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TEMPIO MATER DEI - S. Stefano Rotondo

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LA CHIESA OGGI

Santo Stefano Rotondo è un'antica chiesa romana, del V sec. secondo alcuni, di epoca precedente secondo altri, eretta sulla sommità del colle Celio, nel rione Monti.
Gestita fino al 1580 dai paolini ungheresi, la chiesa  appartiene oggi al Pontificio collegio germanico-ungarico in Roma ed è la chiesa nazionale di Ungheria.
Come annuncia il suo nome, è dedicata a santo Stefano ed è di forma rotonda.

Peraltro è titolo cardinalizio, titulus Sancti Stephani in Coelio Monte e viene considerata la più antica chiesa di Roma.



DESCRIZIONE

La Chiesa di Santo Stefano Rotondo è quasi nascosta alla vista dalle antiche mura dell'acquedotto di Nerone, i cui archi vennero poi riempiti a laterizio, e vi si accede tramite un cancello e una stradicciola all'interno di un giardinetto. L'edificio ha pianta circolare, costituita in origine da tre cerchi concentrici, come due pizze circolari sovrapposte di cui la seconda è la metà della prima, e con quattro cappelle sporgenti a croce.

Sembra che l'edificio originario fosse di notevole bellezza con un susseguirsi di spazi aperti e coperti creando un gioco di luce e ombra e di corpi alti e bassi culminanti nel tamburo centrale.

L'edificio era circondato da due ambulacri più bassi ad anello: il più interno, del diametro di 42 m, era delimitato da un secondo cerchio di colonne collegate da archi, oggi inserite in un muro ininterrotto, mentre quello più esterno, del diametro di ben 66 m, oggi scomparso, era chiuso da un basso muro.  Lo spazio centrale era delimitato da un cerchio di 22 colonne architravate, tutte di recupero, su cui poggia un tamburo alto 22,16 m. La facciata, come si osserva nella foto qui in alto,  è un portichetto modesto e diritto con colonne e capitelli anche questi di recupero,

Nell'anello più esterno i colonnati sormontati da un muro delimitavano quattro ambienti di maggiore altezza, iscrivendo nella pianta circolare una croce greca visibile dall'esterno per la differente altezza delle coperture. I tratti intermedi dell'anello più esterno, di altezza inferiore, erano ancora suddivisi in uno stretto corridoio esterno, con copertura a botte anulare, e in uno spazio più interno, probabilmente scoperto.

Dai corridoi, a cui si accedeva dall'esterno mediante otto piccole porte, si passava agli ambienti radiali della croce greca, e da qui all'ambulacro interno e allo spazio centrale, coperti probabilmente con volte autoportanti, forse da tubi fittili. Gli interni erano riccamente decorati con lastre di marmo cipollino sul pavimento e sulle pareti, come testimoniano i frammenti e i fori per le grappe sulle pareti.

Nello spazio centrale si trovava l'altare, inserito in uno spazio recintato. Il colonnato che circonda lo spazio centrale ha le 22 colonne con fusti e basi di reimpiego per cui diverse tra loro, mentre i capitelli ionici furono appositamente eseguiti nel V secolo per la chiesa. Il che fa pensare ad un edificio preesistente in parte demolito e in parte ricostituito. Anche gli architravi sopra le colonne, probabilmente rilavorati da blocchi reimpiegati di diversa origine, hanno altezze diverse.

Il vano centrale è dunque circondato da due anelli dei quali quello esterno è diviso dai quattro bracci in quattro settori. Il secondo anello e i bracci di croce si aprono verso il corridoio più interno con una fila di arcate mentre i vani interni del secondo anello si affacciano sui bracci di croce con una lunga apertura tripartita a "serliana".

La "serliana"è una composizione architettonica formata da un arco a tutto sesto affiancato da due aperture architravate e da due colonne. Il tutto per un'impressione di leggerezza e monumentalità insieme, utilizzando ad esempio nei vani interni dei settori diagonali coperture con tubi fittili, come la volta centrale autoportante, altrimenti troppo pesante sulle pareti di scarico.
La struttura  a croce greca, dicono gli studiosi, fu particolarmente usata nel IV sec. soprattutto nelle Chiese donate dall'imperatore Costantino, ma prima ancora e soprattutto fu usata dai pagani, come dimostra in modo lampante il famosissimo Pantheon di Agrippa, anch'esso a croce greca con pronao rettangolare, eseguito, per ammissione dello stesso Agrippa, sul modello dei templi romani già antichi per la sua epoca, e i grandi templi italici erano in genere dedicati alla Dea Madre, la genitrice di tutti gli Dei.



LA STORIA

La chiesa venne edificata su preesistenti edifici romani, in parte su una caserma romana dei Castra Peregrina, o Peregrinorum, cioè gli alloggi delle truppe provinciali, e sopra un mitreo risalente al 180 d.c. che fu scoperto nei lavori del 1973-1975. Ma soprattutto deve essere stato riutilizzato un tempio rotondo, quindi arcaico o comunque dedicato a una Grande Madre, come era ad esempio Iside. Infatti sono stati trovati resti anche di questo tempio: una testa di Iside proprio accanto alla statuetta del Cautopates, in marmo lunense, di 22 cm. Spesso il culto di Mitra si affiancava al culto di Iside, forse perchè entrambi avevano un culto misterico.

Sappiamo inoltre che nei castra peregrinorum si trovavano anche il tempio di Giove Reduce e il sacello del Genius Castrorum.

Secondo l'ipotesi ricostruttiva di alcuni studiosi sul Macellum Magnum di Nerone, esso era simile all'attuale chiesa di S. Stefano Rotondo al Celio, cioè con pianta circolare contornata di colonne attorno al perimetro sormontato da una cupola. Era un edificio pubblico importante a accogliente, nonchè lussuoso, il che ne spiegherebbe la cura e la bellezza della costruzione. Pertanto hanno ipotizzato che la chiesa fosse in origine un macellum, ma non ci sono tracce di esso nella basilica, mentre dimostra ancora una volta che l'edificio a croce greca era in uso anche in epoca neroniana oltre che augustea.

Proprio a causa della forma della chiesa, si pensò gia dal X sec. che essa fosse il tempio della divinità pagana Faunus o dell'imperatore Claudius divinizzato, in effetti il tempio di Claudio non era molto distante, ma non si sa nulla della seconda attribuzione, visto che l'unico tempio di Fauno di cui si abbia notizia a Roma stava sull'Isola Tiberina.

L'edificio si inserirebbe secondo alcuni nel ritorno al classico dell'architettura paleocristiana, che raggiunse la massima espressione tra il 430 e il 460 con la basilica di Santa Maria Maggiore, la basilica di Santa Sabina, il Battistero lateranense e il mausoleo di Santa Costanza, ma in realtà le prime chiese cristiane, dovendo accogliere i fedeli all'interno, dovevano essere edifici monumentali, che vennero costruiti usando come modello la basilica romana con le classiche tre navate. Semmai gli antichi templi furono copiati solo in alcune soluzioni.

La pianta rotonda apparteneva a Roma agli edifici più arcaici, soprattutto a quelli dedicati a una delle Grandi Dee, come ad esempio Vesta, Cerere, Cibele e poi Iside. Sicuramente i numerosi reperti riutilizzati dimostrano che lì vi fosse uno e più luoghi sacri.

Se il tempio poteva servirsi solo di colonne sottratte ad altri templi, non si sarebbe scelto un modello di chiesa che richiedesse tante colonne con la difficoltà del trasporto che comportava. Invece le colonne giacevano là sotto e bastava prenderle. Inoltre l'idea che i marmisti non lavorassero più già all'epoca di Costantino è altrettanto infondata. E' con la caduta dell'Impero Romano che il potere si trasferisce a Costantinopoli, dove man mano vengono trasportati statue, colonne e bassorilievi, depredando il ricchissimo patrimonio artistico romano. Vero è invece che a Roma era già iniziata la spoliazione dei templi pagani p la loro trasformazione in chiese cristiane, come in questo caso.

Gli accadimenti storici:


V sec.
  • Il committente della Chiesa di Santo Stefano Rotondo era probabilmente legato al Papa Leone I (440-461 d.c.), forse verso il termine del suo pontificato. La costruzione della Chiesa si colloca intorno al 460 d.c., sotto il regno dell'imperatore Libio Severo (461-465 d.c.): due monete di questo imperatore sono infatti state rinvenute nel riempimento della fossa di costruzione del secondo colonnato nel settore sud della Chiesa e l'analisi degli anelli delle travi del tetto indicano che i fusti sono stati tagliati poco dopo l'anno 455 d.c., e il legname nei lavori di carpenteria si utilizza fresco. Ma secondo la testimonianza del Liber Pontificalis, la basilica venne costruita e consacrata dal pontefice Simplicius (468-483). Secondo altri studiosi venne costruita sotto Costantino (306 - 337), cioè oltre un secolo prima, il che non toglierebbe modifiche e restauri dopo un secolo.
VI sec.
  • Tra il 523 e il 529, sotto i papi Giovanni I e Felice IV, sappiamo dalle fonti che la chiesa fu ornata da mosaici e rivestita in marmi preziosi. Nella chiesa aveva predicato papa Gregorio Magno, al quale viene attribuita una cattedra che tuttora vi è conservata, un sedile in marmo di epoca romana, dal quale vennero eliminati nel XIII sec. la spalliera e i braccioli. E' evidente che gli ornamenti provenissero dai templi abbattuti, come dimostra il sedile romano, marmoreo e di epoca imperiale al quale vennero scalpellati i braccioli e il dossale.
VII sec.
  • Nel VII sec. papa Teodoro I (642-649) trasferì a Santo Stefano Rotondo le reliquie dei santi martiri Primo e Feliciano, collocandole nel braccio superstite nord-orientale della croce greca, dove fece erigere un nuovo altare, con un paliotto d'argento, e alle spalle il muro esterno venne demolito per realizzarvi un'abside, per la cappella dei Santissimi Primo e Feliciano.                                                
XI sec.
  • Nell'XI secolo la cappella fu ristretta con tramezzi per ospitare una sacrestia e un coro secondario 

XII sec.
  • Fu restaurata ad opera di papa Innocenzo II negli anni tra il 1139 e il 1143: l'anello esterno e tre dei quattro bracci vennero abbandonati, mentre rimase intatto solo quello che ospitava la cappella dei santi Primo e Feliciano. Il colonnato più esterno venne chiuso con muri in mattoni e fu creato un porticato di ingresso, coperto a volta, a cinque arcate su colonne con fusti di reimpiego in granito e capitelli tuscanici. Nel rifacimento delle coperture dello spazio centrale si costruì, per ridurre l'ampiezza, un muro di tramezzo, aperto con tre archi, di cui quello centrale più ampio dei due laterali, sostenuti da due grandi colonne, con fusti di granito e capitelli corinzi e basi di reimpiego. Infine, per consolidare la struttura, 14 delle finestre aperte sul tamburo vennero murate. Innocenzo II (1130-43) nel dodicesimo secolo aggiunse il portico, a cinque arcate su colonne antiche con capitelli tuscanici, e la triplice arcata interna,
XV sec.
  • Si pensò che la chiesa derivasse dalla riutilizzazione di un edificio romano, convinzione che durò fino al XIX secolo, con la denominazione di "Tempio di Bacco". Nel 1420 la chiesa venne descritta come basilica disrupta e se ne giunse a interpretare i resti come quelli di un tempio dedicato al dio Fauno.
  • Papa Niccolò V (1447-1455) affidò il restauro completo dell'edificio allo scultore fiorentino Bernardo Rossellino, che rifece le coperture e il pavimento, rialzandone la quota, collocò al centro dell'edificio un altare marmoreo, eliminò l'ambulacro esterno e tamponò con un muro le colonne del secondo anello costituenti l'attuale parete esterna dell'edificio. Dei bracci della croce greca ne rimase quindi uno solo utilizzato come vestibolo in corrispondenza dell'atrio. Durante il tempo del suo pontificato in Avignone, il papa fece costruire gli elementi rinascimentali dell`edificio: la porta d`entrata e l`altare principale. 
  • l'architetto rinascimentale Bernardo Rossellino, nel 1453, nel restaurarla su incarico del papa Niccolò V (1447-55), consolidò le coperture ma eliminò l'ambulacro esterno e tre dei quattro bracci della pianta.  
XV sec.
  • Dal 1454 fino al 1580, il convento che stava accanto alla basilica divenne il centro romano dell`ordine ed il luogo di sepellimento dei religiosi paulini. La sconfitta di Mohacs, poi l`espansione della riforma e la conquista di Buda causarono la soppressione dell`ordine.

XVI sec.  
  • Sulle pareti del muro perimetrale, a partire del 1585, gli artisti Pomarancio, Tempesta e Bril dipinsero il Martirologio, 34 affreschi raffiguranti le persecuzioni afflitte dagli imperatori romani ai martiri. voluto dai Gesuiti appartenenti al Collegio Germanico che aveva sede sul Celio, dopo l'assegnazione di Gregorio XIII (1572-85). Un affresco databile ai primi anni del '600 opera del Pomarancio e del Tempesta dimostrano l'impressionante sequenza di scene orripilanti che descrivono nei minimi particolari tutti i tipi di martirio inflitti ai primi cristiani.
  • L'affresco riflette lo spirito della Controriforma per l'esaltazione del martirio e il terrore delle punizioni inflitte; si tratta di 34 riquadri in cui i pittori hanno rievocato in modo molto realistico ogni tipo di tortura: santi schiacciati sotto grandi massi che fanno fuoriuscire le viscere dal corpo e gli occhi dalle orbite, martiri divorati pezzo per pezzo da leoni, affogati con una pietra al collo. bruciati un po' alla volta, accecati, storpiati, lapidati, privati dei denti e, se donne, delle mammelle e così via.
  • Le storie del martirio dei  santi nascondevano però l'Opera alchemica, con le lettere incise sopra l'affresco che ne indica la sequenza. Così per illustrare la Separazione, la I fase dell'Opera, viene tagliata la testa a un martire sdraiato, cosicchè nelle due sequenze successive la testa è sempre un po' di più lontana dal corpo, ma in realtà non si taglia la testa di un uomo supino, nè c'è ragione di dividere la scena in tre fasi, ma in alchimia si sosteneva che l'opera dovesse essere ripetuta tre volte. La II fase dell'Opera, la Riunificazione, viene invece illustrata con una santa coricata tra due lastroni di pietra che la schiacciano in tre scene, e in ognuna i lastroni si ricongiungono sempre più sulla disgraziata.
  • Intorno all'altare venne costruito un recinto ottagonale, decorato con sculture (stemmi papali) e affreschi di Niccolò Circignani, detto il Pomarancio, con 24 scene che imitano rilievi scultorei, in toni di giallo, raffiguranti la storia di santo Stefano e del suo culto. 
XVIII sec.
  • Nel XVIII secolo, a risarcimento della distruzione della chiesa nazionale ungherese di Santo Stefano Minore al Vaticano, fu creata nella basilica di Santo Stefano Rotondo una nuova cappella nazionale ungherese per gli studenti provenienti dal Regno d'Ungheria. 
  • L'attuale altare si deve al 1736 ed è opera di Filippo Barigoni. La chiesa decadde nei secoli successivi e perse le coperture originarie.   


GLI SCAVI

Dal 1958 sono iniziati gli scavi archeologici nel sottosuolo della chiesa e nella zona circostante, finchè nel 1973 fu scoperto un santuario del dio Mitra, il culto di origine orientale importato dai romani, diffuso soprattutto tra i soldati, e che conviveva con la religione ufficiale. Il santuario era collocato all'interno degli edifici dei castra peregrinorum, i primi resti dei quali furono scoperti nel 1905 a sud della Chiesa, durante la costruzione del Pio Istituto dell'Addolorata.

IL MITREO SOTTO SANTO STEFANO ROTONDO
Questi castra, che si estendevano sulla collina del Celio, erano le caserme  ove alloggiavano i soldati distaccati a Roma dalle regioni provinciali, chiamato corpo speciale dei peregrini.
Oltre al santuario di Mitra vi erano anche altri luoghi di culto all'interno di queste caserme come il Templum Iovis Reducis e un santuario del Genius Castrorum.
L'edificio dei castra col santuario di Mitra fu costruito attorno al 160 d.c. mentre la prima installazione del santuario risalirebbe al 180 d.c.
Il Mitreo subì anche una ristrutturazione alla fine del III sec. d.c. raggiungendo le dimensioni complessive di m 9,50 x10, uno dei mitrei più grandi tra quelli scavati finora a Roma. Il santuario era decorato con affreschi fatti di specchiature bianche con disegni a elementi vegetali, divise da lesene in verde e rosso. Vi erano poi due podi laterali sui quali prendevano posto i fedeli, un corridoio centrale e una nicchia sul muro di fondo contenente un altorilievo in stucco policromo rappresentante Mitra tauroctono tra i due dadofori Cautes e Cautopates, i cui frammenti sono stati rinvenuti sul pavimento nel corso degli scavi.

La seconda fase del Mitreo è databile alla fine del III sec., in cui la nicchia della prima fase del mitreo fu coperta con un grande rilievo marmoreo policromo con Mitra tauroctono e i dadofori, trovato a pezzi sul  pavimento. Nella nicchia compare una figura volante con fiaccola, cioè Hesperos, davanti alla Dea Luna sul carro tirato da una coppia di buoi e un animale ai piedi del dadoforo Cauropates, che dovrebbe essere un gallo o una civetta.

Alla seconda fase appartiene anche l'altare a gradini presso cui fu rinvenuta una statua marmorea, alta poco più di un metro, di Mitra che nasce dalla roccia, con accanto una piccola vasca di marmo colma di ossa di gallo e numerose epigrafi di militari fedeli di Mitra. Inoltre furono rinvenuti oggetti riferibili ad altri culti, in particolare una testa marmorea di Iside e una statuetta marmorea di Telesforo, provenienti probabilmente da altri luoghi di culto all'interno dei Castra. Testimonianze archeologiche hanno dimostrato che il santuario di Mitra fu frequentato anche dopo l'abbandono dei Castra, della metà del IV sec. in seguito alle invasioni barbariche, per seguire la sorte di tutti gli edifici romani dell'area, demoliti per il riempimento per la costruzione della Chiesa agli inizi del V sec.
La zona dei Castra diventò poi proprietà della Chiesa grazie all'imperatore come avvenne per la caserma degli Equites Singulares donata dall'imperatore Costantino al Papa per la costruzione di San Giovanni.



OGGI

Si nota un contrasto tra l'architettura monumentale della chiesa e la poca cura nella decorazione architettonica: infatti lo spessore del blocco nel profilo superiore dell'architrave marmoreo risulta di differente spessore (da 95 cm fino a 1,10 m), le modanature dei blocchi sono lavorate grossolanamente e molte delle colonne sono di differente qualità, evidentemente prelevate dai templi pagani demoliti.

Avendo rimosso il pavimento rinascimentale nelle zone nord-est e sud ovest, sono stati ritrovati resti del pavimento antico del V sec. composto di lastre di marmo cipollino di 90 cm di larghezza affiancate da lastre più strette. Ciò ha permesso di ricostruire il disegno originario del pavimento composto da quadrati intersecati diagonalmente. Del pavimento della restante parte non v'è traccia ma anch'esso era probabilmente costituito da grandi lastre di marmo.

Purtroppo il restauro odierno ha snaturato completamente il suolo della chiesa ponendovi un elemento moderno, senza pregio e di gusto opinabile, una serie di grandi colate di cemento su una graniglia di marmi incorniciate da grandi riquadri di metallo.  Si ignora la ragione per cui non siano stati utilizzati gli stessi lastroni marmorei in parte rinvenuti, magari alternati ad altri analoghi di fattura moderna, oppure utilizzando il cotto di epoca più tarda ma comunque molto antico che stava accatastato agli angoli della sala. A tal proposito parlammo con l'ingegnere che si dichiarò molto soddisfatto di aver sostituito un pavimento antichissimo con uno moderno e nemmeno di pregio.

All'interno dell'edificio sono stati inoltre ritrovati resti di opus sectile di marmi pregiati e, nei muri, file di buchi per perni di marmo e ganci che fissavano le lastre di marmo alle pareti confermando il disegno dell'interno della chiesa compiuto da Baldassarre Peruzzi all'inizio del Cinquecento. Solo i sondaggi stratigrafici hanno invece permesso di collocare l'altare dalla chiesa antica nel vano centrale, nell'area sud-ovest recintata.

Di tutti questi reperti però neppure l'ombra, è sparita anche l'epigrafe che prima del restauro riportava su marmo la dicitura: Mater Dei Genitrix, da me vista e di cui nessuno sa spiegarmi alcunchè. Non dimentichiamo che Iside Regina era così definita, prima che la denominazione passasse alla Madonna, e sembra che avessero trovato negli scavi della chiesa un'epigrafe a lei dedicata.


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ELEUSI (Grecia)

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RICOSTRUZIONE DEL SANTUARIO

Eleusi è un comune della Grecia situato nella periferia dell'Attica occidentale, ed è situata a 18 km a Nord ovest dal centro di Atene. Si estende nella pianura triasia (Thriasian), il punto più a nord del golfo di Egina (Aegina), ad ovest di Atene.

Fu una città-stato indipendente fino al VII sec. a.c., quando entrò nello stato attico alleandosi con Atene, e fu la città natale di Eschilo (Aeschylus), uno dei tre grandi tragediografi dell'antichità.  La città divenne un centro importante per il culto della Dea Demetra, a cui era dedicato un tempio di epoca micenea, nell'acropoli. Il tempio era noto per la celebrazione di riti di iniziazione detti Misteri Eleusini, uno dei più famosi eventi religiosi dell'antica Grecia,



II INNO OMERICO

"mentre con le figlie di Oceano giocava,
fanciulle dal turgido seno, e fiori coglieva:
rose e croco e viole belle e giacinti
sul tenero prato; e il narciso che aveva,
a inganno della bella fanciulla, per voglia di Zeus,
prodotto la Terra indulgente a quel nume
che molti uomini ospita: lucido fiore
meraviglia per tutti a vedersi: così per gli Dei
immortali come per gli uomini effimeri:
cento corolle spuntavano dalla radice
e all'effluvio odoroso godevano il cielo
alto e tutta la terra e le onde marine.

Stupita le mani ella tese per cogliere
quel dolce ornamento: quand'ecco nell'ampia
campagna di Nisa la terra s'aperse e fuori
il signore che molti uomini ospita
ne uscì su cavalle immortali, il Dio
dai molti nomi, figlio di Crono; e lei
riluttante rapì
"


I PICCOLI PROPILEI (ISCRIZIONE DEL CONSOLE APPIO CLAUDIO PULCRO)


LA STORIA

Dal 1700 a.c. al IV sec. d.c., Eleusi fu il sito dei Misteri Eleusini, o Misteri di Demetra e Core. Si racconta erroneamente che gli iniziati a questi misteri si convincessero di una ulteriore vita dopo la morte che faceva loro terminare la paura del trapasso.

Nulla di più falso, perchè i Sacri Misteri erano di natura esperienziale, pertanto cancellavano dalla mente tutto ciò che non veniva sperimentato. Pertanto facevano cadere qualsiasi tipo di fede e pertanto anche di religione.

A questo punto gli iniziati, ovvero quei pochi che ci arrivavano in mezzo a una folla che rimaneva aggrappata alla propria mente, credevano solo a ciò che sperimentavano facendo riferimento solo al proprio istinto e non agli altri.

Molte vie occidentali e orientali hanno teso alla caduta della mente appresa, o elucubrante, insomma la mente difensiva che impedisce di vedere la realtà, Tutto ciò in contrasto con le religioni ufficiali che tendono a dettare le regole e il funzionamento del mondo aldiqua e aldilà. Solo che pochi riescono a compiere l'impresa.

ELEUSIS
Il nucleo centrale dei Misteri fu la ricerca di Demetra della figlia perduta (Kore la fanciulla, o Persephone) che era stata rapita da Ade. Fu qui che Demetra, nelle sembianze di una donna anziana rapita dai pirati a Creta, si avvicinò a un vecchio pozzo in cui le quattro figlie del re Keleos e la regina Metanira la trovarono e la portarono a palazzo per accudire il figlioletto Demofoonte.

La Dea allevò Demofonte con nettare e ambrosia, e passò il suo corpo tra le fiamme per renderlo immortale, ma Metanira scoprì la scena e la minacciò. Demetra sorse allora nel suo aspetto divino e rimproverò la regina di aver privato il figlio dell'immortalità.

Quindi ordinò a Meteneira di costruire un tempio per lei e qui sedette privando la terra di qualsiasi nascita animale vegetale, per cui tutti gli umani scongiurarono Giove di far tornare Core affinchè l'umanità non fosse sterminata dalla fame.

Gli scavi archeologici hanno riportato in luce: 
- il Teatro, 
. i tre archi di triondo adrianei,
- il Telesterion
- il monumento dei Parti, 
- il Cortile Sacro, 
- i Grandi Propilei e i Piccoli Propilei, 
- il pozzo di Kallichoron (dove il mito narra che Demetra sedette durante la sua ricerca di Persefone), - il Ploutonion (una grotta sacra con accesso all'Ade) e un palazzo miceneo rettangolare.
- diverse terme. 
- del più celebre monumento di Efeso, per Pausania il più grande edificio del mondo antico, del Tempio di Artemide, una delle Sette meraviglie del mondo, raso definitivamente al suolo nel 401 per ordine dell'intransigente e poco cristiano Giovanni Crisostomo, arcivescovo di Costantinopoli, autore delle più feroci omelie antigiudaiche, rimane invece solo una colonna.





I MONUMENTI

Il sito di Eleusi ospita molti importanti monumenti, tra cui il Cortile Sacro, i Grandi Propilei e i Piccoli Propilei, il Telesterion, gli Archi di Trionfo (copie romane dell'Arco di Adriano di Atene), il pozzo di Kallichoron (dove il mito narra che Demetra sedette durante la sua ricerca di Persefone), il Ploutonion (una grotta sacra con accesso all'Ade) e un palazzo miceneo rettangolare.

LE MURA


LE MURA

Tra la cinta esterna delle mura, ampliata tra l’età classica e l’ellenistica, (la foto di destra) e il tratto più antico, quello dovuto a Pisistrato, all’interno (la foto di sinistra), vi era uno spazio riservato alla sosta degli iniziandi. La porta della cinta interna fu sostituita, per volontà di Appio Claudio Pulcro, verso il 50 a.c., dai Piccoli Propilei, ornati da cariatidi.


Appio Claudio Pulcro

Fu console nel 54 a.c. insieme a L. Domizio Enobarbo, proconsole nel 53 in Cilicia (accusato da Cicerone come sfruttatore); censore nel 50 radiò dal senato Sallustio. In Eleusi fece costruire i cosiddetti Piccoli Propilei. Pompeiano, morì in Eubea nel 48 a.c. prima della battaglia di Farsalo.

RICOSTRUZIONE DEL SANTUARIO

IL SANTUARIO

Il santuario di Eleusi, ovvero Eleusis, fu un tempio eretto a 15 miglia a nord ovest di Atene su un golfo ormai interamente chiuso dall'isola di Salamina. Oggi l'area archeologica è circondata da un distretto industriale e il golfo è usato come parcheggio per le navi in disuso.

La vita del santuario si protrasse per ben mille anni, non si conosce la data della sua fondazione ma viene postam, ma viene posta generalmente al VII sec. a.c.. Nel 392 l'imperatore Teodosio dichiarò il cristianesimo l'unica religione ammessa al culto e decretò la chiusura di Eleusis e di ogni altro santuario, tempio od oracolo pagano.

Nel 395 venne devastata e distrutta da Alarico e quindi abbandonata, fu ripopolata solo alla fine del XVIII sec. Però'interesse per il culto e le cerimonie di Eleusi non cessarono tanto che nel V sec. i filosofi Neoplatonici e in particolare Proclus la considerarono un possibile sviluppo come fede universale. Ma nel 529 la chiusura dell'Accademia di Atene decretata dall'imperatore Giustiniano aiutò a sradicare le cerimonie e i rituali pagani chiudendone definitivamente i templi.

ELEUSIS
A ovest della Via Sacra sono riemersi dagli scavi archeologici il recinto del Plutoneion, in parte esterno e in parte dentro una grotta che rappresentava l’ingresso all’Ade, un terrazzamento munito di gradini ove dovevano svolgersi le rappresentazioni sacre, nonchè delle feste religiose, e scarsi resti di due templi di età romana di cui ignoriamo la dedica.

La fama di Eleusi derivò dal suo famosissimo santuario, e questi ebbero fama per i suoi riti di iniziazione (Misteri Maggiori e Misteri Minori).

Il santuario di Eleusi (Elefsina) è situato sulla costa, a ovest di Atene alla quale fu collegata attraverso la Via Sacra.

I neofiti dell'Iniziazione venivano riuniti nella Telesterion, una grande sala ricostruita più volte; (Telesterion = luogo per l'iniziazione").

MAPPA DEL COMPLESSO
Gli iniziati sedevano sulle panche di pietra e tenevano conferenze sul contenuto delle cerimonie mostrando le sacre reliquie conservate nel santuario.

Sappiamo relativamente poco circa i riti effettivi, perché coloro che sono coinvolti in essi erano vincolati da un voto di segretezza.

E' evidente il ruolo superiore che le divinità femminili e quindi le donne hanno avuto nella fase iniziale della civiltà greca e forse mondiale.

Demetra personificava la Terra-madre; il suo equivalente romano è Cerere, la Dea dei cereali. In realtà la Madre Terra.

Le cerimonie di iniziazione venivano precedute da una processione da Atene a Eleusi. Questo spiega l'orientamento dei vari edifici del santuario. Gli iniziati venivano riuniti in una grande pianura dove finivano un periodo di digiuno bevendo kykeon (ciceone: una miscela di acqua, orzo, miele e foglie), che si pensa avuto proprietà un po' allucinogene.

La conquista romana della Grecia non ebbe alcun impatto sulla fama del santuario, i romani avevano grande rispetto per i greci, per le loro usanze e le loro religioni che in qualche modo erano, almeno in parte, fonte di quella romana.

Cambiò solo che venne elusa in vari modi la regola che limitava i riti di iniziazione agli Ateniesi per consentire l'accesso a tutti i cittadini dell'Impero. Cicerone, che era molto critico sull'influenza greca sui costumi romani, elogiò tuttavia i Misteri Eleusini:

PICCOLI E GRANDI PROPILEI A PLUTONION,
LA CAVERNA CHE CONDUCEVA AL SOTTOSUOLO
"Per loro mezzo che abbiamo fatto uscire dal nostro modo di vivere barbaro e selvaggio uno stile di vita educato e raffinato in uno stato di civilizzazione, e come i riti sono chiamati iniziazioni, così in verità abbiamo imparato da loro gli inizi della vita, ed essi hanno guadagnato il potere non solo di vivere felici, ma anche di morire con una speranza migliore".

Il console Appio Claudio Pulcro, come già detto, costruì un nuovo ingresso all'acropoli di Eleusi; la sua decorazione si riferiva ancora alla tradizionale celebrazione dell'agricoltura, ma a quei tempi (come testimoniano le parole di Cicerone), i riti erano già visti come un mezzo per gettare uno sguardo nel mistero della vita e della morte. L'iscrizione dettata da Appio Pulcro è in latino, mentre nei secoli successivi gli imperatori romani preferiranno utilizzare il greco per le iscrizioni in Grecia.

La presenza delle caverne che si riteneva conducessero agli inferi indica un altro aspetto del mito di Demetra ed i Misteri Eleusini che riguardavano la morte e il dopo-morte. Ma soprattutto riguarda la discesa nel proprio mondo interiore, cioè nell'inconscio.

PROPILEION
Demetra aveva una figlia, Core, cui era fortemente attaccata, ma la figlia sparì, rapita dal Dio Ade mentre coglieva dei papaveri. Per nove giorni e nove notti Demetra cerca Core; poi va alla corte di Celeo, o Keleo re di Eleusi,  

Trittolemo, che pascolava il bestiame, le narra che dieci giorni prima un carro trainato da cavalli neri era apparso nei campi, mentre il suo conducente stringeva una ragazza urlante. Adirata con Zeus, che aveva autorizzato il sequestro, Demetra proibisce agli alberi di produrre frutti, alle erbe di crescere e agli animali di figliare giurando che la terra sarebbe rimasta sterile finchè la figlia non fosse tornata.

Alla fine fu raggiunto un compromesso: ogni anno Core (o Persefone) avrebbe passato tre mesi con Ade, come regina del Tartaro, e nove mesi con la madre (per i romani è il mito  di Proserpina e Plutone).

Demetra e Core incarnano un aspetto della natura e un aspetto dell'anima. Come la natura nasce e muore ogni anno riportando la stessa energia arricchita di un'ulteriore esperienza, così anche l'umanità muore e ritorna sulla terra.

PIEDISTALLI DELLE STATUE DI FAUSTINA E SABINA, FIGLIA DI MARCO AURELIO

Ma soprattutto se muore la mente addomesticata dell'uomo la sua anima rinasce e gli dà un completa e veritiera visione del mondo, quella che la sua mente gli chiudeva.

L'imperatore Adriano fu iniziato ai Misteri Eleusini; e così Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo tutti protettori del santuario e mecenati del suo abbellimento; si ritiene che le modifiche sono state completate da Commodo dopo un attacco da parte Sarmati che danneggiarono il santuario nel 170.

Le modifiche inclusero un nuovo e monumentale ingresso con colonne gigantesche e due archi trionfali. Un busto dell'imperatore Antonino Pio in altorilievo che sporge da un grande medaglione in pietra. Il medaglione è un precursore di molti monumenti barocchi.

Nel II sec. a Eleusi si fecero diversi riferimenti alle donne della famiglia imperiale; purtroppo per gli archeologi e gli storici di solito venivano nominate solo Sabina o Faustina. Sembra più probabile che il tempio fosse invece dedicato a Vibia Sabina, moglie di Adriano, e un altro ad Annia Faustina, moglie di Antonino Pio.

Questo faceva parte di una politica attuata da Antonino Pio, al fine di dimostrare che gli imperatori romani rispettavano i valori della famiglia; questo dopo che l'opinione pubblica aveva reagito male alla deificazione di Antinoo, il giovane amato da Adriano.

CANALE, TUBATURA E CISTERNA SOTTERRANEA

Una statua di Antinoo veniva adorata in un tempio sotterraneo; la testa è molto simile a quella di una statua (molto superiore) a Delphi, ma il corpo è più verosimile della statua precedente.

Dopo il 170 incursione Sarmati e molto probabilmente dopo il 267 invasione della Grecia da parte del Eruli, i muri di Eleusi sono stati rafforzati; gli scavi hanno portato alla luce alcuni tratti di mura antiche, con esempi di muratura isodomica (cioè composte da pietre di dimensioni uniformi).

Quando si visita un sito archeologico la cui storia comprende un periodo romano, vi si imbatte in opere di ingegneria complesse finalizzate alla produzione e distribuzione di acqua; questo accadde anche ad Eleusi. Come dimostrano le foto qua sopra riguardanti le canalette, le tubature e le cisterne sotterranee. E questo non è greco ma prettamente romano.



IL TELESTERION (o sala dei Misteri di Eleusi)

L'edificio è stato restaurato e modificato più volte sino a fu riedificato da Ictino intorno al 445 a.c., il grande architetto che con Callicrate progettò il Partenone (447/6-438 a.c.) e a cui si attribuisce l'invenzione del capitello corinzio. Ma successivamente venne rielaborata e rifatta in età ellenistica (330 - 30 a.c.) con l'edificazione del portico da parte dell'architetto ateniese Filone.

Il monumento risale infatti al VII sec. a.c. e venne ampliato nel 520 a.c. per accogliere un numero maggiore di fedeli. 

Aveva una struttura quadrangolare, con l'anaktoron, cioè la cella della statua sacra di Demetra, situato in uno degli angoli.

Una serie di gradini addossati a tre pareti permetteva ai fedeli di assistere ai Misteri, e questo è del tutto insolito per le religioni greco-romane. dove i fedeli stavano sempre fuori del tempio. Vennero celebrati dentro il tempio solo il culto della Dea egizia Iside e quello cristiano.

Un lato del santuario si apriva all'esterno dove si estendeva portico retto da colonne doriche, mentre le colonne interne erano toniche.
Venne poi distrutto dai Persiani nel 480 a.c. e riedificato sotto Cimone nel 465 a.c., ma fu ripreso sotto Pericle dall'architetto Ictino. 

Ictino aveva previsto uno spazio quadrangolare, con all'interno un corridoio mediano per le processioni e uno spazio centrale per il culto.
Il tetto era sorretto da 20 colonne, disposte in cinque file da quattro, in modo da liberare la vista verso il centro.

L'edificio venne però completato, e pure un po' deformato, da Filone nel 330 a.c.,
Questi lo rese a pianta quadrangolare di 52 m per lato e sette gradini per ogni lato ornandolo con ben 42 colonne.

Al centro era posto l'Anaktoron e il trono dello Ierofante (sacerdote capo), sede vera e propria dei rituali misterici.
Mentre infatti gli antichi misteri erano guidati dalle sacerdotesse, detto ruolo era ormai passato prevalentemente agli uomini.

Il portico antistante aveva 14 colonne doriche con frontone. Sui lati nord, est e sud si accedeva mediante porte a coppia.
Secondo alcuni vi erano invece due differenti luoghi di culto: un originario tempio realizzato da Ictino, pressappoco sul luogo in cui poi venne costruito il tempio "L" di età romana, e il Telesterion.

In effetti Strabone, Vitruvio e Plutarco parlano di Ictino come realizzatore di una struttura con cella per Kore e Demetra, priva di colonne esterne mentre il Telesterion era un edificio e non un tempio. Ma la faccenda è ancora controversa. 

MONUMENTO DEI PARTI

MONUMENTO DEI PARTI

E' una struttura del II sec. ricostruibile solo ora sulla base dei suoi resti. Il nome deriva da alcune lastre di rilievi ritrovati nel 1903 davanti alle rovine della biblioteca di Celso a Efeso. Qui sopra una scena di guerra tra Romani e Parti, sul Monumento dei Parti a Efeso, celebrativo delle vittorie di Lucio Vero e Marco Aurelio contro Vologese IV.

Questa guerra degli anni 161-166 portò alla cattura della capitale partica di Seleucia-Ctesifonte e portò a Lucio Vero il titolo di Parthicus Maximus e, infine, celebrò, come co-imperatore di Marco Aurelio, un trionfo a Roma assieme a lui. Probabilmente il monumento è stato eretto in Efeso dopo il 169 in memoria della vittoria sui Parti.

I rilievi vennero riusati successivamente come parte di una fontana, che utilizzava, come sostegno, la facciata della Biblioteca di Celso.




ARCHI DI TRIONFO ADRIANEI

Due repliche dell'arco adrianeo vennero elevate in età antoniana agli ingressi sud-orientale e sud-occidentale dei propilei nel santuario di Eleusi.

Di essi non resta molto se non i giganteschi blocchi che possiamo ammirare nella foto qui sotto, dove si scorge una trabeazione scolpita a dentelli e a palmette. In basso due capitelli corinzi e due basi senza le rispettive colonne.




IL TEMPIO DI ARTEMIDE

Il tempio di Artemide (ovvero l'Artemision) era un tempio ionico dedicato alla Dea Artemide, Diana per i romani, situato nella città di Efeso, nell'attuale Turchia, a circa 50 km da Smirne. Non resta quasi nulla di questo capolavoro che venne ritenuto una delle sette meraviglie del mondo.

Prima degli scavi archeologici del 1987 ad opera dell'Università di Vienna si riteneva che il tempio fosse sorto nel 560 a.c., all'epoca dell'Impero achemenide. Sembra infatti fosse stata fatta eseguire dal re Creso di Lidia, citato da Antipatro di Sidone che l'annoverò nella lista delle meraviglie del mondo antico, per l'architettura e i decori.

Ma il tempio fu strutturato sopra uno più antico, con un portico risalente all'VIII sec. a.c., mentre la base centrale del tempio venne edificata verso la metà del VI sec. a.c. e quindi il tempio completo aveva due file di colonne di 4 ciascuna.

La statua della Dea, grande almeno quanto le copie di epoca romana, era posta nella cella collocata al centro del grande edificio. L'Artemision era una sorta di cortile circondato da un immenso portico, il cui aspetto esterno rievocava il tempio a capanna. Il tempio era largo quasi 8 m e lungo circe 131.

Plinio racconta che le colonne erano ben 127, alte 20 m, snelle ed elegantemente scanalate in puro stile ionico, con bellissimi capitelli, che sostenevano le travi così pesanti da richiedere un intervento della Dea per aiutare l'architetto che, scoraggiato dalle difficoltà, già meditava il suicidio. Il fregio non aveva figure ma solo una grossa dentellatura sulla cimasa più alta che sorreggeva il timpano.

Quest'ultimo aveva tre aperture o finestre: quella centrale fornita di sportelli con due statue di amazzoni in atteggiamento da supplici che imploravano rifugio nel tempio. Una specie di Amazonomachia che però invece di mostrare il combattimento mostra la resa e la paura delle amazzoni, probabilmente per orgoglio maschile perchè le amazzoni non si arresero e non venne loro concessa alcuna grazia.

ARTEMIDE EFESINA
La statua delle molte mammelle, ovvero l'Artemide Efesia, rappresentava una Dea Madre, ovvero la Natura, Sulla veste vi si scorgono cervi, leoni, grifoni, sfingi, sirene e api.

La statua è una specie di erma, in quanto la parte inferiore, a rilievo di molteplici animali, è appositamente rigida e squadrata, in quanto doveva rappresentare il contatto con la terra, non Dea del cielo ma della terra.

L'altare non si trovava in linea retta rispetto al centro della facciata, ma il sacerdote, si dice, poteva scorgere le parti alte del tempio dove avveniva "l'apparizione" della Dea dalla finestra centrale del tempio.  

In realtà spesso il tempio precedente aveva un assetto rituale con i punti cardinali, mentre la zona intorno aveva seguito un orientamento diverso, ma il santuario manteneva le sue coordinate, per cui spesso aveva orientamento diverso dal contesto.

Il santuario fu famoso anche per diritto di asilo per cui chi vi entrava diventava inviolabile, un diritto che la chiesa cattolica trasmise per secoli alle proprie chiese.

Il sostentamento del tempio arrivava dai pellegrini e dai mercanti che affollavano il santuario, i pellegrini portavano doni per ingraziarsi la Dea, e i mercanti vendevano i doni ai pellegrini. Inoltre attorno al santuario crebbero locande e posti di ristoro per i pellegrini. Inoltre i sacerdoti addetti al culto vendevano alla popolazione le carni usate per i sacrifici, provenienti però dai soldi dello stato.

Si ritiene che nel VII secolo il santuario consistesse in un altare, un'Hekatompedon, così detto perchè misurava 100 piedi e l'altare a rampa. Tutto ciò fu ricoperto con il tempio "D", il tempio di Diana, e con il cortile dell'altare. Il tempio "D" aveva otto colonne sulla facciata e nove sul retro, e secondo gli studiosi non doveva essere aperto, per altri invece lo era, perchè nella zona della cella fu trovato un tubo che serviva per eliminare l'acqua.

Venne distrutto da un incendio doloso nel 356 a.c. ad opera di Erostrato, un pastore che voleva "passare alla storia". Sembra che Artemide non avesse protetto il suo tempio in quanto impegnata a sorvegliare la nascita di Alessandro Magno, che ebbe luogo nella stessa notte.

Fu ricostruito ma poi nuovamente distrutto, dai Goti, nel 262, al tempo dell'imperatore Gallieno. Ricostruito ancora una volta dagli efesini, fu chiuso nel 391 dall'editto di Teodosio, finchè nel 401 venne totalmente annientato con i decori e le bellissime statue dai cristiani guidati da Giovanni Crisostomo. Si dice che la gente continuasse ancora ad adorare le pietre sottratte all'area sacra, tra le quali la più venerata fu la pietra caduta dal cielo, probabilmente un meteorite.

Il sito del tempio fu riscoperto nel 1869 da una spedizione finanziata dal British Museum, assieme a numerosi reperti e sculture provenienti dal tempio ricostruito.

A SINISTRA DEMETRA, TRIPTOLEMO E CORE - A DESTRA "CORE IN FUGA" (V SEC. A.C.)


I SACRI MISTERI

I misteri eleusini erano riti religiosi e misterici che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra ad Eleusi per il pubblico, ma che si vivevano in forma rituale ed esperienziale per anni e in segreto nel privato.

Cosa straordinaria, in circa 1500 anni nessuno ha mai tradito i misteri, o almeno a noi nulla è pervenuto dei loro contenuti.

I riti eleusini erano antichissimi, si svolgevano già nel periodo miceneo, 1600-1100 a.c. e sembra che il culto di Demetra, sicuramente sorto come il culto dovuto a una Grande Madre Terra, fosse stato fondato nel 1550 a.c.

Quando, nel VII secolo a.c. Eleusi diventò parte dello Stato ateniese, i riti si estesero a tutta la Grecia, alle sue colonie e a Roma. Molti romani accorsero a tali iniziazioni, e perfino Cicerone, gli imperatori Adriano, Marco Aurelio, che ebbe come mistagogo Erode Attico, e Gallieno vi si iniziarono.

I misteri rappresentavano il mito del ratto di Persefone, strappata alla madre Demetra dal Dio degli Inferi, Ade, con tre fasi distinte: la "discesa" (della figlia nelle tenebre), la "ricerca" (della madre nelle tenebre) e l'ascesa (della figlia alla madre), dove il tema principale era la "ricerca" di Persefone e il suo ricongiungimento con la madre.

L'ascensione è un tema che verrà poi ripreso dalla chiesa cattolica, ancora una ricongiunzione, solo che invece di essere una Dea figlia che tornava alla Dea madre era un Dio figlio (il Cristo) che tornava dal Dio padre.

Ovviamente il mito mimava la condizione umana generale di cui tutti siamo inconsapevoli, ma che diventa consapevole attraverso esperienze interiori e mistiche che prevedevano poi un ricongiungimento con la natura.

ACCESSO AL TEMPIO DI ATENE
Così gli studiosi meno intuitivi hanno tratto conclusioni un po' campate in aria, per esempio che l'iniziato si facesse adottare dalla Dea, invece l'iniziato non si faceva adottare, bensì scopriva di essere figlio della Dea Natura, una scoperta che a parole sembra semplice, ma a scoprirlo davvero comporta davvero una morte e resurrezione, morte delle illusioni ovviamente.

Il rito era diviso in due parti: la prima, i Piccoli Misteri, era una specie di purificazione che si svolgeva in primavera nel mese di Antesterione (dalla metà di febbraio alla metà di marzo), la seconda, i Grandi Misteri, era il nucleo dell'esperienza e si svolgeva in autunno nel mese di Boedromione (dalla metà di settembre alla metà di ottobre).


I riti erano in parte dedicati anche alla figlia di Demetra, Persefone, poiché l’alternarsi delle stagioni ricordava l’alternarsi dei periodi che Persefone trascorreva sulla terra e nell’Ade, ma nel mito era incluso il mistero della vita e della morte.

I riti, le cerimonie e le credenze erano tenute segrete. Gli iniziati perdevano nel percorso qualsiasi tipo di fede, contrariamente a quanto scrivono taluni disinformati, acquisendo però una consapevolezza interiore della morte e del dopo-morte. Anzichè credere vedevano e sentivano.

CAPITELLO, CARIATIDE E STATUA DI ANTINOO

I RITUALI

Mircea Eliade:
  1. "- Il primo giorno la festa si svolgeva nell'Eleusinion di Atene, ( tempio di Atene dedicato a Demetra e Persefone che si trovava tra l'acropoli e l'agorà di Atene), ove il giorno prima erano stati solennemente trasportati da Eleusi gli oggetti sacri.
  2. - Il secondo giorno la processione si dirigeva verso il mare. Ogni aspirante all'iniziazione, accompagnato da un tutore, portava con sé un porcellino che lavava nelle onde e sacrificava al ritorno ad Atene. 
  3. - Il giorno successivo, alla presenza dei rappresentanti del popolo ateniese e delle altre città, l'arconte basileus e la sua sposa eseguivano il grande sacrificio. 
  4. - Il quinto giorno segnava il momento culminante delle cerimonie pubbliche. Un'enorme processione partiva all'alba da Atene. I neofiti, i loro tutori e numerosi Ateniesi accompagnavano le sacerdotesse che riportavano ad Eleusi gli hiera (oggetti sacri). 
  5. Verso la fine del pomeriggio la processione attraversava un ponte sul Kephisios, e là uomini mascherati lanciavano insulti contro i cittadini più importanti. 
  6. Al calare della sera, con torce accese, i pellegrini entravano nel cortile esterno del santuario. Una parte della notte era dedicata alle danze e ai canti in onore delle Dee. 
  7. - Il giorno successivo gli aspiranti all'iniziazione digiunavano ed offrivano sacrifici.
Le cerimonie si svolgevano all'esterno e all'interno del telesterion e si ritiene che gli iniziandi, con le torce in mano, imitassero Demetra vagante con fiaccole alla ricerca di Persefone.

Clemente Alessandrino (Protrettico II, 21, 2) ci ha tramandato la formula sacra dei misteri:
"Ho digiunato; ho bevuto il ciceone; ho preso nel cesto e, dopo averlo maneggiato, ho deposto nel cesto, poi, riprendendo dal cesto, ho riposto nel cesto".

Il ciceone si pensa fosse un miscuglio di ingredienti su una base di vino tra cui fiocchi di segale tostati. Probabilmente il paniere rituale simboleggiava il mondo infero e l'iniziando, scoprendolo, scendeva agli Inferi. Seguiva una rinascita in cui l'iniziato si riconosceva figlio della Dea (la Natura).

I misteri eleusini, come l'orfismo e i misteri dionisiaci, risalgono alla protostoria, da tradizioni cretesi, asiatiche e traci.

SARCOFAGO COL CINGHIALE CALEDONIO ED I CACCIATORI TRA CUI CASTORE E POLLUCE


LE DIVERSE VERSIONI

Dei Sacri Misteri se ne parla nell’Inno a Demetra, attribuito ad Omero, ma scritto più tardi. Viene descritto il rapimento di Persefone (la Fanciulla) da parte di Ade, Demetra in lutto ad Eleusi, la liberazione parziale della figlia e l’istituzione dei riti eleusini.

Il rapimento avviene mentre Kore gioca con le Oceanine nella pianura Nisea, e viene distratta da un narciso, fatto nascere appositamente da Gaia, la Terra. Come lei si china la terra aprirsi ed esce Ade che a forza la conduce agli Inferi. In altri miti Kore coglie dei papaveri.

Demetra la cerca invano, astenendosi dal nettare, dall’ambrosia e dal bagno. In altri miti si straccia le vesti e lega la treccia a lutto. In altre versioni diventa vendicativa e terribile, per cui uomini e bestie si rinchiudono nelle loro dimore terrorizzati.
Poi incontra Ecate ed Helios, il quale le spiega ciò che è accaduto, esortandola a rassegnarsi al volere di Zeus, che vuole quel matrimonio. Ma, Demetra non accetta e camuffata da anziana nutrice va dalle figlie di re Celeo, che la conducono alla reggia, al cospetto di Metaneira, loro madre e regina.

Questa le offre il trono, ma Demetra si siede su un rozzo sedile, rifiuta il vino rosso e chiede il ciceone. Accetta invece di occuparsi del piccolo figlio della regina, che di notte unge con l’ambrosia e immerge nel fuoco, per renderlo immortale, contrastando così le regole di Giove. Questa è infatti la sua ribellione, se Giove non l'accontenta renderà degli uomini simili agli Dei.

Metaneira però, scoperta la scena urla terrorizzata, Demetra deve interrompere il rito. e si rivela, annuncia le sue intenzioni ormai vanificate di rendere il figlio immortale e chiede che venga costruito un tempio in suo onore, da dove insegnerà alla gente i Sacri Misteri, cioè come rendere gli uomini immortali. Poi scompare. In altro mito si rinchiude nel tempio e la terra non dà più frutto, fin quando non le fanno rivedere la figlia.

La distruzione del tempio di Demetra nel 396 d.c., ad opera dei Visigoti, seguaci dell'Arianesimo e condotti da Alarico, pose fine per sempre alle celebrazioni privando l'umanità di una grande possibilità di saggezza.

LE STATUE COLORATE

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LA SCULTURA POLICROMA IN GRECIA

« Terribile è la mia vita e il mio destino, per colpa della mia bellezza. Oh potessi imbruttire di colpo, come una statua da cui vengano cancellati i colori, e una parvenza brutta invece della bella assumere! » esclama nell’Elena di Euripide la bellissima moglie di Menelao re di Sparta, involontaria causa della guerra di Troia.

I Greci pitturavano le statue, nonchè i rilievi, dai bassorilievi agli altorilievi, dai templi alle case, alle are, agli edifici pubblici e privati. A cominciare dalla scultura crisoelefantina, unendo i toni dell'avorio, dell'oro e dell'argento; il trono dello Zeus criselefantino di Fidia era inoltre dipinto con varie raffigurazioni eseguite da Paneno.

Coloravano perfino le statue in bronzo, applicando occhi in smalto o pasta vitrea e avorio nonché ciglia e talvolta labbra e capezzoli in lamina di rame.

PARTICOLARE DEL FRONTONE (ricostruzione)
Il nostro abituale concetto del bronzo patinato in modo uniforme, del marmo bianco, degli occhi privi di pupille, che riteniamo "classico"è in realtà nato nel Rinascimento e diffuso poi dal gusto neoclassico. Tutta la scultura greca fu policroma.

Bisogna però distinguere i vari periodi. Nel sec. VI a.c quando il materiale scultoreo era soprattutto una specie di tufo poroso di colore giallo bruno (poros), la policromia trionfò, applicata direttamente sulla pietra o sopra una specie di stucco.

Ne fanno fede i frontoni dei templi dell'Acropoli di Atene precedenti al saccheggio persiano (480 a.c.).

I colori predominanti sono il rosso e l'azzurro; distesi a larghe zone piatte; più rari, un color bruno, il nero e il bianco, ancora più rari il verde e il giallo.

Le figure virili sono rosse nelle parti nude; barba, capelli, ciglia, sopracciglia e pupille sono in nero; il globo degli occhi in biancastro, giallastro o del colore naturale della pietra.

Il mostro a tre corpi serpentini, sempre sul frontone, ha barba azzurra e occhi verdi. Un altro frontone aveva un toro azzurro e due leonesse rosse.

Alcuni studiosi hanno ipotizzato che l'azzurro greco fosse dovuto all'alterazione chimica di un colore nero (ossido di rame), così come hanno ipotizzato che il rosso pompeiano (di Pompei) fosse un'alterazione dell'azzurro a causa del calore dell'eruzione, ma ambedue le ipotesi si sono rivelate errate.

I colori in genere non erano scelti per aderenza alla realtà ma per convenzioni decorative. Del resto se osserviamo le pitture delle tombe etrusche, il cui stile risentì sicuramente dell'arte greca, le donne sono sempre bianche e gli uomini sono rigorosamente rossi, almeno sulle parti nude.

Ma anche a Creta le statuine della Dea sono colorate, più o meno come sono colorate le pitture. Anticamente la scultura non differiva così tanto dalla pittura, perchè ambedue erano policrome, anzi più erano antiche più erano colorate.

RICOSTRUZIONE DEI COLORI
Col  diffondersi dell'impiego del marmo si colorò un po' meno per mettere in evidenza il pregio del materiale, e si assistette, nel bassorilievo, ad una inversione tra fondo e figure, che corrispose anche nel tempo al passaggio dalla tecnica a figure nere a quella a figure rosse nella ceramica.

Le figure così spiccano in chiaro sul fondo scuro (tesoro dei Cnidî a Delfi: fondo azzurro, carni non colorate, armi e vesti leggermente colorate; basi con scene di palestra, dal muro di Temistocle, figure chiare sul fondo rosso vivo).

Nei frontoni di Egina (circa 490 a.c.) solo alcune parti rivelano policromia e non più a larghe zone, ma solo nei particolari della testa e negli orli ricamati delle vesti.

Gli esempi più mirabili sono le statue delle korai del Museo dell'Acropoli con labbra rosse, sopracciglia nere, palpebre bordate di nero (ciglia), iride formata da un cerchio rosso con centro nero e contorno nero sottilissimo; capelli rossi (biondo; in un caso solo con certezza color giallo ocra).

Isolatamente tracce di rosa anche sulle guance, sui seni, sull'ombelico. Orecchini e diadema hanno disegni in rosso e in azzurro. Le vesti erano colorate interamente oppure soltanto ornate da disegni policromi senza intenti d'imitare il vero, ma solo seguendo canoni decorativi.

Per i periodi successivi, in cui gli originali statuari sono conservati in minor numero, la policromia divenne più sobria, pur rimanendo sempre elemento integrale della scultura greca.

Platone (Republ., IV p. 420 C) afferma che solo la pittura può dare pienezza alla forma e al disegno dello scultore. Ma c'è di più.



LE RAGIONI DEL COLORE

Il di più riguarda due aspetti: quello della illusione e quello dell'umore. Man mano che le tecniche di colorazione si raffinarono ottenendo più colori e più sfumature, le statue presero sempre più un aspetto di persone reali.

MINERVA
Un Dio o una Dea colorati erano dei giganti di carne che non potevano non colpire l'occhio e l'anima dei fedeli, insomma l'illusione delle esistenze divine diveniva più materiale e realistica, quelle statue erano vive.

Ma c'è un altro aspetto importante: il gusto delle colorazioni. Oggi se vedessimo per miracolo uno squarcio della Grecia o della Roma antica, ci prenderebbe un colpo.

Vedremmo templi, basiliche, agorà, statue, bassorilievi, colonne, tutte zeppe di colori accesi. Del resto anche le pitture etrusche, che oggi sembrano così delicate, erano in realtà di colori accesissimi, e in Egitto accadeva altrettanto.

Questo perchè il gusto può essere raffinato o grossolano ma la colorazione è legata alla gioia di vivere. E' innegabile che gli antichi fossero più allegri di noi e senza una ragione reale, perchè erano esposti quanto noi e più di noi a malattie, guerre e cataclismi.

Forse perchè erano meno mentali e più istintivi, quindi più che di gusto è questione di umore. Il bianco divenne erroneamente l’emblema della civiltà greca, investendo pure l'arte romana, ma solo perchè l'assenza di colore è assenza di sentimenti.

Non a caso in una società molto cervellotica e poco istintuale come la nostra si è sviluppata ed ha trionfato un'arte astratta e non figurativa. Non è vero che si cercano nuove forme, è che si cerca di evitare le forme. Tutto deve essere squadrato, ma pure arrotondato, purchè non abbia fregi nè orpelli, la sobrietà deve essere assoluta, come in un mondo piatto.

Diciamola tutta, oggi quelle policromie ci sembrerebbero di cattivo gusto, oggi in particolare, dove le case moderne hanno un arredo basato su colori chiarissimi quasi bianchi: beige, grigio, azzurro pallido o verde chiarissimo, con qualche chiazza di colore su un quadro o dei cuscini.

Talvolta si giunge ad un grande ed imperante bianco con qualche tocco di nero lucido e sembra il massimo. Assenza di forme e assenza di colore è assenza di emozioni, quelle emozioni primitive che non siamo in grado di controllare e che pertanto ci fanno paura.

GIOVE DI VERSAILLES
Se un antico greco o romano per miracolo potesse osservare uno squarcio delle nostre città, e in particolare delle nostre case, gli prenderebbe un colpo e cadrebbe in depressione.

Tracce di colore si riscontrarono nel panneggio dell'Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia (v. apollo, III, tav. CXLIII); in una copia da Corinto della testa del Doriforo di Policleto.

Nelle statue del mausoleo di Alicarnasso e nei fregi del medesimo edificio, trame di fondo azzurro; tracce anche nei capelli e nei sandali dell'Hermes di Prassitele.

Per la policromia del sec. IV il miglior esempio è il sarcofago di Alessandro, dove i colori sono una girandola di violetto, porpora, azzurro, giallo, carminio, rossobruno e nero, le stesse tonalità che predominano ancora in certi affreschi pompeiani di derivazione classica; policrome sono le vesti, i capelli e gli occhi con iride azzurra o bruna.

Si può anche ricordare una testina di Alessandro Magno fine sec. IV, ora in proprietà privata a Berlino, che è in marmo giallognolo delle isole.

Dai resti di colore si può dedurre che il volto era dorato, le labbra e gli angoli degli occhi erano colorati in rosso. I suoi capelli invece erano ricoperti da un sottile strato di stucco colorato; il diadema era in metallo (Einzelnaufn., Monaco 1893 segg., n. 3902).




LA SCULTURA POLICROMA A ROMA

A Roma le cose non andarono diversamente, Goethe e Canova s'infiammarono alla vista del candore delle statue e dei gessi riproducenti gli antichi capolavori, in realtà più gessi che statue, tanto è vero che Canova scolpì rigorosamente "in bianco", senza alcuna sovrapposizione di colori.

MINERVA
Ma di statue con tracce di colore ce ne sono tante, come mai per secoli nessuno se n'è accorto? Quando nell’Ottocento gli archeologi europei iniziarono a scavare e studiare sistematicamente le testimonianze dell’antichità greca, si trovarono di fronte a una dura realtà: piccole ma innegabili tracce di colorazione si presentavano nelle pieghe delle carni e delle vesti delle statue, sulla superficie di fregi, colonne e frontoni dei templi.

La risposta è semplice, perchè non piacevano, e in parte perchè i marmi non erano più disponibili come in antico, soprattutto per Roma che poteva importarne da ogni angolo del suo vasto impero.

Pensare che la preziosità del marmo possa essere occultata dal colore per noi moderni è una blasfemia, il materiale è così raro che va conservato nella sua integralità. 
Tanto sarebbe valso farli di gesso o di cemento. 

Tuttavia i Romani dettero importanza alla bellezza dei marmi, tanto che a un certo punto il porfido rosso egizio fu vietato nell'uso ai cittadini e destinato solo allo sfarzo dell'imperatore.

