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OBELISCO DI MONTECITORIO

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"L'obelisco che si vede nel mezzo della piazza (di Montecirorio) è quello stesso che Augusto fece trasportare dall'Egitto, ed eriggere per servire di gnomone ad una meridiana nel Campo Marzo; al qual'uso però non giunse a ben corrispondere che per soli trent'anni appena, come Plinio racconta. 

Fin dal tempo di Giulio II fu trovato giacente non lungi da molti frammenti della Meridiana in una qui vicina contrada che dicesi largo dell'impresa: e Sisto V fu dissuaso dall'innalzarlo perchè troppo vedevasi maltrattato. 

Benedetto XIV però lo fece estrarre di colaggiù, e vi pose una lapide di memoria: Pio VI finalmente nell'anno 1789, lo fece ristaurare, ed innalzare nel luogo ove noi lo veggiamo con l'opera di Giovanni Antinori. 

Esso è di granito rosso con geroglifici ed è alto palmi 98.

Il piedistallo pur di granito ne ha 19 di altezza, e su di esso leggesi la dedica di Augusto al sole: lo zoccolo di marmo bianco ne ha 13 e mezzo. In cima, com'ebbe anticamente, è una palla effigiata dell'arme gentizilia di Papa Pio VI, la quale lascia passar per un foro lo spiraglio del sole sul mezzo giorno."

(Roberto Lanciani)

Davanti a Palazzo Montecitorio, nella zona tra l'attuale piazza di Montecitorio e piazza di S. Lorenzo in Lucina, si erge l'obelisco di Psammetico II (594-589 a.c.), che vi è raffigurato con l'aspetto di una sfinge sdraiata.

Accanto degli scarabei alati che reggono il disco solare. L'obelisco è alto 21,79 metri, in granito, proveniente da Eliopoli, eretto per commemorare le vittorie del faraone sugli Etiopi.

Come ci narra Plinio, insieme all’obelisco eretto nel 10 a.c. nel Circo Massimo per commemorare la conquista dell’Egitto, Augusto ne fece trasportare un altro, più piccolo, facendolo erigere nel Campo Marzio (dove fu rinvenuto in pezzi nel 1748) utilizzandolo come gnomone, cioè come braccio indicatore di un grande orologio solare, la meridiana di Augusto.

Questa aveva l'enorme dimensione di 180 m di lunghezza e 30 di larghezza e consisteva in una vasta platea lastricata in marmo sulla quale linee e lettere di bronzo dorato (ciascuna lunga 3 m) indicavano la durata delle notti e dei giorni.

L'obelisco proveniva da Eliopoli dove fu innalzato nel VI sec. a.c. sotto il regno di Psammetico II (595-589 a.c.), che vi è raffigurato come una sfinge sdraiata, e i cui geroglifici osannano le glorie del faraone. Esso venne edificato in granito rosa, è alto 21 m, e presenta su due facciate delle iscrizioni che enunciano l'interpretazione dei fenomeni naturali secondo la scienza egiziana.

Sulla base Augusto fece incidere un’iscrizione di 7 righe ripetute esattamente sulla facciata opposta, che ricordano la conquista dell’Egitto e contengono una nuova dedica al Sole. Si dice anche che nella palla dorata posta sulla guglia furono poste le ceneri dell’imperatore Ottaviano Augusto.

Secondo quanto scrisse Plinio, Augusto volle che questo obelisco captasse l’ombra solare per indicare la lunghezza dei giorni e delle notti: il matematico Facondo Novio pose in cima all’obelisco una sfera dorata che aveva il compito di “raccogliere l’ombra del sole su di sé, altrimenti la punta dell’obelisco l’avrebbe largamente diffusa”.

Crollò verso il IX secolo in seguito ad un incendio e giacque sepolto per molti secoli, dimenticato da tutti, anche perché come orologio solare aveva funzionato solo per 30 anni, come ci racconta Plinio, che attribuiva la causa del guasto o allo spostamento del terreno in seguito ad un terremoto o al mutato corso del sole oppure allo spostamento della terra dal suo asse.



IL RITROVAMENTO

Quando fu ritrovato nel Settecento, sotto Benedetto XIV,  Lambertini, era in cinque pezzi e “abbrugiato” dal fuoco, ragioni che avevano fatto desistere Sisto V dall’impresa di riportarlo alla luce, nella cantina di una casa in Campo Marzio.
Si disputò in merito se fosse stato "una specie di horiuolo o uno gnomone che permettesse ai Romani di controllare che d’inverno le ombre erano più lunghe, e quindi più brevi di quelle dell’estate."

L'obelisco, scoperto nel 1748, giaceva sotto le fondamenta della Casa degli Agostiniani di S.Maria del Popolo, dove un'iscrizione, su una grande targa marmorea posta sopra il portone di accesso, ne ricorda ancora l'avvenimento:

"BENEDICTUS XIV PONT MAX OBELISCUM HIEROGLYPHICIS NOTIS ELEGANTER INSCULPTUM ÆGYPTO IN POTESTATEM POPULI ROMANI REDACTA AB IMP CÆSARE AUGUSTO ROMAM ADVECTUM ET STRATO LAPIDE REGULISQUE EX ÆRE INCLUSIS AD DEPREHENDENDAS SOLIS UMBRAS DIERUMQUE AC NOCTIUM MAGNITUDINEM IN CAMPO MARTIO ERECTUM ET SOLI DICATUM TEMPORIS ET BARBAROR(UM) INJURIA CONFRACTU(M) JACENTEMQ(UE) TERRA AC ÆDIFICIIS OBRUTUM MAGNA IMPENSA ATQUE ARTIFICIO ERUIT PUBLICOQ(UE) REI LITERARIÆ BONO PROPRINQUU(M) IN LOCU(M) TRANSTULIT ET NE ANTIQUÆ SEDIS OBELISCI MEMORIA VETUSTATE EXOLESCERET MONUMENTUM PONI JUSSIT ANNO REP SAL MDCCXLVIII PONTIF IX".

Ovvero:
"Benedetto XIV Pontefice Maximo, l'obelisco elegantemente inciso con geroglifici, portato a Roma dall'imperatore Cesare Augusto, dopo che l'Egitto fu ridotto in potere del Popolo Romano, eretto nel Campo Marzio e dedicato al Sole su un pavimento marmoreo con indicazioni in rame per segnare le ombre del Sole e la durata dei giorni e delle notti, spezzato e giacente per le ingiurie del tempo e dei barbari, ricoperto di terra e dagli edifici, dissotterrò con grande spesa e maestria e per il bene pubblico della cultura lo trasferì in un luogo vicino ed affinché con il tempo non si perdesse la memoria dell'antica sede dell'obelisco, ordinò di porre questa lapide, nell'anno di recuperata salvezza 1748, nono del suo pontificato".

L’impresa di portarlo alla luce fu affidata a Nicola Zagaglia “uomo estremamente rozzo in quanto non aveva tintura alcuna di lettere”, ma “pur privo di qualunque cognizione scientifica, digiuno dei primi elementi di leggere e scrivere, fu dotato dalla natura di meraviglioso talento per le opere manuali meccaniche”.

Egli dal maggio all’agosto del 1748 con “facilità meravigliosa” portò alla luce i frammenti dell’obelisco che per il momento furono allineati nel cortile del Palazzo del Lotto.

Quaranta anni dopo fu eretto sulla Piazza di Montecitorio, con lavori che procedettero tra il 1789 ed il 1792,,  per opera dell'architetto Giovanni Antinori che lo restaurò con il granito rosso prelevato dai frammenti della colonna Antonina (sig!).

Il Papa volle che fosse posto sulla cuspide un globo in bronzo a somiglianza di quello postovi da Augusto, affinchè quando scocca mezzogiorno un raggio di sole attraversi il foro inclinato e illumini in terra il Mezzodì.

Venne ripristinata anche la sua originale funzione di gnomone e sul selciato vennero predisposte una serie di selci-guida: sul culmine dell'obelisco fu posto un globo di bronzo (copia dell'originale) con una fessura attraverso la quale, a mezzogiorno, i passanti raggi solari avrebbero indicato le ore sul selciato. Purtroppo non si riuscì a renderlo funzionante (come, d'altronde, quello antico) ed è rimasto solo un bel monumento. Ma il mezzogiorno lo segna ancora.

Dopo il 1870 la Casa degli Agostiniani di S.Maria del Popolo fu espropriata dallo Stato Italiano e venduta.



