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CULTO DI INTERCIDONA

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INTERCIDONA ITALICA

Antica Dea italica e poi romana, rappresenta colei che separa, nella nascita dei bimbi, il piccolo dalla madre, tagliando il cordone ombelicale, e che separa anche il bimbo dal male delle influenze maligne che possono avvicinarsi alla culla Già questo fa capire che il culto era antichissimo e con risvolti magici e sciamantici nonchè scaramantici.
La Dea veniva rappresentata munita di ascia o di falcetto lunare d'argento. Naturalmente aveva anche un aspetto oscuro, che si perse nel tempo, come colei che recide anche il filo della vita. Ne resta un ricordo nell'immagine medievale della morte munita di falce. L'ascia, come il falcetto erano armi primitive, usate per tagliare la legna e l'erba, ma pure usate in tempo di guerra.

La Dea naturalmente sovraintendeva al taglio del cordone, invitando a cospargere l'ombelico con sale o schiuma di nitro, oppure in una mistura di miele, olio e sali sciolti. A Roma Intercidona, Pilumnus e Deverra proteggevanono la puerpera dopo il parto dalla crudeltà del Dio Silvanus avverso ai cuccioli.

Scrive infatti Varrone:
"Moltissimi Dei proteggevano la vita del bambino, dal momento in cui era rinchiuso nel grembo della madre. Infatti le due Carmente, di cui una era chiamata Postverta, l'altra Prorsa, si prendevano cura del nascituro quando stava per venire alla luce. Poichè in verità il Dio Silvano era ritenuto assai dannoso ai parti, la loro protezione era stata affidata agli Dei dell'Intercidona, Pilunno e Deverra, che scacciavano Silvano con una scure, con un giavelotto e con una scopa, se per caso si avvicinava ai letti durante la notte."

Il fatto che fossero tre divinità, di cui una maschile e due femminili, fa pensare a un mito con una Dea Madre, una Dea Figlia e un Dio giovane che sposa la fanciulla. Un po' come il mito di Cerere e Core, e dove c'erano queste tre divinità c'erano i Sacri Misteri anche se di questi come di tanti altri se ne è perduta memoria nel tempo.



INTERCIDONA ROMANA

In realtà la Dea romana presiedeva a tutte le attività per cui si doveva far ricorso alla scure, compreso il taglio degli alberi o la liberazione dai rovi, nonchè il taglio della legna, per cui fu anche protettrice dei tagliaboschi.  Le sue sacerdotesse iniziarono i loro culti nei boschi dove costruirono are e danzarono agitando i falcetti d'argento con cui tagliavano poi dei rametti.

Per ogni rametto tagliato si poneva un nastro colorato sull'albero, come simbolo della nuova nascita che segue alla  morte. Anticamente si offrivano alla Dea i rametti tagliati ritualmente con infilati dei dolci in origine di farro e miele, poi di grano e miele. Fu in seguito assimilata a Diana Intercidona, e pure a Giunone Interduca, colei che accompagna la sposa. Quest'ultima, facendo uscire dalla sua casa la sposa e conducendola alla nuova casa ne tagliava il vecchio stile di vita e la introduceva al nuovo.



ATTRIBUTI

I suoi attributi erano la scure, il ramo fiorito. la scopa di saggina e il falcetto d'argento. Il ramo fiorito era il simbolo della primavera e quindi della rinascita, della natura e dei vari cicli della vita, compreso quello degli uomini.
La scopa di saggina era invece legata allo spazzare gettando via, dunque in qualche modo legata alla morte, ma pure alla protezione della casa, nel senso di spazzare via gli influssi malefici. Questa protezione era pertanto legata alla padrona di casa, la domina, addetta ai sortilegi casalinghi.



LA TRIADE

Per alcuni Pilunno e Deverra erano i figli di Intercidona, per altri erano una Triade. Probabilmente in era molto antica Intercidona era una Dea madre con figli, con cui formò una Triade secondo l'uso etrusco.

Pilunno proteggeva i neonati nelle case, contro le malefatte del demone Silvano. Pilunno è il Dio "dei colpi di scure" contro le porte, per cacciare i demoni, Deverra era la Dea della scopa con cui si spazzava la soglia dopo la nascita di un bambino. Con l'avvento del cristianesimo l'attributo della scopa passò alle streghe, perchè tutto ciò che era pagano divenne demoniaco.

Pilunno deriverebbe il nome da pilon, pestello, col quale si colpiva la porta alla nascita di un bimbo. Scure, pestello e scopa erano anche simboli della coltivazione.
Pilunno, munito di pestello, avrebbe insegnato agli uomini a tritare il grano, mentre suo fratello Picumno avrebbe insegnato la concimazione dei campi ed era detto perciò Sterquilino ed anche Stercuzio.

Danae, fecondata da Giove sotto forma di pioggia d'oro, resa madre di Perse, secondo la leggenda italica, venne in Italia, fondò Ardea, sposò Pilunno e fu madre di Dauno, progenitore di Turno.

Deverra, assimilata poi a Giunone Deverona, proteggeva la proprietà, la casa, la sua pulizia e le nascite.
Per quell'attaccamento che i Romani avevano, soprattutto nei pagus, agli antichi Dei, attaccamento che molto appartenne anche all'imperatore Augusto ne ripristinò quanti ne poteva, e di questi antichi Dei all'interno dell'Urbe stessa venne conservato il culto di Intercidona, collegato poi ad un aspetto di Giunone protettrice della novella sposa.

GNEO PETREIO

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Nome: Gnaeus Petreius
Nascita: Atina
Morte: I sec. a.c.


Gneo Petreio nato ad Atina, una cittadina del Latium (Lazio, prov. di Frosinone), essendo in effetti tutta la gens petreia nativa di Atina, fu un valente militare romano di cui ci giunge notizia da Plinio il Vecchio, Naturalis historia nel Libro XXII Cap. 6, tratte da varie testimonianze orali e scritte.

Di non grandi possibilità economiche, Gneo entrò nell'esercito distinguendosi per l'audacia, il valore e la lungimiranza.
Per questo, dopo essere stato nominato centurione, cioè comandante della centuria, l'unità di base della legione, in media di un centinaio di soldati, venne nominato centurione del primo manipolo della prima coorte, che era detto Primus Pilus.

Questi era il capo di tutti i centurioni e l'unico dei centurioni ad accedere al gabinetto di guerra di una legione, insomma una specie di ufficiale moderno.

Il primus pilus era normalmente l'ufficiale anziano che conquistava il suo ambitissimo status grazie ai meriti sul campo, il che fa presumere che di meriti Gneo ne avesse acquisiti molti e che i suoi uomini si fidassero molto di lui.

Narra Plinio, che Petreio ricevette l'altissima onorificenza della corona di gramigna, per aver compiuto un atto di eroismo durante la Guerra contro Cimbri e Teutoni.



GUERRA CONTRO CIMBRI E TEUTONI

I primi contrasti tra Romani e Germani avvennero nel 113 a.c. presso Aquileia, quando Cimbri e Teutoni, popolazioni nomadi originarie dello Jutland e della Scania (Danimarca e Svezia), abbandonarono la Pannonia per entrare in Italia attraverso le terre dei Taurisci del Norico. Queste tribù celtiche, alleate con Roma, chiesero l'aiuto delle legioni e Roma, come suo costume accorse prontamente.

Posizionato l'esercito sui monti, non lontano da Aquileia, il console Gneo Papirio Carbone convinse i nomadi, che nel frattempo avevano compreso la potenza delle legioni romane, ad abbandonare il progetto e tornare alle loro sedi. Forse cercando gli onori di un trionfo o forse per essere ben certo che gli accordi sarebbero stati rispettati, Papirio Carbone li seguì. Invece i nomadi, forse ritenendo di essere traditi attaccarono le truppe di Carbone e secondo Theodor Mommsen:
« Ebbe luogo una battaglia non lontano da Noreia nell'attuale Ducato di Carinzia durante il quale i traditi vinsero i traditori infliggendo considerevoli perdite. Solo una tempesta che separò i combattenti evitò la distruzione dell'esercito romano »

Solo al comando di Gaio Mario le due popolazioni germaniche furono annientate in due battaglie ad Aquae Sextiae e a Vercellae nel 102 e nel 101 a.c., salvando Roma dall'invasione germanica.



L'AZIONE EROICA

Durante una spedizione contro i Cimbri le legioni stavano avanzando da un po' nelle foreste svizzere, un terreno poco confacente ai romani che non potevano correre nè muoversi agilmente con l'armatura, mentre i nemici, senza armatura potevano appostarsi dietro e sopra agli alberi rendendosi introvabili.

Petreio parlò col comandante pregandolo di tornare indietro e non mettere così a repentaglio la vita di tutti. Fece anche presente che se non erano ancora stati attaccati era perchè i nemici gli avevano teso un'imboscata dove il bosco era più fitto, andare avanti era un suicidio.
CENTURIONE ROMANO

Il comandante però non gli diede ascolto, probabilmente per rancori personali col centurione che più d'una volta aveva cercato di consigliarlo, ma pure perchè i soldati sembravano apprezzare più Gneo che non il loro comandante.

Petreio si sentì alle strette, la pena per chi si ribellava era terribile, in genere l'uccisione a bastonate dai suoi commilitoni. Ma non poteva ribellarsi sobillando i suoi uomini, perchè avrebbe provocato uno sbando che avrebbe richiamato sicuramente e prestamente i nemici.

Rapidamente prese la sua decisione, cioè sguainò il gladio e lo inflisse profondamente nel petto del comandante, Quindi chiamò i suoi sottoposti e l'informò che lui era il nuovo comandante e che si preparassero alla battaglia.

Gli uomini non fiatarono, convinti della sua bravura quanto dell'inettitudine dell'ex comandante. Immediatamente retrocessero e si posero in posizione di battaglia. Appena in tempo perchè immediatamente udirono le urla di guerra e piovvero come un uragano i guerrieri cimbri già appostati nella foresta.

Combattendo e retrocedendo Gneo portò i suoi in campo aperto dove finalmente potè dar loro l'assetto romano della battaglia e con questo sgominò i suoi nemici. Le legioni lo accalamarono, solo a lui dovevano la loro vita.
Giunto a Roma Gneo si rimise al senato con molta trepidazione per la sua vita. Le leggi di Roma erano terribili per chi si ribellava, commettendo pertanto un tradimento, per giunta Gneo aveva assassinato il suo superiore, un esempio nefasto da punire in modo esemplare. 
Nel processo che seguì tutti i militari senza esclusione ebbero parole di elogio per Pretorio e di accusa di inadeguatezza per il comandante. E qui, nonostante i senatori romani fossero molto conservatori e per giunta Gneo non fosse un aristocratico, all'udire le numerose imprese del Pretorio, apprezzatissimo non solo dai suoi uomini ma pure da tutti i suoi precedenti comandanti non solo non accusò Gneo ma lo insignì della Corona Gramignea.



LA CORONA GRAMIGNEA

La corona era realizzata da un serto d'erba o fiori selvatici intrecciati, colti nei pressi del campo di battaglia, riprendendo il costume arcaico, sicuramente anche preromano, di premiare il vincitore nelle gare atletiche con una manciata d'erba del terreno di gara.
CORONA GRAMIGNEA

Si può comprendere pertanto quale esempio di giustizia dimostrò il senato romano, ignorando per un attimo leggi e gerarchie militari per remunerare chi aveva salvato la vita alle legioni romane, che erano la vera salvezza e il vero patrimonio di Roma.

Tanto più che tale onoreficenza, di per sè povera, portava grandi vantaggi e regalie da parte dei potenti e del popolo, perchè entrambi avevano il culto degli eroi romani.

LEGIO MARTIA

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La legio Martia, cioè Legione del Dio Marte,  era un'unità militare romana di epoca tardo repubblicana, che fu formata da Gaio Giulio Cesare nel 48-9 a.c., come narra Appiano nella sua "Guerra Civile". Essa venne arruolata tra i cittadini Italici per combattere contro Gneo Pompeo Magno, prese parte alla successiva battaglia di Farsalo, in seguito alla quale ottenne l'appellativo onorifico di Martia, cioè degna di Marte Dio della guerra.
Combattè ancora per Cesare nella Battaglia di Tapso, quindi passò a Marco Antonio prima e ad Ottaviano poi.

La legio in questione era composta da circa 22.000 uomini, suddivisi in otto legioni. Erano i legionari che avevano seguito Cesare nella lunga campagna di Gallia, che lui aveva saputo guidare, sostenere, difendere con tale intelligenza e rispetto che gli uomini si sarebbero battuti per lui fino alla morte. I veterani delle Gallie era quanto di meglio si potesse desiderare in battaglia, coraggiosi, fedeli, allenati ed effidcaci nonchè veloci e solerti esecutori, mai ribelli.



LA BATTAGLIA DI FARSALO

Cesare infatti, prima di salpare dall'Italia per l'Epiro, doveva avere un esercito composto dalle quattro legioni consolari del 48 a.c., cioè le legio I, II, III e IV, la nuova legio XXVII, e quelle provenienti dalla Spagna e dalla Gallia cisalpina, dalla VI Gemella alla XIV legione, inclusa la futura V Alaudae e la VII. Non tutte riuscirono a salpare da Brindisi e a raggiungere il loro comandante a Dyrrhachium, ma la futura Martia si ricongiunse con Cesare.
Altre forze furono invece inviate, per un numero di 12.000 armati (pari a circa tre legioni a ranghi completi), dallo stesso Cesare, prima dello scontro decisivo di Farsalo, in Macedonia e Grecia per assicurare il vettovagliamento delle truppe, come narrano Cassio Dione, Velleio e Appiano.

CESARE
Cesare così schierò le sue legioni:
  • la legione X all'ala destra sotto il comando di Publio Cornelio Silla, 
  • le legioni VIII e IX all'ala sinistra sotto il comando di Marco Antonio; 
  • al centro erano schierate le restanti cinque legioni, tra cui la legio XI e la legio XII, agli ordini di Gneo Domizio Calvino, 
per un totale di ottanta coorti, per un totale di 22.000 fanti e 1.000 cavalieri.
Le forze in campo messe da Pompeo erano più del doppio superiori alle sue, e constavano di 45.000 fanti, 2.000 beneficiari veterani e 7.000 cavalieri.

La gran parte del successo delle armate dipese però dalla straordinaria capacità di Cesare di gestire con genialità, sangue freddo e determinazione tutte le situazioni che gli si presentavano, dimostrandosi un grande stratega, e un trascinatore di uomini che lo apprezzavano ed amavano come pochissimi generali
furono così amati.

Cesare usò come al solito l'ingegno, il comandante della cavalleria di Pompeo era  Tito Labieno, che aveva combattuto con lui in Gallia prima di passare al nemico. Labieno usava di solito attaccare sul lato debole dell'avversario, per poi convergere verso il centro contro il grosso dell'esercito nemico.

Cesare non seguì lo schema classico di porre il grosso delle truppe in mezzo e due ali, spesso di cavalleria, invece staccò dal lato destro sei coorti di soldati, i più esperti, e li posizionò come riserva. Separando le coorti dall'ala, oltre ad avere una unità mobile pronta ad accorrere nel momento del bisogno, il generale mostrò un finto lato debole, prevedendo che la cavalleria pompeiana vi si sarebbe lanciata contro.

Dopo aver messo in ritirata il nemico, la riserva di Cesare, composta da 6 coorti, scaglio i giavellotti contro i volti dei nemici, sistema inedito, cercando di colpirne gli occhi che gli elmi lasciavano scoperti. Cesare intuiva che i cavalieri di Pompeo, giovani e non avvezzi alla guerra, avrebbero temuto di essere sfregiati orribilmente in volto, e questo li spinse alla fuga.

Con la ritirata di Labieno e la perdita di due fronti su tre, Pompeo considerò perduta la battaglia e si ritirò insieme a tutto lo stato maggiore. In questo modo salvò la sua vita e quella di tutti i suoi ufficiali, ma perse quella di 15 000 soldati, mentre le perdite di Cesare ammontarono in tutto ad appena duecento uomini.

Da Svetonio apprendiamo il commento di Cesare alla vista dei tanti caduti dopo la sanguinosa battaglia combattuta a Farsalo:
L’hanno voluto! Dopo tutte le mie imprese sarei stato condannato se non avessi cercato aiuto nelle armi”. Svetonio attinge da Asinio Pollione, testimone oculare della scena e del commento.

BATTAGLIA DI TAPSO


BATTAGLIA DI TAPSO

Dopo la morte di Pompeo i suoi luogotenenti si radunarono nelle province d'Africa per combattere Cesare. I loro capi erano ora Marco Porcio Catone Uticense, Marco Petreio (che già aveva sconfitto Catilina) e Quinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, un senatore e comandante romano, avendo come alleato il re Giuba I di Numidia. Sappiamo da Appiano (De Bellibus civilibus) che Cesare inseguì i suoi avversari in Africa ed approdò a Hadrumetum (odierna Sousse, in Tunisia) il 28 dicembre 47 a.c.

Come ci narra Appiano, la fazione pompeiana riunì velocemente un esercito poderoso di 40.000 uomini (circa 10 legioni romane), 20 elefanti, una potente arma di cavalleria, condotta dall'ex braccio destro di Cesare, il valente Tito Labieno, oltre alle forze alleate del re di Numidia e una sessantina di elefanti.. Nelle scaramucce iniziali due legioni nemiche disertarono in favore di Cesare. All'inizio di aprile, Cesare arrivò a Tapso ed assediò la città.

L'esercito di Metello Scipione circondò Tapso tentando di entrarvi da nord. Ma temendo l'arrivo di Cesare pose ai lati la cavalleria con gli elefanti. Cesare come suo solito si era posto al comando del lato destro e la cavalleria e gli arcieri ai fianchi.

Gli arcieri di Cesare attaccarono gli elefanti senza effetto, mentre poi il lato sinistro degli elefanti attaccò il centro dei Cesariani, dove era posta la V legione.

Questa legione sostenne l'attacco con tale coraggio che da allora in poi un elefante divenne il suo simbolo, ma molti ne morirono si che Cesare fece suonare enormi trombe con tanta violenza da spaventare e far retrocedere gli elefanti, che calpestarono la cavalleria.

CESARE
Quindi la cavalleria di Cesare distrusse il campo fortificato e costrinse il nemico alla ritirata. Le truppe alleate di Giuba abbandonarono le posizioni tornando verso le proprie terre e quando Scipione rimase con solo una parte degli elefanti le truppe romane ebbero la meglio. Scipione scappò a sua volta, via mare, lasciando l'esercito nelle mani di Afranio.

Circa 10.000 soldati avversari, tra cui lo stesso Metello Scipione, volevano arrendersi a Cesare, ma vennero invece fati uccidere. Comportamento strano per Cesare, di solito generoso coi vinti. Alcune fonti sostengono che Cesare avrebbe avuto un attacco epilettico e che non fosse in sé. Ma per altri la spiegazione risiederebbe nella particolare crudeltà mostrata dai soldati di Metello contro quelli di Cesare.

Dopo la battaglia, Cesare conquistò Tapso, e continuò fino ad Utica, dove si trovava Catone che alla notizia della sconfitta si suicidò. Cesare ne fu sconvolto e secondo Plutarco avrebbe detto: «O Catone, ti porto invidia di tua morte, perché mi togliesti l'onore di salvarti la vita». La battaglia di Tapso si svolse il 6 aprile 46 a.c.nei pressi di Thapsus (Tunisia).

Cesare catturò i 60 elefanti e provò a domarli per farli combattere nel suo esercito, ma erano ben addestrati e non ubbidirono per cui li fece liberare.



BATTAGLIA DI MUTINA

"Legio Martia, cum hostem populi Romani M. Antonium iudicavisset, comes esse eius amentiae noluit." La legione Martia, con il nemico del popolo romano Marco Antonio, non volle essere complice della sua follia.

Nel 44 a.c. ritroviamo la Legio Martia ad Apollonia in vista della campagna di Cesare contro i Parti.
Dopo l'assassinio del dictator alle idi di marzo, la legio venne concessa a Marco Antonio, ma questa fedelissima a Cesare e alla gens Julia, poco dopo disertò e passò dalla parte di Ottaviano. Questi li guidò nella battaglia di Mutina (43 a.c.), e Cicerone, ci riferisce che restò ferma in questa città fino al 42 a.c., quando, come narra Appiano, venne intercettata dalla flotta repubblicana nell'Adriatico tra Brindisi ed Apollonia, e qui venne distrutta.

Secondo i dati dello storico Valerio Massimo, la legione, quando fu in Africa con Cesare a Tapso, era diventata la XXV legione. oppure la XXVII, XXVIII,  XXIX o XXX.

RE DEI PARTI

LEGIO MARTIA I

Quando la regina Boudicca si ribellò nel 60 dc., la XIV legione si comportò valorosamente guadagnandosi il titolo onorifico Martia Victrix ('vittoriosa, benedetta da Marte'), il che potrebbe ricollegarla alla Martia suddetta.
Si ha poi notizia di una Legio Martia I del tardo impero, anch'essa evidentemente dedicata al Dio della guerra Marte.
L'iscrizione che denunciava l'esistenza di questa legione purtroppo è andata perduta ma menzionava una fortezza in provincia di Valeria (Ungheria) innalzata dalla Legione Martia in 48 giorni nel 371 d.c..Potrebbe trattarsi di una legione identica alle Martenses menzionate come parte dell'armata Illirica del 400 d.c..Una legione fondata sicuramente da Diocleziano. Sembra che la stessa legione sia stata poi soprannominata Victrix.

VALERIO MESSALLA CORVINO ( 61 - 43 a.c. )

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URNA CINERARIA DI CORVINO

Nome originale: Marcus Valerius Messalla Corvinus;
Nascita: 64 a.c.
Morte: 8 a.c.





Marco Valerio Messalla Corvino (latino: Marcus Valerius Messalla Corvinus; 64 a.c. – 8) fu un importante generale della Repubblica romana, nonchè scrittore e patrono della letteratura e delle arti.

I Valerii risiedevano sulla sommità della collina Velia, e godettero a Roma di straordinari privilegi, tra i quali quello di essere gli unici le cui porte si aprivano direttamente sulla strada; nel circo avevano un seggio speciale a loro riservato. Inoltre potevano seppellire i loro defunti all'interno delle mura della città, privilegio riservato a pochissime famiglie, che mantennero anche quando passarono dall'uso dell'inumazione a quello della cremazione.

Sembra inoltre che durante il periodo di transizione dalla monarchia alla repubblica, i membri della Gens Valeria avessero il privilegio di esercitare i poteri regi, in virtù della loro origine sabina e quindi della loro appartenenza alla tribù dei Tities. Infatti diversi membri della Gens Valeria ebbero diritto di coniare monete, sulle quali troviamo incisi i cognomen Acisculus, Barbatus, Catullus e Flaccus.

Valerio era dunque uomo ricco e influente, di tradizioni repubblicane, di vasta cultura e grande amante delle lettere, ma antecedentemente si occupò di milizia. Nessun romano poteva del resto essere stimato se non aveva servito la patria con onore e dedizione.

In ottemperanza ai suoi ideali repubblicani si unì ai cesaricidi  e nella battaglia di Filippi combatté con Bruto e Cassio. In seguito però cambiò idea e si schierò dalla parte di Antonio, ma poi cambiò idea nuovamente ed entrò nelle file di Ottaviano.

TRIONFO DI CORVINO SUL PALAZZO KRASINSKI (VARSAVIA)
Console nel 31 a.c, assieme ad Ottaviano, prese parte con lui alla Battaglia di Azio contro Antonio. Ottaviano, memore della clemenza di Cesare e facendone tesoro come guida di comportamento, non solo lo perdonò d'aver combattuto contro di lui ma gli affidò addirittura il comando nell'Oriente, anche perchè ne conosceva il valore come generale.

Qui Valerio vinse gli Aquitani in rivolta nel 28 a.c. e per questa vittoria celebrò un trionfo nel 27 a.c. Infine, con l'inizio del principato, abbandonò completamente la politica per dedicarsi alle lettere ad alle arti. Ma prima di ciò ricoprì diverse magistrature per volere di Augusto, che dimostrò ancora una volta di saper perdonare le offese come il grande Cesare.

Nel 26 fu nominato infatti praefectus urbi e nel 2 a.c. propose il titolo di pater patriae per Augusto. Sposò Terenzia, vedova di Cicerone e di Sallustio, e in seconde nozze Calpurnia.

Influenzò considerabilmente la letteratura che incoraggiò. sull'esempio di Mecenate, creando un circolo di letterati. artisti e sapienti, riconosciuto da tutti come il "Circolo di Messalla". Tra gli altri comprendeva Tibullo, Ligdamo e la poetessa Sulpicia, oltre a un giovanissimo Properzio e Ovidio nei promi anni di produzione. Fu amico di Orazio ed Ovidio.

Il suo mecenatismo consisteva nel dare ospitalitù agli artisti, per brevi o lunghi periodi, fornendo cibi, letto, regali, o addossandosi le spese delle pubblicazioni che ovviamente erano trascritte a mano, pertanto costose nella produzione e nel prezzo di vendita. Gli furono dedicati due panegirici, uno nel Catalepton virgiliano e uno nel Corpus Tibullianum.

Lo stile di Messalla è definito nitido e candido da Quintiliano e lo Cicerone ne parla come una delle maggiori promesse dell'eloquenza romana. Appartiene ai poeti di ispirazione neoterica e per questo non richiede agli artisti del suo circolo impegno civile o politico, preferendo ancora una poesia di temi privati ed evasiva.

PARTICOLARE DEL TIMPANO RAPPRESENTANTE
IL TRIONFO DI CORVINO
Tibullo fu l’esponente principale; lo stesso Corpus Tibullianum testimonia dell’attività del circolo. Tibullo, come risulta da due elegie del I libro, fece parte della cohors amicorum, del seguito di Messalla, seguendolo in diverse spedizioni.

Mentre il circolo di Mecenate sembra un’emanazione diretta del principe e della sua ideologia, quello di Messalla ne è più avulso anche se, una volta schieratosi dalla parte del futuro principe, lo servì fedelmente e ne approvò la politica. Tuttavia, ciò non lo indusse mai a farsi aperto propagandista dell’ideologia del principato. Messalla non si staccò mai da Augusto, non gli fu mai ostile, ma volle una propria autonomia privata.

Il legame con Augusto non gli impedì di mantenere una certa indipendenza, come quando nel 26, assunse la carica di prefetto della città (praefectus urbis), dalla quale si dimise dopo soli sei giorni, perché non riteneva di poterla esercitare in piena autonomia. Fu acuto critico letterario, oratore ammirato da Tacito e da Quintiliano per la sua grazia e per la cura formale; scrisse versi leggeri in latino e in greco. Della sua produzione non è rimasto nulla.

Suoi omonimi furono il padre Marco Valerio Messalla Corvino, console nel 61 a.c. e un discendente Marco Valerio Messalla Corvino console nel 58 come collega dell'imperatore Nerone. Una sua parente (forse una sorella) sarebbe la Valeria, sposa di Quinto Pedio, console nel 43 a.c., insieme ad Augusto, che aveva proposto la lex Pedia contro i Cesaricidi.

LEGIO XIV GEMINA MARTIA VICTRIX

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CESARE

La XIV legione fu reclutata da Cesare nel 57 a.c., durante la guerra gallica, prima che attaccasse i Belgi. Cesare cita l'esistenza di una XIV legione nella battaglia contro i Nerviani verso la fine dell'estate di questo anno.

Dopo tre anni e mezzo, questa unità, di ben 7000 uomini, fu distrutta dai Belgi Eburoni, comandati da Ambiorix, nelle prime settimane del 53, attirandoli con false profferte di amicizia. Cesare li vendicò ampiamente, sterminando tutto l'esercito belga. La legio venne ricostituita, e i soldati della nuova XIV ottennero i loro speroni durante l'assedio di Alesia (52).

AMBIORIGE
Durante la guerra civile tra il triunvirato di Cesare e Pompeo Magno, la legione combattè in Spagna nella battaglia di Ilerda nel 49. Nella primavera del 48 si trasferì dall'Italia a Dyrrhachium (Albania) efu certamente presente nella battaglia di Farsalo, quando Cesare sconfisse definitivamente Pompeo.

Più tardi ma sempre nel 48, i soldati tornarono in Italia come pensionati, ma nel 46, poco adattati alla tranquilla vita agreste, chiesero e ottennero di partecipare alla campagna di Cesare in Africa. Si sa che tutti i veterani di Cesare finivano per richiedere di tornare a una legione, tanto erano uniti al loro comandante.

Un'altra XIV legione è citata dopo il 41, non si sa però se fu una nuova creazione (cosa probabile visto che aveva come simbolo il Capricorno, il segno zodiacale di Augusto, o la ricostituzione di una vecchia legione.

Comunque sia, fu usata da Ottaviano per mettere fine all'occupazione di Sesto Pompeo in Sicilia, che aveva messo in pericolo la fornitura di grano per Roma.



OTTAVIANO

EMBLEMA
Dopo che Pompeo era stato sconfitto dal generale di Ottaviano, Marco Vipsanio Agrippa, nel 35, Ottaviano e il suo ex collega e triumviro Marco Antonio entrarono in guerra, che culminò nella battaglia navale di Azio (31), dove Ottaviano sconfisse definitamente il suo avversario. I veterani di Azio erano stanziati ad Ateste nel Veneto.

La XIV, rinforzata con i soldati delle ex legioni di Marco Antonio, chiamata d'ora in poi  'la legione doppia,' venne inviata ad a Illyricum.

Sembra probabile un suo soggiorno molto breve in Gallia Aquitania e Gallia Transpadana.

A Ottaviano succedette Tiberio, sgradevole persona ma generale capace e addirittura geniale.



TOMBA DI GNAEUS MUSIUS DELLA XIV
TIBERIO

Nel 6 a.c.,  Tiberio fu al comando di 8 legioni:

VIII Augusta from Pannonia,
XV Apollinaris,
XIV Gemina
XX Valeria Victrix dall' Illyricum,
XXI Rapax da Raetia,
XIII Gemina
XVI Gallica dalla Germania Superiore
contro il re Maroboduus dei Marcomanni in Czechia;
contemporaneamente,
I Germanica,
V Alaudae,
XVII,
XVIII
XIX muovevano contro Czechia attaccandoli lungo il fiume Elba. Fu una delle più grandi operazioni condotte dall'esercito romano, ma una ribellione in Pannonia ne impedì l'esecuzione. Occorsero 3 anni per domare la rivolta.



LA SCONFITTA DI TEUTOBURGO

Quando poi i romani vennero sconfitti e umiliati nella Foresta di Teutoburgo (Settembre 9 d.c.), durante il rimescolamento delle forze romane dopo il disastro, la legione fu trasferita a Mainz in Germania Superiore, dove stanziò insieme alla XVI Gallica.

La tomba di Gneo Musius risalente alla prima metà del I sec. dc. mostra il portatore dell 'aquila della XIV legione, che morì all'età di 32 anni dopo 15 anni di servizio.

Nella mano destra  ha lo stendardo, nella sinistra uno scudo decorato con lampi. insieme a tante altre lapidi attestala presenza della legione presso Magonza e Wiesbaden.

Nel 21, una subunità della XIV Gemina, se non l'intera unità, fu inviata a domare la ribellione dei Turoni in Gallia, ribellati contro la pesante tassazione romana sotto i due esosi aristocratici Giulio Sacroviro e Giulio Floro.



BOUDICCA
CALIGOLA

Quasi vent'anni dopo, la XIV fu impiegata durante la guerra germanica da Caligola. Secondo le fonti, la campagna di Caligola sulla riva orientale del Reno non era importante, ma reperti archeologici suggeriscono che questo non è vero.

Si è pensato che Caligola avesse chiamato la sua XV nuova legione a complemento della XIV. La guerra fu continuata da Servio Sulpicio Galba (il futuro imperatore), che vinse i Chatti, nei pressi di Magonza, nell' inverno 40/41.