Solo lui poteva farlo importare e lavorare a suo piacimento e a lustro della sua reggia o delle sue statue.

Non solo, proprio per l'apprezzamento dei bei marmi, i Romani invalsero l'uso dei doppi marmi, cioè un busto in genere, ma pure una figura intera, con la veste scolpita in un marmo colorato e variegato da sostituire la colorazione che veniva confinata alle parti nude e altro.

Ve ne sono esempi bellissimi, come l'Apollo del Museo di Napoli, con una lucida e ampia veste rossa che lo avvolge fino ai piedi divini. 

Oppure Scipione l'africano, il cui busto si avvale di un marmo scuro, quasi nero, per la pelle e un marmo colorato per la veste.

Anzi il nero non solo venne usato per le Grandi Madri di turno, ma pure per vari personaggi, perchè c'era l'idea che un marmo scuro potesse già sostituire la pittura, insomma per i romani aveva una sua eleganza, che non aveva invece il marmo candido nudo e crudo.

Ma pure il bronzo sostituiva il colore, sempre per l'avversione al bianco, che era assenza di colore, o almeno così suonava ai Romani. 

Il bronzo aveva colore, necessitava solo dell'aggiunta degli occhi in smalto o pasta vitrea che risaltavano ancor più sul metallo scuro dando l'idea della vitalità della statua. Come si può vedere ad esempio nella bellissima statua pompeiana di Diana che tira l'arco.



GLI OCCHI DELLE STATUE

Nelle statue antiche, sia greche che romane, spesso gli occhi sembrano ciechi, manca l'ride e la pupilla.
Questo accadeva perchè l'iride la mettevano di vetro colorato a imitazione dell'occhio umano, e al posto dell'iride di solito c'era un forellino.  

Gli occhi bianchi come il resto del viso li hanno lasciati gli artisti del rinascimento quando hanno copiato le opere d'arte antiche. In realtà i romani coloravano tutto, compresi gli occhi delle statue, e coloravano anche le statue di bronzo.

Basta guardare uno dei bronzi di Riace ha ancora gli occhi dipinti, o la Saffo greca di bronzo, o il busto di Scipione l'Africano, anch' esso di bronzo e con gli occhi un po' sgranati. Insomma tutte le statue dovevano il più possibile sembrare "vere", e ovviamente l'iride era rappresentata. 

Veniva o applicata in altro materiale, o dipinta. Poi col tempo il colore si e' dilavato e quello che era incastonato è andato perso, senza contare lo scempio voluto dagli intolleranti cristiani.
Tuttavia dall'eta' antonina (Adriano, Marco Aurelio, Antonino Pio...) in poi, l'occhio e' inciso: ed ecco iride, pupilla, e pure ciglia. Che poi venivano colorate.

COME MAI NON SI ACCORSERO DEL COLORE, NON SE NE ACCORSERO PER 2000 ANNI

Ma il fatto avrebbe dovuto essere scontato: i contemporanei ritrovamenti in Egitto, nell’isola di Creta, in Etruria confermavano che tutti i popoli del mondo antico amavano colorare ogni cosa, dalle case alle statue. Rossi purpurei, splendenti turchini, gialli ocra coloravano le mura di Babilonia, i palazzi cretesi, i templi e le tombe di Luxor, i frontoni di terracotta e gli affreschi delle tombe di Tarquinia, gli stupefacenti vetri fenici che in quegli stessi anni venivano riportati alla luce.

RICOSTRUZIONE POLICROMA DELLA "KORE DEL PEPLO"
Ancora all’inizio del V sec. a.c., l’Acropoli di Atene e i templi di Delfi si annunciavano da lontano per i loro brillanti colori e le statue erano intarsiate di oro, di avorio e di smalti. Lo testimoniano gli straordinari ritrovamenti delle “colmate”, o "favisse", le fosse sacre in cui al momento della ricostruzione furono raccolte e sigillate le rovine superstiti alle devastazioni, riscoperte intatte appunto nell’Ottocento.

Il mito neoclassico di una statuaria di marmoreo candore, cristallizzato nel Settecento dallo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann e perpetuato nei calchi in gesso delle accademie, offrì forse lo spunto della superiorità prima della razza bianca e poi di quella tedesca che dall’inizio dell’Ottocento si affermava con l’idealismo hegeliano e con i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte. 
Il bianco  non era la somma di tutti i colori, ma , la loro assenza, il contrassegno di una superiorità spirituale, scambiando  la mente inalterabile, cioè piatta, per uno stato spirituale superiore.
Ma non altrimenti avvenne in oriente dove alle figure coloratissime e formose degli Dei che si avvinghiavano e copulavano nelle pareti dei templi si sostituì la calma piatta degli asceti santoni, o dei magri fachiri che allignarono perfino in cima alle colonne divenendo i santi stiliti.
Per contrario, i colori rutilanti erano segno caratteristico del cattivo gusto primitivo dei popoli barbarici del Vicino Oriente e del Mediterraneo meridionale. Oggi si fa fatica a dire che Egizi, Etruschi, Greci e Romani avessero cattivo gusto, ma se non ci fosse lo schema fisso dei canoni insegnati a scuola molti lo direbbero.
Essendo il conflitto per ora insanabile, si preferisce tacere.
APOLLO

LA TECNICA

I colori venivano sciolti in cera e applicati a caldo, con un processo analogo all'encausto. Le parti policromate erano lasciate ruvide, le carni invece venivano levigate per accentuare il contrasto.

Il marmo veniva trattato avanti con un olio volatile (harpix), già noto agli Egiziani, che doveva impedire lo scorrere del colore; esso ha lasciato talvolta una traccia lucida là dove il colore è scomparso.

Nelle terrecotte in genere si coloravano in relazione anche le parti nude. Nella statuaria classica i nudi ricevevano per solito una velatura uniforme assai leggera per scaldare il tono del marmo, che prendeva un aspetto quasi di cera.

AUGUSTO DI PRIMA PORTA
Ma la colorazione delle statue necessitava di manutenzione, soprattutto se esposte all'aperto e quindi all'azione degli agenti atmosferici.

Per questa ragione i romani ponevano generalmente sopra i templi o sopra gli archi di trionfo statue di bronzo che non dovevano quindi essere restaurate, che sarebbe stato un problema per l'altezza, oltre che per il costo.

Tutte le altre statue però necessitavano di manutenzione, una manutenzione per nulla semplice, perchè la pittura veniva ricolata sopra per intero, quasi mai ritoccata, il che significava impalcature, ponteggi e teli di protezione.

Secondo Vitruvio (De Architettura) e Plinio (Nat. Historia) la pittura sui marmi era costituita da cera sciolta con poco olio, data a caldo con un pennello e asciugata con un panno, il che renderebbe più facile la tecnica, ma probabilmente le tecniche erano diverse.
Delle iscrizioni di Delo conservano la registrazione delle spese per la pittura statuaria per gli anni 279, 269, 250 e 201 a.c..

La scultura etrusca mantenne più a lungo la policromia totale in uso nella scultura greca arcaica (vedi Apollo e antefisse di Veio e il sarcofago di Orvieto), infatti il popolo etrusco era un popolo allegro (almeno fino a quando non fu sopraffatta dai Romani), erano eleganti e ricchi, le donne avevano una quasi parità con gli uomini e non avevano paura di morire, infatti le immagini sono festanti pure nei sepolcri.

La statua vaticana di Augusto da Prima Porta reca tracce di colore rossiccio nei capelli, di rosso sulla tunica e sul manto, di giallo e di azzurro sulle frange della corazza e sui rilievi che la adornano, i quali dovevano apparire come smalti, con toni variatissimi, e di bruno sul tronco dell'albero.

Anche la statua di Augusto da Via Labicana (Museo Naz. Rom.) mostrava tracce di colore violaceo sulla toga mentre il plinto su cui poggia era di un rosso squillante.

I numerosi ritratti di personaggi imperiali che si vedono nei musei, composti da teste di marmo bianco e busti di marmo o alabastro colorato, sono composizioni di età moderna, generalmente barocca.

Ma si riscontra pure in un'opera antica, nella statua colossale di Minerva/Roma del Museo Nazionale Romano.

Col sec. III la policromia si attenua, ricorrendo invece agli effetti di lumeggiature d'oro sul bianco del marmo. Sul sarcofago Ludovisi con battaglia (Antike Denkmäler, IV, 1929, p.61) capelli e barba di tutti i personaggi erano dorati, così pure le criniere dei cavalli; le armi e le vesti lumeggiate a strisce d'oro.

Contorni degli occhi e delle bocche forse colorati in rosso. Resti ancora più evidenti di analoga policromia si notano sopra un sarcofago del Laterano (O. Marucchi, Mon.del Mus. Crist. Pio Laterano, tav. 23,1), dove erano dorati capelli e barbe dei pastori, i velli delle pecore; i tendaggi e la veste dell'orante mostravano listature d'oro, precedenti diretti della listatura delle vesti nelle icone bizantine.

Un'équipe di archeologi, chimici e filologi che ruotano attorno a tre musei (la Gliptoteca di Monaco, la Gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen e i Musei Vaticani) ha unito le forze per tentare di visualizzare come doveva apparire ai contemporanei una serie di sculture tra l’arcaismo greco (VI secolo a.c.) e l’età romana imperiale.

Sia chiaro: pensare di ripristinare l’aspetto delle sculture esattamente "come nuove" sarebbe una presunzione eccessiva. Ogni ricostruzione si basa su una complessa serie di analisi, che integrano l’occhio dell’archeologo con foto a luce ultravioletta o radente, con l’uso di microscopia ottica e a scansione elettronica, con cromatografia a gas e liquida.

Le copie policrome così ottenute mantengono necessariamente una percentuale di ipotesi che, a seconda della conservazione dell’originale, sarà ora più ora meno elevata. 
TESTA DI GUERRIERO - TEMPIO DI ALPHAIA

Si potrà dunque discutere sul singolo dettaglio, ma nell’insieme si tratta di uno sforzo che permette di sfatare vecchie concezioni e di avere un’idea assai più verosimile della realtà antica.Il "racconto" del colore inizia con l’arcaismo greco e subito ci si accorge che il recupero della decorazione policroma non è un dettaglio secondario, ma coinvolge il significato stesso della scultura. 
L’esempio migliore si ha in uno dei pezzi che si trovano in tutti i manuali: la cosiddetta kore del peplo del Museo dell’Acropoli di Atene. Una volta che ne venga ricostruita la policromia originaria, infatti, questo nome si rivela doppiamente sbagliato: non è una kore, né porta il peplo.

Ma cominciamo dall’inizio: alla fine dell’Ottocento vennero alla luce le sculture dedicate nei santuari dell’Acropoli, distrutte dall’invasione persiana del 480 a.c. e pietosamente seppellite sul posto dagli Ateniesi prima della ricostruzione. 
In quell’occasione fu scoperto un gran numero di statue femminili ritte in piedi, dal volto luminoso e dal sorriso lievemente enigmatico. 
Dovevano rappresentare l’offerta di famiglie della fascia sociale più elevata dell’Atene dell’epoca e vennero definite korai, in greco "fanciulle".

Tra queste era anche la nostra kore, vestita di una mantellina sopra una veste lunga che si apriva sul davanti, al di sotto della cintura, a mostrare la gonna. 


Qualcosa, però, non era del tutto chiara: l’abito lineare e severo, infatti, era un po’ troppo all’antica se paragonato allo stile della testa (530-520 a.C.).

Esaminando la statua con particolari tecniche fotografiche sono saltati fuori dettagli interessanti: la luce radente ha permesso di riconoscere i sottili graffiti preparatori delle figurazioni dipinte e la luce ultravioletta ha fatto emergere tracce di colore ormai invisibili a occhio nudo. Si sono così ricostruiti i disegni della veste e si è recuperato il fregio ad animali e cavalieri sulla gonna.

Il vestito "all’antica" non era dunque un attardamento della moda, ma una veste cerimoniale di origine orientale (l’ependytes) utilizzato per la Dea Atena o, forse, per Artemide, pure venerata sull’Acropoli. Perdiamo dunque la «kore del peplo» per guadagnare una «dea con ependytes».

Sorprendenti per altri motivi sono le ricostruzioni delle statue dei frontoni del tempio di Atena Aphaia sull’isola di Egina, il vanto della Gliptoteca di Monaco, raffiguranti una battaglia fra Greci e Troiani. La scultura più completa dal punto di vista del colore è il cosiddetto Paride, un arciere troiano inginocchiato che sta per scoccare la sua freccia micidiale.

Veste una giacchetta di cuoio attillata e senza maniche, decorata da bordure e da una fascia, mentre al di sotto indossa una specie di "pullover". Le maniche sono fittamente decorate di motivi romboidali che si incastrano gli uni negli altri, giocati sul rosso, verde malachite, blu e giallo, con un effetto da far invidia a un moderno designer, mentre i pantaloni hanno un disegno simile, che segue elasticamente la modulazione delle membra asciutte e vigorose.

Passando all’età romana troviamo due casi molto diversi di ritratti imperiali. Uno è l’Augusto di Prima Porta dei Musei Vaticani, la statua più famosa di questo imperatore, trovata nella villa della moglie Livia poco fuori Roma, sulla via Flaminia. Anche a distanza e in penombra non si può sbagliare: solo l’imperatore portava quel mantello rosso porpora, un tono squillante ottenuto con una lacca organica finora raramente identificata sulla scultura.

TESTA DI CALIGOLA
È il paludamentum, segno inconfondibile dell’autorità militare, che Augusto portava solo sul campo e che mai poteva indossare in città, nella vita civile. Sulla corazza, il cui fondo conserva il colore bianco e luminoso del preziosissimo marmo di Paros, spiccano invece in blu, rosso e marrone i rilievi che raccontano la restituzione ai Romani delle insegne che i Parti avevano strappato all’esercito di Crasso, distrutto nella battaglia di Carrhae. 
Era uno dei vanti dell’imperatore averle recuperate per via diplomatica, rimuovendo una grave onta senza ricorrere a ulteriore spargimento di sangue. Il colore, in questo caso, sottolinea solo gli elementi salienti per comunicare nel modo più chiaro e immediato il messaggio politico dell’opera, con tecnica quasi pubblicitaria, anche a costo di violare le convenzioni realistiche lasciando bianca la corazza e la pelle.

Tutto al contrario avviene nel ritratto di Caligola della Gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen, dove le tracce di incarnato hanno permesso di ricostruire una pelle vivacemente colorata.
L’originale conserva ancora l’occhio sinistro con ciglia, sopracciglio e iride, mentre le frange dei capelli sono delineate con sottili tratti di pennello a integrare le ciocche che lo scultore aveva realizzato plasticamente. 
Per ottenere la copia destinata all’esperimento di colorazione, si è ricorsi addirittura a una scansione laser dell’originale: sulla base di questi dati una fresa guidata dal computer ha scolpito un duplicato in marmo, per non danneggiare con calchi tradizionali i resti di colore.

Per dare un’idea dell’evoluzione del gusto cromatico romano è esposto un sarcofago paleocristiano dei Musei Vaticani di cui un recentissimo restauro oltre alla policromia ha recuperato la doratura: nelle scene campestri il vello delle pecore al pascolo è finemente tratteggiato in oro a suggerire una vibrazione luminosa che, vista alla fiamma tremolante delle lucerne nel sepolcro, doveva conferire un’aura particolare al rilievo.

Chiude la mostra il ritratto di Ariadne, moglie dell’imperatore bizantino Zenone: l’imperatrice che vide la caduta dell’impero romano d’occidente. Un volto dallo sguardo perforante grazie alle pupille dilatate, ottenute mediante inserti di pietra nera, e coronato dal copricapo purpureo e dorato, colorazione di cui restano ancora tracce piuttosto evidenti.

Visto così il mondo antico ci appare molto meno (neo)classico. Oggi che si è consumata la frattura tra radici greco-romane e modernità c’è almeno questo vantaggio: la possibilità rivedere le prime con occhio libero da preconcetti per esplorarne lati nonostante tutto ancora nuovi, come "opera aperta", dunque veramente classica.

TEMPIO GIUNONE LUCINA (S. Lorenzo in Lucina)

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CHIESA DI SAN LORENZO IN LUCINA

La chiesa di San Lorenzo in Lucina risale al 440 d.c. e come le altre dell'epoca sorge su domus romane trasformate in luogo di culto dagli stessi proprietari convertiti al cristianesimo, in questo caso da tale donna Lucina, da cui deriva il nome.

La chiesa sorge nell’antica area del Campo Marzio, VII regione augustea, dedicata all’addestramento dei militari in età romana, e parallela all’attuale Via del Corso, antica Via Lata.

Nell’area intorno alla Chiesa vennero ritrovati i resti dell’Ara Pacis, sotto palazzo Peretti, e dell’Horologium Augusti, la grande meridiana che sfruttava come gnomone un obelisco egizio.

Sotto l’attuale Basilica ci sono edifici di età romana, tra i quali il più antico è una domus di II sec. d.c. di cui sono stati ritrovati un muro affrescato posto sotto l’abside e un pavimento musivo bianco e nero sotto la navata centrale.

Questo piano pavimentale con mosaico è stato parzialmente coperto dalle fondamenta di un’insula di III sec d.c. che si insedia nell’area della domus.

Sopra l’insula venne poi costruita la Basilica di San Lorenzo in Lucina, menzionato sia nel Liber Pontificalis, per l’elezione di Papa Damaso nel 366 d.c., sia in un’epigrafe del IV-V sec d.c. in cui compare la scritta “titulus Lucinae”.

SOTTERRANEI DELLA CHIESA
Lucina dovrebbe essere infatti la ricca matrona convertita al cristianesimo, che mette a disposizione la sua abitazione, per favorire la comunità cristiana.

La chiesa venne costruita all’inizio del V sec. d.c., da Papa Sisto III, dopo la richiesta del permesso imperiale, dato che si voleva costruire su terreno demaniale, nelle vicinanze dell’Horologium.

Nel 1980 viene scoperto un battistero paleocristiano sotto la sala dei canonici, già coperto nel XV sec dalla cappella di San Giovanni Battista, ne sono emerse due vasche, di cui una circolare più grande e l’altra decorata con lastre marmoree. Si tratta della chiesa più vecchia.



LA SCOPERTA SUCCESSIVA

Fino a 30 anni fa si riteneva che Lucina fosse stata una matrona romana convertita al cristianesimo, proprietaria di immobili in zona, che avrebbe fondato nella sua casa una "ecclesia domestica", cioè un luogo destinato ad un culto non pubblico ma privato.

Lucina in seguito donò la casa alla Chiesa Romana che vi fece erigere la chiesa di S.Lorenzo.

Ma gli indizi archeologici e i reperti riportano a una "Aedes Lucinae", un antico tempio precristiano della Dea Giunone Lucina, che fu poi adibito a culto cristiano e trasformato quindi nella prima basilica.

La Dea presiedeva ai parti e le donne dell'antica Roma attingevano, presso il tempio, l'acqua "miracolosa" per curarsi o per avere figli:

questa tradizione è confermata dal ritrovamento, durante gli scavi sotto la Sala Capitolare, di un pozzo e di un meraviglioso mosaico intatto, con gradini di marmo bianco e pareti affrescate, che avvalora l'ipotesi che possa trattarsi proprio dell'antico tempio di Giunone Lucina.

Le case o le insule non avevano pozzi, al massimo avevano le fontane, ma i pozzi derivavano da antichi riti, come quello del Carcere Mamertino.

Inoltre Papa Sisto III per costruire la chiesa dovette richiedere il permesso imperiale, dato che si voleva costruire su terreno demaniale, quindi non si trattava di una proprietà della chiesa, nè di una domus donata, ma di un edificio pubblico, che apparteneva allo stato, sopra cui si voleva edificare, quindi una basilica o un tempio. 

La basilica di S.Lorenzo in Lucina, costruita da papa Sisto III nel V sec. aveva il livello del pavimento di ben 2 metri sotto l'attuale.

Nel Seicento la basilica venne trasformata, riducendo le tre navate ad una navata unica, e rialzando il pavimento per evitare le alluvioni del Tevere.

Sull'altare maggiore vi è la celebre Crocifissione di Guido Reni, posta tra quattro colonne e due semicolonne in marmo nero antico sicuramente tratte dal tempio precedente. 

Sotto la sagrestia della basilica e sotto i palazzi di via di Campo Marzio furono ritrovati i resti del grande orologio solare costruito da Augusto nel 10 a.c., costituito da una platea circolare del diametro di quasi 180 m in lastre di travertino, su cui erano incastrate le lettere bronzee alte ben 3 m ciascuna, come gnomone fu utilizzato un obelisco egiziano, attualmente in piazza di Montecitorio e qui rinvenuto, che con la sua ombra  indicava le ore.

Nel 1568, durante alcuni lavori di scavo delle fondamenta, vennero alla luce i primi resti dell'Ara Pacis. In un luogo tanto illustre e scenografico non poteva mancare un tempio importante.


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ITALICA (Spagna)

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I Romani governarono su tutta la Spagna per più di 6 secoli e la loro prima colonia fu Italica, un'antica città della Spagna vicino all'attuale Siviglia. Essa fu il primo insediamento non solo dei romani ma degli italici nella penisola iberica.

 Fu fondata nel 206 a.c. da Publio Cornelio Scipione Africano sulla destra del fiume Guadalquivir, in corrispondenza dell'odierna Santiponce, in provincia di Siviglia, per insediarvi i soldati romani feriti nella battaglia di Ilipa nella II Guerra Punica.
In effetti esisteva già in loco un villaggio iberico ma Scipione lo fece ricostruire e ampliare alla romana, e cioè in modo splendido.




BATTAGLIA DI ILIPA

Nel 206 a.c. i due comandanti cartaginesi Asdrubale e Magone Barca, il più giovane dei fratelli di Annibale, reduci dalle sconfitte per opera dei romani, si recarono ad Ilipa, presso Siviglia, con un esercito di circa 70.000 fanti, 4.000 cavalieri e 32 elefanti.

Scipione tra romani e alleati spagnoli, radunò 45.000 fanti e 4.000 cavalieri. Il genio strategico di Scipione, nonostante l'inferiorità di numero ebbe ragione dell'esercito avversario. Asdrubale e Magone a stento si rifugiarono a Gades (Cadice).

Agli inizi del 207 nuovi rinforzi furono mandati in Spagna da Cartagine sotto il comando di Annone, che si unì a Magone Barca e ad Asdrubale Giscone.

La differenza di forze a discapito dei romani era fortissima, ma Scipione mandò un distaccamento per sconfiggere Magone, il cui campo fu attaccato a sorpresa dalle truppe romane e disperso. 
Annone stesso fu catturato. Ora Asdrubale si trovò a fronteggiare da solo le armate di Scipione, ma evitò lo scontro

In primavera Magone e Asdrubale Giscone, misero insieme un esercito più numeroso di quello romano. Ancora una volta ad Ilipa il genio tattico di Scipione ebbe la meglio e massacrò l'esercito nemico. 

Ora la Spagna cartaginese era dominata dai romani, i capitribù locali che avevano tradito e provocato la morte del padre e dello zio vennero giustiziati, e Scipione ormai vendicato tornò a Roma, dove fu eletto console nel 205.



GLI IMPERATORI

Italica si può considerare "la città dove è nata la lingua spagnola". Aveva un'ottima posizione strategica nel cuore della regione Bética, la più meridionale della Spagna.

Nell’anno 49 a.c. Giulio Cesare cambiò il nome della città in quello di Híspalis, facendola diventare con questo nome colonia ufficiale dell’impero romano. La città si ingrandì continuamente fino ad arrivare al punto dove è attualmente situata Siviglia.

Divenne municipium nel I secolo a.c., fino ad assumere, al tempo di Adriano, il titolo di Colonia Aelia Augusta, ossia venerabile colonia di Elio (Adriano).

Vicino ad essa si sviluppò la cittadina di Hispalis, che dopo la distruzione di Italica nel VI sec. d.c. la sostituì nella regione e col tempo divenne l'attuale Siviglia. Annoverava tra i suoi abitanti parecchi veterani e fu l'unica città della provincia romana patria di ben due imperatori Traiano e Publio Elio Traiano Adriano.

Infatti nel 53 a.c. Marcus Ulpius Traianus filius nacque ad Italica. Egli divenne poi l'imperatore Cesar Nerva Trajano Augusto, e fu il primo Cesare nato in una provincia dell'Impero Romano. Sotto il suo regno l'impero raggiunse il suo massimo splendore ed egli fu chiamato Optimus Princeps.

Anche Publius Aelius Hadrianus, l'imperatore Asriano, erede dell'imperatore Traiano, nacque a Italica e sotto il suo regno Italica raggiunse la massima prosperità con la costruzione di una nuova città (Nova Urbs), accanto alla vecchia (Vetus Urbs). L'area della Nova Urbs è molto vasta e contiene 21 edifici, anche se circa la metà di essa è ancora sepolta.

Qualcuno sostiene che quivi nascesse l'imperatore Teodosio, ma non tutti sono d'accordo. Si conta che in epoca romana l'urbs contasse circa 8.000 cittadini romani, oltre agli abitanti indigeni.



GLI SCAVI

I primi scavi vennero effettuati durante l'occupazione francese, quando Giuseppe Bonaparte, nel palazzo del Alcàzar di Siviglia, il 6 febbraio del 1810 emanò il seguente decreto:

DOMUS ROMANA
Don Jose Napoleon por la gracia de Dios y por la constitucion del Estado. Rey de las Españas y de las Indias. Oido el informe de nuestro ministro de lo Interior. Hemos decretado y decretamos lo siguiente: I. La ciudad en que nacieron Trajano, Adriano y Teodosio volverà a tomar el nombre de Italica que tenía en aquel tiempo. II. Una renta de 50.000 reales de vellon tomados del fondo de S. Isidoro del Campo en cuyo distrito se halla el antiguo anfiteatro, se aplicara a los gastos de las excavaciones. III. Una comision de tres individuos cuidara de la administracion del fondo, y del buen estado de la renta. IV. Nuestros Ministros de lo Interior y de Hacienda quedan encargados, cada uno en la parte que le toca, de la execucion del presente decreto." 
Firmato "YO EL REI"

Italica usufruisce di un ricco patrimonio culturale per essere stata conquistata dai Greci e dai Romani.

La città è costellata di frammenti di rovine romane, che si trovano casualmente sulle strade principali nel cuore dello splendido quartiere di Siviglia che testimoniano il passato imperiale della città.

L'antica città romana, locata a Santiponce, possiede le più belle e vaste rovine che si possano trovare in Spagna, con splendide architetture e mosaici ed è circondata oggi da un parco alberato.

Uno splendido acquedotto romano si trova in Calle de Luis Montoto (nei pressi della stazione degli autobus di El Prado), ora purtroppo incompleto a causa della caotica urbanizzazione della città.

TRAIANO
Presso gli scavi archeologici di Italica si possono oggi ammirare diverse case e strade, un grande anfiteatro, le terme romane, sculture e mosaici, sebbene sia i cristiani che gli Arabi abbiano riutilizzato diversi materiali da lì provenienti per alcune costruzioni di Siviglia.

Le strade romane si caratterizzano per la loro grande larghezza. Il Cardo Maximo era porticato su entrambi i lati a protezione contro la pioggia e il sole.

Le vie, rivestite con lastre di Tarifae, sono in parte visibili per quel che resta dei ciottoli originali e delle grondaie.

Il modello di strada è una griglia, formata da quadrati regolari che avrebbe retto all'avvicendarsi di edifici pubblici e abitazioni private. 

ADRIANO
Molti degli edifici hanno rivelato ben conservati pavimenti a mosaico.
Probabilmente la cosa più notevole di Italica è il gran numero di ben mosaici conservati, ancora in situ, con semplici disegni geometrici e immagini complesse, in bianco e nero e colore brillante.

Tra loro ci sono pigmei in lotta Gru, Creature del mare, Nettuno, 33 specie di uccelli e i sette Dei dei pianeti.

Altri mosaici e reperti sono nel museo archeologico di Siviglia.

In seguito fu devastata dalle invasioni barbariche, ma continuò ad essere parzialmente abitata fino all'anno mille sotto gli Arabi.

Dalle sue rovine furono presi molti materiali da costruzione per la vicina Siviglia. Nei secoli del Rinascimento le sue rovine venivano definite come "Sevilla la vieja".

La Vetus Urbs corrisponde all'attuale abitato di Santiponce; possedeva un foro con un tempio dedicato a Diana, le terme e il teatro, costruito all'epoca di Augusto.

VENERE RINVENUTA
PRESSO IL TEATRO
L'imperatore Adriano decise un nuovo ampliamento della sua città natale e fece costruire la Nova Urbs, che coincide con il sito archeologico.

Mentre la Urbs Vetus giace sepolta sotto il villaggio di Santiponce, la Urbs nova invece è visibile, circondata da mura, col tessuto urbano disegnato da larghe vie perpendicolari che costeggiavano le insulae.

Al centro si ergeva il grande Foro e il tempio dedicato a Traiano, e le ampie terme, ancora con canali di scolo sotterranei utilizzati per fornire acqua fresca, e le domus scoperte come la Casa del Planetario con i suoi mosaici esagonali raffiguranti i sette Dèi che hanno dato i nomi ai giorni della settimana, o la Casa di Nettuno con le sue terme.

Molti dei reperti provenienti dagli scavi in Italica si trovano nel Museo Archeologico di Siviglia.



MURA  E  ACQUEDOTTO

Italica era delimitata da alte mura difensive che furono innalzate in diverse fasi, in funzione dell'ampliamento della città e delle necessità dei cittadini. Ne restano alcuni torrioni dell'epoca di Augusto, costruite con una tecnica che univa il calcestruzzo con strisce verticali di bugnato.

La città era dotata di acqua dolce per mezzo di un acquedotto e le acque reflue venivano portate via per mezzo di canali di scolo sotterranei. Alcuni di questi sono ancora visibili, attraverso griglie collocate in prossimità delle intersezioni stradali.

L'ANFITEATRO


L'ANFITEATRO

Sulla presunta placca votiva, foto qua sopra, con rozze incisioni di piedi nutriamo qualche dubbio, forse indicava al pubblico come e dove muoversi, si doveva salire dalla scalinata al centro e si doveva scendere dalle due scalinate o corridoi laterali?

Qualcun altro archeologo ha parlato di piedi votivi, però ne sono stati trovati diversi e dedicati a diverse divinità, possibile che soffrissero tutti di mal di piedi?

Viene da rammentare che le antiche Dee lasciavano sovente le loro impronte dei piedi, in genere gigantesche, dall'Asia fino alla Turchia è tutto un tripudiare di piedi come impronte venerate della Dea.

Con il decadimento della Dea le impronte passarono agli Dei.

Nella Chiesa di Quo Vadis a Roma, si conservano (ma è una copia perchè per carezzarle le hanno mezzo cancellate) le impronte di Gesù Cristo quando incontra San Pietro che tenta di sfuggire alla crocefissione (ma il Cristo non è contento).

Il fatto è che quell'impronta era già quella dei piedi del Dio Apollo, e magari prima di qualcun altro.

PLACCA VOTIVA ALL'ENTRATA DELL'ANFITEATRO
L'anfiteatro è molto grande, circa la metà dell'area che occupa il Colosseo, ed è in condizioni abbastanza buone da poter salire e scendere per le scale, uscire sui terrazzi, o vagare attraverso i tunnel dove camminarono i gladiatori.

Venne costruito a nord della città al di fuori del recinto murario, il suo asse maggiore misura 160 m, mentre quello minore 137 m, della cavea si sono conservate solamente le prime due gradinate.

E' possibile percorrerne in parte le gallerie dei vomitoria che roteano all'interno dell'edificio. Al centro dell'arena si può vedere la fossa bestiaria, che a quel tempo era coperta da una struttura di legno che disponeva di un sistema di elevazione.

L'anfiteatro aveva una capienza di 25.000 spettatori distribuiti su tre livelli, e al centro dell'arena vi è una grande fossa che sarebbe stato coperta da una struttura in legno, originariamente utilizzato per gladiatori e animali selvatici.

Esso fu il terzo più grande anfiteatro dell'Impero Romano, e conteneva posti a sedere per ben
25,000 persone.

Anche se diverse parti vennero distrutte ve ne è ancora una notevole parte in buone condizioni.
Si scorgono chiaramente i posti a sedere, le camere sotto l'arena in cui sono stavano i gladiatori e gli animali e le gallerie all'interno della struttura.

Una notevole scoperta nel labirinto dei passaggi sono le Plantae Pedum offerto da gladiatori vittoriosi alla Dea Nemesi. Molti di loro, in latino, sono ancora leggibili.

IL TEATRO

IL TEATRO

Un altro edificio pubblico ben conservato è il teatro che si trova all'interno dell'odierno villaggio di Santiponce, sempre al di fuori del parco archeologico, ed al di fuori delle mura urbane.

La costruzione dei teatri in Spagna si concentrò in un periodo breve, poco più di un secolo, il che spiega l'uniformità delle costruzioni. tra il periodo cesariano e i primi anni della dinastía Flavia. 

Venne costruito durante l'età augustea, secondo alcuni già sotto Cesare, e sotto Adriano, presso il portico settentrionale, venne edificata una cappella dedicata al culto di Iside.

Ancora negli ultimi anni l'area del teatro è stata oggetto di scavi da parte della Consejería de Cultura.

La cavea del Teatro di Italica dava posto a sedere a circa 3000 persone ed è stato probabilmente costruito tra la fine del I secolo a.c. e l'inizio del I sec. a.c.

Il suo asse maggiore misurava 98 m, e il suo quadriportico raggiungeva quasi 2500 mq. Restò in uso alternativamente fino al IV sec.

Nella foto il fronte scena dove alloggiavano, oltre ai piedistalli, colonnine e statue, tutte regolarmente distrutte dall'iconoclastia cristiana.

Da notare i sedili delle prime file, con terminali ai fianchi in pietra ornata.

Purtroppo il marmo venne asportato e riutilizzato per altri edifici, avendo Teodosio e gli alti futuri imperatori abolito i teatri come luogo di peccato e di perdizione.



CASA DELL'ESEDRA

Tra le dimore aristocratiche, un posto di rilievo è occupato dalla Casa dell'Esedra, così chiamata per l'esedra semicircolare che si trova al termine di un lungo cortile. Si ipotizza che fosse sede di qualche associazione, forse un collegio privato, per la sua straordinaria estensione di 4.000 mq.

Infatti occupa un intero isolato con un taglio nell'angolo nord orientale a causa del tracciato delle mura cittadine.

Il lato che si affaccia sul Cardo Maximo, su cui si trovava l'ingresso principale, era occupato da botteghe, esattamente 7 tabernae, alle cui spalle si estendeva l'edificio.

Per sorreggere il portico tuttavia non usarono le colonne come di consueto ma bensì dei pilastri cruciformi uniti da arcate che consentivano di sopportare un forte peso.

Sui suoi lati erano distribuiti i vari cubiculi, o stanze per la notte.

Attraversato il vestibolo, si accedeva all'area residenziale col peristilio rettangolare e dotato di piscina con fontana su cui si affacciavano le stanze che lo circondavano.

Dal fondo del peristilio si accedeva tramite scale all'area termale; la palestra, costituita da uno spazio aperto di 400 mq; un criptoportico, decorato con motivi geometrici, che consentiva di raggiungere l'area dell'esedra senza attraversare la palestra.

PAVIMENTAZIONE DELLA CASA DI NETTUNO

CASA DI NETTUNO

La Casa di Nettuno deve il suo nome ad un mosaico, rappresentante questa divinità con un corteo di creature marine, che rivestiva il pavimento della piscina del frigidarium. 

Scavato solo nella parte occupata da un impianto termale, questo gigantesco edificio, con la sua area di 6.000 m quadrati, occupava un intero isolato, ed ospitava, forse, anch'esso la sede di un'associazione.

Vi erano moltissime sale con moltissimi e splendidi mosaici, alcuni colorati, altri in bianco e nero, alcuni molto raffinati.

Caratteristico questo mosaico, sempre nella casa di Nettuno, rappresentante un labirinto, peccato che al centro sia stata cancellata l'immagine centrale, forse per il suo carattere pagano. 

Il tema del labirinto, di origine greca (non dimentichiamo il Minotauro) verrà ripreso in tutte le epoche, come dilemma della mente e della vita stessa.

Questo ,magnifico mosaico, a tessere bianche e nere, sta nel fondo di una piscina appartenente ad un frigidarium, facente parte delle terme private della ricchissima Casa di Nettuno.

Si suppone che queste terme fossero semipubbliche, nel senso che fossero riservate solo all'elite della urbs hispanica.



CASA DEGLI UCCELLI

La Casa degli Uccelli è così chiamata da uno splendido mosaico rappresenta Orfeo circondato da 32 uccelli diversi.

 Essa occupa la parte occidentale di un isolato a sud della Casa di Nettuno, e si estende per 1700 m quadrati, comprese le botteghe che affiancavano l'ingresso principale affacciato sul Cardo Maximo. 

L'abitazione si distingue per la posizione privilegiata, la qualità della costruzione, il lusso delle rifiniture e per l'estensione della superficie abitabile; doveva quindi appartenere a qualche notabile della città.

E' stata solo parzialmente scavata e restaurata.




CASA DI HYLAS

Accanto alla Casa degli Uccelli si trova la Casa di Hylas, che prende anch'essa il nome da un mosaico in cui è rappresentato il giovane nel momento in cui viene rapito dalle Nereidi. 

Nella mitologia greca, il bellissimo giovane era il prediletto da Eracle e con lui fece parte della spedizione degli Argonauti, ma durante il viaggio fu rapito dalle ninfe di una fonte dove si era recato ad attingere acqua.

MOSAICO DELLA CASA DEL PLANETARIO


CASA DEL PLANETARIO

Sul lato opposto, rispetto a questi edifici, del Cardo Maximo, si trova la Casa del Planetario, che, estesa per circa 1600 m quadrati, occupa la metà occidentale di un isolato.

Dato la somiglianza delle caratteristiche, si pensa che, come la Casa degli Uccelli, fosse destinata alla classe dirigente della città. 

Al suo interno si è conservato fino a noi un mosaico del II sec. d.C., che rappresenta le sette divinità planetarie che reggevano l'universo, e che, secondo il calendario romano successiva all'introduzione della settimana da parte di Costantino, hanno dato il nome ai giorni: Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno, Sole. Insomma un mosaico rappresentante gli Dei da cui prendono il nome i giorni della settimana.


CASA DEL PLANETARIO

TRAIANEUM

Più avanti sempre dallo stesso lato del Cardo Maximo, si scorge il Traianeum, l'edificio più importante di Italica. di cui si sono conservate tuttavia solo le fondamenta. Si trattava di un tempio a otto colonne (l'unico in Spagna), periptero, su alto podio, circondato da un portico chiuso verso l'esterno da un muro composto da esedre semicircolari e rettangolari alternate.

RICOSTRUZIONE DEL TRAIANEUM
Il Traianeum era un tempio con un immenso recinto porticato adibito al culto degli imperatori Adriano e Traiano.

In assenza di fonti epigrafiche, si ipotizza che questo sia stato voluto costruire da Adriano in omaggio al suo predecessore Traiano.

Il complesso è formato da un immenso portico che è la riproduzione della biblioteca di Adriano ad Atene, specialmente nel colonnato interno, nella cadenza ondulata delle esedre e nei marmi di Carrara e cipollino. Vi si accedeva nel lato corto meridionale da una terrazza con scale laterali, posta proprio sul cardo maximus.

Il tempio, con unica cella, e che riproduce il tempio di Mars Ultor nel foro di Augusto a Roma, è un octastilo corinzio con colonne scanalate alte 9,20 m.
Inoltre tra il tempio e il portico si trovavano due file di cinque statue ciascuna. Di queste sono state rinvenute solo dei frammenti enormi che fanno supporre che le statue fossero gigantesche. dato che un frammento di un dito è lungo ben 30 cm.

Le maestranze che realizzarono il complesso non furono sempre delle migliori e si alternarono parecchio, evidentemente per la fretta di terminare l'opera.

LE TERME MAGGIORI


LE TERME MAGGIORI

Ad Italica si trovavano, probabilmente, le terme più grandi della Penisola Iberica. Chiamate Terme Maggiori, sono state scavate solo in parte, ma secondo studi geofisici pare che si estendessero per 32000 m quadrati, e che presentassero lungo il lato meridionale una palestra di grandi dimensioni in in cui, oltre agli esercizi comuni, era forse possibile che venissero svolte anche attività equestri. 




LE TERME MINORI

Le Terme Minori, invece, si trovano nell'abitato di Santiponce, nell'area della città repubblicana, ed occupavano un'area di approssimativamente di 3000 m quadrati.
Molto più piccole delle precedenti ma altrettanto belle ed adornate, forse stavolta proprio pubbliche, cioè destinate a tutti.



CONDUTTURE E CLOACHE DI ITALICA

Oltre a queste bellezze Italica vanta un sistema idrico poco visibile ma di bellezza, ingegno e industriosità eccezionali.

Come ogni città romana aveva  l'acquedotto, le sue condutture, e le castella, e le cisterne, che alimentavano le terme, le domus e gli edifici pubblici, nonchè le esedre e le fontane.

Peraltro raccoglievano i rifiuti dell'urbe facendo defluire le acque scure attraverso i suoi tombini,  i canali di scolo, e le cloache, che riversavano i rifiuti nel fiume.

Notare la vastità e la precisione di questo canale sotterraneo che forniva l'acqua a Italica per smistarla in canali e canalette minori.

Il tunnell sotterraneo funziona ancora oggi, protetto dall'opus caementitium fatto con rottami di pietra o mattoni,  calce, pozzolana o cocciopesto e acqua. Mentre i cementi moderni si sfaldano, quelli romani durano intatti da 2000 anni.

LA BATTAGLIA DI ALESIA

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Plutarco (Vita di Cesare):
"Pur non avendo combattuto in Gallia nemmeno dieci anni, Cesare conquistò a forza più di ottocento città, assoggettò trecento popoli, si schierò in tempi diversi contro tre milioni di uomini, ne uccise un milione e altrettanti ne fece prigionieri"

La battaglia di Alesia fu una delle più gloriose battaglie di Cesare ma pure un capolavoro di strategia militare, uno dei più grandi di tutti i tempi, che fece risaltare al massimo le grandi capacità di comando di Cesare, che univa la genialità delle idee idee al sangue freddo, al coraggio e al carisma con cui si conquistava l'animo dei soldati anche nei momenti più difficili delle battaglie.

Siamo nell'anno 52 a.c. nel territorio delle tribù dei Mandubi, nella Gallia transalpina, tra l'esercito di Gaio Giulio Cesare e le tribù galliche di Vercingetorige, capo degli Arverni.

Questi, come tutti i capi galli, era un uomo di grande coraggio, oltre ad essere custode di un famoso sito druidico, centro sacro e meta di pellegrinaggio da parte delle tante tribù galliche, come poteva essere un tempo la Lega Latina.

Vervingetorige aveva a sua volta un grande ascendente sui galli, cosa non facile in quelle tribù dove continuamente ci si batteva per conquistare il potere della tribù e del villaggio, dove mancava totalmente una legge e una disciplina.

Alesia fu l'ultimo atto nella guerra tra Galli e Romani, le rivolte che seguirono furono piccole ribellioni facilmente domabili nell'anno successivo, ma il METUS GALLICUS, popolava di incubi il popolo romano memore del sacco di Roma del 390 a.c. da parte dei Galli Senoni guidati da Brenno, nonchè dei numerosi saccheggi operati sovente nel suolo italico del centro-nord.

I GALLI

I GALLI

« Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur.», esordisce Cesare nel De Bello Gallico « Tutta la Gallia è divisa in tre parti: una è abitata dai Belgi, un'altra dagli Aquitani, la terza da quelli che nella loro lingua si chiamano Celti e nella nostra Galli.».

Galli (da Galati) era infatti il nome con cui i Romani chiamavano i Celti che abitavano la regione della Gallia, corrispondente grosso modo ai territori attuali di Francia, Belgio, Svizzera, Paesi Bassi, Germania lungo la riva occidentale del Reno e comprendente, in epoca repubblicana, anche la maggior parte dell'Italia settentrionale a nord del fiume Esino, denominata pure Gallia cisalpina,

Sui costumi dei galli c'è molta confusione perchè da un lato si parla di un popolo con tradizioni da romanticismo tedesco, coi Fuochi di Beltane e le druidesse, dall'altro invece c'è un popolo che vive nelle capanne, dove il capofamiglia ha potere di vita e di morte su moglie e figli, senza leggi e continuamente in guerra tra tribù.

Nelle battaglie i galli sono coraggiosi e feroci, non fanno prigionieri ma spesso torturano i nemici prima di ucciderli. Veder soffrire i nemici li esalta e li eccita, non risparmiano nemmeno donne e bambini, ma spesso le donne le stuprano prima di ucciderle.

La confusione nasce dalle diverse epoche in quanto in epoca matriarcale o di retaggio matriarcale i Galli, pur riferendosi a un capovillaggio maschio, davano grande importanza alla capo druidessa che interpretava gli Dei e aveva un forte potere di consigliera e di giudice, valendosi anche dell'ausilio delle altre druidesse che facevano praticamente da sciamane e da medici della comunità attraverso la magia e la conoscenza delle erbe. I galli adoravano una Dea Madre e rispettavano le donne.

Dopo il V sec. a.c. il clima cambiò, sopravvenne un patriarcato più stretto che eliminò le donne dal culto sostituendole con i druidi e iniziarono le guerre tra le tribù e le lotte dentro la tribù stessa per stabilirne il capo.



VERCINGETORIGE

« Allo stesso modo Vercingetorige, figlio di Celtillo, Arverno, giovane influentissimo, il cui padre era stato l'uomo più autorevole della Gallia e, aspirando al regno, era stato giustiziato dai suoi compatrioti, convoca i suoi clienti e senza fatica li infiamma. »
(Cesare, De bello Gallico, vii, 4)

Vercingetorige, in latino Vercingetorix, ( grandissimo re dei guerrieri), nacque nell'80 a.c., non si sa dove, e morì a Roma nel 26 settembre 46 a.c.) è stato un principe e un grande condottiero gallo.
Figlio del nobile Celtillo, fu re degli Arverni, influente popolo gallico insediato nell'attuale regione dell'Alvernia, nell'attuale Francia centro-meridionale. 
Suo padre venne condannato a morte dalla sua tribù come reo di voler diventare monarca della stessa, e forse fu lo stesso fratello di Vercingetorige tra i fautori della condanna. 
Che un capo tribù venisse ucciso anche per prenderne il potere non era inusuale tra i galli.
Con tutto ciò Vercingetorige riuscì giovanissimo  là dove nessun capo gallo era riuscito: unire sotto un solo comandante tutte le popolazioni della Gallia. Una faccenda molto pericolosa che rischiava di spazzare Roma dalla faccia della terra.

Ebbe un grande talento militare, tuttavia insufficiente di fronte al più geniale stratega che la storia ricordi: Giulio Cesare. Sconfitto nell'assedio di Alesia nel 52 a.c., venne catturato e imprigionato a Roma per 5 anni. I romani non condannavano nessuno alle carceri, Vercingetorige doveva sfilare dietro al carro del trionfo del vincitore, ma poichè non fu possibile prima, solo nel 46 a.c. fu trascinato in catene per il trionfo di Cesare. Immediatamente dopo venne strangolato nel carcere Mamertino.

Nel XIX secolo con Napoleone III, la sua figura di rappresentante della civiltà gallo-romana verrà esaltata e gli si dedicherà una statua alta 7 m. dove si legge:
« La Gallia unita
A formare una sola nazione
Animata da un unico spirito
Può sconfiggere l'Universo »
(Vercingetorige ai Galli in assemblea - Cesare. De bello Gallico, vii, 29.)

Ma Napoleone III era pure un grande ammiratore di Cesare e Napoleone I ne usò il serto di alloro, il mantello di porpora e le insegne romane, convinto di esserne il degno successore.



IL PROCONSOLE CESARE

Giulio Cesare rivestì il consolato nel 59 a.c., dopo essere stato nominato dal senato governatore (58 - 54 a.c.) della Gallia Cisalpina (la regione tra Alpi, Appennini e Adriatico, odierna Italia settentrionale), dell'Illirico e della Gallia Narbonense, come da accordi del I triumvirato con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso).

GIULIO CESARE
Arrivò in Gallia nel 58 a.c., dove cominciò ad agire secondo una vecchia tattica romana, quella di proteggere la popolazione locale dai suoi popoli nemici, facendoli diventare alleati e ponendo le basi per un protettorato di diritto sull'intera regione Gallica (il preludio all'occupazione dei territori).

Nel 54 a.c. scadeva il mandato di Cesare, ma grazie all'astuzia che lo caratterizzava riuscì a farsi rinnovare dal senato il suo mandato per altri cinque anni. 

Questo non piacque a Vercingetorige il re degli Arverni: egli stesso infatti comandò la sollevazione generale che avrà come conclusione la battaglia di Alesia.
Cesare, per impedire che gli Elvezi traversassero la Gallia stabilendosi a ovest della provincia narbonense, iniziò a muovere guerra alla Gallia Belgica, per poi spingersi fino a sottomettere quelle della costa atlantica, fino all'Aquitania.

Furono battute, inoltre, le popolazioni germaniche di Ariovisto nell'Alsazia (Cesare passò il Reno per due volte, nel 55 e 53 a.c.) e, primo tra i Romani, condusse due spedizioni contro i Britanni d'oltre Manica nel 55 e 54 a.c.

Nell'inverno del 53-52 a.c. le agitazioni in Gallia non erano ancora finite, benché Cesare fosse tornato a svolgere il compito di governatore nella Gallia Cisalpina ed a controllare più da vicino quanto accadeva a Roma in sua assenza.

Il primo segnale di una coalizione gallica si manifestò quando i Carnuti uccisero tutti i coloni romani nella città di Cenabum (Orléans). Seguì  il massacro di altri cittadini romani, mercanti e coloni, nelle principali città galliche. Cesare allora radunò rapidamente alcune coorti (unità di 480 legionari; dieci di queste formavano una legione per un totale di 4.800 armati), reclutate nel corso dell'inverno ad integrazione dell'esercito lasciato a svernare in Gallia, ed attraversò le Alpi, ancora coperte dalle nevi.





LA SCONFITTA

Una delle più grandi abilità di Cesare era la rapidità, tanto nel prendere decisioni quanto nel far eseguire gli ordini. Per questo aveva fatto esercitare i soldati fino allo sfinimento, si che alla fine ognuno anche nell'imprevisto sapeva cosa doveva fare e lo sapeva fare in tempo ridottissimo.

In più Cesare faceva cose che altri non facevano cogliendo spesso gli altri di sorpresa, come condurre una battaglia di inverno, o di notte, passare al comando diretto di alcune unità, cambiare il piano di battaglia durante la stessa, adoperare i cavalieri in fanteria e i fanti in cavalleria.

Aveva insegnato ai suoi uomini a combattere con ogni arma e a salire a cavallo a costruire ponti, strade e fortini, non solo in modo impeccabile ma in tempi rapidissimi.

Infatti si ricongiunse in tempi record con le truppe lasciate nel cuore della Gallia, ad Agendico. Qui Cesare divise le proprie forze inviando quattro legioni, affidate a Tito Labieno, a combattere i Senoni ed i Parisi a nord.

A se stesso riservò il compito più difficile: quello di rincorrere Vercingetorige, il capo della rivolta, fino alla capitale del popolo degli Arverni. I due eserciti si scontrarono presso la collina fortificata di Gergovia, dove Vercingetorige riuscì, un po' per indisciplina (ma di eccessivo coraggio) dei legionari romani, e un po' per l’errore, da Cesare stesso riconosciuto, di aver diviso l’esercito in due parti, ad ottenere una limitata vittoria.

Il giorno dopo Cesare, convocato l'intero esercito in assemblea, rimproverò l'indisciplina dei suoi legionari, che non si erano arrestati al segnale della ritirata e che non avevano potuto essere trattenuti neppure dai tribuni militari e dai legati. Spiegò che aveva dovuto abbandonare una vittoria certa, avendo sorpreso il nemico senza comandante e senza cavalleria, per coprire una ritirata nella quale aveva perduto quasi due coorti di armati. Ricordò che spettava a lui stabilire la tattica della battaglia e che non avrebbe più tollerato una tale insubordinazione.

Il rimprovero di Cesare era sconvolgente per i suoi soldati che facevano di tutto per emergere nel valore e nell'abilità, sia perchè Cesare ricompensava la bravura con regali ma pure con promozione, senza tener conto del ceto sociale del militare, sia perchè i soldati lo stimavano moltissimo e tenevano al suo giudizio. Raramente vi fu un generale tanto amato quanto Cesare.
Era la prima sconfitta di Cesare in cinque anni di guerra: lasciò sul campo 46 centurioni e 700 legionari, una perdita inaudita per un generale che vantava perdite minime rispetto a nemici di forze sovrastanti come era abituato a combattere.

Cesare, dopo aver sfidato il capo della coalizione delle tribù della Gallia a battaglia schierando per due giorni consecutivi l'esercito ai piedi della capitale arverna, tornò ad Agendico per ricongiungersi con l'armata di Labieno. Quella sconfitta gli bruciava, ormai considerato invincibile da tutti, aveva dimostrato di poter essere abbattuto. Da quel profondo conoscitore di uomini qual era, dopo il rimprovero ai suoi li incoraggiò e promise loro vittoria certa, degli uomini demoralizzati non avrebbero combattuto bene.

RICHIESTA DI AIUTO ALLE TRIBU' GALLICHE

L'UNIONE DEI GALLI

Forti di questo primo, anche se limitato successo, le tribù galliche decisero di unire le forze contro Cesare. Un concilio generale fu organizzato a Bibracte dagli Edui, fino ad allora fedeli alleati di Cesare. Solo i Remi ed i Lingoni preferirono mantenere l'alleanza con Roma. Il concilio nominò Vercingetorige, re degli Arverni, comandante di tutti gli eserciti gallici.

Ma dopo la sconfitta di Gergovia e la rivolta degli Edui, Cesare comprese di avere tre possibiltà:

- ritirarsi a sud verso la regione romana abbandonando Labieno, che però era un pupillo di Pompeo e a Roma l'avrebbero giudicato molto male; inoltre non era nello stile di Cesare abbandonare i suoi generali che lo amavano per questo.

- trattare con i Galli usando l'arma della corruzione, ma questo era già stato fatto ampiamente ed ora avrebbe fatto guadagnare solo tempo a Vercingetorige;

- riunirsi con Labieno e ritirarsi subito verso la provincia sperando che Vercingetorige, euforico per la vittoria conseguita, lo inseguisse fino a un campo aperto. Lì Cesare avrebbe dato battaglia.

Scelse la terza.

Vercingetorige cadde nella trappola di Cesare, spinto dall'euforia dei suoi guerrieri, lanciò subito un attacco contro le legioni romane, ma non aveva capito chi fosse Cesare. Un suo generale disse di lui:

Cesare doveva fare tutto nello stesso tempo: innalzare il vessillo, dispiegare le insegne, chiamare alle armi, richiamare dai lavori i legionari, schierare le truppe, arringare i combattenti, dare il segnale di battaglia.

Dava gli ordini, ascoltava i resoconti e intanto osservava i cambiamenti della situazione, così aveva idee nuove e dava nuovi ordini. Aveva un'intelligenza brillante e rapidissima, si che pochi potevano stargli dietro ma tutti avevano fiducia in lui.

Vercingetorige  riportò così una pesantissima sconfitta, si ritirò rifugiandosi ad Alesia, città ben fortificata e Cesare ne fu felice. Ora l'avrebbe sconfitto per sempre.
Poco prima di raggiungere  la rocca di Alesia nel territorio dei Mandubi, la cavalleria romana e quella galla si affrontarono in battaglia.

 « ... Vercingetorige divisa la cavalleria in tre parti; due schiere attaccano sui fianchi ed una impedisce la marcia alla colonna. Cesare, informato, ordina anche alla sua cavalleria di contrattaccare il nemico gallico in tre colonne. Si combatte in contemporanea su tutti i fronti. L'esercito romano si ferma, mentre i bagagli sono messi al centro dello schieramento tra le legioni... infine i Germani sul lato destro, raggiunta la vetta di una collina, battono il nemico, lo mettono in fuga e lo inseguono fino al fiume, dove aveva preso posizione Vercingetorige con la fanteria e ne uccidono numerosi. Gli altri, per timore di essere circondati, fuggono. I Romani fanno strage ovunque. Tre nobili capi degli Edui furono catturati e portati in presenza di Cesare. Si trattava di un certo Coto, comandante dei cavalieri... di Cavarillo, che dopo la defezione di Litavicco era divenuto comandante della fanteria, ed Eporedorige... » (Cesare, De bello Gallico, VII, 67.)

Messa in fuga la sua cavalleria, Vercingetorige ripiega verso Alesia mentre Cesare, collocate le salmerie sopra un colle vicino e lasciate a guardia due legioni, inseguì il nemico per il resto della giornata e, dopo aver ucciso 3000 uomini della sua retroguardia, il giorno seguente si accampò presso l'oppidum dei Mandubi.

Qui, secondo Carcopino, Cesare, con brillante lungimiranza, aveva previsto che sarebbe andato a rifugiarsi il capo degli Arverni, posizione apparentemente imprendibile, ma non per i romani.

Infatti Alesia pur situata su una collina di 150 m e posta tra due fiumi, non era abbastanza grande da ospitare l'esercito di Vercingetorige che fu costretto a costruire un fosso e un terrapieno attorno ad stessa Alesia per trincerarsi.

Cesare sapeva che non poteva prendere Alesia con un solo attacco, e decise quindi che doveva stringerla d'assedio con un'opera dalle dimensioni colossali che gli permise di fronteggiare gli attacchi simultanei di due eserciti nettamente superiori di numero.

COSTRUZIONE DELLE PALIZZATE

LE FORZE IN CAMPO

I romani di Cesare, avevano tre validi legati - Marco Antonio, Tito Labieno e Gaio Trebonio - e ben dieci legioni o forse undici: la VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XIV, XV e la I, prestata a Cesare da Pompeo Magno dal 53 a.c. (50.000 legionari circa)

ALESIA (Cartina zommabile)
"I galli riuniti sotto Vercingetorige, re degli Arverni, contava, come narra Cesare, ben 80.000 armati, di cui 15.000 cavalieri, e si accampò lungo il lato orientale della città di Alesia dopo aver scavato un fosso ed eretto un muro alto circa due metri a protezione. L'esercito gallico giunto in soccorso contava 240.000 fanti ed 8.000 cavalieri.
 « Ordinano agli Edui ed alle loro tribù clienti, 
- Segusiavi, Ambivareti, Aulerci Brannovici, Blannovi 35.000 armati; 
- egual numero agli Arverni insieme agli Eleuteti, Cadurci, Gabali e Vellavi che a quel tempo erano sotto il dominio degli Arverni; 
- ai Sequani, Senoni, Biturigi, Santoni, Ruteni e Carnuti 12.000 ciascuno; 
- ai Bellovaci 10.000 (ne forniranno solo 2.000); 
- ai Lemovici 10.000; 
- 8.000 ciascuno a Pittoni e Turoni, a Parisi ed a Elvezi; 
- ai Suessoni, Ambiani, Mediomatrici, Petrocori, Nervi, Morini, Nitiobrogi ed agli Aulerci Cenomani, 5.000 ciascuno; 
- agli Atrebati 4.000; 
ai Veliocassi, Viromandui, Andi ed Aulerci Eburovici 3.000 ciascuno; 
- ai Raurici e Boi 2.000 ciascuno; 
- 10.000 a tutti i popoli che si affacciano sull'Oceano e per consuetudine si chiamano genti aremoriche, tra cui appartengono i Coriosoliti, i Redoni, gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Veneti, Lessovi e gli Unelli... " 
(Cesare, De bello Gallico, VII, 75.)


Al comando dell'esercito di soccorso furono posti l'atrebate Commio, gli edui Viridomaro ed Eporedorige e l'arverno Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige.

Come racconta lo stesso Cesare, ogni legionario ricevette un gallo come schiavo, quindi 45.000 uomini dell'esercito assediato e vennero lasciati liberi ben 20.000 armati appartenenti ai popoli di Edui ed Arverni.

COSTRUZIONE DI TORRI A 2 E A 3 PIANI
Considerando che tra gli assediati rimasero in vita circa 65.000 uomini, se ne deduce che, durante i 50 giorni di assedio, potrebbero aver perduto la vita circa 15.000 Galli, cifra plausibile visto che Cesare, aveva indicato in 80.000 il numero complessivo dell'esercito di Vercingetorige, prima dell'esercito gallico di soccorso.

Ma ciò che impressiona di più è l'esercito di soccorso: secondo le stime del De bello gallico erano presenti ben 240.000 uomini di cui circa 8.000 a cavallo, poichè i galli avevano preso un contingente da ogni popolo della Gallia. Quasi sicuramente però dei 240.000 molti non erano equipaggiati bene o non avevano l'età giusta, ma d'altronde solo l'esercito romano era così preciso, organizzato ed efficiente.

Quindi Cesare si trovava in una abissale inferiorità numerica, e nonostante si fosse riunito a Labieno, non poteva contare su più di dieci legioni, oltretutto assai provate dalle battaglie di Gergovia e Lutetia, che in numero non dovevano superare le 45.000 unità, con altri 5.000 ausiliari armati alla meglio e alcune centinaia di mercenari germani appiedati.

Il punto di forza dell'esercito romano era quindi la fanteria legionaria anche se la cavalleria aveva i suoi compiti. Infatti per quantità e qualità di cavalieri i galli erano assai superiori ai romani, ma questi avevano tra le loro file i germani, abilissimi cavalieri che i galli temevano molto. Così Cesare appiedò perfino i suoi tribuni per dare un cavallo ai germani. In conclusione Cesare poteva contare, ad Alesia, su 48.000 fanti e 4.000 cavalieri quasi tutti germanici.