LA MERIDIANA DI AUGUSTO

“ Il divo Augusto attribuì una mirabile funzione all’obelisco che è nel Campo Marzio, cioè quella di catturare l’ombra del sole e di determinare la lunghezza dei giorni e delle notti. Realizzò di conseguenza un pavimento di lastre di ampiezza proporzionale all’altezza dell’obelisco in modo che l’ombra fosse pari a questo lastricato alla sesta ora (mezzogiorno) del solstizio d’inverno e, a poco a poco giorno dopo giorno, diminuisse e poi aumentasse di nuovo, indicata da regole di bronzo inserite nel pavimento. 

Fatto degno di essere conosciuto, l’opera dell’astronomo Facondo Novio. Costui aggiunse al culmine dell’obelisco un globo dorato, sulla cui sommità l’ombra si raccoglie in se stessa, in modo da evitare che l’apice proietti un’ombra troppo grande: prendendo in questa ispirazione, a quanto si dice, dalla testa umana. 

L’orologio ormai non funziona più da quasi trent’anni, sia che il sole abbia cambiato corso per qualche legge celeste, sia che la terra intera si sia alquanto spostata dal suo centro, sia che lo gnonome (obelisco), in seguito a terremoti, si sia piegato, oppure che le inondazioni del Tevere abbiano provocato un cedimento alle fondazioni, benché si affermi che queste furono costruite per una profondità adeguata al peso sovrapposto “ 

(Plinio il Vecchio XXXVI, 72)

Con queste parole l’autore antico, che non poteva conoscere i restauri successivi di Domiziano, descrive l’Horologium Augusti, fatto costruire da questo imperatore creando una piazza lastricata di travertino lunga 160 m e larga 75, al centro della quale, su un basamento dedicato al sole, era eretto a mo di asta indicatrice l’obelisco di Psammetico (594-588 a.c.), condotto a Roma dall’Egitto nel 10 a.c.

In tempi diversi, scavi fortuiti hanno individuato i resti di questo grande monumento ed i frammenti restaurati dell’obelisco vennero innalzati nel 1972 in piazza Montecitorio. Soltanto nel 1979 attraverso intelligenti ricerche condotte nell’area, si scoprì un ampio tratto della pavimentazione con linee ed iscrizioni in bronzo. Questi avanzi apparterrebbero ai restauri domizianei, che previdero il rialzo del piano della piazza per circa un metro e mezzo.



LEGIO VII PATERNA CLAUDIA PIA FIDELIS

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Fu definita "VII legione Paterna Claudia Pia Fidelis", "paterna" in quanto derivata dalla legio VII del padre di Ottaviano, Giulio Cesare; "Pia", nel senso di devota, e "Fidelis" come fedele. Il suo emblema, come quello di tutte le legioni cesariane, era il toro, insieme con il leone.



L'ANTEFATTO

Prese parte alla guerra sociale del 90 - 89 a.c. e fu attiva dal 91 al 58 a.c. La Guerra Sociale vide opposti Roma e i municipia dell'Italia fin allora alleati del popolo romano, per l'estensione dei diritti di cittadinanza anche ad altri popoli italici fino ad allora federati. Non sappiamo però se se si trattò della stessa legione utilizzata da Cesare trent'anni più tardi. Alcuni studiosi lo sostengono, altri lo confutano.

Abbiamo notizia di una VII Legione nella Gallia Transalpina negli anni 67- 65 a.c., quando l'allora governatore Gaio Calpurnio Pisone pose fine ad una rivolta di Galli Allobrogi. Nel 62 a.c. partecipò, invece, insieme alla legio VIII (legio VIII Gallica Veterana Mutinensis) e la IX (legio VIIII o IX Triumphalis Macedonica) a sedare la cospirazione di Lucio Sergio Catilina nel Piceno.



GIULIO CESARE

58 a.c. - All'inizio del proconsolato di Gaio Giulio Cesare era acquartierata, insieme alle legioni VIII (legio VIII Gallica Veterana Mutinensis), e alla IX ( legio VIIII o IX Triumphalis Macedonica), nella
Gallia Cisalpina presso Aquileia.

« A suo dire [di Orgetorige], gli Elvezi, visto che erano superiori a tutti in valore, potevano impadronirsi con facilità dell'intera Gallia. Egli li convinse di ciò in quanto, per la configurazione geografica del paese, gli Elvezi sono chiusi da ogni parte: da un lato dal Reno, largo e profondo, che divide le terre degli Elvezi dai Germani, dall'altra dal monte Giura, molto alto, che è tra loro e i Sequani e infine dal Lago Lemano e dal fiume Rodano, che li separa dalla nostra provincia. Tutto ciò riduceva l'area in cui potevano fare scorrerie e rendeva difficile fare guerra ai popoli vicini. Perciò, essendo molto bellicosi, erano afflitti. Inoltre, pensavano di avere un territorio troppo piccolo rispetto al numero del loro popolo e alla gloria che avevano per il loro valore in guerra, lungo 240 miglia e largo 180»
(Cesare, De bello Gallico.)

58 a.c. - sull'Arar (attuale fiume Saone), tra l'esercito romano guidato da Gaio Giulio Cesare e gli Elvezi, con la vittoria romana durante l'attraversamento del fiume.

58 a.c. - Bibracte contro gli Elvezi, in cui Cesare riuscì, come in molti altri casi, a sconfiggere un esercito nettamente superiore al suo

58 a.c. - in Alsazia contro le genti germaniche di Ariovisto

57 a.c. - sul fiume Axona e sul Sabis contro le popolazioni dei Belgi;

55 a.c. - in Britannia.; nella battaglia di Avaricum. contro i Biturigi, vinta da Ceasre e narrata nel De Bello Gallico.

52 a.c. - ad Alesia, il capolavoro strategico di Cesare che portò alla vittoria con la sottomissione definitiva delle genti galliche.

52-51 a.c. - in inverno era, insieme alla XV Apollinaris e la cavalleria, con Tito Labieno ed il suo luogotenente, Marco Sempronio Rutilo, tra i Sequani (sul fiume Arara) a Vesontio (sul fiume Doubs in Francia)..
49 - a.c. - Al'inizio della guerra civile, la legione si trovava presso Narbona, capitale della Gallia Narbonese e venne inviata da Cesare in Hispania sotto il comando del suo legato, Gaio Fabio, prendendo parte alla vittoriosa campagna di Lerida.

48 a.c. - La VII venne trasferita in Macedonia partecipando alla battaglia di Dyrrhachium, tra Cesare e Pompeo che ebbe la meglio facendo ritirare Cesare nella Tessaglia.

46 a.c. - La Paterna partecipò anche alla battaglia decisiva di Farsalo, in cui Cesare sconfisse Pompeo.

46 a.c. - Prese parte poi alla battaglia di Tapso in Africa. Subito dopo la legione sembra sia stata sciolta ed i suoi veterani inviati in Campania ed in Gallia Narbonese a Baeterrae.

46 a.c. - Tuttavia fu formata nuovamente da Marco Antonio, con un nucleo di veterani, su loro richiesta, che mal si erano adattati alla vita civile.


OTTAVIANO

44 a.c. Dopo la morte di Cesare, i veterani stanziati nelle colonie militari vennero reclutati sia dal giovane Cesare Ottaviano sia dal fedele luogotenente di Marco Antonio, Publio Ventidio Basso. Quindi alla vigilia della guerra di Modena furono costituite due legioni con il numerale VII: la legione di Ottaviano venne impegnata a Modena, e da Ottaviano avrebbe ricevuto una ricompensa di 20 000 sesterzi per la strepitosa vittoria.
Combatté con successo contro Antonio nella seconda fase della battaglia di Forum Gallorum (tra Cesare e Marco Antonio), mentre la VII legione reclutata da Ventidio Basso marciò insieme alla VIII e IX legione incontro a Marco Antonio e si congiunse con successo con le forze di quest'ultimo a Vado Ligure. 
Questa legione non sarebbe da identificare con la omonima VII di Marco Antonio, reclutata in Oriente, probabilmente durante il suo soggiorno a fianco della regina d'Egitto, Cleopatra VII.
Dopo la battaglia di Filippi passò dalla parte di Ottaviano, con il quale rimase fino alla battaglia di Azio del 31 a.c., confluendo infine nella VII Paterna Macedonica poi Claudia.
42 a.c. - Filippi, con la battaglia del triumvirato, composto da Marco Antonio, Cesare Ottaviano, e Marco Emilio Lepido, contro i cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino.