CLAUDIO

TOMBA DI MARCO CELIO CENTURIONE
MORTO A TEUTOBURGO
Nel 43, l'imperatore Claudio invase la Gran Bretagna con:
  •  II Augusta, 
  • VIIII Hispana, 
  • XIV Gemina 
  • XX Valeria Victrix. 
Dopo la prima fase della conquista, XIV Gemina era di stanza a Mancetter nelle Midlands.

Era l'unica legione concentrata su un posto, le altre tre avevano più di una base. Sotto il governatore Ostorius Scapula, la legione XIV fu inviata contro i Cornovians nel nord-ovest, e più tardi dai Deceangi, una tribù nel nord del Galles, poi contro la tribù dei Briganti, nel nord dell'Inghilterra. Quindi fu trasferita nel Lincolnshire.

Nei prossimi dieci anni, la XIV Gemina combattè contro le tribù gallesi: Silures nel sud,  Ordovici e il Deceangi nel nord.

Ebbe sede a Viroconium (Wroxeter sul fiume Severn) rimanendovi per qualche tempo. Quando la regina Boudicca si ribellò nel 60, la legione si comportò valorosamente guadagnandosi il titolo onorifico Martia Victrix ('vittoriosa, benedetta da Marte').

L'imperatore Nerone pensò che quella era la migliore legione che aveva.



NERONE

Nerone organizzò una campagna contro i Parti e la XIV legione venne inviata verso est nel 67, ma la campagna fu annullata e la legione rimase nei Balcani. Al suicidio di Nerone del 68 e succedette il  Servio Sulpicio Galba che ordinò alla XIV Gemina di rimanere sui Balcani.



VITELLIO

Nel gennaio del 69, la guerra civile dei quattro imperatori scoppiò alla rivolta di Vitellio governatore della Germania Inferiore. Galba venne linciato e sostituito da Ottone. La XIV legione dovette scegliere e preferì Otho, ma non arrivò in tempo per la prima battaglia di Cremona, una subunità si battè per il suo imperatore, ma fu sconfitta con le altre legioni ottoniane.
Vitellio, tuttavia, era misericordioso e fece andare la XIV in Gran Bretagna. Nella seconda parte della guerra civile di Vespasiano contro Vitellio la XIV Gemina restò in disparte.

Tuttavia, nel 70, coadiuvò il generale Petillius Ceriale per sopprimere la rivolta batava. La legione marciò così da Boulogne attraverso il paese del Nervi fino a Tongeren e Colonia e partecipò alla battaglia decisiva di Xanten.

Questa volta, la legione non tornò in Gran Bretagna, ma a Magonza, dove condivise il campo con la I Adiutrix. Forse i veterani più anziani ricordarono la fortezza che avevano lasciato 27 anni prima. I soldati prima dovettero ricostruire la fortezza che era stata assediata e dissestata durante la rivolta batava.



DOMIZIANO

La XIIII Gemina dovette partecipare ad ogni campagna sulla riva orientale del Reno negli anni successivi, costruirono pure un ponte sul Reno e ricostruirono il forte romano di Wiesbaden.

Le iscrizioni che citano la nostra unità sono stati scoperti nel bagno.
Nel 73/74, i soldati erano ancora attivi, e dieci anni dopo vennero coinvolti nella guerra germanica di Domiziano.

Quando nell' 89 il governatore della Germania Superiore, Lucio Antonio Saturnino, si rivoltò contro Domiziano, la XIV Gemina e la XXI Rapax si batterono per l'imperatore.

Comunque l'insurrezione cadde nel nulla e le due unità vennero separate, la XXI fu spedita in Pannonia.



TRAIANO

Nel 92 la XXI Rapax venne distrutta dai Daci e la XIIII Gemina fu trasferita in Pannonia per sostituirla, stanziata a Osijek, e poi a Vindobona (Vienna moderna), combattendo contro il Suebes e i Sarmati. Questa guerra continuò durante il regno di Nerva e le guerre grandi daciche di Traiano (101-106), che culminò con la conquista della moderna Romania. I veterani della XIV vennero stanziati in Sarmizegetusa, la capitale delle province conquistate.



MARCO AURELIO

Dopo questa guerra, la legione XIV stanziò a  Carnuntum, a est di Vienna, sul Danubio. Rimase lì per molti anni, anche se subunità erano attive in ​​guerre contro i Mauri durante il regno di Antonino Pio, e prese parte alla guerra contro i Parti di Lucio Vero.

Marco Aurelio condusse la guerra contro i Marcomanni proprio di fronte al Danubio, e Carnuntum era il suo quartier generale.



SETTIMIO SEVERO

LA BATTAGLIA DI TEUTOBURGO
Dopo l'assassinio dell'imperatore Publio Helvio Pertinace nel 193, Lucio Settimio Severo, governatore della Pannonia Superiore, fu proclamato imperatore in Carnuntum.

La XIIII Gemina fu tra i suoi più convinti sostenitori e una parte considerevole della legione partecipò alla sua marcia su Roma contro Didio Giuliano, che aveva nel frattempo preso il trono.

Ma non fece ritorno al Danubio immediatamente, perchè una subunità prese parte alla guerra civile contro un altro rivale di Severo, Pescennio Nero.

I soldati forzarono il cancello Cilicio e combatterono a Isso. E' possibile che abbiano preso parte alle campagne di Severo contro l'impero dei Parti, che culminò nel sacco di Ctesifonte (198).
L'unità deve essere stata attiva in molte occasioni durante il III sec., spesso insieme con la X Gemina (da Vindobona), ma non ce n'è certezza.
Sappiamo di una guerra sotto Gordiano III (238-244) o Filippo l'Arabo (244-249), a cui la legione partecipò, ma pure che l'unità supportò un usurpatore chiamato Regalianus nel 260-261.



GALLIENO

Nel conflitto tra l'imperatore Gallieno (260-268) e il suo rivale Postumo dell'impero gallico, la legione appoggiò Gallieno, per cui si guadagnò il soprannome di Pia VI Fidelis VI (sei volte pia e sei volte fedele).

Ciò dimostra che si era già aggiudicata i titoli da Pia Fidelis a Pia V  e Fidelis V prima, ma non abbiamo idea di quando sia accaduto. Dopo la morte di Gallieno la XIV sostenne l'imperatore gallico Vittorino (269-271).



VALERIANO

Tra il 364 e il 378, l'imperatore Valeriano vinse contro i Marcomanni, usando Carnuntum come base e la XIIII Gemina dovette parteciparvi. Alla fine del IV e l'inizio del V sec., la XIV legione sorvegliava ancora il Danubio a Carnuntum. Dovette sparire quando collassò la frontiera nel 430.
La legione ebbe come simbolo il Capricorno, talvolta l'aquila. Dal III sec. usò solo il Capricorno.

CULTO DI CAELESTIS

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CAELESTIS

"Il filosofo Asclepiade, menzionato nella storia della Magnenzio, venuto qui per visitare l'imperatore Giuliano, posto davanti ai piedi alte della statua di Apollo un'immagine d'argento della Dea Caelestis, che sempre portava con sé ovunque andasse, dopo aver acceso alcune candele di cera, come al solito, se ne andò. Ma dopo la mezzanotte, quando il tempio era deserto, alcune scintille volarono sul legno, che era molto vecchio, e il fuoco subito divenne una torcia e distrusse tutto il tempio di Apollo."

I Romani, nonostante odiassero fortemente i Carthaginesi, identificarono la loro Grande Madre Tanit con la loro Giunone, un aspetto della loro grande Dea protettrice delle nascite, una Dea della Luce che portava la nascita di bambini e animali. Tanit era anche una Dea del Cielo, che i Romani chiamarono Dea Caelestis, o Dea dei Cieli,  o Virgo Caelestis, o Vergine dei Cieli, titoli questi ultimi due che vennero nel cattolicesimo trasferiti alla Madonna.

Le icone più frequenti furono:
1) Dea Caelestis, in posizione frontale, che guida un leone che volge a destra, munita di fulmine e scettro; 
2) Dea Caelestis, rivolta a destra,  che guida un leone che volge a destra, munita di fulmine e scettro; 
3) Dea Caelestis,  in posizione frontale,   che guida un leone che volge a destra, munita di tamburo da guerra e di scettro; 
4) Dea Caelestis,  in posizione frontale, che guida un leone che volge a destra,  munita di tamburo da guerra ma senza scettro. 
Le prime due immagini sono le più comuni, la terza è molto rara, l'ultima rarissima. La direzione della testa della Dea sembra avere un significato cronologico. Esempi con la divinità di fronte sono stati scolpiti fino alla fine del 203, mentre quelli con la divinità volta a destra, si hanno dall'inizio del 204.

A Cartagine si facevano in onore della Dea Caelestis delle scene teatrali erotiche di cui si scandalizzarono molto i sessuofobi Tertulliano e Agostino il santo. In ogni casa, nel mosaico dell'atrio, era posta la sua immagine stilizzata; un cerchio sopra e al centro di un segmento orizzontale sotto al cui centro si dipartiva dal vertice un triangolo isoscele, insomma un pupazzetto con la gonna.

Spesso considerata Paredra di Saturnus, Dio che incarna in Africa l'identità etnico-culturale degli 'indigeni', detta Iuno o Dea Caelestis, essa segue generalmente le orme del suo divino sposo per quanto riguarda i luoghi e certe forme di culto. In quanto divinità femminile, però, essa se ne discosta sotto vari aspetti, dalla tipologia dei fedeli alle particolarità del suo culto, spesso ctonio e misterioso.

Sulle monete del IV e III sec. a.c. ella venne occasionalmente dipinta mentre impugna una lancia e cavalca un leone; generalmente indossava un diadema o una corona, con spighe di grano e un crescente lunare tra i capelli. A Tuburbo Maius. in Tunisia,  esisteva un tempio dedicato alla Dea Caelestis lungo la strada del Decumano della città.

EX VOTO ALLA DEA CAELESTIS. LO SCRITTO RECITA:
"A CAELESTIS VITTORIOSA LOVINUS SCIOLSE IL SUO VOTO"
In una leggenda romana Annibale, il grande generale cartaginese, attaccò un tempio di Juno Lacinia vicino a Crotona, una città del sud Italia fondata dai greci (cioè il tempio di Hera Lacinia). Il tempio era famoso per avere al suo interno una colonna tutta d'oro; Annibale colpì la colonna ma poichè rimaneva solida decise che l'indomani l'avrebbe fatta a pezzi per portarsela via interamente.
Quella notte sognò che la Dea lo avvertiva di non spogliare il suo tempio, altrimenti l'avrebbe accecato. In Juno Lacinia Annibale riconobbe la stessa Dea della sua terra, Tanit, così non toccò la colonna. Dalle limature della colonna fece invece colare l'immagine di una mucca che fece porre in cima alla colonna stessa, un omaggio alla Dea Madre Natura, perchè la Vacca è la natura che alimenta le creature col suo latte abbondante, cioè coi prodotti del suolo.

Tanit si diffuse da Cartagine in Spagna, Malta e Sardinia, specialmente tra i soldati. Il tempio sull'acropoli a Selinunte in Sicilia si dice fosse dedicato a lei, e come Virgo Caelestis ebbe un santuario a Roma sulla parte nord del Campidoglio.
La statua di Tanit venne portata a Roma da Eliogabalo (218-222 d.c.), grande seguace delle divinità orientali, che fece intitolare un tempio a se stesso e vi pose la statua della Dea chiamandola La Celeste.

TANIT


GLI ATTRIBUTI

- il serpente
- la lancia, il diadema
- la corona
- il leone
- la luna crescente
- il melograno
- lo scettro
- il tamburo da guerra



I NOMI

Era chiamata a Cartagine: Tanith, Tent, Thinit, Tinnit, Rat-tanit, o Faccia di Baal, Signora di Cartegine o Signora del Santuario. Dai greci era chiamata Tanis.

I Romani la chiamarono invece: 
Virgo Caelestis 
Dea Caelestis C. VIE 1887 = 16510 (Theveste, Num.) 
Caelestis Afrorum Dea, 
Dea magna Virgo Caelestis 9796 (Safar, Num.)
Caelestis Dea 993 =12454 (Karpis, Afr. procons.)
Dea sancta Caelestis 8433 (Sitifis, Mauret.)
Juno Caelestis
Iuno Aeterea
luno Celestis Augusta C. VHI 1424 (Thibursicum, Afr. procons)
Juno Lucina
Caelestis Urania C. VI 80 (Roma)
Fortunae dea Caelestis C. VIII 6943 (Cirta, Num.)
Domina Caelestis EE. 7, 460 (Grande Cabilia ;Mauret.)
Magna Mater
Rhea
Kybele
Caelestis Augusta

TANIT
Caelestis Augusta redux et conservatrix EE. 5, 948 (Auria, Mauret.)
Numen Caelestis Augustae (Num.)
Diana Caelestis C. XIV 3536 (Tibur, Ital.)
Diana Caelestis Augusta C. Vni 999 (Carhago, Afr. procons.)
Caelestis Diana Augusta C. V 5765 (Mediolanium, Ital).
Venus Caelestis (Pola,Ital.) (Roma)
Venus Caelesta C. X 1596 (Puteoli, Ital.)
Venus Caelestis Augusta C. IX 2562 (Bovianum Undec, Ital).

Spesso era nominata nominata con altre divinita, come:
- Caelestis, Saturnus, Mercurius, Fortuna dii iuvantes (C. Vin 2226 1);
- Caelestis Augusta, Jupiter, Pluto, Saturnus, Victoria Augusta;
- Dea Caelestis et Esculapius (C. Vm16417 =:EE. 5, 1264);
- Caelestis Augusta et Aesculapius Augustus et Genius Carthaginis et Genius Daciarum (C. Ill 993);
- Deus Sol Mithra, Venus felix, Cupido, Caelestis victrix (C. VI 756);

ricorrono in opposizione agli inferi o Manes in una lapide di Lambaesis, nella Numidia (C. VIII 2756 lin. 20)  - Cuius ad-missi vel Manes vel Dii caelestes erunt seelsris vindices.
- Venus Caelestis et Dii
- Omnes Caelestes Dii

FULVIA

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FULVIA CON LA TESTA RECISA DI CICERONE

«Una dominatrice, una donna che non voleva solo comandare su un marito, ma un grande comandante di eserciti». Così lo storico greco Plutarco descrive Fulvia, la terza moglie di Marco Antonio.



LE ORIGINI

Fulvia nacque a Roma, nel 77 a.c. da Marco Fulvio Bambalione, detto anche Tartaglione,  della gens Tuditana, originario di Tusculum, e da Sempronia, discendente di Tiberio Sempronio Gracco. La famiglia era di recente nobiltà, per parte di padre, ma Fulvia. alla morte della madre, ne ricevette la cospicua eredità, divenendo una delle donne più facoltose di Roma. Così il fatto di essersi sposata solo a 22 anni quando le donne romane usavano farlo molto prima, fa pensare a una sua scelta, dato il suo particolare carattere.



IL I MARITO

Sposò Publio Clodio Pulcro, il Bello, colui che osò violare in casa di Cesare, i segreti dei rituali della Bona Dea, travestendosi da donna. Publio apparteneva all’antica e nobile gens Claudia, e si era distinto come traditore della patria, dissoluto, vizioso, sobillatore e violento.
Fulvia seppe però farsi amare o almeno rispettare, forse anche obbedire, fattostà che Clodio la portava con sé ovunque. Tra i suoi amici c'erano due giovani  gaudenti: Caio Scribonio Curione e Marco Antonio. Fulvia li avrebbe, in seguito, sposati entrambi. 

Clodio si fece eleggere tribuno della plebe, carica importante che gli permise di mandare Cicerone in esilio. Poi prese a provocare e spadroneggiare per le vie e le piazze di Roma. Fulvia, popolare per tradizione di famiglia,lo sosteneva attivamente, con la presenza, la passione e i soldi.
Nel 62 a.c. Clodio si avventurò coi suoi lungo la via Appia, lasciando Fulvia a Roma. Fu attaccato e ucciso dalla banda di Tito Annio Milone, seguace del suo avversario Pompeo. Fulvia disperata ma determinatissima convocò tutti gli amici di Clodio e andò a prendersi di prepotenza il cadavere, lo riportò in città e lo fece deporre nella Curia, mostrando le ferite inflittegli a tutti coloro che venivano a visitarne il feretro. Fulvia chiese e ottenne vendetta: in aprile presenziò al processo. La difesa di Milone, fuggito a Marsiglia, era  affidata a Cicerone, grazie al quale, ma pure grazie al diluvio di pianto della vedova Milone fu condannato.
Clodio le aveva lasciato una bambina, Claudia.



IL II MARITO

Fulvia era disperatissima. ma ciononostante iniziò una intensa relazione con Gaio Scribonio Curione e, terminati i dieci mesi dovuti di lutto, lo sposò. Ma Curione morì in Africa nel 49 a.c.;



IL III MARITO

Stavolta Fulvia fece passare degli anni alla sua vedovanza, guadagnandosi però la fama di donna dissoluta e viziosa, dopodichè, nel 44 a.c. sposò Marco Antonio, uomo di pessimi costumi, frequentatore di bordelli e di orge, e ne abbracciò in pieno la causa.

BUSTO DI FULVIA (Louvre)
Dopo la morte di Cesare, Antonio gestì la repressione contro i cesaricidi, ma Fulvia, che non poteva partecipare ai sontuosi banchetti “politici” organizzati dal marito, allestì nella sua casa, l’ex villa di Pompeo, una vera corte. Aveva cacciato gran parte del corteo buffonesco e parassitario che il marito si trascinava dietro e prendeva parte attiva ai giochi politici, tutt’altro che limpidi, di Antonio.

"Nihili muliebre prater corpus gerens" (Nulla di femminile tranne il corpo) è il giudizio espresso su Fulvia dallo storico Velleio Patercolo
Nelle sale di rappresentanza della casa, dove si affollavano amici e postulanti e si decidevano importanti affari di Stato, Fulvia non mancava mai: era lì quando gli ambasciatori della Galazia riottennero, per il loro re Deiotaro, le terre che Cesare aveva già offerto ad altri sovrani dell’Anatolia. I diplomatici versarono alla mediatrice e a suo marito dieci milioni di sesterzi, come raccontò Cicerone.
La tormentata vita coniugale di Fulvia aveva attirato il malevolo giudizio di Cicerone, il quale la sollecitò ironicamente (Filippiche, II, 113) a “liberarsi pure del suo terzo debito verso i Romani”, ossia a liberare i romani dello stesso Marco Antonio.

Antonio e Fulvia furono accusati di far traffico degli atti autentici di Cesare e di non pochi apocrifi. Furono cioè sospettati di gestire il testamento del condottiero in libertà e a proprio vantaggio. Nell’ex villa di Pompeo, si insinuava, il denaro non si contava più, ma si pesava. Fulvia seguiva Antonio ovunque, come aveva fatto con Clodio. Erano insieme a Brindisi, per esempio, quando il console soffocò nel sangue una ribellione di legionari macedoni. Fulvia non solo insistette per la decimazione, ma assistette così vicina da essere schizzata dal sangue dei giustiziati.
Cicerone, nelle sue Filippiche, scritte tra il 2 settembre 44 e il 21 aprile 43, additò Marco Antonio come il principale nemico della libertà di Roma e le pagò con la vita. Fulvia guardò molto soddisfatta la testa di Cicerone appesa al foro a monito dei nemici di Antonio.
Il senato non aveva accolto la richiesta di Cicerone ma aveva tolto al marito di Fulvia tutti gli incarichi per l’anno successivo. La donna, allora, supplicò nelle case degli aristocratici insieme con la madre di Antonio e il figlio Antillo. Quando però in seguito alcune donne facoltose, cui era stato richiesto di consegnare i propri beni, si recarono dalle donne delle famiglie dei triumviri per un aiuto, quando si rivolsero a Fulvia, ottennero insulti e umiliazioni.

Nel 43 i soldati della Repubblica e i veterani di Antonio si scontrarono presso Modena: il grande stratega perse ma riuscì a portare i suoi centurioni in Gallia, accolto dal governatore Emilio Lepido che passò dalla sua parte, anche grazie alla mediazione di Fulvia.  Alla fine si decise di costituire un nuovo triumvirato che fu sugellato dal matrimonio di Claudia, la figlia di Fulvia e Clodio, quasi una bambina, con Ottaviano. Il matrimonio, come il triumvirato, non durò a lungo: Claudia fu rimandata a casa ancora vergine; e  i rapporti tra Fulvia e Ottaviano si guastarono. Quando Cicerone fu decapitato e la sua testa esposta sui Rostra, con la mano destra che aveva scritto le Filippiche. Secondo Appiano la testa rimase esposta anche nella villa di Fulvia, che, ne trafisse la lingua con uno spillone da capelli. Sembra si dovessero alla moglie di Antonio, in quel periodo, un numero incredibile di sentenze di morte, in più le proscrizioni le permisero di raccogliere moltissimo denaro per le successive campagne di guerra. Nell’estate del 42 Fulvia era di nuovo incinta, ma volle accompagnare Antonio all’imbarco a Brindisi.  Da Antonio avrebbe avuto Antillo e Iullo.



I TRADIMENTI DI ANTONIO

La battaglia di Filippi, nell’ottobre 42, segnò la vittoria di Antonio su Bruto e Cassio, la loro morte e la spartizione dell’impero fra i triumviri. Ad Antonio toccò l’Oriente, e qui non perse tempo, allacciando una relazione con la bella Glafira, madre di Archelao Sisines, pretendente al trono della Cappadocia.

Il bell'Antonio era incontenibile, sempre a caccia di donne e di luoghi malfamati,  Fulvia gli aveva imposto di abbandonare la meretrice Volumnia, tra le sue amanti più assidue, ma nulla potè sugli amori levantini del marito.

Antonio in Egitto divenne alleato ed amante di Cleopatra VII , sovrana d’Egitto e già amante di Giulio Cesare. Naturalmente a Roma si seppe ma non fece grande scalpore. Anche Cesare era stato l'amante di Cleopatra, ma non le aveva fatto soppiantare nè Roma nè il posto di sua moglie.

Un epigramma tramandato da Marziale (Ep. XI 20, vv.3-8) insinua che Fulvia avrebbe agìto per gelosia nei confronti di Glafìra, e non di Cleopatra; Plutarco (Vite Parallele, III, 1, Marco Antonio, 10) sostiene, peraltro, che Fulvia aveva sempre desiderato “governare un governante e comandare un comandante di eserciti”, ma la sua influenza sul marito, ad un certo punto, le si sarebbe ritorta contro:  Fulvia avrebbe indebolito Marco Antonio sino al punto di avergli insegnato a “subire del tutto la signoria di una donna” (Plutarco, Idem), ossia la bella Cleopatra.



FULVIA CONTRO OTTAVIANO

Nel 40 a.c., mentre Antonio era in Egitto  Fulvia convinse Lucio Antonio, fratello del triumviro, a proporsi come difensore di coloro che erano stati colpiti da Ottaviano, sia direttamente con le proscrizioni, sia indirettamente con gli espropri necessari a trovare le terre per i veterani.

FULVIA
In un primo momento le truppe di Fulvia e Lucio occuparono l’Urbe ma furono messe in fuga e si ritirarono a Preneste (Palestrina). Il conflitto ha preso il nome di guerra di Perugia, dove si svolse lo scontro decisivo, ma le battaglie furono diverse. Fulvia, racconta Dione Cassio, "cingeva lei stessa la spada, dava la parola d’ordine ai soldati e spesso arringava le truppe". Alla fine i due cognati si arroccarono a Perugia e aspettarono Marco Antonio, con le sue truppe, tutto l’inverno.
Marco Antonio non arrivò mai.
Riuscita a fuggire dopo la caduta della città, si recò a Brindisi, qui  Fulvia scelse con i suoi figli l’esilio volontario in Grecia e lasciò l’Italia insieme con un certo Planco, che Velleio Patercolo definisce, «suo compagno di fuga».

Alcuni storici sostengono che Fulvia pensasse che Antonio fosse legato a Cleopatra solo da ragioni politiche e per questo lo lasciasse fare. Comunque solo attraverso Fulvia e suo fratello Lucio, console nel 41, Antonio mantenne il suo potere su Roma. Almeno fino a quando moglie e fratello non scatenarono una guerra civile contro i seguaci di Ottaviano.
Fulvia raggiunse Marco Antonio ad Atene, ma il marito la rimproverò duramente per avergli causato il grave problema della guerra con Ottaviano, tanto che Fulvia si ammalò. Antonio lasciò la moglie a Sicyon, mentre lui proseguiva per Brindisi dove pose l’assedio contro Ottaviano. Ma misteriosamente e all’improvviso, Fulvia morì a Sicione, nel Peloponneso. Secondo Dione Cassio a ucciderla fu il dolore dell’amore tra Antonio e Cleopatra.
Sulla sua morte William Shakespeare fa dire a Marco Antonio:
«Ora che se n’è andata, ella m’è cara,
e la mano che un giorno la respinse
vorrebbe ora riprenderla con sé
...».

Difficile che Antonio abbia pianto, perchè si affrettò a far la pace con Ottaviano, gettando su Fulvia tutte le colpe. Secondo Dione Cassio (Storia di Roma, XLV, 33,3), Ottaviano ed Antonio “deposero le armi e vennero ad un accordo perchè era stata Fulvia ad alimentare in passato la loro inimicizia
Ora vedovo, Antonio poté comunque sancire l'accordo con Ottaviano sposandone la sorella Ottavia Minore.Fulvia aveva dato ad Antonio due figli: Marco Antonio Antillo, che venne ucciso per ordine di Ottaviano dopo la sconfitta del padre, e Iullo Antonio, che invece si salvò e venne accudito dalla sorella di Ottaviano, che lo fece con grande affetto.

GENS POMPEIA

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POMPEI

La gens Pompeia (nomen Pompeius), fu una gens  plebea che secondo alcuni studiosi derivò il nome, come del resto la Gens Pompilia, dall'antica radice indoeuropea Pumpu/funf, che significa "cinque/quinto" che sarebbe la forma più arcaica del latino Quintus, o Quintilius, nome dato spesso al quinto figlio, quando il senso della genitorialità era un po' scarsa e i figli si facevano in quantità senza dargli l'mportanza che spinge a dare un nome a un essere.
Si ha però l'impressione che i nomi, seppure esistenti, di Primo, Secondo, Terzo e Quarto siano rari, mentre sono frequenti Quinto, Sesto, Settimo, e Ottavo (Quintus, Sestius, Settimiius, Octavius), il che fa pensare che al contrario questi nomi fossero un'ostentazione, perchè all'epoca avere braccia per l'agricoltura e combattenti per le guerre fosse un potere.

Secondo altri il nome della gens Pompeia proviene invece dalla radice indoeuropea Penkwe, da cui deriverebbe pentagramma, pentacolo ecc., però penta è una radice greca.
Per giunta il nomen Quinto era ricorrente tra i Pompe, che si sarebbero chiamati Quinto Quinto, e la ripetizione in lingua indoeuropea e in latino lascia un po' perplessi.

Per altri ancora la gens Pompeia, discendente dagli Oschi primi popoli italici, si stabili nella futura Pompei, a cui naturalmente dette il nome, nella seconda metà del VII sec. ac., anche se le prime tracce visibili appaiono nel VI sec. ac., con un piccolo agglomerato di case intorno al centro commerciale. Essendo un nodo commerciale tra nord e sud il centro si arricchì di persone e di beni, finchè con l'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. venne sommersa sotto 7 m di cenere e lapilli. Ma la gens Pompeia si 
era sparsa in diverse città, ma soprattutto a Roma.

AUREO CONIATO DA SESTO POMPEO


GLI ESPONENTI PIU' IMPORTANTI

- Quinto Pompeo, console nel 141 ac., condusse senza successo la guerra contro Numanzia e concluse coi Numantini, l'anno seguente, un trattato che il senato respinse come disonorevole. Più tardi accusò Tiberio Gracco di aspirare al potere. Pompeo e Metello furono (131) la prima coppia di censori plebei.

- Quinto Pompeo, figlio del precedente, tribuno della plebe (130-132 ac.), avversario di Tiberio Gracco (Plut. Tiberius Gracchus)

Aulo Pompeo, figlio del precedente, eletto tribuno nel 102 ac., moglie sconosciuta, ebbero come figlio Quintus Pompeius Bithynicus. Come narra Diodoro Siculo, Aulo morì nello stesso anno, apparentemente per una maledizione scagliatagli da Battaces, un sacerdote frigio. Quest'ultimo venuto a Roma come ambasciatore dal tempio della Grande Madre di Pessinus, e Aulo Pompeo, come Tribuno, gli proibì di indossare una corona d'oro che faceva parte delle sue insegne sacerdotali. Ciò provocò un acceso dibattito tra i due sulla tribuna dei Rostra, durante il quale Battaces maledì Aulo per aver insultato la Grande Madre. Aulo fu immediatamente colpito da una febbre bruciante dopo di che perse la voce e morì il terzo giorno. Il popolo di Roma visto i risultati della maledizione e a Battaces venne consentito di indossare i suoi abiti cerimoniali, ottenendo rispetto e onore da tutti i romani.

Gneo Pompeo Strabone, questore in Sicilia nel 104 ac, console nel 89 ac, padre di Pompeo Magno, disponeva di ampia clientela nel Piceno, acquisita nella Guerra Sociale.

Sesto Pompeo, fratello di Pompeo Strabone, si tenne lontano dalla politica e si occupò di studi giuridici e matematici (Cic. Brutus)

Gneo Pompeo Magno il triumviro 106 - 48 ac., figlio di Pompeo Strabone

Pompea, figlia di Quinto Pompeo Rufo, nipote di Silla, terza moglie di Cesare dal 68 al 62 ac. Più giovane di lui di 14 anni, fu ripudiata perché sospettata di averlo tradito. Fu accusata, essendo Sacerdotessa della Dea Bona, di aver fatto entrare il suo amante Publio Claudio Pulcro, nel luogo ove si svolgeva una festa in onore della dea, festa riservata alle sole donne. Nel processo Cesare si disse convinto della sua innocenza e ed affermò di averla ripudiata perché sua moglie doveva essere "al di sopra di ogni sospetto"

- Quinto Pompeo Rufo, sostenitore del dittatore Lucio Cornelio Silla, Cicerone scrisse che Pompeo fu uno degli oratori che aveva sentito in gioventù. Fu tribuno della plebe 100 ac., divenne pretore nel 91 ac. e console nel 88 ac. assieme a Silla. Dopo gli scontri provocati dal tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo che videro la morte di suo figlio fuggì a Nola, dove incontrò Silla e il suo esercito. Silla prese il comando nella guerra contro Mitridate e lasciò Pompeo in carica dell'Italia. Dopo ciò il senato ordinò al console dell'anno precedente Gneo Pompeo Strabone, padre del più famoso Gneo Pompeo, di consegnargli l'esercito. Ma Strabone, contrariato, prima di consegnargli l'esercito fece uccidere Quinto nell'87 ac.. Silla non vendicò il sostenitore perché era in viaggio per la Grecia e perchè non fu mai un generoso. Il figlio aveva sposato la figlia di Lucio Cornelio Silla, Cornelia, avuta dal matrimonio con la zia di Giulio Cesare, Iulia minore.

- Quinto Pompeo Rufo, figlio del precedente, genero di Silla, e padre di Pompea, seconda moglie di Giulio Cesare. Venne ucciso durante i tumulti dell'88. (Plut. Sulla)

- Quinto Pompeo, figlio del precedente, nipote di Silla, fu partigiano di Pompeo Magno, che fu però costretto ad inviarlo in esilio nel 52 ac. a causa dei suoi eccessi. Fratello di Pompea, moglie di Cesare.

Quinto Pompeo Bitinico, ovvero Quintus Pompeius Bithynicus, amico di Cicerone, riordinò la Bitinia sotto forma di provincia e morì nel 48 ac. accanto a Pompeo Magno di cui era parente.

Gneo Pompeo Strabone, questore in Sicilia nel 104 ac, console nel 89 ac, padre di Pompeo Magno, disponeva di ampia clientela nel Piceno, acquisita nella Guerra Sociale.