Per riassumere: i romani stavano ai Galli da 52.000 a 330.000.
Da qui nacque il detto che un soldato romano valeva quanto 10 soldati barbari.

I VALLI ROMANI INTORNO AD ALESIA


L'ASSEDIO

Alesia era su una posizione fortificata in cima ad una collina quasi inespugnabile, circondata a valle da tre fiumi, per cui Cesare studiò bene la cosa e scelse l'assedio, considerando che circa 80.000 soldati si erano barricati nella città, oltre alla popolazione civile locale dei Mandubi. La fame prima o poi li avrebbe condotti alla morte o alla resa.

Quindi Cesare ordinò la costruzione di una serie di fortificazioni, chiamate "controvallazione" (interna) e "circonvallazione" (esterna), attorno ad Alesia.
I dettagli di quest'opera ingegneristica sono descritti da Cesare nei Commentari e confermati dagli scavi archeologici nel sito.

L'assedio ebbe inizio molto probabilmente con i primi di settembre. La scelta di rifugiarsi nella rocca di Alesia si rivelò per Vercingetorige una trappola, al contrario di quanto era successo a Gergovia, grazie alle opere di assedio costruite dall'esercito di Cesare che riuscirono a bloccare del tutto i rifornimenti agli assediati. Neppure l'arrivo dell'esercito della coalizione gallica poté salvare Vercingetorige e la sua armata dalla resa finale e dalla sottomissione dell'intera Gallia al dominio romano.




CIRCONVALLAZIONI E CONTROVALLAZIONI

Per prima cosa Cesare fece scavare una fossa (ad ovest di Alesia, tra i due fiumi Ose e Oserain) profonda circa 6 m, con le pareti a piombo. Ritirò, quindi, tutte le altre fortificazioni a 600 m da quella fossa ad occidente.
Subito dopo fece costruire, nel tempo record di tre settimane, la prima "circonvallazione" di 15 km tutto intorno all'oppidum nemico e, all'esterno di questo, per altri quasi 21 km, la "controvallazione".

STRUTTURA DELLE PORTE DI ACCESSO
I due valli (uno esterno ed uno interno) erano sormontati da una palizzata alta 3,5 m; due fosse larghe 4,5 m e profonde circa 1,5 m lungo il lato interno, seguirono il percorso, dove la fossa più vicina alla fortificazione fu riempita con l'acqua dei fiumi circostanti.

In questo modo i romani avevano il fossato pieno d'acqua e un rivolo che traversava l'accampamento, cosicchè avevano in abbondanza da bere, da cucinare, da lavarsi e da accudire gli animali.

Oltre i fossati si trovavano trappole e buche, Cesare ne inventò tre:
- i cippi, dei rami appuntiti collegati alla base per non essere divelti;
- i gigli, dei pali spessi quanto una gamba, ben appuntiti e nascosti da rami, che per dieci cm scarsi fuoriescono dal terreno;
- gli stimoli o triboli, pioli con uncini di ferro conficcati a terra.

Tutti insieme costituivano il "cervus" che veniva posto sotto l'esterno della palizzata, con cinque ordini di "cippi", otto di "gigli" e numerosi "stimoli", per ostacolare le sortite dei Galli, che attaccavano i Romani anche per impedirne i lavori di difesa.

Qui Cesare ebbe una delle idee più geniali, ardite e incredibili mai udite: fece edificare quasi un migliaio di torri di guardia! Se non ce ne fossero le prove archeologiche (che addirittura hanno rilevato ancora un numero maggiore di lavori) sarebbe impossibile da credere.

STRUTTURA INTERNA DELLE PALIZZATE
Pensiamo solo:
- gli alberi da tagliare,
- i tronchi da pulire,
- le tavole da ricavare per i planciti,
- le montature senza chiodi,
- tutto a cunei di legno e vimini,
- le palizzate continue per 36 km,
- le file di trabocchetti tutte intorno per metri e metri,
- oltre a un migliaio di torri equidistanti a tre piani (a 25 m circa l'una dall'altra), presidiate dall'artiglieria romana; - ben 23 fortini ("castella"), nei quali di giorno erano poste delle sentinelle per avvistare le sortite dei nemici, oltre a una coorte legionaria ciascuna per difesa, di notte erano tenuti da sentinelle e da presidi;
- 4 grandi campi per le legioni (2 per ciascun castrum)
- e 4 campi per la cavalleria, legionaria, ausiliaria e germanica.

Il tutto eseguito ed organizzato in un mese!

Occorrevano grandi capacità ingegneristiche per realizzare tale opera, non solo per Cesare ma anche per i suoi ufficiali, ma gli ufficiali di Roma le avevano, tanto è vero che solo pochi anni prima, in dieci giorni, avevano costruito un ponte attraverso il Reno che aveva stupefatto i Germani. I romani furono un grande popolo anche per questo.

In quanto ai rifornimenti, per l'acqua Cesare aveva fatto deviare un fiumicello per incanalarne l'acqua nell'accampamento, e fece provvedere un deposito di foraggio e di frumento per trenta giorni. poichè però l'assedio durò 50 giorni, i soldati dovettero andare a caccia e a raccogliere erbe frutta, bacche e radici finchè poterono, cioè fino all'arrivo dell'esercito gallo di soccorso.





I PRIMI ATTACCHI

Appena i Romani ebbero terminato le prime fortificazioni nella piana di Laumes, ad occidente di Alesia, la cavalleria di Vercingetorige attaccò durante i lavori di costruzione, per evitare il completo accerchiamento.

La cavalleria romana, appoggiata dalle legioni schierate di fronte alle fortificazioni, e quella degli alleati Germani, non solo riuscirono a respingere quella gallica, ma la rincorsero fino al loro campo, sterminandone la retroguardia e terrificando gli assediati.

Prima che i Romani terminassero la linea fortificata, Vercingetorige decise di far partire, in piena notte, l'intera cavalleria, affinché ciascun cavaliere si recasse presso la propria nazione d'origine e chiedesse aiuto a chiunque fosse in età a portare le armi. Saputo poi di avere provviste per un solo mese, se le fece consegnare interamente, pena la morte.

Distribuì per ogni uomo il bestiame che i Mandubi avevano radunato prima dell'assedio e, infine, ritirò l'intero esercito dentro le mura della città, preparandosi ad attendere gli aiuti esterni della Gallia per l'attacco finale.

Ma Cesare aveva una straordinaria capacità di comprendere e spesso di prevenire i suoi avversari. Si metteva nei panni dei nemici e studiava quali mosse avrebbe fatto al posto loro.

Pertanto Cesare aveva previsto la richiesta di aiuti, e in base a quella aveva ordinato la costruzione di una seconda linea di fortificazioni, la "circonvallazione", stavolta rivolta all'esterno. Lungo questa linea di quasi 21 km, fece porre 4 accampamenti di cavalleria ed altrettanti di legionari. Le fortificazioni dovevano difendere l'esercito romano contro le imponenti forze di soccorso dei Galli. I Romani sarebbero così sia assedianti che assediati, spesso attaccati su due fronti. In realtà lo furono su tre.

Mentre Cesare provvedeva alla costruzione di questa seconda linea di fortificazioni, le condizioni di vita dentro Alesia cominciarono a diventare pesanti. Una volta consumato tutto il frumento, e cioè un solo giorno dopo la partenza dei cavalieri, si riunirono in consiglio per vedere il da farsi:

 « ...parlò Critognato, il cui discorso merita di non essere trascurato per la singolare e aberrante crudeltà: "...Nel prendere una decisione dobbiamo considerare tutta la Gallia che abbiamo chiamato in nostro aiuto. Quale coraggio pensate che avranno i nostri amici e parenti dopo l'uccisione in un solo luogo di ottantamila uomini? ...Dunque qual è il mio consiglio? Di fare come fecero i nostri antenati nella guerra contro i Cimbri ed i Teutoni... quando, respinti nelle città e costretti da simile carestia, si cibarono dei corpi di coloro che per età non erano più adatti alla guerra e non si arresero ai nemici..."»
(Cesare, De bello Gallico, VII, 77.)

Al termine di questa riunione, Vercingetorige e l'intero Consiglio stabilirono che tutti quelli che per età o salute non erano adatti alla guerra, uscissero dalla città. Non potevano considerare di accogliere l'opinione di Critognato, cioè quella di uccidere, cucinare e mangiarsi i cittadini galli, se non in ultima analisi.

Decisero, pertanto, di costringere le donne, i bambini ed i vecchi del popolo dei Mandubi ad uscire dalla cittadella nella speranza non solo di risparmiare cibo per i soldati, ma che Cesare li sfamasse privandosi anche lui di una parte del cibo. Ma ciò non avvenne poiché, come racconta Dione, morirono tutti di fame, tra le mura della città di Alesia e le linee fortificate romane, nell'indifferenza degli altri galli.





LA CRUDELTA' DI CESARE

Cesare, infatti, dispose numerose guardie sul bastione e vietò che fossero accolti malgrado le loro preghiere ed i pianti. Il crudele destino di quei civili peggiorò il morale all'interno delle mura, soprattutto dei cittadini che combattevano in armi con Vercingetorige. Come poterono acconsentire?Si trattava dei loro genitori, delle loro donne e dei loro figli. Ma per i galli valevano solo i guerrieri, tutti gli altri potevano morire. Però si tirarono su di morale perchè arrivò l'esercito gallico di soccorso, soccorso per gli assediati perchè gli esiliati erano ormai cadaveri.

Molto si è discusso sul comportamento di Cesare sugli abitanti di Alesia cacciati da Vercingetorige e poi da Cesare, ma la verità era che quei civili erano della stessa gente dei combattenti, mogli figli e genitori. I galli non esitarono a sacrificarli non nella speranza che Cesare li ospitasse, perchè i romani erano braccati tra i due valloni e avevano le risorse contate, ma per non doverli nutrire.
Come mai si parla della crudeltà di Cesare e non si parla della crudeltà dei galli che lasciarono morire di fame donne, vecchi  e bambini sotto i loro occhi?

IL CERVUS
Un romano non avrebbe potuto farlo, se non altro per l'ignominia che avrebbe accompagnato la sua vita, anche se vincitore. Vercingetorige invece restò un eroe per i suoi. Questa è la ragione per cui i romani si distinguevano dagli altri popoli e li chiamavano barbari. Perchè gli altri popoli erano barbari davvero.

Si era all'inizio di ottobre. Cesare nel frattempo aveva fatto rubare con una sortita i cavalli ai cavalieri gallici morti durante l'attacco per darli ai germani. Occupato un colle esterno alla linea romana, si accamparono a non più di un miglio  dalle fortificazioni romane.

Tuttavia la seconda linea esterna era ormai pronta e così i romani potevano ormai difendersi contemporaneamente su due fronti. Cesare aveva addestrato intanto gli ufficiali a spostare gli uomini da un fronte all'altro e da un punto all'altro delle difese.

Sembra avesse fatto preparare gli accampamenti tra i due valli con precisione chirurgica, ponendo le tende in modo che si potesse passare da un fronte all'altro attraverso vialetti per gli uomini e viali più grandi per i plotoni e le macchine da guerra. Infatti gli uomini al richiamo degli ufficiali dovevano correre sull'uno o sull'altro fronte, spesso suddividendosi su entrambi, mentre, senza intralciarsi, altri uomini giungevano dalle postazioni più vicine per aiutare quelli sotto attacco.

Cesare sorvegliava i movimenti, ascoltava le vedette, impartiva gli ordini e seguiva personalmente gli attacchi più pericolosi. Per questo si era fatto porre due seggi su una fortificazione, uno rivolto all'esterno e uno all'interno, e dall'alto poteva seguire i movimenti della battaglia. Intanto gli uomini non impegnati nel combattimento andavano a riposare nelle tende, ma dormivano con l'armatura perchè ogni istante potevano essere risvegliati per combattere.

Gli attacchi dei Galli, che si susseguirono ininterrotti per i giorni successivi, furono condotti contemporaneamente lungo le fortificazioni interne ed esterne romane, ma non solo non riuscirono a spezzare l'assedio. Al contrario provocarono ingenti perdite tra i galli, soprattutto nell'esercito di soccorso.

L'ARRIVO DI 240.000 GALLI IN SOCCORSO DI VERCINGETORIGE

L'ESERCITO DI SOCCORSO 

Il giorno successivo all'arrivo dell'esercito di soccorso, i capi dei Galli avevano disposto la cavalleria in modo da riempire tutta la piana ad occidente delle fortificazioni romane (per circa 3 miglia), mentre avevano collocato le fanterie in luoghi più elevati, in posizione un poco arretrata (ai piedi della collina di Mussy-la-Fosse).

Dall'alto della città di Alesia si potevano osservare le manovre operate dall'esercito di soccorso, cosi' gli assediati si precipitarono a dislocarsi davanti alla città, coprendo con graticci e riempiendo di terra le fosse più vicine, distanti appena 600 m dalle fortificazioni romane, pronti ad intervenire lungo il fronte interno.

Cesare, dopo aver disposto per ogni unità di fanteria un settore lungo le due linee di fortificazione, ordinò che la cavalleria fosse condotta fuori dagli accampamenti ed attaccasse battaglia. Dall'alto delle colline le fanterie legionarie e quelle galliche seguivano con trepidazione la battaglia.

Il combattimento cominciò attorno a mezzogiorno e durò fino al tramonto con esito incerto. I Galli, pur in superiorità numerica, non riuscirono a vincere la cavalleria romana, che si batté con grande onore di fronte alle legioni schierate:

CORPO A CORPO
 « ...quelli che stavano nelle fortificazioni ... facevano coraggio ai loro compagni con clamori ed urla... poiché si combatteva di fronte a tutti, nessuna azione coraggiosa o vile poteva essere nascosta, entrambi gli schieramenti erano incoraggiati ad avere comportamenti eroici, per il desiderio di gloria e per il timore dell'ignominia... »
(Cesare, De bello Gallico, VII, 80.)

E quando sembrò che le sorti della battaglia non fossero più decidibili, grosso modo con pari perdite, Cesare, a sorpresa, col solito genio che lo distingueva, inviò lungo un fianco dello schieramento gallico la cavalleria germanica, la quale non solo respinse il nemico, ma fece strage degli arcieri che si erano mischiati alla cavalleria, inseguendone le retroguardie fino al campo dei Galli.

L'esercito di Vercingetorige che si era precipitato fuori dalle mura di Alesia, allibito per l'esito infausto, fu costretto a tornare all'interno della città, quasi senza combattere.

I Galli lasciarono passare un giorno, durante il quale prepararono un gran numero di graticci, scale e arpioni. Usciti dal loro campo in silenzio a mezzanotte, si accostarono alle fortificazioni romane e, levato un grido per segnalare l'attacco agli assediati di Alesia, cominciarono a gettare i graticci, a respingere i difensori che accorrevano lungo le fortificazioni con fionde, frecce e pietre, ed a scalare il vallo romano.

I Romani, ormai pronti sulle postazioni già assegnate, tennero lontani i Galli, con fionde che lanciavano proiettili da una libbra, con pali, proiettili di piombo, catapulte, baliste ed onagri.

I legati Marco Antonio e Gaio Trebonio, che dovevano difendere quella parte, mandavano truppe tolte ai fortini più lontani a soccorso delle posizioni sotto attacco. Vi furono numerosi feriti da entrambe le parti a causa dell'oscurità, in quanto le palizzate e le torri, stagliati nella notte contro il cielo più chiaro, rendevano più visibili i romani che non i guerrieri galli al suolo.

Quando però fece giorno i romani colpirono il nemico con precisione dall'alto delle torri e da dietro la palizzata merlata, tanto da costringere i Galli a tornare ad Alesia col timore di essere presi alle spalle dalle cavallerie degli accampamenti superiori.

LA CAVALLERIA ROMANA ATTACCA I GALLI ALLE SPALLE


L'ATTACCO AL CAMPO SUPERIORE

Respinti due volte con grandi perdite di soldati, dopo quasi cinquanta giorni di assedio l'esercito di soccorso dei Galli decise di attaccare il campo superiore, il campo romano di monte Rea; il più lontano da Alesia, che stava in leggero declivio.
Per la sua ampiezza non era stato inglobato nella linea fortificata romana ed era comandato dai legati legionari Gaio Antistio Regino della XI legione e Gaio Caninio Rebilo della I legione.

I galli selezionarono 60.000 armati tra i più valorosi per sferrare un attacco a sorpresa e il comando fu affidato a Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige, uno dei quattro comandanti supremi.
Questi, uscito dal campo di notte si nascose dietro al monte Réa, dove fece riposare i soldati in attesa di lanciare l'attacco finale. Verso mezzogiorno si spinse verso il campo superiore di Regino e Caninio, mentre contemporaneamente dall'esercito di soccorso veniva inviata l'intera cavalleria ed altri reparti di truppe di fronte alle fortificazioni romane.

Vercingetorige, visti i movimenti dell'esercito di soccorso dalla rocca di Alesia, uscì dalla città, portando avanti graticci, pertiche, falci e tutto quanto possedeva per spezzare l'assedio romano. L'attacco avvenne in contemporanea su almeno tre fronti. I galli si giocarono tutte le loro ingenti forze per abbattere i romani.


« Le forze romane si dividevano per tutta l'ampiezza della linea fortificata e non facilmente riuscivano a fronteggiare il nemico in più luoghi contemporaneamente. I Romani erano altresì terrorizzati dal grido che si alzava alle loro spalle mentre combattevano, poiché capivano che il pericolo dipendeva dal valore di coloro che proteggevano le loro spalle: ciò che non si vede infatti turba maggiormente le menti degli uomini.»
(Cesare, De bello Gallico, VII, 84.)

Ora Galli e Romani si giocarono il tutto e per tutto, sapevano che era la battaglia campale che avrebbe deciso i loro destini. La situazione era grave per i Romani per il tratto della pendenza del colle  mentre i Galli, non solo scagliavano frecce ma sostituivano continuamente le prime linee con truppe fresche avendo molti più uomini. Inoltre erano riusciti a colmare parte dei fossati, iniziando a scalare la palizzata.

Cesare allora chiamò Labieno con sei coorti a soccorrere il campo superiore, poi il giovane Decimo Bruto con altre coorti ed ancora Gaio Fabio con altre ancora. Lui stesso mosse verso l'accampamento superiore, esortando i soldati e sostituendone i più stanchi.

« In quel giorno ed in quell'ora, i legionari, avrebbero raccolto il frutto di tutte le battaglie combattute in passato.» (Cesare, De bello Gallico, VII, 86.)

Vercingetorige, non riuscendo a sfondare la palizzata, diede l'assalto in salita alle fortificazioni meridionali più scoscese. Qui i Galli tentarono di colmare dove potevano i fossati con terra e graticci, mentre con le falci erano riusciti in alcuni punti a spezzare la palizzata dello schieramento romano.

Cesare, visto il pericolo, decise di recarsi personalmente con nuovi reparti legionari raccolti durante il percorso di avvicinamento. Qui non solo riuscì a ristabilire la situazione a favore dei Romani, ma con la solita genialità d'improvviso ordinò a quattro coorti e a parte della cavalleria di seguirlo: voleva
aggirare le fortificazioni ed attaccare il nemico alle spalle. Alle tre del pomeriggio vi era una situazione di equilibrio sulla piana ma restava il grande pericolo sul Monte Rea.

Frattanto Labieno, radunate dai vicini fortilizi in tutto 39 coorti, si apprestò a muovere anch'egli contro il nemico.
"Nostri, omissis pilis, gladiis rem gerunt. Repente post tergum equitatus cernitur. Cohortes aliae adpropinquabant: hostes terga vertunt. Fugientibus equites occurrunt. Fit magna caedes..."

« Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un'insegna durante i combattimenti... i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l'arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare 74 insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi... Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l'esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga... Se i legionari non fossero stati sfiniti... tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all'inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi.»
(Cesare, De bello Gallico, VII, 88.)

GIULIO CESARE
Cesare aveva vinto nuovamente, ma stavolta contro l'intera coalizione della Gallia.
Il giorno dopo, verso la metà di ottobre, il comandante gallico rimetteva la sua vita nelle mani dell'assemblea: era disponibile sia a morire per dare soddisfazione ai Romani, sia ad essere consegnato quale preda di guerra a Cesare.

Le condizioni della resa previdero la consegna di tutte le armi e i capi della rivolta. Cesare, che aveva fatto porre il proprio seggio davanti alle fortificazioni «Ipse in munitione pro castris consedit», accolse la resa dei capi galli e la consegna del comandante sconfitto.

 « Vercingetorige, indossata l'armatura più bella, bardò il cavallo, uscì in sella dalla porta della città di Alesia e, fatto un giro attorno a Cesare seduto, scese da cavallo, si spogliò delle armi che indossava e chinatosi ai piedi di Cesare, se ne stette immobile, fino a quando non fu consegnato alle guardie per essere custodito fino al Trionfo.»
(Plutarco, Vite Parallele, Cesare, 27, 9-10.)

« Anche quel famoso re quale preda per la vittoria, venuto supplice nell'accampamento romano di Cesare, gettò davanti a Cesare il suo cavallo, le sue falere e le sue armi, dicendo: "Prendi, hai vinto un uomo valoroso, tu che sei un uomo valorosissimo!".»
(Floro, Epitome di storia romana, I, 45, 26.)

« Ora Vercingetorige avrebbe potuto scappare, poiché non era stato catturato e non era ferito. Egli sperava, poiché era stato con Cesare in rapporti di amicizia, di poterne ottenere il perdono da lui. Così egli venne da Cesare senza essere annunciato, ma comparendo davanti a lui all'improvviso, mentre Cesare era seduto su di uno scranno come in tribunale, e gettando allarme tra i presenti. Egli avanzò imponente, di alta statura, armato splendidamente. Quando si ristabilì la calma, egli non proferì parola, ma si inginocchiò ed afferrò le mani di Cesare in segno di supplica. Ciò ispirò molta pietà tra i presenti al ricordo della sua iniziale fortuna e nello stato attuale di angoscia in cui versava ora. »
(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XL, 41.)

La fine di Alesia segnò la fine della rivolta. I soldati di Alesia furono fatti prigionieri e in parte assegnati in schiavitù ai legionari di Cesare come bottino di guerra, ad eccezione di 20.000 armati degli Edui e degli Arverni, che furono liberati per salvaguardare l'alleanza dei due più importanti popoli gallici con Roma.

Vercingetorige fu rinchiuso nel Carcere Mamertino e nei sei anni successivi rimase nell'attesa di essere esibito nella sfilata trionfale di Cesare, per poi essere strangolato una volta terminata la processione, come era tradizione per i comandanti nemici catturati.

Per Cesare la vittoria di Alesia costituì il più importante successo militare, tanto che ancora oggi è considerato uno degli esempi di strategia militare più importanti dell'intera storia dell'umanità. La conquista della Gallia trasformò un impero mediterraneo in un impero continentale.

Il Senato romano proclamò venti giorni di festeggiamenti per la vittoria, ma rifiutarono a Cesare il trionfo, ponendo le fondamenta per il suo impero. Cesare non era uomo da accettare ingiusti rifiuti.

IL TRIONFO DI CESARE

IL SITO ARCHEOLOGICO

Per molti anni, l'esatta localizzazione della battaglia è rimasta sconosciuta. Si propendeva per Alesia nella Franca Contea o ad Alise-Sainte-Reine nella Costa d'oro, dove l'imperatore Napoleone III di Francia, in seguito agli scavi archeologici effettuati tra il 1861 ed il 1865 dal colonnello Stoffel, fece costruire una statua dedicata all'eroe gallico Vercingetorige.

La localizzazione più probabile rimane, per la maggior parte degli studiosi,  Alise-Sainte-Reine, presso il monte Auxonis confermata dai recenti scavi archeologici.




Lungo la controvallazione interna

Gli scavi hanno rivelato considerevoli varianti nelle fortificazioni descritte nel De bello Gallico di Cesare, a seconda della natura del terreno in cui erano state edificate. Ad esempio, il grande fossato (scavato, secondo la descrizione di Cesare, a 400 passi dalla circonvallazione interna) è stato identificato solo lungo il lato occidentale dell'oppidum celtico.
Cesare potrebbe, infatti, aver previsto che solo un lato delle fortificazioni, quello lungo la piana di Laumes, sarebbe stato più attaccato, sia lungo la circonvallazione esterna sia quella interna.

Per un tratto della "controvallazione" interna, ai piedi del monte Rea, sono stati scoperti tre fossi anzichè due: il più lontano dalle fortificazioni romane era posizionato ad una certa distanza dai primi due, quello centrale sembra fosse stato riempito di acqua, mentre il più vicino si presenta con una forma a "V". Sono state identificate tracce di rami, forse sormontati da una punta di metallo, gli "stimuli" descritti da Cesare. Di fronte al campo della fanteria, ai piedi del Monte Rèa, sono stati identificati sei ordini di fosse, che potrebbero rappresentare i cosiddetti "gigli".
Inoltre, gli ultimi scavi sembrano portare alla conclusione che le torri di guardia fossero posizionate non a 80 piedi le une dalle altre (24-25 m), bensì a circa 50 piedi (14-15 m), almeno lungo la "controvallazione" occidentale.

RICOSTRUZIONE DELLE DIFESE


Lungo la circonvallazione esterna

La "circonvallazione" esterna presenta, invece,  due fosse parallele, di cui la più vicina alle fortificazioni romane, aveva forma a "V", mentre la più lontana era larga, con fondo piatto e probabilmente collegata ai due fiumi della regione (l'Ose e l'Oserain). Di fronte a questi due fossi, sono stati identificati 5 ordini di fosse, che potrebbero rappresentare i cosiddetti "gigli" di Cesare.

Le torri erano invece posizionate a 18 m le une dalle altre, non a 15 come quelle della "controvallazione" o a 25 come ci ha descritto Cesare.

RICOSTRUZIONE DELLE DIFESE

I campi della fanteria

Gli scavi condotti presso due dei quattro campi della fanteria legionaria, hanno rivelato come questi avessero superfici tra un minimo di 2 ettari e mezzo e un massimo di 9,5: nel primo, presso il Monte de Bussy (che Reddé identifica con quello di Tito Labieno), le torri di avvistamento sono posizionate a 17 m le une dalle altre, mentre le loro basi sembrano essere quadrati di m 2,5 per lato.

Le fosse esterne al campo, lungo la "circonvallazione" esterna, sono poco profonde e larghe 3,5 m; le porte esterne, larghe 12 m, erano difese, in modo del tutto originale, dalla combinazione delle cosiddette protezioni a "titulum" e a "clavicula" dei castrum.

Di fronte al campo vi erano inoltre due ordini dei cosiddetti "cippi" descritti da Cesare; il secondo, ovvero quello di Cesare presso il Monte de Flavigny (il più piccolo tra i castrum della fanteria romana), sembra fosse protetto da dispositivi di artiglieria legionaria.

Il doppio vallo che fu eretto dai romani ad Alesia non ha nessun precedente storico, neanche per i romani stessi. Si trattava di un originalissimo sistema difensivo escogitato in breve tempo e per la prima volta da quando Roma aveva cominciato la sua espansione e di cui rimangono ancora oggi le tracce. Infatti quanto descritto da Cesare nel suo De bello Gallico è stato confermato totalmente dagli studiosi moderni, i quali, nel corso degli scavi, hanno messo in luce un sistema di assedio assai complesso ma soprattutto geniale.

"Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperatore" (Th. Mommsen, Storia di Roma antica - Libro V - Cap. XI)

DOMUS TRAIANI

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TERME TRAIANE ALL'AVENTINO

PRIVATA TRAIANI DOMUS

La Domus Traiana, costruita probabilmente su un terreno di proprietà familiare, era più raffinata di quella fatta edificare da Caracalla pochi decenni prima, essendo destinata agli illustri personaggi dell'epoca, come dimostrano alcune iscrizioni rinvenute in loco che attestano anche il suo uso almeno fino al V sec. (l'ultimo restauro avvenne nel 414, dopo l'incursione gotica).

La pianta dell'edificio è conosciuta da un disegno del Palladio, scoperto dal Lanciani nella collezione Devonshire. In essa si nota uno sviluppo simmetrico dei vari ambienti: ninfei, palestre e spogliatoi, ai lati di una grande sala centrale comprendente il frigidarium o il tepidarium. Le sue rovine erano ancora visibili all'epoca del Nolli che le disegnò in una pianta nel 1748.

RIPRODUZIONE DELLA DOMUS TRAIANI
Le terme si possono localizzare con certezza nella zona occupata attualmente dalla piazza del tempio di Diana e dai vicini fabbricati, sorti nell'area dell'antica Vigna Torlonia.

Le rovine dell'edificio furono viste più volte a seguito di ritrovamenti fortuiti e scavi: nel XVII secolo fu scoperta una sala con mosaici e con le pareti decorate da pitture e stucchi; altre rovine riemersero durante i lavori di sistemazione della piazza nei primi decenni del '900.

Alcuni avanzi rimangono tuttora nei sotterranei del Casale Torlonia e un tratto della muratura, ancora oggi visibile, sotto la piazza.
Tale muro taglia un vano di una domus preesistente che fu utilizzata come fondazione delle terme stesse. Gli ambienti della domus ora accessibili, particolarmente imponenti per l'altezza delle pareti dipinte, sono situati a 10,20 m sotto il livello stradale.

Sugli intonaci bianchi sono affrescati, con partiture lineari a strisce rosse e verdi, piccoli riquadri nei quali sono dipinti paesaggi, maschere, candelabri, fiori ed altri elementi fitomorfi. Di particolare interesse la soluzione pittorica dei soffitti, che sono decorati con un motivo concentrico che trasforma le volte a crociera in cupole ottagonali.
In base a bolli laterizi e allo stile pittorico, gli ambienti possono essere attribuiti alla prima metà del II sec. d.C. (fra l'epoca tardo-adrianea e quella degli Antonini).

MITREO DI SANTA PRISCA
In questo edificio furono inglobate strutture più antiche con murature in opera quasi reticolata, ancora parzialmente ricoperte da pitture di primo stile pompeiano, attribuibili al II sec. a.C., che appartenevano ad una casa privata tardo repubblicana.

Altri ambienti dello stesso complesso furono visti negli anni 1867-72 nella vigna Torlonia, durante lavori di fortificazione per la difesa dell'Aventino contro i Garibaldini.

Tali ambienti appartengono probabilmente allo stesso nucleo che aveva inglobato case più piccole risalenti fino all'età repubblicana (a circa 70 m sotto "Casa Bellezza" a largo Arrigo VII, è stata riportata alla luce un'altra ricca domus dello stesso periodo).

Diversi studiosi riconoscono in questo insieme di edifici i Privata Traiani, la casa di Traiano che le fonti localizzano sull'Aventino e da altri identificata con i resti sotto la chiesa di S. Prisca. E' probabile, comunque, che la ricca domus facesse parte del patrimonio imperiale, poi parzialmente inglobata da Decio nella costruzione delle terme.



SANTA PRISCA

IL MITREO
Al di sotto dell’edificio si sviluppano una serie di ambienti di epoca romana datati all’età imperiale, dalla prima metà del I sec. d.c. alla prima metà del III sec. d.c., pertinenti a diversi edifici a destinazione abitativa, l’identificazione dei quali è ancora dibattuta dagli archeologi.

Molti sostengono che in parte sovrasti la Domus Traiani. Qui si impiantò all’inizio del III sec d.c. un mitreo, il culto dedicato al dio Mithra, particolarmente venerato dall’esercito romano.



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PERGAMO - BERGAMA (Turchia)

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RICOSTRUZIONE DI PERGAMO

Pergamo è un'antica città dell’Asia Minore, nell'Eolide (verso il sud-est della Troade e sud della Misia; e verso il nord dell'Ionia e nord-ovest della Lidia), posta a poca distanza dalla costa del Mar Egeo, su di una collina (l'Acropoli di Pergamo) che costituisce la principale località archeologica dell’area. La città attuale è nota col nome di Bergama (Turchia, Provincia di Smirne).

Fiorì particolarmente in età ellenistica, quando Lisimaco, un generale di Alessandro Magno, scelse e fortificò l'acropoli come sede del suo tesoro (di oltre 9000 talenti) e ne diede la custodia a Filetero, figlio di Attalo. Quando Lisimaco fu sconfitto da Seleuco I, Filetero divenne il capostipite della dinastia degli Attalidi.

La città divenne capitale dell’omonimo regno, raggiungendo il massimo splendore sotto la dinastia illuminata degli Attalidi (241-133 a.c.). La città divenne un importantissimo centro artistico, considerata quasi una seconda Atene ellenistica.





IL MITO

Il mito vede la città fondata da Grino, nipote di Telefo, figlio a sua volta di Eracle e di Auge, che avrebbe onorato l'amico Pergamo, figlio di Neottolemo e Andromaca e nipote di Achille, intitolando a lui la città.

Secondo altri invece, raggiunta la maggiore età, Pergamo aveva lasciato la terra natia emigrando in Teutrania (Asia Minore, Misia), alle foci del fiume Caico, e là, avendo sconfitto in singolar tenzone un certo re Areio, ne conquistò il regno, dedicando un monumento alla memoria di sua madre. Secondo il greco Pausania il Periegeta divenne così il fondatore e l'eponimo della città asiatica di Pergamo.

E' però più probabile che la città venne fondata solo da Grino, poichè Pergamo era legata alla memoria del nonno Telefo, i cui resti vennero posti in un grandioso complesso funerario di Pergamo. Inoltre sull'Altare di Zeus, uno dei capolavori dell'arte ellenistica edificato a Pergamo da re Eumene II, c'era un bellissimo e grande fregio dedicato alle gesta di Telefo.

Tra l'altro Eumene si proclamava discendente da una progenie divina (Telefo, in quanto figlio di Eracle, discendeva da Zeus).

La città viene citata per la prima volta da fonti intorno al 400 a.c., ma l'acropoli doveva già essere abitata in età arcaica. Presso la città aveva sede un importantissimo santuario di Esculapio, rinomato per la capacità taumaturgiche dei suoi sacerdoti ed importante sede di pellegrinaggi provenienti da tutta la Grecia.

TERRAZZAMENTO AGORA' SUPERIORE


I RE DI PERGAMO

Con il successore Attalo I (241-197 a.c.) la città esercitò la sua egemonia su gran parte dell’Asia Minore occidentale. Il sovrano rifiutò di pagare il tributo ai Galati, tribù celta stanziatasi nell'area dell'Asia Minore che aveva fondato il regno della Galazia, alleati di Antioco III seleucide. Questi mossero guerra ai pergameni, ma furono sconfitti nel 240 a.c. presso le fonti del Caico assieme alle truppe di Antioco. Pergamo riuscì quindi ad annettersi molti territori seleucidi dell’Asia Minore.

Ma è nel 232 a.c. con la vittoria sui Tolistoboi, altra tribù celtica della Galazia, preso il tempio di Afrodite della città di Pergamo che il re Attalo I libera le sue terre dalle incursioni celtiche. Seguirono altre guerre con seleucidi, finchè venne stipulata un'alleanza con i romani, di cui rimasero alleati dinastici e la città conobbe una notevole fioritura artistica.

A Filetero successe Eumene I, che rafforzò ulteriormente il regno contro i sovrani elleni seleucidi.
Eumene II (197-159 a.c.) successe ad Attalo I e sotto di lui il regno ebbe un’ulteriore espansione. Il re protesse le arti e la cultura, fondando la biblioteca di Pergamo ed erigendo il famoso Altare di Zeus.

Poco dopo Eumene cadde in disgrazia dei romani per essere sospettato di cospirare con Perseo di Macedonia e di conseguenza nel 167 a.c., i romani fecero un tentativo fallimentare di corrompere suo fratello Attalo II, come possibile pretendente al trono di Pergamo, dopo che Eumene si era rifiutato di andare a Roma a discolparsi.

Eumene II Sotere (221 – 160 a.c.) della dinastia degli attalidi, figlio di Attalo I Sotere e della regina Apollonide, salì sul trono di Pergamo nel 197 a.c. Il suo nome è legato a numerosi celebri monumenti dell'antichità, tra cui l'altare di Pergamo, oggi custodito al Pergamon museum di Berlino, la biblioteca di Pergamo, con i quali arricchì la sua capitale, e la stoà sull'acropoli ateniese.

Con la morte di Eumene II, salì al trono il fratello Attalo II (159-138 a.c.), tutore di Attalo III (il figlio minorenne di Attalo I), ma di fatto re di Pergamo. Egli, recatosi a Roma nel 159 a.c., non solo riuscì a discolparsi dalle accuse che i Galati gli avevano mosso, ma prima di tornare in patria, il senato romano lo colmò di onori e doni, consolidando l’alleanza con Pergamo.

« Il senato, infatti, quanto più si era staccato da Eumene e gli era ostile, tanto più cercava di rendersi amico Attalo e di rafforzare il potere di lui.»
(Polibio, Storie, XXXII, 1.7.)

Attalo II, nel 156 a.c. fu costretto a difendersi da un attacco di Prusia II, re di Bitinia, che riuscì ad avvicinarsi alla stessa Pergamo.
I Romani decisero di aiutare Attalo II contro Prusia II, dopo l'invasione di quest'ultimo ai danni del regno attalide, inviando prima presso i due re come legati, un certo Lucio Apuleio e Gaio Petronio (155 a.c.). La ragione fu riconosciuta ad Attalo e Roma diede l'ordine di sospendere definitivamente le ostilità a Prusia (154 a.c.).

ACQUEDOTTO DI PERGAMO

DA REGNO A PROVINCIA ROMANA

Con Attalo II (159-138 a.c.), fratello di Eumene II e tutore di Attalo III (figlio minorenne di Attalo I), ma di fatto re di Pergamo, il regno consolidò l’alleanza con i romani combattendo contro altri dinasti ellenistici.

Attalo III (138-133 a.c.) fu l’ultimo dinasta indipendente, poiché alla sua morte lasciò il regno in eredità ai romani, e il suo territorio venne a costituire la provincia romana d'Asia. Nel testamento Attalo lasciava alla città di Pergamo ed a altre città, la libertà ed i territori circostanti, oltre all'esenzione dei tributi, mentre a Roma lasciava i suoi tesori e le sue proprietà, ma soprattutto gran parte dei territori.

Roma effettuò un primo intervento nel regno (nel 131 a.c.), inviando un certo Publio Licinio Crasso, il quale però fu sconfitto. Poi fu la volta del console romano Marco Ebuzio Perperna, il quale riuscì invece a far prigioniero Aristonico,  per impadronirsi poi di Pergamo e del suo tesoro.

Il Senato romano inviò poi il console Manio Aquilio per sedare una rivolta e trasformare i suoi territori in prima provincia romana dell'Asia (129 a.c.). Sbarcato in Caria Manlio si diresse in Mysia dove riuscì ad espugnare alcune fortezze ribelli, grazie anche all'aiuto di alcune città greche. 

Con la successiva riorganizzazione la repubblica romana annetteva tutti i territori occidentali, quelli orientali, montuosi e difficili da controllare, furono concessi al regno del Ponto ed a quello di Cappadocia.

A questo testamento si ribellò un certo Aristonico, che assunse il nome di Eumene III e organizzò una strenue resistenza con i poveri e schiavi del regno. Frattanto a Roma, Tiberio Gracco aveva fatto votare che i tesori lasciati da Attalo III, fossero distribuiti al popolo romano, quale beneficio della sua legge agraria.

Il testamento era condizionato dall'assenso della Repubblica romana. Il senato, inizialmente restio, successivamente, non tanto per le proprietà reali lasciate a Roma (dal tesoro regio alle attività manifatturiere), ma soprattutto a causa di una rivolta interna, fu costretta ad intervenire ed annettere l'area, trasformandola in provincia romana.

ALTARE DI ZEUS


LA PROVINCIA ROMANA

In età romana Pergamo fu una città prospera, famosa per l’attività dei ceramisti, la produzione di unguenti e di pergamene, che prendono il nome dalla città.

Il declino della città seguì quello dell’Impero Romano. In età bizantina fu saccheggiata delle sue opere architettoniche e statuarie in gran parte demolite, e divenne sede di vescovado. Poi fu saccheggiata dagli arabi che di nuovo cancellarono opere romane, e l'imperatore Costantino V prelevò parecchi materiali del centro urbano per costruire una nuova cinta muraria. Poi la città venne presa dagli Ottomani, che vi edificarono diverse moschee, cancellando altre tracce romane.

I resti della capitale furono scavati a partire dal 1873.





I MONUMENTI

Fra le rovine più importanti rimaste visibili ai turisti sono da citare: l'Acropoli, parti del celebre Tempio di Zeus ed Atena, i templi di Demetra ed Era, gli edifici dedicati a Traiano e Caracalla, il teatro, l'altare di Esculapio, l'Asclepeio, il Ginnasio e la Biblioteca.
Poi, sempre sull'acropoli, sul lato sinistro, troviamo le tombe monumentali di età ellenistica, con a fianco dei negozi. Subito dopo i resti dei Propylon, le fondamenta delle porte monumentali erette da Eumene II. Passando per la piazza si notano i resti del tempio di Atena.

ALTARE DI ZEUS
Diversi scavi furono effettuati da tedeschi alla fine del XIX sec. ed infatti attualmente molti reperti dell'antica città sono a Berlino. Fra questi parti importanti del famoso grande fregio della Gigantomachia che in origine era formato da numerose (circa 100) lastre alle quali avevano lavorato moltissimi artisti dell'Asia minore. 

Alcune di queste lastre furono recuperate (grazie anche ai numeri che riportano) cercando pure fra le fortificazioni dell'epoca bizantina. 
Fra i fregi più interessanti che compongono la Gigantomachia, sono da evidenziare quelli detti di Telefo.

La città, all'epoca del suo maggiore sviluppo, cioè nell'età romana, era divisa in due principali complessi edilizi, quello della pianura, di età imperiale (purtroppo ancora tutto da scavare) che comprendeva abitazioni, terme, l'anfiteatro e lo stadio più antico, e quello della collina. Per il secondo dal teatro un'ampia strada porticata conduceva all'Asklepieion, grandioso complesso di edifizi comprendenti il tempio di Asklepios, portici, un teatro, varie sale e una fonte dalle acque salutari e miracolose. Fiorì nel II sec. d.c. e fu illustre per l'opera del famoso medico Galeno.

La città ellenistica ha inizio dalla cinta muraria costruita da Eumene II in regolare opera isodomica ai piedi della collina e comprende tre gruppi di edifici: il primo dell'agorà inferiore e delle abitazioni, il secondo della fontana della città, dei ginnasi, dei santuari di Demetra e di Hera, il terzo della vera e propria acropoli con la reggia e i monumenti principali. Seguiva poi la fascia muraria intermedia di Attalo I e una più antica sulla sommità del colle, come usava nelle città micenee e pelasgiche in genere. I tre nuclei erano collegati con una strada serpeggiante lastricata in trachite.

La porta principale della prima cinta muraria era costituita da un passaggio a vòlta fiancheggiato da due torri che immettevano nella corte quadrata dove si allenavano i militi.

意大利国立罗马博物馆馆藏著名雕塑 - - @小石頭@ - 小石頭
RICOSTR. STOA' DI ATTALUS II

La agorà inferiore era un grande rettangolo circondato da portici dorici e da botteghe; sul lato sud il dislivello permise la costruzione di un piano inferiore pure porticato. Gli edifizi dell'acropoli guardano verso ovest, cioè verso la valle del Selinus, e sono disposti seguendo un arco di cui la corda sottesa è costituita dalla terrazza del teatro.



I GINNASI

I ginnasî furono eretti su tre terrazze parallele nel rapporto di altezza di m 12 l'una dall'altra. Nella prima si esercitavano i pàides, nella seconda gli èpheboi, nella terza i neòi.

Nell'una il muro di fondo era ornato con nicchie e statue, nell'altra era un piccolo tempio tetrastilo dorico del II sec. a.c., l'ultima fu completamente rifatta nell'età romana. 
Il centro di essa è occupato da un portico a due piani di colonne corinzie; nel lato ovest vi sono varie sale e un tempio ionico con quattro colonne sul fronte, a nord c'è un auditorium che poteva ospitare mille persone, fornita di due absidi e addetta al culto dell'imperatore. A est invece sono collocate le terme disposte in undici ambienti.



SANTUARIO DI DEMETRA
RECINTO SACRO DI HERA

Sopra al complesso si erige il recinto sacro di Hera con un portico, un'esedra, e un tempio dorico a quattro colonne sul fronte dedicato da Attalo II.

Qui è stata rinvenuta una statua colossale acefala che secondo alcuni rappresenta Zeus, per altri Attalo II



SANTUARIO DI DEMETRA

Il contiguo santuario di Demetra esisteva già nel 270 a.c. e fu ampliato da Apollonide moglie di Attalo I e poi dai Romani che, in età antoniniana, fornirono il tempio ionico in antis di un vestibolo corinzio.

Esso è racchiuso fra portici e una scalinata, da cui si assisteva ai misteri.

IL TRAIANEUM

IL TRAIANEUM

La terrazza più alta è occupata dal Traianeum, tempio corinzio eretto su alto podio, con profondo vestibolo, una costruzione adrianea con sei colonne sulla fronte. Per ospitare il tempio la terrazza precedente fu ampliata verso ovest costruendo undici poderose concamerazioni a vòlta. 

Intorno c'erano i portici. Di età romana è anche la terrazza del teatro sostenuta da un poderoso muro a cinque riseghe e contraffortato. 

Nella terrazza c'era un altro tempio a sei colonne, però ionico e di età ellenistica, col fastigio del tempo di Traiano, dedicato a Dioniso Kathegemòn, protettore degli Attalidi. 
Dopo un incendio fu ricostruito agli inizî del III sec. e dedicato a Caracalla.



TEMPIO DI ATHENA POLIAS NIKEPHOROS

La terrazza del tempio di Atena Poliàs Nikephòros era contigua a quella dell'altare di Zeus ma 25 m più in alto. 

TEMPIO DI ATHENA
Il tempio in trachite, dorico e con sei colonne sul fronte, è riferibile al tempo di Filetero e comunque fu rispettato in qualità di antico monumento religioso.

Invece gli edifici costruiti all'intorno non si allinearono su di esso, bensì sui monumenti delle altre terrazze che in tal modo finirono distrutti.

Da qui dovrebbe provenire la statua di Athena Polias, munita della Gorgone che poggia con le sue ali sul virgineo seno, che si ammira nella foto qua affianco, di proporzioni circa doppie del naturale. 

Attualmente è conservata al Museo Nazionale di Pergamo a Pergamo. 

Sappiamo anche del donario di Attalo I che veniva custodito nel recinto sacro di Atena Poliàs, che comprendeva anche un gruppo statuario di Greci in lotta con Galati.

Il tempio, ovvero i suoi resti, posti sul terrazzamento superiore, sono fiancheggiati dalla Via Sacra che conduce al terrazzamento inferiore.

LA VIA SACRA

LA VIA SACRA

Una Via Sacra entra nella fortezza muraria attraverso una porta, detta dell'acropoli, dividendo un complesso orientale che accoglie il palazzo reale, le caserme e gli arsenali. questa acropoli contiene la più antica agorà porticata a un solo piano. Sempre dalla Via si accede attraverso ingressi monumentali alle varie terrazze.

Poi la Via Sacra prosegue raggiungendo la cima della collina, chiusa ancora dalla fortezza superiore. Qui, nel lato occidentale sono collocati il teatro e le terrazze, che gradatamente si elevano, del mercato, dell'altare, del recinto di Atena e del Traianeum.

Sul lato meridionale, dove la strada piega a gomito e il dislivello è forte, la facciata è a tre piani, il primo con porte, il secondo con finestre, il terzo con pilastri. Nell'agorà è un tempietto in antis con colonne doriche dove le scanalature sono unite con ponticelli. Quattordici metri più in alto, collegata con una scala, è la terrazza dell'altare dedicato a Zeus e Atena Nikephòros che aveva certamente un pròpylon sulla strada, del quale però non si conosce l'aspetto.

IL TEATRO

IL TEATRO 

"Il teatro dell'acropoli di Pergamo è uno dei più impressionanti di tutta la Turchia e resta impresso nella memoria poichè scavato nelle scoscese pendici della montagna alla quale sembra aderire come una conchiglia."

E' in effetti un teatro unico, con cavea stretta ma altissima, composta da numerosi ordini di gradini in forte pendenza, che si estendono su 50 m di altezza offrendo un totale di 10.000 posti a sedere. Il teatro, di età ellenistica, aveva 83 ranghi di sedili di trachite e originariamente la scena in legno. Eumene II costruì la tribuna reale e i Romani la scena stabile in pietra.

E' il teatro più ripido dell'antichità, non raccomandabile a chi soffre di vertigini. Come tutti i teatri greci ha sfruttato al massimo la pendenza del terreno, visto che l'acropoli veniva eretta sulla cima del colle e il tetro sui suoi fianchi.
Oltre alla cavea restano parti minime della scena costituite da un rettangolo di pietra situato proprio sul bordo del precipizio. E' stato costruito nel terzo secolo a.c., ed ha subito alcuni cambiamenti architettonici durante il periodo romano sotto il regno di Caracalla.



LA BIBLIOTECA 

Pergamo fu sede di una biblioteca contenente, secondo Plutarco, circa ben 200.000 volumi. Costruita da Eumene II e situata nella parte settentrionale dell'Acropoli, divenne uno delle più importanti biblioteche del mondo antico.

Si dice che Marco Antonio donasse a Cleopatra tutti i 200.000 volumi di Pergamo per la Biblioteca di Alessandria come regalo di nozze, svuotando gli scaffali e ponendo fine al predominio letterario della Biblioteca di Pergamo. Ma non essendocene prova o citazione precisa, si ritiene una leggenda.

LA BIBLIOTECA
Non esiste oggi un indice o catalogo dei contenuti della biblioteca, rendendo impossibile conoscere la vera dimensione e la portata di questa collezione.

Resoconti storici narrano di una grande sala di lettura principale, allineata con molte mensole. Uno spazio veniva lasciato vuoto tra le pareti esterne e le mensole per permettere la circolazione dell'aria. Questo aveva lo scopo di evitare che la biblioteca diventasse eccessivamente umida nel clima caldo dell'Anatolia. I manoscritti erano scritti su pergamena, arrotolati e poi archiviati su questi scaffali. Una statua di Atena, la dea della saggezza, si trovava nella principale sala lettura.

Pergamo viene riconosciuta come la prima creatrice della pergamena (charta pergamena, cioè di Pergamo). Prima della pergamena, i manoscritti venivano trascritti su papiro, che era prodotto ad Alessandria. Quando i Tolomei d'Africa rifiutarono di esportare il papiro a Pergamo, il Re comandò che si trovasse un'altra fonte. 

La fondazione della biblioteca è infatti attribuita a re Eumene II, successore di Attalo, che chiamò a corte Cratete di Mallo, rappresentante della Scuola Pergamena, che perfezionò la tecnica per produrre la pergamena, in effetti già conosciuta ma non ben sfruttata. Secondo Plinio il Vecchio, questo supporto fu inventato dallo stesso Eumene II quando il sovrano egizio Tolomeo V vietò l'esportazione dei rotoli di papiro da Alessandria a Pergamo.

Ciò condusse alla produzione di pergamena, fatta di fogli sottili di pelle di pecora o capra. La pergamena ridusse la dipendenza dell'Impero Romano dal papiro egiziano e permise una maggior diffusione di conoscenza in tutta l'Europa e Asia. Con l'introduzione della pergamena Pergamo accrebbe più facilmente il patrimonio la Biblioteca di Pergamo, col vantaggio di poter esportare i manufatti da lei prodotti.

ALTARE DI ZEUS

ALTARE DI ZEUS

Dall'acropoli di Pergamo, terrazzata a più strati dai suoi 330 metri d'altezza, che dominava la vasta valle del Caico, si levava, visibile a km di lontananza, l'Altare di Zeus, scenografico e imponente, interamente costruito in marmo asiatico. L'immagine del fiume Caico, che dava il nome alla vallata, appare come giovane Dio fluviale sulle monete di Pergamo.

L'altare ha una forma quadrangolare, con la facciata rivolta alla vallata, dotata di una ininterrotta scalinata sul fronte, per far luogo ai due avancorpi distanziati da una scalinata centrale, larga quasi venti m.

Dopo i gradini ininterrotti, si alzava sugli avancorpi un basamento alto circa 4 m, lungo il quale si sviluppava, per tutta l'altezza e la lunghezza, il "grande fregio" continuo con la rappresentazione in rilievo della Gigantomachia.

Si accedeva poi al livello superiore sul fronte, sempre tramite la prosecuzione della scalinata centrale, che conduceva a un grande vano, alto circa sei m, circondato da un colonnato ionico continuo, che proseguiva anche lungo gli avancorpi.

All'interno del vano correva lungo tutte le pareti un secondo colonnato, fatto a coppie di colonne unite da mura a formare delle sale. probabilmente qui vivevano i custodi del tempio con i loro magazzini con gli arredi per le processioni e i sacrifici in onore del Dio.

L'altare vero e proprio si trovava al centro e su di esso si trovava il "piccolo fregio", con le Storie di Telefo, figlio di Eracle, il fondatore della città, forse mitico o forse no.

L'Altare di Zeus di Pergamo è uno degli edifici più famosi e uno dei capolavori dell'arte ellenistica. Fu fatto edificare da Eumene II in onore di Zeus Sóter e Atena Nikephòros (Zeus salvatore e Atena portatrice di vittoria) per celebrare la vittoria sui Galati. Attualmente la parte anteriore dell'altare si trova conservata al Pergamon Museum di Berlino.

La realizzazione dell'altare fu iniziata da re Eumene II (197-159 a.c.), a cui si deve la trasformazione dell'edilizia pergamena dalla trachite al marmo. Il suo predecessore Attalo I aveva innalzato nella terrazza gruppi scultorei celebranti le vittorie sui Galati; ne restano le basi, di cui una era di forma rotonda e sopportava numerose statue di dimensioni superiori al normale. e continuata dal successore Attalo II.



L'opera di Eumene volle celebrare la vittoria di Pergamo sui Galati, nel 166 a.c. e venne completato tra il 166 e il 156 a.c., nonostante il re Prusia II di Bitinia, intorno al 156 a.c., attaccasse la città.

In realtà l'anno della sua edificazione è solo dedotto ma lo studioso Kähler la pone fra il 181 e il 159 a.c., e diversi studiosi concordano con lui, perchè in quell'anno furono istituite o rinnovate le feste Nikephòria per la corona d'oro della dea Atena, riconnettendosi così i Pergameni con la tradizione delle Panatenee ateniesi nelle quali si offriva ad Atena una corona d'oro per la vittoria sui giganti.

Di certo non fu prima del 190 a.c. perché, per renderne possibile la costruzione, furono abbattute le mura dell'acropoli che avevano molta importanza prima che Eumene II costruisse la cinta inferiore. Quindi furono erette soltanto dopo la battaglia di Magnesia del 190 a.c. e, e non si ci sarebbe privati della cinta precedente per costruire un altare se non si avesse già provveduto alle nuove mura.

Varie iscrizioni ricordano la presenza nel cantiere di numerosi artisti, pergameni, ateniesi e forse rodi. Non si conosce però il maestro che orchestrò tutta l'opera. Qualcuno ha suggerito Firomaco, scultore e pittore, uno dei sette più grandi scultori greci.
Questa ipotesi, secondo alcuni, troverebbe una conferma stilistica in alcune scene, dove l'impostazione di Zeus e Atena che combattono, ad esempio, ricorda quella di Atena e Poseidon nel frontone occidentale del Partenone di Fidia. 

FREGIO DEL PARTENONE
Vi sono stati letti anche intenti politici, accumunando i pergameni agli ateniesi riaffermava l'appartenenza dei due popoli a un'unica stirpe, con gli stessi valori e la stessa cultura.

Il fregio fu distrutto durante le invasioni barbariche e ricostruito con i frammenti superstiti da archeologi tedeschi.

Nel 1886, l'altare fu portato da Pergamo a Berlino in Germania, col permesso del sultano Abdul Hamid II, alleato della Germania. La composizione dell`altare all`interno del museo fu affidata all`archeologo tedesco Otto Puchstein. Quasi un secolo dopo, nel 1948, il fregio dell'Altare di Zeus fu confiscato dall'Armata Rossa e portato da questa a Leningrado. Solo dieci anni più tardi, il fregio ritornò nella Germania dell'Est, come regalo da parte dell'allora Unione Sovietica.

La decorazione marmorea dell'altare fu rinvenuta frammentaria, murata in gran parte nelle fortificazioni bizantine. La ricomposizione del fregio della gigantomachia si deve a O. Puchstein e a R. Bohn che furono aiutati dagli scultori italiani Freres e Possenti. Essa fu resa possibile dal fatto che le lastre del fregio della gigantomachia erano numerate con cifre accoppiate, di cui una d'indice e l'altra di catena. Al di sotto del fregio sulla base erano iscritti i nomi dei giganti e quelli degli artisti; sulla cornice al di sopra del fregio i nomi degli dèi. Anche questi elementi resero possibile la ricostruzione che nel complesso è ben riuscita.

Cinquecento anni fa vennero scoperte 10 tra le sculture che componevano il cosiddetto Piccolo Donario Pergameno, un complesso scultoreo riproduceva parte del più articolato ex voto per le vittorie ottenute da Attalo I (269 – 197 a.c.), la cui versione originale in bronzo si trovava sull’Acropoli di Atene.

HEKATE CONTRO KLYTIOS

LA GIGANTOMACHIA

Athena contro Alcione:

Il fregio sulla base del monumento è lungo ben 120 m e scolpito con mirabile maestria su pannelli alti 2,28 m e piuttosto stretti, circa 70–100 cm ciascuno. Questa circostanza, dovuta probabilmente alle condizioni della cava, impose una grave limitazione al maestro ideatore, ossia quella di evitare il più possibile gli schemi diagonali perché le suture non cadessero su parti preminenti del corpo, ad esempio sui volti.

Il fregio fu lavorato fuori opera, in varî cantieri; ciò è dimostrato dal fatto che nessuna figura oltrepassa l'angolo e che in alcuni luoghi si nota lo sforzo compiuto per contenere le figure nell'esiguo spazio di una sola lastra.

Gli scultori che le lavorarono, secondo le iscrizioni purtroppo molto frammentarie giunte fino a noi, appartennero a diversi centri artistici, a P. stessa, ad Atene, a Tralles e forse anche a Rodi. Noi conosciamo i nomi di Dionysiades, Menekrates, Melanippos, Orestes e Theorretos e frammenti d'iscrizioni per almeno altri 7 artisti, ma furono di più. Dalle iscrizioni sappiamo che almeno 6 maestri lavorarono in coppia; gli scultori furono in tutto 23 o 24.

Esso rappresenta la mitica battaglia tra le divinità dell'Olimpo e i Giganti, figli del Cielo e della Terra che avevano osato sfidare la sovranità di Zeus dando l'assalto al sacro monte.
Ma nelle scene erano appositamente mescolati i fatti della guerra appena vinta contro i barbari Galati. 

Questi infatti usavano acconciarsi i capelli in piccole ciocche irrigidite da un impasto di gesso, chiamato tìtanos, molto vicino al termine Titànes, i Titani, simili ai giganti.

Mentre nella parte orientale del fregio i Giganti lottano con le divinità olimpiche, nei restanti lati si raccolgono un folto gruppo di divinità minori: a nord gli Dei della notte, a sud gli Dei della luce, a ovest le divinità marine e Dioniso.

Nello stile il grande fregio riprende i grandi maestri dei decenni precedenti, come i nudi di Fidia, il plastico movimento delle figure di Skopas, ancor più evidenziato da linee oblique e divergenti, che generano azioni convulse.

Appare accentuata anche la tragicità delle figure, come in una scena di teatro. Ciò venne reso anche grazie a un maggiore ricorso del trapano, che crea effetti di chiaroscuro più accentuati, e con l'alternarsi dell'altorilievo a parti lisce.

NEREO E OCEANO
L'altorilievo è molto ricco di effetti pittorici, soprattutto nelle pieghe delle vesti, il che, con la diversità dei piani e delle direzioni, dà a queste sculture un aspetto che si può quasi definire barocco.

Accanto al fregio della gigantomachia del grande altare si devono collocare alcune statue di donne panneggiate sedute o in piedi, ritrovate sull'acropoli, fra le quali si può citare come uno degli esempi migliori la cosiddetta Tragedia (Alt. v. Perg., vii, tav. xiv) col chitone altocinto e la spada a tracolla.

Due grossi rotoli di stoffa convergono sul fianco sinistro, le ampie pieghe dell'abito si allargano ai piedi formando una vasta base. La statua è in sostanza frontale ma l'impeto ascensionale si dichiara nella parte superiore più mossa.

Con l'aiuto di quelle iscrizioni e per congetture si riconoscono a partire dal fianco meridionale della scala, proseguendo lungo i lati sud, est e nord, e ovest, le seguenti divinità: le ninfe, Sileno, i satiri, Dioniso, Semele, Rhea-Cibele, Efesto, con Cabiró e Cadmilo, Eos, Helios, la titana Theia, Selene, i titani Astreo e Iperione, le titane Themis, Phoibe e Asteria, la titanide Ecate, Artemide, Latona, Apollo, una lacuna con altre divinità dell'Olimpo, Hera col cocchio trainato da quattro cavalli alati, i quattro venti, Eracle, Zeus, Atena, Nike, Ares, Afrodite, Eros, Dione, varie costellazioni, fra cui l'Engonasin, Orione, la Vergine e Boote. Nel centro del lato nord è la Notte che impegna come arma la costellazione dell'Idra, alla sua sinistra le Erinni e le Graie; delle Gorgoni forse solo Medusa, il pesce Ketos, moglie di Phorkys il quale doveva precedere Posidone rappresentato sul carro trainato da ippocampi. Ultimi Tritone, Anfitrite, Nereo con la moglie Doris, l'Oceano e Teti.