41 a.c. - Prese poi le parti di Ottaviano durante l'assedio di Perugia, e con quest'ultimo rimase fino alla battaglia di Azio (31 a.c.). Come coloni di Ottaviano, furono inviati, al termine della guerra civile, a Rusazus ed a Saldae in Mauretania Cesariense.
31 a.c. Venne riformata da Augusto dopo la battaglia di Azio del 31 a.c., ed esistette almeno fino alla fine del IV sec, quando svolgeva compiti di pattuglia nel medio corso del Danubio.


CLAUDIO


42 d.c. - ottenne il titolo di Claudia Pia fidelis in seguito alla rivolta del governatore della provincia di Dalmazia, Furio Camillo Scriboniano, poiché le legioni (VII e XI) lo sostennero solo per quattro giorni e la rivolta non si estese. Claudio per questi motivi premiò la lealtà delle legioni dalmatiche.

LUDI SAECULARES

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I Ludi Saeculares (Giochi Secolari) furono dei giochi che facevano parte di una importante cerimonia religiosa derivante da una più antica detta Ludi Tarentini. Questa cerimonia comprendeva formule sacre, sacrifici animali e spettacoli teatrali, che si susseguivano per tre giorni e tre notti.

Questi Ludi particolari si svolgevano alla fine di un saeculum (secolo) determinando anche  l'inizio del secolo successivo.

Un saeculum, presumibilmente la massima lunghezza possibile della vita umana, era considerato durare tra i 100 ed i 110 anni.

Alcuni autori antichi hanno riportato indietro nel tempo le celebrazioni ufficiali dei Giochi al 509 a.c., ma le uniche celebrazioni chiaramente attestate sotto la Repubblica romana ebbero luogo nel 249 e nel 140 a.c. circa.

I Giochi si svolsero ancora nel 17 a.c., voluti e assistiti dall'imperatore Augusto, mentre gli imperatori successivi tennero celebrazioni negli anni 88 e 204, ad intervalli di circa 110 anni. I giochi si svolsero anche sotto Claudio nell'anno 47 per celebrare l'ottocentesimo anniversario dalla fondazione di Roma, che condusse ad un secondo ciclo di Giochi, nel 148 e nel 248, che vennero infine abbandonati con l'avvento degli imperatori cristiani.

MONETA CELEBRATIVA DEI LUDI SAECULARES

REPUBBLICA

Nella tradizione romana i Ludi Saeculares ebbero origine con un nobile antenato sabino della Gens Valeria chiamato Valesius o Volusus. Il praenomen Valesus diede poi origine al nomen Valesius (testimoniato da epigrafi del VI sec. a.c.), trasformatosi successivamente in Valerius.

LUDI TERENTUM
Questi sarebbe venuto dalla Sabina (Dion. Hal. 2, 46) a Roma assieme a Tito Tazio. Quando i figli di Valesus si ammalarono gravemente, egli pregò gli Dei di curarli, offrendo in cambio la propria vita. Udì allora una voce che gli disse di portare i bambini a Tarentum e di dargli da bere l'acqua del fiume Tevere, scaldata su un altare di Dis Pater (Dite) e di Proserpina, la versione romana della Dea greca Persefone o Kore, il cui nome potrebbe derivare dal latino proserpere ("emergere") a significare la crescita del grano. Infatti, in origine, fu senza dubbio una dea agreste, successivamente divinità degli inferi.

« La totalità della sostanza terrestre considerata nella pienezza delle sue funzioni fu invece affidata a Dis Pater che è lo stesso che direDives (il ricco), il Ploutos dei Greci; denominazione giustificata dal fatto che ogni cosa ritorna alla terra e da essa trae origine. A Dis Pater si ricollega Proserpina (il nome è di origine greca, trattandosi di quella dea che i Greci chiamano Persefone) che simboleggerebbe il seme del frumento e che la madre avrebbe cercata dopo la sua scomparsa.… »
(Marco Tullio Cicerone, De natura deorum II, 66)

LUDI REPUBBLICANI
Pensando di dover viaggiare fino alla colonia greca di Taranto, nel sud del suolo italico, si pose in viaggio navigando navigando lungo il Tevere, ma giunto a Campo Marzio, nel luogo chiamato Tarentum. la voce gli intimò di fermarsi. 

Il Tarentum (o Terentum) era una parte del Campo Marzio i cui confini erano costituiti dall'altare di Dite e Proserpina (rinvenuto presso la Chiesa Nuova nel 1888) e il Tevere.
Per la presenza di fonti sulfuree, quindi sotterranee e calde il luogo venne collegato agli Inferi e al culto di Dite e di Proserpina.

In occasione dei Ludi saeculares vi venivano offerti sacrifici a Dite.
Velusius scaldò l'acqua del fiume e la diede ai bambini, che subito si riebbero e si addormentarono.

Quando si svegliarono, narrarono al padre che in sogno qualcuno aveva ordinato di fare sacrifici a Dite e Proserpina. 

Valesius, seguendo le istruzioni, scavò il suolo e rinvenne un altare dedicato alle due divinità. Compì allora il rituale come indicato e la guarigione fu completa.

In nome del miracolo accaduto a Valesius vennero istituiti i primi Ludi Secolari.

Le celebrazioni dei Giochi sotto la Repubblica romana sono scarsamente documentate. Anche se alcuni storici romani li fanno risalire indietro nel tempo al 509 a.c., alcuni studiosi moderni considerano che la prima celebrazione ben documentata ebbe luogo nel 249 a.c., durante la I guerra punica.

Secondo Varrone, ( I sec. a.c.), i Giochi vennero introdotti dopo che una serie di presagi condusse alla consultazione dei Libri Sibillini da parte dei quindecimviri.

Secondo questi libri, vennero offerti sacrifici a Tarentum, presso il Campo Marzio, per tre notti, alle divinità infernali di Dite e Proserpina.

Varrone aggiunge anche che venne fatto il voto di far ripetere i Giochi ogni cento anni, ed effettivamente un'altra celebrazione ebbe luogo nel 149 o nel 146 a.c., al tempo della III guerra punica..

Gli studiosi Beard, North e Price suggeriscono che i Giochi del 249 e quelli del 140 a.c. si tennero entrambi sotto la pressione diretta della guerra, e che fu solamente in quest'ultima occasione che vennero ad essere considerati come una celebrazione centennale regolare. Questa sequenza avrebbe condotto ad una celebrazione nell'anno 49 a.c., ma le guerre civili lo impedirono.

TAVOLA MARMOREA CHE CELEBRA I LUDI SAECULARES

IMPERO

Nel 17 a.c. i Giochi vennero rieditati dall'imperatore Augusto. La data fu motivata da un oracolo riportato nei Libri Sibillini, che imponeva che i Giochi venissero celebrati ogni 110 anni, e da una nuova ricostruzione della storia repubblicana dei Giochi che ne colloca la prima celebrazione nel 456 a.c..

Prima dei Giochi stessi, degli araldi andarono in giro per la città ad invitare il popolo ad "uno spettacolo a cui non avevano mai assistito e mai avrebbero rivisto in futuro". I quindecimviri si riunirono sul Campidoglio e nel tempio di Apollo Palatino, e distribuirono gratuitamente ai cittadini torce, zolfo ed asfalto, da bruciare come mezzo di purificazione (questi rituali potrebbero esser stati mutuati da quelli in uso nei Parilia, le feste per l'anniversario della fondazione di Roma). Vennero offerti anche grano, orzo e fagioli.

Il Senato decretò che un'iscrizione dei Giochi dovesse essere realizzata al Tarentum, affinché restasse una documentazione del loro procedimento. I sacrifici notturni non venivano fatti alle divinità infere Dite e Proserpina, ma alle Parche (o Fatae), ad Ilizia (la Dea del parto) e a Tellus (la Madre Terra). Queste erano "divinità più benefiche, che ciononostante condividevano con Dite e Proserpina la duplice caratteristica di essere greche nella classificazione linguistica e senza culto nello stato romano". Questi sacrifici notturni alle divinità greche del Campo Marzio si avvicendavano con i
sacrifici diurni alle divinità romane sui colli Campidoglio e Palatino.