- Sesto Pompeo, fratello di Pompeo Strabone, si tenne lontano dalla politica e si occupò di studi giuridici e matematici (Cic. Brutus)

Gneo Pompeo Magno il triumviro 106 - 48 ac., figlio di Pompeo Strabone

GNEO POMPEO MAGNO
- Gneo Pompeo Magno (il giovane), figlio del triumviro, sconfitto da Cesare nella Battaglia di Munda nel 45 ac. ucciso mentre fuggiva. VEDI

Aulo Pompeo Bitinico, figlio di Quinto Pompeo Bitinico e di madre sconosciuta. Alla morte di Cesare, nel 44 a.c. egli era pretore in Sicilia e suo padre chiese a Cicerone la protezione di suo figlio, cosa che Cicerone accordò. Pompeo era contro la politica ribelle di Sesto Pompeo, che aveva il controllo di Messina, controllo che comunque poi gli accordò a patto di avere una pari carica con lui sul territorio, Sexto però ordinò che fosse messo a morte e così fu.

- Sesto Pompeo Magno,
Il figlio minore di Gneo Pompeo Magno e della sua terza moglie, Mucia Terzia. Il fratello maggiore era Gneo Pompeo, figlio della stessa madre. Quando Cesare traversò il Rubicone nel 49 ac., e iniziò la guerra civile, Gneo seguì il padre in Oriente, insieme ai senatori conservatori, mentre Sesto rimase a Roma, prendendosi cura della matrigna, Cornelia Metella. L'esercito di Pompeo perse aFarsalo nel 48 ac. e Pompeo Magno dovette fuggire. Cornelia e Sesto lo incontrarono nell'isola di Mitilene e insieme fuggirono in Egitto, ma qui Sesto assistette all’assassinio del padre, per ordine del fratello di Cleopatra, re Tolomeo XIII nel 48 ac.
L'anno seguente Sesto si coalizzò contro Cesare in Africa con Cecilio Metello Scipione, Catone Uticense, il fratello Gneo e altri senatori. Cesare vinse a Tapso nel 46 ac. contro Metello Scipione e Catone, che si suicidò. Nel 45 ac. in Hispania Cesare batté a Munda anche Gneo e Sesto. Gneo fu giustiziato, mentre Sesto riuscì a fuggire in Sicilia.
Dopo l'assassinio di Cesare del 44 ac. il Secondo triumvirato di Ottaviano, Marco Antonio e Marco Emilio Lepido, giurarò di vendicare Cesare.
Contro di loro il senato pose Sesto Pompeo come prefetto della flotta romana che riunì a Massilia. Dopo la sua proscrizione per effetto della lex Pedia, Sesto salvò molti altri fuggiaschi e si diresse in Sicilia, conquistando l'isola all'inizio del 42 ac, Ottenne così la supremazia sui mari, controllando Sicilia e Sardegna e bloccando i rifornimenti nella penisola.
Ottaviano provò a conquistare la Sicilia, ma fu sconfitto sullo stretto di Messina nel 38 e nel 36 ac., finchè Marco Vipsanio Agrippa, un brillante generale di Ottaviano distrusse la flotta di Sesto nella battaglia di Nauloco. Sesto fuggì in Oriente ma fu catturato a Mileto nel 35 ac. e giustiziato senza processo, un atto illegale giacché era cittadino romano, per ordine di Marco Tizio, un subordinato di Antonio: aveva poco più di trent'anni. Questa morte fu in seguito rivendicata da Ottaviano su Antonio.

- Pompea, figlia di Gneo Pompeo Magno il triumviro, sposata a Fausto Cornelio Silla che dichiarò al senato, quando abdicò alla dittatura, di aver sempre avuto per amante un attore di teatro. Accanto a un marito non solo traditore, non solo probabilmente gay e non bisessuale, ma soprattutto con un uomo estremamente crudele, non deve aver avuto una vita piacevole.

- Gneo Pompeo, console suffetto nel 31 ac.

Sesto Pompeo Giusto, console nel 14 dc., amico di Ovidio, a noi noto soprattutto attraverso una lastra marmorea con iscrizione funeraria metrica conservata sul lato sinistro della via Appia, nei pressi del luogo di rinvenimento. Parzialmente ricomposta da 35 frammenti, murata su di una quinta laterizia, fu voluta dal Canina di fronte alla camera funeraria ipogea del sepolcro dei figli di Sesto Pompeo Giusto. I versi sono di rara sensibilità.
"Giacciono qui sorella e fratello che continuano a vivere, disgrazia del padre, un crudele destino li rapì nella prima giovinezza. Pompea, di cognome Eleutheris, si unisce alla tomba ed anche il fanciullo, che gli spietati Dei strapparono alla vita. Sesto Pompeo, figlio di Sesto, dall’illustre soprannome Giusto, che il nostro animo tenne in considerazione con grande amore. Infelice genitore affranto per tale duplice scomparsa, il quale diede sepoltura ai figli, dai quali, invece si sarebbe aspettato di riceverla cosicché il fato invidioso, dalle radici trasformi in Lari la perduta risorsa (il figlio) e, dopo, la gioia della figlia, poi morta. Quanta rettitudine giace qui, quanto sentito amore è sepolto, maturi nello spirito, ma perirono precocemente.
Chi non potrebbe piangere le mie disgrazie e non se ne dorrebbe? In quale modo potrei continuare a vivere dal momento che ho dovuto accendere qui per due volte le pire funebri ? Se esistono gli dei Mani, voi appena nati avete già un’autorità divina; Perché tramite il vostro intervento non giunge l’ora della mia morte?
"

- Pompeo Varo, a cui Orazio dedicò un'ode (Or. Odi 2,27)
Tu, che sei tra miei più fidi, / Con cui vidi / Il crudel fato vicino, / Seguitando le Romane / Armi insane, / Torni al popol di Quirino? / Teco spesso il dì nojoso / Fei giojoso / Col vuotar lieto, e contento / Colme tazze, e il crine ungendo, / E spargendo / Di odoroso, Assirio unguento.
/Teco vidi il fiero campo, / E lo scampo / A me diè fuga veloce, / Quando fu virtude vinta,
/ E respinta / Fu la gente aspra, e feroce. / Ma Mercurio in nuvol nero / Al guerriero
/Popol volle me atterrito / Toglier, te trasportò l'onda / Furibonda / Fra le turme, e il ferro ardito.
/ Dunque a Giove umil, devoto / Sciogli il voto, / E dipoi l'affaticato / Fianco posa sotto l'ombra,
/Da te sgombra / La tristezza, e il tedio odiato. / Nei bicchier politi, e mondi / Vino infondi,
/E l'unguento, che odor spande / Da capace conca e tersa / Lieto versa; / Chi di fior verdi ghirlande
/Vorrà tesser? Citerea / Alma Dea / Cui darà il Lenèo comando? / Non sarò men di Baccante
/ Folleggiante, / Teco i calici vuotando
. - Trad. Leopardi.

- Pompeo Grofo, amico di Orazio (Or. Odi 2,16)

- Gaio Pompeo Longo Gallo, console 49

- Sesto Pompeo Collega, console nel 93

MONUMENTO FUNEBRE A SESTO POMPEO GIUSTO
Gneo Pompeo Trogo, storico del I sec., della Gallia Narbonense; appartenente all’aristocrazia ellenizzata che aveva collaborato con i romani ottenendo la cittadinanza. Il nonno aveva combattuto per Pompeo Magno diventandone cliens col privilegio di fregiarsi del suo nome, mentre il padre aveva seguito Cesare in Gallia.
La sua opera principale è le Historiae Philippicae, una storia universale che andava da Babilonia fino ai suoi tempi. Ne conosciamo solo un compendio di un certo Marco Giuniano Giustino del II o III sec., che ha estratto a suo piacimento i principali punti dell'opera di Trogo.
L'opera è una storia dell'oriente che si rifa alla dinastia macedone, e i suoi eroi sono Filippo ed Alessandro, Pirro, Annibale e Mitridate. Trogo rivendica alla Macedonia e all'Oriente un ruolo di primo piano nella storia antica, poiché era la parte dell'Impero economicamente e culturalmente più evoluta. Lo storico cerca di sminuire l'importanza di Roma, criticandone la politica proprio quando Roma appariva più forte e saggia, e svalutandone l'imperialismo. La sua narrazione tende al patetico, con infinite ripetizioni ad effetto.

Quinto Pompeo Falcone, console nel 108, combattè in Dacia con Traiano. Presso la Casilina, Via Villabate, esiste la località Grotte di Pompeo dove sono conservati i ruderi di una cisterna sotterranea che serviva un’ampia villa. Il nome della località, corrotto in epoca medioevale in Mompeo e poi Monte di Pompeo, sembra derivare da Quinto Pompeo Falcone, che ebbe una villa con possedimenti in zona.

- Quinto Pompeo Sosio Prisco, console 149 con il collega Servio Cornelio Scipione Salvidieno Orfito.

Marco Pompeo Macrino, anno di Cristo 164, Sotero papa, Marco Aurelio e Lucio Vero, Consoli Marco Pompeo Macrino e Publio Juvenzio Gelso.
"Cangiossi finalmente nel presente anno in ridente il volto finora bieco della fortuna verso de’ Romani. A Stazio Prisco riuscì di prendere Artasata città dell’Armenia, di mettere guarnigione in un luogo, appellato di poi Città-Nuova, perchè Marzio Vero, a cui fu dato il governo di quella provincia, fece di quel luogo la prima città dell’Armenia. Allorchè esso Marzio giunse colà, trovò ammutinate quelle milizie, e colla sua prudenza le pacificò. Nelle medaglie di quest’anno si fa menzione dell’Armenia vinta, dell’Armenia presa. E più di una vittoria convien dire che riportassero i Romani in quelle parti, perchè osserviamo che i due Augusti presero in quest’anno per due volte il titolo d’Imperadore, segno appunto di vittoria. Quel che è più, tanto Marco Aurelio, che Lucio Vero, furono proclamati Armeniaci."

- Quinto Pompeo Senecio, console nel 169 con il collega Roscio Murena Celio.

- Quinto Pompeo Sosio Falcone, console nel 193 con il collega Gaio Giulio Erucio Claro Vibiano.

Sesto Pompeo Festo, ovvero Sextus Pompeius Festus; del II sec. dc., grammatico romano forse della Gallia nerborense. Scrisse il De verborum significatu, dizionario enciclopedico in 20 libri (uno per lettera) in cui sono raccolti dati di storia, società, Religione Romana, geografia, di Roma o d'Italia, raccogliendo fonti più antiche, ora in gran parte perdute, che alla fine dell'età repubblicana confrontavano le istituzioni e gli usi del passato con quelli contemporanei. Numerose le citazioni da Marco Terenzio Varrone e da Verrio Flacco. Dei vocaboli trattati si danno spiegazioni etimologiche, notizie grammaticali e narrazioni della mitologia romana o di avvenimenti storici, informazioni sulle feste religiose e le istituzioni politiche e sociali.
Il testo originale, in gran parte perduto, è noto per un manoscritto dell'XI sec., mancante fino alla lettera M, riscoperto alla metà del XV sec.. Successivamente il manoscritto perse altre parti a causa di un incendio. Parte del materiale perduto venne ricostruito tramite copie rinascimentali, o da citazioni di autori dell'epoca, precedenti ai danni.
L'opera ci è tramandata anche in un'epitome, cioè un compendio "Excerpta ex libris Pompeii Festi de significatione verborum" di Paolo Diacono, sulla base forse di un manoscritto conservato nella biblioteca dell'Abbazia di Montecassino. Nell'epitome, tuttavia, come si può notare dal confronto con le parti ancora conservate del testo originale, e come del resto dichiara lo stesso autore nella dedica iniziale, sono state tagliate molte delle voci e delle citazioni di altri autori, mentre altre parti sono state modificate perché sembravano poco chiare.

Pompeo Probo, ovvero Pompeus Probus, del IV sec. d.c., fu un politico dell'Impero romano, legato alla corte d'Oriente.Intorno al 307 fu inviato insieme a Licinio da Galerio presso Massenzio. Tra il 310 e il 314 fu prefetto del pretorio in Oriente. Venne eletto console nel 310, ma essendo legato alla corte d'Oriente, la sua nomina non fu riconosciuta né da Massenzio, che all'epoca governava Roma, né da Costantino I, che regnava sulle Gallie, e il suo potere fu esercitato dunque solo in Oriente.


EMILIA PAULLA ( 230-163 a.c.)

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Nome: Aemilia Paulla
Nascita: 230 a.c.
Morte: 163-162 a.c.
Marito: Scipione l'africano








Aemilia Tertia, meglio conosciuta come Aemilia Paulla (c. 230-163 o 162 ac), fu la moglie di Scipio Africanus (Scipione l'africano), grande generale e politico romano.

Fu la III figlia (almeno sopravvissuta) di un altro importante generale: Lucius Aemilius Paullus (console nel 216 ac. ucciso nella Battaglia di Canne), e sorella di un altro generale romano: Lucius Aemilius Paulus Macedonicus (console nel 182 e nel 168 ac).

Si dice che il nome Tertia non significava necessariamente che avesse delle sorelle. Infatti i nomi si ripetevano nei discendenti, così Ottaviano non era l'ottavo figlio di Azia, ma ripeteva il nome di un avo.

Ma c'è un particolare, le donne romane in realtà non avevano un nome, bensì assumevano quello della gens, quindi questa teoria non è veritiera.

Lo storico Valerius Maximus la chiama "Tertia Aemilia, moglie di Scipio Africanus e madre di Cornelia". Aemilia non si sa se ebbe sorelle vive, visto che la mortalità infantile all'epoca era altissima. Le figlie di Emilia furono Cornelia Africana Major e Cornelia Africana Minor, e la più giovane fu più famosa della maggiore e della madre.



MATRIMONIO

Si fece probabilmente tra il 213 e il 210 ac (quando Scipio andò prima in Sicilia e poi in Spagna). Aemilia Tertia e Scipio Africanus ebbero un matrimonio prolifico, (Livio e Polibio), e pure felice.

Ebbero due figli e due figlie, di cui la più giovane fu Cornelia, madre dei Gracchi.
Per quanto la moglie si dedicasse alla più ricca vita mondana e molti rimproverassero Scipione di questo, egli difese sempre sua moglie.

TRIONFO DI EMILIO PAOLO


CARATTERE DI EMILIA

Aemilia Tertia era presumibilmente di una disposizione molto mite, ma era fieramente fedele a suo marito che ha sconvolto molti Senatori, sfidando i vecchi capi nella loro strategia militare, e Romani conservatori per la sua adozione di alcune parti dello stile di vita greco. 

Lo storico greco Polibio, che visse nella casa di suo fratello Macedonicus Lucio Emilio Paolo per qualche tempo, e che quindi è stato un testimone oculare, scrisse di Aemilia Tertia:
:"Questa matrona chiamata Aemilia, usò mostrare grande magnificenza quando lasciò la casa per partecipare alle cerimonie cui attendono le donne, essendo patecipe della fortuna di Scipione quando era al massimo della prosperità. .. A parte la ricchezza dei suoi vestiti e dei suoi ornamenti, tutti i cesti, le tazze, e altri utensili dei sacrifici erano d'oro o d'argentor, e la seguivano in tutte le solenni occasioni, .. ma anche il numero di servi e schiavi era adeguatamente grande". (Polibio, Book 31)

Emilia è una delle poche donne romane a noi note della Media Repubblica perchè in quel periodo, gli ultimi decenni della Media Repubblica, ebbe una libertà e ricchezza insolita per una donna patrizia sposata, entrambe procuratele da un marito insolitamente liberale. A causa della sua insolita ricchezza e la libertà, nonchè del suo comportamento, ella fu un modello di emancipazione per molte donne romane, proprio come sua figlia Cornelia, madre dei Gracchi, sarebbe stato un modello importante ma non troppo evoluto per molte nobildonne romane tardo-repubblicane.

Secondo le varie fonti, Emilia era gentile, di buone maniere, e fieramente fedele al marito. Valerio Massimo riferisce un incidente in cui Scipione la tradiva con una delle proprie serve, ma Emilia scelse di non rendere pubblica la questione. Valerio Massimo e Plutarco avrebbero considerato tale comportamento protettivo per l'onore di Scipione, che non fu sconfessato da sua moglie. 

Il sesso coniugale era considerato essenzialmente procreativo nella Medio-Repubblica Romana. L'anno dell'incidente dovette essere il 191 ac. o il successivo, in cui Emilia era incinta del suo bambino più piccolo o aveva partorito da poco. Secondo Valerio Massimo il fatto che Emilia scegliesse di non esporre l'infedeltà del marito fu o per risparmiargli l'imbarazzo, o il suo desiderio di evitare imbarazzi per se stessa. 

Una moglie romana non poteva aspettarsi fedeltà dal marito, e la sua cattiva condotta sia a casa che fuori non era motivo di divorzio. Inoltre, divorziando da suo marito (o meglio, il divorzio in quel periodo), una donna perdeva la custodia dei suoi figli e di solito doveva tornare a casa di suo padre o fratello. Il marito potrebbe mantenere la maggior parte della sua dote, in modo da Emilia potrebbe ottenere non più di un quinto della sua dote. Aemilia, la cognata Papiria Masonis era divorziata c. 183 ac dal marito, semplicemente perché era stanco di lei. Era del tutto irreprensibile, dopo averlo dotato di due figli e due figlie, e la sua castità non era in discussione. Dopo il divorzio, visse in ristrettezze, e senza i suoi figli che rimasero con il padre.

Fonti come Polibio sottolineano anche il suo amore per il lusso e la sua stravaganza, guidava un carro speciale per processioni religiose femminili, con la partecipazione di un gran numero di servi. Una fonte sostiene avesse buon gusto, anche se acquistò opere d'arte stravaganti.



VALERIO MASSIMO

Nacque a Roma nel I secolo a.c. e morì a Roma nel 31 dc. e fu uno storico, di famiglia povera, che scrisse un manuale di esempi retorico-morali, il " Factorum et dictorum memorabilium". Opera erudita di carattere divulgativo,  che raccoglieva fatti e aneddoti ripresi da fonti diverse con carattere moraleggiante. Per questa ragione si continuò a citarlo nei secoli futuri, perchè lo stile e i contenuti erano in realtà modesti.

Come quasi tutti i moralisti Valerio temeva le donne e la loro libertà, per cui qualche dubbio su di lui è lecito. Egli scrisse che Emilia non divulgò il tradimento di Scipione per evitargli un discredito. Ma a Roma i mariti tradivano continuamente le mogli, e se per giunta avveniva con una schiava il tradimento neppure contava. Ma ammesso che così fosse, se discredito c'era, chi l'aveva divulgato visto che i coniugi l'avevano taciuto? E poi da quali fonti l'aveva tratto Valerio visto che dal fatto erano passati quasi due secoli?

Ancora: teniamo presente che Scipione venne osteggiato parecchio dagli altri nobili arrivisti, perchè la sua gloria e la sua notorietà erano straordinarie e pure pagatissime. Gli si rimproverò pertanto tutto il rimproverabile, e pure che sua moglie viveva in grande lusso. Perchè non avrebbe dovuto visto che Scipione era ricco? Perchè per i romani dare troppo alle mogli era sbagliato, la donna doveva essere sfruttata e relegata, ci vorrà l'illuminatissimo Augusto a concederle una libertà che le fu poi tolta, alla caduta dell'impero, per quasi duemila anni.



SCIPIONE
MORTE DI SCIPIONE

Scipione morì di malattia nel 183 ac, dopo essersi ritirato nella sua casa di campagna a Liternum nel 185 ac.

Durante i suoi ultimi anni, scrisse le sue memorie in greco, opera scomparsa, così come è scomparsa la storia della sua vita scritta da Plutarco. Gli sopravvissero la sua vedova e quattro figli, suo fratello Scipione Asiatico, anche se in disgrazia politica.

Secondo Polibio, Scipione fece generose disposizioni per la sua vedova, per assicurare che avrebbe mantenuto la stesso stile di vita che era abituata come sua moglie. Inoltre concesse alle sue figlie 50 talenti d'argento ciascuna, che era una dote molto grande per l'epoca. Anche questo fece scalpore: e a chi avrebbe dovuto lasciare i soldi Scipione se non alla moglie e ai figli?



EMILIA VEDOVA

Aemilia Tertia sopravvisse al marito e ad entrambi i suoi figli. Aveva due figlie superstiti alla sua morte, avvenuta intorno al 163-162 ac.

Continuò il suo lussuoso stile di vita, nonostante la vedovanza, garantita, come si disse, dal reddito generoso per volontà del marito. Ma se era sua moglie perchè non avrebbe deovuto? Semplice, perchè piuttosto avrebbe dovuto dare la maggior parte dei suoi beni a parenti maschi, e non alle donne, anche se erano moglie e figlie.

Tuttavia nel 169 i romani votarono la Voconia lex, che vietava alle donne di ereditare tanto da trasmettere la propria ricchezza per le femmine), insomma le donne non potevano disporre dei loro beni. Alla sua morte, il suo erede e nipote d'adozione, Scipione l'Africano II, o Scipione il Giovane (meglio noto ai romani come Scipione Emiliano) li diede però a sua madre Masonis Papiria, che era divorziata dal padre biologico L. Emilio.

Alla sua morte, passò quegli stessi beni oltre alle due sorelle biologiche: Aemilia Paulla Prima, moglie di Marcus Porcio Catone Liciniano ed Aemilia Paulla Secunda, moglie di Quinto Elio Tuberone. (Polibio, libro 31:.... 28, Plutarco Aem 2; Liv XXXVIII 57).
Nonostante la sua ricchezza e stile di vita confortevole, i suoi ultimi anni devono essere stati molto amari per la morte di entrambi i suoi figli..



I FIGLI

Aemilia Paulla e Scipio Africanus ebbero 4 figli sopravvissuti, due maschi e due femmine. Entrambi i figli non riuscirono a diventare consoli, anche se entrambi divennero pretori nel 174 ac. Il più grande deve essersi sposato ma non se ne hanno notizie; il più giovane cadde nella dissolutezza e non si sposò mai. Entrambi soffrivano di problemi di salute che impedirono loro di intraprendere la carriera militare.

Le figlie andarono meglio, con la concessione 50 talenti d'argento in dote, una somma molto grande, di cui la metà fu versata immediatamente dopo il loro matrimonio e l'altra metà in scadenza entro tre anni dalla morte della madre.


Publio Cornelio Scipione l'Africano (m. 174 ac), divenne un sacerdote o Augur nel 180 ac (come lo zio materno), flamen Dialis o sacerdote di Giove (secondo la sua iscrizione tomba), e divenne  pretore nel 174 ac. Alcune fonti sembrano implicare che era sposato, ma la moglie, se esistè, è senza nome. Sembra sia morto dopo il 174 ac, e probabilmente prima del 167 ac (Battaglia di Pidna) in cui Scipione Emiliano è già noto come il figlio adottivo. Egli era certamente morto del 163 -162 ac, quando sua madre morì, lasciando i suoi soldi al figlio adottivo ed erede. La data della sua adozione di Scipione Emiliano è sconosciuta, ma probabilmente tra il 174 e il 167 ac, quando il fratello era probabilmente morto.


Lucio Cornelio Scipione (m. 174-170 ac), condusse una vita dissoluta, e fu espulso dal Senato l'anno in cui fu eletto pretore. (Livio) Questo figlio è più noto per essere stato catturato dai pirati c. 192-191 ac, e di essere rilasciato senza riscatto prima della battaglia di Magnesia, che avrebbe causato i suoi problemi politici al padre. La data della morte è sconosciuta, ma probabilmente morì tra il 174 e il 170 ac. Nessuna moglie venne menzionata da qualsiasi storico romano, e probabilmente morì celibe.


Cornelia Africana Major (m. 174 ac), la figlia più grande di Emilia, nacque nel 201 ac; la sua data di morte è sconosciuta, si sposò nel 182 ac,a giudicare dal l'anno in cui il figlio è diventato console. Suo marito era cugino di secondo grado. Non si sa se questo è stato il primo matrimonio tra cugini della gens stessa (una pratica che sarebbe stato in precedenza evitato per motivi di consanguineità), o se tali matrimoni non erano completamente sconosciuti prima del matrimonio di Cornelia. Scipione Nasica Corculum, console nel 162 e nel 155 ac, censore nel 159 ac, e in seguito Princeps Senatus finchè fu deposto, cioè non scelto ancora una volta, e Pontifex Maximus fino alla sua morte, avvenuta nel 141 ac..
Suo marito era il figlio del console omonimo del 191 ac, che era lui stesso figlio di Scipione zio paterno maggiore Gneo Cornelio Scipione Calvo), il suocero e il marito erano entrambi illustri giuristi. La data della morte di Cornelia Maggiore non è nota. Ebbe come figlio superstite, Scipione Nasica Serapio, anche console e Pontifex Maximus 141-132 ac,. Scipione Nasica Serapio è meglio conosciuto per il suo ruolo nella morte di suo cugino Tiberio Gracco nel 133 ac. Questo nipote lasciò discendenti di cui il più illustre della tarda repubblica fu Metello Scipione e sua figlia Cornelia Metella (che morì senza figli). Discendenti in linea femminile, se esistono, non sono noti.

CORNELIA MINOR

Cornelia Africana Minor (192-121 ac), la figlia più giovane, nata nel 190 ac, sposata nel 172 ac, e morta nel 121 ac. dopo che il suo figlio più giovane Gaius Sempronius Gracchus si suicidò per non essere ucciso. Meglio conosciuta come Cornelia, madre dei Gracchi, era la moglie giovane del distinto console Tiberio Sempronio Gracco, due volte console e censore (morto nel 154 ac), dal quale ebbe 12 figli, la maggior parte dei quali morti molto giovani, nonostante la cura assidua dei genitori. Tre bambini sopravvissero fino all'età adulta, due dei quali sono fratelli Gracchi - Tiberio Sempronio Gracco e Caio Sempronio Gracco, il secondo nato nell'anno in cui suo padre è morto improvvisamente, e il più anziano, una figlia Sempronia. Tiberio Gracco morì molto giovane, e suo figlio Gaio lasciò solo una figlia Sempronia. Sempronia e Scipione Emiliano non avevano figli, il che contribuì all'amarezza del loro matrimonio.
Così c. 45 ac, unico discendente superstite di Cornelia Africana Minor era Fulvia Flacca Bambula. Fulvia è stata la prima donna non-mitologico romano a comparire sulle monete, e attraverso i suoi tre matrimoni ottenuto l'accesso al potere. Il suo primo matrimonio to Publius Clodio Pulcher prodotto due figli: un maschio, anche chiamato Publio Clodio Pulcher, e una figlia, Clodia Pulchra, che in seguito sposò Ottaviano. Il suo secondo matrimonio con Gaio Scribonio Curione produsse un altro figlio. Terzo e ultimo matrimonio di Fulvia a Marco Antonio produsse due figli: Marco Antonio Antillo e Iullus Antonius. Ulteriori discendenti, derivanti da Iullus Antonius, erano vivi nel regno successivo di Cesare Augusto.

BRIGANTI - CARTIMANDUA

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BRIGANTIA
Cartimandua, o Cartismandua (... – ...), regnò dal 43 circa al 69 sulla tribù britannica dei briganti (Inghilterra settentrionale) durante la dominazione romana sull'isola.



I BRIGANTI

I Briganti erano una tribù celtica della Britannia romana (Inghilterra), che abitava tra i fiumi Tyne e Humber e pure in Irlanda. Potrebbero avere origini comuni con tribù di Briganti delle Alpi ed altri possibili stazionamenti vicini alle Alpi stesse (es. Bregenz). I Briganti controllavano l'Inghilterra settentrionale, i cui insediamenti principali erano Catterick, Aldborough, Ilkley e York. È probabile che i Briganti fossero una confederazione di piccole tribù, tra cui c'erano i Carvezi e i

Parisi. La presenza dei briganti è stata attestata anche nell'Irlanda, oltre che in Britannia, nell'opera di Claudio Tolomeo Geografia del II sec. dc. Tolomeo fa menzione di nove città appartenenti ai Briganti britannici. Il loro nome derivava dalla Dea celtica che adoravano: Briganzia o Brigid.



BRIGID - BRIGANTIA 

"Brigantiae s(acrum) Amandus 
arc(h)itectus ex imperio imp(eratum) (fecit)" (RIB 02091).

Nella mitologia celtica Brigid era figlia del Dio Dagda. Moglie di Bres, re d'Irlanda e madre di Creidhne, Luchtaine e Goibhniu, i forgiatori di armi.
Era protettrice dei poeti, dei guaritori, dei druidi, dei guerrieri e degli artigiani, di cui in particolare dei fabbri. La figura della Dama del Lago nel ciclo di Re Artù dovrebbe essere ispirata a Brigid.

Con la cristianizzazione dei celti, Brigid divenne Santa Brigida e considerata la nutrice di Gesù, figlia del druido Dougal e venne spesso accomunata alla Madonna, dato che anch'ella era vergine e madre. 

Il primo febbraio, oggi dedicato a Santa Brigida, era originariamente la festa di Imbolc. Aveva come epiteti Belisama "colei che brilla molto", Sulis "la solare", Brigantia "l'altissima" e Bricta "brillante". Era Dea della vita e della morte, soprattutto come assistente alle nascite e Dea Guerriera nelle battaglie.

Fu venerata in seguito anche a Roma, diffusa dai legionari, con l'epiteto di Epona, protettrice dei cavalli. I Romani la assimilarono a Vittoria ed a Minerva, per la sua caratterizzazione come Dea della guerra. Nell'iconografia romana si è identificata a tal punto con Minerva che esiste a Birrens, in Scozia, una sua statua con tanto di Egida e globo della vittoria.



ALLEATI DI ROMA

Durante la prima fase dell'invasione romana (43 d.c.) i Briganti riuscirono a mantenere la propria indipendenza, decidendo solo in seguito di allearsi con Roma.

PUBLIO OSTORIO
Il primo attacco contro il Galles fu sferrato da Publio Ostorio Scapula, capo della Guardia Pretoriana istituita da Augusto, attorno al 48 d.c., proprio contro i Deceangli, che sembra si siano arresi dopo una tiepida resistenza, mentre le altre tribù gallesi dei Siluri e degli Ordovici si opposero combattendo strenuamente i Romani.

Alcuni dei briganti si ribellarono, ma furono uccisi, mentre gli altri furono perdonati. Nel 51, Scapula sconfisse Carataco nella battaglia di Caer Caradoc (nel territorio degli ordovici), catturandone la figlia e la moglie e ricevendo la resa dei suoi fratelli.

Tacito, in un discorso messo in bocca al leader dei Caledoni, Calgaco, parla dei Briganti che, "guidati da una donna", stavano quasi per sconfiggere i romani. È forse un riferimento alla regina Boudicea degli Iceni, erroneamente collocata tra i Briganti.

Nello stesso anno Carataco riuscì a fuggire ancora una volta, rifugiandosi presso i briganti .e cercando di allearsi con la regina Cartimandua, ma questa, fedele alleata di Roma, lo fece gettare in catene e lo consegnò ai romani. Carataco fu mandato come trofeo di guerra a Roma, dove fu graziato dall'imperatore e dove trascorse il resto dei suoi giorni. (Tacito Abbali)

Nel 47 d.c., il governatore della provincia della Britannia, Publio Ostorio Scapula, fu costretto ad abbandonare la sua campagna militare contro i Deceangli del Galles settentrionale a causa della antipatia che s'era sviluppata tra i Briganti nei suoi confronti.



CARTIMANDUA

Cartimandua era già regina quando l'imperatore Claudio cominciò a pianificare l'invasione della Britannia nel 43 e quando Publio Ostorio Scapula represse la ribellione di una fazione dei briganti nel 48. 
CARTIMANDUA

Alcune tribù galliche infatti prevedevano che il trono potesse essere ereditato dalle donne, tanto è vero che a proibire loro l'eredità del trono in terra gallica venne redatta la Lex Salica da Clodoveo I re dei franchi (481-511), legge che non vige oggi ad esempio in Inghilterra.