Questo tempio-altare, in base agli scavi archeologici tedeschi compiuti alla fine dell’Ottocento, è stato ricostruito, nelle parti superstiti, all’interno del Pergamonmuseum di Berlino.

FREGIO TELEFO

IL FREGIO MINORE (o di TELEFO)

Esso era alto m 1,57 e si stendeva per m 79 sulle pareti del portico superiore. Si sono ritrovati frammenti di 125 figure con cui è stato possibile ricostruire m 34,60 di fregio.

Dalle ricomposizioni del Robert e dello Schrader appare che tutta la storia delle avventure di Telefo narrate nel fregio:
FREGIO TELEFO
- la consultazione dell'oracolo da parte di Aleo re di Tegea alla nascita di Telefo,
- l'arrivo di Auge in Misia, seguita più tardi da Telefo, che non conosceva la madre,
- la lotta di Telefo coi Greci sbarcati in Misia,
- la riconciliazione coi Greci,
- la fondazione di Pergamo,
- La costruzione dei culti della città ecc.

È il primo esempio di composizione narrativa continua nella scultura, ripresa poi nella Colonna Traiana di Roma, derivata sicuramente dalla grande pittura dell'epoca.

Nel fregio viene reso con maestria lo spazio ambientale, collocando le figure su varî piani, largheggiando nei paesaggi con figure più piccole nella parte più alta del rilievo e maggiori in quella inferiore, in modo da rendere l'effetto della lontananza.

FREGIO TELEFO
Il fregio di Telefo si distingue da quello maggiore della gigantomachia, dove le figure non sono immerse nel paesaggio bensì rilevate su un fondo piatto; il che evidenzia che siano opere di autori diversi. Il fregio minore fu opera di scultori più giovani di quelli della gigantomachia ma con identico indirizzo artistico; esso fu una grande figurativa pittorica resa col basso e l'alto rilievo.
Il fregio della gigantomachia fu invece un rilievo più uniforme nelle proporzioni, con figure di uguale altezza su un fondo senza rilievi, per uniformarsi alla levigatezza dello zoccolo

Anche i maestri del grande fregio sentivano la costrizione del quadro regolare del rilievo, con le frequenti impostazioni oblique dei corpi e staccando dal fondo le immagini col lavoro del trapano. Sul fianco sinistro della scala, dove manca la base inferiore, una figura sembra uscita del tutto dal fondo ed è veramente inginocchiata su un gradino.



LA STOA' 

Tutta la zona delle rovine è situata sulla sommità di un alto colle che domina la piana sottostante. Dopo l'ingresso vi sono i resti appena visibili della biblioteca, del Palazzo di Eumene II e del tempio di Atena, di cui restano solo colonne mozze e basamenti.

Ciò che resta decisamente impresso nella memoria è il teatro scavato nelle scoscese pendici della montagna: 10.000 posti e ottanta ordini di gradini che salgono a un'altezza di 50 metri. È piuttosto ben conservato. Oltre il teatro vi sono i templi di Dioniso e l'altare di Zeus, per meglio dire ciò che dell'altare gli archeologi tedeschi hanno avuto la delicatezza di lasciare qui, visto che formelle, fregi e sculture sono esposti al Museo di Berlino.

ASKLEPION

TEMPIO ASKLEPION


TUNNEL DELL'ASKLEPION
Venne costruito fuori dalle mura della città, giù a valle: si trattava di uno dei più famosi sacrari dedicati al Dio della medicina, Asklepion (Esculapio). La sua fama raggiunse il massimo nel II secolo d.c. grazie al grande medico e chimico Galeno, nato appunto a Pergamo (129 - 201 d.c.).

In seguito si trasferì a Roma dove lavorò prima come chirurgo dei gladiatori e infine come celebratissimo medico dell'imperatore Marco Aurelio.

Il grande merito di Galeno fu di riuscire ad accumulare e assimilare tutta la scienza medica del suo tempo e riorganizzarla rendendola fruibile a tutti quelli che volessero studiarla. Non è difficile immaginare che tra le metodologie curative fondamentali dell'Asklepieion aveva grande rilievo l'assoluta fede e abbandono al Dio.

Per raggiungere l'area si percorre la Via Tecta (via Sacra), una via coperta che porta al vasto complesso dove si trovano stoa (cortili porticati), il tempio rotondo dedicato a Zeus Asclepio, molte vasche e piscine e un fabbricato d'incerto impiego che si articolava su due piani collegati da una scala, incredibilmente agibile tuttora.

TEATRO DELL'ASKLEPION

TEATRO DELL'ASKLEPION

Piccolo ma ben conservato, coi sedili ad angolo stondato e le scale affiancate da sculture a zampa di animale.



BAGNI DI PERGAMO

L'acqua del pozzo dell'Asklepieion non ha, come accertato, proprietà curative, ma la cura con l'acqua aveva un ruolo psicologico e religioso immenso, come del resto non le ha nemmeno Lourdes.

BAGNO DI PERGAMO
L'insieme era completato da un piccolo teatro molto ben conservato e dal tempio di Telesforo, dove i pazienti venivano messi a dormire sulla nuda terra, nella speranza che il Dio medesimo o le sue figlie, Hygiea e Panacea, apparissero loro in sogno per indicare il mezzo per guarire.

Una curiosità è data dalle latrine collettive. Un po' ovunque si noteranno fregi e bassorilievi raffiguranti un serpente, l'animale simbolo di Esculapio.

Con l'avvento dei romani le vasche del tempio si tramutarono in parte in terme, per quello spiccato senso degli affari che distingueva questo popolo, poco fanatico ,a molto pratico e organizzato. Per cui il santuario mano a mano divenne un grosso business.



TEMPIO DI TELESFORO

L'entrata sotterranea al tempio di Telesforo nella parte romana di Pergamo. Stava sulla Stoà



TEMPIO DI SERAPIDE

TEMPIO DI SERAPIDE
In turco è chiamata Kizil Avlu (Corte rossa) ed è quanto resta di un grande tempio costruito nel secolo II d.c. in onore del dio egizio Serapide, il cui elemento sacro era l'acqua.

Infatti le sua fondamenta erano (e sono) posizionate sopra due gallerie dove scorre il Selino, breve fiume locale.

In epoca bizantina fu trasformata in una chiesa dedicata ai santi Giovanni e Paolo. Oggi Kizil Avlu è una piccola moschea.



LA SCULTURA PERGAMENSE

Dell'età del fregio di Telefo è una bella testa di giovane (Alt. v. Perg., vii, tav.xxxiv), dal modellato
morbidissimo e dall'espressione patetica contenuta in una misura classicheggiante.


La scultura pergamense non si limitò a imitare Fidia e Skopas, ma ci si ispirò alle loro opere per costruzioni di diverso gusto, più aereo nei movimenti ma più passionale nella carnalità delle figure. questa spontaneità confluirà nel virtuosismo veristico dell'ultimo ellenismo e pure sull'arte romana.

Nomi di scultori pergamensi. sotto la dinastia degli Attalidi sono tramandati dalle iscrizioni e da Plinio  il quale informa che "le battaglie di Attalo e di Eumene contro i Galli furono rappresentate da Isigonos, Phyromachos, Stratonikos e Antigonos". Altre iscrizioni riportano Epigonos, scultore citato da Plinio come autore di un tibicine e di un gruppo di una madre morta e di un fanciullo che l'accarezza.
Non si sa se il suo "tibicine" sia identificabile nell'archetipo del Gallo capitolino, certamente replica di un bronzo dell'Asia Minore, perché il marmo è asiatico. Egli è caratterizzato come galata dal tipo etnico, dai forti zigomi, dalla chioma ispida, dai baffi, dal torques al collo. Ferito e caduto a terra siede sullo scudo di forma gallica e sulla tromba guerresca. 
Secondo alcuni l'anatomia non appare sufficientemente curata per un grande scultore. In realtà l'invenzione è bella sia per il ritmo serrato, sia per l'inequivocabile espressione del combattente ferito e agonizzante e non può essere di un artista minore.

Nella seconda metà del II sec. a. c. si seguì il gusto neoclassico, come nella bellissima figura di danzatrice di Pergamo (Alt. v. Perg., vii, 1, p. 23). Ritornarono in quel tempo gli schemi di figure appoggiate scomparsi durante il barocco. 
DANZATRICE
Fra le copie di opere d'età classica ritrovate a Pergamo vanno ricordate l'Hermes propỳlaios di Alkamenes illustrato qua sotto, una copia romana dell'originale di pergamo.

Ma non si deve dimenticare neppure l'Atena Parthènos fidiaca, più rielaborazione che replica della Athena di Pergamo.

Del I sec. a.c. invece è il gruppo di Eracle che libera Prometeo (Alt. v. Perg., vii, tav. xxxvii), per la sua frontalità e la composizione paratattica. Si pensa che sia un monumento votivo per Mitridate Eupatore (88 a.c.).
Dell'età romana sono, fra l'altro, ritratti. Ne va citato uno molto bello di Domiziano (Alt. v. Perg., vii, 2, p. 280).

Particolare la statua romana il cui originale, probabilmente bronzeo, faceva parte insieme all’altrettanto celebre Galata suicida del grandioso donario dedicato nel 223 a.c. dal sovrano Attalo di Pergamo.

Si pensa che artisti pergameni siano stati inviati in Grecia per copiare pitture. Un piccolo dipinto pompeiano, dove un guerriero armato e coronato alza insieme a Nike un trofeo, deriva probabilmente da un dipinto pergameno dove il generale vincitore era Attalo I.

La celebre pittura ercolanese del ritrovamento di Telefo da parte di Eracle in presenza dell'Arcadia, si riferisce sia per il soggetto sia per la grandiosità dei nudi e del panneggiamento a un dipinto pergameno.Da un ciclo pittorico col mito di Telefo esistente a Pergamo derivano alcuni dipinti pompeiani, fra cui uno della Casa dei Vettii, che rappresentano Auge scoperta da Eracle.

Vennero convocati artisti pergameni da Eumene II e da Attalo II, in onore della loro madre Apollonide, nel tempio a lei dedicato a Cizico, sua patria. Era anche questa arte celebrativa come appare dalla descrizione contenuta in 19 epigrammi i quali, sotto il nome di Carmina Cyzicena, si trovano nell'Anthologia Palatina. 

A partire dall'angolo sud ovest del tempio erano rappresentati appunto 19 esempî di pietà filiale, fra i quali appariva anche quello di Romolo e Remo che salvavano la madre Silvia.Per quanto riguarda i mosaici va ricordato che Sosos eseguì a P. il suo asàrotos òikos, imitato nell'età imperiale romana. Hephaistion firmò un mosaico pavimentale del palazzo di Attalo II. I frammenti musivi ritrovati nei palazzi reali pergameni rivelano maturità artistica e grande coloritura variegata


UMBELICUS URBIS ROMAE

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L'OMPHALOS DI DELPHI


L'OMPHALOS

L'omphalos (ombelico) era anticamente una pietra simbolo, un centro fisico e spirituale da cui si è irradiato il mondo, come centro del microcosmo umano e divino, rappresentazione astratta della Terra divina, terrestre, celeste e ctonia . Nell'Antica Grecia la pietra scolpita era situata a Delfi, nel Tempio di Apollo, da cui la  Pizia diffondeva i suoi vaticini.

Il tempio di Apollo delfico era il più importante del mondo greco, quindi l'omphalos indicava che Delfi, col suo santuario, era il centro del mondo, ma Apollo non fu il primo possessore dell'omphalos, e il concetto di “centro del mondo” non appartiene solo alla cultura greca, ma prima ancora alla Mesopotamia, alla Cinese e Indiana, per non parlare del mondo Mediterraneo.

ORESTE SULL'OMPHALOS
L'omphalos era una pietra aniconica, cioè priva di immagine. conica, piramidale o cilindrica, grezza o lavorata, detta anche Betilo, da bet el , parole semitiche che significano “casa del dio”, o dio stesso. Ma se l'ombelico del mondo è il centro da cui tutto prende vita è evidente che si riferisce a una Dea e non a un Dio.

Infatti Apollo ruba l'omphalos alla Madre Terra, ovvero, come narra Plutraco nei Dialoghi delfici, il tempio della Madre Terra viene storicamente distrutto e accanto viene elevato quello di Apollo, Aggiunge pure che un tempo le Pizie parlavano in versi mentre nel tempio di Apollo, al servizio dei sacerdoti, non ne sono più capaci e parlano solo in prosa e spesso non sono neppure comprensibili. Anzi l'ultima Pizia è corsa urlando dal tempio cadendo morta al suolo dopo le molte secchiate d'acqua che i sacerdoti le avevano rovesciato addosso per costringerla a vaticinare, perchè niente vaticinii niente soldi dei fedeli che pagavano il servizio.

L'omphalos o betilo era un elemento verticale di pietra o di terra,oppure di legno, posto verticalmente a volte era un semplice palo, ma all'origine era un tumulo di terra sbancato con la calce. Compare dapprima in Oriente tra i sumeri, nelle popolazioni antico-semitiche, siro-palestinesi e mesopotaniche. I grandi spostamenti culturali asiatici hanno contribuito al diffondersi dei culti betilici da Est ad Ovest. Così in vari tempi e per vicende diverse la cultura betilica si sarebbe diffusa nel Mediterraneo.

AFFRESCO DI APOLLO RITRATTO SULL'OMPHALOS
La tradizione fenicio-punica è particolarmente presente a Malta, in Sicilia e Sardegna oltre all’Africa cartaginese e in Siria fino in epoca romana, come la pietre coniche, a forma di omphalos: di Emesa, di cui parla Erodiano, e di Seleucia diventate elemento di culto degli imperatori romani che ne fanno oggetto di monetazione, o come la pietra di Paphos citata da Tacito.

La tradizione egea è testimoniata a Creta con il culto delle colonne e dei pilastri, ma anche di forme omphaloidi, e a Micene con la imponente raffigurazione betilica costituita dal rilievo della famosa porta “dei leoni”, dove la colonna sorretta dai leoni è il simbolo della Dea Madre. Spesso infatti l'omphalos è un albero o un palo con due fiere ai lati volti in un primo tempo verso l'interno e successivamente all'esterno. La stessa Madre Cibele che guida il carro trainato da leoni è l'evoluzione di questo.
L'omphalos è in genere lavorato a rombi. in modo più semplice o più decorativo, ma sempre di rombi si tratta e il significato è evidente: è la pelle del serpente. Tanto è vero che perfino il Mitra romano che nasce dalla roccia, come si può ammirare nel Mitra bambino di Palestrina, nasce in effetti da una roccia a rombi, insomma da un omphalos. Le squame di serpente ricordano il simbolo di ogni Grande Madre della terra, dal Mediterraneo all'Asia, dall'America al Giappone hanno tutte in comune il simbolo del serpente

UMBILICUS URBIS


L'UMBILICUS URBIS

L'Umbilicus Urbis Romae è una costruzione conica in mattoni alta 2 m e con un diametro di 4.45 m. che si ritiene risalga all'epoca severiana, posta infatti tra i Rostra e l'Arco di Settimio Severo. Come l'omphalòs greco è il centro del mondo, così l'ombelico di Roma, non solo è il centro della città, ma poichè l'Urbe è la Caput Mundi, anch'esso è il centro del mondo.

Narra Plutarco che Romolo scavò una fossa circolare “nel luogo che ora è chiamato Comizio” e vi gettò dentro le primizie di ogni cosa, insomma un'offerta sacrificale agli Dei, ma non si parla di animali uccisi bensì di primizie, il che fa pensare a un antichissimo rito alla Dea Terra, a cui si dedicavano le primizie dei campi. I seguaci di Romolo, a loro volta, vi gettarono un pugno della loro terra di origine, in tal modo le terre si univano sotto la stessa Dea e la stessa Urbe. Sembra che lo stesso rituale, di gettare un pugno della terra natia nell'umbilicus, fosse rimasto per ogni nuovo cittadino romano. Questa fossa venne chiamata dai Romani Mundus, Festus lo chiama "ostium Orci", cioè il cancello dell'Orco, dove Orco era sinonimo di Tartaro o Averno, insomma il mondo dei morti.

Plutarco precisa che la fossa era considerata il centro del solco circolare intorno ad essa tracciato con un aratro, trainato da un bue e da una vacca: questo solco era il pomerium di Roma. Insomma un rito consacrato dalla coppia dei due buoi, ancora simboli lunari dell'antica Dea. La testa del bue veniva spesso scolpita nelle erme sacre insieme alle fronde di alloro, ma se l'erma era dedicata ai Mani al posto della testa c'era il cranio del bue, il cosiddetto bucranio, simbolo equivalente alla luna nuova, al mondo degli inferi, alla cornucopia vuota, a Diana che si ritira nelle grotte e così via.

La costruzione di forma conica ha una porticina per consentire l'accesso all'area sotterranea e un tempo era impreziosita di marmi bianchi e colorati. Il fatto di essere il centro della città e di avere una cavità sottostante lo riporta al Mundus Cereris, ovvero il confine fra il mondo dei vivi ed il mondo dei morti. La fossa, di forma circolare come tutti i templi arcaici, era chiusa da una pietra e rimaneva chiusa per tutto l'anno ad eccezione di tre giorni, il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre, durante i quali "mundus patet", ovvero il mondo è aperto, con la possibilità dei morti di invadere il mondo dei vivi.

L’apertura del mundus stabiliva una comunicazione con gli Dei Mani, con gli Dei Plutone e Proserpina, regnanti sull'oltretomba, e col popolo dei morti. Essa era detta lapis manalis perché da lì passavano i Mani, ovvero le anime dei morti buoni, dei parentes, delle persone di famiglia dalle quali ci si aspetta protezione e benevolenza anche dopo la morte.

In quei 3 giorni in cui mundus patet, giorni sacri e solenni, era proibito svolgere qualsiasi attività pubblica: pertanto era considerata cosa empia non solo dare battaglia o cominciare una guerra, ma anche arruolare soldati, salpare con le navi o unirsi alla moglie per avere figli. Circa il primo interdetto, Varrone sottolinea e conferma come i Romani “ritenessero che era meglio andare a combattere quando fosse chiusa la bocca di Plutone”, ovvero la bocca degli inferi.

Molte città sia latine che etrusche avevano il loro omphalos, soprattutto nel Lazio e in Etruria, anche se Plutarco sostiene che l'origine dell'omphalos sia etrusca.



MUNDUS PATET

Per Macrobio "Mundus cum patet, deorum tristium atque inferum quasi ianua patet." cioè quando si apre il mundus si apre la porta del mondo inferiore e triste degli Dei. Come mai questo mondo è considerato così triste quando le nozze di Plutone e Proserpina, nonchè di Bacco e Arianna identificati con le predette divinità, furono nozze d'amore e di grande festa? Forse non erano gli Dei ad essere tristi ma gli uomini lo erano pensando alla loro morte.

Per Festo "Mundo nomen impositum est ab eo mundo qui supra nos est.", cioè che il mondo sotterraneo prese il nome da quello superiore, ma come mai dovette specificarlo? Viene il dubbio che il termine Mundus indicasse invece il mondo sotterraneo dei defunti da cui derivò per estensione anche il nome del mondo supero. Viene in mente perchè nei tempi arcaici si contavano le notti anzichè i giorni, e la divinità principale era la Dea Luna anzichè il Dio Sole, e pure il fatto che Festo pensi sia bene puntualizzarlo.



IL CORDONE OMBELICALE

In latino ombelico e cordone ombelicale si traducono con la stessa parola, per cui l'ombilicus è esattamente il cordone ombelicale del mondo con la Madre Terra. La Terra, una e trina, dà la vita agli esseri, li nutre e li riaccoglie alla morte nel suo grembo oscuro. La vita per tutti era dunque eterna ma con forme diverse, continue e susseguentesi, come una plastilina che venga ogni volta reimpastata e rilavorata con forme differenti. L'umbilicus era pertanto collegato all'utero della Grande Madre, non per nulla Iside veniva chiamata "Utero d'oro" nella sua veste di "Madre dei viventi", titolo trasferito dalla Chiesa a Eva.

L'umbilicus pertanto unisce un mondo visibile con una madre invisibile, e dunque l'origine della vita è nel buio e nel ventre della terra, come per il bimbo è nel buio dell'utero. C'era infatti in tempi remoti l'idea di una Natura Naturans invisibile e una Natura Naturata visibile, cioè il mondo in cui viviamo. Esse erano in fondo la stessa cosa. l'identica essenza, solo che gli uomini riuscivano a percepire fisicamente solo la seconda, considerata però bella e importante come la prima.

Di quell'invisibile mondo facevano parte anche i morti, nonchè i vari Dei dell'oltretomba, tutti derivanti dallo stesso ombelico, ovvero attaccati allo stesso cordone ombelicale. Quando l'essere si staccava dal cordone rientrava nell'utero pronto a nuova vita.

Domanda:
perchè l'Umbelicus un tempo era un betilo, una pietra eretta insomma (vedi il misterioso dead egizio o l'albero di maggio italico) mentre poi è diventato sotterraneo con una grotta e un altare?
Risposta:
perchè allontanandosi dalla natura l'essere umano l'ha posta nel profondo dell'inconscio, mentre i popoli più antichi ponevano gli Dei sulla terra. Non solo, ma essendo nel buio dell'inconscio fa pure paura, ma non dimentichiamo che Plutone, Dio degli Inferi, era anche Dio della ricchezza, da cui il termine Plutocrazia, cioè il dominio dei ricchi (come oggi). Solo che la ricchezza cui si alludeva era dell'anima che si schiudeva in uno scrigno di energie a chi riusciva a scendere nell'Ade..


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ARGENTI ROMANI

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tazza di Tiberio


 "… A me, dico la verità, piace l’argento. Ho cento orcioli o giù di lì, della misura di un’urna: in una c’è scolpita Cassandra che uccide i figli, e i bimbi morti son fatti in modo da sembrare proprio vivi. Ho poi un’anfora lasciata dal mio patrono, dove Dedalo chiude Niobe nel cavallo di Troia. Su certe coppe ho i combattimenti di Emerite e Petraie, e come pesano!" (Petronio Satyricon 52)

Fu soprattutto il contatto con i Greci e prima ancora con la Magna Grecia a far sorgere nei romani l'amore per il buon gusto, per l'arte e per l'argento. Ma in parte ne derivarono pure dai raffinatissimi etruschi.



 LA MONETAZIONE

 L'argento nella monetazione romana riguardò soprattutto il Denaro d’argento la moneta prevalente nell’età imperiale romana. Dal 15 a.c. la coniazione fu riservata all’imperatore.

DENARIO DI AUGUSTO
La proporzione dell’argento nella lega però calò da Nerone in poi, fin quasi ad annullarsi nel III sec,.
Il giusto titolo venne poi ripristinato da Diocleziano. con lega d’argento ad alto titolo 700/1000.

Questo non è in effetti il titolo più alto a cui può essere lavorato l'argento, i romani usavano per l'oggettistica l'argento a 925 /1000 perchè allo stato puro sarebbe troppo tenero e si piegherebbe facilmente,

L'argento è stabile nell'aria pura e nell'acqua pura, ma scurisce quando è esposto all'ozono, all'acido solfidrico o all'aria contenente tracce di composti dello zolfo.
Costantino mise in circolazione il miliarensis, equivalente al valore di 1/1000 di libbra d’oro ma in argento, esattamente di 4,55 g d’argento.

In Italia si usa oggi il titolo di 800/1000, mentre i paesi anglosassoni udano la titolazione romana di 925/000, il titolo più alto in cui è possibile lavorare il metallo prezioso.



I SERVIZI DA TAVOLA

Quanto al vassoio, vi campeggiava un asinello in corinzio con bisaccia, che aveva olive bianche in una tasca, nere nell’altra. Ricoprivano l’asinello due piatti, su cui in margine stava scritto il nome di Trimalcione e il peso dell’argento. E vi avevano saldato ancora dei ponticelli, che sostenevano ghiri cosparsi di miele e papavero. E c’erano dei salsicciotti a sfrigolare su una graticola d’argento, e sotto la graticola susine di Siria con chicchi di melagrana”. (Satiricon - Petronio)

L'uso dell'argenteria nasce anzitutto per i servizi da tavola, intorno al 100 a.c come elemento caratteristico dei banchetti e dello stato sociale di chi ospita.

Da Marziale e da Plinio il Vecchio (Nat. hist.,XXXIII) sappiamo che si venne a creare un mercato d'arte, nei quale i collezionisti appassionati offrivano prezzi audaci per le opere dei celebri orafi greci (Mentor, Kalamis), tanto da provocare un'attività di imitatori falsari.

 Ma anche per le statue e per l'argento vi fu una corsa, solo che mentre le statue per la loro superiorità erano solo imitabili, gli argenti greci furono invece solo uno spunto, perchè gli argentieri romani nulla avevano da invidiare agli elleni.

 La corsa all'argento da esibire a tavola o come suppellettili di lusso fu pure uno status simbol, poco finemente esibito a suon di libbre. Ne fece testo Pompeo Paolino, governatore della Germania Inferiore, amico di Plinio, che ne possedeva 12 mila libbre.

In Italia si usa oggi il titolo di 800/1000, mentre i paesi anglosassoni udano la titolazione romana di 925/000, il titolo più alto in cui è possibile lavorare il metallo prezioso.

 Ma il buon gusto dettava scelte diverse: i raffinati si contentavano magari di pochi oggetti ma di grande qualità, i più rozzi, specie tra i liberti, miravano a impressionare per il numero e il peso dei loro servizi da tavola.



LA STATUARIA

 L'argento romano però non si limitò al vasellame ma entrò pure nella grande statuaria; numerose iscrizioni conservano il ricordo di statue onorarie che, erette in luoghi pubblici, avevano attirato la cupidigia per il metallo prezioso, si che furono le prime ad essere abbattute dal nuovo cristianesimo iconoclasta.

STATUETTA DI GIUNONE
Sopravvisse invece nella statuaria più piccola, perchè era possibile nasconderla, come nei ritratti di imperatori (p.es. di Lucio Vero da Bosco Marengo) o di privati (busto di Vaison-la-Romaine), nonchè statuette varie (il cavallo d'argento del Louvre e le statuette-saliere di Chaourse, Nikolaevo e Saida).

 Ma c'erano anche statuette di divinità per la buona fortuna durante un banchetto, come la Dea Fortuna qui a lato, tutta in argento e ornata con dorature varie che, posta sulla tavola, era oggetto di vari brindisi sacrali per la buona sorte dei commensali.

Ma riguardarono pure immagini di divinità (le statuette del tesoro di Mâcon), in numero piuttosto elevato.

Perfino il mobilio ebbe una larga produzione d'argento, in elementi pieghevoli (sepoltura di Concesti), appliques per poltrone o per casse (tesoro dell'Esquilino), sostegni per tavolo (tripode di Polgardi, in Ungheria).

C'erano poi gli scrigni per gioielli, per profumi o per abiti, come nel tesoro dell'Esquilino della II metà del IV sec., analoghi a quelli riprodotti in un contemporaneo mosaico di Sidi Ghrib, presso Tunisi, con scena di toletta femminile.

Mentre alla fine della repubblica e nel I sec. l'attenzione degli orafi era attirata soprattutto dal vasellame potorio, con la fine del I sec. e almeno sino alla fine del III gli oggetti più raffinati sono costituiti dai piatti, e in genere dalle forme aperte.

LUCIO VERO
Come si è visto a Pompei, la diffusione degli oggetti d'argento nel mondo romano interessava una porzione molto ampia della società: accanto a tesori particolarmente spettacolari, come quelli di Boscoreale o della casa del Menandro a Pompei, veri e propri servizi da tavola, sono attestati ritrovamenti più modesti, limitati talvolta a pochi pezzi.

La maggior parte dei romani anche se non era ricca era comunque benestante perchè poteva concedersi anche un po' di superfluo.

In epoca tardo-antica appaiono con più frequenza i nomi dei proprietari dei tesori d'argenteria, come i Turcii per il tesoro dell'Esquilino, i Cresconii per quello di Cartagine, o il peso di ben 100 kg nel tesoro di Treviri, oggi scomparso.

Il gusto per l'argenteria si diffuse per tutto l'impero, fino a risentire della scarsità del metallo per battere le monete in argento.
Le miniere principali derivavano dalla Penisola Iberica, ma pure dall'Anatolia, e nella regione di Kosmaj (ex Iugoslavia).
Spesso l'argenteria rovinata o passata di moda veniva rifusa e di nuovo modellata.



LE TECNICHE

Le tecniche della lavorazione dell'argento cambiarono col tempo: nel I sec. si usò molto lo sbalzo, come le due coppe con centauri di Berthouville.

Nello sbalzo si esegue,l'opera in "negativo", modellando delle concavità nella lastra, che a lavoro finito diverranno rilievi.

BROCCA PELEGRINA
TES. ESQUILINO
Nel II e nel III sec. lo sbalzo passò di moda mentre vennero molto usate la fusione a cera persa e il cesello, come nel tesoro di Vienne. Il metodo a cera persa consiste nel creare un modello di cera e per farne uno stampo di argilla.

 Praticando due fori sullo stampo, uno in alto e uno in basso si fa uscire la cera scaldandola e si versa argento fuso al suo posto.

Se ne ricava un modello identico a quello di cera. Nello stesso periodo di sviluppa il niello, tecnica che consiste nel coprire i tratti di un'incisione con il niello ridotto in polvere.

 Il niello è una lega di zolfo, rame, argento e piombo, usata come intarsio nell'incisione di metalli.

 Il «piatto di Arianna» del tesoro di Kaiseraugst assommò, secondo la moda del tempo, la maggior parte delle tecniche in uso intorno al 350: la doratura, la niellatura e il rilievo, ottenuto con una leggera depressione dei motivi geometrici.

 Il gusto per il rilievo conosce una ulteriore evoluzione, come nell'anfora di Porto Baratti in Toscana, ornata con file di piccoli medaglioni ovali che imitano in maniera perfetta pietre incise.

 L'argento costituisce anche un elemento importante nelle largitiones imperiali (v. vol. IV, Largizione, piatti dì), soprattutto nel IV sec., periodo ricco di esemplari (tesoro di Nis, ritrovamento di Cervenbreg in Bulgaria per i decennali di Licinio, tesoro di Monaco, per gli anniversari dei figli di Licinio e di Costantino).

MESTOLO, TESORO DI HOXNE
ln alcuni casi la decorazione figurata è elaborata (come nel missorium di Teodosio e in quello di Valentiniano), il più delle volte è molto semplice (coppe di Niš): ciò che conta è soprattutto il peso del metallo.

Nel cristianesimo si incitarono i fedeli alla generosità (Vita di Santa Melania, 19), fondendo preziosi oggetto di argenteria per ricavarne denarom da dare ai poveri ma soprattutto alla chiesa.

Ciò spiega l'abbondanza di lingotti in epoca tardoantica.

 Peraltro, anche se si rimane colpiti dall'altissima qualità dell'argenteria del vasellame romano che si mantiene costante nel corso di tutta l'età imperiale, è soltanto nella tarda antichità che si sviluppa un sistema di marchi.

 Si usano prima sui lingotti, alcuni dei quali, contrassegnati da un marchio ufficiale di origine controllata (l'immagine di una Tyche), sono detti di puro argento«pusulatum»; sugli oggetti i marchi invece continuavano a essere, nel IV e nel V sec., eccezionali e spesso poco comprensibili.





LE FORME DEI VASI


 ALABASTRON 

Vasetto per olii e profumi, d'uso quotidiano o nelle cerimonie funebri. prende nome dall'alabastro in cui era originariamente prodotto dall'Egitto, e poi diffuso in Grecia e in Roma.

Di ridotte dimensioni, per poter stare nella mano di chi lo usa. Aveva un corpo longilineo e allungato, senza manici, e collo abbastanza stretto da permettere al liquido di cadere goccia a goccia.

Aveva tre forme fondamentali:

- quella corinzia, VII - VI secolo a.c., con corpo allungato più gonfio verso la base,  di 8/10 cm;
- quella attica, più lunga (fino a 20 cm), fine del VI sec. a.c. fino inizio del IV,  con profilo a collo distinto e base arrotondata;
- quella piriforme dei siti archeologici dell'Etruria e della Grecia orientale.



ANFORA 

Grosso vaso a due anse, di forma allungata e strozzata all'imboccatura, terminante in una punta o in un piccolo piede per l'infissione nella sabbia o appositi sostegni.

 Era utilizzata per contenere olii, vini, cereali, cibi in salamoia. Aristofane cita anfore “ piene di rosso e odoroso vino” ed Euripide parla di un’anfora di latte, Senofonte allude all’anfora che contiene delfini (Anabasi)
28), sicuramente in salamoia.

 Compaiono nel tardo impero le grandi anfore in argento con superficie decorata a sbalzo con motivi a fregio marino, e amazzonomachia (Concesti), o corteo di satiri e baccanti (tesoro di Seuso). Hanno collo leggermente rastremato, quasi cilindrico e due anse plastiche.

Queste anfore hanno  il collo leggermente rastremato, quasi cilindrico e due anse plastiche, a forma di centauro la prima e di pantera la seconda. Di forma simile, ma assolutamente unica per
schema decorativo, é l’anfora, ora mancante delle anse, ripescata nel mare di Baratti.



ARIBALLO 


Piccolo vaso globulare con collo stretto ed una sola ansa dotato di un piede piatto.

Utilizzato dagli atleti o dalle donne come contenitore di profumi e unguenti. Pieno o con largo foro centrale.

Spesso il vasetto é riprodotto in scene figurate sia pendente dal polso degli atleti che appeso alla parete di una stanza con lo strigile ed altri oggetti della toeletta maschile.

Oppure è rappresentato a parte su un tavolinetto o una mensola mentre le donne fanno il bagno.

Questo in alto è in ceramica e di carattere votivo o almeno apotropaico, in quanto dedicato ad Atena, a cui la civetta era sacra.

Quello sottostante è la forma più usuale dell'ariballo, con tappo più o meno grande, talvolta con minuscole anse ma solo decorative.

Se in ceramica veniva decorato, oppure era in bronzo o in argento, ma spesso anche di vetro.



ASKOS

Vaso “a forma di otre” con ventre allungato a pareti convesse a volte asimmetriche, con collo corto e asimmetrico. L’apertura é allungata e obliqua, più alta sul lato opposto all’ansa,

Labbro espanso e orlo obliquo. Fu utilizzato per contenere e per versare liquidi, soprattutto vino ed olio.

Soprattutto nelle realizzazioni in ceramica  riprodusse figure di uccelli e di anatre, mentre nelle versioni in bronzo o in argento la decorazione venne riservata alle anse.



BICCHIERI

In argento o in stagno, costituiscono un elemento importante nei servizi di argenteria del I secolo, come quelli della Casa del Menandro, di Boscoreale e di Hildesheim, preziosamente e riccamente decorati. In seguito prevalsero quelli di vetro.

Varie forme, che compaiono di regola in una o due coppie, consentono di risalire alle abitudini nel bere e a forme destinate a particolari bevande. 

Nei ritrovamenti del III e del IV secolo sono, invece, rari o mancano del tutto, quando vengono sostituiti da recipienti in vetro che presentano le stesse forme dei pochi documentati in argento.



 BOTTIGLIA 

Recipiente in bronzo o argento per versare i liquidi; si distingue dalle brocche per l’apertura più stretta e il maggior pregio.

Nel Tesoro di Cartagine si trova una bottiglia in argento su piede quadrangolare svasato, con corpo circolare schiacciato e lungo collo, bocca svasata a becco che si restringe leggermente verso l’alto. Sul corpo sono rappresentati una testa femminile di profilo, mentre sui fianchi alcune protomi

Fa parte del Tesoro dell’Esquilino una bottiglia in argento a forma di fiaschetta con collo lungo e stretto e bocca larga.
La decorazione, di medaglioni circolari formati da girali vegetali, copre interamente la superficie, con geni intenti in diverse attività e animaletti che riempiono lo spazio tra i tondi.
Vi si versavano vini particolari o vini dolci o spumanti, che già esistevano all'epoca.



BROCCA 

In bronzo o argento, con imboccatura larga, ansa verticale e coperchio. La brocca biconica, in particolare fu molto diffusa.

 A Pompei le brocche hanno ansa verticale e imboccatura circolare, stretta o di medie dimensioni.

Di solito contenevano vino già allungato con acqua. In età primo impero di rado sono grandi e raramente decorate.

 Nel IV sec. d.c. le brocche sono invece anche di notevoli dimensioni, più slanciate e decorate da scanalature tondeggianti o sfaccettature verticali, o con raffinati motivi geometrici, animati da piccoli animali, resi a niello.  Quella a lato è rifinita ad incisione e risale al IV sec. d.c.



CALICE

Nei tesori di argenteria tardo-antica compare il calice con coppa emisferica su alto stelo elaborato, con piede a disco orlato da grosse sfere.

Presto passò ad uso della chiesa cattolica.

Sostituito poi definitivamente col vetro per quel che riguarda la tavola, ma divenne invece oro e argento per la chiesa.. 



CANTARO

 Grossa coppa di argento o ceramica per bere, sempre dedicato a Bacco, provvisto di piede e di due grandi anse che sormontano l'orlo. Coppa ha il corpo ovoidale o emisferico, poggiante su un alto piede, con due anse verticali slanciate, che talora sormontano l’orlo. Il corpo é spesso decorato o con motivi vegetali o con scene figurate.

Se ne usarono in ceramica, in bronzo e in argento.
Quelle in argento venivano per lo più incise, talvolta sbalzate e incise.

Il cantharus in argento con Tritoni e Nereidi da Pompei, I sec. a.c., con unica ansa sopraelevata ha ricca decorazione a cesello. Sempre a Pompei, decorati da tralci di ulivo, i cantharus del servizio della Casa del Menandro, hanno due anse sopraelevate non saldate all’orlo, con lavorazione a sbalzo.

Era decorativo ma veniva anche usato per offrire frutta fresca, datteri, frutta secca e dolciumi secchi.



COPPA

Di dimensioni maggiori rispetto alle coppette, in bronzo o argento, in genere senza anse.

Usatissima nella prima età imperiale, due esemplari splendidi con busti-ritratto di privati sono stati rinvenuti a Boscoreale.

Gli esemplari in bronzo di Pompei presentano pareti convesse e imboccatura molto più ampia della base che può essere portante, o su tre piedi o ad anello.

 Usata per frutta, datteri etc. 



COPPA A CONCHIGLIA 

In argento, a valva di conchiglia, resa in modo naturalistico o stilizzata.

Priva di piede, senza presa o sospensione, o provvista di due anse mobili o di un anello di sospensione.

La coppa a conchiglia in argento, di epoca tardo-antica, del Tesoro dell’Esquilino é decorata all’interno da una raffigurazione di Venere assistita nella toilette da due amorini, alla presenza di Adone.

Usata per offrire impasti di pesce o salse a base di pesce o ostriche.



CRATERE


Grande vaso usato nell'antichità classica, dotato di una larga imboccatura, in cui si mescolavano l'acqua con il vino.

Per lo più era di forma emisferica, fornito di un piede e di due anse o manici.

Solitamente veniva usato dopo il pasto, veniva portato alla mensa da uno schiavo che attingendo con un vaso ad ansa alta, riempiva le coppe (Kylix) di ciascun convitato.



FIASCHETTA o Ampulla 

Vasetto da toilette in bronzo o argento, per contenere oli e unguenti, indicato dalle fonti come lekythos o ampulla, di piccole dimensioni a collo stretto e corpo espanso, in genere con tappo e catenella.

Le catenelle di sospensione servivano per essere allacciate al polso dell’atleta, o collegate ad un anello di metallo e a corregge di cuoio insieme ad altri oggetti da palestra, come strigili e bacinelle. 

Le fiaschette di epoca tarda in argento presentano il corpo schiacciato a doppio disco e sono decorate a sbalzo con motivi sia pagani che cristiani, come i due esemplari rinvenuti con altre argenterie cristiane nella casa dei Valerii sul Celio.



KOTYLE 

coppa profonda con due anse, in bronzo, argento o oro. In età orientalizzante sono documentate a Preneste, in Etruria e in Campania.

Decorativa o per offrire frutta etc.



KIATHOS

Piccolo recipiente (e misura) di cui ci si serviva a mo' di ramaiolo per attingere il vino dai crateri.

Speciali quelli eseguiti in Etruria in bucchero, ceramica nera, molto raffinata e sottile, come nella figura a fianco, nonchè costosa.

Meno costoso il falso bucchero, che era un'imitazione, dove l'oggetto aveva una copertura di tinta nera ma non aveva l'impasto nero come il bucchero, e pertanto lo spessore della ceramica non era sottile nè lucido come quello autentico.
Se ne facevano in ceramica, in bronzo e in argento.



LANKS 

 Vassoio da portata in argento di varie dimensioni, sia ovale che rettangolare.

Faceva parte del servizio da tavola, dell’argentum escarium, cioé piatti e vassoi da portata per cibi solidi.

A Pompei e a Boscoreale ne sono stati rinvenuti di tondi, elegantemente decorati nelle anse o lungo i bordi. Le anse del grande piatto da Boscoreale sono ornate da delfini; quelle della Casa del Menandro sono a testa di Sileno circondata da due oche spennate.

Nei servizi di III e IV sec. d.c. i tondi diventano più rari, mentre i vassoi da portata, di misure diverse e di varia forma, sono completamente ornati e incisi a soggetti mitologici.



CANDELABRI

Sui tavoli dei romani spiccavano vasi e candelabri di ogni tipo, d'argento e di bronzo, e talvolta in oro, oppure dorati.

Pochi sanno che il vermeille francese fu inventato dai Romani, o almeno lo praticarono prima di loro, ma con una lavorazione speciale, perchè ribattevano l'oro sopra l'argento fino a che non si fondeva almeno superficialmente con l'argento sottostante.

Non una doratura come il vermeille francese, ma una specie di lega a freddo.

Per farsi luce i romani usavano candelabri, torce, lanterne e lucerne, e le più ricche erano naturalmente in argento.



COFANETTO

Contenitore d'argento con coperchio atto a contenere oggetti da toeletta.

COFANETTO DELLE MUSE
Due cofani fanno parte del Tesoro dell’Esquilino,  330 - 370 d.c.
Il primo cofano é di forma rettangolare con coperchio, lavorato a sbalzo e parzialmente dorato. Presenta due maniglie sui lati brevi e quattro piedi.

Sul coperchio, al centro, due eroti sostengono una corona d’alloro con i busti di un uomo e di una donna la cui identità é rivelata dall’iscrizione che corre lungo l’orlo del coperchio: Secundus e Proiecta.

La scena rappresentata sulla parte posteriore del coperchio é stata interpretata come l’avvio della sposa al matrimonio, mentre le altre scene sono di carattere mitologico. Il carattere dell’iscrizione e le scene rappresentate fanno interpretare i due cofani come un dono di nozze.

L’altro cofano da toeletta é di forma circolare con coperchio a cupola con scanalature lisce alternate a pannelli piatti decorati, incernierato al contenitore vero e proprio e fornito di tre catenelle per la sospensione.

Il contenitore ha le pareti scanalate decorate a sbalzo, con la raffigurazione delle Muse, alternate a
pannelli piani con uccelli ed elementi fitomorfi. All’interno si trovano cinque bottiglie cilindriche
con coperchio destinate ad olii e profumi.



GRATTUGGIA

Se ne usavano in bronzo o in argento. Ma fu anzitutto usata dagli etruschi che ne avevano sicuramente almeno in bronzo.
Era di forma rettangolare con il bordo liscio su tre lati; i fori sono disposti secondo due diagonali che si incrociano al centro.

Questo tipo di grattugia é documentata in argento nella tomba Bernardini di Preneste.



KYLIX 

Per la degustazione del vino, durante i banchetti, venivano utilizzati recipienti di varie forme e materiali. 

La scelta del recipiente dipendeva dalla natura del vino e dal modo in cui veniva preparato: il vino poteva essere bianco o rosso, caldo o freddo, naturale o conditum, cioè mescolato a miele e a pepe.

Il kylix era un vaso tronco conico più ampio all'imboccatura che alla base, la differenza tra collo e base era scelta a seconda del tipo di vino da degustare, come noi oggi scegliamo un bicchiere da vino, da flute, o da cognac.



LOUTROPHOROS

Anfora dall'alto collo che serviva a portare l'acqua per i bagni rituali.

Usato in rituali di cerimonie religiose sia nei templi che nelle case private dal capofamiglia o dalla matrona per cerimonie particolari riservate alle donne.

Talvolta un tipo simile veniva usato anche per lavare le mani agli ospiti nei banchetti.

Naturalmente non era lo stesso vaso perchè gli usi religiosi non erano consentiti con gli stessi strumenti usati nel profano.



 MASTOS 


Recipiente di forma tronco-conica, più largo alla bocca che alla base.

Il nome deriva da « mammella» di cui il vaso ripete la forma. 
Dal greco mastós=mammella. Ha due anse ed era poco diffuso.

Tuttavia se ne fecero in ceramica e in argento.



OINOCHE 

Vaso di origine greca, fin dall'età minoica e micenea, e comparve pure nell'arte etrusca. Fu molto usato anche  dai romani, sia in argilla che in bronzo o argento.

Era panciuto ma di forma allungata, con un beccuccio trilobato e un solo manico verticale.

Veniva isato per attingere il vino mescolato con acqua dal cratere e versarlo nelle coppe.

Qui a fianco una oinoche apula.



 OLPE 

Brocca per versare e attingere liquidi, con un solo manico e corpo panciuto.
Molto simile all'Oinochòe



PELIKE

Tipo di anfora caratterizzata da collo tozzo e ventre espanso.



PADELLA 

In argento accessorio del servizio da banchetto, adoperata per lavare le mani.

Compare su un piatto in argento della fine del IV secolo da Cesena, che raffigura un servitore nell’atto di versare acqua da una brocca dentro la padella, mentre il convitato si sciacqua la mano.



PHIALE O PATERA

TESORO DI MORGANTINA
Nei servizi in argento del I sec. d.c. compaiono per la prima volta le casseruole, dette patere, che poi si diffonderanno sempre più.

La decorazione delle anse di questi primi esemplari presenta sottili tralci vegetali, rosette, conchiglie e animali marini, un tirso (tesoro di Boscoreale); nel servizio della casa del
Menandro é rappresentata in alto una testa di Medusa, mentre un altro esemplare presenta un
complesso motivo di scene di caccia con alcune parti dorate.

L’ansa generalmente é unita alla coppa
da un semicerchio che presenta alle due estremità delle teste di volatili.

Ma venne chiamata patera anche una casseruola di cui non si capisce bene l'uso, ara a due manici o con un manico unico, in genere orizzontale, come una padella. Però il recipiente era a casseruola e in quelli reperiti non v'è traccia che fossero stati usati sul fuoco.

Del resto cuocere l'argento lo renderebbe così nero e velenoso che nessuno sarebbe così sciocco da usarlo.

Evidentemente la casseruola veniva usata per contenere il cibo come piatto da tavola, evidentemente per un pasto alquanto liquido o almeno con parecchio sugo.

Del resto solo a tavola con gli ospiti si sarebbe usato un piatto da portata così costoso.

PEPIERE

PEPIERA

L’uso del pepe indiano sembra sia iniziato nel I sec. d.c., si sa che esistevano anche macinini per il pepe. Ecco tre pepiere romane, due a forma di animale e a destra quella della cosiddetta «Imperatrice», in realtà una donna ricca e acculturata.

Dal Tesoro della “Casa del Menandro” di Pompei provengono due pepiere d'argento, del I sec. d.c..
La prima ad anforetta con anse a nastro e piede a bottone sul fondo a sei fori, composta da due parti che si incastrano.
La seconda a sfera, scanalata, con disco a quindici fori saldato al fondo.



PIATTO 

A Pompei piatti fondi in bronzo con pareti convesse e base molto larga ma poco profonda.

I piatti dei servizi di argento del I secolo sono generalmente tondi, poco profondi, lisci, con anse orizzontali e la superficie decorata a rilievo.
Sono a stampo o in fusione.
Si ritrovano piatti ovali nella Casa del Menandro, in un servizio con un recipiente più grande e 16 piatti più piccoli.

I piatti, a volte con lo stesso stile delle coppette, sono decorati con piccoli medaglioni a niello e orlati con perle e astragali.
In epoca tarda compaiono i piatti da portata, anche rettangolari o quadrati, o con bordo poligonale, naturalmente più grandi. I piatti decorati all'interno con incisioni e medaglioni servivano per esclusivamente per arredamento.



 RYTON 

Vaso per bere o per libare.

In genere era a forma di corno o di testa di animale ed aveva due fori per introdurre e versare il liquido.
In Egitto sono stati pervenuti degli esemplari in terracotta, in pietra e in metalli preziosi.

A volte erano d'argento, a volte dorati o con inserti dorati.



SALINUM

Recipiente in argento per contenere il sale.
Nel tesoro di Boscoreale se ne sono rinvenuti quattro cilindrici, di elegante fattura, con sostegni in forma di zampa ferina.



SALSIERA 

Recipiente di bronzo poco profondo con becco versatoio.
Con base ampia o su tre piedi.
I Romani erano grandi estimatori di salse di ogni tipo, specie agrodolci.



SCIFO

Vaso di forma tronco-conica, adoperato a partire dal VI secolo a.c.

 Provvisto di due anse innestate obliquamente all'altezza dell'orlo.

Questo magnifico esemplare proviene da Pompei. Viene lavorato a sbalzo con applicazioni ottenute in fusione e saldate allo scifo.

 Le immagini sono ritoccate a cesello.



SCODELLA

Recipiente basso ma più profondo del piatto, cilindrico o leggermente troncoconico, in bronzo o in argento. 

Spesso avevano un grande medaglione lavorato sul fondo e una bordatura in fusione.
Talvolta erano dorate o con inserti dorati, o dorate solo all'interno.

 Vi si ponevano zuppe o creme, in genere attinte con la ligula, il cucchiaio di tipo fine.



SECCHIA 

Corrisponde all’attuale mestolo, con vasca più o meno piccola, a volte a forma di vasetto globulare, e da un lungo manico verticale o orizzontale.

 Spesso aveva un gancio o un anello di sospensione.

 Di solito era in bronzo o argento.

 Vi si servivano gli umidi o cibi in salsa o zuppe.




SITULA 

Vaso troncoconico od ovoide, in bronzo, argento e in ceramica.

Serviva ad attingere e contenere liquidi.

 Le più semplici erano usate pure nelle tabernae, le più ornate nelle domus.

 Se era grande come un secchio serviva ad attingere acqua dai pozzi.




I REPERTI 


I TESORI

Nel linguaggio archeologico si definisce "tesoro" un complesso di oggetti in metallo pregiato, oro o argento, ritrovati casualmente o in regolari scavi archeologici, costituenti originariamente una raccolta fatta in antico per tesaurizzare, appunto, oggetti preziosi e spesso per nasconderli dal pericolo di invasioni con furti o saccheggi.



TESORO DI MILDENHALL

Il tesoro di Mildenhall è un importante deposito di vasellame da tavola in argento di epoca romana, risalente al IV secolo e ritrovato a West Row, nel Regno Unito.

Il tesoro fu scoperto da un contadino nel 1942, mentre arava un campo. Venne segnalato alle autorità verso il 1946 e il tesoro fu dichiarato treasure trove («tesoro trovato»), cioè nascosto con l'intenzione di essere recuperato successivamente, e acquisito dal British Museum di Londra.
È composto da due grandi piatti da portata, due piccoli piatti da servizio decorati, una ciotola dal collo lungo, un servizio di quattro ciotole grandi decorate, due ciotole piccole decorate, due piatti piccoli su alzata, una ciotola flangiata profonda con ampio coperchio a volta, cinque piccoli mestoli rotondi con manici a forma di delfino, e otto cucchiai col manico lungo (cochlearia).

Il tesoro è composto da vasellame da tavola in argento appartenente a tipologie comuni nel IV sec, e fu probabilmente nascosto durante quel periodo. La maggior parte dei reperti è più grande della norma e sono tutti prodotti di alta qualità per la finezza dei modelli e dell'esecuzione.





GRANDE PIATTO DI BACCO

DETTAGLIO
Misura 605 mm in diametro e pesa 8256 g. Al centro è raffigurato Oceano, con la barba di alghe e delfini sui capelli. Egli è circondato da nereidi, tritoni e altre creature marine.

La zona esterna, invece, contiene satiri e menadi che bevono, suonano e danzano, in celebrazione del trionfo di Bacco su Ercole.

Questi è completamente ubriaco, sostenuto da due satiri, mentre Bacco è raffigurato con la sua pantera e Sileno, e c'è pure il Dio Pan che danza brandendo il flauto.



PIATTO DI PAN

In questo piatto, appartenente allo stesso tesoro, compare il Dio Pan che suona la siringa e una menade che suona un flauto doppio.

Intanto in alto una Dea, forse Venere, sta fra gli animali. In basso un serpente e un asino.

Sembra un piatto si stile vagamente dionisiaco, per lo stile






TESORO DI BOSCOREALE

Nel 1865 nel corso di scavi a Boscoreale, alle pendici del Vesuvio venne in luce lo straordinario tesoro di argenteria, composto da 111 pezzi, celato in un sacco di tela all'interno di una cisterna di una villa rustica.


SPECCHIO  DI LEDA

Specchio raffigurante Leda col cigno.
La Leda, seduta su una roccia, sembra stia nutrendo l'animale.

Proviene da Boscoreale.
Nel centro il medaglione è realizzato in fusione.

Il bordo è ribattuto e anche il manico è fuso.
Gli specchi potevano essere in bronzo lucidato o in argento lucidato



TAZZA DI TIBERIO

Tazza d'argento dal Tesoro di Boscoreale, Parigi, Musée du Louvre -
Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines.
Nel 1865 nel corso di scavi a Boscoreale, alle pendici del Vesuvio venne in luce lo straordinario tesoro di argenteria, composto da 111 pezzi, celato in un sacco di tela all'interno di una cisterna di una villa rustica.

La tazza illustra un trionfo sul carro col vincitore e il corteo celebrante e plaudente. Il vincitore è laureato e porta lo scettro, per cui dovrebbe trattarsi di Augusto.Tazza d'argento che rappresenta il carro trionfale di Tiberio.

Questa tazza ha un decoro altamente dettagliato e lavorato a sbalzo. Esso è parte del tesoro d'argento di Boscoreale, del I sec. d.c..
Vi si riconosce un imperatore che riceve tributi dalle province conquistate, un tema evidentemente propagandistico.
La parte del retro mostra il toro bianco che viene portato al sacrificio con il copricapo rivestito di piume aquila e lana.

La parte qui visibile raffigura Tiberio in piedi sul suo carro trionfale, inciso con una Vittoria che tiene un trofeo; tiene un ramo di palma e uno scettro sormontato da un'aquila.
Dietro di lui si trova schiavo in possesso di un corona d'alloro foglia sopra la sua testa. Parigi, Museo del Louvre.



TAZZA DI APOLLO 

Tazza con Tritone e Apollo bambino.
Proviene da Boscoreale ed è conservato al Louvre.




BROCCA GENIO ALATO

La brocca è lavorata a sbalzo e ritoccata a cesello.
Viene da Boscoreale.











COPPA MACABRA


Trattasi di due coppe con scheletri che suonano.

Molto ben fatte (sono due) e di grande spirito, resta da vedere se le trovavano spiritose anche gli ospiti.

Provenienza da Boscoreale, come parte del famoso Tesoro.



 TAZZA ULIVO

Sempre da Boscoreale, naturalmente proprietà del Louvre, una tazza incredibile, coi rami d'ulivo e le olive che circondano la tazza e spuntano da essa, il tutto in argento massiccio.

Qui ogni pezzo è realizzato in fusione e saldato alla tazza.



COPPA DELLE CICOGNE 

Provenienza dal tesoro di Boscoreale.
Nel 1894 Vincenzo De Prisco ritrova nei suoi terreni a Boscoreale, in località Pianella, dei ruderi in cui rinviene una serie di oggetti in argento, cioè il famoso Tesoro di Boscoreale.

Non si sa come mai il governo italiano non l'abbia impedito, fattosta che il tesoro arriva al Louvre.

Ne deriveranno indagini di Pubblica Sicurezza, querele, ambasciate, ecc. ma, si dice, per evitare che il prestigio del Governo Crispi venga intaccato da un simile scandalo, (ma lo scandalo non è l'aver perso il tesoro?) si addiverrà ad un accordo con il De Prisco.

Così il Louvre continuerà ad essere il legittimo proprietario di quei 128 oggetti in argento, tanto da poterli "generosamente" prestare al Museo Archeologico di Napoli nel 2006 per la mostra "Argenti a Pompei".

La maggior parte dei tesori italiani che giacciono in suolo straniero derivano da strani commerci, e succede tutt'ora.



BROCCHE DI BOSCOREALE

Si tratta di tre brocche, una di bronzo e due d'argento. Tutte e tre hanno il manico ottenuto in fusione e quindi lavorato a cesello.

Notare la più piccola, in argento che potrebbe essere denominata oggi una brocchetta stile impero. Potrebbe per esempio essere la lattiera di un attuale servizio da caffè in stile impero.



TAZZA INCISA DI BOSCOREALE

Elegantissima, senza fusioni, lucidata a specchio.

E' liscia all'interno e tutta incisa all'esterno con motivi floreali stilizzati.
Ha due manici lisci con un leggero solco centrale.

Il piede è unico con un bordo doppiamente perlinato (quello che i francesi chiamano perlè).




PATERA DI BOSCOREALE 

Ritratto di Cleopatra Selene, I secolo d.c., Parigi, Louvre.

Con dorature, animali, cornucopia, luna e ureo. Detta pure la "Coppa d'Africa"-

Qui Cleopatra è in veste della Dea Iside, signora degli animali come Grande Madre, con la cornucopia come Dea della Fortuna e con l'ureo dei faraoni egizi.




I TESORI DI POMPEI

Sembra incredibile ma questa brocca che sembra uscita dall'argentiere, ha circa 2000 anni e viene da Pompei.
I romani sapevano aver cura della propria argenteria, la proteggevano con morbide stoffe e la stipavano nelle casse se si trattava di argenteria da tavola.
Se invece era da mostrare al pubblico e faceva mostra di sè su un tavolino, la sera veniva tolta, lucidata con panno morbido e riposta nell'armadio o nel cassone, a seconda dei casi.

Eccezionalmente se il valore era molto alto o per ragioni varie, si riponevano nella cassaforte, perchè i romani avevano elaborate casseforti molto pesanti con numerosi e complicati catenacci.



VASO DI OMERO

O Calathus, è così chiamato perchè nelle sue immagini si rappresenta l’apoteosi di Omero.

Il vaso è di età augustea. Alto cm 12,5; del peso di g 795
Proveniente da Pompei.

lavorato a bassorilievo con bordi incisi.




VASO CON MANICO 

Vaso a tortiglione proveniente da Pompei.
Con il manico realizzato in fusione e con testina muliebre sul manico.

Il movimento a torcione, che verrà ripreso ampiamente nei vasi fiorentini del Rinascimento, era ottenuto battendo il metallo con una specie di martelletto.

Seguiva una levigatura, poi un bagno in argento puro e infine una lucidatura che rendeva l'argento ancor più splendente

SERVIZIO TOELETTA

SERVIZIO TOELETTA

A destra quattro stampi o formine d'argento a coste che somigliano a stampi per muffin.  Tre di esse riportano i nomi di Helvius Amandus and L. Herrenius Rusticus.
Vi si legge;

- Helvi Amandi p(ondo) I(librae) s(emissem) |(unciarum) |(semunciae) III
- Herenni Rustici p(ondo) I(librae) s(emissem) |(unciarum) II
- Helvi Amandi p(ondo) I(librae) s(emissem) |(unciarum) III
- L(uci) Herenni Rustici p(ondo) I s(emissem) |(unciarum) II
- Helvi Amandi p(ondo) I(librae) s(emissem) IV(unciarum) s(emunciae) III

Segue un grande specchio d'argento del diametro di 18 cm. e due spilloni per i capelli.
Al centro due cucchiai, facenti parte di un gruppo di cinque.

Supponiamo che ambedue le serie di ciotole facessero parte del servizio da toletta, anche perchè l'argento usato nel forno si annerirebbe in modo indecente.
Trattasi dell'argento trovato a Pompei e conservato nel Museo Archeologico di Napoli.

Qui a lato uno specchio d'argento di tema dionisiaco proveniente da Pompei.

Infatti vi è rappresentata una menade che cavalca un ariete accompagnata da eroti e geni alati.



 GRANDE ATTINGITOIO

Grande attingitoio, o Mestolo molto grande, o Patera, decorato con scena di caccia.

E' della Metà del I sec. d.c.
E' lungo cm 27,9 peso g 1075
Proveniente da Pompei, Casa del Menandro Napoli.

Museo Archeologico Nazionale



SERVIZIO TAVOLA POMPEI

Ci sono tre tazze a calice, un vassoio tondo con manici, un piatto a conca con manici, un colino piccolo, e uno strano vassoietto minuscolo issato su quattro zampi, in argento e forse avorio.

"… Rimosso con cura il poco lapillo e terreno filtrato a traverso lo spiraglio, liberato alquanto il vano dalle macerie di un muro abbattutosi durante la catastrofe, apparvero chiaramente i margini di una cassa di legno…rinforzata da spranghe e costolature in bronzo.
Negli strati superiori della cassa, erano raccolte in un sol gruppo le oreficerie e le monete di oro e di argento sfavillanti fra il lapillo: nello strato inferiore era invece tutto il considerevole gruppo delle argenterie, raccolte e disposte in serie, quasi tutte accuratamente avvolte in tessuto di tela pesante a grossa trama e del quale, a mano a mano che l’esplorazione procedeva, venivano anche raccolti grossi avanzi, come vecchi stracci marciti.
Le coppe figurate giacevano anch’esse al fondo della cassa con i piedi ed i manici dissaldati; e piedi e manici si rinvennero in buon numero quasi conficcati nella tavola di legno del fondo della cassa ed altri pochi si raccolsero con accurato vaglio di tutto il terreno… [gli oggetti erano] sfavillanti e bruniti come se uscissero or ora dalle mani dell’argentiere..."
(archeologo Maiuri - il rinvenimento del tesoro di Pompei)



TAZZA UCCELLI 

La tazza è decorata con spighe di grano, fiori e uccelli, soprattutto corvi che sembrano nutrirsi delle seminagioni.

