principali, giaceva nell'area attualmente occupata da piazza Palazzo di Città, piazza Corpus Domini e relativi caseggiati circostanti, come si è rilevato negli scavi degli anni Novanta con tracce di una pavimentazione differente rispetto al normale basolato delle vie adiacenti.



EDIFICIO PUBBLICO DI VIA GARIBALDI 18 

Tracce di un edificio pubblico di età romana sono venute alla luce tra il '993 e il '995 durante i lavori di scavi preventivi per autorimesse interrate nei cortili interni all'isolato.

All’interno di un isolato che si affacciava a sud sul decumano massimo (via Garibaldi) sono emersi i resti delle poderose fondazioni di un edificio monumentale del I sec. d.c.. Si tratta di un vano di ampie dimensioni all’interno del quale sono stati rinvenuti circa 300 frammenti di decorazioni e di lastrine di rivestimenti in marmo per pareti e pavimenti.
Probabile che l’edificio sorgesse in un’area aperta che confinava con un terreno di proprietà privata. Il limite di separazione tra spazio pubblico e privato era posto circa a metà dell’isolato. Lo scavo è stato effettuato in un cortile destinato alla costruzione di autorimesse interrate solo parzialmente realizzate per risparmiare i resti dell’edificio.


DOMUS di via BELLEZIA 16

Le strutture di una parte di domus romana, del I sec. d.c. con un ambiente pavimentato a mosaico, sono visibili in una piccola area archeologica riportata alla luce nel 2008 e da poco allestita nel cortile del palazzo. L'edificio fu abbandonato nel IV Sec. 

ISCRIZIONE FUNEBRE


ISCRIZIONE FUNEBRE

Frammento inferiore di iscrizione funebre romana, II secolo d.c., rinvenuto durante gli scavi della Galleria di Carlo Emanuele in P.zza Castello (1999-2000). 

Interessante la morta rappresentata addormentata su un letto piuttosto ricco con materasso e coperte, nonchè legno lavorato. 
Accanto al letto dove la donna giace a pancia sotto. si intravede un mobile stipo che dovrebbe appartenere a una cameretta da letto. Dall'altro lato un mobile più piccolo ma cancellato.


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Le due cime, il Capitolium a sud e l’Arx a nord, erano separate da una incavatura centrale, l’Asylum, attualmente Piazza del Campidoglio, mentre sotto la chiesa di S. Maria in Aracoeli c'era l'antica Arx; il Capitolium invece, dove sorgeva il Tempio di Giove Ottimo Massimo, corrisponde alla zona di Palazzo Caffarelli e Via del Tempio di Giove.

L'Area Capitolina, o Aedes capitolina, era posta ai piedi del tempio monumentale di Giove Capitolino ed era vastissima. Data la sua posizione sulla sommità del colle, era anticipata da un'ampia scalinata di cui resta una parte sul sito del giardino del tempio di Giove, ma la maggior parte è franata e soprattutto è stata depredata degli scalini in travertino.

Oltre allo spazio occupato dal grande tempio, l'area si estendeva per più di un ettaro di superficie.
Secondo Tito Livio era stato Romolo a fondare sul colle Capitolino il tempio di Giove nonchè il culto di Iupiter Stator,  il Dio che arresta la fuga dai combattimenti



DESCRIZIONE

L'aedes era circondata da un muro e da un portico costruito nel 159 a.c. sul lato interno del muro. L'ingresso principale era al centro del lato sud-est, di fronte al tempio, dove terminava il Clivo Capitolino. Infatti a volte l'area era indicata come Fores Capitolii.
Poco a sud dell'ingresso, vicino all'angolo, stava la Porta Pandana, un tempo chiamata Porta Saturnia, al tempo in cui il colle si chiamava Mons Saturnius.

L'area era piena di monumenti, tutti perduti a parte l'opera cementizia quadrata con scaglie di selce, scoperta nel XIX sec. aprendo la via del Tempio di Giove che oggi l'attraversa tagliandola in due.