Di Cartimandua si disse fosse molto bella e coraggiosa, ma anche piuttosto dispotica e capricciosa. 
Ella era sposata con un certo Venuzio, equivalente del principe consorte, ed insieme al consorte, che era forse un carvezio, Cartimandua strinse un'alleanza con i romani. Nominalmente erano indipendenti, Tacito dice che erano leali ai romani e protetti dalle legioni.
In seguito la regina però divorziò da suo marito e sposò il cavaliere Vellocazio, che secondo alcuni era invece lo scudiero dell'ex-marito, il quale divenne a sua volta principe consorte. 
L'ex consorte non gradì nè il divorzio nè l'allontanamento dal trono e sebbene Cartimandua tenesse come ostaggi il fratello e i familiari di Venuzio, quest'ultimo scatenò la guerra contro di lei e i romani.

Stabilì un'alleanza con altri popoli e, durante il governatorato di Aulo Didio Gallo (52 - 57), successore di Ostorio nel governo della Britannia, preparò l'invasione del regno dell'ex moglie. Le truppe romane furono mandate a difendere contro Venuzio, che fu sconfitto dopo una feroce battaglia (Tacito).



NEMICI DI ROMA

Nel 69 Venuzio si ribellò di nuovo, approfittando della difficile situazione che l'Impero romano stava attraversando a causa del cosiddetto "Anno dei quattro imperatori".
I Romani mandarono delle coorti di ausiliari a difendere la loro alleata, ma solo il successivo intervento della VIIII Hispana, comandata da Cesio Nasica, pose fine alla ribellione. Approfittando del caos seguito alla morte di Nerone (69), Venuzio preparò una nuova invasione. 

CARACTACUS
I romani stavolta non riuscirono a inviare alla regina truppe sufficienti per opporsi ai nemici e Cartimandua fu costretta a fuggire, protetta dai soldati romani. Venuzio salì sul trono. Da questo momento la regina scomparve dalle fonti.Naturalmente a causa proprio di questa oscura mancanza di notizie si costruirono su di lei varie leggende.

Qualcuno disse che la regina aveva raggiunto la sua Dea ed abitava in fondo al lago (o al mare) pronta ad accorrere ai cavalieri eroici e generosi. Ella, coi potevi magici acquisiti, poteva guarire magicamente le loro ferite o ispirare imprese eroiche.
Si dice pure che sulla figura di Cartimandua venne costruita la leggenda della regina Ginevra nella saga di Re Artù. Per altri lei era invece la Dama del Lago, quella che consegna ai valorosi la spada che non può essere sconfitta.

Dopo la salita al potere dell'imperatore Vespasiano, Quinto Petillio Ceriale fu nominato nuovo governatore della Britannia: ebbe così inizio una nuova campagna di conquista contro i Briganti, che sembra essere durata molti decenni. Gneo Giulio Agricola (governatore dal 78 all'84) fu infatti molto impegnato in operazioni militari nel territorio di questo popolo.

Ancora oggi di questo popolo si conserva un termine che indica dei fuorilegge dediti al furto e alla rapina, nonchè a togliere la vita pur di impossessarsi dei beni degli altri. Il brigantaggio fu una grande piaga anche al tempo dei Romani, soprattutto quello marittimo, anche se alla fine riuscirono a sgominarlo.

REATE - RIETI (Lazio)

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Il centro di Rieti sorge su una piccola collina al margine di una pianura, la Piana Reatina, di circa 90 km², alta 405 m s.l.m.
La piana anticamente era occupata delle acque del Lacus Velinus e fu bonificata in età romana aprendo un varco tra il calcare accumulatosi negli anni presso Marmore, generando così l'omonima cascata. Di questo lago oggi restano solo specchi d'acqua minori: il lago di Piediluco (Provincia di Terni), quello di Ventina e quelli Lungo (o di Cantalice) e di Ripasottile.

Gli ultimi due oggi sono inseriti in una riserva naturale. La piana è racchiusa dal Monte Terminillo e dai Monti Reatini, di cui fa parte, ad est, dai Monti Sabini ad ovest ed è tagliata dal Fiume Velino che riceve, in essa, le acque dei fiumi Salto e Turano.

Le tracce della fondazione di Rieti si perdono all'inizio dell'età
del ferro, quando Reate, che la leggenda vuole fondata dalla dea Rea, da cui deriva anche il nome della città, sorse intorno al IX-VIII secolo a.c. fra le terre abitate dagli umbri, per essere poi conquistate dagli aborigeni, una popolazione di origini incerte, e infine dai Sabini che, secondo i ritrovamenti archeologici, arrivarono fino al Tevere.


In epoca preromana era malsana e sempre allagata. le acque del fiume Velino, ricche di sostanze minerali, avevano nel corso dei secoli incrostato le rocce, creando una barriera travertinosa che impediva il deflusso delle stesse a valle.

Il Console Romano (290 a.C.) Marco Curio Dentato fece eseguire il taglio delle Marmore, consentendo così al fiume di precipitare nel Nera e liberare la pianura di Rieti dalle acque del lacus Velinus. Con l'estensione del suffragio ai sabini e ai reatini nel 268 a.c., la città partecipa alle vicende del popolo romano.



UMBILICUS ITALIAE


Rieti rivendica il centro d'Italia nella centralissima Piazza San Rufo, ove un "discutibile" monumento (la famosissima Caciotta) circolare segnala l'Umbilicus Italiae.


"Cutilia era nominata dai narratori antichi in modo diverso e talune volte anche superficialmente, come se non fosse mai esistita. Cutilia, nella zona, era considerata una metropoli importante in quanto capoluogo religioso di tutta la zona del Reatino, se non addirittura di tutta la Sabina. 
Varrone, invece, considerava metropoli Lista, altro centro degli Aborigeni, che però non risulta avere avuto uguale importanza religiosa. 

UMBELICULUS ITALIAE
Lo stesso Varrone riporta altre opinioni espresse da vari autori precedenti a lui sull'origine di Cutilia, e sulla provenienza degli Aborigeni: o indigeni o immigrati, venuti dalla Liguria od ancora dalla stessa Grecia. Questo però, contrasterebbe con la tradizione sull'oracolo rilasciato ai Pelasgi, che li trovarono già stabili con le città di Cutilia e di Lista. Varrone, nel narrare la nascita di Roma, tende a “romanizzare” anche i luoghi toponomastici della zona di Cutilia. 

Anche se nativo di Reate (116 a.c.) e attaccato alla sua patria Sabina, nei suoi racconti Varrone tende sempre a mettere in risalto l'importanza di Roma a scapito della verità storica. Altre volte nei suoi racconti invece mette Roma e il Lazio in subordine rispetto alla Sabina in quanto regione.



AQUAE CUTILIAE

fonte minerale e lago, così detto da Cutilia, città che già esistette nel Samnium ad oriente di Reate (presso Civita Ducale). Questo lago era reputato l'ombelico (UMBILICUS) d'Italia. La sua superficie era di 4 iugeri e la profondità inesplorabile; aveva poi un'isola natante di circa 20 m. di diametro, fornita di una vegetazione meravigliosa. Il lago era sacro alla Dea Vittoria, alla quale persone destinate a questo fine facevano sacrifici nell'isola. Questa fu veduta anche da Seneca, mentre oggi è scomparsa.

Da Paterno scende una stradina verso la vallata: chi la segue giunge dopo un breve cammino nel luogodove sorgono le rovina dell'antichissima Cotilia, di cui si legge nel primo libro delle historie di Dionigi di Alicarnasso, retore e storico greco del tempo di Ottaviano Augusto. Già cospicua all'epoca degli Aborigeni, primitiva popolazione Italica e, successivamente, sotto gli Umbri prima e Sabini poi, che ne ereditarono il dominio, la città era celebre dopo la conquista romana per le sue acque sulfuree, menzionate da Strabonio e altri autori latini e molto frequentate dalla brillante società della Roma Imperiale. L'Imperatore Vespasiano, come racconta Svetonio, ogni anno si recava a Falacrine, una sua villa nel Reatino alla quale aveva dato lo stesso nome del suo paese nativo, per giovarsi delle proprietà medicinali delle acque di Cotilia; e qui morì nel 79 d.c..

"Nel suo nono consolato era stato colto nella Campania da lievi agitazioni febbrili onde, tornato subito a Roma, si recò a Cutiliae nella campagna di Rieti, ove soleva ogni anno trascorrere l'estate."

Ancora più antica è la storia del lago, e si perde nella leggenda! Un oracolo come Apollo in Dodona, città dell'Epiro, che fu la sede del più antico santuario greco, come narra Dionigi, circa 14 secoli prima della venuta di Cristo promise ai raminghi Pelasgi che abitavano le terre settentrionali della Grecia primitiva, che proprio vicino a queso lago con l'isoletta fluttuante, nella terra degli Aborigeni, avrebbero trovato da vivere in pace e prosperità. 

Essi, dunque abbandonarono la loro patria e veleggiarono per l'Adriatico. Approdati in Italia e scavalcate le giogaie dell'Appennino, giunsero fino al lago di Paterno, dove riconobbero l'isola vaticinata dall'oracolo. Gli abitanti del luogo, nel vederli armati, si spaventarono e si prepararono a difendersi, ma i Pelasgi, alzando ramoscelli d'olivo, mostrarono l'oracolo di Dodona che l'aveva indirizzati lì ed implorarono amicizia ed ospitalità. 

Parve, allora, agli Aborigeni che essi dovessero ubbidire al dio Apollo e, pertanto, accolsero benevolmente i nuovi arrivati: offrirono loro campi da coltivare e se li fecero alleati contro i Siculi, popolazione con la quale erano in guerra. Le parole dell'oracolo furono incise con antichi caratteri su di un tripode, ossia su un recipiente votivo a tre piedi, e conservate gelosamente nel tempio di Giove, laddove Lucio Mamio giurò di averle lette:

Pergite quaerentes Siculum Saturnia rura atque Aboriginum Cotylen
ubi se inxula vectat Queis mixti, decimas Clario transmittite Phoebo


Le cose andarono proprio come l'oracolo aveva profetizzato e quel territorio, in parte paludoso e infecondo, tornò a rifiorire. A testimonianza della sua origine ellenica, il primo nome di Cutilia fu greco:Kwtiliai. Al tempo, però in cui scrisse Dionigi di Alicarnasso, quel territorio, già passato sotto la dominazione Umbra e poi Sabina, era entrato da parecchio tempo a far parte dell'Impero Romano: la città aveva quindi dimenticato il nome greco per assumere quello latino di Cutilia.

VESPASIANO
Dell'isoletta fluttuante del lago a breve distanza da Cutilia, hanno parlato anche scrittori latini, da Plinio (Hist. nat. lib.II, c 96) a Varrone (De lin. lat. lib.III, p.17), a Macrobio (Saturn. lib. I e VII) a Seneca (Natur. quaest. lib. II c 25). Tito Livio l'accenna nella sua «Storia di Roma» quando descrive la strada percorsa da Annibale, il grande condottiero cartaginese, da Amiternum a Roma.

Trascorso il I sec. dc., Cutilia cominciò a perdere molta della sua importanza, finchè essendole rimasta solo la fama delle sue acque terapeutiche, la città fu distinta nelle tavole itinerarie solo con il nome di Acquae Cutiliae. Non si sa con sicurezza quando la città sia stata distrutta: alcuni autori sostengono nell'anno 475 dell'era Cristiana, ma si tratta di una semplice congettura non confortata da alcuna prova.
Per la sua ubicazione, quasi al centro della penisola Italica, il lago di Paterno con la sua isola galleggiante fece ritenere a Varrone e Plino che esso fosse l'ombelico d'Italia. Si legge infatti in Plinio (Hist. nat. lib.III, 17):

«In agro Reatino, Cutiliae lacum in quo fluctuat insula Italiae umbilicum esse: M Varro tradit».

Sempre a proposito del lago di Paterno, alcuni autori (Capmartin da Chaupy, Biondo, Bucciolotti) hanno ritenuto che ad esso volesse riferirsi Virgilio quando nel libro VII dell'Eneide, descrivendo l'Italia centrale ai tempi di Enea, parla di un lago chiamato Ampsanctus, situato ai piedi di alti monti e circondato da fitti boschi percorsi da un fragoroso torrente. Li si aprivano un'orrenda spelonca e un lago pestilenziale, attraverso l'Ancheronte infernale sbucava di sottoterra:

«Est locus Italiae medio sub montibus altis, nobilis et fama multis memoratus in oris,
Ampsanctis valles: densis hunc frondibus atrum Urget utrimque latus memoris,
medioque fragosus dat sonitum saxis et torto vortice torrens. Hic specus horrendum
et saevi spiracula Ditis monstrantur, ruptoque ingens Acheronte vorago.
Pestiferas aperit fauces.
... » (Eneide)

"C'è nel centro d'Italia, sotto alti monti, un luogo celebre e ricordato per fama in molte regioni, le valli d'Amsanto: il fianco d'una selva, oscuro per denso fogliame, circonda questo dall'una a dall'altra parte e nel mezzo un torrente rumoroso rimbomba per salti e per rotanti vortici. Qui si aprono una spelonca orrenda e gli spiragli del terribile Dite ed una voragine immensa per il prorompere dell'Acheronte apre pestifere fauci. "

L'identificazione del lago nominato da Virgilio con il lago di Paterno, o comunque con le acque solfuree di Cotilia, non sembra però accettabile alla maggior parte dei critici perchè, se al detto lago corrisponde il fatto di trovarsi nel centro d'Italia, non corrispondono ugualmente le altre caratteristiche. 

L'opinione più accreditata, pertanto, cui aderisce anche il Momnsen, è quella che ritiene trattarsi del lago oggi detto d'Ansante o le Moffette: lago metifico adagiato nel cratere di un vulcano spento, in Campania, a sud del passo di Eclano, nei pressi di Frigento (Avellino). Tale ipotesi, forse la più solida, poggia su le parole di Cicerone e di Plinio, che posero chiaramente l'Ampsanctus in Irpinia.

Vale la pena visitare Paterno, il suo lago e le sue contrade: qui sono state scritte alcune tra le primissime pagine della storia d'Italia, dalle antiche civiltà Umbra e Sabina fino alla storica cavalcata di Annibale e agli imperatori della dinastia Flavia. La leggenda, poi, ha consacrato questi luoghi e li ha colorati di mistero: quanto ci sia di vero in essa non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma le parole dell'oracolo continuano a vivere del loro pieno valore fantastico e ci riempiono di un sacro rispetto che non sappiamo spiegare.

" Pergite quaerentes Syculos Saturnia in arva
illam Aborigenum Cotylam cui natat in undis Insula
"

"andate a cercare la terra dei Siculi, quella di Saturno e Cutilia degli Aborigeni, dove si muove un'isola"



LE MARMORE

Il fiume Velino percorreva una vasta sezione dell'altopiano che circonda Rieti scontrandosi però più a valle con una serie di massicci calcarei che ne invadono il letto disperdendolo nelle terre; questa ingestita dispersione di acque provocò nel reatino la formazione una palude stagnante nociva alla salubrità dei luoghi.

Per questo nel 271 a.c., il console romano Manio Curio Dentato ordinè la costruzione di un canale (il Cavo Curiano) per far defluire le acque stagnanti in direzione del salto naturale delle Marmore, da cui l'acqua precipitava direttamente nel fiume Nera, affluente del Tevere.

Ma il problema fu risolto solo in parte poichè, le abbondanti e annue piene del Velino, trascinando a loro volta un'enorme quantità d'acqua trasportata dal Nera, minacciava di invadere il centro abitato di Terni. 

Iniziò così una diatriba tra le due città, tanto che nel 54 a.c. venne posta la questione direttamente al Senato Romano: Rieti era rappresentata da Cicerone, Terni da Aulo Pompeo. Ma la questione non trovò soluzione e la causa si risolse con un nulla di fatto per diversi secoli successivi.



I SABINI

Plutarco, Vita di Romolo, 14,5:
"Il segnale convenuto per l'assalto era questo: Romolo si sarebbe alzato, avrebbe ripiegato il mantello, poi l'avrebbe di nuovo indossato. Molti armati di spada con gli occhi fissi su di lui, al segnale sguainano le spade e urlando si slanciano sulle figlie dei Sabini"

Insomma i Romani erano a corto di donne, non si sa perchè, a meno che, come in tanti popoli primitivi dediti alla guerra, le bambine venissero in parte eliminate, ma in parte perchè vi erano molti avventurieri e rifugiati politici, per cui decisero di rapire le Sabine.

La leggenda narra insomma che nel quarto anno dalla fondazione dell'Urbe, Romolo, nel tentativo di trovare mogli ai suoi uomini, organizzò il famoso ratto delle Sabine. Il ratto delle sabine sembra non sia proprio leggendario: la città di Roma era infatti sorta da poco e Romolo, in cerca di alleanze e donne per popolare la città, pensò di sfruttare la festa della Consulia, alla quale parteciparono anche i Sabini, per rapire le donne di cui Roma aveva bisogno per crescere.

La conseguenza fu la guerra fra Roma e i suoi vicini, i quali vennero sconfitti ad eccezione dei Sabini. Lo scontro si fermò quando le donne rapite si gettarono fra le armi dei contendenti imponendo la tregua fra Romolo e Tito Tazio e la nascita di una collaborazione fra i due popoli.

SOTTERRANEI
Sembra che i Romani però cercassero di corteggiarle trattandole degnamente, e c'è da crederlo, perchè all'epoca le donne erano abituate al rispetto, non a caso quando questo venne meno in epoca greca, molte di loro di fecero Amazzoni conquistando, come asserì Giulio Cesare, tutta l'Asia.


Quindi pian piano le donne accettarono i matrimoni mentre i Sabini ci pensarono su, e ci pensarono parecchio, visto che quando mossero guerra le donne avevano già figli. Perchè passarono tanti mesi la storia non lo dice, o semplicemente il mito è inventato e vi fu guerra tra i due popoli seguita dalla pace.

Comunque il mito prosegue raccontando che le donne sabine, allo scontro tra i due popoli, uscirono dalla città vestite a lutto. Alcune con in braccio o al seguito i bambini piccoli. Raggiunsero piangendo il campo dei Sabini e il consiglio degli anziani, e qui si gettarono ai piedi del re. I Sabini le rimproverarono, infine si decise per la pace.

I Romani dal canto loro stabilirono per contratto il trattamento delle donne: non dovranno mai lavorare per i loro mariti, salvo filare la lana; per la strada gli uomini dovranno cedere loro il passo; nulla di sconveniente sarà detto a loro o in loro presenza; nessun uomo potrà mostrarsi nudo davanti a loro; i loro figli avranno una veste speciale (praetexta) e un ciondolo d'oro (bulla aurea). Il che fa pensare che vennero adottate le usanze sabine, che d'altronde avevano reminiscenze matriarcali, peccato che questi diritti vennero poi dimenticati.


"Non viene pattuita solo la pace, ma anche la fusione dei due popoli. Il regno diventa uno solo. Furono istituite anche le tre centurie di cavalieri, Ramnensi da Romolo, Tiziensi da Tazio e, quanto ai Luceri, è incerta l'origine. Da allora i due re esercitarono il potere non solo in comune ma anche in perfetta concordia." (T. Livio I,13).

I due re governarono insieme e le culture si fusero. Il Dio dei sabini Quirino, divenne anche Dio dei romani. Successivamente Rieti e il suo territorio vennero conquistati da Roma nel 290 a.c. per opera del console Manio Curio Dentato, rimanendo prefettura fino al 27 a.c. e divenendo poi Tribù Quirinae. In breve l'intera sabina venne presa.


Nel corso del tempo molte furono le antiche famiglie sabine che diedero lustro alla città di Roma e ne seguirono le sorti. Da ricordare l'ascesa della Gens Flavia, il cui esponente più noto, l'Imperatore Tito Flavio Vespasiano, era appunto nativo di rieti. Degno di essere ricordato è, altresì, il grandissimo scrittore Marco Terenzio Varrone, nato anche lui a Rieti, per cui sovente ricordato con l'appellativo de "Il Reatino" e "padre della romana erudizione".

L'antica Reate fu una delle più antiche e principali città dei Sabini. 

Nel 211 a.c. Annibale passò sotto le sue mura sulla via di Roma; nel 205 Reate assieme con gli altri Sabini contribuì volontariamente ai rifornimenti di Scipione. Certamente fu mantenuta al grado di prefettura fino al tempo augusteo; in tempi imperiali fu elevata tuttavia a municipio, e sotto Vespasiano accolse un gran numero di veterani, senza avere però il titolo di colonia.

Il fertilissimo territorio reatino, bagnato dalle acque del Velino e dei suoi affluenti Turano e Salto, soggetto a lavori idraulici per la regolazione dei corsi dei fiumi sino dalla conquista della Sabina da parte di M. Curio Dentato, fu causa di gravi e secolari dispute fra la città e la vicina Interamna (Terni), dispute per le quali una volta fu chiamato a patrono di Reate Cicerone, che difese la sua causa davanti agli arbitri nominati dal Senato.

COME APPARIVA IL PONTE ROMANO ALL'INIZIO DEL 1900


IL PONTE ROMANO

I resti del Ponte romano (III sec. a.c.), giacciono nelle acque del Velino da quando fu assurdamente demolito negli anni trenta. 

QUEL CHE NE RIMANE
Si trattava di un ponte a tre luci a schiena d'asino (forse per questo fu demolito in quanto non permetteva il passaggio delle barche), realizzato in opus quadratum con grossi blocchi di calcare  travertinoide di circa un m, posti di testa e di taglio. 

Lungo 38,90 m e largo 6,20, con larghezza dei piloni è di 2,60 m. il ponte, detto appunto "Ponte romano" era un ponte arcuato e bianco, raro esempio rimasto dei ponti romani a schiena d'asino, semplici e indistruttibili, forse demolito nei primi del '900 per la viabilità del fiume che a tutt'oggi non esiste. Infatti seppur demolito il ponte non venne mai asportato.

Ci chiediamo allora come mai l'antico ponte, anche se malsicuro, non sia stato chiuso al traffico ma lasciato intatto dato il suo prezioso valore storico.

Il ponte venne costruito nella Roma repubblicana, nel III sec. ac., come parte dell'antica Via Salaria, attraverso cui giungeva a Roma il sale dall'Adriatico, il che dette il nome alla via. 

IL PONTE NUOVO
Subito dopo il ponte, la Salaria proseguiva con un viadotto (tracciato dell'attuale via Roma) e conduceva al foro di Reate (attuale piazza Vittorio Emanuele II). 

Infatti sotto Via Roma anticamente si trovavano dei poderosi archi che sostenevano il piano inclinato che ancora oggi dal ponte conduce all’attuale Piazza V. Emanuele II.

Quest'opera architettonica si inserisce nel rinnovamento urbano di Reate voluto dai romani dopo la conquista della Sabina ( 290 a.c.), per l'importanza economica del territorio grazie alla fertilità dei terreni bonificati dal taglio delle Marmore, operato da Manio Curio Dentato.

Il ponte fu restaurato o rifatto nel I sec. d.c, come testimonia un'iscrizione datata 42 d.c. attribuita a Claudio, e quindi evidentemente sotto l'imperatore Claudio. In ogni caso però, anche se rifatto, venne costruito secondo il modello arcaico.

SOTTERRANEI DI RIETI


I SOTTERRANEI REATINI

Della Rieti romana resta poco; se non la Rieti sotterranea, un percorso nelle cantine di alcuni palazzi di via Roma, dove si possono osservare i resti dell'antica via Salaria risalenti al III secolo a.c.avanzi di mura in via Pescheria, in via Roma, in via Pellicceria e altrove, da cui si può ricostruire il tracciato della cinta romana. 

Altri resti cospicui di mura perimetrali di una vasta costruzione furono trovati, recentemente, a circa 4 m di profondità, nei lavori di sbancamento compiuti sulla piazza Vittorio Emanuele e sono ancora visibili.

Sotto l'odierna via Roma, è possibile ammirare un meraviglioso scorcio dell'Italia sotterrane: i resti del viadotto romano costruito nel III sec. a.c. come conseguenza della conquista romana ed affiancato all'opera di bonifica della piana. 

Questo manufatto, superando il fiume Velino, permetteva alla Via Salaria, l'antica via del sale, di raggiungere la città evitando allagamenti ed impaludamenti, assumendo così un ruolo di estrema importanza per la Reate romana che necessitava di un diretto collegamento con l'Urbe. 

La struttura, inglobata nei sotterranei di alcune nobili dimore reatine, è formata da grandiosi fornici costruiti con enormi blocchi squadrati di travertino caverno, a sostegno del piano stradale. 

La consolare Salaria dopo aver superato il fiume Velino, attraverso il solido ponte in pietra dove sono ancora visibili i profondi solchi lasciati dalle ruote dei carri utilizzati per il trasporto del sale, raggiungeva il foro, situato dove si estende oggi piazza Vittorio Emanuele II, e piegando a destra sulla via Garibaldi formava gli antichi cardo e decumanus.

Proseguimento in via del Porto, nel passato via d'acqua, oggetto di spiegazioni sul funzionamento del porto fluviale della città di Rieti considerata la "Venezia d'acqua dolce". 

Successivamente nei locali sotterranei di casa Parasassi e di casa Rosati-Colarieti proseguono i resti dell'antico viadotto romano costruito nel III secolo a.c.
Un imponente muro e blocchi squadrati di travertino, testimoniano il piano di inclinazione della struttura che permetteva di raggiungere il foro. 

Seguono gli ampi ambienti di palazzo Napoleoni, sotterranei dell' edificio appoggiato verticalmente alla struttura romana che conducono ad uno dei poderosi archi che costituiscono il viadotto.



RIETI – Forse scoperta la villa di Vespasiano - 9/4/2013 -

''Le ville di quest'epoca generalmente non riportano iscrizioni, il che rende difficile identificarne i proprietari'', ha detto all'AFP il professore Filippo Coarelli dell'Universita' di Perugia, che dirige gli scavi.

''Ma ci sono molti indizi, compresa la sua collocazione geografica, che fanno pensare che si tratti della villa in cui Vespasiano e' nato''. Formata da un complesso di 14 mila metri quadrati, l'edificio colpisce per il suo lusso, con le sale dei ricevimenti decorati con marmi policromi e con le terme private. Secondo gli archeologi, una villa del genere non poteva che essere stata realizzata per una famiglia ricca, come quella del padre di Vespasiano.

Antika notizie - archeologia, storia e arte antica>

Nell’anno che festeggia il bi-millenario della nascita dell’imperatore Vespasiano viene forse ritrovata la sua residenza di campagna che potrebbe coincidere con la villa d’epoca romana recentemente venuta alla luce in provincia di Rieti, nelle regioni dell’antica Sabina. 

Infatti, Tito Flavio Vespasiano, ovvero l’imperatore che a Roma fece erigere il Colosseo, realizzare un nuovo foro, costruire i bagni pubblici a lui dedicati e il meraviglioso Tempio della Pace, era originario di un’umile famiglia proveniente dai territori sabini. 

Nato nel piccolo villaggio di Falacrinae, come molti provinciali diventati importanti, volle far ritorno al paese e esibire a coloro che l’avevano visto crescere un segno della sua vittoria.

L’esistenza di Falacrinae ci è nota grazie alle testimonianze letterarie, ma fino ad oggi non esistevano tracce concrete. 

PAVIMENTAZIONE DELLA VILLA
Filippo Coarelli, professore di antichità greche e romane presso l’Università di Perugia, sta guidando un’equipe formata da giovani archeologi italiani e inglesi – gli scavi vedono il coinvolgimento dell’Università di Perugia e della British School at Rome, nonché il supporto della Soprintendenza Archeologica per il Lazio – poco fuori Rieti.

Gli scavi hanno restituito subito importanti risultati: infatti, vicino a un antico cimitero e a una piccola chiesa di origine medievale, se non più antica, è emerso il perimetro di una villa dotata di sale di ricevimento, colonnati e terme. 

La pavimentazione dell’ambiente principale è in ottimo stato di conservazione e presenta intarsi di preziosissimi marmi policromi originari da cave dell’Africa Settentrionale delle quali oggi si è persa ogni traccia. 

Proprio lo splendore di questo locale, che doveva possedere rivestimenti marmorei anche sulle pareti, preceduto da altri due ambienti dove la pavimentazione è mosaicata, fa supporre che la villa fosse appartenuta all’imperatore Vespasiano.

IL PRIMO TEMPIO DI GIOVE STATORE

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RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO


RIEMERGE IL PRIMO TEMPIO DI GIOVE STATORE IL DIO CHE DAVA FORZA E STABILITA' ALL'ESERCITO ROMANO

Il NEW YORK TIME pubblica in I pagina la scoperta e la tesi del Prof. Carandini, esimio e rispettato archeologo, non chè prof. dell'Università La Sapienza di ROMA:

Naturalmente è riportato anche da tutte le testate italiane ed europee: dagli scavi sul Palatino riemerge il primo santuario del Dio che inchiodava l'esercito romano al suolo, solido come una roccia, sempre forte a sostenere l'urto degli eserciti avversari.

Trattavasi di GIOVE STATORE, antichissimo Dio adorato dagli antichi romani, anche se l'epiteto
 "Stator" era già apparso in greco come ὀρθώσιος (Dionys.) e στήσιος (App. Plut.)

ROMA ANTICA Paolo Carafa, Andrea Carandini e Nikolaos ArvanitisRivista:  

"Le nuove indagini archeologiche iniziate sul Palatino hanno prodotto una quasi certezza che ancora una volta costringe a rivedere la carta topografica di Roma antica.
GIOVE STATORE
Il luogo del primo culto di Giove Statore si trovava sul Palatino in un contesto di monumenti ed edifici significativi per la più antica storia dell'Urbe... È ormai abituale per noi pubblicare "primizie" archeologiche su questa rivista. Riteniamo infatti che la comunicazione sia un aspetto importante della ricerca, anche se l'accademia raramente lo riconosce. Questa volta anticipiamo la scoperta di un santuario sul Palatino, la cui valutazione sarà più precisa dopo la prossima campagna di scavo.

Comunque, in via d'ipotesi, il santuario può essere associato fin d'ora al culto, tramandato dai tempi di Romolo, di Giove Statore (Iuppiter Stator), il Dio che aveva fermato (stator significa ‘fermante') la ritirata dei Romani, impedendo ai Sabini di penetrare nel Palatium (la residenza del re) dalla porta Mugonia. È un luogo di culto che, a rigor di logica, dovrebbe trovarsi tra la Sacra via e la stessa porta Mugonia."   (Liv. I.12.3‑6; ps. Cic. orat. pr. quam in exilium iret 24; Ov. Fast. VI.794; Dionys. II.50; Flor. I.1.13; de vir. ill. 2.8).




SI PENSAVA SUL VELIA

Fino alla recente scoperta degli archeologi dell'Università La Sapienza di Roma si pensava che il primo tempio di Giove Statore si trovasse sul colle Velia, venne sbancato nel 1932 per aprire via dei Fori Imperiali fra piazza Venezia e il Colosseo. La Collina Velia si trovava però dall’altra parte del Foro Romano (ne abbiamo una raffigurazione in un rilievo della tomba degli Haterii, una famiglia di costruttori della seconda metà del I sec. d.c.).

Oggi si può affermare che il culto nacque dalla parte del Colle Palatino ed in seguito fu spostato sulla Velia.

La situazione si complicò ulteriormente, con la costruzione di un altro tempio dedicato a Giove Statore: è quello meglio noto come tempio di Romolo figlio di Massenzio, ancora oggi conservato e visibile presso il tempio di Antonino e Faustina.
Inoltre si sa che esisteva anche un tempio di Giove Statore in Circo Flaminio.

Insomma quel che si sa oggi è che il tempio di Giove Statore sulla Velia venne realizzato dopo l'incendio di Roma del 64 d.c. quando il tempio sul Palatino andò distrutto e mai ricostruito a causa delle modifiche apportate alla zona da Nerone.




LA FONDAZIONE

Il leggendario tempio, ora non più tanto leggendario,  venne fondato, secondo la tradizione, da Romolo dopo la battaglia, nell'area del foro, contro i Sabini.

Siamo all'incirca nel 750 a.c., dopo il famoso ratto delle sabine, quando i loro padri e mariti vogliono vendicare l'offesa e distruggere Roma.
La storia della Roma arcaica e monarchica continua, a riemergere dagli scavi sul Palatino, sotto la guida di Andrea Carandini, uno dei massimi specialisti dell'antica Roma, autore di recenti eccezionali scoperte.