- 31maggio   - Notte       - Campo Marzio       - Parche       - 9 agnelli femmine e 9 capre femmine
- 1º giugno   -  Giorno    - Campidoglio          - Giove        -  2 tori
- 1º giugno   - Notte       - Campo Marzio       - Ilizia          -  27 libum* (9 pezzi per ognuno dei 3 tipi)
- 2 giugno    - Giorno     - Campidoglio           - Giunone    -  2 mucche
- 2 giugno    - Notte       -  Campo Marzio      - Tellus         -  1 scrofa gravida
- 3 giugno    - Giorno     - Palatino         - Apollo e Diana   -  27 libum (9 pezzi per ognuno dei 3 tipi)

Il Libum era una focaccia romana, realizzata impastando formaggio di pecora con la farina ed un uovo, che veniva cotto posto su foglie di alloro. La ricetta è fornita da Catone nel De agricultura.
Questa focaccia veniva usata come offerta durante le feste dei Matralia ed  più tardi nei Ludi Saeculares.
I ruoli chiave vennero svolti da Augusto e dal suo genero Marco Vipsanio Agrippa, in qualità di membri dei quindecimviri; Augusto partecipava da solo ai sacrifici notturni ma era accompagnato dal genero in quelli diurni. Sembra che ad Agrippa mancassero le forse per sostenere tanto lavoro anche di notte, mentre il cagionevole di salute Ottaviano sostenne da solo un'attività molto impegnativa di giorno e di notte.
Dopo i sacrifici del 3 giugno, cori di ventisette ragazzi e ventisette ragazze cantavano il Carmen Saeculare, composto per l'occasione dal poeta Orazio e veniva cantato sia sul Palatino che poi sul Campidoglio

Ogni sacrificio era seguito da spettacoli teatrali. Una volta che i sacrifici di maggior rilievo erano terminati, i giorni tra il 5 e l'11 giugno erano dedicati alle commedie greche e latine, mentre il 12 giugno si svolgevano le corse dei carri e l'esposizione dei trofei di caccia.

CARMINA

CARMEN SAECULARE

Febo e Diana dea delle foreste, 
splendido decoro del cielo, da venerare 
e sempre onorati, esaudite le cose che desideriamo 
in questi giorni solenni 
in cui i versi sibillini prescrissero 
che vergini e fanciulli scelti e puri 
cantino un inno per gli Dei che hanno 
cari i sette colli! 
Sole divino, che sul cocchio luminoso dischiudi 
e nascondi il giorno sempre nuovo e uguale 
sorgi, e nulla maggior di Roma 
Possa tu vedere! 
Tu, che sai propizia fai schiudere i maturi parti 
come conviene, Ilizia, e che proteggi le madri, 
o che voglia essere chiamata Lucina 
o Genitale. 
O Diva, fa' crescere la prole e 
prospera i decreti dei Padri per le muliebri 
nozze, e per la legge maritale di nuova 
prole feconda, 
onde il giro fissato di cento e dieci anni 
riconduca i ludi e i cantici, affollati tre volte 
nel chiaro giorno, e tre volte nella 
notte gioconda. 
Voi che veraci annunziaste, o Parche, 
una volta per sempre ciò 
che il fato disse, e ciò 
che i sicuri eventi confermeranno, aggiungete 
fati ai fatti antichi buoni già compiuti! 
La terra fertile di messi e greggi 
Offra a Cerere corone di spighe; 
nutrano i frutti l'acque salubri 
e le aure di Giove! 
Placido e mite, ora che hai riposto il dardo, 
ascolta, Apollo, i supplici fanciulli; 
Luna, bicorne dea degli astri, ascolta 
tu le fanciulle! 
Se Roma è opera vostra, e se le schiere 
Troiane approdarono all'etrusco 
lido con l'ordine di cambiare dei e città 
con un viaggio favorevole, 
cui senza infamia tra le fiamme d'Ilio 
il casto Enea, superstite della patria, 
aprì un cammino libero per dare ai rimasti 
sorte più grande, 
Dei, date buon costume ai giovani sottomessi 
e ai vegliardi placida quiete, 
e date alla gente di Romolo la potenza, 
la discendenza ed ogni gloria; 
e quanto, offrendo bianchi buoi, l'illustre 
sangue d'Anchise e Venere vi chieda, 
egli l'ottenga, egli nell'armi altero, 
mite col nemico vinto. 
Già teme il Medeo la sua mano, potente 
per terra e in mare, e le latine scuri; 
già Sciiti ed Indi, poco fa ribelli, 
chiedono leggi. 
Già Fede e Pace, e Onore e il Pudore prisco 
e la Virtù negletta osano tornare; 
e già beata col suo corno pieno 
viene l'Abbondanza. 
Se Apollo, adorno dello splendido arco, 
augure e amico delle nove Muse, 
che ristora le membra stanche 
con l'arte salutare, 
guardi benigno i colli Palatini, 
di lustro in lustro proroghi lo stato romano 
ed il Lazio a tempi 
sempre migliori, 
e Diana, che possiede l'Algido e l'Aventino, 
si curi delle preghiere dei quindecemviri 
ed ascolti le suppliche dei giovinetti. 
Io porto a casa la buona e sicura speranza 
che Giove e tutti i Numi sentano questo, 
io dotto nel cantare i canti di Febo 
e le lodi di Diana.
(Orazio)



LE DATE

Le più antiche sono molto incerte perchè le fonti danno date diverse.

 - 509 a.c. - alcuni storici riferiscono a questa data l'inizio dei seculares.

 - 449 - questa data ci è fornita dallo storico Valerio Massimo

 - 348 - questa data ci è fornita dallo storico Valerio Massimo

 - 249 a.c. - è una delle date certe, ben attestata dalle fonti.

 - 149 0 146 a.c. - ce ne informa Varrone, si era al tempo della III guerra punica.

 - 22 a.c. - Ottaviano, molto attento alle antiche tradizioni,  decide di rinverdire i Ludi Saeculares cui attenderà egli stesso offrendo una visibilità, una spiritualità e un'abnegazione, celebrando ininterrottamente giorno e notte, avvolto nella sua candida toga e il manto pontificale, dando un'immagine di sè che manda in visibilio le folle.
I Giochi continuarono ad essere celebrati sotto i successivi imperatori, ma vennero usati due diversi sistemi di calcolo per determinarne le date.

 - 47 - Claudio tenne i ludi secolari nell'anno 47, per celebrare l'ottocentesimo anno dalla fondazione di Roma. Narra Svetonio che all'annuncio degli araldi di un spettacolo "che nessuno mai aveva visto prima o mai avrebbe visto in futuro" stupì e rallegrò i romani, alcuni dei quali avevano già presenziato ai Giochi svolti sotto Augusto..
Sotto gli imperatori successivi, i Giochi vennero celebrati sia col sistema di Augusto che col sistema di Claudio: I riti però in entrambi i casi sono ripetuti fedelmente a quelli eseguii da Augusto.  Ciò comportò dei rituali svolti al Tempio di Venere e Roma invece che al Tarentum, e la data fu probabilmente cambiata al 21 aprile, i Parilia.

 - 88 - Domiziano fa eseguire i Ludi nell'anno 88, presumibilmente 110 anni dopo una celebrazione augustea prevista nel 22 a.c. Si celebra  a maggio e giugno nel Terentum.

 - 148 - Antonino Pio segue la celebrazione di Claudio per la fondazione di Roma. Si celebra ogni 100 anni (più o meno) al 21 aprile (festa Parilia)  nel Tempio di Venere e Roma.

 - 204 - Settimio Severo nel 204, 220 anni dopo la celebrazione AugusteaSi celebra ogni 110 anni a maggio e giugno nel Terentum.

- 248 - Filippo l'Arabo segue la celebrazione di Claudio per la fondazione di Roma. Si celebra ogni 100 anni  al 21 aprile (festa Parilia) nel Tempio di Venere e Roma.

 - 314 -  110 anni dopo i Giochi di Settimio Severo, Costantino un po' cristiano e un po' no, non indice più i Ludi Saeculares. Lo storico pagano Zosimo (fl. 498-518), che scrive il resoconto esistente più particolareggiato dei Giochi, dà la colpa della decadenza dell'Impero romano all'abbandono di questo rituale tradizionale. Costantino si barcamena tra paganesimo e cristianesimo, perchè in realtà fa festeggiare ogni anno a dicembre il Dies Natalis Solis Invicti in onore di Mitra.


Domiziano: Æ Asse
IMP CAESAR DOMIT AUG GERM P M TR P VIII IMP XVIII  testa laureataCOS XIIII LVD SAEC FEC, Domiziano a sinistra,  in mano una patera. sacrifica su un altare; suonatori di arpa e di flauto, tempio sullo sfondo; S C
coniato nell'88 
Domiziano: Denario
IMP CAESAR DOMIT AUG GERM P M TR P VIII IMP XVIII  testa laureata Una colonna con sopra scritto: COS XIIII LVD SAEC FEC; un araldo  con un copricapo piumato,  un bastone ed uno scudo.
coniato nell'88.


