Fa pensare a una filosofia di tipo stoico che guardava in faccia la morte senza paura.

Il manico, realizzato in fusione, ha una piccola maschera. Proviene da Pompei



TAZZA CON MANICI DECORATO A RAMI DI ULIVO 

Calice (cantharos)  lavorato con applicazioni saldate di piccole fusioni rappresentanti rami d’olivo e olive.

Fine del I sec. a.c. Alt. cm 12; del peso di g 435

Provenienza da Pompei, Casa del Menandro.  Napoli, Museo Archeologico Nazionale




POSATE 


CUCCHIAI E CUCCHIAINI

 Ecco cucchiai e cucchiaini, per chi crede che i romani non usassero posate.



CUCCHIAIO ARGENTATO

Ecco invece il cucchiaio della tipologia cignus, dal tipico manico ritorto, placcato in argento e decorato con una creatura marina mitica simile al capricorno.

Questa invece è la forchetta romana, ma quella da portata, ossia da carne.
Si dice infatti che i romani non usassero forchette, perchè nei piatti da portata il cibo era già sminuzzato e si prendeva con le mani.

Però la cosa non è certa, anzitutto perchè personalmente ho visto in una collezione privata una forchetta etrusca di dimensioni così ridotte da escludere il suo uso da portata, e se la usavano gli etruschi possibile che non la conoscessero i romani?



LA FORCHETTA BIZANTINA


Si dice che la forchetta personale sia stata inventata dai bizantini, ma come si può vedere è a sili due denti, mentre quella romana ed etruschi è a tre denti.

La questione è ancora controversa.
Se infatti nel coltello monouso ci rientra la forchetta ciò contraddice il suo uso da portata.

Delle posate da viaggio sono di stretto uso personale e ridotte all'essenziale.



COLTELLO MULTIUSO

Il famoso coltello svizzero è stato inventato dai romani. Ne è stato recentemente rinvenuto uno che ora fa parte dell'esposizione di antichità greche e romane presso la galleria del Fitzwilliam Museum, Cambridge. 

Il multiuso, in argento a 925, come usavano i romani e come adesso usano gli inglesi, comprende oltre al coltello, un cucchiaio, una forchetta, e un minuscolo falcetto, il che ribadisce l'uso romano della stessa.

"Il coltellino svizzero, multiuso e tanto piccolo da entrare in una tasca ha più di duemila anni. Si chiama così ma non è un’invenzione recente, bensì degli antichi Romani, almeno secondo un museo di Cambridge che proprio in questi giorni ne sta esponendo uno antico.

Al Fitzwilliam Museum sono convinti di avere trovato uno dei tanti utensili moderni già conosciuti dai nostri antenati. “Crediamo di trovarci di fronte ad un esempio di coltellino svizzero dell’antica Roma che include un cucchiaio, un coltello, una forchetta a tre punti ed una sorta di stuzzicadenti”, ha detto Lucy Theobald, portavoce del museo.

“La versione romana del famoso strumento multifunzione, in argento e ferro, è stato ritrovato nel Mediterraneo. Risale ad un periodo tra il 200 e il 300 d.c. e misura quindici centimetri e probabilmente apparteneva ad un viaggiatore”, ha aggiunto".




CUCCHIAIO DA PORTATA

Cucchiaio grande da portata

- da Pompei, Casa del Menandro - Pompei

- Lungh. cm 40,9; peso g 163

Museo Archeologico Nazionale  Napoli
Chiamato "Trulla" dai romani.




TESORO DI MORGANTINA



TESORO DI MORGANTINA

Nel 1865 nel corso di scavi a Boscoreale, alle pendici del Vesuvio venne in luce lo straordinario tesoro di argenteria, composto da 111 pezzi, celato in un sacco di tela all'interno di una cisterna di una villa rustica.

Si trattava del Tesoro di Morgantina, nel sito archeologico siciliano in provincia di Enna.

Era composto da vasi, coppe d'argento lavorate a sbalzo,piatti, mestoli, pissidi, persino due corna da elmo, del III sec. a.c., rimasto sepolto per 2200 anni, poi scavato di frodo, esportato illegalmente, comprato illegalmente dal Metropolitan Museum di New York e, infine, restituito.

Si tratta di 14 pezzi d'argento, tutti pezzi da Tavola, alcuni dorati, tutti di pregiatissima fattura.
Diversi pezzi sono dorati o con inserti dorati.



CAPITELLO ARGENTO CON DORATURE

Del tesoro di Morgantina. Questo capitello doveva far parte di un corredo funebre, o uno strumento di culto in onore degli Dei Mani.

Infatti il capitello è ornato da tralci di alloro sostenuti da bucrani, cioè crani di buoi.

Mentre i serti di alloro sostenuti da teste di buoi erano inerenti al mondo dei vivi e delle divinità cosiddette diurne, i bucrani riguardavano il mondo dei morti e degli Dei Mani, che erano appunto divinità dell'oltretomba.



SALIERA A TRE PIEDI


Fa parte dei 128 oggetti, per lo più da tavola, quasi tutti in argento, a volte dorato, finemente decorati ad incisione, a sbalzo, martellati o cesellati, con soggetti animali, vegetali, mitologici o anche ironici. 

Molti utensili per mescere e mescolare il vino, brocche a un'ansa, mestoli, colini, saliere, cucchiai, vassoi, portauova, tutti estremamente raffinati ed attuali, così ricchi da poter essere facilmente scambiati per rinascimentali oppure per ottocenteschi.

Su tutti spiccano le coppe, generalmente accoppiate a due a due per tematica decorativa. Questa bellissima saliera è stata poi copiatissima nell'argenteria italiana fin dal rinascimento a tutt'oggi.



VASO CON UN SOLO MANICO

Del tesoro di Morgantina, vaso con un solo manico, fuso e inciso a cesello, con inserti dorati e piccolo mascherone all'estremità del manico..

la base invece è liscia e di diametro inferiore all'apertura.

Le dorature si ottenevano non con il bagno come usiamo noi ma con l'applicazione di un minimo spessore d'oro che veniva battuto sull'argento fino a formare un tutt'uno, una specie di lega oro-argento.




COFANO DA TOELETTA CON AMORINO

Proveniente dal tesoro di Morgantina, è rotondo, con base larga munita di tre piedi a zampa di uccello.

E'un cofanetto da toletta, atto probabilmente a riporre gioielli.

Talvolta però dentro i cofanetti si riponevano gli attrezzi per il trucco, come spatole, spugnette e pennelli.

Il putto è ad altorilievo con una parte sullo sfondo incisa a cesello.




TESORO DELL'ESQUILINO


 ANFORA AMORINI

Fa parte del tesoro dell'Esquilino, vaso senza manici del IV sec., di 34 cm, lavorato a sbalzo con amorini, fregi e animali.

 Il corpo della bottiglia è decorato a bassorilievo, con due coppie simmetricamente opposte di volute arabescate, di sei spirali ciascuna, che sorgono da due calici d'acanto posti sul piede.

Ha piede unico e imboccatura stretta.

 Sotto il collo le volute contengono due gruppi di frutti rotondi e due coppie di uccelli, poi frutta, foglie, grappoli d'uva, uccelli, conigli, capre, una cavalletta e una lepre.

 All'interno dei principali quattro medaglioni sono raffigurati degli eroti:
- uno con un cesto di frutta;
- uno a cavallo di un asino che rovescia un cesto di frutta;
- un altro vestito con un mantello, seduto su di un cesto, intento a raccogliere l'uva, con vicino una capra;
- l'ultimo che coglie l'uva, con una ciotola, un uccello e della frutta.

 La parte superiore della decorazione è delimitata da una modanatura composta da due giri di foglie. 
Questo vaso può passare per rinascimentale e riprodotto pure ai giorni nostri.
Insomma è attualissimo.



COFANETTO DI PROIECTA

Questo è il Cofanetto di Proiecta, che sembra essere stato un regalo di nozze dal IV secolo per la coppia di Secundus e Proiecta.

Ci sono molte immagini pagane, in particolare di Venere, ma sulla scritta del coperchio si legge: "Secundus e Priecta, che possiate vivere in Cristo".

Evidentemente il donatore era cristiano, ma forse non altrettanto i due sposi.



TUBO D'ARGENTO PER ASSAGGIA VINO

Questo strano oggetto non era insolito per i Romani.
Essi lo usavano come tubo aspirante per tirare su una piccola quantità di vino.

Veniva fatto passare attraverso il tubo proprio perchè d'argento, in quanto questo metallo a contatto del vino lo migliora, o almeno toglie ogni sapore estraneo ad esso.

Oggi infatti il tubo non si usa più ma il sommellier deve essere ancora assolutamente in argento.

TESORO DI OXNE



TESORO DI OXNE

E' il più grande tesoro di oro e argento di età tardo-romana ritrovato in Gran Bretagna, e la più grande raccolta di monete in oro e argento del IV e V sec. rinvenuta all'interno dell'Impero romano. Ritrovato nel 1992 con l'aiuto di un metaldetector nei pressi del villaggio di Hoxne, nel Suffolk,

Il tesoro di Hoxne consiste di 14.865 monete romane in oro, argento e bronzo, oltre a circa 200 pezzi di vasellame in argento e di gioielleria in oro. Tutto il tesoro è ora conservato presso il British Museum di Londra, dove il tesoro è stato valutato circa 1,75 milioni di sterline.

Il tesoro fu sepolto in una scatola di legno di rovere, con gli oggetti ordinati e raccolti in cassette di legno più piccole, in sacchetti o avvolti nel tessuto. Resti della cassa e dei suoi accessori, come le cerniere e le serrature, sono stati recuperati nello scavo. La datazione è dopo il 407, la data della fine della dominazione romana in Britannia.

Il tesoro di Hoxne comprende diversi oggetti rari e preziosi, inclusa una catena per il corpo in oro e alcune pepaiole (piperatoria) in argento dorato.



TAZZA PALESTINESE

Mostra un uomo e un giovinetto in una scena erotica.


Lo stile di quieta e sorridente licenziosità, come del giovine che si aiuta a reggersi aggrappandosi a una fune, ricorda certe scene esplicitamente ingenue delle licenziosità di Pompei.

Il livello di esecuzione è molto buono.







TESORO CHATUZANGE


MESTOLO (ATTINGITOIO)

Mestolo d'argento con scene religiose pagane, da Chatuzange, II - III sec. Londra, British Museum.
Questo mestolo raffigura la Dea Iside, come dimostra il sistro tiene nella mano sinistra.

La Dea tiene nel suo braccio destro una cornucopia, suggerendo anche gli attributi della Dea Fortuna.
Di seguito è riportato un santuario o tomba e un altare curato da una sacerdotessa o una donna fedele della Dea.

Probabilmente fa parte di un corredo funerario.

Sui rilievi sul manico dettaglio: la Dea Iside con sistro e cornucopia, donna che accende una torcia per un altare.

Una serie di splendidi oggetti d'argento vennero reperiti nel XIX sec., conosciuti con il nome di Chatuzange Treasure; oggi il tesoro è esposto al British Museum.


Questo piatto riproduce nel medaglione una bellissima fusione delle tre Grazie.




TESORO BERTHOUVILLE

Trattasi di un tesoro d'argento (ma anche di altri metalli) romano scoperto a Berthouville nel marzo 1830, nel Casale di Villeret, dipartimento Eure della Normandia, nella comunità di Berthouville, Francia settentrionale.

Acquistato al tempo della scoperta per modesti 15.000 franchi, il Tesoro è conservato nel Cabinet des Médailles presso la Biblioteca Nazionale, Parigi.

I Giochi Istmici. Vaso d'argento ad essi dedicato. 
Fu eseguito in Italia. 

Vi si rileva un'iscrizione votiva da parte di Q. Domitius Tutus che dedicò il vaso al Dio Mercurio, evidentemente per una promessa fatta al Dio in caso di vittoria. 

I romani usavano gli oggetti votivi come scambio. 

Vale a dire che l'uomo prometteva una ricompensa alla divinità in caso di grazia, e solo a grazia avvenuta si dedicava l'oggetto, mai preventivamente.

Il vaso è di squisita fattura.

Una phiale (vaso da libagione) facente parte del dono di Tutus al tempio di Mercurio Canetonensis, quali ex voto per grazia ricevuta.

La phiale, in argento, è a costoni con un bordo ribattuto.
Sotto il dettaglio del medaglione che sta al fondo del vaso.

Vi è raffigurata a rilievo una menade che versa da una lunga bottiglia del vino in un cratere e una pelle di pantera sullo sfondo.

Il tesoro risale alla I metà del I sec. d.c.
Il tesoro comprende 93 items, per un peso totale di 25 kg. molti degli items sono ciotole, tazze, brocche e phiale per libagioni.

Vi sono pure 2 statuette in argento di Mercurio e il busto di una Dea, probabilmente la Dea Maia madre di Mercurio, forse rappresentazioni romanizzate di divinità galliche.











DOMUS VALERIORUM

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DOMUS VALERIORUM

DOMVS VALERIORVM-XENODOCHIVM

I Valerii, famiglia aristocratica romana i cui membri più noti pervennero alle massime cariche dello Stato, soprattutto a partire dal III sec. d.c., tornarono a far parlare di sè nell'anno 1554 quando, scavandosi il suolo vennero fuori i  resti della ricca domus. L'edificio era grande e opulento, ma non esagerato, e conteneva la numerosa familia dei Valerii. Publius aveva avuto 5 figli, e la sua casa anche altri venti membri della sua famiglia, per non parlare del numero di schiavi, servitori e portieri.

La Casa dei Valerii ( Domus Valeriorum ), grande famiglia di origine Sabina, occupava una grande superficie sul Celio e fiancheggiava l’Acqua Claudia con vasti giardini in pendio. La storia dei Valerii iniziò nel 509 a.c. con Publius Valerius Poplicola che partecipiò alla caduta dei Tarquini e diventò il secondo console della Repubblica romana.

Notando il Pighio nel Cod. Leid. Lusac.« in horto monacorum s. Stephani prope sacellum divi Erasmi, ubi aedes Valeri Proculi fuisse veri simile est. . . reperta est tabula aenea cura duabus similibus sequentibus (1685, 1686): in quarum (aedium) atrio hae tabulae columnis affixae fuerunt: ibidemque basis statuae eiusdem Proculi (1693) reperta est ».
E così Nicholas Florent, altro epigrafista presente alla scoperta, ne indica il silo preciso "nel horto di s. Stephano rotundo, al lato alla chiesa di s. Erasmo, dove sono state cavate le reliquie dui atrio di Proculo viro clarissimo, nel cui atrio, nella colonna del peristilio erano istrumenti dei tre contratti scritti in rame"

Le tre tavole riportavano il nome di Quintus Aradius Rutìnus Valerius Proculus, governatore della provincia Valeria Bizacene nel 321, e quello dei municipii e delle colonie africane che avevano voluto rendergli onore, e perpetuare in varii modi i vincoli di amicizia e di servitù contratti con esso durante la sua gestione della provincia. Il piedistallo poi era dedicato a Lucius Aradius Valerius Proculus, prefetto di Roma nel
337, e console nel 340.

La ricca domus della Gens Valerii giaceva ai piedi della Velia, la terra che connetteva il Palatino col Colle Oppio ed era l'unica domus di Roma dove le porte si aprivano direttamente sulla strada. Secondo la tradizione, una casa sub Veliis (Asc. in Pison. 52, ubi aedes Victoriae=Vicae Potae), o in Velia (Cic. de Har. resp. 16), fu concessa a Valerius come un onore speciale (cf. Plin. NH xxxvi. 112, ).

PIANTA DELLA DOMUS
Le cose andarono così:
Valerio, dopo il suo trionfo, fu lasciato console unico senza collega ma quando iniziò a costruirsi una casa sopra la collina, la Summa Velia, il popolo temette si facesse una reggia per eleggersi re.

Valerio, saputi i sospetti, fermò la costruzione ed il popolo grato gli assegnò un pezzo di terra ai piedi del Velia, un'altura minore situata tra Palatino ed Esquilino, altura che oggi non esiste più, con il privilegio di avere la porta della casa aperta nella via del Foro, ma non più sopra la collina. (cf. Plin. NH xxxvi. 112, ), Secondo Dioniso invece gli fu concessa sul Palatino ( v. 39).

La splendida e immensa dimora sul Celio era celebre almeno quanto la gens che l’abitava: costruita in epoca repubblicana, rimase in piedi fino al V sec, d.c. Nel 404 i suoi ultimi proprietari, Valerio Piniano e la moglie, Santa Melania,  la misero in vendita. Ma a causa del valore eccessivo della lussuosa casa, la coppia non trovò acquirenti. Piniano e Melania, vittime di una bolla immobiliare come quella temuta oggi da chi ha investito nel mattone, sei anni più tardi svendettero per pochi solidi aurei quello che restava della Domus Valeriorum, finita nel frattempo in macerie dopo il sacco di Alarico.



VICA POTA

Vica Pota era un tempio secondo alcuni situato sopra la Domus Valerii, cioè sui suoi resti, om quanto Livio la loca " infra Velium ubi nunc Vicae Potae est aedes in infimo clivo "; ma non significa sopra la donus, bensì nella stessa area. Questa divinità, molto simile alla Dea Victoria, per cui il tempio era chiamato aedes Victoriae (come si identifica da l'iscrizione di un frammento di altare in TF 87 ) da Asconius (in Pis. 52) era un'antica dea italica, sicuramente antecedente ai Valerii e poi assimilata alla Nike romanam cioè Victoria, per cui è difficile pensare che fosse posteriore alla domus, ma piuttosto nei pressi.



VALERIIS MONASTERIVM S. ERASMI

Gli scavi riguardavano la parte del peristilio più lontana dalla chiesa di s. Erasmo. Sette anni dopo, cioè nel 1561, il card. Ippolito d'Este, amico e legatario di Uberto Strozza, la cui viiriia attigna agli scavi egli doveva avere visitato più volte, volle tentare nuovamente la sorte, e spinse le indagini sino al sito della Chiesa, la quale riapparve e fu finita di spiantare nel mese di marzo. I conti archeologici del Cardinale scoperti e pubblicati da Adolfo Venturi nel V Archivio dell'Arte a. 1890, p. 199 contengono, di fatto, le seguenti partite:

- 1561 22 genn. per pagare sei palle (pale) con li manichi le quali hanno a servire per la cava che si ha da fare a san Stefano Rotondo
- Iti d. scudi 6 à li cavatori de la cava de san S.° R.°.
- 16 d. à i cavatori
- de la cava di San S.° R.° scudi otto
- b. 92 per opere 48 fatte a detta cava, et per pagare un muratore col suo manovale per aver scoperto la chiesa di S Erasmo a la detta cava » .

Alle cose esposte fin qui si riferisce il seguente brano del Ligorio Torin.
XV, e. 97': « nel monte Celio sotto la giureditione di san stephano era uno antico monasterio di santo Erasmo et sendo cotale monasterio fabricato su la grande et magnifica casa di Proculo, un tempo esso monasterio è stato custodito et finalmente sendo annullato la chiesa è caduta et dissipata come il luogo stesso et adi nostri è stata spogliata di alcune cose antiche che vi erano, et tra esse una tavola scritta nella greca lingua in cui si leggono i beni et possessioni cet.».

La storia di questa insigne tavola di donazione di fondi rustici, che si attribuisce ai tempi di Adeodato II (672-676), è stata rifatta nuovamente dal Gatti (in Bull, com, t. XXX, a. 1902, p. 164 seg.) e dal Camobreco (in Archivio S. li. S. P. t. XXVIII, a. 1905, p. 273 seg.). Trasferita con altri marmi di santo Stefano alla vigna Pariola dei pp. Gesuiti, la quale divenne proprietà del Seminario Romano dopo la soppressione dell'ordine nel 1774, la tavola di donazione fu vista in quel luogo dal comm. de Rossi nel 1872. Oggi è perduta.

Quanto alle vicende della chiesa e monastero di sant' Erasmo, brevemente accennate dal Ligorio, sappiamo che sulla fine del '400 fra Giocondo, il quale la chiama « aedicula sita in hoitis s. Stefani Rotundi in Coelio Monte", vi copiasse l'iscrizione di Follia Saturnia n. 10181, la stessa che Pietro Sabino dice di avere
trascritta « in s. Erasmo prope s. Stephanum rotundum».

Sisto IV, vedendo l'edificio abbandonato e quasi crollante, lo affidò alle cure dei monaci di s. Stefano, cedendo loro in compenso la rendita di 24 fiorini d'oro. Ma i monaci devono avere usurpata tale rendita a loro speciale vantaggio, perchè il nome di s. Erasmo non apparisce più oltre nelle descrizioni di Roma del cinquecento. Solo il Fulvio ne ha conservata la memoria con le parole : « fuit in eodem ambitu (cioè dentro il muro di cinta della vigna di Santo Stefano) memoria patruum nostrorum, celeberrimura s. Erasmi monasterium». Il Severano, che pubblicò i tre tomi delle Sette Chiese nel 1630, afferma, nondimeno, che se ne vedessero ancora « i vestigli nell'atrio (di santo Stefano) con alcuni segni delle stanze e pitture che vi erano».

Dagli scavi del card. Ippolito tornarono in luce altri due diplomi n. 1687, 1688, incisi in lamine di bronzo, la curva delle quali si adattava a quella dei fusti delle colonne del peristilio, cui erano affisse, e che portavano, come le precedenti, il nome del preside della Bizacene nel 321: ed altre tre diisi onorarie n. 1690-1692 di L. Aradius Valerius Proculus prefetto della città, nel 837. Il predetto Nicolò caei.emont. Florent così scriveva di queste cose allo Smet: « anno 1651 sub Pio IIII pont max. etfossae fuerunt bases tabellaeque sequentes in monte Coelio, sub aede diruta sancti Erasrai, intra hortos monasterii sancti Steph. rot.».

Strana cosa invero, ma pur caratteristica dello spirito del cardinale Ippolito è il disprezzo o l' indifferenza da lui mostrata verso i preziosi monumenti istorici trovati nello scavo, i quali in luogo di essere trasferiti al museo-giardino sul Quirinale o alla villa d' Este tiburtina, furono venduti o donati all'appassionato collettore Achille.

Maffei, e trasferite al suo palazzo alla Ciambella. Vedi tomo I, pp. lUO-lll. A questa serie dovrà aggiungersi il frammento di altro piedistallo n. 1094, che lo Smet vide già trasportato alla casa di Gentile Delfino nel Campitello, sapendosi da altre testimonianze come l' illustre ricompositore dei Fasti capitolini avesse formato la miglior parte del suo museo epigrafico con lapidi trovate sul monte Celio.

Sotto il pontificato di Innocenzo X (1644-55) « più oltre (della villa Fonseca andando verso s. Stefano) nell'orto di Francesco Morelli detto il cieco, per esser tale, cavandosi ad istanza del Marchese del Bufalo, con assistenza di Gio. Francesco Grimaldi, pittore bolognese, tra le altre cose vi fu trovato un cortile di non molta grandezza, entrovi sette bellissime statue, le quali dal detto Marchese furono mandate in Francia« (Bartoli, Mem. 53).
La data di questi ritrovamenti può essere fissata all'anno 1653 come apparisce dalla seguente licenza di scavo, rilasciata dal pro-Camerlengo Lorenzo Altieri il giorno 10 gennaio.

" Patentes effodiendi. Duo Io: Francisco Morello filio quoud. alterius Ioannis Francisci Romano li  eredi fideicommissario q. Pauli Morelli D. unius horti positi Rome prope Ven : Eccliam Sancti Stepliaiii Rotundi muris circumdati à duobus adsunt uie publice et ab uno latere bona DD. de fonsechis, et ab alio bona Ven: Collegii Germanici saluis etc. per Te insiniul et prò indiviso cum Diìo Carolo Domitio Morello tuo patruo possessi etc. exposuisti etc. q. d. D. Car : Domitius dieb. preteritis a Nobis obtinuerit patentes etc. facultatis etfodiendi etc. in d.° Horto et cum tu quoque tamquam condominus cupias. Nos de mandato Tibi cum d.° Carolo in d.° horto escavare Tabulotiam Saxa et petras inveniendas liiitiani concedimus."

Datum hac die 10 lanuarij 1653. [Provv.'' del Cam.° tomo 1652-1653 e. 127 A. S.].

Sotto Clemente X, (1670-1676) si rincominciò a cavare nel detto luogo e vi furono trovati vestigi delle migliori pitture che si siano viste in Roma; medesimamente diverse statue e busti nobilissimi, in particolare li due Lucj Veri comprati dal Card, di Ruglione, ed Amore e Psyclie dal Card, de' Medici: oltre ciò diversi marmi mischi, una lucerna nobilissima di metallo, la quale rappresenta la navicella di s. Pietro; oltre altri bellissimi pezzi di anticaglie", (lìart-li.Mem. 54).

« Questa insigne lucerna »  aggiungo il Bellori nei Commenti alle Anf'che Lucerne del Bartoli p. 11, n. 31 « fu tratta dalle mine del monte Celio, nella vigna de signori Morelli contigua a santo Stefano, dove sono state trovato statue e marmi de' buoni tempi dell' imperio. Dimorava in quel tempo in Roma il cardìuale Leopoldo Medici, che la lucerna portò à Fiorenza con altri rari ornamenti di scoltura».

Una quinta campagna di scavi ebbe luogo nel febbraio del 1711, e fruttò la scoperta della tavola di bronzo n. 1689, che il Bianchini dice essere passata al museo di d. Leone Strozzi, e forse del frammento di base n, 1695 passato al museo Vaticano.

Una sesta data dal tempo di Benedetto XIV (1740-1758), e fruttò la scoperta di un gruppo insigne di oggetti in argento, appartenenti a domestica suppellettile, simile a quello trovato in Porto ai nostri tempi dal principe Alessandro Torlonia nello Xenodochio di Pammachio.

Il marchese Gabrielli donò al nominato pontefice un grande piatto, due bicchieri, uno de' quali fregiato con epigrafe votiva cristiana, due ampolle adorne dei busti degli apostoli Pietro e Paolo, quattro specilli, ed un cucchiaio. Parte di questi argentei cimelii è conservata nel museo sacro della biblioteca vaticana, parte è andata perduta. Vedi de Rossi, Bull, crisi. 1868, e. 35, il quale non dice donde egli abbia ottenuta questa informazione sugli scavi del tempo di Benedetto.

Singolare contingenza invero che i due più singolari ripostigli di domestica suppellettile, specialmente propria di refettorii, sieno stati rinvenuti ambedue fra le rovine di xenodochii o ospizii di pellegrini, uno in quello dei Valerli sul Celio, l'altro in quello di Pammachio in Porto. Le scoperte avvenute nella settima ed ultima campagna, in occasione della fabbrica dell'Ospizio per i convalescenti, eretta per lascito testamentario del conte Antonio Cerasi, sono state descritte dal Gatti in Bull. com. tomo XXX, a. 1902, p. 155.
Tale e tanta fu la ricchezza di questa dimora celimontana degli Aradii, che anche dopo sette devastazioni (410, 1554, 1561, 1653, Clemente X, 1711, Benedetto XIV) sono state trovate negli ultimi disterri tre erme marmoree infisse ancora al loro posto e collocate in modo simmetrico contro i colonnati dell'atrio!



OSPIZIO PER L'ADDOLORATA

I lavori per la realizzazione dell’Ospizio dell’Addolorata avevano portato, tra il 1902 e il 1905 al rinvenimento di una serie di vani arricchiti da fontane e giardini, tra cui un grande portico, un ninfeo in opera laterizia e un’aula rettangolare rivestita di lastre di marmo, verosimilmente pertinente alle terme della residenza.

A questo settore della casa appartenevano statue, colonne, basi e lamine bronzee già viste negli scavi precedenti. Ai materiali conservati nel Museo Nazionale Romano fanno riscontro i preziosi oggetti dispersi o confluiti in varie collezioni italiane, come il mosaico nilotico con pigmei (Museo di Napoli), la magnifica lucerna bronzea a forma di nave, dono di battesimo per Valerio Severo (Museo di Firenze) e il tesoro di argenterie con simboli cristiani (Biblioteca Apostolica Vaticana).

Gli scavi archeologici per la costruzione del nuovo Dipartimento di Oncoematologia hanno ora fatto emergere un ampio corridoio con mosaico pavimentale in bianco e nero e un giardino interno, entrambi affrescati.

Il corridoio, largo quasi 4 metri e conservato per circa 10, costituisce l’ampliamento di epoca medio-imperiale di un impianto precedente, databile fra l’età tardo-repubblicana e il regno di Augusto.

Contrasta piacevolmente con il rigore del pavimento musivo la vivace decorazione delle pareti che, al di sopra di uno zoccolo rosso, si articola in grandi riquadri bianchi con fregi vegetali, dove i personaggi al centro si alternano a svelte figurette di animali sui bordi, insieme con colonnine e candelabri. In alto si riconosce una zona a fondo bianco con figure entro prospetti architettonici sotto a un fregio in stucco dipinto con elementi geometrici e figure fantastiche.

Particolarmente interessante si rivela la parete di fondo del giardino, dove la decorazione con motivo a graticcio su fondo nero è vivacizzata dal verde intenso del fogliame e dai brillanti colori delle semicolonne e delle lesene, in cui predominano il rosso, il bianco e l’azzurro. Ancora "in situ", ollette di terracotta per le piante, i cui semi sono in via di identificazione.

Una distruzione volontaria, finalizzata alla radicale trasformazione dell’edificio, fece crollare al suolo il soffitto e la parte superiore delle pareti del corridoio. Infine, la realizzazione del padiglione ospedaliero, ai primi del Novecento, ha completamente distrutto gli strati più superficiali.

"Le testimonianze più significative provenienti dallo scavo archeologico, compresi gli affreschi e il mosaico del corridoio, di cui si prevede il distacco per ragioni di conservazione dovranno essere studiate, ricomposte per quanto possibile e presentate ai pubblico in una esposizione museale, che sarà allestita in spazi adeguati all’interno dello stesso Ospedale S. Giovanni-Addolorata, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica"



L'IDENTIFICAZIONE

Nel sito occupato ora dall'Ospedale dell' Addolorata, dove rimangono pavimenti, affreschi, lavori artistici, e 11 iscrizioni relative alla famiglia del IV sec., restò traccia del glorioso passato della villa nel nome dell’ospizio che sorse sul luogo, lo Xenodochium Valerii, «antenato» dell’attuale ospedale.

Nel 1554 il sito fu identificato, e nei primi scavi si ebbe certezza dell’appartenenza delle rovine alla dimora della Gens Valeria grazie al ritrovamento di incisioni in bronzo dedicate a Valerio Proculo e a una lanterna a forma di nave, ora agli Uffizi, con l’epigrafe «Dominus legem dat Valerio Severo», dono di battesimo per il padre di Piniano. Si pensava che il saccheggio dei Goti e poi gli scavi «di rapina»  del ’500 avessero cancellato per sempre la Domus Valerii. A fine ’800 lo storico Mariano Armellini era rassegnato: «Non può deplorarsi abbastanza  la perdita di un monumento così insigne, la cui storia collegasi ai fasti più splendidi di Roma». Invece quei fasti torneranno a rivivere, quando gli affreschi e il mosaico del corridoio verranno ricomposti ed esposti al pubblico in uno spazio ad hoc all’interno dell’ospedale.


Sepolcro  Valerii

Poco a nord del sito, nella villa Casali, furono trovate altre rovine e una base iscritta di Lucius Valerius Poplicola Maximus, console nel 232 o 253 d.c. (CIL vi. 1532; cf. 1531 ; Pros. iii. 376. 121)
Questo sito fu poi occupato dal tempio di Vica Pota (Liv. loc. cit.).
Il corpo di P. Valerius si dice sia stato bruciato in un sepolcro a spese dello stato (Dionys. v. 48; cf. Cic. de legg. ii. 58; Plut. Popl. 23; Quaest. Rom. 79), e frammenti di elogi di due membri della famiglia, M. Valerius Messala Niger, console nel 69 a.c.., e M. Valerius Messala Corvinus, console nel 31 a.c.., furono trovati nella basilica di Constantino, dove erano stati caricati dalla posizione originaria. (CIL i². pp. 190, 20 ; vi. 31618; EE iii. I-4).

MAUSOLEO DEI VALERII
Il sepolcro dei Valeri è posto sulla destra della via Latina, in laterizi a due piani risalente alla II metà del II sec. d.c., in buona parte ricostruito nell'elevato nell’800 per salvaguardarne gli intonaci e gli stucchi della camera sotterranea.

L’ingresso è sulla strada, separato da un recinto; delle due colonne all’ingresso quella sulla sinistra in marmo cipollino è originale; nei sotterranei a cui si accede attraverso due scale interne simmetriche si trovano due camere sepolcrali minori con volte a botte ed una principale un tempo rivestita di marmi e di cui si conservano gli splendidi stucchi sulla volta. Esternamente sulla destra delle altre stanze sepolcrali costruite in ampliamenti successivi, quando i preesistenti locali erano ormai pieni.

A fianco del sepolcro dei Valeri, sulla sinistra di questo, era una stazione di sosta (statio) per i viaggiatori.
All’ingresso dalla strada le basi di due colonne che probabilmente sorreggevano due statue e il selciato della strada che entra nell’area della stazione a realizzare un passo carrabile.

Sul fianco e sul retro del sepolcro sono state rinvenute due cisterne per l’acqua ed una piscina con pavimento in mosaico. Probabilmente gli stessi proprietari della stazione di sosta avevano dato in concessione l’uso del loro terreno per costruire il sepolcro e si occupavano della manutenzione dello stesso.  


Follia Saturnia

Ma appena s’accorse la cara consorte di Giove che ella era posseduta da tale peste e l’onore non bloccava la follia saturnia affronta Venere con tali parole:
Davvero enorme gloria e ricchi bottini riportate sia tu che il tuo fanciullo, grande e memorabile potenza, se una donna, da sola, fu vinta dall’inganno di due dei! Né proprio mi inganno che tu temendo le nostre mura abbia stimato sospette le case della grande Cartagine. Ma quale sarà la regola o dove adesso, con sì grave rivalità? Perché piuttosto non concludiamo eterna pace e nozze pattuite? Hai ciò che con tutto il cuore cercasti: brucia Didone amante ed ha tirato la follia fin al midollo. Guidiamo dunque questo comune popolo con uguali protezioni; possa servire a marito frigio e affidare alla tua destra i Tirii in dote.” 
Capì che le aveva parlato con mente ipocrita, per volgere il regno d’Italia alle spiagge libiche, così di rimando Venere rispose:

Chi pazza rifiuterebbe tali cose o preferirebbe contendere in guerra con te? Purché la sorte favorisca l’evento che tu ricordi. Ma sono mossa incerta per i fati, se Giove voglia che ci sia una sola città per i Tirii e gli esuli da Troia, o approvi che i popoli si mischiano o uniscano alleanze. Tu da consorte, per te è possibile pregando tentarne il cuore. Va’ avanti, seguirò”.
Allora così riprese la regale Giunone: “Per me sarà questo impegno. Ora in che modo si possa concludere quello che incombe, ascolta, ti insegnerò. Enea e insieme la molto infelice Didone si preparano ad andare a caccia nel bosco, quando il Sole di domani alzerà i primi inizi e ricoprirà di raggi il mondo. Su di essi io dall’alto rovescerò una oscurante nube, con mista grandine, mentre i battitori s’affannano e cingono le gole con la rete e muoverò tutto il cielo col tuono. Scapperanno i compagni e saranno coperti di opaca notte: Didone ed il capo troiano giungeranno alla stessa spelonca. Presenzierò, e se la tua volontà mi è garantita, li unirò si stabile unione e la dichiarerò sua. Qui ci sarà Imeneo.” Senza opporsi alla richiedente annuì e Citerea rise per gli inganni inventati.

L'ILLUMINAZIONE DEI ROMANI

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Nelle città romane l'illuminazione non esisteva, infatti di notte si girava con le facies, le torce, a parte la luce che proveniva dalle taberne aperte fino a notte inoltrata, cioè le taverne e i postriboli. Giovenale scrisse che era da pazzi uscire di notte senza far testamento, soprattutto per l'usanza, nelle zone più infime, di vuotare gli orinali per strada.

Naturalmente le ricche domus erano illuminate fino a tardi, spesso a causa dei lauti banchetti che comportavano lucerne dentro e fuori casa, fin negli splendidi giardini. La la luce che filtrava dalle finestre era molto relativa, e i giardini delle domus erano centrali alle case, per cui da essi filtrava molto poco.

LUCERNA CRISTIANA
Per le strade i passanti si facevano accompagnare dagli schiavi muniti di torce, e pure le carrozze erano munite di torce e camminavano a passo d'uomo per le strade buie. Le torce erano fatte di grasso o di pece.

Nelle case e negli edifici pubblici la luce era fornita dalla luce che entrava dal soffitto aperto (compluvium) dell'atrio e illuminava di riflesso le stanze adiacenti.

C'erano anche le finestre, ma sempre piuttosto alte, onde evitare l'entrata dei ladri che erano piuttosto frequenti.

All'interno quando scendeva il sole si usavano torce e candele. Le candele erano fatte di sego o di cera, a seconda della ricchezza della casa. Naturalmente c'erano applique alla parete e lampadari porta candele, in bronzo o in terracotta.

Anche i bracieri, usati con lo scopo di scaldare la casa, spandevano il loro chiarore e ce ne erano di infinite fogge: quadrai, rettangolari, rotondi, alti, bassi, di bronzo o di terracotta.

Le domus naturalmente avevano il meglio, cioè lastre trasparenti alle finestre, di talco, di mica o di vetro, che era il più costoso. Ma anche gli edifici pubblici ne avevano, terme comprese. I poveri non potevano permettersele e usavano tende di pelle sottile che lasciavano intravedere un po' di chiarore.

  1. Lucerna ad olio di terracotta
  2. Lucerna ad olio di bronzo
  3. Lucerna di bronzo a tre beccucci con sostegno
  4. Lucerna ad olio di bronzo con elementi decorativi
  5. Lanterna di bronzo
  6. Sostegno mobile di bronzo per lucerne
  7. Sostegno mobile di bronzo per lucerne
  8. Porta lucerne di bronzo a quattro bracci
  9. Bracere di bronzo con treppiede


LE CANDELE

L'uso delle candele era già conosciuto presso i Greci e presso gli Etruschi, questi ultimi ne facevano di cera d'api con stoppini di giunco, ma ha origini molto antiche anche presso i Romani.

CANDELABRI
Le donne greche se ne ponevano anticamente sul capo, una specie di graziosi cornetti di cera imbevuti di profumi che col calore della cute pian piano si scioglievano emanando profumi all'intorno. 

Sembra che l'uso derivasse dall'Egitto, non è chiaro però che fine facesse la cera che avrebbe dovuto colare sui capelli ma non sui vestiti.

Le candele di cera d'api erano comunque un lusso, perchè per procurarsele occorreva possedere allevamenti di api o acquistarne da chi ne possedeva. 
I romani ne avevano molti allevamenti nelle ville rustiche ma di certo l'uso era ingente rispetto alla produzione per cui il prezzo era notevole.

Le candele al tempo dei romani si ottenevano avvolgendo uno strato di cera o di sego a uno stoppino formato da piante palustri. 

Si formavano così dei piccoli ceri, simili a quelli che si usano in chiesa per accendere le candele, e poi se ne attorcigliavano alcuni insieme, formando grosse candele attorcigliate. ovvero "a torcione" che, per il loro aspetto simile a una fune, venivano chiamate funalia. Dall'essere attorcigliate deriva invece il nome italiano di "torcia".

Le torce per uso fuori casa venivano tenute da uno schiavo, mentre negli ambienti venivano infisse in appositi candelabri costituiti da una specie di piatto con un'ansa ad anello nel cui centro era collocata una punta, su cui veniva infissa la candela. 




LE TORCE

Vi era però una differenza tra candele e torce, perchè le torce erano formate da un fusto di legno intorno a cui venivano attorcigliate le candele sottili, oppure vi veniva attorcigliata la lana imbevuta di grasso animale o di pece.

Le torce di legno e pece venivano usate dall'esercito romano quando viaggiava di notte o negli accampamenti. 
Di solito ne portavano una scorta che veniva rimpinguata coi legni locali per non portare carico eccessivo. Invece si facevano scorte più ampie di pece che veniva usata pure come fuoco greco, cioè per le frecce incendiarie.

Nei luoghi pubblici venivano spesso infisse alle pareti su infissi di bronzo, talvolta anche di pietra o marmo.

I DIVERSI TIPI DI LUCERNE ROMANE

LE LUCERNE

Il mezzo più comune di illuminazione degli interni era la lucerna. Essa veniva alimentata con dell'olio, a volte di oliva, ma pure di noce, di sesamo, di ricino o di pesce e probabilmente di olii minerali, già conosciuti nel periodo antico, e di grassi animali, cioè di sego.

Si eseguirono lucerne in diversi materiali, in pietra, in vetro, o in metallo o in terracotta. Alcune venivano eseguite in metalli preziosi, argento e perfino oro. 

LUCERNA CON SCENA EROTICA
Quelle in terracotta, in genere in argilla, furono le più diffuse. Ebbero anche largo uso religioso, benaugurante, votivo e soprattutto funerario. 

Si pensi solo alle lucerne rinvenute sempre in larghe quantità nei cimiteri, soprattutto nelle catacombe.

Esistevano lucerne aperte e lucerne chiuse. Quelle aperte erano a forma di coppa con bordo alto per evitare il traboccamento del combustibile. mentre lo stoppino veniva inserito in un beccuccio o un incavo nell'orlo. 

Quelle chiuse, più usuali, avevano come unica apertura il beccuccio, oppure avevano un foro al centro con o senza coperchio. Se c'era il coperchio, in genere era per le lucerne di metallo e veniva attaccato alla lucerna con una catenella.

Le lucerne avevano di base tre parti: il corpo, il beccuccio e l'ansa, sulle cui forme e decorazioni si sbizzarrivano i loro produttori. 

Le lucerne greco-ellenistiche erano decorate sulla parte superiore ricurva, mentre quelle romane e tardo-antiche avevano un disco centrale maggiore e decorato con figure varie.
Le lucerne di terracotta ebbero tre fasi di lavorazione: la prima interamente a mano, la seconda al tornio e la terza con la creazione di matrici su cui veniva colata l'argilla bagnata.

Ce n'erano di tutti i tipi, dai più umili ai più ricchi, e formavano, nelle case più sontuose, veri e propri lampadari. 

Per tenerle alte le lucerne, oltre ad essere poggiate su candelabri a fusto con piattello, venivano venivano appese, con catenelle, a candelabri a più braccia.



I CANDELABRI

CANDELABRI ROMANI



I candelabri romani erano di tipi diversi soprattutto per l'uso che se ne doveva fare.

Infatti esistevano:

1) candelabri adatti a sostenere una lucerna per porla ad un certa altezza si che potesse illuminare meglio l'area intorno.

In questo caso il candelabro era alto in genere da 1 m a 1,5 m, raramente anche di più, ed aveva un piattello in cima per poggiarvi una lucerna.

2) candelabri atti a sostenere due o tre lucerne e in questo caso il piattello superiore era più ampio onde contenere le varie lucerne.

3) candelabri atti a sostenere anche più di tre lucerne, ma in questo caso il piattello, piuttosto esteso, era forato sui bordi per l'inserimento di catenelle tutto attorno a cui venivano appese le diverse lucerne, in genere quattro o sei.

4) candelabri atti a sostenere candele. In questo caso sopra al piattello c'era saldato una spexie di grosso anello (di solito le candele dei romani erano candelotti) in cui si inseriva la candela di modo che non avesse a cadere.

I candelabri erano in genere di bronzo, molto pesanti nelle basi per avere stabilità, mentre la parte superiore aveva uno spessore più sottile.

Non mancavano però i candelabri d'argento, o in argento dorato.

Sembra ve ne fossero anche in oro ma in dimensioni più ridotte.

Non mancavano però anche i candelabri in terracotta eseguiti, come pure quelli in metallo, in varie sezioni che venivano poi unite con fusti e avvitamenti vari.

In quanto al gusto essi erano splendidi, con bassorilievi, modanature, con varie parti lavorate in fusione e poi saldate tra loro.

Molto spesso erano a tre piedi, con sagome di animali o zampe di animali, oppure erano a parallelepipedo sulla base rastremato verso l'alto. Vi venivano rappresentati i soggetti più disparati, dalle divinità ai personaggi mitologici, da animali ad oggetti simbolici, o immagini di piante, cesti, corolle di fiori e ornamenti traforati.



LE DECORAZIONI

1) Dei, semidei ed eroi
2) Oggetti di culto: tirso, caduceo, cornucopia, clava, alloro, altari
3) Scene di circo, di combattimenti di gladiatori, combattimenti con bestie feroci, tauromachie, acrobazie, giochi di prestigio,
4) Amorini che combattono da gladiatori, che giocano o fanno lavori umani, o pigmei
5) Scene di caccia e pesca
6) Scene vita rustica e agreste
7) Scene di vita militare
8) Scene erotiche
6) Scene omeriche o virgiliane
7) Soggetti storici: Diogene nella botte, M. Curzio che precipita nella voragine;
8) Animali domestici e selvatici, o buffi che imitano gli uomini
9) Piante: mirto, edera, melagrano, olivo, lauro, palma, anche con rami e corone
10) Piante e animali insieme, un uccello che becca un ramo, una lepre che mangia frutta;
11) Manufatti come anfore, remi, armi;
12) Stelle, sole. mezzaluna 
13) Riproduzione statue famose
14) Ornamenti geometrici, rosette, circoli, onde, con palmette, fiori ecc.

Le lucerne ebbero pure delle mode, perchè vi si imprimevano varie figure che andavano per la maggiore, sia che fossero di bronzo o di terracotta. 

Vari artigiani divennero famosi per i loro squisiti modelli. C’erano le lucerne firmate:
Strobili, Communis, Phoetaspi, Eucarpi e Fortis, l'azienda artigianale più famosa e quindi più cara, che operò nella zona di Pompei tra il I e il III sec. d.c.

LUCERNA

IL COMBUSTIBILE

Per quanto concerne il combustibile, è noto l'uso dell'olio di oliva fin dagli antichi greci, ma l'olio d'olivo costava, per cui si usavano molti altri olii, di noce, di sesamo, di ricino o di pesce. 

BRACERE
C'erano pure gli olii minerali, già conosciuti nel periodo antico fin dall'antico Egitto dove si usava il petrolio per imbalsamare i morti, e di grassi animali.

Talvolta per la torcia veniva imbevuta di pece, specie quando si spostavano i soldati di notte quando la torcia doveva durare molto a lungo. I Romani infatti conoscevano la pece. Essa si ricavava dall'estrazione della resina dagli alberi di pino ed era un’attività economica piuttosto redditizia, soprattutto in Calabria ed in Sicilia, tanto che ci si pagava una tassa di concessione. I primi documenti sulla estrazione della pece bruzia nella Sila risalgono alla Repubblica Romana.

Infatti Plinio scrisse che dall’abete si ricavava 

"la pece liquida, che serve per tener stagne le costruzioni navali e per molti impieghi, e che in Europa si ottiene per cottura: il legno, fatto a pezzi, si mette a scaldare in fornaci con il fuoco acceso tutt’intorno, all’esterno; un primo liquido cola come acqua da un canale e ha proprietà così efficaci che in Egitto ne cospargono le salme per imbalsamarle. 

Il liquido che cola dopo questo è più denso e fornisce la pece liquida che, versata in caldaie di bronzo, viene fatta addensare, usando l’aceto come coagulante, e prende il nome di pece bruzia, adatta solo per sigillare le botti ed altri recipienti del genere; differisce dall’altra pece sia per la sua viscosità, sia per il colore rossiccio, sia per il grasso che contiene in misura superiore agli altri tipi. 

Questi ultimi si ottengono dalla resina della Picea che viene raccolta per mezzo di pietre roventi, in contenitori di rovere resistente, oppure, in mancanza di recipienti, facendo una catasta di rami, come per la preparazione del carbone. 

Questa è la resina che si aggiunge al vino dopo averla ridotta in polvere, è di colore scuro; se si fa bollire piano e si passa al setaccio, si ammorbidisce, prende un colore rosso e viene detta resina in gocce; generalmente per questa preparazione si mettono da parte gli scarti della resina e la scorza".




LO STOPPINO

Come stoppino, o lucignolo, erano utilizzate delle fibre intrecciate che assorbivano l'olio sino a condurlo alla fiamma che lo bruciava.

Lo stoppino più prezioso, usato principalmente nei templi, fu quello di amianto.
I Romani già usavano l'amianto per avvolgere i cadaveri da cremare, per ottenere ceneri più pure e chiare.
Una credenza popolare diceva che l'amianto fosse la "lana della salamandra", l'animale che per questo poteva sfidare il fuoco senza danno.

Lo stoppino più prezioso, usato soprattutto nelle lampade dei templi, era formato da fibre di amianto,
detto in latino asbestos "inestinguibile" perché aveva la caratteristica di resistere al fuoco e quindi di non consumarsi.




IN EPOCA IMPERIALE

Fu l'epoca più ricca per i romani ma anche la più stravagante perchè i romani non solo importarono materiali da tutto l'impero, ma esportarono arte e costumi nelle terre conqustate che iniziarono a copiare e produrre oggetti modificandoli con un certo stile locale.

Le produzioni asiatiche e pure africane non solo accontentavano i romani che costituirono le classi firigenti del luogo, ma si estese pure ai dignitari locali, che ben presto apprezzarono, chi più chi meno, la sofisticata civiltà romana con i suoi agi e la sua bellezza.

Così nacquero anche sistemi di illuminazione nuovi ed eccentrici, e spesso di ottima fattura.










META ROMULI

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1440-50 Poggio Bracciolini:

"Inoltre nel Vaticano si trova una piramide di grandi dimensioni, simile ad una mole, priva di qualsiasi ornamento... Ciò che colpisce di più, essendo ancora integra l'iscrizione, è che il dottissimo uomo Francesco Petrarca scrisse in una sua epistola essere questo il sepolcro di Remo; ritengo che, seguendo l'opinione popolare, non indagò a fondo sull'iscrizione, coperta da arbusti, leggendo la quale coloro che seguirono, pur essendo meno acculturati, diedero prova di maggiore diligenza"


Meta Romuli

Era il nome con cui nel medioevo (Graphia 16, ap. Urlichs 119) veniva chiamato un monumento a piramide che stava tra il Mausoleo di Adriano e il Vaticano. Era chiamato Meta Memoria Romuli  (Ordo Benedicti in Lib. Cens. Fabre-Duchesne,º ii.153) o Sepulcrum Romuli. Magister Gregorius la chiama la piramide di Romolo (JRS 1919, 42, 56). All'inizio del Rinascimento venne chiamata erroneamente Sepulcrum Scipionis. Il nome Meta Romuli probabilmente fu dato a questo monumento perchè la piramide di Cestio era detta Meta Remi. Era nota come Meta Romuli (cioè la Meta di Romolo), perché la sua forma ricordava quella dei pilastri usati negli antichi circhi per delimitare le due estremità della pista, detti metae. Un altro termine con cui la piramide venne indicata più tardi fu Meta di Borgo, dal nome del quartiere che nel corso del medioevo era sorto sulla pianura vaticana, o anche Meta di San Pietro.


Mirabilia Urbis Romae (le meraviglie della città di Roma), XII secolo c.ca

LA META ROMULI VICINO AL CIRCO DI NERONE
III. sulla Meta e sul Castello.
Presso la Naumachia è il sepolcro di Romolo, che è chiamato Meta di San Pietro. La quale fu rivestita di belle lastre di marmo, con le quali furono costruiti le scale ed il pavimento del paradiso (cortile) di San Pietro. Aveva intorno a sé uno spiazzo di 20 piedi, fatto di travertino, con un canale di scarico nel quale l'acqua dalla piazza della Meta defluiva.

IV. sul Terebinto di Nerone.
Di lato alla Meta sorgeva il Terebinto di Nerone, alto tanto quanto il Castello Adriano. Esso fu rivestito di grandi lastre marmoree. Ed aveva due gironi come il Castello. E i gironi erano coperti nella parte superiore di grandi tavole di marmo per l'acqua. E tale Terebinto sorgeva a lato di dove fu crocefisso il santo apostolo Pietro, là dov'è ora Santa Maria in Trasbedina.

La Meta sorgeva in un'area fuori porta, l'Ager Vaticanus, che vedeva la presenza di numerose aree cimiteriali come la vicina necropoli vaticana. Si trovava al fianco di un altro grande mausoleo, il cosiddetto Therebintus Neronis, detto talvolta Terabinto, o Tiburtino cioè "di travertino",  a pianta circolare, ma di cui non abbiamo altre notizie. Difficile che fosse solo frutto della fantasia degli autori medievali, probabilmente fu distrutto molto prima della Meta Romuli, in quanto tutti i testi ne parlano come di una reminiscenza lontana, mentre però la piramide era ancora esistente. Viene comunque descritta come più larga della piramide di Cestio e di grande bellezza.


XX. della Meta e del Tiburtino[Terebinto] di Nerone

"Presso la Naumachia è il sepolcro di Romolo, che è chiamato Meta, il quale era rivestito di belle lastre marmoree, con le quali furono costruiti il pavimento e le scale di San Pietro. Aveva intorno a sé uno spiazzo di 20 piedi, fatto di travertino, con un canale di scarico e i suoi propri fiori.
Accanto ad esso sorgeva il tiburtino di Nerone, alto tanto quanto il Castello Adriano,rivestito di belle lastre marmoree, con le quali furono costruite le scale e il paradiso (San Pietro). Tale edificio rotondo aveva due gironi come il castello, i cui labbri erano coperti con lastre marmoree per lo sgocciolamento; presso questo luogo fu crocifisso il santo apostolo Pietro".
(Testo anonimo XII - XIII sec.)

A Roma l'Egitto andava di moda, soprattutto dopo la sua conquista  ad opera di Giulio Cesare prima e di Augusto dopo (I secolo ac.), ma soprattutto da quando venne a Roma la bellissima Cleopatra portando in dono obelischi, sfingi e statue, senza contare tutto quello che fece costruire.



META REMI   VEDI

META REMI
Un'idea della Meta Romuli ce la può dare la Meta Remi, ovvero la Piramide di Caio Cestio (Cestia), che si trova lungo l'antica e attuale via Ostiense, alta m 36,40 ed completamente rivestita con blocchi di marmo di Carrara. Non è stata distrutta dai saccheggiatori di marmi perché, fortunatamente, l'imperatore Aureliano l'aveva fatta inserire nelle mura difensive, come torrione fortificato (270-275).

È la tomba di un ricco uomo politico del I sec. a.c., sostenitore di Augusto e seguace della moda egizia diffusa a Roma dalla bella Cleopatra. Era anche un esigente, o un burlone, secondo i punti di vista, perchè lasciò nel suo testamento che gli eredi avrebbero ereditato solo se avessero fatto costruire un sepolcro a forma di piramide entro 330 giorni dalla sua morte. Così fu, cosa vuoi che sia una piramide in un anno, il Colosseo fu costruito in cinque anni!
Ma non era l'unica piramide di Roma, c'erano almeno altre due e forse anche  tre, di grandi tombe monumentali di questa forma. Le piramidi costruite a Roma avevano un angolo più acuto (cioè erano più strette) di quelle egiziane, ma la ragione è evidente: le piramidi egizie avevano il deserto a disposizione che non costava nulla, a Roma il terreno era carissimo per cui ci si doveva contentare. Oggi sono soprattutto gli obelischi a testimoniare la presenza egizia nell'antica Roma, e un monumento molto particolare, la Piramide di Caio Cestio. Ma c'era molto di più.


L'Egitto a Roma

Una piramide si trovava sul lato destro della Via Flaminia (via del Corso) nell'area ora occupata dalla chiesa di Santa Maria dei Miracoli a Piazza del Popolo. Essa segnava insieme a un'altra tomba (forse un'altra piramide) l'inizio di tre strade: il famoso Tridente moderno (via del Corso al centro, via del Babuino e via di Ripetta) già esisteva in epoca romana.
L'altra piramide in questione era in area vaticana all'inizio della Via Trionfale (oggi Via della Conciliazione). Doveva somigliare molto alla Piramide Cestia, anche nelle dimensioni: questo spiega perché nel Medioevo erano considerate le tombe di Romolo e Remo.

A Roma esistevano almeno 17 obelischi, almeno 3 piramidi e almeno 9, se non di più, tra templi e sacelli dedicati alle divinità egizie, soprattutto a Iside (iseo) e Serapide (serapeo). Erano l'Iseo e il Serapeo campense (Campo Marzio), l'Iseo e il Serapeo della Regio III, sul Colle Oppio (così importante da dare il nome alla regio, cioè al quartiere: Isis et Serapis), l'Iseo Capitolino (Campidoglio), l'Iseo vicino la chiesa di Santa Sabina sull'Aventino, il Serapeo del Quirinale (uno dei templi più grandi della città), il Tempio di Iside presso le Terme di Caracalla, il sacello isiaco conosciuto come "Larario di via Giovanni Lanza", il sacello dei Castra Praetoria, il sacello degli Horti Sallustiani. Di tutto questo non rimane quasi niente. Gli edifici sono scomparsi e le sculture che li decoravano sono andate distrutte, o disperse. I grandi Papi del Rinascimento fecero creare molte opere d'arte immortali, ma ne fecero distruggere tante altre molto più antiche.

META ROMULI SULLO SFONDO


Da pagano a cristiano

Si narrava che il luogo del martirio di San Pietro fosse posto nel punto di mezzo tra le due piramidi, due monumenti di grande effetto, e di conseguenza la piramide apparve per secoli nelle immagini religiose del martirio. La Meta Romuli appare infatti in molte opere d'arte, ad esempio sulla porta in bronzo eseguita dal Filarete per la Basilica di San Pietro (1443-1445). Appare anche sull'affresco della "L'apparizione della Croce" di Giulio Romano nella Sala di Costantino dei Palazzi Vaticani (1520-24), rappresentata sullo sfondo accanto alla Mole Adriana e al Ponte Elio, oggi Castel Sant'Angelo e Ponte degli Angeli. Ma appare anche nel Polittico Stefaneschi di Giotto, nella pala di sinistra, e negli affreschi della volta della basilica di San Francesco ad Assisi di Cimabue.

Ma c'era un'altra leggenda:

da Tractatus de rebus antiquis et situ urbis Romae
(trattato delle antichità e del sito della città di Roma),
di Anonimo Magliabechiano, XV sec.

Nell'Almachia (Naumachia), cioè presso Santa Maria in Traspontina, si trova la meta che, si dice, fosse il sepolcro di Remolo, ucciso sul Giano (Gianicolo) per ordine di Romolo; e riguardo a tale meta ho il dubbio che non fosse stata eretta da Romolo per Remolo, perché a quei tempi Romolo e i suoi non erano così tanto potenti. Non trovo altra origine di cui possa fidarmi: ma in ogni modo fu di grande bellezza, rivestita com'era di lastre di marmo, con le quali lastre l'imperatore Costantino fece ornare e costruire il pavimento di San Pietro. L'anzidetta meta aveva attorno a sé un giro di venti gradini, alto dieci piedi, con una platea di travertino, una cloaca e uno scarico. Di fronte ad essa sorgeva il Terabinto di Nerone, che fu eretto sopra le vestigia di un tempio di Giove: da esso proviene la conca della piazza, in cui i sacerdoti parassiti predicavano al tempo in cui il Terabinto esisteva. Dopo la sua distruzione, fu costruito un tempio di Diana e la mole Adriana col ponte, che oggi è chiamato Castel Sant'Angelo, come verrà detto in seguito, secondo quanto si legge nelle iscrizioni, fino all'imperatore Crescenzio, che mutò l'anzidetto nome in Castello di Crescenzio; e tale nome Castel Sant'Angelo, così scelto dal santo papa Gregorio, è stato tramandato sino ai nostri giorni.


IN ROSSO LA POSIZIONE DELLA META ROMULI
E poi:

Un altro personaggio storico a cui la Meta veniva ancora riferita, in particolare durante il Rinascimento, era Publio Cornelio Scipione Africano (235–183 ac), il mitico generale romano che sconfisse Annibale. Di certo all'epoca di Annibale a nessun romano sarebbe venuto in mente di erigere una piramide, tra l'altro al popolo totalmente sconosciuta. 

"Il Palazzo di Scipione sorgeva in località "cavallo", sulla via Cornelia, come si vede tutt'ora."
Il "cavallo"è la semplificazione dell'antico toponimo coxa caballi (coscia di cavallo), più tardi mutato in Scossacavalli, riferito al centro di Borgo; fino al 1930 la principale piazza del rione portava questo nome finché scomparve con le demolizioni, e una strada adiacente si chiama ancora oggi via Scossacavalli.

Del resto anche in un'incisione della pianta di Roma antica, da " I vestigi delle antichità di Roma" (1575) di Etienne Duperac la piramide è riferita a Scipione.

Il pittore e incisore Pirro Ligorio nel 1561 pubblicò una pianta dell'antica Roma, Antiquae Urbis Imago, e in una pianta la piramide viene indicata in modo totalmente diverso, e cioè Monumentum Sempronii (Monumento di Sempronio).
Il Sepulcrum Semproniorum invece è situato fuori della porta Sanqualis, verso la fine dell'attuale Via Dataria e fu scoperto nel 1863 (Bull. d. Inst. 1864, 6).