Questa volta le indagini condotte dall'equipe di archeologi dell'Università «La Sapienza», sotto la direzione di Carandini e Paolo Carafa, ha individuato il punto in cui sorgeva il primo luogo di culto dedicato a Juppiter Stator.

Ce ne informa la rivista «Archeologia Viva» attraverso gli autori della scoperta. «Stator» in latino significa «colui che ferma» e infatti Giove Statore era ritenuto il dio che avrebbe arrestato la ritirata dei Romani nella mitica guerra contro i Sabini, impedendo a questi ultimi di oltrepassare le fortificazioni palatine passando dalla porta Mugonia.

Non è quindi un caso se i resti dell'area sacra sono stati rimessi in luce proprio in prossimità di questo antichissimo accesso dell'Urbe. Inoltre, il tempio di Giove Statore, situato subito all'esterno del «muro di Romolo», era anche espressione di un culto terminale («terminus» significa «confine»), cioè di un culto che indicava il limite del Palatino perchè connesso alle sue difese.

Nel IV sec. dc., fu poi innalzato un nuovo tempio di Giove Statore lungo la Via Sacra, oggi detto «di Romolo», presso la Basilica di Massenzio. In questi giorni i fuoriclasse dell’archeologia italiana, ovvero l’equipe di archeologi dell’Università La Sapienza diretti da Andrea Carandini e Paolo Carafa, hanno annunciato la scoperta del primo tempio di Giove Statore, o Juppiter Stator, da «stator» (fermante), era la divinità a cui si appellavano gli eserciti in difficoltà, chiedendo la forza per resistere all’imponente offensiva dei nemici.

Nella battaglia nell’area del Foro contro i Sabini, i Romani, costretti a ritirarsi verso il Campidoglio risalendo la Via Sacra, giunsero all’altezza di Porta Mugonia, e qui Romolo invocò l’aiuto di Giove, facendo voto di costruire un tempio se avessero bloccato l'avanzata sabina che stava per penetrare nel Palatium (reggia) dalla porta Mugonia. Così i romani sconfissero i sabini e Romolo fondò il tempio  in quel luogo. 

E probabilmente il santuario, più che un vero e proprio tempio, doveva essere una specie di altare circondato da un basso muro o da uno steccato, per dirla in breve un Aedes, come usava in epoca
arcaica.

Il Tempio di Giove Statore, posto all’esterno del cosiddetto «muro di Romolo», era anche connesso al culto «terminale», cioè connesso al «terminus», al confine del Palatino e alle sue difese.
Successivamente, in età tardo-antica, nel IV secolo d.c., fu innalzato un nuovo tempio di Giove Statore lungo la Via Sacra, oggi detto «di Romolo», quello visibile a tutti presso la Basilica di Massenzio.

I resti rinvenuti vicino alla porta Mugonia sarebbero, infatti, quelli del leggendario "tempio" (in realtà un'area sacra all'aperto) in cui Iuppiter Stator - "colui che ferma", in latino - veniva adorato fin dai tempi di Romolo per aver bloccato la ritirata dei Romani impedendo ai Sabini, dopo il celebre ratto, di penetrare nel Palatium, la residenza del re.

L'equipe di archeologi della Sapienza, guidati da Andrea Carandini e da Paolo Carafa. "Per anni si pensava che quel tempio sorgesse sulle pendici della Velia, il colle che fronteggiava il Palatino, sbancato in età fascista per creare l'attuale via dei Fori Imperiali - spiega Carafa - Ora, invece, possiamo supporre che il santuario sulla Velia venne realizzato dopo l'incendio di Roma del 64 d.c., quando quello sul Palatino andò distrutto e non fu mai ricostruito per le modifiche urbanistiche volute da Nerone".

RITROVAMENTI
A supportare questa tesi, come spiegano Carandini e Carafa nel servizio da loro curato e pubblicato sull'ultimo numero di "Archeologia Viva", fa testo la posizione dei resti dell'area sacra, appena oltre le mura romulee.
Invece quello di Iuppiter Stator era un culto terminale, che indicava  i confini del Palatino perché legato alla sua difesa. Carandini ha aggiunto: "E 'degno di nota il fatto che il tempio sembra essere puntellare il Palatino, come in difesa". Emblema di Roma e difesa per le famiglie imperiali che vivevano sul Palatino, nel Foro.


In effetti il tempio votato da Romolo non fu mai realizzato come tale ma solo come aedes, ma nel 294 a.c. il console, M. Atilius Regulus, fece un voto simile in circostanze analoghe battendosi contro i Sanniti, ed eresse il tempio subito dopo (Liv. X.36.11, 37,15). Livio spiega che nessun edificio dei suoi tempi era stato edificato da Romolo, ma "Fanum tantum, id est locus templo effatus" il tempio stava dove lo collocava la tradizione popolare, che lo poneva:
in Palatii Radice, ps. Cic,.
Ante Palatini Ora iugi, Ov,.
Annuncio veterem Portam Palatii, Liv,.
Παρὰ ταῖς καλουμέναις Μουγωνίσι πύλαις,
Dionys,. Ἐν ἀρχῇ τῆς ἰερᾶς ὁδοῦ πρὸς τὸ Παλάτιον ἀνιόντων,
Plut. Cic. 16; cfr.
Ov. Trist. III.1.32, Liv. I.41.4;
Plin. NH XXXIV.29; App. B. C. II.11).
Il Fanum è rappresentato in un rilievo della gens Hateria (lun. d. Inst. V.7) come esastilo, di ordine corinzio, e di fronte al clivus Palatinus.

Cicerone riunì il senato in questo tempio (Cat Cic. II.12,. Ps Cic. loc. cit.; Plut. Cic. 16), pratica non inusuale, ma per una certa liturgia voluta da Livio Andronico (liv. XXVII.37.7). Il giorno della dedicazione è riferito da Ovidio (come apprendiamo dai Fasti VI.793) come 27 gennaio, questo può forse essere riferito ad un'altro tempio riedificato, e non all tempio di Regulus (WR 122-123). Infatti, impariamo dai Fasti Ant. ap. NS 1921, 111, che sia questo o quel tempio, o quello del portico di Metello furono dedicati il 5 settembre, e, come Hemer. Urb. che lo associa con il tempio di Giunone Regina, il riferimento nella Fast. Ant. possono essere adottate al tempio di Regulus.

POSIZIONE DEL RITROVAMENTO (FORO ROMANO)
Il sito si trova nei pressi della Porta Mugonia (che prende forse il nome dai muggiti degli armenti che inizialmente vi passavano, via il Foro Boario) e del cosiddetto ‘Muro di Romolo’ (datato VIII secolo a.c. ed indicato da Carandini come prima fortificazione della città).

È stato trovato un altare in blocchi di tufo, che sembra essere stato in funzione tra il VI ed il III secolo a.c. 

In fosse disposte presso l’altare sono stati rinvenuti materiali votivi, tra cui anche un vaso miniaturizzato a vernice nera ed un ‘oscillum’ (un oggetto di forma circolare, che si usava appendere agli alberi, in segno d’offerta). 

L’area sacra in seguito fu monumentalizzata: su fondamenta in ‘opus caementicium’ (calce, sabbia, pietre e cocci) fu creato un piccolo, ma prezioso, edificio, con muri composti da mattoni squadrati di tufo. 

Al tempio di questa fase forse si riferiva Ovidio, quando scrive del tempio di Giove Statore al Palatino: la fase compresa tra gli anni 125 e 100 a.c. Fino ad oggi non se ne aveva notizia alcuna.



L'ULTIMA DOMUS DI GIULIO CESARE

Ma c'è un'altra strabiliante scoperta, perché a ridosso dell'area sacra antistante la porta Mugonia sono stati trovati anche i resti di una prestigiosa dimora di età sillana (costruita fra il II e il I sec. ac.) che potrebbe essere stata l'ultima casa di Cesare nel 45-44 a.c.

Una domus dall'atrium ridotto, ma con una grande sala di rappresentanza (tablinum) dotata di un sistema di chiusura per proteggere, con tutta probabilità, gli archivi di famiglia. Sarebbe questa la casa costruita con denaro pubblico in cui Cesare avrebbe trascorso gli ultimi giorni di vita, prima di essere assassinato alle Idi di marzo del 44 a. c.

TITO TAZIO

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TITO TAZIO


Nome: Titus Tatius
Nascita: ?
Morte: 745 a.c.
Regna: 750-745 a.c.














Secondo le antiche tradizioni romane Titus Tatius (748 ac) fu il re sabino di Cures, una delle città stato cui vennero rapite le donne dai romani, i quali avevano popolato l'urbe dando asilo ai ricercati e ai reietti, di certo non i migliori come cives ma forse ottimi per combattere. La mancanza di donne aveva fatto loro rapire le donne dei popoli vicini attirandoli con una festa e i derubati di figlie e mogli come prima reazione si rivolsero a Tazio, che pertanto era già un tipo di riguardo:
« ...e da ogni parte si radunavano attorno a Tito Tazio, re dei sabini. E a lui facevano capo anche ambascerie perché grandissima era la sua fama in quelle regioni»
Il re di Cures vendicò infine il rapimento delle donne sabine attaccando Roma e catturando il Campidoglio con l'aiuto del tradimento di Tarpeia. 
« Un'ultima guerra venne dai sabini e fu di gran lunga la più difficile. I sabini, infatti, non erano mossi da ira o da ingordigia di bottino; soprattutto non fecero trapelare nulla della loro volontà di guerra prima di essere pronti in armi.»
Però le donne sabine convinsero tanto Tatius quanto Romulus a riconciliarsi, a riunirsi in un unico popolo e a governare unitamente su di esso. Roma conservò il suo nome e il suo popolo si chiamò Romano, ma come comunità di definirono Quiriti; i Sabini poi vennero incorporati nelle tribù e nelle curie, dando origine al "populus Romanus quirites"
Tazio si stabilì con il popolo sabino sul Quirinale mentre i romani rimasero sul Campidoglio.
Tutto filò liscio per 5 anni finchè re Tazio venne ucciso per vendetta dagli abitanti di Lavinio, così Romolo regnò da solo, e Tatio, essendo contemporaneo a Romolo non rientrò nel fatidico numero dei "Sette re di Roma".
Ebbe una figlia di nome Tatia, che sposò Numa Pompilio (il successore di Romolo), ed un figlio, che fu l'antenato della nobile famiglia dei Tatii.
Varrone narra di Tazio come un re di Roma che ampliò la città e stabilì alcuni culti, ovviamente sabini. Fu infatti Tito a dedicare un piccolo tempio al Dio Semo Sancus sul Quirinale, un Dio sabino ovviamente..

NUMA POMPILIO CON EGERIA


CURES

Cures era una città sabina posta tra la riva sinistra del Tevere e la Via Salaria, a circa 26 miglia da Roma, là dove oggi sorge Fara Sabina.
Secondo Livio il re successore a Romolo, Numa Pompilio, era proprio un cittadino di Cures, nato a Cures e lì residente quando venne acclamato re di Roma. 



LE OPINIONI

Secondo Mommsen, la storia della sua morte sarebbe la versione storica della soppressione della vendetta di sangue. Tazio, che per certi versi assomiglia Remus, non sarebbe un personaggio storico, ma l'eroe eponimo del collegio religioso dei Sodales Titii sui quali Tacito esprime due opinioni diverse, che rappresentano due diverse tradizioni: che è stato introdotto sia da Tazio se stesso per conservare il culto Sabino a Roma, o da Romolo in onore di Tazio, alla cui tomba i suoi membri erano tenuti ad offrire un sacrificio annuo. 
I sodales cessarono alla fine della repubblica, ma vennero ricollocati da Augusto e durarono fino alla fine del II sec. dc. Sia Augusto che l'imperatore Claudio appartenevano al collegio, i cui membri erano tutti di rango senatorio.  Altri pensano che Tazio possa essere l'eponimo della tribù dei Titii, o anche una invenzione per costituire un precedente per la magistratura collegiale.
TITO TAZIO

COME ANDO' VERAMENTE

Sicuramente vi fu scontro tra i Sabini e i Romani, come sempre avveniva nel circondario delle città laziali e oltre. Evidentemente non vi questa vittoria schiacciante dei romani ma le battaglie dovettero durare a lungo finchè prevalse il buon senso femminile. Non dimentichiamo che all'epoca c'era ancora in diversi popoli, come dimostrò parecchi secoli dopo Bachofen, un retaggio matriarcale, dove i re comandavano le città e gli eserciti, ma la religione e l'interpretazione della volontà divina era affidata alle donne. Evidentemente le sacerdotesse sabine si accordarono con le sacerdotesse romane per una pace congiunta. 
Guarda caso Tarpeia era un'antica divinità preromana e colei che aprì le porte di Roma era una vestale, cioè una sacerdotessa. Nell'inquinamento storico Tarpeia diventò addirittura la figlia del portinaio che aprì le porte ai sabini in cambio di un bracciale d'oro. Occorre precisare che la rupe Tarpea era dedicata anticamente alla Signora delle selve, da Tharphos, greco che significa appunto selva boscaglia. Tanto più che il vezzo di buttare la gente dalla rocca è prettamente greco e sicuramente già vigeva.

Non a caso poi vi si rinvenne la testa di una Dea che rivestì il ruolo di Roma caput mundi. E la testa fu rinvenuta proprio sulla rupe Tarpea, e in questo mito l'augure raccomanda di non rivelare il luogo della scoperta. Come mai? Forse per non rivelare che gli antenati di Roma furono matriarcali e con una Dea Madre, cosa che riscoprirà ben nel XIX secolo Bachofen col suo contestatissimo ma veritiero " Il Matriarcato". Tanto è vero che di diversi Re di Roma si ignora la paternità, solo perchè all'epoca si diventava re in quanto figli o mariti di una regina. Per Romolo il padre diventa Marte, ma in realtà è figlio di una sacerdotessa vestale, che sicuramente in epoca antichissima erano tutt'altro che caste. D'altronde Romolo ratificò l'alleanza sposando una sabina, una certa Ersilia, da cui ebbe una figlia e pure un figlio che però non ereditò il trono. Forse non è vero che si eleggessero re per acclamazione, almeno all'inizio, ma occorreva sposare una sacerdotessa per diventarlo.
Da notare poi che furono le donne a decidere la sospensione della guerra, il che dimostra il potere che avevano, potere che persero in pieno patriarcato dove Lucrezia viene uccisa dal fratello solo per aver pianto per la morte del fidanzato seppur nemico. 
E poi Plutarco in Vita di Romolo, racconta che:
"Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall'altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un Dio."

IL TRADIMENTO DI  TARPEIA
Le future romane non avrebbero osato tanto, ma soprattutto urlarono e minacciarono con richiami di guerra, evidentemente erano anche guerriere altrimenti non avrebbero usato di quei richiami che certamente dovevano essere terribili per intimidire il nemico, un po' come si fa nelle squadre di rugby e anche peggio.
Ma c'è di più, il successore di Tazio fu Numa Pompilio che aveva sposato la figlia Tazia o Tatia che dir si voglia. All'epoca i re erano maschi ma prendevano il potere dalle donne. Così andò in Egitto, dove i faraoni si sposavano sorelle e figlie per poter ereditare il comando, così fu in Grecia, dove Egisto ad esempio divenne re sposando la regina Clitennestra, e così più anticamente uno dei Proci sarebbe diventato re di Itaca sposando la regina Penelope.
Ma ancora una cosa ci convince ancor più che le sabine fossero matriarcali e avessero un potere, perchè le fonti narrano che fecero coi romani un patto di comportamento in caso di matrimonio, ed ecco le regole:
1) non dovranno mai lavorare per i loro mariti, salvo filare la lana;
2) per la strada gli uomini dovranno cedere loro il passo;
3) nulla di sconveniente sarà detto a loro o in loro presenza;
4) nessun uomo potrà mostrarsi nudo davanti a loro;
5) i loro figli avranno una veste speciale (praetexta) e un ciondolo d'oro (bulla aurea).

Non è da escludere che fosse all'epoca preponderante il potere sabino a Roma, come lo divenne poi quello etrusco. Ma basta leggere le leggi che le sabine imposero ai romani per ratificare la pace per
capire che la decisione spettava a loro.



LA MORTE

Dopo la morte, il corpo di Tazio fu riportato a Roma e sepolto sul colle Aventino. La sua tomba si trovava all'interno di un bosco sacro di allori (Loretum), situato nell'area dell'attuale piazza Giunone Regina. Su quella tomba i romani sacrificarono ogni anno e sul Quirinale onorarono il Dio Quirino a cui probabilmente era stato assimilato Tito Tazio, e a cui poi venne poi assimilato Romolo.

LA FALANGE ROMANA

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FALANGE MACEDONE


LA FALANGE MACEDONE

« Dai Tirreni [i Romani presero] l'arte di fare la guerra, facendo avanzare l'intero esercito in formazione di falange chiusa» (Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti o I dotti a banchetto)

La più antica raffigurazione di una formazione a falange si trova in una stele sumera, dove le truppe di Lagash (città sumera) sono armate con lance, elmi e larghi scudi che coprivano tutto il corpo; anche la fanteria egizia utilizzò questo tipo di tattica militare. Tuttavia, gli storici non sono ancora d'accordo sul fatto che la formazione greca si sia ispirata o meno a questi precedenti modelli.

Comunque la falange greca venne utilizzata negli eserciti mercenari fin dai tempi del faraone Psammetico I, il fondatore della XXVI dinastia. Successivamente subì molte modifiche, fino a generare la popolarissima falange macedone.

Questa era una particolare formazione tattica dell'esercito macedone, introdotta da re Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, nella sua riforma delle forze armate. I successi di Filippo II prima e di Alessandro poi crearono intorno alla falange macedone un mito di invincibilità che durò per molti secoli.

Nella falange macedone vi erano due schieramenti fondamentali:
  • Gli hypaspistai (portatori di scudi dei compagni), un corpo di opliti d'élite con armatura, scudo greco, l'aspis, ed erano armati di picca e spada. Divisi in chiliarchie di un migliaio di uomini;
  • I pezeteri, il cuore della falange, protetti da armature pesanti e da schinieri, armati con la lunghissima picca macedone che obbligava a portare lo scudo sulla spalla sinistra. 
Lo schieramento della falange era rettangolare, con la fronte al nemico: le lunghe picche delle prime file venivano puntate orizzontalmente davanti alla falange, mentre quelle dei compagni più arretrati venivano tenute in alto e abbassate solo nell'impatto con il nemico, quando le file della falange si comprimevano. In questo modo le prime picche colpivano il nemico e costringevano chi riusciva ad evitarle a restare in mezzo alle loro aste, diventando bersagli della fila successiva. Schiacciati gli uni contro gli altri, gli uomini della falange si proteggevano vicendevolmente con gli scudi portati sulla spalla.

Il principale difetto dello schieramento era la vulnerabilità ai fianchi. Gli hypaspistai dovevano infatti proteggere i fianchi dei picchieri sfruttando la loro rapidità per armi da lancio o nel corpo-a-corpo. Ulteriore protezione veniva dalla cavalleria degli etèri, ai fianchi dello schieramento.



Uno dei luoghi comuni è che l'oplita greco fosse più addestrato e disciplinato del militare persiano. In realtà l'oplita nasce tra la fine del sec. VIII e l'inizio del VII per l'impossibilità del piccolo proprietario terriero greco di addestrarsi con continuità.

C'era anzi la convinzione dell'inutilità e della nocività dell'addestramento, tanto è vero che  Pericle rimprovera gli spartani di dedicarvi troppo tempo. L'oplita è un ottimo militare, un eccezionale esempio di economia di sforzi, ma non un modello di organizzazione. Per fare un oplita servono soprattutto molto denaro per l'equipaggiamento e forza bruta per sostenerne il peso (dai 15 ai 20 kilogrammi), mentre si possono minimizzare la necessità dell'addestramento, dell'organizzazione e del coraggio personale.

 Era assolutamente indispensabile, però, il legame e la fiducia tra i soldati., il cittadino greco dedicava grandi risorse materiali, dotandosi in primo luogo di una panoplia difensiva completa e costosissima, che aveva come elemento principale l'Oplon, un ampio scudo rotondo, sempre riccamente decorato e personalizzato.



LA FALANGE ROMANA

Dai ritrovamenti archeologici risulta che il primo esercito romano, quello di epoca romulea, era costituito da fanti che avevano preso il modo di combattere e l'armamento dalla civiltà villanoviana della vicina Etruria.
L'esercito era formato da gruppi di uomini in grado di armarsi e mantenersi da soli, in quanto membri delle gentes aristocratiche, che avevano inoltre un certo seguito di clienti, bisognosi di protezione ma anche capaci di combattere per conquistarsi un bottino o una ricchezza. I combattimenti si facevano a  piedi, anche se gli aristocratici si spostavano a cavallo.

I guerrieri combattevano prevalentemente a piedi con lance, giavellotti, spade, in genere in bronzo, raramente in ferro, pugnali ed asce, mentre solo i più ricchi potevano permettersi un'armatura composta da elmo e corazza, gli altri una piccola protezione rettangolare sul petto, davanti al cuore.

I più indigenti, non potendo permettersi a protezione del proprio corpo nessuna armatura completa, ma solo scudi in legno, venivano schierati nelle file più arretrate. I più poveri, dotati di sole armi da lancio, o di scuri, erano invece utilizzati all'inizio dello scontro, per provocare e disturbare il nemico schierato con continui e fastidiosi lanci di proiettili da lontano, oppure all'inseguimento del nemico in fuga, dopo uno scontro vittorioso.



LA LEGIONE ROMANA

Secondo Livio, sarebbe stato Romolo a creare, sull'esempio della falange greca, la legione romana, formata da 3.000 fanti e 300 cavalieri, disposta su tre file, con la cavalleria ai lati. Ogni fila di 1.000 armati era comandata da un tribunus militum, mentre gli squadroni di cavalleria erano alle dipendenze dei tribuni celerum.

Il comandante dell'esercito era il re, con un luogotenente, il magister populi, il quale nominava un proprio sottoposto: il magister equitum. Nel VI sec. a.c., Servio Tullio riforma l'esercito di Roma: tutti gli uomini, non solo gli aristocratici, in grado di pagarsi un armamento completo con scudo, corazza, schinieri, elmo, lancia e spada in metallo, potevano combattere e guadagnarsi non solo una parte del bottino ma anche una carica politica nella città.

Quelli che erano inferiori a un certo censo, i proletarii, potevano combattere solo con armi rudimentali, fuori dallo schieramento della falange e senza ottenere ruoli politici.

Gli scudi erano di forma prevalentemente rotonda (i clipeus, abbandonati secondo Tito Livio attorno alla fine del V sec. a.c.).

Plutarco narra che una volta uniti tra loro, Romani e Sabini, Romolo introdusse gli scudi di tipo sabino, abbandonando il precedente di tipo argivo e rafforzando le precedenti armature, il che fu la base dell'adottamento non solo della Falange romana ma della Testuggine romana.

Infatti la copertura che potevano offrire gli scudi rettangolari non aveva paragone con quella offerta dagli scudi tondi, permettendo con un tempismo e una sintonia eccezionale, consentite da un addestramento militare eccezionale, un muro inespugnabile di metallo che rimbalzava la maggior parte dei colpi nemici, tanto nei combattimenti che negli assedi.

Con il crollo della monarchia la legione venne comandata da due consoli. Nei comizi centuriati i ceti benestanti disponevano sempre di più voti, coi quali potevano eleggere i magistrati, i comandanti militari e dichiarare la guerra o la pace. Si votava infatti per centurie, non individualmente, e i più ricchi erano distribuiti in un maggior numero di centurie.

Queste assemblee si tenevano fuori del pomerio, al cui interno non si potevano portare armi. le proposte venivano presentate dai magistrati e i cittadini si limitavano a votarle, senza discuterle.

Tabella dei cittadini romani censiti come abili alle armi:

Anno 393-392 - censiti  150.000
Anno 340-339 - censiti  152.573
Anno 339-338 - censiti 165.000
Anno 294-293 - censiti 262.321
Anno 288-287 - censiti 271.224
Anno 280-279 - censiti 272.000
Anno 276-275 - censiti  287.222

Durante la guerra decennale contro Veio, conclusasi nel 396 a.c., fu introdotto il soldo, un contributo dei cittadini alle spese di vestiario e di armamento dei soldati. Ogni romano diventava abile alle armi a 17 anni, quando indossava la toga virile ed entrava a far parte degli iuniores, dove vi restava fino a 46 anni, dopodiché apparteneva ai seniores, cioè alla riserva, richiamabile per una guerra in casi di particolare pericolo.



PIRRO E LA FALANGE

Il re Pirro utilizzava uno schieramento ellenico di tipo falangitico, molto temibile per i Romani, e siamo agli inizi III sec. a.c.. Nonostante le iniziali sconfitte subite dalla Repubblica romana, anche il re subì grandi perdite da cui il famoso detto "vittoria di Pirro". Pirro schierava la sua falange attraverso unità miste di elefanti da guerra, formazioni di fanteria leggera, unità di élite e la cavalleria, tutte a sostegno del corpo principale di fanteria. L'utilizzo di tutte queste componenti permise ai Greci della Magna Grecia di sconfiggere i Romani finchè questi non ne fecero tesoro riuscendo definitivamente a battere le falange ellenica nel 168 a.c.



LA FALANGE OPLITICA


Riforma di Servio Tullio (580 a.c. circa)

Tito Livio racconta quale fosse l'ordine di marcia dell'esercito romano in territorio nemico, ovvero l'agmen quadratum, che prevedeva in testa e in coda  le due legioni consolari, ai lati le ali dei socii e al centro i bagagli di tutte le unità ( impedimenta delle legio I e II e delle due ali). Quest'ordine di marcia fu utilizzato fin dall'inizio della Repubblica, anche durante le guerre sannitiche, la guerra annibalica, la guerra giugurtina, e la battaglia di Carre. Mettere i bagagli al centro significava infatti evitare le scorribande nemiche che sottraevano parte dei bagagli, quindi armi, vettovaglie ecc., importantissime per la prosecuzione della guerra.

Con il predominio etrusco a Roma e la riforma di Servio Tullio, il nuovo esercito, di stampo etrusco-greco, fu reclutato tra i cittadini romani secondo il loro ceto sociale, tra le cinque differenti "classi". L'esercito comprendeva corpi di opliti, la fanteria pesante, di velites, truppe leggere, e la cavalleria.


Opliti

Gli opliti della prima fila formavano una parte di scudi rotondi parzialmente sovrapposti, in modo che il loro fianco destro venisse protetto dallo scudo del vicino, armati di lancia e spada, con scudo, elmo e corazza.I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dimostrare il proprio coraggio ai propri soldati, e incoraggiarli nella battaglia, rischiando spesso la morte.

L'obiettivo era di far cedere lo schieramento opposto e spezzarne le file. Le formazioni più arretrate si accalcavano e spingevano la prima fila contro la prima fila nemica. Qui l'avanzamento coraggioso del singolo combattente era pericoloso, potendo portare alla rottura dello schieramento con conseguenze disastrose. La fuoriuscita dalle linee del proprio schieramento era colpa gravissima, infatti nel 340 a.c., come narra Livio, il console Tito Manlio Torquato punì il proprio figlio con la decapitazione, per aver disobbedito agli ordini, spingendosi con grande coraggio oltre le file romane e mettendo a rischio l'integrità del proprio schieramento.


Truppe leggere

Le truppe leggere comprendevano fanti leggeri e tiratori e dovevano provocare il nemico, disturbarlo e disorganizzarlo prima dell'urto degli opliti. I fanti leggeri erano armati di giavellotti, difesi da uno scudo rotondo, indossavano un elmo ma non usavano corazza né piastre pettorali. I tiratori potevano essere arcieri o frombolieri e portavano al fianco una piccola spada, pugnale o coltello per la difesa personale, ma non avevano alcuna protezione. Vanno anche ricordati gli ascieri, che operavano insieme agli opliti con il compito di tagliare le lance della formazione avversaria: essi usavano inizialmente un'ascia ad una mano nel periodo villanoviano, per poi passare a quelle a due mani ad un taglio o bipenni. La loro protezione era affidata ad un elmo e a una protezione pettorale, piastre o corazze.


La cavalleria

La cavalleria si basava sulla mobilità e aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, nonché per azioni di disturbo o di inseguimento al termine della battaglia, o infine per spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti: non è quindi ipotizzabile una cavalleria "da urto". Quei cavalieri che, nelle stele funerarie appaiono armati di lancia e spada, protetti da un elmo, magari con scudo e piastra pettorale, erano molto probabilmente una sorta di fanteria oplitica mobile.


Armi e Armature

Lo scudo di grandi dimensioni poteva essere rotondo in bronzo con due maniglie (di tipo argivo) oppure rettangolare con bordi arrotondati e rinforzo verticale centrale. L'elmo di bronzo poteva avere o meno la cresta ed era inizialmente di tipo villanoviano, con la famosa cresta metallica, o di tipo Negau a morione; successivamente si usarono elmi a campana e, a seguito dei contatti con le città greche, di tipo calcidese (con paraguance e paranuca e le orecchie scoperte), corinzio (a copertura quasi totale, con paranaso ed una sola fessura centrale per gli occhi e parte della bocca) ed etrusco-corinzio (senza paranaso e con apertura leggermente più aperta. La protezione alle gambe era per gli schinieri di bronzo,  solo per gli opliti armati più pesantemente.




FORMAZIONE DA COMBATTIMENTO

Un primo esempio di " testuggine" (testudo) fu menzionata da Tito Livio nel corso dell'assedio di Veio e di quello di Roma degli inizi del IV sec. In questa situazione i soldati romani serravano le file e si avvicinavano tra loro, quasi fossero delle tegole di un tetto che ripara dalla "pioggia di dardi e frecce", sovrapponendo gli scudi, tenendoli di fronte a loro ed alzati sulle loro teste. Sembrava di vedere un carro armato vivente, che avanzava sotto i colpi degli arcieri nemici, limitando al minimo le perdite. Ovviamente la testuggine era una formazione lenta, che era spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, oppure in battaglia in campo aperto, quando si era circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di Marco Antonio.

Questo tipo di formazione era usato soprattutto in fase di assedio alle mura di una fortezza nemica. Viene ricordata ancora da Livio durante le guerre sannitiche o da Gaio Sallustio Crispo durante la guerra giugurtina. E perché fosse efficace, necessitava di grande affiatamento di reparto, coordinazione nei movimenti ed esercitazioni specifiche.

« Descriverò ora la formazione a testuggine e come si forma. I bagagli, la fanteria leggera ed i cavalieri sono collocati al centro dello schieramento. Una parte della fanteria pesante, armata con gli scudi concavi semicircolari, si dispone a forma di quadrato (agmen quadratum) ai margini dello schieramento, con gli scudi rivolti verso l'esterno a protezione della massa. Gli altri che hanno gli scudi piatti, si raccolgono nel mezzo e stringendosi alzano gli scudi in aria a difesa di tutti. Per questo motivo, in tutto lo schieramento si vedono solo gli scudi e tutti sono al riparo dalle frecce nemiche, grazie alla compattezza della formazione.  I Romani ricorrono a questa formazione in due casi: quando si avvicinano ad una fortezza per conquistarla; o quando, circondati da ogni parte da arcieri nemici, si mettono in ginocchio in contemporanea, compresi i cavalli che sono addestrati a mettersi sulle ginocchia o a sdraiarsi a terra. così fanno credere al nemico di essere sfiniti e quando i nemici si avvicinano, si alzano all'improvviso e li annientano. »
(Cassio Dione Cocceiano, Storie, XLIX, 30.)