ROBERTO LANCIANI

ARA DI DIS E PROSERPINA

"Il 20 settembre del 1890, gli operai addetti alla costruzione del collettore principale sulla riva sinistra del Tevere, tra Ponte S. Angelo e la Chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, trovarono un muro medievale costruito con materiali presi a caso dalle vicine rovine. Tra loro, c’erano uno o più frammenti che descrivevano la celebrazione dei Ludi Saeculares durante l’Impero. 

Alla fine della giornata erano stati recuperati 17 pezzi, sette dei quali appartenevano alle testimonianze dei giochi celebrati sotto Augusto nell’anno 17 a.c., gli altri quelli celebrati da Settimio Severo e Caracalla nell’anno 204 d.c. Successive ricerche portarono alla scoperta di altri 96 frammenti, per un totale di 113, di cui 8 sono del tempo di Augusto, 2 del tempo di Domiziano ed il resto può essere datato a quello di Severo.

I frammenti del 17 a.c., ricomposti, formano un blocco alto tre m contenente 168 linee scritte fittamente. Questo monumento, oggi esposto alle Terme di Diocleziano, aveva la forma di un pilastro quadrato coronato da una cornice aggettante, con base e capitello di ordine tuscanico, ed era alto, in origine, quattro m. 

Credo che non ci sia alcuna iscrizione, tra le trentamila raccolte nel volume VI del “Corpus”, che impressioni o colpisca di più l’immaginazione di questo rapporto ufficiale di una cerimonia di stato che ebbe luogo più di millenovecento anni fa alla presenza degli uomini più illustri del tempo. 


Le sue connessioni con i Ludi Secolari

L’origine dei ludi secolari sembra essere questa: agli albori di Roma la parte nord occidentale del Campus Martius, sulle rive del Tevere, si distingueva per le testimonianze di attività vulcanica. 

PILASTRO DEI
LUDI SECULARES
Era presente una pozza chiamata Tarentum o Terentum, alimentata da sorgenti sulfuree calde, il cui valore terapeutico è attestato dalla cura cui si sottopose Voleso, il Sabino, e la sua famiglia, come raccontato da Valerio Massimo. 

Forti vapori si levavano sopra le sorgenti e lingue di fiamme si sprigionavano da fratture del terreno. 

La località divenne nota con il nome di campo infuocato (campus ignifer), e la tradizione popolare lo mise in relazione con il regno degli inferi. 

Un altare agli dei degli inferi fu eretto sulle rive della pozza, e giochi in onore di Dis e Proserpina venivano indetti periodicamente, con il sacrificio di un toro e di una mucca neri. 

La tradizione attribuiva questa usanza allo stesso Voleso, che, grato per la guarigione dei suoi tre figli, offrì sacrifici a Dis e Proserpina, officiò lectisternia, o processioni di lettighe per i simulacri degli Dei precedute da tavole imbandite, e celebrò giochi per tre notti, una per ogni figlio che era stato rimesso in sesto. 

In epoca repubblicana furono chiamati Ludi Tarentini, dal nome della pozza, ed erano celebrati con lo scopo di scongiurare la ricorrenza di qualche grave calamità da cui si era stati colpiti. Dal momento che le calamità erano contingenze che nessun uomo poteva prevedere, appare evidente che la celebrazione dei Ludi Tarentini non era connessa ad alcun particolare ciclo temporale, come ad esempio il saeculum.

Non molto dopo la presa del potere da parte di Augusto, i Quindecemviri sacris faciundis (un collegio di sacerdoti cui era stata assegnata la conduzione di questi giochi da tempo immemorabile) annunciarono che c’era la volontà degli Dei di far celebrare i Ludi Saeculares e, male interpretando e distorcendo eventi e date, tentarono di provare che la cerimonia si doveva tenere regolarmente con un intervallo di 110 anni, che si supponeva dovesse essere la lunghezza di un saeculum. 

I giochi per i quali i Quindecemviri fecero questa asserzione erano i Tarentini, istituiti per uno scopo diverso, ma il loro suggerimento piacque troppo ad Augusto ed al popolo per essere disatteso. Mettendo da parte ogni disputa sulla cronologia e la tradizione, la celebrazione fu fissata per l’anno 17 a.c.


La scoperta di un’iscrizione che li descrive, nel 1890

Quale era l’esatta ubicazione delle sorgenti di acqua sulfurea, il Tarentum, e dell’altare degli Dei degli inferi? Ho ragione di considerare la scoperta dell’altare di Dis e Proserpina come la più soddisfacente che io abbia fatto, specialmente perché la feci, se così posso esprimermi, lontano da Roma per una lunga assenza. 

SEIONE DELL'ALTARE DI DIS E PROSERPINA
Ebbe luogo nell’inverno tra il 1886 ed il 1887, durante la mia visita in America. In quel tempo i lavori di apertura e sbancamento di Corso Vittorio Emanuele avevano raggiunto un luogo che era considerato terra incognita dai topografi, e indicato con una macchia vuota nelle mappe archeologiche della città. 

Parlo della zona tra la Vallicella (la Chiesa Nuova, il Palazzo Cesarini, etc.) e le rive del Tevere vicino S. Giovanni dei Fiorentini. I rapporti parlano in maniera vaga del ritrovamento di cinque o sei muri paralleli, costruiti in conci di peperino, di gradini in marmo al centro di questo singolare monumento, di porte con stipiti ed architravi in marmo, che immettevano negli spazi tra i sei muri paralleli e, infine, di una colonna istoriata con fogliame. 

Al mio ritorno a Roma, nella primavera del 1887, ogni traccia del monumento era scomparsa sotto Corso Vittorio Emanuele. Interrogai i capomastri, gli operai; consultai i registri delle imprese; ogni giorno visitavo i cantieri ancora attivi su ogni lato del Corso per la costruzione dei palazzi Cavalletti e Bassi: infine esaminai la “colonna istoriata con fogliame” che, nel frattempo era stata trasferita nel cortile del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio. 

Questo frammento di marmo, l’unico sopravvissuto agli scavi, mi ha dato la chiave per risolvere il mistero. Non era una colonna, era un pulvinus, o capitello, di un colossale altare marmoreo, degno di essere paragonato, per dimensioni e valore artistico, all’Ara Pacis scoperta sotto Palazzo Fiano, nonché a quella degli Antonini scoperta sotto Monte Citorio ed ad altre strutture monumentali simili. 

Non ci fu allora esitazione nel determinare la natura delle scoperte fatte a Corso Vittorio Emanuele: era stato trovato un altare e questo altare doveva essere quello consacrato a Dis e Proserpina, dal momento che nessun altro altare è menzionato nella storia nel versante nord occidentale del Campo Marzio.

I disegni che illustrano la mia tesi, provano che l’altare si innalzava su una base di 10 mq, circondata su tutti i lati da tre o quattro gradini marmorei; che la base e l’altare erano circondati da tre setti murari posti ad un intervallo di 10 m l’uno dall’altro e che sul lato est della piazza scorreva l’ euripus, o canale, largo circa tre m e mezzo, profondo un m e venti e delimitato da blocchi di pietra, la cui pendenza verso il Tevere era di 1:100. 

PIANTA DELL'ALTARE DI DIS E PROSERPINA
Quest ultimo dettaglio prova che quando il rozzo altare di Voleso Sabino fu in seguito sostituito da una struttura più nobile, la pozza era stata drenata, e le sorgenti che l’alimentavano canalizzate nell’euripus, cosicché i pazienti intenzionati a curare i propri malanni potevano più agevolmente bagnarsi o bere l’acqua miracolosa. 

Non si diede comunque particolare risalto alla scoperta nel momento in cui ebbe luogo. Invece di raggiungere il livello antico, gli scavi per il condotto fognario principale di Corso Vittorio Emanuele si fermarono nel posto sbagliato, cioè a 90 cm dal manto stradale; quindi, se frammenti dell’altare o iscrizioni o opere d’arte giacciono sul pavimento marmoreo, vi resteranno per sempre dal momento che la costruzione dei palazzi su entrambi i lati del Corso ed il Corso stesso con le sue costose fognature, marciapiedi etc. hanno reso impossibili ulteriori ricerche, almeno con i mezzi attuali.

Riguardo alla celebrazione che ebbe luogo intorno a questo altare nel 17 a.c., possedevamo già ampie informazioni da fonti come l’oracolo della Sibilla, cui si riferisce Zosimo, il Carmen Saeculare di Orazio e le legende ed i disegni sulle medaglie coniate per l’occasione; ma il rapporto ufficiale, scoperto il 20 settembre del 1890, impressiona in maniera completamente differente; ci consente quasi di prendere parte realmente alla processione, di seguire con passione Orazio quando guida un coro di 54 fanciulli e fanciulle di stirpe patrizia che cantano l’inno da lui composto per l’occasione.