Alcuni vi identificano il podio del tempio di Giove Custode, fatto costruire da Domiziano per essersi salvato durante l'assedio del Campidoglio da parte dei seguaci di Vitellio. Però dai pannelli con le imprese di Marco Aurelio, conservate a palazzo dei Conservatori, il tempio non ha forma quadrata ma rettangolare.
Altri pensano invece trattarsi del Tensarium, un edificio adibito al ricovero delle tensae, i carri sacri usati per le processioni sacre, altri ancora suppongono si tratti dell'Ara gentis Iuliae, che si sa posta in quest'area.

Si sa che l'aedes fu occupata da tempietti, sacelli, trofei e infinite statue per cui più volte si dovette sgomberare trasportando le opere altrove, soprattutto all'epoca di Augusto che fece trasferire molti monumenti al Campo Marzio.

L'area era chiusa di notte e protetta da cani. Qui c'era la casa in cui si rifugiò Domiziano dal Vitelliani, casa poi rimossa, come narra Tacito, per far posto alla Santuario di Iuppiter Conservator. Le oche sacre vennero mantenute nell'aedes e sotto la superficie c'erano le favissae, passaggi sotterranei usati come magazzini per le vecchie statue sacre cadute dal tetto per i fulmini o comunque danneggiate, e per i vari regali dedicatori. Nell'aedes c'era anche un antico arco di trionfo eretto da Scipione l'Africano nel 190 a.c.

Il deposito votivo del tempio di Giove Capitolino si trovava sotto l'attuale Protomoteca e vi sono stati rinvenuti reperti risalenti fino al VII secolo a.c., tra cui una coppa di bucchero con iscrizione etrusca, che testimonia la frequentazione del sito da parte degli etruschi fin dal VI secolo a.c.



EDIFICI SULL'AEDES CAPITOLINA



1) Tempio dell’Indulgenza
2) Tempio di Fides
3) Tempio di Mens
4) Tempio di Venere Ericina
5) Tempio di Ops
6) Tempio di Giove Custode
7) Capanna di Romolo
8) Capella di Valetudo
9) Tensarium
10) Tempio di Giove Feretrius
11) Tempio di Marte Ultore
12) Tempio della Fortuna Primigenia
13) Tempio di Giove Tonante
14) Tempio di Giove Capitolino

e inoltre:

Tempio di Iuppiter Conservatore,
Un grande altare di Giove,
altare di Iside e Serapide,
altare di Bellona,
altare del Genius Populi Romani con Felicitas e Venere Victrix
altare della gens Iulia
altare di Iuppiter Victor
la Curia Calabra (dove il pontifex affiggeva ogni mese la data delle calende, ovvero quando calavano le calende, calabra da calare)
l'Aedes Tensarum,
il publicum atrium, l'ufficio e archivio che Livio narra contenesse anche i vari trattati, fra cui quelli con Cartagine.



LE STATUE
  • gruppo bronzeo della Consegna di Giugurta dal re di Mauretania a Silla, i cui resti sono stati rintracciati nella sottostante area di Sant'Omobono, con frammenti di un bassorilievo pertinente a un basamento in marmo nero con Vittorie e trofei, su cui si doveva ergere il famoso gruppo.
  • una statua di Giove, di dimensioni colossali, eretta da S.P. Carvilio nel 293 a.c., così alta che poteva essere vista dal tempio di Iuppiter Latiaris sul monte Albano, un secondo in piedi su un pilastro alto e dopo il 63 a.c. fu trasformata per affrontare l'est.  
  • La statua di Aristogitone, uno dei tirannicidi, copia di un gruppo di Kritios e Nesiotes posto nell'Agorà di Atene nel 476 a.c., forse pertinente alla cacciata di Tarquinio il Superbo nel 509 a.c., avvenuta subito dopo l'uccisione di Ipparco nel 514 a.c. e l'espulsione del tiranno Ippia nel 510 a.c.
  • Le statue bronzee dei re di Roma. Si sa che erano 4 ma non si sa di chi. Sicuramente mancavano Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, i re etruschi odiati dai romani.
  • La statua di Lucio Giunio Bruto. 
  • C'erano anche molte statue di divinità sia nell'aedes che nei templi (simulacri Capitolio deorum omnium colebantur). Nel 305 a.c., una statua colossale di Ercole, opera di Lisippo, fu portata da Taranto nel 209, di Marte, 3 Liber pater, Iuppiter Africus, e Nemesis.
  • Ancora nell'aedes la statua di L. Scipione, 
  • la statua di M. Emilio Lepido, 
  • le statue dei Metelli, 
  • la statua di Quintus Marcius Rex, 
  • la statua di Titus Seius, 
  • la statua di Pinarius Natta, 
  • la statua di Domiziano, 
  • la statua di Claudio, 
  • la statua di Aureliano. 
Queste sculture erano diventate così numerose che Augusto ne fece trasportare molte al Campo Marzio, e così pure i trofei di vittoria, come quelli di Marius e Germanico, e i monumenti votivi, (ab Augusto ex Capitolina area propter angustias Martium campum in conlatas... Statuas virorum illustrium subvertit).
Molto tavole di bronzo contenenti trattati, leggi e diplomi militari vennero conservati all'interno dell'area, fissandole alle pareti della zona e dei templi, e alle basi delle statue e monumenti.