L'ASSEDIO

« Gli armati sbucarono nel tempio di Giunone che sorgeva sulla rocca di Veio: una parte aggredì i nemici che si erano riversati sulle mura, una parte tolse il serrame alle porte, una parte diede fuoco alle case dai cui tetti donne e schiavi scagliavano sassi e tegole. Ovunque risuonarono le grida miste al pianto delle donne e dei fanciulli, di chi spargeva terrore e di chi il terrore subiva. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)
Appartengono a questo periodo i primi assedi subiti dalla città di Roma ad opera degli Etruschi di Porsenna e dei Galli di Brenno, da cui i Romani evidentemente appresero nuove tecniche per occupare le vicine città etrusche e latine. Risalirebbe, infatti, al 396 a.c. il primo importante assedio ad opera dei Romani tramandatoci dagli antichi scrittori latini: la caduta di Veio, dove si racconta che Camillo si diresse su Veio, fece costruire alcuni fortini ed una galleria che doveva arrivare fino alla rocca, passando sotto le mura nemiche. 

Gli scavatori furono divisi in sei squadre che si avvicendavano ogni sei ore. Dopo giorni e giorni in cui gli assalti romani erano stati sospesi, con sommo stupore degli etruschi, il re di Veio stava celebrando un sacrificio nel tempio di Giunone quando gli assaltatori romani, che avevano quasi terminato lo scavo e attendevano di abbattere l'ultimo diaframma, udirono il presagio dell'aruspice etrusco: la vittoria sarebbe andata a chi avesse tagliato le viscere di quella vittima. 
I soldati romani uscirono dal cunicolo, iniziarono l'attacco e prese le viscere le portarono al loro dittatore. Nello stesso tempo fu sferrato l'attacco generale di tutte le forze romane contro i difensori delle mura. Così, mentre tutti accorrevano sui bastioni, In una pausa dei combattimenti Camillo ordinò, per mezzo di banditori, di risparmiare chi non portava armi. Il massacro si arrestò e si scatenò il saccheggio.



IL METUM GALLICO

Roma, al principio del IV sec. a.c. aveva sviluppato una disciplina e organizzazione militare senza precedenti, uscendo vittoriosa nel 396 a.c. dalle guerre con Veio. La caduta di Veio aveva comportato l'alleanza offerta a Roma da Caere (Cerveteri), per cui quando i Galli Senoni attaccarono la città di Clusium (chiusi), questa chiese aiuto a Roma, che accorse.  I Romani fronteggiarono i Senoni in una battaglia campale presso il fiume Allia (390 - 386 a.c.) I Galli, guidati da Brenno, sconfissero un'armata romana di circa 15.000 soldati e incalzarono i fuggitivi fin dentro la stessa città, che fu costretta a subire una parziale occupazione e un umiliante sacco, prima che gli occupanti fossero scacciati o, secondo altre fonti, convinti ad andarsene dietro un pesante riscatto.

Nel 225 a.c. i romani dovettero ancora affrontare i Galli, il famoso METUM GALLICO, il terrore che sempre costellò gli incubi dei romani.. In seguito a questi eventi i Romani potrebbero aver adottato un nuovo tipo di elmo (chiamato di Montefortino, che venne utilizzato fino al I sec. a.c. dall'esercito romano,), uno scudo protetto da bordi in ferro ed un giavellotto tale, da conficcarsi e piegarsi negli scudi avversari, rendendoli inutilizzabili. Plutarco racconta, infatti, che 13 anni dopo la battaglia del fiume Allia, in un successivo scontro con i Galli (databile al 377-374 a.c.), i Romani riuscirono a battere le armate celtiche, scongiurandone l'invasione. 

Polibio:
« Camillo portò i suoi soldati giù nella pianura e li schierò a battaglia in gran numero con grande fiducia, come i barbari constatarono, non più timidi o pochi in numero, come si aspettavano. Questo distrusse la fiducia dei Galli, che credevano di poter attaccare per primi. Poi i velites attaccarono, costringendo i Galli ad entrare in azione, prima che avessero preso posizione con lo schieramento abituale, al contrario schierandosi per tribù, e quindi costretti a combattere a caso e nel disordine più totale. Quando Camillo condusse i suoi soldati all'attacco, il nemico sollevò le proprie spade in alto e si precipitò all'attacco. Ma i Romani lanciarono i giavellotti contro di loro, ricevendone per contro i colpi sulle parti dello scudo  protette dal ferro, che ora ricopriva gli spigoli, fatti di metallo dolce e temperato debolmente, tanto che le loro spade si piegarono in due; mentre gli scudi nemici furono perforati e appesantiti dai giavellotti. I Galli allora abbandonarono le proprie armi e cercarono di strapparle al nemico, tentando di deviare i giavellotti afferrandoli con le mani. Ma i Romani, vedendoli così disarmati, misero mano alle spade, e ci fu una grande strage dei Galli in prima linea, mentre gli altri fuggirono nella pianura; le cime delle colline e dei luoghi più elevati erano stati occupati in precedenza da Camillo, e i Galli sapevano che il loro accampamento poteva essere facilmente preso, dal momento che, nella loro arroganza, avevano trascurato di fortificarlo. Questa battaglia, dicono, fu combattuta tredici anni dopo la presa di Roma, e produsse nei Romani una sensazione di fiducia verso i Galli. Essi avevano potentemente temuto questi barbari, che li avevano conquistati in un primo momento, più che altro credevano che ciò fosse accaduto in conseguenza di una straordinaria disgrazia, piuttosto che al valore dei loro conquistatori.»
(Plutarco, Vita di Camillo, 41, 3-6.)

Sia Livio che Cesare raccontano che, durante la battaglia di Sentino del 295 a.c. e la conquista della Gallia del 58-50 a.c., questi conoscevano già la tecnica-tattica della testuggine, da cui forse i Romani l'avrebbero appresa:
« distava otto miglia una città dei Remi di nome Bibrax. I Belgi appena giunti, cominciarono ad assaltarla con grande impeto. Per quel giorno a stento si poté resistere. Questa è la tecnica d'assalto usata in modo similare da Galli e Belgi: una volta circondate tutte le mura, con un gran numero di armati da ogni parte, cominciano a tirare pietre sul muro ed il muro viene liberato dai difensori; fatta poi la testuggine, danno fuoco alle porte e scavano il muro. E ciò facilmente gli riusciva, poiché essendo così numerosi nel tirare pietre e proiettili, nessuno poteva rimanere sulle mura. »
(Cesare, De bello Gallico)

Ci vorrà Cesare, in 8 anni di guerre oltre confine, per sconfiggere definitivamente i temuti galli e annientare il Metum gallicum.

"Cesare, conclusa la guerra contro i Belgi, decise di attraversare il Reno per incutere timore ai Germani, che avevano fatto la guerra insieme ai Galli contro i Romani. Ma non riteneva fosse sicuro traghettare l’esercito al di là del fiume. Anche se la costruzione di un ponte presentava grandissima difficoltà, a causa della larghezza, della forza della corrente, della profondità del fiume, il condottiero Romano intraprese l’impresa immane e in dieci giorni la concluse. Condotto poi l’esercito al di là (del fiume), lasciato un robusto presidio ad entrambe le parti del ponte, mosse verso il territorio dei Sigambri, che fra tutti i Germani erano i più ostili ai Romani. Allora da molte città vennero a lui ambasciatori che chiedevano pace ed amicizia, ai quali rispose con generosità. Ma i Sigambri, preparata la fuga, erano usciti dai loro territori ed avevano portato con sé tutte le loro cose. Il condottiero dei Romani però, dopo pochi giorni, dati alle fiamme tutti i villaggi e reciso tutto il frumento, dopo avere trascorso diciotto giorni al di là del Reno, portate a termine tutte le operazioni per le quali aveva preso la decisione di far passare al di là l’esercito, soddisfatto si ritirò in Gallia e tagliò il ponte".



L'ADDESTRAMENTO

Fu questo l'arma migliore dei romani in ogni epoca, dalla repubblica all'impero. Ai barbari non mancava il coraggio e l'abnegazione che non erano inferiori a quello romano, ma mancava la forza di volontà coltivata attraverso la ferrea disciplina. In più questa ferrea disciplina non era fine a se stessa, ma era mirata non solo alla vittoria ma a salvaguardare la vita dei soldati romani. Per questo le truppe romane la seguirono con grande fervore, consci che da questa poteva derivare non solo la salvezza di Roma ma quella loro personale.

I più grandi strateghi nell'addestramento dei soldati furono senza dubbio Gaio Mario e Cesare che infatti compirono imprese straordinarie con un numero di soldati quasi sempre inferiore a quello nemico, per la straordinaria macchina da guerra che avevano costruito attraverso l'addestramento puntiglioso e pesante dei propri uomini. Addestramento che poterono far rispettare seppure faticosissimo grazie alla venerazione che i soldati ebbero verso questi due straordinari e carismatici comandanti.

Sia Mario che Cesare fecero uso delle più svariate tecniche di guerra, incluse ovviamente la falange e la testuggine. Ma per capire cosa fosse l'addestramento bisogna comprendere cosa fosse necessario ad esempio affinchè un drappello di soldati fossero simultanei e pronti all'ordine del centurione di entrare in formazione testuggine:

  • bloccandosi tutti allo stesso istante, 
  • alzando lo scudo insieme a quello del vicino per non intralciarlo e non esserne intralciato, 
  • alzandolo allo stesso istante e con la stessa velocità dell'altro per non intralciarlo e non esserne intralciato, 
  • alzarlo in modo da giungere ad aver coperto il volto ma non gli occhi e alla stessa altezza dello scudo vicino per non intralciarlo e non esserne intralciato, 
  • ad alzarlo superiormente senza colpire il compagno anteriore e posterore, ad abbassarlo ai lati sempre con movimenti accuratamente precisi, veloci e misurati, per non lasciare spazio alle lance e alle frecce che potevano insinuarsi negli spazi vuoti, così precisi da riparare pure durante i movimenti.
Una tale sicronia si otteneva solo con un allenamento costante, preciso ed estenuante, fino a trasformare i soldati in macchine da guerra. Non a caso si diceva che un soldato romano valeva 10 soldati barbari.


SCUTUM


SCUDO REPUBBLICANO
I greci usarono soprattutto gli scudi argolici di forma rotonda. Tramite gli Etruschi lo scudo greco rotondo passò ai Romani (clipeus), che lo adottarono in forme più ridotte di quelle dell'antico scudo quadrangolare, usato invece dai sabini e dai sanniti. Accanto ai tipi in pelle con rinforzo di piastre metalliche e tutti in bronzo, i Romani elaborarono per la fanteria un'ottimo scudo di vimini intrecciato con rivestimento di metallo o cuoio.

Lo Scudo romano repubblicano (Scutum), era eseguito in legno con bordature in ottone e umbone centrale in acciaio. 
Originale ritrovato a Mainz (Germania).
Aveva misure di cm 126 x 88. Come si vede era più convesso e stondato di quello imperiale.
Altri scudi romani rotondi furono la leggera parma e la cetra, quest'ultimo diffuso nelle colonie dell'Impero.  I Velites portavano uno scudo tondo, i legionari usarono lo scutum sannitico, di forma rettangolare convessa, in legno rivestito di panno o cuoio con guarnizioni metalliche. Nel basso Impero lo scudo romano si sviluppò in forma circolare allungata.

SCUDO LEGIONARIO
Lo scudo del legionario romano di forma rettangolare introdotto a partire dal tardo I sec. d.c. e in uso sino al III sec. circa.
Veniva realizzato con più strati di legno incollati tra loro e rivestito in cuoio con i bordi rinforzati in bronzo. Dello stesso materiale era anche l'umbone centrale a protezione dell'impugnatura. 
Lo strato esterno era infine in tessuto, dipinto con colorazioni e simboli differenti a seconda dell'unità che rappresentava.

Lo scudo romano da Centurione era anch'esso in legno con bordature in ottone e umbone centrale sempre in ottone, ma di forma ovale. Di cm 173 x 75.
Dunque più lungo ma più stretto di quello del normale legionario, anche perchè il Centurione comandava la Centuria e non doveva formare la falange, nè tanto meno la testuggine coi propri compagni d'arme.



 LA TESTUGGINE

SCUDO CENTURIONE
L'introduzione dello scudo rettangolare fece si che i romani trasformassero la falange romana in un'altra geniale formazione tattica: la testuggine (o Testudo)
Lo schieramento, apparentemente semplice, era in realtà molto complesso, richiedendo un eccezionale coordinamento collettivo. Era ideato appositamente per un drappello di legionari, armati con il gladio e, in particolare, con l'ampio e robusto scudo quadrangolare in dotazione alle legioni.

Si svolgeva così: i soldati della prima fila tenevano gli scudi alzati a protezione frontale, con lo scudo che arrivava sotto agli occhi, in modo da formare una barriera senza interruzioni. Lo stesso facevano i componenti laterali dello schieramento, coprendo il fianco e tutta la testa.
All'interno della testuggine, a partire dalla seconda fila e a file alternate, perchè ogni scudo orizzontale copriva due uomini, gli scudi venivano tenuti sollevati in modo da proteggere in alto i fanti sottostanti sia della fila immediatamente precedente che di quella immediatamente successiva.

Con questa formazione si poteva avanzare fino al contatto con le prime file nemiche riparandosi da frecce e proiettili e occultando il reale numero dei componenti, magari con un effetto sorpresa. Grazie alla protezione che offriva, questa formazione era particolarmente usata durante gli assedi. Nello schieramento, di forma rettangolare o quadrata, si susseguivano più file di fanti pesanti, dotati dei caratteristici grandi scudi rettangolari e allineati spalla a spalla.

In questo modo si presentava al nemico una massa compatta e protetta in modo impenetrabile (gli unici lati vulnerabili erano quello posteriore e quello inferiore, corrispondente alle gambe dei soldati) somigliante al carapace delle tartarughe, da cui il nome di testuggine.

I legionari potevano così marciare in modo sicuro e agevole, senza affaticarsi, fino a una distanza minima dalle linee nemiche, quando lo schieramento veniva rotto e si iniziava il combattimento corpo a corpo.

Ovviamente la testuggine era una formazione lenta, che era spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, oppure in battaglia in campo aperto, quando si era circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di Marco Antonio.

Viene ricordata ancora da Livio durante le guerre sannitiche o da Gaio Sallustio Crispo durante la guerra giugurtina. Ma questa figura bellica per essere realizzata e restare efficace al massimo, richiedeva anzitutto un grande affiatamento di reparto, ma anche una perfetta coordinazione nei movimenti che solo dei soldati precisi, razionali, ordinati, obbedienti e nello stesso tempo valorosi e tenaci come i romani potevano ottenere.

Se i soldati rispondevano ottimamente agli addestramenti dei comandanti si dovette anche alla estrema capacità di questi ultimi, sia nell'ideare, che nel partecipare all'addestramento, sia nel conquistarsi l'animo dei combattenti.


CARALES - CAGLIARI (Sardegna)

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SARDINIA

Roma occupò la Sardegna fra la prima e la seconda guerra punica. Già nel 259 a.c, il suo esercito aveva tentato la conquista dell'isola, giungendovi dalla Corsica, ma il console Lucio Cornelio Scipione, dopo essersi impadronito di Olbia, aveva dovuto ritirarsi.

Dal 241 a.c. l'isola rimase sotto Cartagine che dal canto suo, avendo già perso la Sicilia, non mirò più al possesso di terre che la ponesse di nuovo in conflitto con avversari tanto pericolosi. I mercenari stanziati da Cartagine in Sardegna però s'impadronirono dell'isola, con tanta crudeltà che i Sardi, insorsero e li cacciarono.

Roma allora accusò Cartagine di preparare l'invasione del Lazio e, nel 238 a.c. inviò le legioni in Sardegna, ma nel 235 i Sardi si ribellarono, sopraffatti dai romani di Manlio Torquato. Nel 233 altre rivolte furono represse dal Console Carvilio Massimo, e nel 232 dal console Manio Pomponio, finchè nel 231 furono inviati due eserciti consolari: uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone, e uno da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi, ma senza risultati.

Dal 227, l'isola ottenne la forma giuridica ed il rango di Provincia e vi fu inviato un pretore per governarla. Per i nuovi insorti fu inviato il Console Caio Attilio Regolo, nel 225 a.c.


Ampsicora

La più importante rivolta però fu quella del 215 a.c. dopo le vittorie di Annibale in Italia. Un autorevole esponente dell'aristocrazia terriera sardo-punica, Ampsicora, aveva riunito un esercito consistente, e rinforzi da Cartagine che inviò una flotta al comando di Asdrubale il Calvo.

AMPSICORA
Il piano di Ampsicora era di dare battaglia quando tutte le forze si fossero riunite e lasciò il comando al figlio Iosto a Cornus con una parte dell'esercito. I rinforzi di Cartagine però non arrivarono in tempo per colpa di una tempesta e Iosto accettò la battaglia offerta dal comandante Manlio Torquato. L'esercito sardo fu sconfitto subendo la perdita di 3.000 soldati, 800 furono fatti prigionieri.

Asdrubale il Calvo intanto raggiunse la Sardegna, sbarcò a Tharros e respinse i Romani verso Caralis. A loro si unì Ampsicora con il resto dell'esercito. Nella piana del Campidano la coalizione sardo-punica fu duramente sconfitta. Morirono 12.000 tra Sardi e Cartaginesi e 3.700 furono fatti prigionieri fra i quali Asdrubale il Calvo ed Annone. Iosto morì in battaglia. Ampsicora affranto dal dolore per la morte del figlio, non volendo finire nelle mani dei Romani si uccise. I superstiti si rifugiarono a Cornus dove prepararono un'ultima inutile resistenza, ma questa volta vinsero i sardi. La città fu rasa al suolo e la popolazione fuggì verso l'interno dell'Isola.

La resistenza dei Sardi si protrasse ancora nel II secolo a.c. quando nel 177/176 a.c., il Senato inviò il console Tiberio Sempronio Gracco con due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più 300 cavalieri, cui si associarono altri 1.200 fanti e 600 cavalieri fra alleati e Latini. In questa rivolta persero la vita 27.000 sardi; in seguito alla sconfitta, a queste comunità fu raddoppiato il gravame delle tasse, mentre Gracco ottenne il trionfo. Tra le ultime rivolte quelle del 126 e del 122 col trionfo di Lucio Aurelio, nonchè di Marco Cecilio Metello nel 111 a.c.


Le Guerre Sociali

Durante le guerre civili romane l'isola fu prima spinta verso la fazione mariana, poi indotta a schierarsi nel campo opposto dal partito di Silla. Morto questo, il pretore mantenne la Sardegna fedele a Pompeo, finché Carales (Cagliari) non si schierò con Cesare, imitata poco dopo da tutta l'isola.

Fu scacciato il luogotenente di Pompeo, Marco Cotta, e fu accolto favorevolmente quello di Cesare, Quinto Valerio Orca. I pompeiani non si diedero per vinti e iniziarono una serie di azioni per la riconquista delle città costiere. Sulcis si arrese mentre Carales resistette, così Cesare, che vi soggiornò tra il 16 ed il 28 aprile del 46, punì la prima e premiò la seconda. Nel 44 a.c., la Sardegna, assegnata ad Ottaviano, fu invece occupata da Sesto Pompeo che la tenne come base per la lotta contro i cesariani fino al 38 a.c., quando, tradito dal suo luogotenente, fu soppiantato da Ottaviano nel possesso dell'isola.


L'Impero

Nel 27 a.c. le province dell'Impero Romano furono ripartite tra le province affidate all'Imperatore Augusto, governate da legati di rango senatorio, e province affidate al senato, governate da proconsoli di rango senatorio.

LA FULLONICA
La violenza di questa rivolta costrinse Augusto a rimuovere i senatori dal comando dell'isola ed a prenderne lui stesso il controllo diretto ma la rivolta non durò molto. Infatti nel 19 Tiberio sostituì il distaccamento di legionari con 4000 liberti (o figli di liberti) ebrei. La situazione tornò tranquilla e Claudio ridette il comando al senato. Nel 68-69 vennero distribuite terre per coltivare ai barbari dell'interno che ben presto si romanizzarono.

Il II sec. fu un momento di sviluppo e di prosperità, I Romani ebbero la possibilità di ricostruire e migliorare la rete stradale punica spingendola anche all'interno, costruirono terme, anfiteatri, ponti, acquedotti, colonie e monumenti. La ricchezza della Sardegna era agricola e mineraria, esportando piombo, ferro, acciaio e argento grazie alle sue miniere, e grano per 250.000 persone. Nel 170, l'isola era sotto il controllo senatoriale.Nel 211, come in tutto l'impero, riprese il malcontento della popolazione e le rivolte.

I Romani, nei secoli in cui dominarono l'isola, fondarono molte nuove città come Turris Libisonis (Porto Torres) e fecero sviluppare molti centri abitati soprattutto nelle coste, come Carales, Olbia, Fanum Carisii (Orosei), Nora e Tharros, ma anche nell'interno, come Forum Traiani (Fordongianus), Forum Augustis (Austis), Valentia (Nuragus), Colonia Julia Uselis (Usellus).


La decadenza

Nel 212 grazie a Caracalla i Sardi, come tutti gli abitanti dell'Impero, ottennero la cittadinanza romana, ma la situazione peggiorò 280 d.c. una flotta di Franchi saccheggiò le città costiere di tutto il Mar Mediterraneo e i Sardi, che per secoli si erano ritenuti al sicuro da ogni pericolo esterno all'Impero, tornarono all'interno dell'isola e quelli che restarono sulle coste chiusero i porti e cinsero di mura le città.

Successivamente la "provincia della Sardegna e della Corsica" fu divisa e dal quel momento mai più si sarebbero unite. Le tasse aumentarono fino al 456 quando i Vandali, dopo aver saccheggiato Roma, la conquistarono e l'annetterono al loro regno. Ma vinsero solo sulle coste, poiché i Sardi dell'interno si ribellarono ai Vandali impedendo loro di entrare nella loro zona.



CARALES

Cagliari (Carales o Karalis) era la città più importante della Sardegna. Il suo centro vitale, come in tutte le città romane, era il Foro, dove sorgevano i principali edifici pubblici e religiosi: la curia municipale, l'archivio provinciale, la sede del governatore, la basilica, il tempio di Giove Capitolino. Purtroppo non si conosce la localizzazione esatta di questi monumenti: si sa però che il Foro doveva essere situato nell'attuale Piazza del Carmine.

Da qui partivano ben quattro strade che traversavano l'intera isola dal sud al nord, rendendo Carales un centro strategico importante per le rotte commerciali del Mediterraneo occidentale, ospitando un distaccamento della flotta di Miseno, e da qui partiva il grano per l'approvvigionamento di Roma.

La zona abitata si sviluppava sulla costa per circa 300 ettari, con una popolazione di 20.000 abitanti. I punti estremi di questo territorio erano l'attuale Viale Sant'Avendrace e la regione di Bonaria, dove si locavano le necropoli. Per la legge romana, infatti, i sepolcri non potevano essere ospitati all'interno delle zone urbane.

La città ebbe molti interventi edilizi di pubblica utilità come la realizzazione della rete fognaria e la pavimentazione di strade e piazze, la costruzione di un acquedotto (nel 140 d.c.), e nel I sec d.c. fu dotata di portici e divenne municipium, ossia una città autonoma con cittadinanza romana. Nel II sec. d.c. fu costruito l'anfiteatro, ancora utilizzato per gli spettacoli ad oggi, semi-scavato nella roccia, che poteva ospitare fino a 10.000 persone.

I quartieri signorili sorgevano nel territorio a nord di Sant'Avendrace e nell'area di San Lucifero, con le terme, i templi, alcuni teatri e numerose ricche abitazioni; i quartieri mercantili si trovavano nella zona della Marina e i quartieri popolari erano vicino al porto, fra l'odierna via Roma e il Corso Vittorio Emanuele.

Qui vennero ritrovate ricche abitazioni (Casa del Tablino Dipinto e Casa degli Stucchi), nel sito che viene tradizionalmente chiamato la Villa di Tigellio. Nell'attuale Via Malta è stato invece riportato alla luce un tempio con annesso un teatro per le rappresentazioni legate al culto: è di impianto punico, ma è stato utilizzato anche in età romana.
Il quartiere mercantile si trovava probabilmente nella zona della Marina, come sembrerebbero confermare gli scavi praticati sotto la chiesa di Sant'Eulalia, mentre il quartiere popolare era probabilmente vicino al porto, fra l'odierna Via Roma e il Corso Vittorio Emanuele.



L'ECONOMIA

Le fonti letterarie ed archeologiche parlano delle ricche pianure esistenti nel fertile entroterra, gestite a latifondo, i cui prodotti dovevano confluire nel porto cagliaritano ed erano destinati all’approvvigionamento granario di Roma. Ancora in età tardo-antica, si accenna alla necessità di fornire vettovagliamenti ai porti dell’Italia centro-meridionale (Epistola di Paolino da Nola, 49). Dall'esame dei carichi delle navi naufragate i più comuni erano le anfore. soprattutto le vinarie greco-italiche, apule, galliche, rinvenute insieme al vasellame da mensa collocato negli interstizi tra un’anfora e l’altra.

È attestata anche l’importazione di olio sia dalla penisola iberica che, in epoca medio e tardo-imperiale, dalle regioni nord-africane, da cui proveniva pure in abbondanza la ceramica da mensa definita sigillata africana, dal II al VI secolo d.c., con produzione vinicola locale di età medio-imperiale, unitamente al trasporto di olio, olive, salsa di pesce (garum). Altra fonte di ricchezza i prodotti minerari, il cui commercio si svolgeva dai vari porti sudoccidentali dell’isola al continente, gestito, come del resto gli altri prodotti, da corpora naviculariorum, cioè gruppi associati per i servizi di rifornimento dello stato romano.

Si produceva e si esportava piombo argentifero, ferro, rame, ma anche granito spesso rinvenuto in prodotti non finiti (capitelli, colonne, macine ecc.). Il rinvenimento di lingotti in piombo e stagno testimonia il commercio del prodotto attraverso l’asse Spagna-Sardegna, in età imperiale.

Una “constitutio” di Valentiniano III attesta, nel V sec. d.c., l’esportazione di buoi, cavalli e carne suina; il sale era un altro prodotto importante: la sua estrazione era a carico di società di lavorazione-trasporto del prodotto che avevano l’appalto per la gestione delle saline ed il suo commercio. Vi era poi la produzione locale di manufatti ceramici. Lo sfruttamento delle materie prime quali l’argilla ed il calcare offriva un’industria a livello locale.



LE FONTI STORICHE

Livio cita Carales per gli avvenimenti del 215 a.c., in occasione della rivolta di Ampsicora, ricordando lo sbarco di c. Manlio Torquato, la devastazione nel 210 a.c., del suo retroterra ad opera dei Cartaginesi capeggiati da Amilcare; la fonda della flotta di Tiberio Claudio Nerone nell’inverno del 202 a.c. ed infine l’alleanza con Roma durante gli avvenimenti del 178-177 a.c. (rivolta delle popolazioni dei Balari e Iliensi dell’interno dell’isola), contrariamente a Floro, riferendo della punizione subita dalla città per aver sostenuto la rivolta, in seguito repressa da Tiberio Sempronio Gracco.

Nella guerra civile tra Cesare e Pompeo la città che si schiera da parte cesariana, osteggiando il pompeiano Marco Aurelio Cotta (Caes. Bell. Civ.) ed accogliendo lo stesso Cesare, nel 46 a.c., dopo la vittoria sui pompeiani a Tapso in Cilicia. Le vicende successive vedono la città occupata dal legato di Pompeo, Menas, secondo quanto riporta lo storico Cassio Dione.

Sulla elevazione allo “status municipalis”, Plinio (Naturalis Historia) data il provvedimento intorno al I secolo d.c.; probabilmente un periodo posteriore al 38 a.c. per volere di Ottaviano Augusto dopo la liberazione dell’isola dai pompeiani. Inoltre, varie iscrizioni attestano la presenza di liberti municipali con il “nomen Iulius” da cui si potrebbe ipotizzare, vista la denominazione di “municipium iulium civium romanorum”, un provvedimento da parte di Ottaviano preso prima del 27 a.c., anno in cui egli assume la “tribunicia potestas” ed il titolo di “Augustus”.

Strabone la menziona come la città più importante dell’isola assieme a Sulci, mentre alla fine del IV secolo d.c. il suo porto è ricordato da Claudiano, per l’accoglienza della flotta di Stilicone, nel 397, durante la guerra contro il comes d’Africa Gildone. Il municipio di cittadini romani risulterebbe iscritto alla tribù Quirina, retto da un collegio di quattuorviri, due dei quali, i “quattuorviri iure dicendo”, sono addetti all’amministrazione della giustizia, gli altri, i “quattuorviri aedilicia protestate”, alla cura delle infrastrutture pubbliche.

RICOSTRUZIONE DELL'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

L'Anfiteatro poggia su una valletta naturale alle pendici occidentali del colle di Buon Cammino. I costruttori adattarono le caratteristiche del terreno alla configurazione dell'edificio, ricavando le gradinate dal banco roccioso per una capienza stimata in circa diecimila spettatori.

Come negli altri anfiteatri, anche in quello Cagliaritano le gradinate sono divise in ordini diversi, riservati a differenti classi sociali che vi accedevano da diversi passaggi. Sul piano dell'arena corre un lungo corridoio da cui si affacciavano i vani che custodivano gli animali, nei piani sotterranei venivano custoditi i macchinari per il cambio di scena.

Subito a ridosso dell’arena, su un largo podium, prendevano posto i decuriones, cioè la classe dirigente cittadina; sui gradini del primo anello, chiamato ima cavea o maenianum primum, si accomodavano i loro
familiari e i cittadini liberi distinti per censo; il secondo anello, detto media cavea o maenianum secundum imum, era per tutti gli altri uomini di nascita libera meno abbienti; infine nella summa cavea o maenianum secundum summum, il terzo anello, in appositi settori venivano relegati le donne e gli schiavi.

In origine l'Anfiteatro, per metà scavato nella roccia e per metà in calcare bianco, era provvisto di una monumentale facciata nel lato sud alta circa 20 m a cui si opponeva un settore con corridoi e gradinate che sormontavano la stretta gola rocciosa. Le gradinate che furono scavate nella roccia sono le uniche parti del monumento superstiti.

Il resto, edificato in muratura utilizzando tecniche diverse, fu completamente demolito nel corso dei secoli per recuperare il materiale da costruzione. Nel corso del medioevo e della prima età moderna, tutti i muri in opera quadrata dell’anfiteatro furono smantellati fino ai piani di posa incisi nella roccia.

L'anfiteatro ospitava combattimenti tra animali, tra gladiatori e tra combattenti specializzati che venivano reclutati anche fuori dalla Sardegna. In egual misura venivano eseguite le pene capitali davanti alla folla esultante.

Gli scavi hanno restituito, oltre a monete ed altri reperti, una gran quantità di sottili lastre di marmo, prova che i gradini erano rivestiti di materiale pregiato. Infatti per secoli furono asportate le gradinate ed utilizzate come materiale da costruzione e solo alla metà del secolo scorso si cominciò un lavoro di restauro. Attualmente il monumento è allestito con una struttura lignea realizzata per la stagione estiva degli spettacoli.



AREA ARCHEOLOGICA SANTA EULALIA

Sotto i pavimenti della chiesa di S. Eulalia sono riemersi un tratto di strada lastricata largo più di quattro metri e i resti di alcuni importanti edifici di cui sono visibili parte della soglia ed un lembo del prospetto, con rovine e reperti di epoche diverse:
  • ai primi secoli dell'Impero appartengono un tratto di strada lastricata con probabile funzione di percorso cerimoniale, risalente al IV secolo,  e i resti di un edificio che si affaccia su questa.
  • alla seconda metà del V sec: i resti di due costruzioni monumentali, dalla planimetria piuttosto complessa, realizzate con materiale di spoglio
  • alla seconda metà del VI sec: cospicui resti di pasto (valve di molluschi e ossa di animali), frammenti di stoviglie, anfore vinarie e tantissime lucerne testimoniano un'intensa frequentazione. 
  • Le rovine di un tempio del II-III secolo a.c.
  • un colonnato di epoca tardo-repubblicana.
Le decorazioni delle lucerne rinvenute, sono tratte dal repertorio iconografico cristiano. Questo fa pensare che nelle vicinanze ci fosse un luogo di culto.