Nelle operazioni che precedettero, costituirono e seguirono la celebrazione, c’è un tono di buon senso e semplicità, a dimostrazione del rapporto e del mutuo rispetto tra Augusto, il Senato ed i Quindecemviri; lo si evince dalle risoluzioni adottate dai diversi organi dello Stato, dai proclami indirizzati al popolo e dall’organizzazione delle festività, per le quali si attendeva più di un milione di spettatori; i moderni Governi potrebbero trarre insegnamento di dignità civica da questo rapporto .

Il rapporto ufficiale inizia, o meglio iniziava (le prime linee sono mancanti), con la richiesta dei Quindecemviri al Senato di prendere in considerazione la loro proposta e di garantire i fondi necessari, seguita da un decreto del Senato che accetta la proposta ed invita Augusto ad assumere la direzione delle celebrazioni. La richiesta fu indirizzata al Senato il 17 febbraio da Marco Agrippa, presidente dei Quindecemviri, in piedi di fronte agli scranni dei Consoli. 

Che scena a poterla testimoniare! Possiamo immaginarci i due Consoli, Gaio Furnio e Giunio Silano, vestiti dei loro abiti ufficiali, che ascoltano il discorso del grande statista supportato da venti colleghi, tutti ex Consoli scelti tra i più nobili, ricchi e valorosi patrizi del tempo. Il Senato conviene che la preparazione della celebrazione, la costruzione dei palchi, degli ippodromi e delle tribune temporanee, sarebbe stata eseguita da appaltatori (redemptores) e che l’Erario avrebbe fornito i fondi.

Le linee 1-23 contengono una lettera di Augusto ai Quindecemviri che dettaglia il programma delle cerimonie, il numero ed il livello delle persone che vi avrebbero preso parte, le date e gli orari, il numero ed il tipo delle vittime sacrificali. Due passi del manifesto imperiale sono particolarmente degni di nota. Il primo, che durante i tre giorni di Giugno dall’1 al 3, i tribunali sarebbero stati chiusi, e la Giustizia non sarebbe stata amministrata. Il secondo, che le donne che portavano il lutto, avrebbero dovuto togliere quel segno di dolore per quell’occasione. Il decreto è datato 24 marzo.

Ricevuto il documento, i Quindecemviri votano e approvano diverse decisioni: che le regole da seguire durante le cerimonie si sarebbero dovute pubblicare con un avviso (albo propositae); che le mattine del 26, 27, e 28 maggio si sarebbero destinate alla distributio suffimentorum, con la quale i Quindecemviri avrebbero distribuito torce, zolfo e bitume per le purificazioni; e che le mattine del 29, 30, e 31 di maggio, sarebbero state destinate alla frugum acceptio, o distribuzione di farina, orzo, e fagioli. 

Per evitare affollamenti sono definiti quattro centri di distribuzione, ognuno dei quali è posto sotto la supervisione di quattro membri del collegio, per un totale di sedici delegati. I luoghi indicati nel programma sono: la sommità del Campidoglio, l’area prospiciente il tempio di Giove Tonante, il Portico delle Danaidi sul Palatino, ed il tempio di Diana sull’Aventino.

Il 23 maggio il Senato vota nei Septa Julia, le cui rovine esistono ancora oggi sotto il Palazzo Doria e la Chiesa di S.Maria in Via Lata, ed approva due risoluzioni. L’inno di Orazio allude alla prima, vv.17-20,:
"O dea, sia che tu scelga il titolo di Lucina o Genitale, moltiplica la nostra prole e proteggi il decreto del Senato che favorisce i matrimoni e le sue leggi".

Tra le sanzioni che colpivano gli uomini o le donne che non si sposavano tra le età di venti e cinquanta anni, c’era il divieto di presenziare a festività pubbliche o cerimonie di Stato. Il Senato, considerando l’occasione eccezionale dei Ludi Saeculares, che nessuno tra i viventi avrebbe rivisto, rimosse questo divieto. 

MONETA CELEBRATIVA DEI LUDI SAECULARES
La seconda decisione decretò l’erezione di due colonne commemorative, una di bronzo, l’altra in marmo, sulle quali si sarebbe inciso il rapporto ufficiale della celebrazione. La colonna in bronzo è probabilmente persa per sempre, ma quella in marmo è quella recuperata sulle sponde del Tevere il 20 settembre del 1890, l’iscrizione che sto cercando di illustrare.

La celebrazione vera e propria ebbe inizio all’ora seconda della notte del 31 maggio. Si offrirono sacrifici ai Fati sugli altari eretti tra il Tarentum e le sponde del Tevere, nel luogo dove oggi sorge S. Giovanni dei Fiorentini; altre cerimonie si officiarono su palchi in legno illuminati da fiaccole e fuochi. Questo teatro temporaneo non era provvisto di posti a sedere e le testimonianze lo definiscono un "palco senza teatro".

Nelle manifestazioni del giorno successivo e in quelle del 2 giugno che si tennero sul Campidoglio e sul Palatino, si osservò il seguente ordine nella processione cerimoniale; prima veniva Augusto in qualità di Imperatore e Pontifex Maximus, di seguito i Consoli, il Senato, i Quindecemviri ed altri collegi di sacerdoti, quindi seguivano le Vergini Vestali ed un gruppo di centodieci matrone (tante quanti gli anni nel saeculum) scelte tra le matres familiae più esemplari di oltre venticinque anni di età.

Era previsto che ventisette ragazzi e ventisette ragazze di stirpe patrizia, i cui genitori erano ancora in vita (patrimi et matrimi), cantassero il 3 giugno l’inno appositamente composto da Orazio, stando a quanto dice il rapporto (riga 149): "Carmen composuit Q. Horatius Flaccus". Le prime stanze della stupenda composizione furono cantate durante la marcia della processione dal Tempio di Apollo a quello di Giove Capitolino, la parte centrale sul Campidoglio, l’ultima al ritorno verso il Palatino. 

Gli accompagnamenti furono suonati dall’orchestra e dai trombettieri del coro ufficiale (tibicines et fidicines qui sacris publicis praesto sunt). Possiamo vedere come in un sogno la ricchezza dello sfarzo e della bellezza cui i Romani assistettero la mattina del 3 giugno del 17 a.c., ed è difficile darne una descrizione. Immaginate il gruppo di 54 patrizi vestiti delle loro tuniche candide come la neve, coronati di fiori e sventolanti ramoscelli di alloro guidati da Orazio lungo il Vicus Apollinis (la strada che conduce dalla Summa Sacra Via alla casa di Augusto sul Palatino) e la Sacra Via, cantando le lodi degli dei immortali:  "Quibus septem placuere colles!"

Durante quei giorni e quelle notti, Augusto diede prova di un’encomiabile forza fisica e d’animo, presenziando sempre ad ogni cerimonia e celebrando personalmente i sacrifici. Agrippa mostrò meno resistenza del suo amico e Principe. Si fece vedere solo di giorno, aiutando l’Imperatore nel rivolgere le suppliche agli Dei ed ad immolare le vittime sacrificali. "

(Roberto Lanciani - Ara di Dis e Proserpina)

CATANIA - KATANE (Sicilia)

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La città romana (III-II sec. d.c.) di Catania era ricca di acque, poichè al centro della città, dove oggi c'è la Via Etnea, scorreva un fiume, ora sotterraneo, detto l’Amenano. Inoltre i Romani, che avevano conquistato la città nel 263 a.c., avevano costruito un imponente acquedotto che convogliava in città le acque provenienti da una sorgente di Santa Maria di Licodia, un paesino ad una ventina di Km da Catania.

La città ebbe almeno tre complessi termali, di cui il meglio conservato è quello detto della Rotonda, una sala circolare, sormontata da una cupola che, nel VI sec., fu trasformata in una chiesa. Sempre in una chiesa erano state trasformate le terme dette dell'Indirizzo, (IV - V sec. d.c.) di cui sono ancora visibili gli impianti di riscaldamento delle acque. Come altri monumenti della Catania barocca anche il Duomo fu costruito su parte di un antico edificio romano.

Secondo le fonti antiche (Tucidide) Katane (Catania) fu fondata nel 729 a.c. dagli stessi calcidesi che, provenienti dall’Eubea, avevano già fondato Naxos. Il luogo fu scelto per la presenza di terreni fertili e dell’acqua; non è un caso, infatti, che sulle monete della città compare l’immagine del fiume Amenano (oggi in parte visibile in piazza Duomo ai piedi dell’omonima fontana) che veniva rappresentato come un toro con la faccia di uomo e, in un secondo momento, come un giovinetto con la fronte munita di piccole corna.