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PORTICUS AEMILIA (HORREA)

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RICOSTRUZIONE
Nel II secolo a.c., con l’aumento dei commerci e dei traffici dopo la II guerra punica, il porto Tiberino non fu più sufficiente al traffico fluviale, per cui si creò un nuovo complesso portuale in un’ampia zona pianeggiante  a sud dell’Aventino, fuori della porta Trigemina che si apriva sulle mura repubblicane, zona corrispondente all’attuale quartiere di Testaccio.

Nel 174 a.c. il porto, fino ad allora dotato di una semplice copertura in legno, fu lastricato in pietra e fornito di un grande magazzino per le derrate alimentari. Si trattava dell'immenso Porticus Aemilia, il più vasto edificio commerciale costruito dai romani, come risulta dalla planimetria della Forma Urbis Severiana. Era un edificio monumentale, il primo scalo commerciale dell'urbe a cui, fin dai tempi più remoti, affluivano i prodotti e le merci provenienti dal mare e dall’alto Lazio.

IMMAGINE DELLA ZONA NELLA FORMA URBIS
Era situato sulla riva sinistra del Tevere, presso i grandi mercati del foro Boario e del foro Olitorio, realizzato in opera incerta di tufo, modalità molto in uso in epoca repubblicana, Era lungo ben 487 m e largo ben m 60, estendosi tra le attuali via Marmorata e via B.Franklin, a distanza ravvicinata dall'Emporium, il porto fluviale a sud dell'Aventino.

L'interno era diviso da 294 pilastri che definivano una serie di ambienti disposti su sette file longitudinali che formavano 50 navate, larghe ognuna 8,30 metri, coperte con volte a botte e con pavimenti in terra battuta, per una superficie complessiva di 25.000 m2.

Questi ambienti servivano come magazzini della merce, del grano anzitutto, di beni alimentari in genere ma pure di altri generi di consumo.

Erano pertanto i famosi horrea romani, che prendevano il nome dai loro costruttori, Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo, tribuni edili dell'anno 193 a.c., e quindi dalla gens Aemilia. Tra il 193 e il 174 a.c. vennero così edificati il mercato dell’Emporium e il porticus Aemilia.  La facciata del magazzino era formata da una fila di pilastri in opera quadrata di tufo, davanti a cui passava la strada lastricata in basolato. .

Gli architetti romani, tra l'altro non di professione ma solo di esperienza, cioè militari che avevano imparato a costruire dai castra, negli edifici pubblici avevano espresso il meglio del loro genio, sperimentando i diversi materiali da costruzione. i diversi abbinamenti di colori e materiali e le diverse tecniche edificatorie. L'edificio, i cui resti sono conservati nel quartiere romano di Testaccio, viveva in stretta col porto dell'Urbe, distando solo 90 metri dal fiume e qui venivano immagazzinate le merci scaricate dalle imbarcazioni che rifornivano tutta Roma.