Sebbene queste piante spesso riproducessero edifici e monumenti spesso con fattezze di fantasia, quella della Meta Romuli, costantemente riprodotta accanto al Mausoleo di Adriano doveva essere alquanto rispondente all'originale, essendo stata demolita solo 50-100 anni prima, e pertanto ancora viva nel ricordo della popolazione più anziana.
Solo poche fonti visuali del monumento risalgono ad un periodo precedente la sua distruzione; una di esse è rappresentata dal portale bronzeo della basilica di San Pietro, realizzato nel 1445 dal famoso scultore Filarete; nel riquadro che mostra il martirio di San Pietro, la Meta è chiaramente riconoscibile in primo piano nell'angolo in basso a sinistra. Ma nell'angolo opposto dello stesso pannello una struttura analoga a forma di piramide è senz'altro il misterioso Terebinto di cui fanno menzione le fonti medievali.



Il depredamento

Con gli splendidi marmi che ornavano la tomba venne infatti eseguito ahimè nel X sec. il pavimento del cosiddetto Paradiso, cioè il cortile di S. Pietro nonchè i gradini della basilica. Era situata sull'intersezione tra Via Cornelia e il lato est di Via Triumphalis, circondata da una pavimentazione con lastroni di travertino riutilizzati nel VII sec. per i gradoni della primitiva basilica di san Pietro.

Venne rimossa nella parte sud da papa Alessandro VI perchè gli copriva parte della visuale del Borgo Nuovo che stava facendo costruire nel 1499, cioè il cosiddetto Borgo Alessandrino, il che fa pensare a quanto poco fosse valutata l'arte romana da tanti papi, pur essendo in pieno Rinascimento.

Il resto della costruzione fu definitivamente cancellata nel 1518 da papa Leone X, ma secondo altri nel 1564 da papa Pio IV, quando la vicina chiesa di Santa Maria in Traspontina fu demolita per essere ricostruita in loco non molto distante ma in sintonia col nuovo piano regolatore, dove si trova tutt'oggi. Un altro pezzo importante di Roma che sparì in nome della modernità, come purtroppo accade tutt'oggi.


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FICUS OLEA VITIS

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FICUS-OLEA-VITIS NEL FORO ROMANO OGGI

Vi era un'area sacra, presso la Colonna di Foca, non lastricata fin dall'antichità in quanto accoglieva un fico, un olivo e una vite che dovevano all'incirca occupare l'area centrale del Foro Romano. La colonna di Foca fu l'ultimo monumento in ordine di tempo ad essere costruito all'interno del Foro. Dal 608 d.c. in poi iniziò il progressivo abbandono di questa zona, presso la quale sorsero solamente edifici di culto cristiani costruiti sfruttando i monumenti pagani preesistenti.
Naturalmente col cristianesimo le tre piante persero il loro significato, ma soprattutto erano collegate al culto pagano e quindi probabilmente distrutte.

Una zona sterrata posta tra l'iscrizione pavimento di Nevio Surdinus e le basi su cui furono scoperti i Plutei fu scambiata da alcuni studiosi per la pianta del giardino in cui erano i tre alberi, ma Plinio sembra indicare che fossero cresciuti presso il Lacus Curtius. Questo oggi è lastricato, ma non doveva essere completamente asfaltato all'epoca di Plinio.

L'iscrizione di Nevio Surdinus, a lettere di bronzo, (reintegrata in parte nei lavori del 1955) era su pavimentazione in travertino. Essa fu realizzata in epoca augustea dal pretore urbano Lucio Nevio Surdino (Lucius Naevius Surdinus) in ricordo della nuova pavimentazione dell'area dove si trovava un vecchio anfiteatro adibito ai giochi gladiatorii.

Sul Plutei Traiani (Nash 2:. Fichi 902, 905) viene citato un fico che stava accanto alla Statua di Marsia, ma è molto probabile fosse artificiale, forse di bronzo, e non avesse nulla a che fare con quelli famosi. Sembra invece che l'antica statua di Marsia insieme all'ulivo fosse posta nel Foro.
Ma chi è Marsia?



MARSYA

Marsya era un satiro, una creatura dei boschi della Frigia. Minerva aveva inventato il flauto ma suonandolo in un convito olimpico, venne derisa dagli altri Dei per l'antiestetico gonfiarsi delle sue gote; la Dea allora si specchiò, si trovò orribile e gettò via lo strumento. 

Lo raccolse Marsya, che lo suonò benissimo, tanto bene da sfidare Apollo lasciandogli scegliere le condizioni della gara, alla fine della quale il vinto sarebbe stato alla mercé del vincitore: Apollo accettò, e pretese che essi suonassero i loro rispettivi strumenti, cetra e flauto, tenendoli rovesciati. Così Marsya suonò male, e le Muse aggiudicarono la vittoria ad Apollo che legò lo sfidante a un albero e lo scorticò vivo. La terribile punizione è descritta da Ovidio (Met. VI 382-400), il quale aggiunge che M. si sarebbe poi mutato in un fiume Frigio.

Dante nella terza cantica invoca "il buono Apollo", buono? Scuoia viva una creatura ed è buono? 
"Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue".

De la vagina.... Apollo faceva la levatrice?

I commentatori moderni, concordi, hanno interperetato: "con quella potenza che mostrasti nella gara con Marsia", ma qui si parla di scorticamento, non di gara. Dante dà allo scuioiamento un significato allegorico "tolta del tutto ogni apparenza esteriore" Ma sembra poco convincente anche questa.

STATUA DI MARSYA
Marsia era in Frigia in relazione col culto di Cibele, un antico culto matriarcale e i Greci ne fecero un sileno o un satiro. Ora Athena-Minerva, Dea della guerra, abituata alla battaglia alle membra tagliate e al sangue. l'Athena Promachos, colei che combatteva sempre in prima fila... si scandalizza perchè le si sono gonfiate le gote suonando il flauto? Non è credibile.

Sicuramente vi fu una lotta tra i seguaci di Apollo e i seguaci di Marsia, tra i suonatori di lira e i suonatori di flauto. Due popoli si scontrarono portando ciascuno i propri Dei, così come si scontrarono gli antichi Dei greci, i Titani, con le divinità dell'Olimpo, portate dai nuovi invasori elleni. Naturalmente non furono gli Dei a scontrasi ma i popoli.

Ma i romani che c'entravano con Marsia? C'entravano, perchè il Dio Mars era anch'esso il figlio della Grande Madre, quando Hera non era ancora la sposa di Giove. I suoi templi, come l'Heraion di Samo e l'Heraion di Argo risalgono al VIII sec. a.c. e furono i primissimi esempi di tempio greco monumentale della storia.

Guarda caso Giove e Giunone, gli Dei dell'Olimpo, fecero pochi o nessun figlio tra di loro, ovvero solo alcuni miti li reputano di Giove, perchè Hera partoriva senza marito, come tutte le Grandi Madri.. Giove ne fece tanti ma con altre donne o Dee, e Giunone fece  Ares, Ebe, Eris, Efesto, e Ilizia, toccandoli con dei fiori magici.
Ares a Roma divenne Mars, il Dio della guerra. Ovvero: Mars già esisteva, era un Dio italico, preromano, tanto è vero che iniziò come Dio dei giardini e dei campi, un Dio della vegetazione, un po' come Marsia, del resto da Mars a Marsia il passo è breve.

Ma Marsia aveva una peculiarità, già scuoiato, girava vivo e vegeto con la pelle sulla spalla, esattamente come San Bartolomeo che girava anch'egli con la pelle sulla spalla per quel vezzo tutto cattolico di rieditare Dei e semidei romani in santi cristiani.

In effetti Dante non aveva tutti i torti, quello scuoiamento (che dovette essere qualcosa di terribilmente vero al tempo delle guerre di invasione ellenica) divenne poi un simbolo legato ai Sacri Misteri, quello che veniva chiamato il "Togliersi i vestiti di pelle", o togliere la maschera nei misteri Dionisiaci. L'eroe che cambia pelle è colui che riesce a trasformare se stesso e più inconsciamente che consapevolmente, divenne un simbolo di libertà, cioè l'iniziato redento, o più semplicemente l'uomo liberato da se stesso, dai suoi schemi.

Secondo alcuni studiosi queste tre piante erano simboliche, stavano infatti ad indicare l'importanza del fico, dell'ulivo e della vite nel commercio romano che nel V-IV sec. a.c. si basava principalmente sulla vendita di queste tre piante.

"Ficus, Olea, Vitis": "un albero di fico, un ulivo, e una vite crescevano nel mezzo del foro presso il Lacus Curtius". Plinio (Plinio HN 15.78) dice che il fico si era autoseminato, così come lo era anche l'uva, mentre l'ulivo sarebbe stato stato piantato per fare ombra, e sotto di esso c'era un altare, dedicato a non si sa chi, che fu rimosso al momento dei giochi gladiatori indetti  da Augusto per il Divus Iulius.

Ora guardiamo la realtà dei fatti. Sicuramente l'olio d'oliva e il vino erano un grosso commercio di esportazione per il suolo italico, in quanto ai fichi, molto usati dai romani, certamente davano il loro frutto economico, ma era più importato che esportato, ma guardiamone il simbolismo che fu all'origine della scelta delle piante.

L'olivo era la pianta sacra a Minerva, la vite era sacra a Dioniso-Bacco e il fico era sacro a... Rumina.. la Dea del Ficus Ruminalis.



IL FICO

Esso rimanda all'albero di fico selvatico nei pressi del Tevere sotto il quale Romolo e Remo furono allattati dalla lupa (e che secondo Livio si chiamava anche Romulare da Romolo).

La leggenda di Romolo e Remo narra che i due gemelli nacquero da Marte e Rea Silvia, la giovane vestale di Alba Longa violentata dal Dio.

Essendo figli della colpa, i gemelli vennero strappati alla madre per essere uccisi, ma un servo li pose in una cesta, affidandolo alle acque del Tevere. 

Trasportata dallo straripamento del fiume, la cesta si fermò in una pozza sotto il fico ruminale, nel punto in cui la lupa provvidenziale li avrebbe allattati.

Secondo alcune fonti, il fico si ergeva alle pendici del colle Palatino, nei pressi della grotta chiamata Lupercale.

Il termine "ruminale" venne discusso da Plinio il Vecchio, Tito Livio, Varrone, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso) con varie interpretazioni. 

Secondo alcuni deriverebbe dal latino "ruma" (mammella), parola che starebbe all'origine dei nomi di Romolo e Remo, secondo altri il fico prese il nome da Romolo, infatti fu detto anche ficus Romularis.

Comunque il ficus era già venerato in epoca preromana dai pastori, che vi si recavano con offerte di latte. In seguito vennero create due nuove divinità, Jupiter Ruminalis e Rumina.


Rumina

Rumina era una Dea preromana e poi romana che proteggeva le donne allattanti. Il suo tempio era ai piedi del Colle palatino, adiacente al fico ruminale, un albero di fico sotto cui la fatidica lupa avrebbe allattato Romolo e Remo. Alla Dea si offriva principalmente latte. (si pensa esistesse anche una Dea Ruma etrusca da cui si potrebbe aver attinto il nome). Certo che da Ruma a Rumina e a Roma il passo è breve.

Sebbene il fico ruminale fosse in origine solamente quello in riva al Tevere presso il quale si era fermata la cesta con i gemelli abbandonati, nel corso dei secoli successivi e fino in epoca imperiale altri alberi di fico furono oggetto di venerazione, talvolta con l'epiteto di "ruminale".

Secondo una leggenda il  Fico Navio (ficus navia), sorse spontaneo in un luogo colpito da un fulmine, pertanto "aedes sacra",  (Plinio, Nat. Hist. 15.77) oppure nacque da un virgulto del fico ruminale piantato da Romolo. Lo stesso albero sarebbe poi stato trasferito al Comitium, nei pressi di una statua dell'augure Atto Navio dal quale prese il nome.

Tito Livio narra che nel 296 a.c. gli edili Gneo e Quinto Ogulnio avevano eretto "ad ficum ruminalem" un monumento che rappresentava i gemelli e la lupa, Ovidio racconta che ai tempi suoi (43 - 18 a.c.) del monumento non restava nulla. Il monumento con tutta probabilità rappresentava una lupa coi gemelli sotto il fico ruminale, ma come mai sparì?

Plutarco e Plinio (Naturalis Historia 15.77) narrano invece che un fico fu piantato nel Foro Romano in quanto ritenuto di buon auspicio, e che ogni qual volta il fico moriva veniva immediatamente ripiantato. Tacito racconta (Ann. 13.58) che nel 58 d.c. l'albero ruminale iniziò a inaridire: ciò fu visto come un cattivo presagio, ma la pianta si rinvigorì con gran sollievo della popolazione.

Il fico ha una caratteristica particolare, e cioè che i fichi non ancora maturi, se spremuti, secernono una specie di latte, per cui vennero associati alla Dea lattifera, tanto più che il frutto del fico alla lontana somiglia a una piccola mammella. 

Si dice che Pitagora, che aveva orrore della fava, avesse invece un culto per il frutto del fico, che venisse portato in processione  nelle feste sacre e che addirittura fosse usato come simbolo del mistero che avvolgeva il cosmo (secondo altri, sempre per i pitagorici sarebbe stato una pera, anche questa però con una vaga somiglianza al seno femminile).

Per alcuni studiosi successivi il liquido del fico starebbe per il liquido seminale ma sembra davvero un po' tirata, tanto per volgere alcune leggende al maschile come usa ancora oggi. Per intenderci dunque il Fico Ruminale sarebbe stato il latte con cui la Dea allattò i gemelli romani e tutti i loro discendenti. Meritava davvero una statua nel Foro.

Il fico restava dunque un pianta sacra il cui significato era ormai già perduto al tempo dei romani, ma di cui continuava l'usanza legata a diverse leggende posteriori alla Dea Rumina. Il fico era comunque quello alla cui ombra furono allattati i figli di Marte, cioè: i Romani.



L'ULIVO

"Olea sacra erat Minervae" L'ulivo era sacro a Minerva. Originario dell'Asia minore venne diffuso dai fenici in tutto il Mediterraneo, per questo in Grecia fu sacro ad Athena. In Grecia però l'olio era conosciuto per le sue qualità medicamentose, per pulire e come per per lampade.  

ATENA
Dalla Grecia passò alla Magna Grecia e poi su tutta la penisola, divenendo sacro alla Dea italica Minerva.  Tuttavia quando fece la sua comparsa in Italia dell’olio di oliva era già conosciuto in alcune zone e già consumato come alimento.

Minerva era Dea della saggezza e della guerra, usato tanto per le lampade quanto come frutto ma soprattutto come condimento, indubbiamente l'olio più buono che il mondo conosca a tutt'oggi.  Poichè Minerva era Dea dell'intelligenza ella era l'ispiratrice dei generali più che dei soldati, delle strategie e del risparmio di vite romane e la sua guerra mirava a stabilire la pace. "Si vis pacem para bellum" fu il motto adottato da Augusto.

Saranno proprio i romani poi a migliorarne le tecniche colturali, ma, soprattutto, ne idearono i primi macchinari atti ad estrarre l’olio dalle olive, nonchè ne studiarono accuratamente i metodi di conservazione più validi.

I romani tennero così sempre in grande considerazione l’ulivo, tanto che in ogni territorio conquistato ne svilupparono la coltivazione, e per molto tempo costituì uno dei tributi che le popolazioni sottomesse al potere di Roma dovevano versare.

Inoltre i rametti dell’ulivo rappresentavano per i romani un simbolo di grande prestigio, ed intrecciati insieme con i rami di alloro divennero la corona che veniva posta sul capo delle persone più importanti e meritevoli.



LA VITE

La vite è la pianta che permette la produzione del vino, e Roma è sorta nell'antica Enotria, la Terra dei Vini.

Se è vero che in epoca monarchica e pure repubblicana alle donne romane era proibito bere vino  pena ritorsioni pesantissime fino all'uccisione della poveretta, è vero che dalla fine della repubblica le cose cambiarono e con l'impero ancora di più, e le donne bevevano allegramente partecipando a tutti i banchetti possibili.  

Non a caso Livia, la moglie di Augusto, si vantò di aver conseguito una venerabile età (86 anni) proprio per aver sempre bevuto un bicchiere di vino a pasto.

Lucrezio:
"E in effetti si narra che Cerere le messi e Libero la bevanda
prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali;
eppure la vita avrebbe potuto durare senza queste cose,
come è fama che alcune genti vivano tuttora.
Ma vivere bene non si poteva senza mente pura;
quindi a maggior ragione ci appare un dio questi
per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni,
le dolci consolazioni della vita placano gli animi."


Insomma il vino era la consolazione dei mortali dalle sofferenze e delusioni della vita, e quindi il dono più gradito per i mortali, e l'Italia venne infatti definita da Sofocle (V sec. a.c.) "terra prediletta dal Dio Bacco".

Diodoro Siculo sosteneva che la vite qui cresceva spontaneamente e che non era stata importata da altri popoli. Essa era tenuta, dalle popolazioni autoctone, incolta, ossia allo stato selvatico. Anche Plinio riferisce che nei primi tempi di Roma esistevano viti non potate.

I Romani invece impararono in fretta e bene, accumulando una profonda conoscenza dei segreti della coltivazione e della vinificazione. Avevano appreso tali segreti da Etruschi, Greci e Cartaginesi e, proprio da questi ultimi, impararono a costruire aziende agricole razionali e capaci di produrre, con grandi guadagni. I Romani avevano il senso del business, tutto doveva essere organizzato e produttivo.

Pertanto la vite non solo procurava grandi guadagni alla penisola, ma concedeva la letizia del vino, che bevuto in moderazione, concedeva quella distesa letizia che permetteva di addolcire una serata con gli amici in un lauto banchetto, o un piacevole incontro con l'amata.

I vini romani divennero pertanto migliori, curati e ben selezionati.  I grappoli immaturi o alterati, venivano anch'essi raccolti, ma servivano per produrre il vino degli schiavi. Ma Catone narra che il vino degli schiavi si produceva anche aggiungendo acqua alle vinacce già pressate e facendo fermentare il tutto.

Della "lora", ossia del "vinello" così ottenuto, agli schiavi spettava una razione di tre quarti di litro al giorno; in media era di 260 litri/anno. Oltre agli schiavi anche i contadini e gli operai in genere bevevano la "lora". Non era poi un cattivo trattamento, se non altro non erano i vini contraffatti ottenuti chimicamente che hanno talvolta avvelenato le tavole di noi moderni.


CONCLUSIONI

Fico, olivo e vite furono, insieme ai cereali, la fonte del nutrimento dei romani, ma furono anche il piacere della tavola dei romani e se ciò fu ritenuto dono degli Dei non fu un male, visto che per le religioni orientali, (o di origine orientale come la cristiana) gli Dei più che fare doni puniscono.

Ma dietro questi doni nacquero dei Misteri Sacri che comparavano in qualche modo la vita umana alla trasformazione della vite in vino e dell'oliva in olio, mentre il mistero dell'inflorescenza doppia e tripla del fico, unica pianta della zona mediterranea, che fiorisce più di una volta l'anno, sicuramente alludeva alla possibilità della reincarnazione sulla terra.

Non a caso Marsia, lo scuoiato diventa simbolo di libertà, viene posta la sua statua nel foro ed è glorificato da un arco vegetale formato da un fico su cui è attorcigliata una vite che si inarcano sopra l'eroe per unire le fronde di un ulivo. Insomma l'arco di trionfo dell'uomo libero.

DOMUS ACILII

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LE ORIGINI

Lungo la via Salaria venne scoperto un complesso cimiteriale di gallerie ipogee articolate su più piani, le cosiddette catacombe di Priscilla. Su di esse ci sono diverse ipotesi. Alcuni studiosi ipotizzarono che le rovine in superficie appartenessero alla domus della famiglia, sotto la quale essi avrebbero "autorizzato" lo sviluppo della catacomba, Altri studiosi di fede cattolica pensarono che la fondatrice e donatrice del terreno fosse stata Santa Priscilla, membro della gens Acilia.

Altri, che costituiscono oggi la maggioranza, pensano che le strutture esterne siano i resti di un grande mausoleo degli Acilii, risalente al I sec. d.c., dotato di una sua cisterna, e di gallerie idrauliche a livello del criptoportico, che fu appunto rimaneggiato fino a divenire, nei secoli successivi, l'ipogeo di cui si tratta.

FACTIO PANIS


DESCRIZIONE

Le catacombe comprendono tre nuclei principali:
- la regione degli Acilii,
- l'arenario,
- la regione della "Cappella Greca".

Oggi si è compreso che la regione degli Acilii era una serie di ambienti che in origine non avevano alcuna destinazione cimiteriale, ma facevano parte di alcuni settori seminterrati di una villa privata, probabilmente appartenenti all'antica gens romana degli Acilii.

I RE MAGI
Dalla villa si dipartiva infatti un corridoio rettangolare in laterizio realizzato in "opus vittatum" o "a fasce", con volte a crociera e un ambiente completamente impermeabilizzato che doveva essere la cisterna della villa per l'irrigazione di campi e giardini.

Il corridoio sbocca in un grande ambiente, anticamente una cisterna per la conservazione dell'acqua; al momento di trasformarla in ipogeo, si mantenne l'uso idraulico almeno in parte, come appare chiaro da una fistula plumbea (tubo) che si vede ancora in una parte della parete foderata in opus signinum. 

Nella Cappella greca si evidenziano i resti di un criptoportico, poi parzialmente trasformato in cisterna,

De Rossi ha osservato che il labirinto delle gallerie convergevano verso una cripta originale, a forma di greca Γ (Gamma), decorata con affreschi e una sala a pianta ottagonale con quattro nicchie absidale facente parte di un ninfeo.
Dall'ipogeo si aprono altri cunicoli all'interno dei quali furono scavate sepolture più modeste, ritenute risalenti al periodo delle persecuzioni di Diocleziano contro i cristiani, per cui si dovettero aprire rapidamente un secondo livello di corridoi a spina di pesce.

In realtà tutti i locali di cui sopra vennero inglobati nelle catacombe di Priscilla solo nel III sec. d.c., quando anche un braccio del criptoportico fu trasformato in ipogeo cimiteriale e riccamente affrescato con scene relative di fede cristiana.
Solo allora, in epoca decisamente cristianizzata, la proprietà e la villa degli Acilii furono da loro o da chi per loro messe a disposizione della comunità cristiana.



LA STORIA


Acilio Glabrione

Acilio Glabrione, console nel 191 a.c., conquistò i Macedoni nella battaglia di Thermopylai.

Di lui ci resta anche il piedistallo della statua equestre, di bronzo dorato, offerto a lui da suo figlio, il primo del suo genere mai visto in Italia, scoperto dal Valadier nel 1808, ai piedi della scalinata del tempio, e seppellito di nuovo.
A seguito di ciò eresse il Tempio della Pietà sul lato ovest del Foro Olitorio, ora trasformato nella chiesa di S. Nicola in Carcere.

Vennero pure rinvenute quattro iscrizioni, coi nomi di Manio Acilio. di sua moglie Priscilla, Acilio Rufino, Acilio Quinziano, e Claudio Acilio Valerio, oltre a un frammento di un sarcofago in marmo su cui era inciso: Acilio Glabrioni FILIO, quindi figlio del precedente, sepolto accanto al padre e ai suoi altri parenti.

La cripta della Acilii Glabrioni fu riscoperta nel 1888, nelle Catacombe di Priscilla, che si trova sotto il Monte delle Gioie. L'anfiteatro invece venne scoperto un anno prima, nel 1887, in parte scavato nella parte rocciosa della montagna, in parte costruita in pietra e muri a sacco.  Le sue rovine giacciono sulle pendici ricoperte di viti di Albano e di Castel Savello,


Manio Acilio Glabrione

Il Glabrione più noto nella storia del I sec. è Manio Acilio, che fu console con Traiano nel 91. Venne messo a morte da Domiziano nell'anno 95, come riferito da Svetonio ( Domitianus):
"Ha corrotto parecchi senatori ed ex-consoli che devono essere perseguiti con l'accusa di cospirare contro il loro impero. - quasi molitores rerum novarum - Tra loro Civica Cerealis, governatore dell'Asia, Salvidieno Orfitus, e Acilio Glabrione, che erano stati precedentemente banditi da Roma. "

IL BUON PASTORE E LA DONNA ORANTE
L'espressione Rerum novarum molitores ha un significato politico, nel caso dei Cerealis e Orfitus, e uno religioso e politico, nel caso di Glabrione, convertito alla fede cristiana, chiamata "nova superstitio" da Svetonio e Tacito.

Ne scrissero pure Dione Cassio, Giovenale, e Frontone narrando che durante il suo consolato, ad 91, e prima del suo esilio, fu costretto da Domiziano a combattere contro un leone e due orsi nell'anfiteatro adiacente villa dell'imperatore ad Albanum.

Xiphilino aggiunse che nel  95, alcuni membri della famiglia imperiale vennero condannati da Domiziano con l'accusa di ateismo, insieme ad altri personaggi importanti che avevano abbracciato "i costumi e persuasione degli ebrei", cioè, la fede cristiana.

Vi venne implicato anche Manio Acilio Glabrione, come Clemens e Domitilla, apertamente cristiani. Giovenale aggiunge che per rabbonire Diocleziano,  Acilio, dopo aver combattuto nell'arena di Albanum, assunse un'espressione istupidita. Svetonio sulla condanna di Flavio Clemente, dice che fu assassinato da Domiziano "ex tenuissima suspicione", su un leggero sospetto della sua fede.

Glabrione fu comunque messo a morte in esilio, ma non si sa dove. Si dice che la sua fede si propagasse tra i suoi parenti e discendenti, servi e liberti, visto i ricchi sarcofaghi e i poveri loculi rinvenuti nella cripta, ma il luogo della sepoltura non dimostra nulla, se non che i padroni dettero lì sepoltura a parenti e schiavi, come facevano solitamente.



LA CRIPTA

Sia la cappella che la cripta erano stati devastati, i sarcofagi rotti in mille pezzi; i mosaici delle pareti e il soffitto strappati dalle mura, insieme alle incrostazioni di marmo, l'altare fu smantellato e le ossa disperse. Si diffuse fosse stata opera dei pagani per sfregio ai cristiani.

MIRACOLO DEI 3 EBREI
Tuttavia vi è la testimonianza di Pietro Sante Bartoli 
"Gli scavi sono stati effettuati sotto Innocenzo X (1634-1655), e Clemente IX (1667-. .), nel Monte delle Gioie, sulla via Salaria, con la speranza di scoprire un certo tesoro nascosto. La speranza è stato frustrata, ma, nel profondo delle viscere del tumulo, sono state trovate alcune cripte, incrostate di stucco bianco, e notevoli per la loro pulizia e conservazione. ho sentito da uomini fidati che il luogo è infestato da spiriti, come è dimostrato da quello che è successo a loro non molti mesi fa. Mentre montavo sul Monte delle Gioie per una merenda, la conversazione cadde sui fantasmi che hanno ossessionato la cripta sottostante, quando improvvisamente la carrozza che li aveva portati lì, spinto da mani invisibili, ha cominciato a rotolare lungo il pendio della collina, ed è stata infine precipitata nel fiume Anio fino alla sua base. dovettero essere utilizzati diversi buoi trasportare il veicolo fuori del flusso. Questo è accaduto a Tabarrino, macellaio a S. Eustachio, e ai suoi fratelli che vivono in Via Due Macelli, le cui facce portano ancora i segni del grande terrore vissuto quel giorno."

L'aneddoto si riferisce alla tomba degli Acilii Glabrioni, che giace sotto il Monte delle Gioie, ed è l'unico nelle Catacombe di Priscilla che si noti per un rivestimento di stucco bianco. La sua distruzione, dunque, si è svolta sotto Clemente IX, nel XVII sec, e fu opera di cacciatori di tesori, cioè di scavi clandestini condotti da ignoranti.

LA CAPPELLA GRECA

La Cappella Greca è molto particolare, perchè usciti dal criptoportico si percorre uno stretto e basso cunicolo, fino a raggiungere una larga camera con volta a botte interamente dipinta di scene bibliche, con uno stile molto informato ma con grande accuratezza formale.

LA CAPPELLA GRECA
Pur ricordando una chiesa è in realtà un mausoleo ipogeo, con banconi in muratura lungo il perimetro, per far sedere gli ospiti in occasione del refrigerium cioè del banchetto rituale che si svolgeva in ricordo dei defunti.

Sull'arcosolio centrale, in campo rosso, è raffigurato un banchetto che gli studiosi hanno intitolato "Fractio Panis" o "Eucarestia": ad un triclinio semicircolare, dove sono serviti pane e pesce sono seduti sette personaggi tra cui un giovane uomo che spezza il pane e una donna velata.

Vi sono poi raffigurati episodi tratti dall'Antico Testamento: Mosé che fa scaturire l'acqua dalla roccia battendovi sopra con la verga; i tre giovani nella fornace, descritti dal Profeta Daniele, soggetto che ricorre anche nel cubicolo della "Velatio"; Susanna insediata dai malvagi anziani che la accusano. 

A destra, la Fenice, animale che la mitologia dice capace di rinascere dalle sue ceneri, insieme alla palma; in greco la palma e la fenice hanno la stessa denominazione "foinix".

Le gallerie sono scavate nel tufo, tenera roccia vulcanica utilizzata per la costruzione di mattoni e calce, e si estendono per circa 13 km. di lunghezza, in vari livelli di profondità.

DONNA ORANTE

LA DONNA ORANTE

Nella lunetta di fondo, una giovane donna, con abito sacerdotale e velo sul capo, alza le braccia in gesto di orante. Ai lati della donna forse due episodi della sua vita. Al centro della volta è dipinto il Buon Pastore  tra pavoni e colombe, con la scena dell'uscita di Giona dalla balena. Nella lunetta di sinistra del cubicolo è raffigurato il Sacrificio di Isacco e in quella destra i Tre giovani ebrei nella fornace di Babilonia.

Il piccolo oratorio all'estremità meridionale della cripta sembra invece essere stato consacrato solo alla memoria del suo primo occupante, l'ex-console Glabrione.
Come si può notare la qualità delle pitture, pur di grande interesse storico,  aveva perso totalmente la sua qualità artistica, neppur lontanamente paragonabili all'arte pompeiana o romana dei secoli passati.


BODRUM (Turchia)

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MAUSOLEO DI ALICARNASSO

Oggi Bodrum è una graziosa città di mare situata nella costa sud dell'omonima penisola, affacciata sull'isola greca di Kos, ma dietro di lei c'è una lunga storia.

DEMETRA
Il suo nome deriva dal latino Petronium ma più anticamente era chiamata Alicarnassom e risale all'incirca al 1200 a.c.
Venne conquistata dai romani nel 190 a.c. che naturalmente la arricchirono e restaurarono di grandi opere d'arte.

Qui si trovava una delle antiche sette meraviglie del mondo: il Mausoleo di Alicarnasso dove riposava il satrapo Mausolo.

Bodrum, oggi città della Turchia, è infatti l'antica Alicarnasso che dette i natali al celebre storico greco Erodoto (circa 484 - circa 420 a.c.).
Essa venne denominata da Omero “paradiso dell’eterno azzurro”, a causa dello splendido colore del suo mare turchese, colore che conserva a tutt'oggi.

Il re Mausolo, che fu satrapo della Caria, la parte dell'Asia Minore che faceva parte dell'Impero achemenide persiano, governando dal 377 alla sua morte nel 353 a.c..

Egli fuùu inumato nella bellissima tomba fattagli edificare dalla sua amatissima moglie ad Alicarnasso.

Di tale monumento, sopravvissuto alla conquista di Alessandro Magno e alle incursioni dei pirati, considerato come una delle sette meraviglie del mondo nell'antichità, sopravvivono purtroppo all'ignoranza degli uomini più che agli eventi naturali, solo alcune rovine.

Gli eventi naturali possono far crollare le colonne e le trabeazioni, ma l'opera dell'uomo può ricostituirle, a meno che non le smembri e le utilizzi per la nuova edilizia, o peggio ne faccia scempio calcinandole.

ERODOTO
Si sa quanto la religione cristiana abbia fatto scempio di statue romane e greche, di templi ed edifici sacri in genere, spesso spogliando anche i teatri considerati luoghi di perdizione, ma come non bastasse, nel 1522, gli Ottomani, sotto il comando del Sultano Solimano il Magnifico, conquistarono Rodi dopo un assedio di sei mesi.

Il Sultano, per il coraggio dimostrato dai Cavalieri Ospitalieri, permise loro di abbandonare Rodi senza ritorsioni.

Tuttavia si fece consegnare le loro proprietà nell'arcipelago del Dodecanneso, e il castello San Pietro, la cittadella edificata con le pietre del mausoleo di Alicarnasso.

Anche qui vi la spoliazione e la riedificazione. Ma non finisce qui, perchè nel XV sec., i cavalieri di Rodi, cioè i Cavalieri dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, conosciuti anche come gli Ospedalieri, riacquisiti i luoghi, edificarono sopra l'antica cittadella un potente castello, cui dettero il nome di San Pietro, da cui deriva il nome dell'attuale Bodrum (dal latino Petreum, o Petronium).

Purtroppo i cristiani monaci guerrieri avevano molto rispetto per la loro religione ma molto meno per gli antichi e artistici monumenti, perchè anche se ridotto circa alla metà della sua altezza, il monumento era ancora ammirabile e ricostruibile, ma i cavalieri di Rodi ne fecero la loro cava di pietra.

IL TEATRO

IL TEATRO

Situato sui pendii meridionali del quartiere di Goktepe, il teatro risale al IV sec. a.c., ma fu restaurato molte volte, soprattutto fu non solo restaurato ma anche abbellito dai romani con decori e statue.
Straordinariamente il teatro è perdurato per ben 2300 anni e pure in notevole stato di conservazione, nonostante i lavori moderni per la sua ristrutturazione non siano stati svolti in modo professionale. 
Esso poteva accogliere 13000 persone, ed aveva una particolare caratteristica, cioè di avere incisi sui gradini il nome di parecchie persone.
Più che ad avere posti riservati, si pensa fossero le opere di evergetismo romane, cioè i ricchi del posto, romani e non, dovevano aver elargito soldi per la ristrutturazione del teatro, scrivendo i propri nomi in qualità di donatori nei confronti della comunità. Questo serviva loro a dargli prestigio, soprattutto per le elezioni civiche.

Al contrario dei giorni nostri, i ricchi romani spendevano di tasca propria per fare monumenti alla popolazione che grata li eleggeva nelle cariche pubbliche. Al contrario oggi non solo i politici non spendono di tasca propria, ma nemmeno di tasca dello stato, in quanto non chiedono voti su ciò che hanno fatto, ma su ciò che andranno a fare, in genere con poca o nulla attendibilità.

Il che dimostra quanto forte fosse il senso civico dei cittadini romani, una consapevolezza trasmessa anche nelle province finchè la barbarie non tornò a cancellare tutto in nome di religioni fanatiche e intolleranti.
Del teatro se ne riconoscono gli ampi colonnati e parte dei muri della vasta scena, i sedili in parte ricostruiti ma della stessa pietra, in parte ricollocati in modo improvvisato, dimenticando la meticolosa precisione dell'edilizia romana, nonchè i muretti delle angolazioni, senza gli ornamenti e le statue che lo abbellivano sosntuosamente.
Oggi la parte ristrutturata può accogliere solo 5000 persone e comunque è usata per concerti moderni.



LA TOMBA DI ADA

SACERDOTE
ROMANO
Ada di Caria (377 – 326 a.c.) fu una regina greca satrapo della Caria, vissuta nel IV sec. a.c.. All'epoca le donne potevano subentrare nel potere dei mariti, segno che ancora si conservava parte delle regole matriarcali della più remota antichità.

Sorella di Mausolo ed Artemisia, sposò l'altro fratello Idrieo che regnò dal 351 alla sua morte, nel 344 a.c. Alla morte del marito Ada, che aveva il sostegno dei Macedoni, assunse il controllo della Caria, che le fu tolto però nel 340 a.c. dall'altro fratello Pissodaro.

Poi anche questo fratello morì, nel 335 a.c., ma gli succedette il fratellastro Orontobate, nominato dal re di Persia Dario III, che in realtà le usurpò il trono esiliandola in una parte esigua e remota del suo regno di cui le lasciò il governo.
Quando Alessandro Magno giunse in Caria, nel 334 a.c., Ada, che era stata mandata in esilio ma con il comando della cittadella di Alinda, gli si arrese immediatamente considerandolo un liberatore.

Dopo aver conquistato Alicarnasso Alessandro, benevolo verso la regina, le affidò il governo della Caria. Ada in cambio, lo adottò legalmente come figlio, così che le succedesse al trono di Caria alla sua morte.

Secondo gli archeologi turchi, è stata scoperta la tomba di Ada: i suoi resti sono esposti al museo archeologico di Bodrum. ovvero il sarcofago, con scheletro e gli oggetti personali della tomba detta della principessa, che senz'altro è la tomba di una ricca dignitaria, ma la cui attribuzione però è ancora controversa.

PORTA DI MYNDOS

LA PORTA DI MYNDOS

Fra i resti notevoli di Bodrum vi è la porta di Myndos, una porta ellenistica che costituiva una delle due entrate dell’antica Alicarnasso.

Secondo gli storici la città fu conquistata da Alessandro Magno proprio tramite l’abbattimento di questa porta massiccia peraltro considerata inespugnabile.

Venne poi ricostruita in blocchi di pietra andesite, come era d'altronde all'origine, cioè una pietra grigio chiaro, mescolando però le pietre con altre di altra natura, più chiare o più scure, poichè evidentemente l'andesite non era più facilmente reperibile  e venne chiamata Myndos in quanto fronteggiava l'antico porto di Myndos (oggi Gümüslük)

MOSAICO PRESSO MYNDOS

LE BIBLIOTECHE

Si pensa ragionevolmente che il nucleo principale delle collezioni librarie sia stato composto dagli autori che andavano per la maggiore in quell'epoca, come è confermato da un'iscrizione di Alicarnasso. Essa cita gli onori ufficiali elargiti ad un a celebrità del luogo, un drammaturgo chiamato Caio Giulio Longiano. 

Tra gli onori si menziona l'inclusione dei suoi libri "nelle nostre biblioteche cosicché i nostri giovani possano apprendere da essi allo stesso modo con cui apprendono dagli scritti degli antichi". 

Dal che si desume che i giovani di Alicarnasso avessero a disposizione presso le loro biblioteche, evidentemente più di una, dato che si usa il plurale, le opere di scrittori di altri tempi, di Omero, di Euripide, sicuramente del grande concittadino Erodoto, così come le opere di Longiano. Le collezioni di Alicarnasso, e in genere in tutto l'oriente, consistevano però quasi esclusivamente di libri in greco.

MAUSOLEO DI ALICARNASSO

MAUSOLEO DI ALICARNASSO

Il mausoleo di Alicarnasso è la monumentale tomba che Artemisia II, moglie e sorella del satrapo Mausolo, governatore della Caria, ad Alicarnasso dal 353 al 350 a.c. Esso venne riconosciuto come una delle sette meraviglie del mondo antico, che erano:

- La Piramide di Cheope a Giza (Egitto)
- I Giardini pensili di Babilonia (Mesopotamia)
- La Statua di Zeus a Olimpia (Grecia)
- Il Tempio di Artemide ad Efeso (Turchia)
- Il Colosso di Rodi (Grecia)
- Il Mausoleo di Alicarnasso (Turchia)
- Il Faro di Alessandria: (Egitto)

Il monumento funebre fu costruito da Pìtide (o Pìteo lat. Pythis o Pytheus), che avrebbe eseguito personalmente la quadriga alla sommità del monumento. e vi lavorarono artisti come Briasside, Leochares, Timoteo e Skopas. 

RESTI DEL MAUSOLEO
Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, così la descrive:
« … i lati sud e nord hanno una lunghezza di 63 piedi ( 18,67 m); sulle fronti è più corto. Il perimetro completo è di 440 piedi (130,41 m); in altezza arriva a 25 cubiti (11,10 metri) ed è circondato da 36 colonne; il perimetro del colonnato è chiamato pteron…
Skopas scolpì il lato est, Bryaxis il lato nord, Timotheos (Timoteo) il lato sud e Leochares quello ovest ma, prima che completassero l'opera, la regina morì. Essi non lasciarono il lavoro comunque, finché non fu completato, decisero che sarebbe stato un monumento sia per la loro gloria sia per quella della loro arte ed anche oggi essi competono gli uni con gli altri. Vi lavorò anche un quinto artista. 
Sullo pteron si innalza una piramide alta quanto la parte bassa dell'edificio che ha 24 scalini e si assottiglia progressivamente fino alla punta: in cima c'è una quadriga di marmo scolpita da Piti. Se si comprende anche questo l'insieme raggiunge l'altezza di 140 piedi (41,50 m)... »

Essendo di gran lunga la tomba di Mausolo il monumento funebre più bello e ricco mai concepito all'epoca, il termine mausoleo passò ad indicare tutte le grandi tombe monumentali. Fu distrutto da un terremoto, e oggi sono visibili solo alcune rovine.

Alcuni resti del Mausoleo, soprattutto i resti dei cavalli e della quadriga che si ergevano sulla sua cima, sono conservati e visibili al British Museum di Londra, dove vi è anche un'impressionante spiegazione delle proporzioni dell'opera, partendo dalle dimensioni (già di per sé notevoli) dei resti dei cavalli lì esposti.
CAVALLI DELLA QUADRIGA

QUADRIGA DEL MAUSOLEO

Le statue di Artemisia e di Mausolo, che dovevano far parte del mausoleo, di fattura squisita ed ellenica sono state purtroppo deturpate, sopratutto quella di Artemisia, presa a colpi di mazza sul volto.

Pertanto conosciamo le fattezze di Mausolo ma non della sua amata sorella-moglie, se non per le copie che vennero fatte all'epoca e poi recuperate.

ARTEMISIA E MAUSOLO

TESTA DI APOLLO

APOLLO
Di questa testa invece è sicura l'attribuzione per i frammenti reperiti del suo nome, nonostante l'acconciatura a foggia di fiori che gli ornava la fronte e che era acconciatura prettamente femminile.

Ma spesso nell'antichità Apollo aveva attributi femminili, come il seno, la veste o l'acconciatura, insomma una specie di androgino.

Insomma ci sono le prove che si tratti effettivamente del Dio Apollo, anch'esso impietosamente deturpato dalla mazza vandalica dei cristiani prima e degli ottomani poi.

Si pensa facesse parte di una statua colossale, posta all'interno di un pronao o di una cella aperta, poichè difficilmente poteva essere un simulacro da portare in processione, dato il peso smisurato della statua in questione.



TESTA COLOSSALE

TESTA COLOSSALE
Questa testa di donna dalle dimensioni colossali (anche questa oltre un metro) doveva sicuramente essere l'immagine di una Dea, forse Cibele, a cui riporta spesso l'acconciatura dei capelli, ma non ve ne è certezza.

Quel che è certo è che dimensioni del genere nelle statue venivano riservate solo alle divinità. Si sa pure che il culto di Cibele era seguitissimo in tutta l'Asia Minore.

Infatti fu da lì che il culto, fin dai tempi della repubblica, venne trasferito a Roma, e fu lei che nella tradizione, salvò, secondo i responsi sibillini, Roma dalla dominazione cartaginese.

Si tratta comunque della statua di una Dea posta in un tempio a lei dedicato.




IL LEONE DEL MAUSAOLEO 

Probabilmente a guardia del mausoleo, forse in coppia con altro leone o facente parte di un nutrito stuolo. Anche questo di stupenda fattura ellenica.

VILLA DEI PISONI - BAIA SOMMERSA

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VILLA DEI PISONI

E' il primo incontro nel tragitto subacqueo del Parco Archeologico di Baia Sommersa, un itinerario tra i resti di una antica villa patrizia di epoca imperiale appartenuta alla famiglia dei Pisoni e in seguito confiscata da Nerone.

Della ricca villa compaiono i resti dei colonnati e corridoi dei portici che circondavano il grande giardino, una fontana ed una grande piscina termale in ottimo stato di conservazione. Poi compaiono peschiere, pilae, la via Herculanea e stanze con splendidi mosaici pavimentali.

La villa era già conosciuta attraverso fotografie aeree, insieme a tante altre strutture sommerse costiere.
Fu però il prof. Nino Lamboglia, esperto in archeologia subacquea, che la studiò e posizionò, verso gli anni '60, a circa 150 mt. a sud-est al largo di Punta Epitaffio.

Tuttavia il rilievo grafico e topografico in dettaglio, arrivò alla fine degli anni '80, grazie ad un gruppo di volontari del Centro Campano di Archeologia Subacquea, che individuò anche una fistula plumbea con il bollo di Lucio Pisone, scoprendo così con certezza l'appartenenza della villa alla ricca e patrizia familia dei Pisoni. Rei di "maestatis" per la congiura contro l'imperatore Nerone persero la vita e la villa.


LA VILLA

SEMICOLONNA IN LATERIZIO DEL PORTICO
DELLA VILLA DEI PISONI
La villa venne eretta agli inizi del I sec. d.c., poi più volte ristrutturata nel corso del I e del II sec., a causa sicuramente soprattutto del mare avanzante col bradisismo. L'edificio si sviluppa intorno ad una vasta corte centrale a pianta rettangolare di m 95 x 65 circa, sicuramente a giardino, circondato da portici su cui si affacciavano le numerose stanze, con una superficie totale di bel m 120 x 160. Quasi 2000 mq di villa.

Naturalmente disponeva di bacini di approdo ed era protetta dai venti salini da una serie di pilae a doppia fila. Come tutte le ville marittime della zona, aveva delle peschiere per l'allevamento del pesce da tavola ma pure per l'esportazione che era all'epoca un ottimo business..



IL PERCORSO

Il primo tratto dell'esplorazione subacquea, organizzato dalla Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta inizia da un primo pannello esplicativo (1), posto su un supporto cementizio, e con una sagola guida, percorre la facciata nord, corrispondente al tratto (1-5) della pianta.
Il numero 6 del percorso è presso le terme, mentre il n. 7 è vicino alla fontana. Il percorso (7-12) corrisponde al corridoio absidato interno, infine i numeri (12-15) corrispondono alla facciata con semicolonne in laterizio. Il numero 16 segna la fine dell'itinerario.

Estratto da: Archeologia subacquea. Studi, ricerche e documenti. I-1993
NUOVO DOCUMENTO EPIGRAFICO DALLA “VILLA DEI PISONI” 

"Le campagne di rilievo condotte nella monumentale villa sommersa 130 metri a sud-est di Punta dell'Epitaffio a Baia hanno consentito negli ultimi anni di ricostruire un quadro chiaro delle sue rielaborazioni architettoniche e funzionali

. Ci soffermiamo, in questa sede, sulla fistula plumbea, la cui iscrizione riteniamo consenta di attribuire la più grande fra le ville sommerse finora note nel golfo di Baia ad una ricca e potente famiglia romana della tarda età repubblicana e primo-imperiale.E' noto che molte delle personalità più influenti ebbero proprietà nei Campi Flegrei, ma finora, per quanto numerosi siano i monumenti conservati, non si è quasi mai riusciti ad abbinarli con i nomi dei proprietari.

La nostra fistula rappresenta quindi un'eccezione; la sua acquisizione si annovera tra i frutti di un organico programma di ricerca e di lavoro i cui risultati vengono qui presentati. La conduttura fu rinvenuta ancora nell'alloggiamento originario, in posizione orizzontale, nell'angolo meridionale del vasto cortile della villa, subito ad est della curvatura meridionale dell'ambulacro sud-occidentale.

La sua particolare importanza è data dalla presenza su di essa di tre bolli, in rilievo, ancora perfettamente leggibili. Ciascuno di essi misura cm 11 di lunghezza e consta di una sola riga, costituita dall'iscrizione L(uci) PISONIS.
Dall'esame paleografico è stato possibile collocare il reperto agli inizi del I sec. d.c., forse in coincidenza con il primo impianto della villa.

Dal punto di vista struttivo, di questa prima fase oggi ben poco è visibile; nel tempo, in sintonia con quello che era l'uso comune a Baia, dove grosse somme venivano profuse per rielaborare costruzioni preesistenti, la villa subì numerosi rifacimenti. La fistula dunque è uno dei pochi elementi ancora rintracciabili del primo assetto della villa.

E' noto che la presenza di un nome su di una fistula aquaria può avere vari significati. Principalmente può riferirsi all'officinator, l'artigiano che materialmente sistemava la rete idrica costruendo e saldando le varie tubature; può anche ricordare il nome del proprietario del fondo o della costruzione attraversati dalle stesse tubature e da esse servita.

Riteniamo che il bollo vada interpretato in questo senso.In questo caso non sorprenderebbe l'omissione del gentilicium: per i Pisoni, ed in genere per le famiglie della nobilitas, era un uso abbastanza frequente. La villa sommersa al largo di Punta dell'Epitaffio apparteneva dunque ad un esponente della famiglia dei


Calpurnii; Pisones

PLANIMETRIA DELLA VILLA (zommabile)
Fra le varie fonti classiche relative a Baia, presenta notevole interesse un passo di Tacito (Ann., XV, 59); lo storico vi narra della congiura antineroniana del 65 d.C. e ricorda non solo i nomi dei vari
congiurati guidati da C. Calpurnio Pisone, ma anche il luogo ove essa venne ordita: nella villa di Gaio apud Baias. Ma chi è il Lucio menzionato dal bollo?

Possediamo a questo punto una doppia serie di elementi: la fistula, databile agli inizi del I sec. d.C., con il nome di un L. Piso proprietario della villa nella quale è stata trovata in situ e il passo di Tacito relativo alla villa di Gaio Calpurnio Pisone capo della fallita congiura contro Nerone.

Si pongono, di conseguenza, due ordini di interrogativi: esiste un legame stretto tra i due Pisoni? La villa
sommersa dinnanzi alla Punta dell'Epitaffio è quella menzionata da Tacito? Gli elementi di cui si è in possesso fanno propendere per delle risposte affermative, giacché non si hanno altre indicazioni che lascino supporre l'esistenza nei Campi Flegrei di un'altra residenza di proprietà dei Pisoni. Veniamo dunque al nocciolo della questione: chi è Lucio, il cui nome è documentato dalla fistula di Baia?

E' noto che quella dei Pisoni fu una famiglia assai ricca e molto articolata ma non perfettamente conosciuta; per taluni suoi esponenti risulta infatti alquanto problematico ricostruire gli effettivi legami di parentela. Lo stemma proposto dal Groag, per il periodo su indicato, presenta cinque personaggi candidati all'identificazione, in breve ne tracciamo i profili:

- L. Calpurnius Piso Pontifex.

- L. Calpurnius Piso forse figlìo del Pontifex. Figlio del Cesonino, nacque nel 48 a.c. Fu console nel 15 a.c. e governatore della Pamphylia, quindi per tre anni fu impegnato a reprimere un'insurrezione in Tracia che gli fruttò gli ornamenti trionfali. Nel 2-3 a.c. ebbe il proconsolato in Asia e nel 13 d.c. fu preposto alla prefettura urbana fino alla morte nel 32.

- L. Calpurnius Piso Augur. Nato verso il 6 a.c., morì ancora pretorio in Hispania Citerior, nel 25 dc..

- Cn. Calpurnius Piso console nel 27 d.c.. Console nel I ac., fu proconsole d'Asia nel 6 d.c. Accusato di maiestas nel 24, morì prima di essere giudicato.

- Figlio di Cn. Calpurnius Piso, console nel 7 a.c., in seguito alla damnatio che colpì quest'ultimo, nel 20 dovette mutare il praenomen in Lucius. Nel 36-37 fu prefetto urbano, nel 38-39 proconsole in Africa. Lucio viveva ancora all'epoca di Vespasiano

- L. Calpurnius Piso, Il console dell'anno 27 si ritrova ancora sulla scena politica all'epoca di Vespasiano, come del resto suo figlio.

- Figlio del console del 27, rivestì la medesima carica nel 57 con Nerone. Nel 60-63 fu curator aquarum; nel 68-69 rivestì il proconsolato in Africa. Infine, sospettato di aspirare al trono, fu ucciso nel 70.

L. Calpurnius Piso Pontifex, se si inserisce senza troppa difficoltà nel periodo del bollo, è in realtà una figura isolata ed anche i suoi più diretti congiunti sfuggono ad una sicura identificazione.
Resta L. Calpurnius Piso Augur, il quale non sembra aver figli né legami col Gaio congiurato.
Esiste però un'informazione, di Tacito: Calpurnius Piso Galerianus, che consente di avanzare nella ricerca anche se solo per via ipotetica.

AFFRESCO CON INCANNUCCIATA D'ORATA
SU FONDO SCARLATTO
Quindi il Caius congiurato e Cnaeus, poi Lucius, console nel 27, poterono essere cugini o fratelli. Se si sostiene questa seconda ipotesi si risale al comune genitore, Cnaeus Calpurnius Piso, figlio di Gaio, era consobrinus di L. Calpurnius Piso console nell'anno 57.

Purtroppo il termine è generico, ma ammettiamo dunque che i due siano stati cugini: ciò implica che anche i loro genitori dovettero essere a loro volta cugini o fratelli, senza alcun risultato utile per la nostra ricerca, ma anche se li si considera cugini si può ugualmente immaginare che i loro genitori fossero cugini o fratelli.

In questo secondo caso, il padre di Cnaeus che poi divenne Lucius, ossia Cn. Calpurnius Piso, console nel 7 a.c., risulta essere fratello del padre di Caius il congiurato. Questa figura esiste. Nello stemma del Groag, fratello di Cnaeus risulta essere proprio L. Calpurnius Piso Augur, che dunque possiamo supporre essere stato padre di Caius. Avremmo quindi individuato il Lucius della nostra fistula e quali legami lo unissero al capo della fallita congiura antineroniana.

Si può, con tali elementi, ricostruire anche la storia della villa baiana: edificata tra la fine del I sec. a.c. e l'inizio del I sec. d.c. da L. Calpurnius Piso Augur, passò poi a Caius, il quale vi preparò la congiura che gli costò la vita e la confisca dei beni. E' ancora Tacito (XV, 52) a narrare quanto graditi fossero i bagni della villa di Gaio all'imperatore, il quale del resto aveva una sua dimora confinante con quella dell'ex amico.

Ovviamente, la villa, che già poté subire delle ristrutturazioni sotto Gaio, incorporata nel demanio fu sottoposta ad una serie di trasformazioni; il nucleo originario sparì pian piano sotto sempre nuove soluzioni architettoniche.

E' opportuno, infine, ricordare che il rinvenimento della fistula, con le conseguenze che ne derivano, può servire, di concerto con altre argomentazioni, a porre fine alla spinosa questione della localizzazione del sito dell'antica Bauli. Ebbene, con buona pace di quanti la pongono nei pressi di Punta dell'Epitaffio, le parole di Tacito sono chiare: la villa di Pisone si trova a Baia ed è lì che la si è rinvenuta, 130 metri a sud-est di Punta dell'Epitaffio."
(Nicolai Lombardo)




IL NINFEO DI CLAUDIO

"Il ninfeo d'età claudia, sito a -7 m ca. sui fondali marini antistanti Punta Epitaffio, rivela solo parte di Baia sommersa. Esso apparteneva al complesso, noto da resti sparsi e mal conservati, disposto a terrazze dalla cima del promontorio all'antica Baiae, estesa in mare fino a 400 m ca. dalla riva.
In età romana, sul sito del piccolo golfo, era il Baianus lacus, lago costiero citato da Seneca, Tacito e Marziale, scomparso per il bradisismo, ma riconoscibile dai resti antichi sulle sponde.



LA VILLA ADRIANEA

A est del ninfeo, separato da una strada, era un nucleo edilizio, con terme (I-III sec. d.c.) e un ninfeo di forma emidecagonale a tre absidi, di età domizianea (81-96 d.c.), unico nel suo genere a Baia.

PILASTRO MONOLITICO DI PESCHIERA
Una villa imponente sorse in età adrianea (117-138 d.c.) a sud-est della Punta sui resti della più antica (fine I sec. a.c. - inizi I sec. d.c.), attribuita alla famiglia dei Pisoni per i bolli impressi su una conduttura idrica di piombo.

Dotato di terme, giardini e un quartiere marittimo, con vani di soggiorno, cisterne e peschiere, difeso da barriere frangiflutti, l'edificio mostra analogie architettoniche con la Villa Adriana a Tivoli.
Ciò fa pensare a interventi dello stesso Adriano e all'appartenenza della villa al demanio imperiale, dopo la confisca di quella dei Pisoni, seguita forse alla fallita congiura contro Nerone (65 d.c.).

A nord del canale erano terme, forse pubbliche, visto il carattere urbano degli edifici, evidenziato da tabernae e da una strada.



PORTUS BAIARUM

Le sponde est e ovest del lago, chiamato Portus Baiarum da Plinio il Vecchio e Floro, si individuano da altre strutture, poste sotto la banchina portuale, dove anni fa si rinvennero sculture e decorazioni marmoree, del III sec. d.c. Altri resti sono sui fondali antistanti i Cantieri di Baia (G).

Peschiere monumentali sono state poi di recente scoperte davanti al Castello Aragonese (H), sul cui sito gli studiosi ubicano la villa di Giulio Cesare. Gli imperatori e la corte soggiornarono spesso a Baia.

Il Ninfeo di Claudio (41-54), con la sua fastosa decorazione, è però l'unico monumento che può sicuramente identificarsi con un ambiente della sua residenza, ed anche l'unico a fornire precisi dati geo-archeologici sull'epoca del bradisismo (fine III sec. d.c.) su questo tratto di costa.

Non fu però questa la sola residenza imperiale. Autori antichi attestano infatti che molti imperatori edificarono a Baia, quasi a gara coi predecessori.

A Nerone (54-68 d.c.), per esempio, è attribuito il "Complesso della Sosandra", sito nel Parco Archeologico, riconoscibile come l'ebeterion fatto da lui costruire, secondo Dione Cassio, per riposo e svago dei marinai della flotta di Miseno.




I TEMPLI

All'età Adrianea datano invece la sala nota come "Tempio di Venere" e il settore a monte, nel Parco Archeologico.
Nel "Tempio di Diana", e nel complesso circostante, si riconosce infine l'edificio eretto da Alessandro Severo (222-235 d.c.) in onore della madre Giulia Mamea, forse un heroon dinastico.

I monumentali resti di Baia, sembrano però indicare la complessa realtà del Palatium, di cui si ignora quali fossero i confini con le proprietà e come si inserì nel contesto urbano.
Degna di nota è la schematica rappresentazione dei monumenti della Regio Baiana sui tre vasetti vitrei di Populonia, Ampurias e Varsavia, fabbricati a puteoli (fine III- inizi IV sec. d.c.).

Quello di Varsavia, in particolare, sembra restituire il quadro completo, come doveva offrirsi agli occhi degli antichi e come va gradualmente configurandosi oggi in seguito alle ricerche nell'area archeologica sommersa."

(dr Paolo Caputo)



LE ULTERIORI SCOPERTE

CANALE DELLA PESCHIERA
"Il grande edificio di forma rettangolare posto 130 metri a sud-est di Punta dell'Epitaffio, attribuito nella sua prima fase alla famiglia dei Pisoni, ha rivelato nuovi interessanti aspetti. I nuovi rilievi hanno infatti restituito dimensioni complessive del monumento ancora più cospicue di quelle note (la parte finora rilevata misura m 295X270);

Le ricerche hanno poi meglio precisato la fisionomia del nucleo meridionale, e, di conseguenza, posizionato con maggior sicurezza l'antica linea di costa. Sono infine emerse utili informazioni circa l'ubicazione degli ancora poco definiti settori abitativi.

Rispettivamente ad est e ad ovest del vasto complesso centrale si aprivano due bacini. Il bacino ad est, più piccolo (m 30X45), realizzato in blocchi di cementizio, era protetto da una scogliera ed ospitava probabilmente piccole imbarcazioni che potevano accedervi per mezzo di un'imboccatura sul lato orientale larga 9 metri. Il bacino ad ovest è molto più grande (m 80 x 110); era riparato a meridione da pilae disposte su doppia fila, che misurano m 5X5, si elevano di poco dal fondale e si impiantano alla profondità massima di m 8,50.

Una gettata cementizia, larga m 1,70 e lunga circa m 50, assai insabbiata e corrosa dall'azione dei marosi, si trova sul suo lato occidentale.Sullo stesso lato è collocata un'apertura larga m 25. Una seconda gettata cementizia, lunga circa m 40 e larga m 2,5, è situata a nord.
La profondità interna sulla sabbia è mediamente di 7 metri. L'interno di questo specchio d'acqua era almeno parzialmente occupato da vivai, oggi quasi completamente insabbiati.

Le parti affioranti si riducono ad appena tre vasche: una più grande di m 11 x 20, altre due più piccole rispettivamente di m 6 x 10 e m 4,5 x 5.

Alcuni particolari, quali la sommità dei monoliti con scanalatura per lo scorrimento delle paratie (ancora in sito) che emerge di poco dalla sabbia, e la presenza di aggetti (larghi da cm 75 a 100), a tratti visibili lungo il lato orientale del bacino, fanno ritenere che più a nord si trovino altri vivai occultati dalla rena, per un'estensione di oltre 75 metri.

I dati raccolti suggeriscono quindi l'immagine di una peschiera suddivisa in vasche, realizzata interamente in acqua, protetta da piloni in opera cementizia e situata all'interno di una «darsena».
L'ampiezza dell'ingresso (m 25) di questo vasto e riparato specchio d'acqua suggerisce tuttavia un'utilizzazione complementare come approdo; se questa ipotesi fosse corretta, si tratterebbe del primo riscontro archeologico all'epigrafe degli embaenitarii piscinenses, rinvenuta, com'è noto, nel
secolo scorso.

Questa epigrafe ricorda l'esistenza di un corpo di battellieri attivi nelle piscinae imperiali su «triremi». Le proporzioni del bacino, la contiguità con piscinae in litore constructae e l'appartenenza al demanio imperiale della villa già pisoniana — oltre all'unicità di questa installazione in Baia — sembrano deporre per l'identificazione di queste strutture con il complesso ricordato nell'epigrafe degli embaenitarii.