Catania romana era impostata sul cardo e il decumano, due assi ortogonali attorno ai quali si ponevano gli edifici pubblici, e si estendeva dall'anfiteatro al circo, posti l'uno a nord e l'altro a sud della città. Il Foro era situato presso il cortile di San Pantaleone, sicuramente sopra all'agorà greca.

Qui infatti si osservano i pochi resti architettonici dell'epoca romana, di carattere monumentale. Vicino al foro sorgevano i complessi termali, come quello di via della Rotonda e di piazza Dante. In via Vittorio Emanuele erano il Teatro antico e l'attiguo Odeon.

 A nord ed a est dell'anfiteatro si estendevano le necropoli. Sono stati identificati resti in via Etnea, sotto la Rinascente, in via Ipogeo, in via Sant'Euplio e a sud della piazza S. Maria di Gesù.


 I monumenti di Catania Romana sono:

- Anfiteatro in piazza Stesicoro -
- Teatro greco-romano, con annessi antiquari -
- Odeon -
- Terme Achillee -
- Terme della Rotonda -
- Terme dell’Indirizzo -
- Terme di piazza Dante -
- Terme di piazza s. Antonio (già conosciute come Bagno di casa Sapuppo)
- L’Acquedotto -
- La Naumachia, sommersa dalle lave del 1669
- Il Circo
- Il Ginnasio
- Il Foro Romano, (via SS. Trinità-Cortile S. Pantaleone, da cui provengono le colonne del portico di p.za Mazzini) -
- Le Basiliche -
- Area archeologica sottostante e antistante al Monastero dei Benedettini -
- Scavi sottostanti alle chiese di s. Agata la Vetere e s. Agata al carcere
- Area archeologica del Reclusorio del Lume
- I Monumenti Funerari -
- Tomba di età imperiale, cosiddetta di Stesicoro (nel cortile della caserma Lucchese Palli, in piazza Carlo Alberto)
- Ipogeo di s. Euplio -
- Ipogeo romano di via Ipogeo

ANTICA STAMPA DELL'ANFITEATRO, USATO COME CAVA GIA' IN EPOCA BIZANTINA

L'ANFITEATRO

Completamente sepolto dalle varie distruzioni, venne riportato alla luce dopo gli scavi del 1903. Si suppone, date le tecniche di costruzione, che l’anfiteatro di Catania possa risalire alla metà del II sec. a.c.  Gran parte delle mura della città, del periodo Medievale furono costruite con il materiale prelevato dall’Anfiteatro.

 Al centro di piazza Stesicoro si apre una grande trincea che racchiude alcuni resti dell’anfiteatro romano di Catania. Alla fine del secolo scorso la piazza era totalmente chiusa, e nel luogo degli scavi c'erano aiuole ornamentali. I lavori archeologici iniziarono nel 1904 e terminarono nel 1906. L’opera fu inaugurata ufficialmente sei mesi dopo e, nel 1907, fu visitata da re Vittorio Emanuele III che venne a Catania per inaugurare l’Esposizione Agricola.

L'anfiteatro, uno dei più grandi d’Italia, è nascosto quasi totalmente sotto i palazzi moderni ma è visibile al di sotto del livello stradale dove si conserva il corridoio che gira lungo il muro del podio, estendendosi in molte vie che si irradiano dalla piazza Stesicoro. Parti dell’alzato sono visibili in due traverse della via Manzoni, e molti blocchi di pietra dell'anfiteatro sono stati impiegati nella costruzione esterna delle absidi del Duomo alle quali si accede da via V. Emanuele 159.



Descrizione

Come tutti gli anfiteatri ha forma ellissoidale, ed è composto da vari ordini di gradinate che ruotano intorno a uno spazio centrale, da qui il nome di anfiteatro. Esso ha una cavea di 14 gradini divisi in tre ordini con podio e ambulacri (corridoi coperti) di accesso alle gradinate disposti su tre piani che corrispondevano ai due ordini di arcate esterne e all’attico.

La sua circonferenza esterna è di 309 metri, la circonferenza dell’arena è di 192 metri e si è calcolato che poteva contenere 15.000 o 16000 spettatori seduti e quasi il doppio con l’aggiunta di impalcature per i posti in piedi. Per la sua costruzione è stata utilizzata la pietra lavica con la malta cementizia e mattoni; nella piccola porzione di arena ancora conservata vi restano alcuni frammenti delle decorazioni dell'anfiteatro.

Vi si svolgevano giochi e spettacoli di vario genere, tra cui: i combattimenti fra gladiatori, quelli fra uomini e belve feroci e le battaglie navali quando, grazie a complessi meccanismi idraulici, si riusciva a trasformare l’arena in una grande piscina piena d’acqua.

Al tempo di Teodorico, l'imperatore che obbligò tutti i suoi sudditi alla conversione al cristianesimo pena la morte, il monumento era già in profondo stato di abbandono, perchè lavarsi troppo e soprattutto in gruppo era un piacere peccaminoso. Poi Ruggero il Normanno utilizzò le sue strutture per ricavare le pietre che gli servirono per innalzare la cattedrale.

IL TEATRO - RICOSTRUZIONE GRAFICA REALIZZATA DA http://itlab.ibam.cnr.it/

TEATRO GRECO-ROMANO

Il teatro è situato nel centro storico di Catania, tra piazza S. Francesco, via Vittorio Emanuele, via Timeo e via del Teatro greco. Il suo aspetto attuale risale al II sec. ed i suoi scavi sono iniziati dalla fine del XIX sec. A est confina con un teatro minore, detto odeon. Ovviamente il teatro romano fu sovrapposto a quello greco, perchè siamo appunto in piena Magna Grecia.


Il Teatro greco

Frontino riporta di un discorso all'assemblea civica riunita nel teatro, per la consultazione delle polis siceliote tenuto da Alcibiade nel 415 a.c.

Non si fa però cenno all'ubicazione del teatro, per cui venne identificato con il teatro di età romana oggi visibile, tanto è vero che la strada che lo costeggia a nord è chiamata via del Teatro Greco.

Dagli scavi compiuti tra il 1884 e 1919 le parti più antiche del teatro sono emerse attraverso i grossi blocchi di arenaria con iscrizioni in lettere greche, nonchè attraverso la pianta rettangolare, cioè ellenistica. Venne così identificato il teatro greco del V-IV secolo a.c. , sicuramente il teatro in cui Alcibiade tenne il discorso ai Katanaioi (abitanti di Katane, il nome greco di Catania) per convincerli ad allearsi con Atene contro Syracusae (Siracusa).



IL TEATRO ROMANO

Diventata Catania una colonia romana, venne immediatamente restaurata e abbellita dai suoi conquistatori. Così il teatro greco venne restaurato durante il I sec., sostituendo sulla cortina i blocchi in arenaria mancanti con conci lavici squadrati, restaurando la scena e le gradinate più antiche del teatro.

Nel II sec. Adriano, come aveva fatto in tante città dell'impero, ma più ancora in Grecia a cui era fortemente attaccato per la filosofia e l'arte, ordinò la monumentalizzazione dell'area comprese le vicine strutture termali e numerosi edifici pubblici tra cui l'anfiteatro..

La pianta emiciclica del teatro, il proscenio decorato con marmi pregiati, l'ampliamento della scena e le due massicce torri laterali, contenenti le scale d'accesso ai diversi piani dell'edificio mostrano la romanità dell'opera. Il tutto corredato da fregi, statue, bassorilievi e colonne, spesso trafugati per gli edifici della città barocca, come per la facciata della Cattedrale di Sant'Agata, perchè il primo ordine colonnare è costituito da quattro colonne di granito provenienti dal Teatro romano,

Abbandonato nel VI e VII secolo come per molti altri edifici monumentali di età classica, divenne cava di materiali per altri edifici. Sul finire del XIX secolo il proprietario del palazzo che si addossa all'adiacente odeon, il barone Sigona di Villermosa, fece abbattere l'ultimo fornice per ampliare il suo immobile. Intervenne la Soprintendenza alle Antichità per la Sicilia Orientale, che avviò una campagna di esproprio e liberazione delle antiche strutture mai del tutto completata.

Lo sgombero riprese solo negli anni cinquanta del XX sec. protraendosi per una ventina d'anni. Gli scavi del 1981 scoprirono l'ingresso orientale degli attori, costituito da una scaletta e un accesso trabeato, realizzato in grossi blocchi di pietra lavica. Il terremoto del Val di Noto del 1693 rovinò molte abitazioni che erano nate sulla cavea, le cui macerie vennero sfruttate per realizzare le fondamenta di nuove abitazioni. 