CRIPTA DI SANTA RESTITUTA


CRIPTA DI SANTA RESTITUTA

Trattasi di un ipogeo in parte naturale e in parte scavata nella roccia, di epoca tardo-punica, III sec. a.c., a pianta irregolare con svariati vani di diverse forme e dimensioni, utilizzati come altari o cisterne. Dopo un periodo di abbandono nel XIII sec. la cripta venne decorata con affreschi bizantineggianti di cui rimangono alcuni brandelli raffiguranti S. Giovanni Battista.

Nel '600, durante gli scavi per la ricerca dei Corpi Santi, fu ritrovata un'olla in terracotta contenente le reliquie di Santa Restituta, di origine africana, giunte nell'isola nel V sec.

Agli inizi del XVII sec. alla statua di marmo della Santa vennero attribuiti onori e origini locali, come madre di S. Eusebio, e fu costruita una piccola cripta per ospitare la cosiddetta colonna del martirio, in seguito vennero costruiti altri altari in pietra e malta decorati nel frontespizio in pietra. In realtà la colonna non è una colonna ma un'ara scavata nella roccia, sicuramente preromana e punica.
Durante una persecuzione anticristiana, ordinata da Diocleziano nel 304, molti cristiani di Cartagine e Biserta, furono arrestati e trascinati in catene a Cartagine e condannati a morte: fra loro c'era anche Restituta.

Pietro Suddiacono, nel X sec. scrisse il processo, la condanna e il martirio della santa che, stremata dalle torture, fu posta su una barca carica di stoppa, resina e pece che fu data alle fiamme, la santa rimase illesa, mentre il fuoco annientò l'altra imbarcazione con i suoi occupanti. Restituta contenta ringraziò il Signore, castigo degli empi, e invocò che un angelo la accompagnasse durante la traversata: esaudita e riconoscente domandò di morire e fu accontentata.

Secondo un'altra tradizione la barca approdò ad Ischia, dove viveva una matrona cristiana di nome Lucina che avvertita in sogno dall'angelo, si recò sulla spiaggia, dove trovò l'imbarcazione arenata e in essa il corpo intatto e splendente di Restituta. Radunata la popolazione, venne data solenne sepoltura alla martire nel luogo detto Eraclius, dove sono conservati i ruderi di una basilica paleocristiana, e dove sorge oggi un santuario dedicato alla Santa. La leggenda racconta che quando la barca toccò la spiaggia per miracolo questa si riempì di gigli bianchi: i gigli di Santa Restituta.

Comunque il culto di santa Restituta è legato alla persecuzione vandalica del 429 in Nordafrica, ordinata dal re Genserico e descritta da Vittore di Vita. Nei vari luoghi dove trovarono rifugio gli esuli cartaginesi, ebbe origine la devozione alla martire africana: Lacco Ameno (Ischia), Napoli, Cagliari, Palermo, Calenzana (Corsica), Montalcino e Oricola.Borbona(Rieti).



FULLONICA

Gli scavi hanno riportato alla luce i resti di un'ambiente con un pozzo e alcune vasche che, secondo gli studiosi, era un laboratorio adibito al lavaggio e alla tintura delle stoffe, in cui il ciclo di lavorazione prevedeva l'immersione dei tessuti in vasche contenenti miscele sbiancanti o coloranti.

Il locale era pavimentato con un lastricato in pietra e una fascia di cocciopesto nella quale erano inseriti piccoli tasselli di marmo colorato e pannelli di mosaico, che presentavano motivi marini come delfini, ancore e alligatori. Ai piedi di un banco in muratura c'era l'iscrizione che indicava il proprietario dello stabilimento.

Al di sotto del palazzo dell'INPS è racchiuso un lembo dell'area archeologica che comprende una parte del pavimento in cocciopesto, un mosaico, un pozzo e due vasche.



LATOMIE

Nel 1595 in prossimità dell'Anfiteatro romano i frati Cappuccini fondarono il loro primo convento sardo, che attirò l'attenzione degli studiosi per la presenza di alcune monumentali cisterne scavate nella roccia calcarea attribuite al periodo punico.

Si trattava invece di antiche latomie, ovvero cave per l'estrazione di blocchi utilizzati per la costruzione del vicino Anfiteatro romano. Solo in un periodo successivo furono adibite a cisterne e rese impermeabili con il cocciopesto, un intonaco di calce mista a cocci triturati. La più ampia, nota come Cisternone Vittorio Emanuele II, poteva contenere fino ad un milione di litri d'acqua piovana proveniente dall'anfiteatro attraverso un cunicolo sotterraneo tuttora percorribile.
La cavità subì un ulteriore riadattamento a carcere, come testimoniano le numerose anelle osservabili lungo le pareti, destinate al fissaggio delle catene.



VILLA DI TIGELLIO

PIANTA DELLA VILLA
Il complesso, noto con il nome di Villa di Tigellio perché originariamente attribuito al ricco cantore romano, comprende in realtà i resti di un elegante quartiere residenziale romano di età imperiale.

Nell’area sono visibili i resti di una struttura termale, di cui sono conservati resti del pavimento del calidarium, la stanza dei bagni d'acqua o di vapore, e di tre abitazioni signorili. Due di questo sono dette Casa del Tablino dipinto (lo studiolo del padrone di casa), nella quale sono stati ritrovati resti di pavimentazione a mosaico, e Casa degli Stucchi così detta dai resti delle decorazioni murali; della terza casa non rimane invece quasi nulla. L'età va dalla: fine del I sec. a.c. fino al VI/VII sec. d.c.

Sono attualmente visibili i resti di tre abitazioni adiacenti affiancate ad uno stretto vicolo che le separa da un'area in cui sorgeva un complesso termale, di cui sono conservati resti del pavimento del calidarium, stanza dei bagni d'acqua o di vapore.

Le tipologie edilizie richiamano quelle della domus romana, articolata longitudinalmente in vani la cui disposizione e funzione obbedivano a canoni ben determinati. Nelle domus cagliaritane è ben riconoscibile l'atrio, in cui l'impluvium, sorretto da quattro colonne, consentiva la raccolta dell'acqua piovana in una cisterna posta al di sotto del pavimento, e, comunicante con l'atrio, il tablino, sorta di studiolo di pertinenza del padrone di casa. Piccoli ambienti destinati alla notte, i cubicula, erano disposti ai lati o posteriormente all'atrio.


Gli scavi

Effettuati in varie riprese a partire dall'Ottocento, avevano restituito decorazioni murali e mosaici pavimentali di pregio, da cui erano derivate, a due delle domus, le denominazioni di "casa degli stucchi" e "casa del tablino dipinto" (il tablino era una sorta di studiolo di pertinenza del padrone di casa, ben riconoscibile nelle domus cagliaritane).

Attualmente sono visibili alcuni frammenti di affreschi, un lembo di mosaico pavimentale policromo, un pavimento costruito con la tecnica dell'opus signinum, con tessere in marmo bianco inglobate nel cocciopesto.



GROTTA DELLA VIPERA

COME APPARE OGGI
Costruita tra il I e il II secolo d. C., essa riproduce la facciata di un tempio con colonne: è chiamata così per la presenza, ai lati del frontone, di due serpenti, antichi simboli della Madre Terra molto usati anche a Pompei.

Il monumento, scavato nella roccia, fu dedicato dal romano Lucio Cassio Filippo alla moglie Atilia Pomptilla, per ricordarne in eterno la memoria e l'amore dimostratogli.

La leggenda narra infatti che Atilia avesse pregato gli dei perché prendessero la sua vita in cambio di quella del marito, gravemente ammalato. Gli dei, impietositi, la accontentarono: Filippo poté continuare a vivere grazie all'estremo sacrificio della moglie.

La storia viene ricordata anche sulla parete della grotta, dove, in un'iscrizione in lingua greca, si legge:

"Possano, le tue ceneri, o Pomptilla, tramutarsi in viole e in gigli,
e fiorire nei germogli delle rose, del croco odoroso e dell'eterno amaranto.

RICOSTRUZIONE, COME DOVEVA APPARIRE

Possa tu rinascere nei bei fiori del garofano,
affinché il tempo, così come per Narciso e Giacinto,
conservi anche il tuo fiore tra coloro che verranno.

Mentre infatti, il respiro di lei si affievoliva,
accostandosi Filippo alle estremità delle sue labbra,
ne accoglieva l'anima;
così Pomptilla, stando accanto al marito che respirava a fatica,

scambiava la sua morte con la vita di quello."



LE EPIGRAFI

La storia della Carales romana è attestata soprattutto dai rinvenimenti epigrafici di l’età imperiale che ricordano azioni evergetiche da parte di personaggi politicamente influenti:
PARTICOLARE DELLA GROTTA DELLA VIPERA
  • un’iscrizione datata in un periodo precedente al 6 a.c. ricorda la costruzione di “campum et ambulationes” da parte di Cecilio Metello Cretico, cioè luoghi per il passeggio e di esercitazione sportiva e militare;
  • restauri di fogne, strade, itinera sono intrapresi da parte del “procurator Augusti,  praefectus provinciae Sardiniae”, 
  • itinera sotto Domiziano; tra il 200 ed il 209 d.c.
  • Domizio Tertullo restaura le terme cosiddette Rufiane, 
  • Lucio Ceionio Alieno costruisce e successivamente restaura horrea imperiali tra il 212 ed il 217 d.c., ovvero i granai pubblici presenti in città, luogo di stivamento dei prodotti cerealicoli provenienti dal fertile Campidano.
  • Le attestazioni epigrafiche riguardanti gruppi di “classiarii” militanti nella flotta misenate testimoniano, inoltre, l’importanza del porto di Carales come base militare di distaccamento per il presidio di questa porzione del Mediterraneo centro-occidentale. 
  • Due iscrizioni di età augustea, attesterebbero la costruzione di un edificio di incerta identificazione eretto da un Iulius M. f., 
  • l’altra, la costruzione di un mercato da parte di L. Alfitenus L. f. Quir. 
  • un’iscrizione documenta ancora la sede del praetorium, 
  • la presenza di un tabularius in un altro documento epigrafico potrebbe testimoniare un edificio pubblico con funzione di archivio provinciale in Carales.
  • Dalle passioni medievali di Efisio e Lussorio apprendiamo l’esistenza di un tribunale e di un carcere dove i due martiri sarebbero stati giudicati ed avrebbero scontato la pena loro assegnata prima disubire il martirio.
  • Di recente alcune scoperte in una delle grotte presenti nel complesso dei Cappuccini, in vico I Merello ha fatto ipotizzare la presenza del carcere in un’area prossima all’anfiteatro, dove i condannati avrebbero potuto subire il martirio nell’ambito dei giochi circensi. Però Vitruvio afferma: “Aerarium, carcer, curia foro sunt coniugenda, sed ita uti magnitudo symmetriae eorum foro respondeant”, cioè: “l’erario, il carcere e la curia debbono essere congiunti al foro, ma in modo che le loro dimensioni e i rapporti modulari siano proporzionati al foro” (De Architectura). 
È ipotizzabile l’esistenza del capitolium, in base alla persistenza del toponimo derivato dall’intitolatura di una chiesa dedicata a San Nicola in Capitolio, presente sino alla seconda metà dell’800 all’inizio dell’attuale via Sassari.


VALERIO MASSIMO

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oltraggio di lucrezia

Nome: Valerius Maximus
Nascita: I secolo a.c.
Morte: I secolo d.c.
Professione: Storico



Valerio Massimo (Roma, I secolo d.c. – Roma, post 31), secondo alcuni 20 a.c - 50 dc., è stato uno storico  romano.


LE ORIGINI

non si sa molto di lui, comunque proveniva da una famiglia povera, anche se viveva a Roma da alcune generazioni, ed era cliente del console del 14 d.c., Sesto Pompeo, e che il 27 avrebbe accompagnato il proconsole  in Asia e questi, per ringraziarlo, lo avrebbe aiutato ad entrare nel circolo letterario, in cui stava lo stesso Ovidio.
Al tempo dell'imperatore Tiberio (14-37) raggiunse l'apice della notorietà e fu anche il massimo periodo di produzione letteraria, specie dopo la caduta del prefetto  Seiano, esecrato tra gli esempi di ingratitudine.



FACTORUM ET DICTORUM MEMORABILIUM

Detto anche De factis dictisque memorabilibus o Facta et dicta memorabilia. Dopo aver accompagnato nel suo proconsolato in Asia nel 27 Sesto Pompeo, Valerio Massimo scrisse un manuale di Factorum et dictorum memorabilium, (anno 30 o 31 dc.) esempi storici e retorico-morali in libri IX, di cui uno mutilo. Gli antichi però ne conobbero anche un’edizione in 10 libri.

EDUCAZIONE SPARTANA
"Nec mihi cuncta conplectendi cupido incessit: quis enim omnis aeui gesta modico uoluminum numero conprehenderit, aut quis compos mentis domesticae peregrinaeque historiae seriem felici superiorum stilo conditam uel adtentiore cura uel praestantiore facundia traditurum se sperauerit?"

Secondo quello che l'autore espone qui sopra nella prefazione, si tratta di un manuale diretto a chi vuole citare gesta o sentenze riguardanti un determinato argomento.

Pertanto è un manuale ad uso dei retori e degli insegnanti delle scuole, costruito però con uno stile ampolloso e pretenzioso.

L’opera, dedicata a Tiberio, fu certamente pubblicata verso il 31, anno in cui fu condannato a morte Elio Seiano, il potente ministro del principe. A Seiano si allude, infatti, nella parte conclusiva dell’ultimo libro, fra gli esempi di facta scelerata, in un capitolo che sembra essere stato aggiunto a lavoro già finito. Il poema abbonda di passi in cui Tiberio è esaltato come “supremo difensore della nostra incolumità”.

GAIO GRACCO
Ognuno dei nove libri ha sette capitoli, ogni capitolo ha un tema particolare su cui si articolano le storie, che sono in tutto 91, riguardanti vari risvolti della vita romana, intorno a difetti e virtù, usi morali e immorali, pratiche religiose, superstizioni e antiche tradizioni.

Opera erudita di carattere divulgativo, raccoglieva fatti e aneddoti da fonti diverse, suddivisi in 9 libri con 95 categorie di vizi e virtù, al loro interno suddivisi in esempi sia romani che stranieri. Venne scritta durante il regno di Tiberio (42 ac. – 37 d.c.) La maggior parte delle brevi storie riguardano personaggi romani, solo una piccola parte riguarda personaggi stranieri, e di questi si tratta soprattutto di greci, in particolare filosofi e re.

 L'opera è una raccolta di exempla storici, circa un migliaio, diretta all'insegnamento nelle scuole, divisa per argomenti, in cui gli esempi, soprattutto romani,  sono attinti non tanto ai grandi storici greci, quanto a Cicerone, Sallustio e Livio. I temi sono disparati, ma tutti di carattere moraleggiante.


La modesta finalità dell'autore è infatti quella di portare al lettore exempla (esempi) attraverso i comportamenti virtuosi, oppure attraverso quelli più esecrabili, degli uomini famosi del passato, di modo che i retori, a cui questa opera sembra essere indirizzata, possano farne uso nei loro discorsi per ampliare storicamente le loro argomentazioni.

Nella redazione del poema Valerio si rivolse alle precedenti raccolte di argomenti analoghi, come quelle di Pomponio Rufo, Igino, forse Cornelio Nepote, ma ricorse spesso anche a diversi autori latini come Cicerone, Varrone, Tito Livio, Sallustio, Pompeo Trogo, e greci come Senofonte, Erodoto, Teopompo e Diodoro Siculo.

L'opera di questo autore si propone anche di essere un'edificante e piacevole lettura per il lettore occasionale, non necessariamente colto nell'arte della retorica (il persuadere tramite i discorsi):

"Pagina hac domestica certior fies, candide lector, de rebus classicis quas in aranea nostra mirabili totum orbem terrarum complectente invenias".

Valerio Massimo fu più volte usato e citato dagli autori latini successivi. Nel IV sec. dalla sua opera furono tratti due compendi; uno, che ci è giunto integralmente, di Giulio Paride, l'altro, che si arresta al III libro, di Nepoziano.

Lo stile particolare e il linguaggio piuttosto complesso di questo autore ha fatto sì che, a molti secoli dalla sua morte, egli sia uno degli autori più tradotti da chi si appresta a studiare il Latino assieme a Cesare, Cicerone, Fedro, Cornelio Nepote e Eutropio.

SCIPIONE L'AFRICANO
Tuttavia Valerio nasconde questa vacuità retorica sotto il pretesto etico dell'esaltazione della virtù, che ovviamente si rivela in Tiberio e ha il suo contrario in Seiano, insigne esempio di ingratitudine punita. Ragion per cui Valerio non può essere definito uno storico, quanto un retore che testimonia il progressivo sbriciolamento della storiografia in aneddotica e pettegolezzo, da taluni seguita, senza più la necessaria comprensione delle causalità degli eventi.

Per il suo carattere moraleggiante, l'opera ebbe molta fortuna nel Medioevo, circolando anche in due riassunti, quello di Giulio Paride e uno (mutilo) di Nepoziano, ambedue del IV-V secolo d.c.

Ne sono giunte due epitomi antiche e una medievale, un importante volgarizzamento nella prima metà del '300, attribuito ad Andrea Lancia.

Dante Alighieri non lo citò mai direttamente, ma già i primi commentatori della Commedia lo proposero come fonte di alcuni spunti o episodi dell'Inferno e del Purgatorio. La questione fu però controversa per gli studiosi.

CULTO DI ANGERONA

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La fonte letteraria più antica che ci parla di questa divinità è Varrone, nel VI libro del De lingua Latina, nei "civilia vocabula dierum qui deorum causa sunt instituti: Angeronalia ab Angerona, cui sacrificium fit in curia Acculeia et cuius feriae publicae is dies", «la festa degli Angeronalia prende il nome da Angerona, il cui sacrificio è compiuto nella curia Acculeia e di cui quel giorno è la festa ufficiale».

ANGERONA
Ce ne parla pure Marco Verrio Flacco nei "Fasti Prenestini":
- Festa pubblica. Divalia. Festa della Dea Angerona, che prese nome dal disagio della fastidiosa angina poichè ella un tempo rivelò un rimedio per essa. Hanno posto la statua di lei con la bocca imbavagliata sull'altare di Volupia, per mettere in guardia la gente a non proferire il nome segreto della città. -

La festa della Dea, considerata feriae publicae, ancora celebrata al tempo di Varrone, che nelle Antiquitates rerum divinarum, si limita a citare la festa come derivata ab Angerona.

Macrobio è invece più generoso nelle informazioni:
"Nel XII giorno (delle calende di gennaio) vi è la festa della diva Angerona, a cui i pontefici fanno un sacrificio nel sacello di Volupia."

Masurio aggiunge che la statua di questa Dea si trova sull’altare di Volupia rappresentata con la bocca chiusa e sigillata, perché coloro che dissimulano i loro dolori e i loro motivi di ansietà giungono, grazie alla loro sopportazione, a grandissimo piacere.

Giulio Modesto dice che si sacrifica a questa Dea perché il popolo romano fu liberato grazie a questa Dea da una malattia che è chiamata angina, a seguito di un voto.

Verrio Flacco dice che essa è chiamata Angeronia (alcuni la chiamano così) perché se viene resa propizia con il debito culto tiene lontane angosce e le preoccupazioni dell’animo. La dea Angerona, o Angeronia, era ritenuta sia da Verrio Flacco che da Masurio una divinità che soccorreva l’uomo in uno stato di difficoltà psicologica: secondo Verrio teneva lontano dagli uomini "angores ac sollicitudines animorum". secondo Masurio aiutava a sopportare "dolores anxietatesque".

Giulio Modesto invece riconduceva il culto della Dea ad una malattia chiamata angina; cos' la pensa anche da Festo, con una variante molto strana, in quanto l’angina è considerata un’epidemia tra gli animali e non tra gli uomini: Angeronae deae sacra a Romanis instituta sunt, cum angina omne genus animalium consumeretur, cuius festa Angeronalia dicebantur, «si diceva che per la dea Angerona fossero state istituite dai Romani delle cerimonie religiose, poiché ogni genere d’animale era stato ucciso dall’angina, e il nome di quella festa era Angeronalia».

Festo ci offre pure una minuta descrizione della condizione di chi cade in preda all’angoscia, usando il termine "cruciatus", cioè crocifisso, dando doppia valenza all’angere, condizione dell’anima e del corpo, accomunate dalla sensazione della strangulatio. Ma anche nelle Tusculanae Disputationes di Cicerone, si riscontra che l’angor è descritto sempre come malessere che investe anima e corpo.

DEA TACITA
Però quel che sostiene Festo non è vero neppure per i suoi tempi, l'autore è disinformato. Angerona può essere originata da diversi vocaboli angor, anxietas e angina. Sia Macrobio che Festo, per spiegare il significato di Angerona, ricorrono al verbo angere, soffrire nel corpo o nell'anima, ma poichè il termine angina ha la stessa radice ang. Però già da Celso era conosciuta la temibile malattia, e ne dedussero che la Dea proteggesse da questo male, solo che Celso la conosce come malattia prettamente umana.

Gli Dei in tempo più antico, avevano compiti precisi, ad esempio Robigo, la Dea che proteggeva il grano dalla ruggine, per cui i Romani avevano istituito la festa dei Robigalia, e la stanchezza che era presieduta da una Dea, Fessonia (da cui il termine popolare fesso per indicare uno stolto, o fessura per indicare un'apertura, o fessato per indicare un oggetto di argilla o ceramica con incrinatura), invocata in aiuto di coloro che soffrivano di stanchezza (fessi); mentre lo stato psicopatologico della depressione era rappresentato da Murcia, derivata da un termine piuttosto dispregiativo, cioè murcidus, in quanto marcidus. Insomma se sei depresso sei marcio dentro.

Inoltre i Romani spesso chiamarono gli Dei con i nomi delle cose che dagli stessi sentivano di ricevere, aggiungendo dei suffissi: ad esempio, da bellum (guerra) derivarono il nome Bellona e non semplicemente Bellum; da cunae (culle) Cunina e non Cuna; da segetes (messi) Segetia e non Seges; da poma (frutti) Pomona e non Pomum; da boves (buoi) Bubona e non Bos.
In genere si usavano tre suffissi: -ina; -ia ed -ona. Ovviamente ona riguarda Angerona ma non solo, pensiamo infatti a Bellona, Pomona, Bubona, Orbona, Alemona, Fluviona, Fessona, Adeona, Abeona, Intercidona, Mellona, ed Epona.

Il suffisso -ona riguarda l’esercizio di un ruolo in un ambito di competenza: Orbona è la Dea a cui si rivolgono i genitori orbati di un figlio o quelli che temevano avvenisse, poiché essa poteva provocare o stornare la morte di un figlio; Pomona, Bubona, Epona, Mellona  proteggevano i frutti (poma), i buoi (boves), i cavalli (equi) e il miele (mel); Alemona e Fluviona o Fluvonia, le Dee che sovrintendevano la nutrizione del feto (nutrire = alere),  e regolare il flusso mestruale (fluere).



L’ENIGMA DELLA STATUA IMBAVAGLIATA

Tutto ciò che scritto fin'ora però non spiega questo particolare tragico della Dea imbavagliata, esattamente come la Dea Tacita, il cui nome è invece estremamente ‘parlante’, era una dea muta, condannata al silenzio, poiché le era strappata la lingua per punizione.

La Dea Angerona, invece, non era irreversibilmente muta, ma poiché era rappresentata "ore obligato atque signato", fu interpretata da alcuni autori antichi come dea che intimava il silenzio.
ASCLEPIO
Sia Plinio che Solino, in un più ampio discorso che aveva come tema centrale l’evocatio, scelgono il simulacrum della Dea come simbolo del valore che il silenzio possedeva nella cultura romana, strumento privilegiato per proteggere Roma contro i nemici.

Entrambi inseriscono l’exemplum della raffigurazione della Dea trattando lo stesso argomento: la città, per non incorrere nel pericolo di evocatio, rito pubblico romano che consisteva nell’evocare la divinità protettrice della città che si voleva conquistare promettendole asilo a Roma, possedeva un secondo nome, tenuto segreto e protetto da un religioso silenzio; quando un certo Valerio Sorano osò rivelarlo fu immediatamente punito:

"Non alienum videtur inserere hoc loco exemplum religionis antiquae ob hoc maxime silentium institutae. Namque diva Angerona, cui sacrificatur a. d. XII kal. Ian., ore obligato obsignatoque simulacrum habet"
«non mi sembra fuori luogo inserire a questo punto l’esempio di un antico rito religioso istituito proprio per esortare a tale silenzio: la Dea Angerona infatti, la cui festa ricorre il 21 dicembre, ha una statua con la bocca chiusa e sigillata». (Plinio)

La vicenda di Valerio Sorano è narrata da Solino, lettore di Plinio, però con una variante sulla statua di Angerona:

"inter antiquissimas sane religiones sacellum colitur Angeronae, cui sacrificatur ante diem XII k. Ian.: quae diva praesul silenti ipsius praenexo obsignatoque ore simulacrum habet"

«nei più antichi tempi della religione giustamente era venerato il sacello di Angerona a cui veniva fatto un sacrificio il 21 dicembre: la quale Dea che era preposta proprio al silenzio aveva una statua con la bocca legata e sigillata».

Solino sostituisce obligare con praenectere, a rafforzare, attraverso il prefisso prae-, l’idea di una legatura accurata. La statua di Angerona era imbavagliata con attenzione e con sopra un sigillo di cera.

Quando uno scritto, o una lettera, doveva rimanere segreto infatti si raccomandava:

"cedo tu ceram ac linum actutum. Age obliga, obsigna cito"
«qua cera e filo. Fa’ presto chiudi e sigilla».



LA RISERVATEZZA LATINA: ANXIETATES DISSIMULARE

Un’altra variante al significato della rappresentazione della Dea ci perviene dal giurista Masurio, come riporta Macrobio, che, con le varie sofferenze contenute nel verbo angere, descrive la statua della Dea, precisa che il "simulacrum ore obligato atque signato" si trovava sull’ara della dea Volupia e questo perché qui "suos dolores anxietatesque dissimulant perveniant patientiae beneficio ad maximam voluptatem".

ANGERONA
Masurio mette Angerona in relazione con dolores et anxietates. Così Angerona è la Dea che aiuta a dissimulare: a lei ci si rivolge per nascondere adli altri i dolori e le angosce. La dea Tacita, la cui istituzione era fatta risalire a Numa, era invocata contro le cattive lingue e il pericoloso parlare altrui e descritta come musa muta e silenziosa, simbolo della conveniente riservatezza.

A Roma il silenzio e la discrezione erano tenuti in grande considerazione, non solo per il pericolo d’evocatio, ma anche sul piano sociale, tanto nelle donne, quanto negli uomini. I Romani adoravano il silenzio e detestavano certe forme sconvenienti di loquacità e tra queste certo c’era il lamentare le proprie sciagure o sofferenze. Angerona, aiutando a sopportare il dolore, di natura fisica o morale, sembra rappresentare l'interdizione sociale della lamentela, rafforzando volontà ed animo.

Ovidio, nelle Epistulae ex Ponto, costretto all’esilio, descrivendo alla moglie i drammatici segni lasciati dal tempo sul suo corpo, l’imbiancare dei capelli, le rughe che solcano il viso e le membra sempre più stanche, così spiega:
"Credo che questo sia opera degli anni, ma anche un’altra è la causa, l’ansia e il suo lavorio incessante; se qualcuno distribuisse le mie sofferenze su un gran numero di anni, credimi, io sarei più vecchio di Nestore di Pilo".

Mentre in un’altra drammatica lettera, indirizzata all’amico Flacco, dove ritroviamo il rammarico per tempo che passa, così faticoso nella sua condizione d’esule, il poeta lamenta:
"unda locusque nocent et causa valentior istis, 
anxietas animi, quae mihi semper adest"
«l’acqua e questo luogo mi nuocciono e una causa ancora più potente di queste, l’ansia che mai abbandona la mia anima».
Quindi Angerona è la Dea che scaccia l'angoscia ma pure quella che aiuta a dissimulare con stoica pazienza e decoro ansità ed angoscia..



LA PAURA DELLA MORTE

La Dea era festeggiata il 21 dicembre, il giorno del solstizio d’inverno. Lo sappiamo da un documento proveniente da Preneste, danneggiato ma ricostruito quasi interamente da Mommsen, in cui si evince che che le feriae publicae della Dea, le Angeronalia, dete anche Divalia, erano festeggiate il 21 dicembre: «festa della Diva Angerona, così chiamata dalla malattia angina».

L’iscrizione del I sec.a.c informa anche che la Dea era rappresentata «con la bocca imbavagliata nel tempio di Volupia, affinché colui che conosceva il nome segreto della città lo tacesse». Nell’ultima parte la presenza di anni novi pone l’accento sul passaggio tra il vecchio e il «nuovo anno».

SACRI MISTERI
In questo periodo invernale la luce veniva meno, fino alla parità di ore distribuite tra il giorno e la notte, è quella di angusti dies, dove il sole "tum tristitia quadam contrahit terram". In questa immagine di Cicerone per descrivere il tempo del solstitium, rimanda all'angoscia un po' come Macrobio:

"tempus quo angusta lux est, cum velut abrasis incrementis angustaque manente exstantia, ad minimum diei sol pervenit spatium, quod veteres appellavere brumale solstitium, bruma, a brevitate dierum cognominantes, id est ......, ex quibus latebris vel angustiis rursus emergens ad aestivum haemisphaerium".

"il tempo IN CUI la luce è angusta, CIOè dopo che il suo crescere è venuto meno e rimane un’angusta presenza, il sole giunge ad avere il più breve spazio, che gli antichi chiamarono solstizio brumale, bruma, così chiamato dalla brevità dei giorni, cioè da ........ , e da questi angusti recessi il sole poi risorge verso l’emisfero estivo."

Ricordiamo che differenti calendari latini conservano la festa dei Divalia e questo conferma l’importanza delle celebrazioni per Angerona, feriae diffusa in gran parte del mondo romano: nel calendario romano noto come Fasti Maffeiani.

Al 21 dicembre leggiamo C Div(alia) NP; in un’iscrizione epigrafica proveniente da Antium, nota come Fasti Antiates Maiores, nella data in cui cadeva il solstizio d’inverno troviamo C DIV(alia); e i Divalia sono citati anche in un calendario proveniente da Ostia antica, iscrizione danneggiata nella parte iniziale, ma in cui si può leggere AN(geronalia) NP.

Queste iscrizioni ci dicono che la festa era conosciuta al di là dell'Urbe e festeggiata  ancora in età repubblicana, come conferma Varrone.

Gli Angeronalia/Divalia, celebrati nel giorno più corto dell’anno, confermano l’influenza della Dea, contro l'angustia del solstizio d’inverno,  avvertito come angusti dies, evocanti lo spettro della morte.



IL VERO SIGNIFICATO

Il fatto che la Dea riguardasse l'ngustia del passaggio del solstizio d'inverno, quando il sole, ovvero la coscienza, sembra sparire sotto l'orizzonte, ci rivela il vero significato della curiosa immagine della Dea.
In senso iniziatico, ovvero dei Sacri Misteri, il solstizio d'inverno equivale alla Piccola Morte, altrimenti detta Morte iniziatica, quando il neofita perdeva le difese della mente esterna morendo al mondo, con un senso molto forte di angoscia e di morte.

DEA DEI FRUTTI AUTUNNALI
La via dei Sacri Misteri, che pochi seguivano ma di cui pochissimi riuscivano a giungere alla morte. rinascita, era appunto l'abbandono di tutto ciò che l'individuo aveva appreso dall'esterno, il cosiddetto "sapere saputo".

La mente perdeva la guida dell'anima e giungeva la notte oscura, o notte dell'anima, conosciuta pure da S. Giovanni della Croce, ma soprattutto conosciuta da quei pochi che coraggiosamente la portarono a termine descrivendone i passaggi attraverso l'alchimia e l'ermetismo.

Una delle prime premesse da fare all'adepto era il giuramento del silenzio, che doveva mantenere prima, durante e dopo. Se si pensa che i Sacri Misteri durarono per 1500 anni e che nulla si sa dei loro rituali segreti (perchè il poco che si sa riguarda solo i rituali pubblici), diremmo che gli iniziati abbiano saputo mantenere il segreto.