La gettata cementizia ubicata tra i due approdi ha una lunghezza, a partire dal lato meridionale della villa, di circa m 155 ed una larghezza massima di m 80; si trova alla profondità media di m 6 ed ha orientamento nord/sud.

Nella sua parte iniziale si eleva dalla sabbia di circa m 2 sul lato est e di appena m 1 ad ovest. Era protetta all'esterno da un poderoso sbarramento di pilae (lungo m 165), che si spinge verso est oltre m 75 riparando l'area sud-orientale della villa dove sono allocate delle cisterne, una banchina (larga da m 7 a 12) ed alcuni magazzini, lunghe stanze rettangolari di m 22,50 x 2,90 ed orientamento nord/sud; altri più piccoli misurano mediamente m 6,50 x 4. L'ultimo vano ad ovest reca tracce di pavimentazione in tessellato.

Ad est della villa dei Pisoni, collegata con un'arcata laterizia all'area termale, si diparte un'altra gettata cementizia (lunga m 420) in direzione di Puteoli.

Il fondale a nord della villa, tra la facciata a esedre (scaenae frontes) e le terme di Punta dell'Epitaffio, per una lunghezza di oltre 75 metri non mostra la presenza di ruderi sommersi. Qualche ipotesi può però formularsi in base ad alcune osservazioni: il muro a scaenae frontes reca almeno un esempio di ornato pittorico con un'incannucciata dorata su sfondo scarlatto. Potrebbe testimoniare un affaccio su uno spazio verde?

Il bacino del ninfeo a emiciclo è bordato da una colonna (dal diametro di cm 120) in tufelli di grosso spessore. Potrebbe essere il porticato di un parco?

I nuovi dati acquisiti sulle sue opere marittime, ed in special modo sui due approdi, permettono di
precisare che la villa venne realizzata in larga parte in mare, mediante cassoni stagni colmati di conglomerato cementizio.

E stato recentemente ritenuto che solo il quartiere marittimo della villa fosse stato edificato in acqua, ma l'estensione del rilievo a questi nuovi settori consente ora di collocare il limite dell'antico arenile in posizione più arretrata, sicché l'ampio viridarium ed i relativi ambulacri appaiono realizzati conquistando spazio sul mare. L'arretramento» della costa antica conferisce nuovo vigore alle testimonianze di Orazio e di altre fonti, che vedevano come manifestazione di presunzione sovrumana gli sforzi delle maestranze impegnate ad incrementare il lido innalzando selve di colonne là dove erano le onde.

Inoltre i vani residenziali: invece di essere disposti su ambo i lati brevi del cortile centrale, si addensavano particolarmente sulla parte occidentale, alle spalle dell'ampio approdo che proteggeva i bacini delle peschiere. Qui il rilievo ha restituito, su un'ampia superficie, resti di ambienti di forma rettangolare con grandi colonne sui lati e spezzoni murari sparsi, purtroppo poco leggibili a causa della coltre di sabbia che li ricopre.


Dalla villa dei Pisoni al canale di accesso al baianus lacus

Nuovi vani si sono aggiunti a quelli precedentemente rilevati, evidenziando talvolta i resti di pregevoli decorazioni musive e di crustae parietali e pavimentali. È stata completata la pianta del vano con pavimentazione in mosaico bianco e nero a figure geometriche posto nell'angolo nord-est dell'atrio della villa. Esso misura m 4,75x5,50 e presenta un incasso nella parete orientale largo cm 150 e profondo cm 27; la sua soglia d'ingresso, larga cm 110, è costituita da due lastre in marmo bianco inframmezzate da tessellato.

DEA SEDUTA
I due vani (di m 8,20X5,40) che si aprono ad est dell'atrio sono intercomunicanti.

Quelli più interni, di dimensioni più modeste, hanno risentito maggiormente dell'azione dei marosi e recano tracce di pavimentazione in tessellato e in marmo, come e testimoniato dalla presenza dei segni di allettamento lasciati dalle lastre scomparse. 

I piani di calpestio giacciono alla profondità media di m 5.
Gli ambienti della villa si spingono, a partire dalla strada, per circa m 57 verso est, fino a giungere sul litorale antico. 
Qui la piattaforma cementizia si insinua verso terra sia sul lato nord che a sud dell'area indagata, ha un salto sulla sabbia di metri 1-1,50 e segna la parte ultima dei ruderi sommersi a nord del canale di accesso al lago baiano. 

È da approfondire, in quest'area come pure sul lato meridionale della villa dei Pisoni, l'analisi delle tecniche di gettata del calcestruzzo direttamente in acqua: sono infatti qui perfettamente evidenti le impronte lasciate nel cementizio dai pali (alcuni dei quali ancora in sito) impiegati per la realizzazione delle casseforme. Le impronte lasciate dalla palificata verticale hanno un diametro di cm 20-25 ad intervalli di cm 40-60. Le travi orizzontali hanno lasciato cavità larghe cm 20-25, ad intervalli di cm 120-170.

Il disegno sempre più articolato di questo notevole nucleo monumentale lascia intuire anche vasti spazi scoperti, dall'indubbia funzione di cesura, finora nascosti alla vista da una distesa di sabbia.

La recente scoperta di una statua muliebre seduta su un seggio qualifica diversamente la maggiore di queste aree e ripropone l'esigenza di effettuare sondaggi esplorativi.
Poco oltre l'isolato descritto sono state localizzate le parti emergenti di una peschiera molto insabbiata.

I resti visibili (m 35 x 9) sono costituiti da un piccolo ambiente absidato (forse una vaschetta), annesso ad un vano (la cui pianta è stata rilevata in parte) dalla ricca pavimentazione marmorea e da due vasche rettangolari di m 8 x 4,50.

Sul retro è posta una canalizzazione lunga m 35 e larga m 1. La parte superiore di due cataractae in lastre di marmo bianco con fori di cm 2-3, emerge di poco dalla rena, mentre i canali per il ricambio idrico sono completamente insabbiati.

Tutta quest’area fino alla villa dei Pisoni, alle spalle del grande approdo, è quella che mostra le maggiori difficoltà sia per l'individuazione della costa antica sia per la lettura dei resti sommersi, difficilmente individuabili sotto la sabbia ed il notevole spessore della matta di posidonia.

Il nucleo maggiormente evidente si trova circa a 40 metri a nord della peschiera; se ne è rilevata una porzione di circa m 60 x 25. La planimetria, pur incompleta, indica un carattere residenziale del complesso. Dalle ricognizioni è risultato evidente un organismo rettangolare così articolato: il lato occidentale con diverse colonne di grosse dimensioni attestano l'esistenza di un portico.

Un lungo corridoio interno (m 42), bordato da colonnine (diam. cm 30), si affaccia su uno spazio recintato sottostante che fa pensare a un giardino. Tra i due portici, uno esterno e uno interno, si estendono degli ambienti a pianta quadrangolare, ripartiti in tre nuclei intervallati da altrettanti corridoi che hanno subìto modificazioni nel tempo: uno è stato lasciato libero, ma due di essi sono stati tamponati. I due organismi sulle ali sono ripartiti in più vani, rispettivamente quattro a sud e tre verso nord, mentre il vano centrale probabilmente dovette essere un oecus.

A meridione, due soglie larghe cm 190, di cui una in trachite, conducono ad un ampio spazio rettangolare con funzione di vestibolo: decentrato su un lato, un setto murario separa due ingressi che adducono al portico interno. Il lungo corridoio interno prosegue verso nord, giungendo ad altri ambienti, tutti da indagare ma di estremo interesse perché in uno dei vani è emerso un mosaico policromo: il pavimento è introdotto da una soglia ornata da una fascia con larga treccia a calice inquadrata da dentelli. 

Il tappeto musivo, nelle scarse parti superstiti che è stato possibile documentare, era animato da una trama di ottagoni, bordati da trecce e ornati, all'interno, da coloristiche rosette incorniciate da greche. 


La costa antica a sud della rada

Oltre l'area a sud del canale di accesso al baianus lacus ed i ruderi posti dinanzi ai cantieri navali di Baia, nell'insenatura compresa tra i cantieri navali ed il Castello Aragonese, il rilievo ha restituito alcuni ambienti ed un molo di epoca romana.

MOSAICO POLICROMO
Non tutto è andato perduto nonostante i danneggiamenti perpetrati con le sciagurate colmate dell'inizio del secolo, gli improvvidi dragaggi per aumentare la profondità del porto, i pesanti ancoraggi delle navi e non ultime le carcasse di navi che vanno ad adagiarsi sul fondale distruggendo l'area archeologica.

Una di queste carcasse è andata ad incagliarsi proprio su un molo romano, del quale è attualmente visibile la sola testata, assai danneggiata, che emerge due metri dalla sabbia a 140 metri dalla costa. Il molo è in cementizio e sulla testata (larga m 18), arrotondata all'estremità, si impostano un muretto curvilineo (alto cm 50 e spesso cm 120) ed alcune pietre di ormeggio.

Il rilievo degli ambienti sotto la riva è appena agli inizi e mostra solo scarse presenze. Si tratta di vani ad un metro di profondità (che misurano m 4,18x2,10 e 4,15x4,15) e si configurano come ambienti prospicienti il mare di una villa romana ancora sconosciuta, di cui altri resti
sono visibili sulla terraferma tra la vegetazione.

Un interesse particolare riveste l'area della Secca Fumosa, una poderosa barriera frangiflutti posta sul litorale dell'antico lago Lucrino, in posizione mediana tra i resti della villa dei Pisoni a Baia e il canale di accesso al Portus Julius.

Obiettivo della ricerca è l'individuazione del limite costiero del Lucrino, di cui oggi resta ben poco a causa del fenomeno bradisismico e dell'eruzione del Monte Nuovo.

Strabone (Geogr., V, 4, 6) e Diodoro Siculo (Bibl. H., IV, 22) lo descrivono come un istmo sabbioso su cui correva la via Herculanea, che Strabone (ibidem) stima lunga otto stadi (circa m 1500). 

La distanza che separa la villa baiana dal porto Giulio è all'incirca di un chilometro e mezzo. Sono state, per il momento, esplorate le estremità orientale ed occidentale, ancora visibili, della gettata sommersa, rispettivamente lunghe m 440 e 420. 

Percorrendo l'estremità orientale che è larga mediamente m 10 ed è rinforzata da una scogliera di massi di trachite, a 160 metri ad ovest del canale del porto Giulio si sono rinvenuti, su una superficie

di circa m 30X20, resti di ambienti che hanno il pavimento poggiato su suspensurae e la tipica pianta rettangolare allungata degli horrea".
RESTI RIAFFIORATI A NORD DEL CASTELLO ARAGONESE


ULTERIORI AGGIORNAMENTI

Un fortunato volo aereo ha permesso di localizzare il canale di accesso al Baianus lacus menzionato da alcune fonti letterarie.

Il canale ottenuto dal taglio dell'istmo sabbioso che separava il lago dal mare, è largo 32 metri ed è delimitalo da due moli (lunghi circa 230 metri e larghi 9). La sua profondità varia, a causa dell'insabbiamento, da 8 metri all'estremità orientale fino a raggiungere m 6,50 all'estremità occidentale. I moli hanno la sommità posta alla profondità di circa m 6; hanno le testate ovest arrotondate e sono stati realizzati in calcestruzzo a scheggioni di tufo disposti in strati (dimensioni dei caementa circa cm 30x30).

Il conglomerato cementizio fu gettato entro cassoni lignei (arcae) testimoniati dalla presenza dei tipici fori lasciati dai pali di costruzione. In qualche caso sono ancora perfettamente conservati i pali ed il tavolato della cassaforma.

Il molo nord, lungo m 209, nel suo primo tratto di m 63 a partire da est è conservato frammentariamente. Successivamente è posto a m 6 sotto il livello del mare, si eleva di m 1,80 dal fondo e presenta ampie sbrecciature laterali che ne riducono la larghezza a m 6,50. A metà del suo percorso sono già vistosi gli effetti dell'insabbiamento: la sommità si trova a un metro dalla sabbia per abbassarsi a soli cm 50 spostandosi verso la testata occidentale. Nella sua parte ultima il manufatto sparisce sotto i sedimenti per poi riaffiorare con una larghezza di m 9,50 fino alla sua conclusione.

Il molo sud è lungo m 232. La sua testata è larga m 9,50 e giace a m 5,50 di profondità. A sud di questa, per qualche tempo è stata visibile parte di un cassone dissabbiato dall'elica di una nave. Il cassone era addossato alla gettata del molo; dal fondale affioravano in tutta la loro altezza due pali, del diametro di circa cm 20, e tavole larghe 15 centimetri impostate su una trave spessa cm 13. La testata, anch'essa in parte dissabbiata, perfettamente conservata, non mostrava alcun paramento, ma recava ben leggibili le impronte lasciate nel cementizio dalle palanche di costruzione.

FRAMMENTO DI COLONNA
Procedendo verso est, fra i 30 e gli 80 metri dalla testata si trova il tratto più significativo, per la presenza di elementi relativi alla tecnica di costruzione del molo di tipo a fondazione continua. Il rilievo dei fori dei pali e delle impronte delle travi, ben visibili in quest'area, mostra che il cementizio fu gettato entro casseforme le cui paratie erano sorrette per mezzo di un'ossatura di pali infissi nella sabbia e travi (catenae)
orizzontali ed oblique, atta a contrastare la spinta della colata di calcestruzzo.

Le travi orizzontali attraversavano la gettata da parte a parte, lasciandovi cavità del diametro di cm 60-70, ed erano collegate a sette pali montanti interni (diametro cm 20-25) infissi nel fondale.
Attualmente nella gettata se ne contano soltanto cinque, che si alternano a sinistra e a destra di ogni trave, ma evidentemente altri due pali erano posti sui bordi all'interno delle paratie.

Le catene oblique hanno lasciato impronte di cm 20 circa.
L'intervallo tra una trave orizzontale e l'altra è di m 2,50; quello tra i pali è di m 2.
Dai dati raccolti si può ipotizzare che la larghezza di una cassa era di circa 10 metri, e che la costruzione del molo fu realizzata mediante l'accostamento di più gettate.

La linea di giunzione tra due gettate non presenta parti di legno, in quanto al blocco cementizio già solidificato furono accostate soltanto tre paratie, procedendo così man mano verso il largo. Evidentemente la paratia interna veniva rimossa per permettere alla malta delle due colate di ben aderire.

Nel tratto successivo, dagli 80 fino a 127 m dalla testata, il manufatto è frammentario e il fondale è ricoperto di pietrame frammisto a blocchi di cementizio di maggiori dimensioni.
Più avanti, fino ai 200 metri, è in buono stato di conservazione (profondità m 6). La parte finale è assai danneggiata e dalla sabbia affiorano alcuni grossi blocchi isolati.
Il rilievo del canale e l'articolato disegno di moli, darsene, peschiere ed edifici che si spingono lino alla Punta dell'Epitaffio a nord e lungo l'intero versante meridionale fino ai cantieri FIART, hanno permesso di accertare, proprio al centro della rada di Baia, la presenza del Baianus lacus, del quale è ora possibile tracciare il contorno.

La sua sponda orientale, come si è detto, era fittamente edificata; la riva meridionale, anch'essa edificata, è stata fagocitata dalla colmata del 1913, sulla quale insistono gli attuali cantieri navali.
Occupata da edifici era anche la sponda occidentale, corrispondente alla banchina del porto moderno che poggia sulla parte marittima di ville che dal crinale collinare giungevano fino al mare.
Infine, la spiaggia settentrionale certamente nasconde altre testimonianze, come dimostrano le strutture lungo la battigia e come rivela la fotografia aerea nelle immediate adiacenze del pontile Coppola.




LE STRUTTURE DEL VERSANTE MERIDIONALE

A sud del canale di ingresso al Baianus lacus, nell’area maggiormente danneggiata dai transito e dagli ancoraggi delle navi dirette al molo del porto di Baia, è stato rintracciato un nucleo edilizio includente una banchina, alcune pilae e ciò che resta delle fondamenta di ambienti di difficile lettura.
Gli ambienti in opus caementicium sono posti a m 30 dal canale ed occupano una superficie di m 88x43. Il muro perimetrale est (m 78 x 4) ed i muri ortogonali interni (m 19 x 2) mostrano scalfitture dovute all'uso di sorbone di elevata potenza, usate per aumentare la profondità del porto, ed ai pesanti ancoraggi.

Sul lato nord è visibile un muro in cementizio (m 18 x 3) con parte del tavolato della cassaforma in legno di abete. Le tavole (cm 25 a 30 x 5) si impostano su un longherone largo e spesso cm 9. Pali montanti (diam. cm 16-18) sono infissi, ad intervalli di circa un m, lungo il perimetro esterno della cassa e sono connessi al longherone mediante assicelle inchiodate.
Per irrobustire la struttura, tra i pali montanti e la traversa sono stati battuti dei cunei di legno.

La malta pozzolanica fu quindi colata direttamente in acqua entro una cassaforma lignea, le cui paratie erano vincolate a pali infissi nel fondo ed a travature interne.
Nelle immediate vicinanze giace un frammento di colonna (cm 65, diam. 35) dal paramento in reticolato (cm 7x7) (fig. 3), un frustulo in tessellato (cm 1x1), un frammento di colonna marmorea e ad alcune lastrine e cornici di marmo recuperate nel 1986, testimoniano il tenore degli ambienti di quest'area, oggi purtroppo completamente distrutti.
Poco più a sud, una banchina in cementizio (m 47 x 20) affiora di un m dalla sabbia; su di essa una piccola cisterna in cocciopesto ed una fistula plumbea per il deflusso dell'acqua è quanto è sfuggito alla posa della scogliera del molo moderno dei cantieri OMLIN.
Tre pilae sono collocate a protezione dell'area archeologica: una (m 7x7) si eleva per 2 m dal fondo ed è ben conservata, altre due sono in frammenti.

Proseguendo verso sud, nell'area sommersa immediatamente ad est dei Cantieri di Baia è stato ultimato il rilievo degli ambienti scampati alla colmata dell'inizio del secolo.
La colmata, fortunatamente, ha risparmiato la parte ultima dei ruderi sommersi: il rilievo completo delle strutture superstiti mostra una banchina in opera cementizia, lunga m 50, posta alla profondità di 5 m e protetta all'esterno da pilae.
Su di essa pochi ambienti in opera reticolata (tufelli di cm 8x8 o 9x9), di incerta destinazione, sono ricolmi di detriti eterogenei.



L’ANTICA LINEA DI COSTA

Il rilievo della villa dei Pisoni, e, poco più ad ovest, di una peschiera di un'area termale e di una villa con ingresso a protiro, ha precisato l'andamento dell'antica linea di costa a nord della rada.

La successione di moli e peschiere evidenziata all'altezza dei Cantieri Navali di Baia e del Castello Aragonese precisa invece l'andamento della costa antica a sud.

I dati raccolti confermano che l'antico cordone sabbioso era posto 160-180 metri al largo di Punta dell'Epitaffio, e che verso sud giungeva fin oltre gli attuali cantieri, mentre verso est si spingeva fino al porto di Puteoli, separando il lago Lucrino dal mare.
Lungo il litorale, dalla punta dell'Epitaffio al Castello Aragonese, sono ancora oggi visibili in pochi metri di fondo i grossi e numerosi piloni messi a protezione delle ville marittime.

La costa antica è un susseguirsi di moli, peschiere ed approdi privati di ville, molte delle quali si spingevano finanche nel mare.

La villa dei Pisoni, situata 130 m a sud-est di Punta dell'Epitaffio, ebbe due approdi, ad est e ad ovest del nucleo centrale. Essa venne edificata in larga parte nel mare mediante cassoni lignei colmati di conglomerato cementizio. Nell'angolo sud dell'ampio cortile interno della villa, dove le onde hanno scavato oltre un m al disotto dell'antico piano di calpestio, si conserva il tavolato di una cassaforma.

I resti archeologici si spingono per più di 200 metri oltre l'antica spiaggia e confermano l'osservazione di Orazio e di altre fonti, che vedevano come manifestazione di presunzione sovrumana gli sforzi delle maestranze impegnate ad incrementare il lido innalzando selve di colonne là dove erano le onde.

LEPTIS MAGNA (Libia)

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Leptis Magna. conosciuta anche come Lectis Magna in latino e Lepcis Magna nella pronuncia locale, detta anche Lpqy, Neapolis, Lebida o Lebda a tutt'oggi, fu un'importante città dell'Impero Romano. All'inizio fu un grande emporio fondato da uomini di Tiro, città fenicia dell'attuale Libia. La data di fondazione è incerta: dall'XI al VII secolo a.c.

I suoi resti sono locati a Khoms, in Libia, a 130 km a est di Tripoli, sulla costa, dove il fiume Wadi Lebda sfocia nel mare. Con Sabratha ed Oea costituiva l'antica regione degli Emporia, anche conosciuta col nome greco di Tripolitania.

La città, dal 1982 figura nella lista dei Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO, ma durante i recenti scontri in Libia, l'UNESCO ha più volte richiamato le parti in conflitto sulla necessità di salvaguardare i Patrimoni dell'Umanità nel paese.



LA STORIA

La città fu fondata da coloni fenici intorno al 1100 a.c., che le dettero il nome Libico-Berbero di Lpqy.
Il territorio dell'antica Leptis era ideale per i Fenici: era un luogo centrale per i traffici con l'Africa ed era facile da difendere. 

SETTIMIO SEVERO
Si trattava infatti di un promontorio poco elevato nei pressi del fiume Wadi Lebda, quindi con acqua a disposizione e passaggio fluviale con l'entroterra, presso una spiaggia ben riparata che permetteva l'ingresso alle navi.  
Ma divenne potente solo quando Cartagine divenne la regina del mediterraneo nel IV sec. a.c..


Il dominio di Cartagine

Leptis rimase indipendente amministrativamente ma non economicamente dal 200 a.c., e, come le altre città della Tripolitania, in quanto sotto il dominio cartaginese. Nel VI sec. a.c. la città fu assalita da un esercito spartano, respinto però dai Cartaginesi, ai quali Leptis rimase sempre fedele, anche durante le guerre puniche.

Con Sabratha ed Oea costituiva l'antica regione degli Emporia, o Tripolitania, di cui Leptis era il centro amministrativo e fiscale. All'inizio lo sviluppo di questi empori fu lento, per espandersi poi più velocemente nel V e IV sec. a.c.. 

Questo perchè Cartagine non incoraggiava la libertà di commercio per il nord Africa, come dimostra il trattato che stipulò con Roma nel 507 a.c. e nel 348 a.c.. Il traffico navale commerciale era proibito da tutti i porti dell'Africa fenicia eccetto che da Cartagine.

Inoltre le tasse cartaginesi erano ingenti, Tito Livio (59 a.c. - 17 d.c.) informa che il tributo su Leptis ammontava a un talento di argento al giorno, equivalente al salario giornaliero di 2.500 lavoratori. 
Peraltro in tempo di guerra, i cittadini di Leptis dovevano fornire a Cartagine reclute e rifornimenti, perchè era proibito alla città mantenere un esercito e navi proprie.


Il dominio di Roma

Peraltro Sallustio, nominato Governatore della Numudia (46 a.c.) da Cesare, scrive che Leptis aveva proprie leggi e propri magistrati. Tutto ciò fino alla fine della III Guerra Punica nel 146 a.c. quando Leptis divenne parte della Repubblica Romana. 

Nelle battaglie contro Giugurta, re di Numidia, che aveva ucciso i commercianti italici di Cirta, gli abitanti di Leptis fornirono ai Romani navi da trasporto e furono ricompensati col titolo di città federata di Roma.
Così Leptis poté conservare magistrature puniche. Come al solito Roma consentì alla città di conservare il proprio pantheon come Melqart, assimilato poi all'Ercole dei Romani. Vi aggiunse naturalmente i propri Dei ma senza imposizioni di culto.

Anche nella lingua Roma fu liberale, Leptis si continuò ad utilizzare la lingua punica insieme al latino.
Durante il conflitto tra Cesare e Pompeo però Leptis si schierò con quest'ultimo e questo le costò un tributo annuale in olio di oliva e la riduzione a "città stipendiaria". Secondo l fonti Leptis avrebbe pagato ogni anno a Roma ben tre milioni di libbre d'olio, ma la città era ricca di oliveti lungo la fascia costiera.

ARCO DI SETTIMIO
L'imperatore Augusto, realizzato che la ricca provincia africana pagava molti tributi, stabilì che dovesse essere accuratamente difesa, così inviò la III Legio Augusta a proteggere l'Africa. Ciò avvenne all'incirca nel 30 a.c., sicuramente a Theveste, che già faceva parte dell'impero dal 146 a.c. e dove stabilì il castrum la III Legio finchè non fu trasferita a Lambaesis.

Leptis Magna rimase abbastanza indipendente fino al regno dell'imperatore Tiberio, quando la città e i suoi dintorni furono effettivamente incorporati nell'Impero come parte della Provincia d'Africa. Da allora prosperò sotto Roma e divenne uno dei più grandi centri commerciali africani. 

Leptis iniziò la sua grandezza soprattutto nel 193, quando un suo figlio nativo, il berbero Lucio Settimio Severo, divenne imperatore. Egli ovviamente favorì Leptis sopra le altre città di provincia, ingrandendola, abbellendola e facendone la terza città dell'Africa, rivaleggiando con Cartagine e Alessandria.

Nel 205, Settimio con la famiglia imperiale visitò la città e ne ricevette grandi onori. Anzitutto egli vi fece edificare un grande foro con capienti magazzini e la fece estendere sul territorio. Il porto naturale aveva tendenza a insabbiarsi ma con le modifiche e i lavori di Settimio paradossalmente la situazione peggiorò, una delle cause del declino della città. Si salvò solo la parte orientale, che per quanto molto usata, si conserva ancora oggi.

Durante la crisi del III sec., la città declinò e perse d'importanza, finchè verso la metà del IV sec. venne abbandonata.
Ammiano Marcellino narra che la situazione si aggravò a causa di un governatore romano corrotto che durante un'incursione tribale chiese tangenti per proteggere la città.
La città in rovina non poteva pagare e quindi denunciò il governatore all'imperatore Valentianiano.

Ma il governatore corruppe la gente di corte accusando gli inviati Leptani che dovevano essere puniti "per aver portato false accuse".

La città ebbe una piccola rinascita a partire dal regno dell'imperatore Teodosio I.

Nel 439, Leptis Magna e le altre città della Tripolitania caddero sotto il controllo dei Vandali col loro re Gaiseric, che per dare un esempio agli altri popoli sottomessi, fece spianare la città.

Belisario ricatturò Leptis Magna in nome di Roma nel 534, distruggendo il regno dei Vandali.. Leptis divenne capitale dell'Impero Romano d'oriente ma non fu mai ricostruita dalla distruzione dei Berberi.


DESCRIZIONE

Augusto fece dell'Africa un'unica provincia e concesse a Leptis il privilegio di autogovernarsi e l'esenzione dai tributi. Leptis fu trasformata in una vera e propria città romana, con una pianta a scacchiera delle vie cittadine, avente al suo centro l'incrocio tra il cardo e il decumano.

Nella parte più antica, dove sorgeva ancora la città punica, si progettò il Foro Vecchio. Qui sorgeva il tempio dedicato a Melquart, che divenne un santuario dedicato a Roma e Augusto. Accanto però fece erigere altri due templi dedicati a Bacco-Liber Pater ed a Melquart, associato ad Ercole. I tre santuari comunicavano tra loro per mezzo di arcate poste al livello del foro. Successivamente, tra il I e il II sec. d.c., nella stessa area vennero costruite la basilica e la curia.


Evergetismo

Incoraggiati dalla bellezza dei nuovi edifici diversi nobili locali iniziarono quel fenomeno di "evergetismo" che fu da sempre caratteristico di Roma. Per crearsi un lustro e farsi propaganda dei cittadini facoltosi facevano erigere a proprie spese degli edifici pubblici o abbellivano quelli preesistenti, avendone in cambio la possibilità di un'epigrafe che lo ricordasse ai presenti e ai posteri.

- Un benefattore del luogo di nome Iddibal patrocinò la costruzione di un tempio dedicato a Cibele accanto all'area civile romana.
- Un altro benefattore, Annibale Tapapio Rufo, per emulare Augusto fece costruire, nel 9 d.c. il macellum, mercato di carne e di pesce.
- Dieci anni dopo, Rufo fece costruire un teatro che, nella parte inferiore, era completamente scavato nella roccia e aveva un palcoscenico spettacolare, restaurato e coperto di marmi nel II secolo d.c..
- Nel 35 d.c. Suphunibal, figlia di Annibale, fece edificare, nella parte superiore della gradinata, un tempio dedicato a Cerere.
- Iddibal Cafada Emilio, un altro benefattore, eresse il Calcidico, un edificio di cui non si conosce la destinazione, forse a mercato di stoffe.


La via colonnata

MARCO AURELIO GIOVANE
Per mettere in comunicazione il porto con la parte meridionale di Leptis venne costruita una grandiosa via colonnata, lunga 400 m e larga 44. Essa collegava il porto alle terme e terminava in una piazza ottagonale decorata con un ninfeo.

Ciascun lato di questa imponente via era dotato di 125 colonne di marmo verde con venature bianche, sulle quali poggiavano delle arcate.

Il Foro Nuovo è, però, l'elemento architettonico più scenografico di Leptis.

Detto Foro Severiano, da Settimio Severo, comprendeva anche la basilica, ed era una piazza chiusa di m 100 per 60, con pavimento in marmo.

Il tempio principale era con otto colonne in marmo rosso su basi bianche e decorate con una gigantomachia in rilievo che rappresentavano gli Dei del pantheon romano e quelli orientali che combattevano contro giganti dal corpo serpentiforme.

Il portico tutt'intorno al foro si reggeva su un centinaio di colonne di marmo verde venato, poggiate su basi in marmo bianco, quest'ultimo impiegato anche per i capitelli.

Gli archi sostenuti dai capitelli recavano scolpiti mostri della mitologia. Sotto le arcate della piazza sorgevano diversi edifici commemorativi.

La basilica, vicina al foro, era l'edificio più prezioso di tutta Leptis. Fu iniziata da Settimio Severo e terminata dal figlio Caracalla nel 216 d.c.. Era lunga 92 m e larga 40 e divisa in tre navate. Il secondo piano era sostenuto da 40 colonne in granito rosso egiziano.

Intorno al 300 d.c. la riforma territoriale voluta da Diocleziano divise l'impero in province, prefetture e diocesi e Leptis, con l'area confinante, venne inserita nella Tripolitania.

Il IV secolo d.c. fu inaugurato in modo funesto da due forti scosse di terremoto che causarono alla città gravi danni. Malgrado ciò, Leptis parve riprendersi sotto Costantino: furono nuovamente innalzate le mura cittadine che il terremoto aveva sbriciolato.

Nel 365 d.c., però, un nuovo terremoto distrusse numerosi monumenti che non vennero più ricostruiti per mancanza di fondi. Intervennero, poi, diverse sommosse a carattere religioso, quando la Tripolitania venne coinvolta nella lotta contro l'eresia donatista, nata tra coloro che rifiutavano di riconoscere quei vescovi che non avevano resistito alle persecuzioni di Diocleziano e avevano consegnato ai magistrati i libri sacri.

Intorno al 430 d.c. i Vandali diedero a Leptis il colpo di grazia, saccheggiando una città oramai ridotta in miseria. Nel V secolo, poi, si verificarono delle rovinose inondazioni dovute al cattivo drenaggio del Wadi Lebda e tempeste di sabbia seppellirono interi isolati e monumenti.

Quando i Bizantini occuparono Leptis costruirono delle mura difensive per il porto, mentre il resto della città rimase in uno stato di completo abbandono, tranne una piccola basilica situata in un angolo del Foro Severiano e il tempio di Roma e Augusto che era stato trasformato in chiesa.

Nel 634 le truppe arabe si impadronirono di quel che rimaneva di una splendida città. Sopravvisse solo un piccolo villaggio, sorto nel luogo in cui i Fenici si erano stabiliti ben 1700 anni prima. Un'invasione di nomadi, però, spazzò via il villaggio, che scomparve nell'XI sec. Le sabbie del deserto finirono per ricoprire Leptis fino a cancellarne ogni traccia.



I COMMERCI

Dall'area interna di Leptis provenivano molti prodotti particolarmente apprezzati dai romani: le zanne d’elefante per l'avorio, i leoni di Numidia per i circhi, la malachite per i gioielli, le pelli per i tappeti, gli schiavi e, dalla costa, come narra Plinio, una particolare qualità di garum e dei pesci amari molto ricercati.

ARCO DEL MERCATO
Tutto ciò si dipartiva dal porto di Leptis per consegnare le merci a Roma e nel resto dell’impero.

L’altra ricchezza era l’agricoltura, perchè Fenici prima, e i Romani poi, compirono il miracolo di trasformare i vasti territori predesertici in frutteti e oliveti. Pertanto si produceva olio, frumento, e anche della vite.

Il rinnovamento edilizio che seguì la pace augustea diede anche impulso a una corrente artistica di notevole importanza e nella città si trapiantò un’intera officina di scultori proveniente da Afrodisia (Turchia).

Sui modelli e sul gusto romani l'edilizia monumentale prese piede profittando pure delle adiacenti; il marmo, proveniente soprattutto dalla Grecia e quindi più caro, venne adoperato soltanto per le decorazioni.

Comunque i più grandi costruttori, durante i primi due secoli dell’Impero, furono proprio i privati cittadini; essi, semiti di stirpe punica o libio-punica, come mostrano i loro nomi (es. Annobal = Baal ha fatto la grazia), aggiungevano al proprio un nome romano, segno di voler sentirsi parte del nuovo mondo romano, così civile, raffinato e ricco di possibilità.

Nelle iscrizioni infatti, compare spesso l’appellativo di amator civium e di ornator patriae, segno di un sentimento di amore per la bellezza della propria città e per il vantaggio dei propri concittadini.



LE SCOPERTE 2005

Nel giugno 2005,  gli archeologi della University of Hamburg, lavorando sulla costa libica, rinvennero per una lunghezza di 30 piedi cinque splendidi mosaici policromi creati datati al I o II sec.

TESTA DI MEDUSA - FORO SEVERIANO
I mosaici mostrano con chiarezza eccezionale un guerriero in combattimento con un cervo, quattro giovani uomini che lottano con un toro selvaggio buttato a terra, e un gladiatore che riposa in uno stato di affaticamento, fissando il suo avversario ucciso.

I mosaici decoravano le pareti di una piscina con acqua fredda in un bagno privato all'interno di una villa romana a Wadi Lebda in Leptis Magna.

Uno di questi famosi mosaici, il mosaico "gladiator"è ritenuto dagli studiosi come uno dei migliori esempi di rappresentazione musiva mai visto, un "capolavoro paragonabile in qualità con l'Alexander Mosaico a Pompei."

I mosaici sono stati inizialmente scoperti nel 2000, ma sono stati tenuti segreti per evitare saccheggi. Sono attualmente in mostra al Museo di Leptis Magna.

Nel 1686 e nel 1708, il console di Francia a Tripoli, con il consenso delle autorità ottomane, evidentemente attirate molto dal denaro e meno esperte di arte e archeologia, spoliò di colonne e marmi quel che restava visibile di Leptis ed inviò tutto in Francia, dove il prezioso materiale venne utilizzato per edificare la reggia di Versailles. Altri marmi, in seguito, finirono a Londra e nel castello dei Windsor.

Il primo intervento scientifico in loco fu quello dell'epigrafista italiano Federico Halbherr, nel 1910, condotto con lo storico Gaetano De Sanctis.

Quando l'Italia occupò la Libia, nel 1911, ebbe inizio lo scavo sistematico della città. Il soprintendente per l'archeologia della Tripolitania, Salvatore Aurigemma, raccolse moltissimo materiale.

Il primo, però, a scavare sistematicamente l'antica Leptis fu Pietro Romanelli che, tra il 1919 e il 1928, scoprì le terme e la basilica di Severo.



I MONUMENTI FUORI LEPTIS

Nel 1686 e nel 1708, il console di Francia a Tripoli, con il consenso delle autorità ottomane, spoliò di colonne e marmi quel che restava visibile di Leptis ed inviò tutto in Francia, dove il prezioso materiale venne utilizzato per edificare la reggia di Versailles.

Parte di un antico tempio è stato portato da Leptis Magna al British Museum nel 1816 e installato presso la residenza reale Forte Belvedere in Inghilterra nel 1826.

Ora si trova entro il Windsor Great Park. Le rovine si trovano tra la riva sud del fiume Virginia Water e la strada Blacknest vicino al bivio con la A30 London Road e Wentworth Drive.



I MONUMENTI A LEPTIS

I principali:

- uno stupendo teatro di impianto augusteo;
- un mercato del I secolo a.c., modificato sotto Tiberio, ma che risale all’VIII sec. a.c.:
- le Terme adrianee;
- l'Arco di Severo, l'arco del 37 in onore di Tiberio, un altro arco quadrifronte di Traiano;
- il Nuovo Foro;
- un ippodromo;
- un anfiteatro;
- un circo;
- una basilica;
- tre templi;
- un’esedra monumentale;
- la curia;
- il calcidico (forse mercato per particolari merci);
- i modiglioni di ormeggio alle banchine del porto;
- resti di un tempietto dorico;
- resti del tempio di Giove Dolicheno;
- resti del faro;
- resti di case e ville;
- l’anfiteatro;
- ruderi di mausolei;
- le terme extraurbane;
- due fortezze sulle colline, per la difesa del limes tripolitanus.



LE MURA

Sembra che la città fosse già difesa da mura in età punica, e lo fu sicuramente al principio dell'Impero, perché lo testimoniano le fonti letterarie. La cinta muraria che sopravvive sul lato occidentale dal mare alla Porta di Oea ed oltre, con altri tratti sulla destra del torrente, è molto tarda, del III o IV sec. d.c., infatti fu costruita in gran parte con materiale di spoglio, giusto all'epoca della iconoclastia cristiana, cui seguì più tardi, l'iconoclastia islamica.

Sono invece di età bizantina le mura a ovest e a sud del Foro Vecchio dove la porta tra due torri quadrangolari immette nel cardo massimo. Le torri avevano un ristretto interno: del primo l'elemento meglio conservato è l'arco della porta; il secondo è probabilmente di età bizantina, ma forse ha sostituito una costruzione precedente: frammenti di un'iscrizione trilingue, latina, greca e neopunica, menzionano infatti un delubrum Caesaris.

Le mura costeggiano poi il Foro severiano, e continuando sulla destra del torrente dietro al bacino del porto. Da qui inizia un tratto più largo, sempre di età bizantina, come avessero deciso subito dopo la costruzione di allargare le difese.


Non si sa nulla invece delle mura dell'alto Impero che forse aveva solo un dosso di terra con fossato, che, dai cosiddetti Monticelli di Lebda a sud, terminasse ad oriente sulla destra del fiume all'altura di Sidi Barku presso il circo, per una lunghezza di circa 5,5 Km. Il che farebbe pensare ad una difesa di emergenza, forse per l'incursione dei Garamanti nel 69 d.c. Fino ad età molto tarda, la città non ebbe mura dalla parte del mare.

Contando che l'area compresa nelle mura del III-IV sec. si estende per circa 130 ettari, ma che esclude una larga parte della Leptis tardo-imperiale, si calcola che la città coprisse una superficie di circa 200 ettari.

IL PORTO

IL PORTO

Esso fu il principale porto della regione (Tripolitania) fra le due Sirti, detta in antico degli Emporia.
Il porto fu trasformato sotto Settimio Severo, che vi eresse un faro di cui restano solo le fondamenta.
Il faro era alto più di 35 m e secondo le fonti antiche era simile al più rinomato faro di Alessandria.

Delle installazioni portuali si conservano il molo orientale, i magazzini, le rovine di una torre di osservazione e una parte delle banchine utilizzate per il carico delle merci.
Nei pressi del porto si conservano i resti del tempio dedicato a Giove Dolicheno, con la sua scalinata.

Paradossalmente il tentativo di ingrandire e migliorare il porto fu la causa del suo declino.
Gli ingegneri romani sbagliarono i calcoli volendo ampliare il porto naturale con il risultato che il bacino si insabbiò poco a poco.



IL CHALCIDICUM

CHALCIDICUM
Il chalcidicum si trova nell'isolato immediatamente a ovest dell'arco di Traiano.

Costruito nel I sec. d.c., durante il regno di Augusto, ha un portico colonnato collegato alla via Trionfale per mezzo di una serie di gradini.

Al suo interno sorgeva un tempietto in onore di Augusto e di Venere, nume tutelare suo e di tutta la gens Iulia, e si conservano fusti in marmo cipollino e capitelli corinzi del II sec.d.c.

Presso l'angolo orientale si può notare un basamento a forma di elefante.



IL FORO VECCHIO


L’area del Foro, parte del più antico nucleo urbanistico della città, venne abbellita e ampliata da Augusto (27 a.c.-14 d.c.). La grande piazza trapezoidale era dominata da due grandi templi originariamente dedicati agli dei patri, Shadrapa (Liber Pater) e Milk’Ashtart (Ercole).

Il tempio di Ercole sarà da Tiberio (14-37 d.c.), ridedicato, ospitando il culto imperiale di Augusto e Roma, con dentro la cella un magnifico ciclo di statue della dinastia giulio-claudia. Successivamente si aggiunge un terzo tempietto, probabilmente per ridare ad Ercole il suo culto.


I tre templi del lato nord-ovest del Foro Vecchio:

1) Tempio di Liber Pater
2) Tempio di Roma e Augusto
3)  Tempio di Ercole; 
4) insediamento punico
5)  Curia;
6)  Basilica vetus
7) Tempio della Magna Mater
8) Trajaneum, poi basilica cristiana
9) esedra severiana
10) tempio a tre celle
11) battistero
12) fortificazione bizantina 

Il foro vecchio, il cui primo impianto risale ad Augusto, e su cui sorse una basilica trasformata poi in cristiana è il foro più antico di Leptis Magna, ed era al centro della vecchia città punica, dominata dal culto di Šadrafa-Liber Pater.

LA PALESTRA DELLE TERME

L'EMPORIO

Si sa dai saggi eseguiti che sotto la piazza del Foro Vecchio giace una serie di strutture fenicio-puniche nella parte est, certamente il famoso emporio punico di età tardo ellenistica. Evidentemente Augusto ordinò la nuova edificazione della piazza, naturalmente di architettura romana, con portici colonnati sui tre lati, a cura del proconsole Cneo Calpurnio Pisone nel 4-6 d.c. Dovette essere nuovamente lastricata nel 53-54 d.c. sotto l'imperatore Claudio.



I TRE TEMPLI  (del Foro Vecchio)

Entrando nel foro dalla Porta bizantina, si vedono le rovine di tre templi su alto podio. A sinistra il tempio d'età augustea tradizionalmente attribuito a Liber Pater, un Dio italico allegro e licenzioso come Bacco, ma secondo alcuni fu dedicato a Giove, di cui resta solo il podio e pochi resti della cella. Probabilmente hanno ragione entrambi, poichè il Dio Libero, o Liber Pater fu pian piano sostituito col Dio Iuppiter, cioè Iovis Pater.

Al centro della piazza si erigeva il tempio di Roma e di Augusto, dove l'imperatore era protetto dalla Dea in quanto imperatore e in quanto Dio. Fu costruito tra il 14 e il 19 d.c. in pietra calcarea, fronteggiato da un'alta tribuna decorata da rostri, che fungeva da palco  per gli oratori che arringavano la folla. 

I colonnati dei due templi maggiori furono rifatti in marmo nel II secolo d.c., ma una semicolonna originale del tempio di Roma e Augusto è rimasta sempre in piedi. A destra si hanno i resti del tempio di Ercole, il più rovinato dei tre, infatti le pareti del podio e il colonnato sono opera di restauro.



BASILICA VETUS  (del Foro Vecchio)

La basilica non si affacciava sulla piazza del Foro Vecchio, ma su una stradina che si dirigeva verso il Tempio Flavio e quindi verso la banchina occidentale del porto. Sul lato opposto della piazza restano alcuni fusti di colonna in granito grigio, fortemente erosi, vestigia dell'antica basilica civile, eretta nel I sec. d.c. e ricostruita nel IV sec. dopo un incendio. Accanto era collocata la curia del II sec. d.c.

A sinistra dell'ingresso alla piazza è un edificio di età traianea, in seguito trasformato in chiesa bizantina, di cui restano l'abside, le navate laterali e il nartece (piccolo atrio tuttora presente nelle chiese cattoliche). Al centro del foro si notano un piccolo battistero con vasca a pianta a croce e un'esedra.

E' stato scritto che i due grandi fori siano paragonabili per estensione e per magnificenza ai fori imperiali di Roma. Sembra un po' esagerata ma di certo erano magnifici.



LA CURIA (del Foro Vecchio)

La Curia di Leptis non si trovava sulla piazza del Foro Vecchio, ma su una stradina che si dirigeva verso il Tempio Flavio e quindi verso la banchina occidentale del porto. Sulla stessa via insiste uno dei suoi ingressi della basilica vetus, prima metà del I sec. - II sec.

La Curia,eretta su alto podio, affaccia verso sud-ovest con una fronte colonnata come la fronte del Calcidico sulla via Trionfale
La Curia, sorta agli inizi del IV secolo, tramandava nella sua planimetria quella della Curia Julia di età augustea.  Insomma un templum cum porticibus sviluppato su di un’area di 1.760 mq, ben più grande di quella dello stesso Tempio di Roma e Augusto, uno tra i maggiori di Leptis.



IL FORO SEVERIANO (O FORO NUOVO)

Il foro imperiale (o Severiano), era costituito dalla piazza forense, circondata all’interno da un portico quadrangolare, con portici e botteghe, un grande tempio e la monumentale basilica. Il nuovo foro, di circa 10.000 mq, quadrangolare e riccamente adornato di marmi importati e di granito, aveva al suo centro un tempio dedicato all'Imperatore Severo e alla sua famiglia imperiale.

FORO SEVERIANO
Le architetture di epoca severiana sono ovviamente le più ricche. Il foro nuovo della città, il cui porticato è ornato da enormi e bellissime teste di Vittoria e di Medusa, tutte diverse e con diverse espressioni. 

Di fronte alle teste rimaste intatte sono visibili alcuni pannelli verticali con iscrizioni dedicatorie che fungevano da plinti per le statue. La basilica conserva rilievi su pilastri con le fatiche di Ercole e altri straordinari decori.
Il progetto di abbellimento e ampliamento della città voluto da Settimio Severo prevedeva anche la ristrutturazione del centro cittadino, che fu da lui trasferito dal vecchio foro ad uno nuovo, dedicato stavolta alla sua dinastia imperiale.

Il nuovo Foro presentava così un magnifico scenario di colonne in cipollino con basi e capitelli in marmo bianco, del tipo cosiddetto romano-asiatico, molto diffusi nel II-III secolo d.c.  La trabeazione e gli archi sono, invece, in pietra; grandi clipei di Gorgoni e di Scilla e di Medusa sporgono da medaglioni inseriti negli spazi triangolari tra arco e arco. Di questi se ne conservano ben 70. Tutta la piazza era pavimentata in marmo, di 100 m per 60 ed era circondata da portici ad arcate.

Erano rappresentazioni simboliche della Dea romana che spaventava i nemici di Roma. Gli archi erano di pietra calcarea, mentre le teste erano scolpite in marmo. Davanti alle colonne dei portici erano basamenti per statue, che conservano le iscrizioni dedicatorie.

Sul lato sud-occidentale del foro sorgeva il tempio dedicato alla dinastia dei Severi, del quale rimangono soltanto la scalinata, il podio e un magazzino sotterraneo. Ad esso appartenevano pure alcuni fusti di colonna in granito rosa che si trovano sparse per il foro. Tutto il foro era interdetto al traffico, insomma era una zona pedonale.

Appoggiato al muro perimetrale del foro, si erige il tempio della Gens Septimia. Sembra che ciò che rimane del foro sia solo un’ala del progetto originario, stroncato dalla morte dell’imperatore Caracalla, (211-217 d.c.), e che doveva essere di raccordo tra il Foro nuovo e il vecchio di raccordo al foro vecchio. Oggi del tempio rimangono soltanto la scalinata, la piattaforma e un magazzino sotterraneo. Ad esso appartenevano pure alcune colonne di granito rosa che si trovano sparse per il foro.


RICOSTRUZIONE DEL TEATRO


IL TEATRO

Il teatro di Leptis fu eretto nel I secolo d.c., come mostrano le iscrizioni celebrative apposte da ricchi cittadini di Leptis con i finanziamenti di un ricco benefattore leptitano, Annibal Rufus.

Più tardi, un altro nobile della città dedicò la porticus post scaenam del teatro stesso, cioè il porticato posto tra il teatro e il mercato, con un tempio agli Dei Augusti, che in quel tempo erano Cesare, Augusto, Livia, come segno di lealtà verso la casa imperiale. E' stato uno dei primi teatri in muratura dell'impero romano.




Esso è il secondo dell'Africa per dimensioni (dopo quello di Sabratha) e fu costruito sul sito di una precedente necropoli punica utilizzata tra il V e il III sec. a.c.

Aveva il palcoscenico in marmo e il frontescena, ancora visibile, a facciata monumentale, con tre nicchioni semicircolari e un triplice ordine di colonne.

PALCO DEL TEATRO

L'edificio risale all'epoca di Antonino Pio (138-161 d.c.). Vi si trovavano numerose sculture che raffiguravano divinità, imperatori e cittadini illustri, di cui due superstiti sono ancora nella loro posizione originaria: la statua di Bacco, ornata da viti e foglie, e quella di Eracle, con la testa ricoperta da una pelle di leone.

La cavea originaria del teatro era stata scavata nella roccia nel 90 d.c. i gradini riservati ai seggi dei notabili della città furono ricavati subito sopra l'orchestra, separati da quelli del pubblico pagante da una massiccia balaustra di pietra. In cima alla cavea si trovavano alcuni tempietti e un porticato con fusti di colonna in prezioso marmo cipollino.

PLASTICO DI UNO DEI 2 OTTAGONI DEL MERCATO

IL MERCATO

Il mercato venne edificato nel 9 a.c. da un magistrato locale, come attesta un’iscrizione lunga ben 13 m, posta sul lato sud-ovest, ovvero la fronte principale durante la prima fase del mercato sotto il regno augusteo.

Sul lato sud del mercato si trovano le basi marmoree dei banchi del pesce decorate con coppie di delfini.

Poi venne ricostruito durante il regno di Settimio Severo: alcune colonne con capitello di marmo risalgono all'epoca severiana. Questo mercato fu realizzato in pietra calcarea ricoperta di marmo, era di forma rettangolare ed aveva un cortile porticato, a colonne tonde e colonne angolari squadrate, sul quale vennero eretti due padiglioni ottagonali ricostruiti oggi sui modelli originali.



IL MERCATO NELLA SUA INTEREZZA

Il padiglione settentrionale sembra riguardasse il commercio dei tessuti e conserva, anch'essa in copia, una tavola di pietra (l'originale è custodito nel museo), del III sec. d.c., su cui sono incise le principali unità di misura: il braccio romano o punico (51,5 cm), il piede romano o alessandrino (29,5 cm) e il braccio greco o tolemaico (52,5 cm). Cosa si vendesse nell'altro padiglione non si sa.

RESTI DEL MERCATO

Hannobal Tapapus Rufus, figlio di Hilmico, lo costruì dunque a proprie spese e lo inaugurò nel 9 - 8 a.c., creando uno dei mercati più funzionali e più belli dell'antichità. Praticamente una rotonda con quattro portici intorno ai quali erano disposti i banconi sopra i quali si esponeva la merce.

Mense e banchi di esposizione e di vendita correvano a 360° negli intercolumni del portico ottagonale di calcare.

Nei portici che circondano i due tholoi c'erano dei tavoli. Uno di questi ha una iscrizione, noto come IRT 590:

"TIberivs CLaudivs AMICVS MARCVS HELIODORVS Apollonide aediles mensas Pecvnia Sva Dono Dedervnt"

il che significa che questi due uomini erano degli edili che avevano pagato di tasca propria i tavoli che avevano ordinato di fare. Queste ostentazioni di potere, fatte beneficando la popolazione, purtroppo non esistono più da nessuna parte.

LA BASILICA SEVERIANA

LA BASILICA (Foro Nuovo)

La Basilica fu una delle più grandi costruzioni edificate a Leptis La Grande. Misurava 525 piedi (160 m) di lunghezza e 225 piedi (69 m) di larghezza.

La basilica era a tre navate, con una sala colonnata fornita di un'abside abside a ciascuna estremità. A fianco delle absidi stavano le lesene riccamente scolpite e raffiguranti la vita di Dioniso e le dodici fatiche di Ercole (entrambi favoriti della famiglia Severo).  Il secondo piano era sostenuto da 40 colonne in granito rosso egiziano, il  marmo rosa di Siene, che veniva usato spesso per gli obelischi..

Edificata nel I sec. d.c. fu ricostruita nel IV sec. Doveva essere chiusa su quattro lati da un colonnato di cui oggi restano solo due colonne di granito. Il suo disegno imitava quello della Basilica Ulpia a Roma.

Visto che Settimio Severo, per ragioni di spazio, non potè costruire un foro a lui dedicato nell'Urbe come avevano fatto Cesare, Augusto, Nerva e Traiano, decise di dedicarsene uno nella città natia di Leptis.

LA BASILICA

La decorazione del marmo, specie nei disegni floreali, veniva realizzata con una tecnica speciale: il disegno era bucherellato in modo che la luce creasse giochi d'ombra, cioè acuendo i contrasti in modo da staccare di più i rilievi. Le decorazioni sui marmi del ninfeo erano ovunque, anche nei punti quasi invisibili. 

Due lunghe iscrizioni celebrano l'inizio, a opera di Settimio Severo, e il completamento, a opera di Caracalla, della basilica. In una seconda iscrizione si citano tutti gli imperatori, a cominciare da Nerva che lo hanno preceduto, con l'intento di legittimare il suo potere. La lista non include Commodo, suo figlio Marco Aurelio e suo fratello Geta. 

La decorazione della basilica era estremamente varia e molto probabilmente proveniva da Afrodisia (la città sede di una scuola di scultori e marmorari attivi soprattutto a Roma). I rilievi sono eseguiti con grande perizia, ma soprattutto se ne ricava l'impressione che avesse un intento puramente decorativo, più che per evocare miti, simboli o poteri vari.

L'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

Posto presso Leptis Magna, a poche centinaia di km a est di Cartagine e a circa 130 km dall'odierna Tripoli, l'anfiteatro venne costruito nel 56 durante il principato dell'imperatore Nerone approfittando della cavità di una vecchia cava di pietra.

L'anfiteatro, piuttosto vicino al mare, era interamente scavato in una depressione naturale, secondo alcuni in una cava dismessa, ma non tutti sono d'accordo, a sud est della città, e poteva ospitare 15.000-16000 persone.

Poichè la pietra sottostante è assolutamente identica a quella dell'anfiteatro, l'potesi della vecchia cava sembra attendibile.

L'asse maggiore dell'ellisse misura 100 m di lunghezza mentre quello minore 80 m. Anch'esso nacque per un fenomeno di evergetismo, cioè donato da una potente familia del luogo alla popolazione per immortalare il proprio nome nell'anfiteatro e guadagnarne la gloria.

Un'iscrizione informa che l'anfiteatro fu edificato da Marcus Pompeius Silvanus Staberius Flavinus d'Africa, nel terzo anno del suo officio, e che Quintus Cassius Gratus era il suo vice. Il monumento era dedicato all'imperatore Nerone e venne terminato infatti nel 56.



I primi gradini erano riservati all'elite Lepcitaniana, e dalle iscrizioni possiamo dedurre che preferivano il lato sud-est, dove erano esposti a un dolce venticello.

L'arena misura 57 x 47 m. Oggi, gran parte è coperto con lastre di pietra che una volta erano sui sedili, e altri pezzi di pietra naturale. Tra queste pietre è un altare di Nemesi, la Dea del destino, una divinità preferita negli anfiteatri, dove il destino imperscrutabile decideva ogni giorno la vita e la morte dei combattenti dell'arena.


VISTA AEREA DI ANFITEATRO E CIRCO


IL CIRCO

Pur essendo più giovane dell'anfiteatro è più spoglio di questi, essendo meno ricoperto dalla sabbia e quindi più visibile e pertanto più spoliabile delle sue pietre, dei suoi marmi e delle sue statue.


RESTI DEL CIRCO

Dietro l'anfiteatro, più vicino al mare, ecco dunque il circo, a circa un km dalla città, che è circa un secolo più giovane dell'anfiteatro. Di notevole lunghezza, circa 450 m. doveva accogliere non solo la gente di Leptis, ma anche gli abitanti dei centri vicini, senza alcun intralcio per la città, essendone costruito fuori.

Esso è molto capiente, molto lungo con un lato diritto e uno tondo, come tutti i classici circhi romani, si calcola che circa 16.000 persone potrebbero essere sistemati in tribuna.

Sembra che l'arena venisse usata spesso sia per le lotte con le belve feroci che tra gladiatori. Ma soprattutto veniva usato per le corse dei cavalli. Sembra che ne resti ben poco, anche se in parte è ancora da scavare.



LA VIA COLONNATA

La piazza antistante il Ninfeo segnava l'inizio di una via monumentale, fiancheggiata da portici colonnati, diretta al porto. La strada era colossale, larga più di 20 m e lunga circa 400 m., fiancheggiata da 125 colonne con fusto in marmo cipollino, verde con venature bianche, e basi e capitelli in pentelico, su cui poggiavano delle arcate.

Le arcate sostenevano a loro volta dei giganteschi clipei, tutte teste di medusa ma ognuna diversa dall'altra.
Poiché collegava le terme e il nuovo foro dei Severi con il lungomare, era una delle strade più importanti della città. Doveva essere estremamente suggestiva soprattutto per la prospettiva del faro della città che, dal bacino portuale, si elevava perfettamente in asse con la via.

Essa raccordava l'Antico Foro col Nuovo Foro.


ARCO DI SETTIMIO SEVERO

GLI ARCHI

Sul decumanus si allineavano due archi monumentali: l'arco a due fronti che fu incorporato nelle mura del tardo Impero, e divenne quella che oggi chiamiamo la Porta di Oea, e l'arco a quattro fronti scoperto recentemente, e tuttora inedito, ancora più ad occidente.
Il tratto del decumanus tra l'Arco dei Severi e la cosiddetta Porta di Oea, scavato recentemente, presenta sulla sua destra la fronte di un edificio non identificato, costituito da un cortile porticato absidato sui lati minori e nicchie sul lato lungo, di fronte all'ingresso. Segue un edificio termale e abitazioni di età tarda, quindi un tempio all'interno di un cortile porticato.



ARCO DI ANTONINO PIO

Il primo, che sembra fosse eretto in onore di Antonino Pio, era ornato di colonne in avancorpo, due ai lati di ogni fornice, secondo lo schema solito, e alla sua decorazione dovettero appartenere un frammento con figura di Vittoria ed un altro con una grande egida con la testa di Gorgone.



ARCO DI MARCO AURELIO

Si questo non restano che le basi dei quattro piloni, con una colonna inserita nell'angolo esterno. Apprendiamo dall'iscrizione che fu eretto nell'anno 174 in onore di M. Aurelio, essendo proconsole d'Africa C. Settimio Severo, zio del futuro imperatore, e questo legato del proconsole.


ARCO DI SETTIMIO SEVERO

ARCO DI SETTIMIO SEVERO

All'incrocio del decumano massimo col cardo massimo stava l'arco quadrifronte dei Severi; un cippo della strada costruita nel 15-16 d.c. da L. Elio Lamia, ci dice che qui era il limite dell'abitato urbano.

Un grande architrave con l'iscrizione Augusta Salutaris e il nome del proconsole C. Vibio Marso, rinvenuto nelle adiacenze, potrebbe appartenere ad un'altra porta. L'arco di Settimio segnava l'incrocio delle due grandi strade,  tra il cardo massimo e il decumano, ma rimanendo sopraelevato di qualche gradino sul piano di esse, non era accessibile ai veicoli.

Fatto inusuale in quei tempi, il nucleo dell'arco fu costruito in pietra calcarea e poi rivestito in marmo, un bel risparmio di pietra marmorea. Di esso si è ritrovato fortunatamente quasi tutto il fregio ad altorilievo.
Esso è uno dei monumenti più celebri di Leptis in quanto esprime simbolicamente il suo legame artistico con Roma e il suo imperatore.

Di esso oggi non resta in piedi che uno solo dei quattro piloni originali, ma le basi degli altri tre hanno permesso di ricostruirne perfettamente pianta e misure (larghezza dei fornici: m 5,80; lato dei pilastri, senza le colonne in avancorpo, m 3) così come il recupero di gran parte della decorazione scultorea e di molti elementi dell'alzato (colonne, lesene, cornici) dà un'idea abbastanza chiara del suo aspetto originario: incerta tuttavia rimane ancora la ricostruzione della parte superiore.

Su ogni fronte due colonne in avancorpo su basamento fiancheggiavano l'apertura del fornice; lesene e pilastri, decorati da tralci di vite, stavano agli angoli esterni del monumento e ai lati dei fornici; cornici e fregi, dello stesso stile, al di sopra di questi, lacunari con rosoni nella volta di essi.

Magnifica la decorazione scultorea. Oltre alle sei Vittorie alate, che occupavano gli spazi triangolari tra la curva dei fornici e la modanatura del riquadro, alle aquile che guarnivano i triangoli sferici sotto la cupola, ai trofei tra colonne e lesene angolari, tale decorazione comprende due serie di rilievi.

La prima ha dei rilievi minori, sulle pareti interne dei quattro pilastri: con divinità accostate l'una all'altra, scene di guerra e scene di carattere religioso. Delle divinità alcune sono identificabili con quelle dell'Olimpo greco-romano, a cominciare dalla triade capitolina, di altre si suppone siano divinità orientali e africane. Le scene di battaglia ricordano le campagne orientali dell'imperatore.