L'horrea degradava verso il fiume in quattro "navate" longitudinali, in modo che ognuna  prendeva luce da aperture poste nella cortina al di sopra del corpo antistante. Nulla resta dei moli e delle scale verso il fiume di età repubblicana, imputabili, secondo Livio, agli stessi censori impegnati nei restauri del 174 e radicalmente trasformati in età traianea. Una serie di passaggi in Livio menzionano l'Emporium e il porticus, citando i censori Q. Fulvius Flaccus e A. Postumius Albinus per la ricostruzione in pietra dell' ‘emporium’ fuori Porta Trigemina, e il restauro del Porticus Aemilia.

Le camere oggi visibili negli argini del fiume, alte circa 4 m, costituivano l'argine e le costruzioni del corpo più avanzato della città annonaria, l' Emporium vero e proprio. In seguito tutta la pianura del Testaccio, man mano che crescevano i bisogni della città, si andò colmando di edifici, soprattutto di magazzini annonari.

Quando, a partire dai Gracchi, ebbero inizio le distribuzioni gratuite di grano ed altri generi alimentari alla popolazione della città, fu necessario costruire altri magazzini: sorsero così gli Horrea Sempronia, Galbana, Lolliana, Seiana, Aniciana, dai nomi dei consoli in carica al momento della costruzione o dal nome dei proprietari o del costruttore.

Fu durante i lavori di arginatura del Tevere negli anni 1868-1870 che vennero alla luce i resti dell’antico Emporium, una banchina lunga circa 500 m e profonda 90, con gradinate e rampe che scendevano al fiume. Il fronte della banchina era munito di pietre d’ormeggio in travertino, ancora oggi visibili.

Le chiatte rimorchiate dai bufali, che risalivano il fiume, avevano qui un punto di approdo dove scaricare le merci, prevalentemente marmi, grano, vino e olio, provenienti soprattutto dal porto di Ostia. Interrati dai detriti trasportati dalla corrente, i resti furono riportati alla luce nel 1952 e, di nuovo reinterrati, nuovamente a partire dal 1974. Per essi è previsto ora il restauro e la trasformazione in area archeologica aperta alle visite del pubblico.

Si trattava di un esteso molo costituito da una serie di concamerazioni, il cui estradosso era pavimentato da grandi lastre di travertino ed utilizzato come piazzale di scarico e di smistamento. Un lungo muro inclinato chiudeva verso il fiume questi ambienti ed era munito di pietre d'ormeggio forate per il fissaggio delle gomene. Il tutto addossato ad un più antico muraglione di mattoni che delimitava, verso il fiume, un'altra serie di magazzini coperti a volta aperti verso il quartiere commerciale di Testaccio.

TESTA DI LEONE DEL PORTICUS
Ai piani superiori si aprivano gli ambienti, utilizzati come uffici e stanze di stivaggio delle merci. L'attività dell'Emporium andò avanti fino all'entrata in funzione dei grandi porti di Claudio e Traiano di Ostia.

Col tempo i numerosi scarti delle anfore, contenitori di vino, olio e grano, perchè spaccati o sbrecciati, furono accatastati in una zona limitrofa dando origine alla collina artificiale di Testaccio, detta per l'appunto Monte dei cocci, alto 49 m e formato dalle testae (cocci), accumulati tra I e III sec. d.c.. Sembra però che molte anfore venissero appositamente spaccate, in quanto fosse più conveniente distruggere le anfore piuttosto che pulirle per riutilizzarle. I Romani andavano di corsa, dovevano sfamare un milioni di abitanti nell'Urbe.

Il declino dell’area portuale, del complesso dell’Emporium e degli horrea, iniziato già dal V secolo d.c.si desume dalle mancate citazioni nelle fonti tardoantiche dove la zona appare come Marmorata o Ripa Marmorata a causa dei marmi depositati per tutta l’età imperiale. Imponenti resti del porticus sono ancora visibili nelle vie G. Branca, Rubattino e Florio.


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