Ora al contrario di Asclepio che tiene il dito sulle labbra per intimare il segreto, la Dea tiene lei stessa il segreto, non perchè sia stata imbavagliata ma si è imbavagliata lei stessa. Non dimentichiamo che l'ultima vestale, per impedire che il Palladio venisse profanato dai cristiani le dette fuoco, seppure con la morte nel cuore.

La profanazione è dare un simulacro sacro in mani profane, o svelare segreti sacri dandoli ai profani. D'altronde, come diceva Carl Jung, se un'anima non sa tenere un segreto non ha nemmeno le energie per elaborare la sua anima e farla progredire in saggezza.

Ora al solstizio d'inverno il vero sole, quello che nasce dalle tenebre, quindi che nasce dentro di noi e non viene da fuori, annuncia la fine delle sofferenze e l'inizio della rinascita. Qui siamo noi a morire e rinascere e chi asserisce di morire e rinascere ogni giorno usa una bella metafora, ma non ha mai conosciuto la vera morte e rinascita, una cosa che accade solo una volta nella vita.

ASPENDOS (Turchia)

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TEATRO DI ASPENDOS PRESSO ANTALYA

Aspendos era un’importante e popolosa città della Panfilia, in Asia minore, secondo alcuni la più antica, a circa 40 km a est della moderna città di Antalya, in Turchia. Centro dal florido commercio, era situato sul fiume Eurymedon a 16 km dalla costa del Mar Mediterraneo, confinante con Side, città a cui era ostile.

Pregevoli infatti le serie di monete d'argento emesse fin dal V sec. a.c. Tale floridezza si mantenne a lungo (Cicerone, In Verrem, ii, 1, 20 la dice oppidum plenissimum signorum optimorum) e, sotto l'Impero, fu una della più prospere città d'Asia Minore.



LA STORIA

La città fu fondata intorno al 1000 ac. dai Greci forse provenienti da Argo, per questo la tradizione  attribuisce la sua fondazione ad Argo, un’altra da un eroe eponimo di nome Aspendos, un’altra ancora a fuggiaschi troiani.  La ricca monetazione indica che, nel V secolo ac, Aspendos era diventata la città più importante di Panfilia.

L'ACQUEDOTTO
Nel 546 ac venne conquistata dai Persiani. Il volto che la città ha continuato a battere moneta a proprio nome, tuttavia, indica che essa aveva una grande libertà anche sotto i Persiani. Purtuttavia nel 467 ac  il generale Cimone, con una flotta di 200 navi, distrusse la flotta persiana alla foce del fiume Eurymedon in un attacco a sorpresa.

I Persiani conquistarono nuovamente la città nel 411 ac ma nel 389 ac il comandante di Atene, sostò con la sua flotta al largo della costa di Aspendos. Sperando di evitare una nuova guerra, il popolo di Aspendos raccolse i soldi supplicandolo di ritirarsi senza causare danni ma i suoi uomini calpestarono tutti i raccolti nei campi. Infuriati, gli Aspendiani assassinarono il comandante ateniese nella sua tenda.

Quando Alessandro Magno marciò su Aspendos nel 333 ac dopo aver catturato Perge, i cittadini lo pregarono di non chiedere loro tasse e cavalli che avevano già precedentemente pagati come tributo al re persiano. Alessandro acconsentì, lasciando una guarnigione sulla resa della città. Si accorse però che gli Aspendians non avevano ratificato l'accordo dei loro inviati e si apprestavano a difendersi.

L'ACQUEDOTTO
Alessandro marciò verso la città con le sue truppe.
Gli Aspendians allora chiedere la pace, ma stavolta a condizioni diverse.

Gli vennero consegnati degli ostaggi, una guarnigione macedone sarebbe rimasto in città e 100 talenti d'oro e 4.000 cavalli sarebbe stata data in tasse ogni anno.

Passò poi sotto le dominazioni dei Tolomei e degli Attalidi ed infine, alla morte di Attalo III, sotto i Romani.

Nel 190 ac la città si arrese ai Romani, che in seguito saccheggiato essa dei suoi tesori artistici.
Verso la fine del periodo romano la città ha iniziato un declino che continuò per tutto il periodo bizantino.

Pur subendo gli influssi ellenici, Aspendos conservò a lungo il dialetto e i costumi indigeni: il suo nome antico era Estwediis (ciò è testimoniato dalla legenda delle monete).



DESCRIZIONE

L’abitato si trovava sulla riva destra del fiume Eurimedonte, nell’entroterra della Panfilia, adagiato su un pianoro naturale circondato da pendii molto ripidi.

L'acropoli, alta circa 60 m, è disposta su due colline, una molto più bassa dell'altra, e sembra fosse fortificata solo in corrispondenza degli accessi naturali. L'ingresso principale era a S.
La città non è stata mai scavata: esistono solo dei disegni risalenti al 1890.

I monumenti noti sono: lo stadio (in realtà un ippodromo), l’agorà trapezoidale con tabernae e un ninfeo, il bouleuterion (alle spalle dell’agorà), la basilica, il grandioso acquedotto (lungo ben 600 metri) e il teatro.



IL FORO

Era una grande piazza rettangolare con l'asse maggiore orientato nord-sud, bordata su tre lati da edifici pubblici, a ovest da Tabernae con portico, a est dalla basilica forse anch'essa con portico, a nord da un ninfeo, e a sud un ingresso monumentale.

L'ACROPOLI
Sul lato ovest si apriva il mercato, una costruzione originariamente a più piani, lunga 70 m e divisa in 15 ambienti che affacciavano su un portico a colonne. Sul lato nord, un ninfeo, lungo m 32,50 e alto 15, era decorato nella parete verso il Foro con due serie di cinque nicchie sovrapposte, con le inferiori inquadrate da colonne corinzie poste su sei basamenti rettangolari. 

Riccamente decorati con ornati floreali erano sia la trabeazione che correva continua sulle colonne e sulle nicchie più basse, sia il cornicione.
Sul lato est sorgeva una lunga basilica (m 105,48 × 26,90), a tre navate intere, più una quarta lunga 2/3 delle altre che corre sul lato della piazza fino all'altezza del ninfeo. 

Ad essa si accedeva da N, mediante tre passaggi ad arco che danno sull'asse maggiore e da un imponente vestibolo, ancora in piedi fino a 18 m di altezza All'estremità N-O dell'acropoli perviene un grandioso acquedotto che, su alte arcate, portava l'acqua ad A. dal N e del quale restano imponentissime rovine. Infine si trova il teatro.

INTERNO DEL TEATRO

IL TEATRO

Aspendos è nota per avere il teatro meglio conservato dell'antichità, costruito a spese di A. Curzio Crispino Arrunziano e di A. Curzio Auspicato Titinniano (C. I. L., iii, 231 a-B;C. I. G., 4342 d; e 4342 d 2-3-4).

Con un diametro di 96 m, il teatro, incassato nella roccia delle pendici orientali dell'acropoli, è fornito di posti a sedere per 7.000 persone.

Altri sostengono che i posti a sedere siano 15000. Il teatro, dell'età di Antonino Pio, fu costruito nel 155 dall'architetto Zenon greco, nativo della città. 

E 'stato periodicamente riparato dai Selgiuchidi, che lo usavano come un caravanserraglio, e nel XIII sec. fu trasformato in palcoscenico dai Selgiuchidi di Rum. 

PARTICOLARE DEI DECORI DEL TEATRO
Il caravanserraglio era un edificio costituito in genere da un muro che racchiudeva un ampio cortile ed un porticato, che veniva usato per la sosta delle carovane che attraversavano il deserto, ma che poteva anche includere stanze per i viandanti.

Per mantenere le tradizioni ellenistiche, una piccola parte del teatro è stato costruito in modo che si appoggi alla collina dove si eresse la Cittadella (Acropoli), mentre il resto è stato costruito su archi a volta.

Il palcoscenico alto isolava apparentemente il pubblico dal resto del mondo. Il  fondale della scena è rimasto intatto.

Il soffitto in legno sopra il palco, in pendenza e alto 8,1 metro (27 piedi) è andato perduto. Buche di inserimento per 58 pali si trovano nel livello superiore del teatro. Questi pali sostenevano un velario o una tenda che veniva tirata sopra il pubblico per fornire ombra.

Fino a poco tempo il teatro era ancora in uso per concerti, festival ed eventi. A causa dei danni causati dal montaggio di attrezzature teatrali moderne le autorità turche hanno sospeso ulteriori spettacoli. Una nuova struttura moderna nota come Aspendos Arena è stata costruita nei pressi a continuare la tradizione del teatro all'aperto di Aspendos.


La leggenda

Sul teatro c'è una leggenda il re Aspendos ha una figlia bellissima. Il re annuncia “farò sposare la mia figlia con chi realizza i servizi più utili alla mia popolazione.

PONTE EURYMEDON
Dopo aver sentito questo annuncio, due gemelli che fanno l’achitettura costruiscono due edifici magnifici. Uno di loro è il grandioso acquedotto con la capacità di trasportare l’acqua passando le vie molto complicate, l’altro invece il teatro di Aspendos. Il re dopo aver visto il grandioso acquedotto, vuole far sposare la sua figlia con questo architetto.

Pero’ la figlia, appassionata dell’arte, dice “Padre, per favore decidi vedendo ancora una volta il teatro”. Padre e figlia vanno a rivedere il teatro. E cominciarono a discutere. Nella discussione coinvolgono anche gli abitanti di Aspendos. Il popolo si divide in due. Da un lato il magnifico teatro, dall’altro lato il grandioso acquedotto. Il re si trovava di fronte a una dilemma.

Nel frattempo l’architetto del teatro mormorave tra se’ “la figlia del re dovrebbe essere la mia, la figlia del re dovrebbe essere la mia” sulla scena del teatro, senza accorgersi la presenza del re e sua figlia. Il re e la figlia sentirono la voce dell’architetto dall’altra parte del teatro. 
Il re riusci a concepire l’eccellenza dell’opera realizzata dall’architetto. Il re di fronte a questa magnifica opera decise di dividere in due la sua figlia. Pero’ l’architetto del teatro si oppose dicendo “non vorrei che la principessa muoia, io rinununcio a sposare con lei”. Il re vedendo l’amore sincera dell’architetto, gli permette di sposarsi con la sua figlia.

La leggenda sarebbe pure carina, se non somigliasse troppo al Giudizio di Salomone.

Nelle vicinanze si trovano i resti di una basilica, agorà, ninfeo e di 15 chilometri (9.3 miglia) di un acquedotto romano. Il Eurymedon Ponte Romano, ricostruita nel XIII secolo, è anche nelle vicinanze.



L'ACQUEDOTTO

Sappiamo che fu eretto per la munificenza e l'evergetism di un Ti. Claudio Erymneo (Bull. Corr. Hell., x, p. 160, 8) ed è databile al I sec. d.c.

LA BASILICA


LE TERME

A sud del teatro sono ancora da ricordare due edifici termali che facevano parte della città bassa, gli avanzi della quale sembrano anch'essi tutti di età imperiale.



LA MONETAZIONE

SARCOFAGO ROMANO RINVENUTO AD ASPENDOS
Aspendos è stata una delle prime città a coniare monete. La monetazione iniziò intorno al 500 ac, primi Staters e successive dracme, "l'oplita sul dritto rappresenta il militare per cui Aspendus era famosa nell'antichità," il rovescio raffigura spesso un Triskelion.

La leggenda appare sulle prime monete come l'abbreviazione ΕΣ o ΕΣΤ Ϝ Ε; dopo conio ha ΕΣΤ Ϝ ΕΔΙΙΥΣ, l'aggettivo da ΕΣΤ Ϝ ΕΔΥΣ (Estwedus), che era il nome della città nella lingua Pamphylian locale. La storia numismatica della città si estende dal greco arcaico alla tarda epoca romana. Infatti batté moneta fino all'età di Gallieno.

MARCO EMILIO LEPIDO

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Nome originale: Marcus Aemilius Lepidus
Nascita: 90 a.c. circa
Morte: 13 a.c.
Posizione: politico romano



















In quei giorni Lepido chiese al Senato di restaurare e adornare a proprie spese la basilica di Paolo, il maggior monumento della famiglia degli Aemili. Era ancora in uso a quei tempi la pratica della munificenza pubblica da parte dei cittadini privati, seguendo tale esempio Lepido fece rivivere lo splendore degli avi, sebbene la sua fortuna fosse modesta”. (Tacito, Annali).

Uscendo dalla curia Iulia, a poche decine di metri ci sono i resti dell’imponente Basilica Emilia.  un monumento di stato, e il ricordo della storia di famiglia e dei propri antenati della gens Aemilia.



LE ORIGINI

Membro della gens patrizia degli Emilii, Marco Emilio  Lepido nacque in epoca tardo repubblicana, nel 30 a.c., da Cornelia Scipione, a sua volta figlia di un precedente matrimonio di Scribonia, la prima moglie di Augusto, e da Paolo Emilio Lepido, anche lui di nobile rango tanto che fu console nel 34 a.c. Suo fratello, Lucio Emilio Paolo, fu inoltre console nell'1 d.c..

Pertanto era imparentato con la potente dinastia giulio-claudia, e sposò una donna di alto rango, Vipsania Marcella, figlia di Agrippa e della sua seconda moglie Claudia Marcella maggiore, e ne ebbe due figli: Emilia Lepida e Marco Emilio Lepido.
Vipsania andò in sposa a Druso Cesare, secondogenito di Germanico, l’influenza del padre su Tiberio la protesse finché egli fu in vita, ma nel 36 d.c. fu accusata di adulterio con uno schiavo e si suicidò. Il figlio Marco Emilio Lepido, amico e coetaneo dell'imperatore Caligola, cadde poi in disgrazia poiché coinvolto in una congiura di palazzo e anche lui si suicidò nel 39 d.c.
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Si risposò in seconde nozze attorno al 4, con moglie e altri figli non identificati. È descritto da Tacito (Annales, III, 11 e 72), come un uomo estremamente equilibrato: né servile, né in sfida con il potere imperiale.



LA RIVOLTA DALMATO PANNONICA

MARCO EMILIO LEPIDO
Marco divenne console nel 6 d.c.. e nell'inverno dell'8/9 diventò responsabile unico degli accampamenti invernali di Siscia durante la seconda fase della rivolta dalmato-pannonica. La Dalmazia e la Pannonia, facenti parte dell'Illirico romano, si ribellarono ai Romani, responsabili della cattiva amministrazione dei governanti, che avevano preteso tributi troppo gravosi.


I anno di guerra

L’insurrezione ebbe inizio nella zona sudorientale fra i dalmati Desiziati, comandati da Batone, estesa poi ai pannoni Breuci, sotto il comando di Pinnes e di un secondo Batone. I comandanti avevano servito nell’esercito romano come ufficiali di truppe alleate, e quindi ottimi conoscitori di metodi e disciplina romani.
Tiberio dovette impiegare tre anni di guerra, e numerosi ed esperti generali (come Marco Valerio Messalla Messallino sostituito in seguito da Marco Emilio Lepido, Aulo Cecina Severo, Marco Plauzio Silvano o Gaio Vibio Postumo).


II anno di guerra

Tiberio concentrò ben 10 legioni a Siscia per dividere i Pannoni dai Dalmati, arruolando nuove coorti di voluntariorum, mentre si aggiungevano due nuove legioni macedoni e tre di Cecina Severo. Così Tiberio  avanzò verso occidente, sotto il comando congiunto di Cecina Severo e Plauzio Silvano. Il nemico però attendeva l’esercito romano per bloccargli la strada, prima che si ricongiungesse a Tiberio.

Mentre l’avanguardia dell’esercito romano cercava di accamparsi e la restante parte era ancora in marcia, il nemico gli piombò addosso all'improvviso e per poco non riuscì a schiacciarlo. Comunque i Romani ebbero la meglio e Cecina e Silvano poterono unirsi a Tiberio.
Nella seconda parte dell’anno Tiberio dispose diverse colonne militari, che attaccassero simultaneamente in più punti il nemico.


III anno di guerra

La carestia e la paziente strategia di Tiberio avevano logorato i nemici Batone il Pannone tradì Pinnes e lo consegnò ai Romani. L’altro Batone, il Dalmata, venuto a conoscenza del tradimento, lo catturò e lo uccise, persuadendo i Pannoni a riprendemre le armi. Ancora una volta erano sconfitti da Plauzio Silvano, sopraggiunto da Sirmio.
Batone si ritirò tra i monti mentre Silvano, più a nord, riusciva a sottomettere definitivamente i Breuci.
Il piano del bellum dalmaticum  fu preparato meticolosamente da Tiberio nel corso dell'inverno, lasciando a Siscia, Marco Emilio Lepido, Silvano a Sirmo, Germanico a sud delle Alpi Dinariche e Cecina ancora in Mesia, mentre egli stesso faceva ritorno a Roma per l’inverno.


IV anno di guerra

Marco Plauzio Silvano e Marco Emilio Lepido si erano distinti in battaglia, sottomettendo l'importante città fortificata di Seretium e numerose altre località, ma non tutte le popolazioni dimostravano di sottomettersi, per cui Augusto decise di inviare nuovamente Tiberio che divise l'esercito in tre colonne:

  • la prima, affidata a Marco Plauzio Silvano, doveva dirigersi verso l'interno della Dalmazia, coprendo il lato sinistro dello schieramento romano;
  • la seconda, affidata al nuovo legato dell'Illirico Marco Emilio Lepido, doveva coprire il lato destro dello schieramento;
  • la terza, sotto il suo diretto comando, insieme a Germanico, doveva probabilmente percorrere il fiume Urbas, al centro dello schieramento, in direzione Andretium (nelle vicinanze di Salona), dove Batone il Dalmata si nascondeva.
  • Un quarto esercito, sotto il comando del governatore di Dalmazia, Gaio Vibio Postumo, ripuliva le coste adriatiche dei rivoltosi.

Tiberio giunse ad Andretium, prendendola d'assedio. Qui si ricongiunse con Lepido, che era un ottimo comandante, e dopo una lunga e sanguinosa battaglia sotto le sue mura, Batone si arrese. Augusto e Tiberio ricevettero l'ennesima acclamazione ad Imperator, mentre Germanico, Vibio Postumo, Marco Emilio Lepido, Plauzio Silvano e Cecina Severo ricettero gli ornamenta triumphalia.



GLI ONORI

Al termine della rivolta a Marco Emilio fu affidato l'incarico di governare la nuova provincia di Pannonia  fino al 10 e, poco dopo, a sostituire Gneo Calpurnio Pisone, nella Spagna Tarraconensis presidiata dopo il 9 da ben tre legioni, dove ancora lo troviamo nel 14, ma il cui mandato potrebbe essere durato dal 12 al 19, sembra condotto con notevole successo.

Ritroviamo poi Marco nel processo a Gneo Calpurnio Pisone del 20, per la morte di Germanico, uno dei tre consolari che accettarono il difficile compito di difenderlo.

Nel 21 si ritirò dal ballottaggio per la carica di governatore dell'Africa proconsolaris, poiché l'altro candidato era Quinto Giunio Bleso, zio di Elio Seiano.

Fece restaurare a proprie spese la Basilica Emilia del Foro romano, costruita dai suoi antenati, in onore alla gens emilia.. Nel 24 si adoperò per mitigare la pena inflitta da Elio Seiano ad alcuni elementi della famiglia di Germanico, tra cui Sosia Galla, moglie di Gaio Silio Aulo Cecina Largo, morto suicida quello stesso anno.

Fu nominato proconsole d'Asia dove rimase fino almeno al 28, ma il suo governo non ebbe qui molto successo. Morì cinque anni più tardi nel 33 d.c.
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SCOPERTE 7 STATUE NELLA VILLA DI MESSALLA

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http://www.repubblica.it/speciali/arte/recensioni/2013/01/08/news/villa_messalla_statue_ovidio-50097365/

Scoperte le statue cantate da Ovidio

Nel territorio del Comune di Ciampino è stata scoperta la villa di Marco Valerio Messalla Corvino, mecenate di Ovidio. Negli scavi trovate anche le statue che ispirarono al poeta il racconto del mito di Niobe nelle "Metamorfosi"

"Il cenacolo dei grandi poeti latini d'età augustea, da Ovidio ad Albio Tibullo, riprende vita alle porte di Roma, a Ciampino. Una scoperta che gli archeologi definiscono "eccezionale".
È la villa romana attribuita a Marco Valerio Messalla Corvino, console insieme a Ottaviano e comandante nella battaglia di Azio del 31 a.c..

Ma soprattutto mecenate di poeti e intellettuali d'età augustea che hanno scritto la storia della letteratura classica.
A restituire la villa, citata dalle fonti e il cui riferimento a "Valerii Messallae" deriva dai bolli sulle tubature, è il quartiere termale, dove gli ambienti sfoggiano frammenti di mosaici.
Ma a confermare che si tratta del tesoro di Messalla potrebbe essere un altro ambiente, distante alcune decine di metri: la natatio, la piscina all'aperto lunga oltre venti metri, con le pareti dipinte di azzurro.

Dall'interno della vasca sono riaffiorate una serie di sculture straordinarie.

Sette statue integre, con alcune mutilazioni ricostruibili, di oltre due metri d'altezza. Un repertorio statuario che illustra il mito di Niobe e dei Niobidi.

"Una di quelle scoperte che capita una sola volta nella vita di un archeologo", racconta Aurelia Lupi, guida, sotto la direzione scientifica di Alessandro Betori, dell'équipe della Soprintendenza ai beni archeologici del Lazio che tra giugno e luglio scorsi hanno avviato una campagna di sondaggi preventivi su un'area interessata da un progetto di edilizia sulla via dei Laghi all'interno dei cosiddetti Muri dei Francesi, una proprietà privata corrispondente al Barco dei Colonna.

L'area è la stessa finita di recente sulle cronache per la triste vicenda del Portale di Girolamo Rainaldi, il maestoso ingresso barocco crollato e lasciato in stato di abbandono.


"Statue di Niobe ne sono state trovate in passato, ma nel caso di Ciampino abbiamo buona parte dell'intero gruppo", sottolinea la soprintendente Elena Calandra:
"Sette statue d'età augustea complete, ma anche una serie di frammenti che possono essere ricomposti".

Capolavori che mettono in scena la tragedia del mito, la punizione della superbia di Niobe.

"Queste statue entreranno nei manuali di storia dell'arte classica" aggiunge Calandra.

Le meraviglie del circolo di Messalla dovevano ornare i quattro lati della piscina e un basamento in peperino al centro della vasca.
Sono rimaste inviolate sotto terra per secoli, probabilmente dopo che un terremoto nel II secolo le ha fatte precipitare sul fondo della vasca.

"Le sculture ci offrono nuove testimonianze sull'iconografia di Niobe" dice Alessandro Betori, direttore scientifico degli scavi. "

Nel gruppo spiccano due figure maschili di giovani colti nell'atto di osservare l'eccidio dei fratelli che appaiono a tutt'oggi inediti. E soprattutto, la villa da cui provengono appartiene a Messalla, protettore di Ovidio.

Non è un caso che la descrizione più vivida del mito di Niobe si trovi proprio nel suo capolavoro, le Metamorfosi. Da assiduo frequentatore del circolo, il poeta avrà forse avuto modo di vedere il gruppo dei Niobidi in tutto il suo splendore e di rimanerne ispirato".

Oppure, potrebbero essere stati i versi del poeta a suggerire a Messalla il tema del gruppo scultoreo che doveva impreziosire la piscina della villa.
Dalla scultura alla poesia, insomma. Ora servono risorse per restaurare e valorizzare le opere."



VALERIO MESSALLA

Fu un valente generale e scrittore, nonchè mecenate di grandi artisti, per i quali aveva eletto un circolo letterario.

Una tale istituzione richiedeva soldi, perchè gli artisti venivano ospitati vivendo con il padrone di casa e praticamente spesati di tutto.
Tra questi protesse e accolse Tibullo, Sulpicia e Ligdamo, ma fu anche amico di Orazio ed Ovidio. 

Era di famiglia patrizia e di rango senatorio, quindi di agiata condizione ma a Roma chi faceva più soldi erano i generali, e lui ebbe agio di mostrare ampiamente le sue qualità.
Per i suoi ideali repubblicani infatti si battè nella battaglia di Filippi a fianco di Bruto e Cassio. Passò poi dalla parte di Antonio ed infine entrò nelle file di Ottaviano.

Console nel 31 a.c. assieme ad Ottaviano, partecipò con l'Augusto alla Battaglia di Azio contro Antonio.

Ebbe poi il comando di una missione in Asia Minore e nel 30 a.c., soppresse la rivolta degli Aquitani nel 28 a.c. per cui celebrò un trionfo nel 27 a.c.

Tibullo lo descrive coraggioso e lieto di andare a cercare la gloria in guerra come a godersi nei piaceri la pace in villa.




BARCO COLONNA


Ora la Soprintendenza archeologica per il Lazio ha scoperto la villa romana di Messalla all’interno dei cosiddetti Muri dei Francesi, una proprietà privata corrispondente al Barco Colonna, affacciata sulla via dei Laghi.

C''è un quartiere termale costituito da alcuni ambienti a mosaico e una natatio, piscina all’aperto lunga oltre 20 m, con le pareti affrescate.
Da qui sono riaffiorate sette statue che illustrano il mito di Niobe e dei Niobidi. Sculture imponenti, di straordinaria bellezza.

Il Barco Colonna è un'area di verde pubblico situata nel comune di Marino, nella zona dei Castelli Romani. 
Occupa l'area di un'antica riserva di caccia o Barco della famiglia Colonna.

Il Barco sorge in una vallata umida solcata dalla Marana delle Pietrare, una delle più rilevanti zone dei Colli Albani sorta alla fine del XVI sec., dato che nel 1590 venne edificato il portale a bugne in peperino che sorge sul viale principale dell'area verde.

Il parco aveva fontane monumentali, adorne di statue alte fino a due m in peperino, di cui oggi ci restano solo poche testimonianze, come un nicchione e il Cellone, caratteristica statua acefala semi-nascosta fra le piante. Al termine del viale, dove si apre una radura, vi era un teatro delle acque, oggi rimpiazzato dalla cabina dell'acquedotto comunale.
Divenuto dal 1916 di proprietà del Comune di Marino.




MA ECCO IL RISVOLTO DELLA MEDAGLIA
FERMATEVI!
NON SEPPELLITE CON IL CEMENTO BELLEZZA STORIA E PAESAGGIO.


La villa di Marco Valerio Messalla Corvino, rinvenuta pochi mesi fa a Ciampino nei pressi di Roma, insieme alle sette straordinarie sculture di Niobe e dei suoi figli è in pericolo.

55.000 metri cubi di cemento potrebbero essere costruiti ad appena pochi metri di distanza dall'area degli scavi e dalla piscina, scenario originale delle sculture.

L'area dei rinvenimenti è denominata Muri dei Francesi, toponimo legato alla battaglia che lì si svolse e che determinò la fine della cattività avignonese del papato.

Area descritta dalla stessa Soprintendenza Archeologica di notevole valore ambientale, paesaggistico, storico e monumentale già prima delle sensazionali scoperte. Conserva infatti i resti del Barco Colonna, con casali secenteschi e il portale attribuito a Girolamo Rainaldi, dichiarato fin dal 1935 patrimonio nazionale, rovinosamente crollato nel 2011 e finora non restaurato.

Quel luogo, ancora intatto, ha ispirato il circolo letterario di Messalla, frequentato dai più grandi autori classici latini, luogo che con Ovidio e le sue Metamorfosi, permise l'incredibile osmosi tra letteratura e arte plastica rappresentata dal gruppo di Niobidi.

A Ciampino, nell'altra area di scavo in località Colle Olivo, è già stata decisa l'edificazione di 67.000 metri cubi per l'edilizia convenzionata, ad appena 10 metri dalla piscina e dalle terme che sono state recentemente scoperte, stando agli esperti, copia fedele in scala ridotta delle Terme di Ostia Antica.

Edificazione che, a ridosso della sommità del colle, compromette la particolare bellezza dell'orizzonte.

Ad essere in pericolo non sono solo i singoli reperti, ma "l'insieme" materiale ed immateriale costituito dai siti dei ritrovamenti tutti di straordinario valore, archeologico e paesaggistico. Tutti insistenti su di una stessa fascia, a ridosso dell'Appia Antica, tra la "Piana di Ciampino" e le prime pendici dei Castelli Romani, che interrompe il continuum edilizio tra Roma e l'area dei Colli Albani.Per questo motivo chiediamo:

- Di mettere urgentemente in sicurezza quanto rimane del Portale secentesco e provvedere alla sua ricostruzione.

- Di fermare le costruzioni a ridosso dei beni rinvenuti.

- Che venga rispettato il dettato dell'articolo 9 della Costituzione: "La Repubblica [...] Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione".

- Che venga rispettato il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, in particolare prescrivendo "le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità del bene culturale, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce".

- Che anche a Muri dei Francesi e a Colle Olivo sia attuato il criterio di tutela espresso nella recente sentenza del Consiglio di Stato in cui si afferma che "cura dell'interesse pubblico paesaggistico concerne la forma circostante, non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi".

- Che l'intera area del Parco dei Casali sia destinata alla città come patrimonio intangibile da salvare senza cedere a derive speculative che compromettono per sempre la ricchezza del territorio.



LE SPECULAZIONI EDILIZIE

Che alle numerose distruzioni perpetrate anche in anni non lontani nell’area dei Castelli romani non se ne aggiungano di nuove. Come il caso della villa cosiddetta di Augusto, nel territorio di Velletri, nella cui area, nonostante un vincolo archeologico, si è continuato a costruire, o come il caso di Colle Cagnoletto, nel territorio di Genzano, un’altura affacciata sulla via Appia antica, sulla quale la costruzione di un centro residenziale, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, ha polverizzato diverse ville romane.


L’amministrazione Comunale di Ciampino continua a confermare i due siti archeologici come luogo per l’edificazione delle zone 167 e rimane completamente insensibile all’importanza storica delle aree e al loro valore!

Quali interessi legano il sindaco, la giunta e le due soprintendenze, che da mesi tengono segreta l’importanza dei ritrovamenti?

Si tratta di ville romane venute alla luce insieme a strutture termali di notevoli dimensioni, magazzini, locali di servizio, statue, mosaici, ecc.. 

In una villa, attribuita a Marco Valerio Massalla Corvino, ultimo console insieme ad Ottaviano, sono state rinvenute ben 7 statue di marmo perfettamente conservate, tutte collocate intorno alla vasca termale e riferite al mito delle Niobi, descritte da Ovidio per le sue “Metamorfosi”, assiduo frequentatore del cenacolo culturale del console, che riuniva dotti e letterati nella sua sontuosa villa, a Muro dei Francesi.

Il Movimento Ciampino Bene Comune ha condiviso e sostenuto la battaglia delle associazioni cittadine per la salvaguardia e la valorizzazione delle aree archeologiche a Ciampino e richiede ora che la Soprintendenza Archeologica diffonda le informazioni sul ritrovamento dei reperti, confermando l’importanza delle aree, contrapponendo così alle mire degli interventi edilizi la necessità di una loro estrema tutela.

Le Soprintendenze ignorano da mesi le richieste di ben 22 associazioni cittadine per conoscere le notizie sui ritrovamenti. Anche l’interpellanza parlamentare dell’on. Antonio Rugghia è rimasta senza esito.

Perché la Soprintendenza ai Beni Archeologici non ha divulgato le informazioni sull’importanza dei siti archeologici di Colle Olivo e di Muro dei Francesi a Ciampino?

Perché la Soprintendenza ai Beni Paesaggistici non è ancora intervenuta con la tutela del vincolo sull’intera area del “Barco dei Colonna”?

Ci preoccupa che sindaco e soprintendenze continuino a incontrarsi senza far conoscere ai cittadini la consistenza e la qualità dei ritrovamenti e gli elementi di valutazione che determineranno le scelte e le decisioni sulle aree archeologiche e la loro tutela.

Alle richieste di conoscenza delle associazioni e dei cittadini si risponde: “non siete graditi”.

Ciampino Bene Comune
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