I rilievi della serie maggiore hanno quattro grandi scene, forse poste sulle quattro fronti dell'attico, forse in luogo delle iscrizioni.

Due rappresentano scene di trionfo; solo una è quasi completa, ma l'altra era costruita, a quanto risulta dai frammenti superstiti, su uno schema analogo.

La quadriga imperiale, sulla quale sta Settimio Severo (203-204), fiancheggiato dai figli Caracalla e Geta, avanza da sinistra, preceduta da prigionieri incatenati; e da un ferculum su cui è una donna e altre figure piangenti; sul fondo personaggi togati; dietro la quadriga è un gruppo di cavalieri con vexillum.

Sullo sfondo il faro di Leptis.

Le stesse divinità ritornano ai lati della Tyche in uno degli altri due rilievi in scene di carattere religioso.

Qui le tre figure presiedono ad un atto di Concordia Augustorum: Settimio Severo stringe la mano ad uno dei giovani principi, probabilmente Caracalla, presenti Geta, Giulia Domna e forse anche il pretorio Fulvio Plauziano: altre figure, tra cui quella di Roma-Virtus, stanno ai lati del gruppo principale.

Nell'altra scena è un sacrificio in onore di Giulia Domna - Giunone, alla presenza di Settimio Severo - Giove. Probabilmente risale al 203, quando l'imperatore visitò la città e la provincia.

Ad essa lavorarono artisti di Afrodisiade, il cui stile si rivela anche nei pilastri della basilica e in tutte le altre costruzioni severiane, a tratti di chiara tradizione romana se ne affiancano altri caratteristicamente orientali, il frontalismo delle scene, il decorativismo lineare delle vesti, schiacciate contro le figure, preludono già all'arte bizantina.

L’opera che si ammira è, come si è accennato, una semi-fedele ricostruzione dell’antico monumento, al pieno recupero del quale gli archeologi stanno tuttora lavorando. L’arco è costituito da quattro imponenti pilastri che sorreggono una copertura a cupola. Ciascuna delle quattro facciate esterne dei pilastri era affiancata da due colonne corinzie, tra le quali erano scolpite decorazioni in rilievo rappresentanti le grandi virtù e le gloriose imprese dell’epoca dei Severi.

Nel punto di intersezione tra la cupola e i pilastri si notano le aquile con le ali piegate, simbolo della Roma imperiale. Sopra le colonne si trovano due bei pannelli che riproducono nei dettagli processioni trionfali, riti sacrificali e lo stesso Settimio Severo che tiene per mano il figlio Caracalla.

Sulla facciata interna delle colonne sono riportate scene di campagne militari, cerimonie religiose e immagine della famiglia dell’imperatore. Sulla facciata interna delle colonne invece scene di campagne militari, cerimonie religiose e l'immagine della famiglia dell'imperatore.

C'è una certa differenza tra i monumenti romani e quelli africani: i primi più espressionistici e realistici, i secondi più aulici e classicheggianti. Ciò è dovuto senz'altro alle diverse maestranze che curarono i monumenti e la loro decorazione, piuttosto che alle variazioni del gusto. A Leptis Magna dovevano essere gli artisti greco-orientali a dirigere le maestranze locali, inoltre spesso alcune parti architettoniche arrivavano già decorate dalle officine artistiche vicine alle cave del marmo in Bitinia e nella Caria, soprattuto di Afrodisia. 

Infatti c'è una grande somiglianza di questi ornamenti con lo stile e la tecnica dell'Asia Minore. Il resto delle decorazioni venne eseguita dalle maestranze locali adeguandosi a questi modelli, nonostante le alterazioni anche un po' rozze. 

Ce lo confermano i contrassegni con sigle di artigiani in alfabeto greco presenti su interi elementi, ad esempio le colonne del Foro con capitelli a foglia d'acqua secondo lo stile di Pergamo. Ma anche i rilievi delle lesene della basilica Severiana rilevano la provenienza "afrodisiense", importazione dei vari pezzi già lavorati e poi inseriti nell'edificio.



ARCO DI TIBERIO

I cittadini di Lepcis Magna onorarono il loro imperatore erigendogli un modesto arco onorifico, in pietra, a cavallo del cardo massimoVenne edificato nel 37 d.c.

Ma esso è uno è solo uno dei due archi dedicati a Tiberio.

In una strada parallela al Cardo Massimo sono stati rinvenuti i resti di un secondo arco. L'inusuale duplicato degli onori non è chiaro. 

L'iscrizione, su entrambi i lati di entrambi i monumenti, ricorda che fu costruito durante il governatorato di Gaio Rubellio Blando, agendo attraverso il suo vice Marco Atilio Luperco. (Blandus fu legato dell'Africa nel 35-36). 

Essa informa anche che l'arco ha commemorato la pavimentazione di diverse strade, ed è stato finanziato con le confische alle tribù native dopo la rivolta di Tacfarinas (17-24), all'inizio del regno di Tiberio.



ARCO DI TRAIANO

Dopo il successo delle sue campagne in Dacia, che era stata conquistata nel 106, Traiano assegnò alla città di Leptis il rango di colonia, ed era da ora in poi chiamato ufficialmente Colonia Ulpia Traiana Lepcitaniorum.

PLASTICO DELL'ARCO DI TRAIANO
Tutti gli abitanti nati liberi ebbero la piena cittadinanza, la città doveva essere governato da due magistrati (paragonabili ai consoli), e ci doveva essere un tempio chiamato Campidoglio, dove gli Dei supremi dei Romani, Giove, Giunone e Minerva, venissero venerati.

Per esprimere la loro gratitudine, i Lepcitaniani dedicarono un elegante arco onorifico al loro benefattore, presso il Chalcidicum. Ora l'Arco di Traiano sembra modesto perchè ne resta solo un fornice, ma ne aveva quattro, insomma era un arco quadrifronte (tetrapylon)

Sui quattro angoli possiamo vedere due bellissime colonne corinzie, e le colonne simili dentro l'arco, che supportano la volta, che dovette avere una bassa cupola.
L'iscrizione riporta:

IMP(eratori)  CAESARI DIVI NERVAE F. NERVAE TRAIANO AVGVSTO GERM(anico)  | DACICO PONT(ifici)  MAX(imo)  TRIB(vnicia POT(estate)  XIIII IMP(eratori)  VI CO(n)S(vli)  V P(atri)  P(atriae)  CON[lacuna] | 
ORDO ET POPVLVS COLONIAE VLPIAE TRAIANAE FIDELIS LEPCIS MAGNAE ARCVM | CVM ORNAMENTIS PECVNIA PVBLICA FECERVNT

RESTI DELL'ARCO DI TRAIANO
All'imperatore, Cesare, figlio del divino Nerva, Nerva Traiano Augusto Germanico, Dacico, pontefice massimo, nel XIV anno dei suoi poteri tribunizi, 6 volte imperatore, 5 volte console, padre della patria, [...] il Concilio e l'Assemblea della Colonia Ulpia Traiana Lepcis Magna dedicarono questo arco con i suoi ornamenti, eseguito con i fondi pubblici.

L'iscrizione, che può essere datata al 109-110, è il primo riferimento a Lepcis come stato di colonia. Esso cavalcava gli incroci del cardo massimo con la strada del teatro. L'arco quadrifronte somiglia all'arco di Settimio Severo, che fu costruito un secolo più tardi, e che probabilmente si ispirò a questo arco.

L'elefante che ora si trova nella sala centrale del Museo di Lepcis Magna, fu scoperto vicino all'Arco di Traiano.

IL COMPLESSO DELLE TERME

TERME ADRIANEE

L'edificio fu costruito sotto Adriano, quando era proconsole dell'Africa Valerio Prisco (126-127); fu restaurato e modificato sotto Commodo, e nel III sec., sotto Severo.  Fu lo stesso Adriano, agli inizi del II sec. d.c., a commissionare le terme che presero il suo nome. Il complesso fu inaugurato nel 137 d.c., secondo altri nel 127.

Come ogni terme romana, si sviluppa su un asse centrale nord-sud con ambienti disposti simmetricamente.
Gli ambienti principali erano: natatio, frigidarium e calidarium, disposti lungo l'asse centrale, con gli ambienti minori ed accessori disposti ai lati. Invece qui la palestra sta in posizione centrale, antistante il corpo principale delle terme, che è decisamente spostata verso oriente, forse per rispettare edifici e strade preesistenti.

LE TERME
Le terme sono accessibili dalla palestra, dalla quale si passa nella natatio, un vasto ambiente con il pavimento rivestito da marmi e mosaici in cui si trova una piscina all'aperto circondata da colonne su tre lati.  Di seguito si apre il frigidarium, con le vasche di acqua fredda, in una sala di 30 m per 15, pavimentata in marmo.

Ben otto massicce colonne con fusti di marmo cipollino alte quasi 9 m sorreggono il soffitto a volta, un tempo ornato con mosaici di colore blu e turchese, di cui oggi però non rimane praticamente nulla. 

La palestra del complesso è un ampio spazio rettangolare aperto, con i lati minori ad emiciclo, circondato da portici, con a nord due esedre rettangolari absidate. ll lato lungo meridionale combaciava con il portico di facciata delle terme. Dalla palestra si passava alla natatio, la piscina scoperta circondata su tre lati da portici e fiancheggiata da quattro stanzette, accessibili due, che dovevano fungere da spogliatoi, dal portico di facciata e dalla natatio, e due dal corridoio retrostante, forse piccoli magazzini con le forniture di manutenzione.

Ben quattro porte immettevano dalla natatio al corridoio, da cui si accedeva al frigidario, una grande sala di m 30 × 15, coperta da una triplice volta a crociera poggiante su otto colossali colonne di cipollino, che si apriva sui lati corti in due larghi bacini ancora rivestiti di marmo, come dovevano essere in antico anche le pareti della sala.

Sicuramente le volte erano ornate di mosaici, così come nel tepidario, di cui si sono reperiti dei frammenti. Numerose statue di divinità e simboli romani circondavano i bacini, come del resto nelle altre sale delle terme; al centro della sala c'è la larga base di una statua con dedica a Settimio Severo.



In origine il corridoio che divide la natatio dal frigidarium correva tutto all'intorno di questo, isolandolo dal resto dell'edificio: poi, tra il frigidarium e il complesso del tepidarium e calidarium, venne trasformato il largo corridoio in piccole piscine con elegantissime decorazioni  
Il calidarium, coperto a volta, con due grandi vasche sui lati corti, e tre sotto le arcate a sud, immetteva alle quattro sale dei tepidaria, disposte ai lati della piscina dietro il frigidarium. I forni per il calore si trovavano all'esterno dell'edificio, sulla parte posteriore.

A sud delle terme giacevano le cisterne, dove è collocata l'iscrizione che ricorda l'acquedotto portato in città, sotto il regno di Adriano (119-120), da Q. Servilio Candido. 
Ad entrambe le estremità della sala si trova una vasca, mentre, lungo le pareti si allineano nicchioni che ospitavano 40 bellissime statue, di cui solo alcune sono conservate nei musei di Leptis e di Tripoli. Il resto andò distrutto a causa soprattutto dell'iconoclastia cristiana.

A sud del frigidarium c'era il tepidarium, adibito al bagno tiepido, in origine con una piscina centrale fiancheggiata su due lati da colonne, mentre le altre due vasche furono aggiunte successivamente. 

Tutto intorno le stanze del calidarium, per il bagno caldo, orientate a sud. Un tempo, probabilmente, avevano grandi finestre in vetro sul lato meridionale. 

Vi vennero poi aggiunte cinque laconica (bagni di vapore) durante il regno di Commodo. All'esterno, sul lato meridionale, erano collocate le fornaci per scaldare l'acqua, mentre sui lati orientale e occidentale degli edifici corrono le cryptae, i deambulatori.

Alcuni ambienti più piccoli erano gli apodyteria, ovvero gli spogliatoi. Le forica, le latrine, sono abbastanza ben conservate.

TERME DEI CACCIATORI

TERME DEI CACCIATORI

Le Terme dei Cacciatori risalgono alla seconda metà del II sec., con successive modifiche del III o IV sec.; ad età severiana sono da ricondursi le due composizioni principali della caccia, forse scelte in quanto l'edificio apparteneva ad una corporazione di fornitori di belve per gli spettacoli dell'anfiteatro, ma non ve ne sono le prove.

Le terme sono costituite da una serie di ambienti a pianta rettangolare ed altri poligonale, con volte a botte, tutti scavati nell'arenaria. Il complesso venne realizzato nel II secolo d.c. e fu utilizzato per quasi tre secoli. Conservano mosaici e affreschi, uno dei quali, situato nel frigidarium e nel quale sono raffigurate scene di caccia ambientate nell'anfiteatro, ha dato il nome al complesso.

Uno degli affreschi risale ad un'epoca precedente alle terme e vi è stato riutilizzato al momento della loro costruzione. Sono inoltre presenti pannelli marmorei scolpiti.

Queste terme, modeste come ampiezza, hanno una decorazione interna a mosaico e una pittura degli ambienti principali, nonchè forme architettoniche notevoli. Da principio il corpo centrale era costituito da un corridoio di ingresso che immetteva nella sala principale, il frigidarium, ampio ambiente rettangolare coperto da volta a botte con due absidi contenenti ciascuna una vasca. Il corridoio aveva sulla destra due ambienti minori rettangolari, accessibili solo dal frigidarium, adibiti probabilmente a spogliatoio e latrina.

Successivamente una vasca, coperta da volta a crociera, sostituì parzialmente questi ambienti. Dal frigidarium si passava in due sale ottagonali affiancate e coperte a cupola; in origine esse non comunicavano fra loro, ma solo ognuna di esse con una sala rettangolare retrostante. Uno dei due ambienti ottagonali era un tepidario, l'altro e le due sale retrostanti, coperte da volte a botte, dei calidaria.

Un altro calidarium, con tre piccolissimi ambienti susseguentisi l'uno all'altro, fu aggiunto successivamente al corpo originario. All'esterno dell'edificio, si allinearono avanti al corpo originario un portico a pilastri e, dietro questo, una lunga sala rettangolare, spartita da una fila di sei pilastri sorreggenti il tetto, che dovette servire da spogliatoio.

Altri due ambienti, fra cui uno con bella decorazione dipinta delle pareti, vennero aggiunte successivamente.
In una prima fase la volta e la parte superiore dei muri del frigidarium erano rivestite di intonaco bianco con pitture incorniciate di stucco: non ne restano che poche tracce.

I catini delle absidi al di sopra delle vasche e le lunette sopra l'arco di apertura delle absidi stesse erano invece ornati con mosaici a figure. Appena visibili sull'abside orientale parte di una ninfa che allatta un capretto, la testa e le spalle di un Tritone, e motivi nilotici. Poi uno strato di intonaco dipinto fece scomparire la decorazione, e successivamente la parte inferiore dei muri venne stata rivestita di marmi colorati.

Le due scene si ispirano ai consueti motivi delle rappresentazioni di caccia: caccia al leone sulla parete settentrionale di cui resta quasi nulla, caccia al leopardo sulla parete opposta. La scena comprende gruppi di cacciatori in lotta con le fiere, con poche variazioni e diverse ripetizioni.

Altra scena figurata, con paesaggio e figure di carattere nilotico, che all'epoca andavano molto di moda, è su una delle pareti della vasca ricavata in un secondo tempo a nord del frigidarium. Nelle altre sale riquadrature in pittura o in stucco che talvolta imitano un rivestimento di marmi colorati, o si incorniciano di delicati motivi vegetali; nei pavimenti sono mosaici geometrici a bianco e nero.

Altro edificio termale consimile, almeno nell'aspetto architettonico esterno, è stato riconosciuto, ma non ancora scavato, vicino alla Casa detta di Orfeo da uno dei mosaici che la decorava, dalla stessa parte della città.



IPPODROMO

Lo stadio è accessibile attraverso un passaggio secondario che si apre sul lato occidentale dell'anfiteatro. Edificato nel 162, durante il regno di Marco Aurelio poteva ospitare 25.000 spettatori. Ne restano solo le fondamenta.
Il circo è stato solo parzialmente esplorato; si allunga tra l'orlo del leggero risalto, che il suolo presenta a breve distanza dal mare, e la spiaggia: esso aveva pertanto la cavea appoggiata da un lato sul terreno naturale e dall'altro sorretta da sostruzioni. Era lungo circa 450 m x 100, e la spina era costituita da cinque ampi bacini rettangolari allineati l'uno appresso all'altro. Dei carceres e della porta triumphalis più nulla rimane, ma essi furono ancora visti in parte, e disegnati anche se un po' idealizzati, nel XVII sec. da un viaggiatore francese, il Durand.


PARTE DEL NINFEO

NINFEO di SEPTIMAE POLLA

Una strada colonnata, di cui non resta molto, collegava il nuovo foro al porto. All'inizio della strada e a oriente della palestra e delle terme di Adriano vi è una piazza ornata dal grande nymphaeum, o tempio delle Ninfe.

L'Esedra, di cui rimane pochissimo, tra cui alcune colonne di granito verde egizio, sopravvisse grazie all'iscrizione di una costosa statua d'argento dedicata a Septimia Polla, una sorella del padre dell'imperatore Settimio Severo. La statua pesava circa 52 kg. Naturalmente la statua era ricoperta d'argento e il resto era di marmo.


STATUA DEL NINFEO
SEPTIMIAE
POLLAE Lvci
SEPTIMI SEVERI
IIVIRi FLAMinis PERPetui
FILiae Pvblivs SEPTIMIVS
GETA HERes SORORI
SANCTISSIMAE
EX ARGento Pondo CXXXXIIII
S vnciae X Semis DECRETO
SPLENDIDISSIMI
ORDINIS POSVIT
EX TESTAMENTO
EIVS HVIC DONO
VICESIMAM ET
ARGenti Pondo IIII S vnciae X Semis
AMPLIVS QVAM
LEGATVM EST ADIECIT

A Septimia 
Polla, figlia di Lucius 
Settimio Severo, 
duumviro, sempre sacerdote, 
ha Publio Settimio 
Geta, erede della sua sacrissima
sorella, eretto questa [statua] 
da 144 libbre d'argento 
e 10 once 
della migliore
qualità, come decretato 
nel suo testamento. 
Per questo dono 
è stato aggiunto un ventesimo 
e 4 libbre, 10 once d'argento 
più di quanto
era stato lasciato in eredità.

Il ninfeo è in realtà una fontana monumentale con la facciata riccamente articolata da colonne con fusti di granito rosso e marmo cipollino e con nicchie, ora vuote, che un tempo ospitavano delle statue di marmo. Secondo alcuni il monumentale ninfeo curvilineo era stato costruito come tempio delle ninfe, poi trasformato in una fontana monumentale. Non tutti gli studiosi concordano, comunque il ninfeo ha delle decorazioni eccezionali.

Con l'avvento del cristianesimo questi monumenti non furono risparmiati e la maggior parte dei templi e delle basiliche vennero trasformati in chiese deturpandoli notevolmente. 

RICOSTRUZIONE DEL NINFEO
Al suo inizio Settimio Severo aveva costruito un grande ninfeo che nel 1937 in parte venne ricostruito da archeologi italiani che lo chiamarono Belvedere Mussolini. Questo perché il leader del fascismo era stato invitato a raggiungere un terrazzo sulla sommità dell'edificio per avere una visione complessiva del sito. 

Italo Balbo, governatore della colonia, che aveva fatto un ottimo lavoro, fu invece rimproverato di aver speso troppi soldi su ricostruzioni tanto costose. 

Nel VII la conquista degli arabi provocò il totale abbandono di Leptis. 
I suoi templi, basiliche, terme ed altri monumenti divennero per gli arabi una grande cava a cielo aperto. 
Finchè fortunatamente tutto venne sommerso dalla sabbia sottraendolo alla cupidigia di cristiani ed arabi.



I MOSAICI

I mosaici di Lebda sono un eccezionale reperto archeologico, unico per le dimensioni e per i pregiati decori interni. I 5 grandi pannelli rinvenuti riproducono con eccezionale veridicità e colore scene di caccia e di combattimenti tra gladiatori; un pannello in particolare – il gladiatore che dopo lo scontro osserva, in una posizione di riposo, il nemico sconfitto - è comunemente considerato dagli studiosi un capolavoro, uno dei migliori esempi noti di arte mosaicale.



MAUSOLEI

I mausolei, che emergono alla periferia di Leptis Magna, sono perloppiù mausolei a torre, come quelli di Qasr Shaddad, Qasr el-Banat, Qasr el-Geledah,  cioè a più piani sovrapposti-

Quello di Qasr ed-Duirat, è uno dei meglio conservati, anche se mostra solo lo zoccolo e il piano più basso del corpo, e negli elementi sparsi all'intorno una decorazione scultorea di gusto e fattura locale.

Era anch'esso dello stesso tipo dei precedenti, ma probabilmente era coronato da un elemento cilindrico con tetto a squame.

Altri mausolei sono quelli del tipo a guglia, soprattutto nell'interno della regione.



ACQUEDOTTO

A Leptis si conservano piuttosto bene i resti di un acquedotto, che convogliava le acque nelle cisterne vicine alle terme. L'acquedotto era duplice, con uno speco più alto e uno più basso, appoggiato al primo e costruito in un secondo tempo per usufruire anche di acque che il primo non sfruttava.
 
Il tipo di costruzione dell'acquedotto e dei serbatoi li caratterizza all'età severiana, o comunque alla prima metà del III secolo. Acquedotto e serbatoi non sorsero insieme, il serbatoio a monte è una costruzione quadrangolare rivestita esternamente con conci di calcare di travertino, di m 22,40 × 26, diviso internamente in tre ambienti a volta, ai quali corrispondono sulla fronte, verso il torrente, tre porte, successivamente chiuse in parte: al di sopra di queste sono cinque nicchie ornamentali.

L'acqua scendeva in una vasca posta all'esterno, alla testata dell'acquedotto più basso, mentre all'interno sembra proveniva da uno speco proveniente dal Cinyps ( uadi Qaam), che corre circa 25 km ad est di Leptis. Il secondo serbatoio, a valle, è più ampio (m 42,25 × 26), diviso internamente in cinque gallerie a volta comunicanti tra loro e aperte in origine verso l'esterno ciascuna con una porta, che l'acquedotto poi sbarrò per quasi tutta la loro altezza.

VILLA DAR BUC

VILLA DAR BUC AMMERA (o Villa Zliten)

Non lontano da Leptis è la Villa Dar Buc Ammera, che dista solo 3 km dalla città di Leptis Magna. Essa conteneva un grande mosaico dedicato ai combattimenti nell'arena, quando gli animali dovevano combattere uno contro l'altro, come il toro e l'orso.

La villa risale al II sec. d.c. e in alcune stanze vi sono scene nilotiche.

È anche possibile vedere l'esecuzione dei criminali gettati ad bestias, come l'esecuzione di un criminale legato ad un palo che viene portato nell'arena, dove una pantera affamata lo ucciderà. Ha una pelle scura, e potrebbe essere stato uno dei Garamanti nativi.


Nell'Anno dei quattro imperatori (69), gli abitanti di Oea avevano attaccato gli abitanti di Leptis Magna. L'ordine fu ripristinato dal generale Valerio Festo nel 70, ed è possibile che i nemici giustiziati fossero i Garamanti.

I gladiatori del mosaico presentano due combattimenti, uno già terminato coll'avversario steso a terra. Nell'altro un Mirmillone (a sinistra: con schiniere e cresta sul casco) e un Trace (a destra: con alti schinieri). Il combattente di sinistra sembra aver avanzato troppo la gamba destra, prendendosi un fendente sulla parte posteriore della coscia. Il sangue è uscito copioso e lui presto morirà di una morte dolorosa, a meno che non riceva il colpo di grazia.



ZEUGMA

- « Quel chiarore sul fondo? E' un mosaico. La malta idraulica lo proteggerà per secoli: è lo stesso materiale che usavano gli antichi romani per fissare i ponti ». Mentre i contadini strappavano all'acqua gli ultimi alberi di pistacchio, gli archeologi cercavano di mettere in salvo l' ultimo tesoro scoperto dall'umanità. In questo angolo giallo di Turchia, nel giro di un anno erano venuti alla luce 700 mq di paradiso: mosaici romani intatti, un sito senza eguali nel mondo, figure straordinarie, comparabili per qualità a quelle del museo di Tunisi e a Pompei.

Un tesoro affidato alle cure della squadra del Centro di Conservazione di Roma guidata sul campo da Schneider. Primo obiettivo: salvare il salvabile, prima che la diga gonfiandosi coprisse tutto. Sei mesi di lavoro, grazie ai fondi del governo turco e soprattutto ai 10 miliardi di lire sborsati dagli americani del Packard Institute: una ventina di grandi mosaici figurativi recuperati insieme a migliaia di reperti.

Statue, gioielli, 65 mila bullae, ovvero i sigilli che venivano uniti alle merci o ai documenti, testimonianza di quanto fosse importante questa «dogana» ai confini del mondo. I mosaici geometrici, quelli meno preziosi, sono rimasti là sotto. Dai 4 ai 40 m di profondità. Poseidone e Teti sconfitti dall'«idra idroelettrica».
« Perduti? Non sono affatto perduti. L' acqua - assicura Schneider - è buona conservatrice. Resisteranno. Per le prossime generazioni ».


Le primissime generazioni, invece, al posto di quella diga grigia che si vede due km a valle, una delle 22 dighe grigie che strozzano il Tigri e l' Eufrate, avevano costruito duemila anni fa un ponte verso l' altro mondo. Dal secondo piano delle loro ville sulla riva, i comandanti di Roma guardavano verso il deserto dei Parti.

Al di là dell' Eufrate e oltre c' erano i barbari, le ricchezze dell' Oriente, l' ignoto. Al di qua, le fontane con i mosaici di Eros e Psyche, e la pax romana. Oggi, sotto questo lago appena nato, c'è quel che rimane della favolosa città di Zeugma, di cui scrissero Tacito e Cicerone e il cui nome significa ponte, punto di passaggio.

Fondata da un generale di Alessandro Magno, Seleuco, fiorì sotto gli imperatori romani raggiungendo il massimo splendore nel II sec. d.c., grande come tre volte Pompei, Zeugma aveva 70 mila abitanti, stretti intorno alla «forza di Difesa rapida» del tempo, i 5 mila soldati della Terza Legione Scitica. Duemila anni dopo, Zeugma è perduta.

« Perduta? Ma se là sotto c'è solo un quinto della città», si scalda il professor Kemal Sertok. E il resto? « Sotto ai nostri piedi. Qui siamo nella zona del teatro: importante come quello di Mileto. Su quell'altura c'è l' acropoli, con il tempio alla dea Tyche, la Fortuna dei romani. Abbiamo la sua immagine sulle monete. Bisogna solo scavare e portarlo alla luce».
E i mosaici? Il professore sospira. « Il lago ha inondato alcune ville. Ma i mosaici abbiamo fatto in tempo a salvarli: in pochi mesi abbiamo fatto quanto gli archeologi, in uno scavo classico, fanno in dieci anni».

Per salvarli hanno lavorato anche di notte, con le fotoelettriche. Duecento archeologi di tutto il mondo e centinaia di operai hanno sudato con 50 gradi all' ombra, la paura degli scorpioni e l' acqua alle caviglie. E pensare che il tesoro era lì da secoli, a pochi metri sotto terra. Zeugma, la città sepolta due volte: distrutta dai Sassanidi nell'anno 256, scomparve quasi all'improvviso, probabilmente per l' effetto di un' invasione e di un terremoto in rapida successione.

Da decenni gli studiosi (e i ladri di reperti) sapevano della sua esistenza. Da alcuni anni gli archeologi erano al lavoro. Con pochi soldi, e nessuna notorietà. La diga di Birecik hanno cominciato a costruirla nel ' 92. Ma solo alla fine del ' 99 sono venuti alla luce i mosaici più belli. Cosa costava ai turchi privarsi di una delle 22 dighe del progetto Sud-Est? Sottovoce, l' archeologa francese Catherine Abadie-Reynal accusa:
« Abbiamo chiesto almeno il rinvio dell' inondazione, ci hanno risposto di no».

Cosa costava aspettare un anno? L' ingegner Cansen Akkaya, responsabile ambiente delle Opere Idrauliche dello Stato, alza il sopracciglio e fa due calcoli. L' arte un tanto al kilowatt. In energia elettrica non prodotta, il danno sarebbe stato di « due miliardi e mezzo di dollari. Quale Paese si sarebbe privato di 5 mila miliardi di lire all'anno? Un quinto dell' energia mondiale è prodotta da centrali idroelettriche. In Occidente le dighe non sono più di moda: costano troppo, rovinano l' ambiente». -

VILLA SILIN

VILLA SILIN (Selene)

Rinvenuta da poco tempo, grazie ai continui scavi che tutt'ora vengono effettuati lungo il litorale che va da Tripoli e Leptis Magna, Villa Silin è la meglio conservata tra le splendide residenze private che in età romana sorgevano sulla costa Tripolitana. 

In queste ville vivevano i ricchi commercianti, arricchitisi grazie al commercio con Roma, che preferivano vivere lontani dai grossi insediamenti urbani.

Al suo interno si possono ammirare degli splendidi pavimenti decorati a mosaico, intere pareti e alcuni soffitti affrescati e delle terme private ancora intatte.

INTERNI DELLA VILLA
"La villa romana di Silin, a circa 15 km di distanza da Leptis, un edificio da sogno, degno dell’ambientazione di un romanzo storico dalla trama intrecciata e viva, un luogo di primaria importanza per il patrimonio archeologico, storico e culturale della Libia, in considerazione dell’unicità del complesso, per stato di conservazione, articolazione architettonica ed estensione degli apparati decorativi, oltre che per sinuosa bellezza oggettiva. Un gioiello.
La villa era la spettacolare residenza di uno dei facoltosi notabili locali di estrazione punica, “romanizzati” nei gusti e nei costumi del vivere quotidiano.

Il vasto edificio – circa 50 gli ambienti coperti – risale al II sec. d.c. La fronte a mare appare articolata in portici colonnati e giardini. 
L’impianto è suddiviso in due settori: uno, di rappresentanza, a occidente, l’altro a oriente, gravitante su un vasto giardino al quale è collegato il nucleo circolare delle terme. 

Quasi tutti gli ambienti recano decorazioni pavimentali, musive o in marmi commessi, e intonaci dipinti parietali.
Ancor oggi memore di tanta bellezza, scopro, con gioia e soddisfazione, che il progetto di restauro della villa Silin viene presentato proprio a Ferrara, la mia città."

La Villa Selene ("Casa della Luna"), alla foce del Wadi Yala che chiude la città di Homs, è famosa soprattutto per i suoi splendidi mosaici. Si pensa che il suo nome sia da ricollegarsi al moderno villaggio di Silin. Essa dista tre o quattro d'ore a piedi da Lepiis Magna. 

Questo giardino (peristylium), che è circondato da tre lati da un portico, è aperto sul Mediterraneo. A sinistra si scorge l'entrata alle due stanze da pranzo. Il giardino si apre a nord-est e a sud-ovest dove c'è l'entrata ad un altro giardino. Questa stanza da pranzo (triclinium) veniva usata d'estate. 

Su questa mappa, si può vedere la casa dell'atrio in verde. A un certo punto, un'ala delle camere è stata livellata, e sulle fondamenta è stato edificato uno dei portici. Il primo ingresso venne chiuso, e la sala venne trasformata probabilmente in una biblioteca. 

Le camere in beige sono stati aggiunte in seguito e includono il triclinio estivo. A destra, in blu, è possibile vedere lo stabilimento balneare. La stanza quadrata che circonda l'atrio fu decorato con affreschi. Qui a lato potete vedere due cacciatori. A destra troneggia un albero, i due leoni ben visibili, come lo scudo che il cacciatore porta sul braccio sinistro. Qui nessuna precauzione è inutile

La Villa gode di splendidi mosaici pavimentali, di cui uno sta nel triclinio d'inverno, insediato nella parte centrale della casa. Poichè i banchetti duravano molto ed erano occasione di amicizie e relazioni, i triclinii, le stanze da pranzo, erano fondamentali per i romani.

Era pertanto necessario che le stanze estive fossero all'aperto, spesso in stanze aperte sul giardino, o direttamente sotto la tettoia del giardino in estate. per l'inverno andava benissimo una stanza piuttosto centrale, quindi molto riparata dal freddo dell'esterno. 

Un mosaico rappresenta la storia di Licurgo e Ambrosia. Un altro raffigura le Iadi, le ninfe che si presero cura di Dioniso bambino. Quando Licurgo diede loro la caccia, esse fuggirono sul mare, ad eccezione di Ambrosia che venne mutata in vino.

In un'altra sala posta nell'atrium della villa, si osserva il famoso mosaico del circo di Leptis Magna. Mosaico importantissimo anche perchè delucida sulla pianta del circo. Di fronte si vedono i boxes di partenza (carceres) con le porte aperte che danno il via alle gare. Ci sono molti carri e cavalli, e la spina, con svariati monumenti e decorazioni.

PRINCEPS - PRINCIPE DEL SENATO

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PRIMUS INTER PARES

La parola latina princeps, da "primus", è traducibile come "principale" ovvero "primo tra pari". Fu stabilito come titolo onorifico per il presidente del senato romano durante la repubblica; sebbene ufficialmente fuori dal cursum honorum e privo di imperio, la carica dava enorme prestigio a chi la deteneva.

In origine, la posizione del principe era infatti solo onorifica, con il privilegio di parlare per primo sul tema proposto dal magistrato che presiedeva. In pratica finì per impostare i dibattiti in Senato.

L'ufficio venne istituito intorno all'anno 275 ac. come carica temporanea e non a vita. Il princeps senatus infatti veniva scelto dalla nuova coppia di censori che entravano in carica ogni 5 anni. I censori potevano però confermare una princeps senatus per un periodo di altri 5 anni. La carica massima del Princeps era perciò di 10 anni.

I suoi elettori dovevano essere senatori patrizi con rango consolare, di solito ex censori. Il candidato doveva essere un patrizio con una buona carriera politica, e che si fosse guadagnato il rispetto dei suoi colleghi senatori. 



AUGUSTO

L'imperatore Augusto lo assunse poi come titolo, che prese un significato simile a monarca e assegnò quindi il titolo ai suoi nipoti, incaricati di amministrare gli affari di stato e le cerimonie religiose durante le vacanze dell'imperatore.

AUGUSTO
Augusto dovette affrontare il difficilissimo compito di conciliare la propria posizione con le tradizioni e con il sentimento dell’epoca repubblicana. Lo stesso contrasto di fronte al quale si era trovato Cesare, quando aveva cercato di trasformare l’ordinamento statale dell’Impero da repubblica a dittatura. Augusto si avvalse dell’esperienza del padre adottivo e trovò la soluzione del problema nel principato.

Il principato instaurato nel 27 a.c. da Augusto segnò il passaggio dalla forma repubblicana a quella autocratica dell'Impero: senza abolire formalmente le istituzioni repubblicane, il princeps assumeva la guida dello stato politica, militare e pure religiosa.

Nel diritto costituzionale, Augusto, facendo tesoro dell'astuzia di suo zio Giulio Cesare, restaurò ufficialmente e solennemente l’ordinamento repubblicano, con una serie di accorgimenti che accentravano nelle sue mani, e quindi dei suoi successori, tutti i poteri dello Stato.

Ottaviano, da intelligente qual'era, non voleva essere considerato un sovrano, ma il primo dei senatori per auctoritas (princeps senatus, da cui principato). Egli restava quindi l’unica persona dotata di genio politico, mezzi materiali enormi e favore degli Dei tanto da poter sopportare il governo dell’Impero, troppo gravoso per il solo senato.

Il termine princeps sta difatti a significare "primus inter pares" (primo tra individui di pari dignità) e sanziona contemporaneamente la sua posizione di privilegio rispetto agli altri senatori, ma anche la sua formale condizione d'eguaglianza rispetto a essi dal punto di vista costituzionale.

Uno dei suoi primi provvedimenti fu la riforma del senato. Espulse dal senato alcuni senatori per motivi morali, costrinse altri 200 a dimettersi, aumentò a 10.000 sesterzi il requisito minimo per diventare senatore. Così facendo però distrusse l'indipendenza del senato, come accade quando il potere legislativo è nominato dal potere esecutivo. 

Di fronte al senato, quindi, Augusto annunciò di voler ridare al senato e al popolo romano tutti i diritti di cui godevano in precedenza e di volersi dimettere. Il senato, però, rifiutò le dimissioni e lo pregò di non abbandonare lo stato che egli aveva salvato. La situazione straordinaria era che il senato e il popolo romano, ancora con il rimpianto del grande Cesare ingiustamente assassinato, e con la speranza di riaverlo nel consanguineo Augusto, che già tanto somigliava al padre adottivo nella decisionalità, coraggio e lungimiranza, volevano ad ogni costo avere al comando quel giovanissimo rampollo della gens Iulia.

Dopo qualche resistenza, Ottaviano, che voleva ardentemente quel potere che lo poneva agli alti vertici dell'adorato zio, finalmente acconsentì ad accettare il comando degli eserciti e il governo delle province con i titoli di proconsul imperator, tuttavia li avrebbe assunti solo per 10 anni, sperando che al termine di questi la Repubblica sarebbe guarita dalle ferite della guerra civile e che non fosse più necessario il governo di un princeps. In realtà Ottaviano ottenne il comando delle province e dell'esercito per tutta la vita e non solo per i primi 10 anni e così anche i successori. Qui fu il suo genio, da poter ricevere il potere dalle più alte cariche dello stato senza doverlo conquistare con la forza.

Augusto riuscì successivamente a ottenere dal senato i poteri consolari e tribunizi vita natural durante e successivamente quelli di pontefice massimo (che gli garantì il governo della religione) e di censore. Essendo stati accentrati tutti i poteri in una persona sola, le varie cariche repubblicane, pur continuando ad esistere, avevano perso gran parte dei propri poteri a vantaggio del princeps. I magistrati continuavano a venire nominati ogni anno e eseguivano alcune delle funzioni meno importanti. 

Il senato veniva spesso consultato dall'Imperatore quando doveva prendere decisioni importanti. Oltre a consigliare l'Imperatore, il senato era anche la suprema corte d'appello e un tribunale. Inoltre le leggi dell'Imperatore venivano sempre ratificate dal senato e gli Imperatori, vestiti come senatori, sedevano, votavano e discutevano con i loro pari.

Sei giorni dopo quell'assemblea, Augusto decise di ricompensare il senato per i poteri concessigli stabilendo che le province centrali dell'Impero sarebbero state sotto il controllo del senato (province senatoriali) mentre quelle periferiche sarebbero rimaste sotto il controllo del princeps. Esattamente come aveva fatto Cesare.

Tuttavia il potere del senato nelle province senatoriali venne indebolito da una legge che stabiliva che se il princeps si fosse recato in una provincia, la sua autorità sarebbe prevalsa su quella del governatore, e questo valeva anche per le province senatoriali. Ottaviano stabilì inoltre che le province di nuova acquisizione sarebbero state imperiali e non senatoriali. In cambio di questa concessione, il senato autorizzò Augusto a conservare il proprio comando militare nella capitale anche in tempo di pace. Un dictator a tutti gli effetti.


Il seguito

Gradatamente rafforzatasi la forma assolutistica con i successivi imperatori della dinastia Giulio-Claudia e dei loro successori, il principato entrò in crisi con la fine della dinastia dei Severi nel 235 d.c.

La successiva anarchia militare durante la crisi del III sec. condusse alla forma imperiale più dispotica del Dominato. Tuttavia, durante il III secolo, il futuro imperatore Valeriano ricoprì la carica nel 238, durante il regno di Massimino Trace e Gordiano I.



I POTERI

Nella tarda Repubblica e nel Principato, la carica guadagnò le prerogative dei magistrati che presiedevano oltre a quelle di:
  • convocare e aggiornare il Senato, 
  • decidere l'ordine del giorno, 
  • decidere il luogo della sessione, 
  • imporre l'ordine e le altre norme della sessione, 
  • incontrare, in nome del Senato, le ambasciate dei paesi stranieri, 
  • Scrivere, in nome del Senato, le lettere e dispacci,
  • dall'anno 80 ac., si ritiene che lo status e la funzione della carica siano stati modificati dalle riforme costituzionali di Lucio Cornelio Silla.
Anche se il termine rimase, come senatore citato per primo nell'ordine del Senato rilasciato dai Censori, le prerogative della sua carica nella tarda repubblica vennero limitate, soprattutto l'onore di parlare per primo in qualsiasi argomento in discussione al Senato, trasferendole ai consoli. Tuttavia in epoca imperiale il titolo di princeps assunse il governo di tutto l’impero, cosicché da allora in poi il termine non indicava solo "il primo del Senato" ma anche "il primo tra i cittadini". Successivamente il titolo di princeps come capo supremo dello Stato cedette a quello di imperator e servì ad indicare i principi ereditarî.



PRINCIPES DELLA REPUBBLICA
  • Manius Valerius Maximus. (Valerius Maximus Messalla Corvino console nel 289 ac)
  • Marcus Fabius Ambustus. 
  • 275/269 ac: Quintus Fabius Maximus Rullianus.
  • 269/265 ac: Gaius Marcius Rutilus Censorinus?
  • 258 ac: Quintus Fabius Maximus Gurges, son of Rullianus
  • 247/241 ac: Gnaeus Cornelius Blasio?
  • 236/230 ac: Gaius Duilius?
  • 225 ac: Manius Valerius Maximus Messalla?
  • 220 ac: Aulus Manlius Torquatus Atticus?
  • 216 ac: Marcus Fabius Buteo.
  • 209 – 203 ac: Quintus Fabius Maximus Verrucosus Cunctator.
  • 199 – 184/183 ac: Publius Cornelius Scipio Africanus.
  • 184/183 – 180 ac: Lucius Valerius Flaccus.
  • 179 – 153/152 ac: Marcus Aemilius Lepidus.
  • 153/152 – 147 ac: Posizione vacante.
  • 147 –: Publius Cornelius Scipio Nasica Corculum.
  • Publius Cornelius Scipio Nasica Serapio?
  • 136 – 130 ac?: Appius Claudius Pulcher.
  • 130 ac?: Lucius Cornelius Lentulus Lupus.
  • 125 ac: Publius Cornelius Lentulus.
  • 115 – 89 ac: Marcus Aemilius Scaurus.
  • 86 ac: Lucius Valerius Flaccus.
  • 70 ac: Mamercus Aemilius Lepidus Livianus.
  • Quintus Lutatius Catulus (Capitolinus).
  • Publius Servilius Vatia Isauricus.
  • 43 – 43 ac: Marcus Tullius Cicero.  
  • 43 – 28 ac: sconosciuto. 
  • 28 ac – Augusto, titolo che si trasmise agli imperatori fino al Dominato.

    PRINCIPES IMPERIALI
    • Augusto (27 a.c.-14 d.c.)
    • Tiberio (14-37 d.c.)
    • Caligola (37-41 d.c.)
    • Claudio (41-54 d.c.)
    • Nerone (54-68 d.c.)
    • Galba (68-69 d.c.)
    • Otone (69 d.c.)
    • Vitellio (69 d.c.)
    • Vespasiano (69-79 d.c.)
    • Tito (79-81 d.c.)
    • Domiziano (81-96 d.c.)
    • Nerva (96-98 d.c.)
    • Traiano (98-117 d.c.)
    • Adriano (117-138 d.c.)
    • Antonino Pio (138-161 d.c.)
    • Marco Aurelio (161-180 d.c.)
    • Lucio Vero (161-169 d.c.)
    • Commodo (177-192 d.c.)
    • Pertinace (192-193 d.c.)
    • Didio Giuliano (193 d.c.)
    • Valerianus (238 dc)

    REGIONI ROMANE - ABRUZZO

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    Si riscontrano tracce umane fin dall'età paleolitica, con insediamenti numerosi e sparsi in tutta la Regione. Presso Chieti e Popoli sono stati rinvenuti strumenti litici ed ossa di animali lavorate. 
    Di epoca neolitica è invece il celebre insediamento di Ripoli i del 2.200 a.c., nella valle del torrente Vibrata, vicino Corropoli. 

    E' un grande villaggio di capanne in cui si producevano ceramiche dipinte che si diffusero poi in molte zone d'Abruzzo. La popolazione di Ripoli era stanziale, praticava l'inumazione, l'allevamento, l'agricoltura e il commercio. 

    Altri insediamenti neolitici si trovano a Lama dei Peligni, Lanciano e Bolognano. I culti neolitici in Abruzzo si riscontrano sia in grotta che in abitato e riguardano il Neolitico antico, medio e recente. Dell'Eneolitico restano nella piana del Fucino le ceramiche nere a incisioni geometriche e una gran quantità di strumenti ed oggetti in bronzo. La cultura appenninica si sviluppò infatti in Abruzzo durante l'età del bronzo medio (a partire dal 1500 a.c.).

    Gli antichi popoli d'Abruzzo furono comunque:

    GUERRIERO CAPESTRANO
    - Carricini (gruppo sannitico), tra il fiume Sangro e le pendici della Maiella;
    - Equi, tra il lago Fucino e la valle dell’Aniene:
    - Frentani, di lingua osca insediati nella regione costiera dell’Adriatico centrale, tra le foci dei fiumi Sangro (territorio dei Marrucini) e Biferno (territorio dei Dauni);
    - Marrucini, in una striscia di territorio lungo la costa adriatica, tra i vestini a nord, frentani e carricini a sud, peligni a ovest, mentre ad est si affacciava sull'Adriatico sulla costa compreso tra Ostia Aterni (Pescara) e Ortona (CH).
    - , sulla riva sud-orientale del lago del Fucino, nelle tre vallate del Giovenco, di Ortucchio (AQ) e di Trasacco (AQ); confinando a nord con i Vestini Cismontani, a est con i Peligni, a sud con i Pentri e a ovest con gli Equi e i Volsci.
    Marsi
    - Peligni, confinavano a ovest con la catena del Sirente e i Monti della Meta che li dividevano dai Marsi, la catena Morrone-Majella dai Marrucini e dai Carricini, a est; il corso del fiume Aterno dai Vestini, a nord; l’altopiano delle Cinque Miglia dai Sanniti Pentri, a sud.
    Pentri, abitavano il Sannio settentrionale nell’attuale territorio tra Abruzzo e Molise, tra le province di Campobasso, Isernia, L’Aquila e Chieti.
    - Pretuzi, nel territorio compreso tra i fiumi Salinello e Vomano.



    GLI EVENTI
    • 11 maggio 1181 a.c. mitica fondazione di Teate (Chieti) dai guerrieri Achei seguaci di Achille. Il piede di Achille viene rappresentato ancora oggi nello stemma della città di Chieti.
    • 1180 a.c. l'eroe troiano Solima, compagno di Enea, fondò le città di Solima-Sulmo (Sulmona) e di Anxia-Anxanon-Anxanum-Lanzano (Lanciano) quest'ultima ebbe nome in memoria di Anxa fratello di Solima.
    • 1000 a.c. mitica fondazione dai fenici di Petrut-Pretut-Interamnea Pretutia/Pretutianum-Pretutia (Teramo)
    • fondazione dai liburni (dalmati) di Truentum-Castrum Truentinum
    • fondazione di Hatria (Atri)
    • fondazione dai sabini di Amiternum
    • VIII - VI sec. a.c. Popolamento dell'appennino abruzzese dai sabini, seguendo il rito del Ver Sacrum (primavera sacra), con il quale si consacravano agli dei i nati durante la primavera. Essi, una volta divenuti adulti, lasciavano il proprio territorio per colonizzare una nuova terra, costituendo così un nuovo popolo. Le nuove tribù si consacravano nel nome di una divinità: Pico per i piceni, Marte per i marsi, Vesta per i vestini
    • 435 i romani conquistano Anxanum (l'odierna Lanciano) che diviene prima colonia romana e poi municipium
    • 325 a.c. nel corso della II guerra sannitica, una coalizione di vestini, peligni, marrucini e frentani viene sconfitta dai romani 
    • 320 ac. i romani affrontano e sconfiggono i Frentani 
    • 313 ac. le vicende spingono tutte le popolazioni osco-sabelliche a schierarsi al fianco sannita contro Roma.
    • 308 a.c. Peligni, Marrucini e Marsi dichiarano guerra a Roma che già due anni dopo ha ragione dei nemici, assicurandosi il transito nel loro territorio. 
    • 304 ac. definitiva sconfitta di Peligni, Marrucini e Marsi
    • 304 a.c. i romani fondano la colonia di Alba Fucens 
    CISTERNA DI ATRI





    • 294 a.c. i Marsi si ribellano a Roma contro l’istituzione della colonia latina a Carseoli, subendo una sconfitta definitiva.
    • 293 a.c. Roma conquista Amiternum 
    • 290 a.c. dopo la battaglia di Camerino, tra piceni-romani contro i sanniti, le popolazioni dell'Abruzzo entrano a far parte come alleati dello stato romano
    • 286 a.c. il console Marco Valerio Massimo completa la via consolare Tiburtina che poi diventa Tiburtina-Valeria in suo onore. L'Abruzzo e l'Adriatico sono collegati a Roma. La strada passa in mezzo a Teate (l'attuale Corso Marrucino a Chieti) e termina a Ostia Aterni (il porto dell' Aterno, dov'è ora Pescara)
    • 76 a.c. nascita di Asinio Pollione a Teate
    • 142 - 117 a.c. costruzione della Via Cecilia 
    • 91- 89 a.c. Nella Guerra sociale contro Roma gli italici mettono in campo un esercito di 100.000 guerrieri, il gruppo dei Marsi è capeggiato da Quinto Poppedio Silone; Il comandante Marrucino Asinio Herio muore sconfitto da Gaio Mario
    • 91 a.c. Piceni, Marsi, Sanniti, Frentani, Peligni e Marrucini, a cui si aggiunsero poi tutti i popoli dell’Italia peninsulare, si unirono nella Lega Italica, scelsero Corfinio, ribattezzata "Italia", come capitale della nuova confederazione da opporre a Roma. È di questo periodo la prima attestazione storica del nome "Italia", rinvenuto infatti per la prima volta su una moneta della lega sociale con capitale a Corfinium
    • 89 a.c. la Lex Plautia Papiria dà la cittadinanza romana a tutti i popoli italici
    • costruzione della via Traiana
    • colonie romane a Anxanum, Alba Fucens, Castrum Novum e Castrum Truentum
    • 86 a.c. nascita di Sallustio a Amiternum
    • 85 a.c. Teate diventa capoluogo della neo costituita unità amministrativa romana "Tribus Arnensis", il futuro Abruzzo Citeriore
    • 43 a.c. nascita di Ovidio a Sulmo
    • Augusto divide l'Abruzzo tra le regioni Picenum e Samnium
    • 41 dc. l'imperatore Claudio fa scavare i tunnell  a sud di Avezzano per la famosa galleria con cui prosciugherà il Fucino.
    • 42 d.c. l'imperatore Claudio prosciuga temporaneamente il lago del Fucino 
    • 47 - 49 d.c. l'imperatore Claudio costruisce la via Claudia Nova rimette a nuovo la Valeria
    • 68 terremoto a Teate (l'attuale Chieti)
    • 101 terremoto a San Valentino in Abruzzo Citerio
    • 384 lastra di bronzo rinvenuta a San Salvo (CH), con inciso un decreto dell’assemblea municipale della città di Cluviae, dove si menzionano i “Cluvienses Carricini”
    La conquista romana invade le città marse (ocres) di Milonia, Plestinia, Fresilia e Cesennia; di quelle volsche di Sora, Atina, Arpi e Comino; e di quelle pentre di Aquilonia e Aufidena. Roma, nella sua espansione verso est con le guerre sannitiche (343-291 a.c.) subisce un arresto nel carseolano e quindi nella zona occidentale del Fucino, dove gli Equi resisteranno per molti anni, cedendo solo nel 304 ac. il territorio che i Romani chiameranno Alba Fucens.

    PELTUINUM
    I romani danno il via collegamento tra la Tiburtina ed il Fucino con la Via Valeria. Tramite questo collegamento conquistano il territorio degli Equi, e poi il Fucino fino all’Alto Sangro. Qui i Romani si spingono a sud-est e conquistano il Sannio: le guerre sannitiche termineranno nel 290 ac., con la firma dei foedera, i trattati con i quali gli Italici vengono associati a Roma, concedendogli stessi, in cambio di sostegno in caso di guerra, ampia autonomia politico-amministrativa interna.

    Con l'avvento dei Romani le antiche città vennero ristrutturate secondo le norme urbanistiche romane e vennero abbellite con la costruzione di grandiose opere pubbliche, come teatri, anfiteatri e terme. La realizzazione delle strade permise l’intensificazione dei traffici e degli scambi commerciali.

    Il diritto di cittadinanza negato a suo tempo agli Equi, sottomessi intorno al 300, viene di nuovo richiesto e a causa del rifiuto del senato romano darà luogo alla guerra sociale (91-88 a.c.), vinta ancora una volta dai Romani, ma con la concessione ai Marsi della cittadinanza romana.

    Con la concessione della cittadinanza l’Abruzzo divenne provincia augustea entrando, insieme al Molise, nella IV Regio Augustea “Sabina et Samnium” e successivamente, in epoca imperiale, nella Provincia Valeria.
    I principali centri fiorenti abruzzesi furono i municipi romani di Chieti, Teramo e le città di Alba Fucens, Atri, Penne, Amiterno, Forcona, Aveia, Peltuino, Corfinio.  
    Nella divisione augustea dell'Italia l'Abruzzo, con il Molise, a eccezione del Teramano, fece parte della Regio IV, denominata Sabina et Sannium; questa fu la premessa per il definitivo ingresso nel sistema di Roma, sancito dalla concessione della cittadinanza (nella prima metà del I secolo d.c.).


    Alba Fucens
    - nei pressi dell'odierna Avezzano - L'Aquila - Romani - Area archeologica comprendente mura poligonali, foro, basilica e edifici annessi; macellum: terme; varie domus romane: poco distante si trova l'anfiteatro.


    Amiternum 
    - nei pressi dell'odierna L'Aquila - Sabini e Romani - Anfiteatro romano; Teatro romano; Foro: terme: Villa con mosaici e affreschi:; resti delle terme: resti dell'acquedotto.


    Anxanon
    ALBA FUCENS
    (Lanciano) insediamenti neolitici. Fondata circa nel 1180 a.c., da un compagno di Enea esule dalla guerra di Troia, Solima, che chiamò la città Anxanon dal nome di suo fratello Anxa. Il nome si sarebbe poi evoluto in Anxanum con la conquista romana (II sec. a.c.). Il parco archologico conserva: terme, teatro, ponte sulla valle Pietrosa (dedicato a Diocleziano), acquedotti, fontane e templi (dedicati a Giunone, Apollo, Marte). All'interno del Seminario si possono ammirare altri resti della Anxanum romana.


    Allfedena
    Fa parte della Comunità Montana Alto Sangro e Altopiano delle Cinque Miglia e del Parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise. Di origine sannitica, poi romana. Le tracce romane e dell'antica necropoli furono distrutte e trafugate dai tedeschi nell'ultima guerra. 


    Aufidena
    Tito Livio narra che venne conquistata dai Romani durante la III guerra sannitica nel 298 ac. dal console Gneo Fulvio Massimo Centumalo. Dopo la conquista romana divenne municipio nella II metà del I sec. a.c. e i suoi cittadini furono iscritti nella tribù Voltinia e fece parte della "regio IV Sabina et Samnium".


    Aveia  
    - Oggi Fossa, Aveia vestina nella IV regione augustea, nella conca aquilana, dove oggi è situato Fossa, piccolo comune nel cui territorio è stata rinvenuta una grande necropoli con tombe dal IX al I sec. a.c. Rinvenute: Iscrizione su roccia che attesta il culto di Bacco e Silvano, tracce di mura megalitiche, ara Fossae: sotto una grotta artificiale una lapide attesta il culto del Sole Invitto, Necropoli, un piccolo acquedotto. La città era lambita dalla strada consolare Claudia nova, costruita dall'imperatore Claudio nel 47.


    Cluviae 
    - nei pressi di Casoli - Chieti - Carricini e Romani - ritrovato un teatro, delle terme e delle strade lastricate, reti fognarie ben conservate e porzioni di murature in opera reticolata sovrastate da muretti a secco in ciottoli di fiume, cisterne per il deposito di cereali, interrate sia sotto che a fianco alle abitazioni romane riutilizzate.


    AMITERUM
    Corfinium 
    - Corfinio - L'Aquila - Peligni e Romani sono stati rinvenuti frammenti di costruzioni intorno all'antica chiesa di S. Pelino, e il ponte sopra l'Aternus. Rinvenute invece molte iscrizioni ed epigrafi.


    Forconium
    - Forcona, strutture romane sottostanti l'antica Cattedrale di San Massimo, resti di un complesso termale che sono stati inglobati nelle fondazioni dell'edificio cinquecentesco di Villa Oliva, il tempio dedicato a Feronia, rinvenuto e reinterrato negli anni Settanta, oltre a numerose iscrizioni funerarie e dedicatorie, che confermano l'esistenza di un centro abitato d'età romana.


    Hatria
    - Atri, nelle Terre del Cerrano, prov. Teramo - Mura romane e teatro romano.


    Histonium - Vasto - Chieti - Frentani e Romani - Teatro romano: Teramo ; II sec. d.c. a pochi m dall'Anfiteatro romano. Anfiteatro romano: resti I sec. d.c.. In via Antonio Bosco rinvenuto un tempietto romano. Necropoli di Ponte Messato: quartiere Cona vi è il Parco archeologico di Ponte Messato con strada romana e tombe. Di origine pre-romana e ampliata nel periodo romano, ai lati dell'antica strada lastricata, contornata di monumenti, Via sacra d'Interamnia. Domus e Mosaico del Leone: Mosaico del Leone, in Corso Cerulli. (Domus del Leone), il Mosaico del Leone databile I sec. a.c., uno degli esempi più alti dell'arte del mosaico.


    Interamnia Praetutiorum 
    - Teramo - Pretuzi, Romani - Sito archeologico di Torre Bruciata: Piazza S.Anna, fianco Chiesa omonima, resti di una sontuosa villa romana I sec. a.c. Sito archeologico di Largo Madonna delle Grazie: resti di abitazioni romane di età augustea e di un impianto industriale. Domus di Vico delle Ninfe: resti antica pavimentazione a mosaico, primi secoli d.c.


    Iulianova
    - Giulianova, nel III sec. a.c. i romani crearono presso le foci del Tordino, a meno di 2 km dall'attuale centro storico, una nuova colonia denominata Castrum Novum (o Castrum Novum Piceni), che si trasformò in un attivo centro commerciale e un nodo di comunicazioni Citata da Velleio Patercolo e da Strabone, si dotò di bagni termali e forse raggiunse in età imperiale un perimetro di 2 km-


    Juvanum 
    JUVANUM
    - nei pressi di Montenerodomo - Chieti - Romani - foro, un tempio e una basilica, resti di un insediamento romano successivo alla guerra sociale; a sud est del foro sono stati ritrovati alcuni vani:uno di cucina per il focolare al centro; uno di taberna di un medico; uno la stanza di una ornatrix; a sud est del portico del foro, una mola olearia utilizzata per il riempimento della pavimentazione; tomba di un bambino con due bronzetti raffiguranti Ercole recante una lamina d'argento con un'incisione riempita a niello; statue di togati di cui uno con una bulla.


    Lucus Angitiae 
    - nei pressi 'odierna Luco dei Marsi - Marsi e Romani - tempio di età augustea, colonne doriche e sepolture; sculture a bassorilievo, monete.


    Marruvium
    - S.Benedetto dei Marsi, Dell'antico centro rimangono resti delle mura e dell'anfiteatro, iscrizioni, statue antiche e reperti vari. Recentemente sono stati ritrovati i resti di una domus di epoca romana, riportata alla luce ed oggi visitabile. Altri monumenti di notevole interesse sono i morroni, due strutture in muratura, probabilmente sepolture di epoca romana, e i resti della cattedrale di S. Sabina risalente al periodo paleocristiano. Nel sottosuolo della città è altresì visitabile una strada romana in buono stato di conservazione


    Ocriticum 
    - nei pressi dell'odierna Cansano - L'Aquila - Romani - parco naturalistico con tempio italico, tempio romano, sacello di divinità femminili, fornace.


    Pallanum 
    - Monte Pallano - Chieti - Frentani e Romani - mura megalitiche con due porte, rovine di un insediamento di medie dimensioni, un complesso di costruzioni attorno ad uno spazio centrale, tegole di terracotta, varie monete romane, numerosi manufatti di ferro, pavimentazioni in argilla, gesso e pozzolana in opus signinum.


    ERCOLE DI SULMO
    Peltuinum 
    - Prata d'Ansidonia - L'Aquila - Vestini e Romani - teatro di età augustea, tratti di mura, un tempio forse di Apollo.


    Penne
    - nell'anno 87 acquistò il diritto di "civitas romana".


    Sulmo
    - « Mi è patria Sulmona, ricchissima di gelide acque, che dista nove volte dieci miglia da Roma. » (Ovidio, Tristia IV,10). Fondata da un compagno di Enea, Solima, esule dalla guerra di Troia.
    (Ovidio, Tristia IV,10). Già oppidum dei Peligni, successivamente municipio romano, nel 43 a.c. Dagli scavi è emerso il Tempio di Ercole Curino, ai piedi del monte Morrone, con un bronzetto di Ercole del III sec. ac.


    Teate 
    - Chieti - Marrucini Romani - anfiteatro, teatro, terme, templi romani.


    Teramo
    - Nel centro storico dell'antica Interamnia Petruzia sono i resti del teatro e dell'anfiteatro romano e ruderi delle terme.


    Truentum - Martinsicuro - Teramo - Castrum Truentinum. - Gli scavi condotti hanno riportato alla luce i resti della città, con un quartiere commerciale, già esistente nel II sec. a.c. e impiantato secondo un'urbanistica regolare. In epoca augustea prolungata fino alla foce del Tronto e a Castrum Truentinum la via Salaria.

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