Descrizione

La struttura è di chiara epoca antonina.

-  la scena era decorata da colonne marmoree, bassorolievi e statue, tra cui il gruppo scultoreo della Leda col cigno copia romana di un originale del 360 a.c. di Timotheos, e lastre di marmo bianco con un delfino a rilievo, segnaletica della zona riservata al pubblico d'elite. In marmo bianco erano pure i rivestimenti dei sedili, in blocchi di arenaria per la ima cavea e in opus coementitium per le altre due cavee, sui quali spiccava il nero delle otto scalinate in pietra lavica.
- in seguito vennero nicchie contenenti statue e finti ambienti prospettici che dovevano dare l'impressione di un'ulteriore profondità,
- un pulpitum, palcoscenico rialzato su cui recitavano gli attori, decorato da marmi,
- l'orchestra dal diametro di circa 22 metri rivestita in opus sectile con cerchi inscritti in quadrati che ricorda un po' il pavimento del Panteon. Essa era la parte del teatro, di forma semicircolare, che ospitava il coro, posizionata alla base della cavea, tra gli spettatori disposti sulle gradinate e la scena.
- i due parodoi, ovvero i due corridoi laterali che permettevano l'accesso dei coreuti all'orchestra, risultano fortemente rovinati dai lavori effettuati per ricavarne ambienti e persino scarichi per le acque nere.
- l'ampia cavea dal diametro di 98 metri costituita da ventuno serie di sedili, divisi da due praecinctiones (settori orizzontali) e verticalmente da nove cunei e otto scalette.

RICOSTRUZIONE GRAFICA REALIZZATA DA http://itlab.ibam.cnr.it/
La cavea si divide come tradizione in:
- ima (poggiata direttamente sul declivio del colle Montevergine),
- media
- summa (messe in comunicazione dagli ambulacri che si aprono verso l'esterno tramite diversi vomitoria ai vari cunei e tra loro tramite scale).

Molti elementi decorativi vennero adoperati per la cattedrale di Sant'Agata del 1094, dove ancora si notano capitelli, colonne ed elementi decorativi in marmo. Secondo la ricostruzione di Sebastiano Ittar le colonne - numerose - dovettero costituire un loggiato sulla sommità della scalea, analogamente al teatro antico di Taormina.

All'esterno si aprivano diversi accessi, molti dei quali sono oggi liberi sebbene non praticabili a causa della mancanza delle scale, chiusi da lesene; quattro grandi avancorpi emergevano dalla facciata curvilinea dell'edificio con altrettante nicchie, sicuramente con statue di divinità, purtroppo poi distrutte dall'intransigenza cristiana. La scena è ancora ingombrata da palazzi del XVIII secolo, di cui una palazzina a un piano funge da ingresso e che conserva una scalinata e una colonna, ed è sede dell'antiquarium
Sulle carceris e su una piccola parte della cavea sono ancora presenti diverse abitazioni, e la media cavea presenta molte parti di sedili asportate per ricavare dei pavimenti. Ai lati due diversi ingressi confinano uno a est con una trincea di scavo, l'altro a ovest con l'odeon. A nord-est, all'interno di uno dei locali della Casa dell'Androne si sono rinvenuti i resti di un themenos, il recinto sacro del tempio relativo al Teatro. La presenza della stipe votiva della vicina piazza San Francesco d'Assisi confermerebbe il passo di Cicerone in cui si cita il ricchissimo Tempio di Cerere che il proconsole Verre avrebbe indebitamente saccheggiato.

TEATRO E ODEON

TEATRO E ODEON - RICOSTRUZIONE GRAFICA 
REALIZZATA DA http://itlab.ibam.cnr.it/
ODEON
L'Odeon di Catania è situato nel centro storico della città etnea, vicino al Teatro Romano.
La costruzione semicircolare aveva una capacità di circa 1500 spettatori.

Oltre che per spettacoli musicali e di danza è probabile che fosse utilizzato per le prove degli spettacoli che si tenevano nel vicino teatro.



TERME ACHILLEE  

Le terme Achille, forse le più grandi della città, si trovano sotto piazza Duomo e si estendono fino a via Garibaldi, ma sono a un livello più basso del piano di calpestio per cui completamente nascoste alla vista. L'edificio, conosciuto con il nome di terme Achilliane o Achillee, si estende fino alla parte sud della piazza, dove una porta che si apre a destra della facciata di un'edificio consente di accedere alle Treme.

Un tempo queste Terme furono chiamate “il bagno di Bacco”, perché all’interno vi erano degli stucchi che rappresentarono putti e tralci di vite. Ciò doveva dipendere che nelle terme stesse, come spesso usava, vi fosse un'ara, un sacello o addirittura un tempio, dedicato alla divinità.

Fortunatamente il complesso termale conserva buona parte dei diversi ambienti tra cui una grande sala rettangolare di 12 m x 13 la cui volta è sostenuta da quattro pilastri. Le volte, riprodotte in alcuni disegni settecenteschi, sono abbellite, come si è detto, da magnifici stucchi con immagini di eroti, animali e viticci con grappoli d'uva.

Le terme Achilliane vennero edificate agli inizi del III sec. d.c. dal governatore di Sicilia, Lusio Labieno. Degne si una sontuosissima SPA, il locale più ampio del complesso aveva una vasca quadrata per i bagni di fango e dentro la vasca vi era un telaio di ferro al quale si sostenevano i bagnanti. Nella parte occidentale vi è un corridoio che porta ad un condotto moderno dove scorrono le acque del fiume Amenano. In fondo si intravedono le fondamenta della fontana dell’elefante.

TERME DELL'INDIRIZZO

TERME DELL'INDIRIZZO 

L'edificio termale è ancora in buono stato di conservazione per il fatto che si trova parzialmente incorporato nell’ex convento di S. Maria dell’Indirizzo, che a sua volta sorgeva sulla chiesa dedicata alla Vergine. Il grande edificio termale che si trovava nelle vicinanze del convento, venne inglobato nella costruzione e (forse anche per questo) si è conservato in ottime condizioni fino ai nostri giorni.

La struttura architettonica e i materiali Dell’antico edificio termale si conservano circa dieci ambienti chiusi dalle coperture originarie; alcuni gradini conducono a due locali rettangolari, collegati fra di loro; da essi è possibile raggiungere un complesso di vani situati a un livello più basso. Tra tutti questi ambienti il più grande, che mostra alcune aperture di forma rettangolare, ha forma ottagonale ed è coperto a cupola. In basso sono alcune nicchie.

 Una delle caratteristiche più interessanti di questo monumento è che esso conserva, anche se in modo frammentario, resti di fornaci che servivano per il riscaldamento degli ambienti termali, condotti per la circolazione dell’aria calda e canali per il deflusso delle acque.

Le mura sono costituite da un’anima in malta cementizia e un rivestimento in blocchi squadrati di pietra lavica; molto presenti i mattoni che sono stati utilizzati soprattutto nei passaggi ad arco. Per quanto riguarda la cronologia delle varie fasi dell’edificio non vi sono ancora ipotesi molto convincenti; per alcuni studiosi va datato all’età imperiale avanzata.

La leggenda: "Nel 1610 si recava, per la prima volta a Catania, il viceré di Sicilia Don Pietro Girone, duca di Qssuna, a bordo di una nave spagnola. Una terribile tempesta lo colse mentre si avvicinava alle coste catanesi e, preso dalla disperazione, invocò il nome di Maria; all’improvviso vide un raggio di luce che gli diede "l’indirizzo" da seguire per potere approdare sano e salvo dentro il porto di Catania; quando scese a terra poté verificare che la luce proveniva da un’icona della Madonna del Carmine".
 Le terme dell’Indirizzo, insieme alle terme della Rotonda e alle terme Achilliane, sono testimonianza di quanto fosse avanzato il grado di civiltà della Catania romana e tardo-romana. 

TERME DELLA ROTONDA

TERME DELLA ROTONDA

Le Terme della Rotonda risalgono al I-II secolo d.c. e sono locate nel centro storico di Catania, dove sorse una chiesa bizantina dedicata alla Vergine Maria. Ciò appare anche dalla particolare struttura architettonica della chiesa, cioè una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, un po' come avvenne a Roma per le Terme di Diocleziano, da cui si ricavarono un paio di chiese con cupola.

Le terme vennero riutilizzate come luogo di culto cristiano per la chiesa di Santa Maria della Rotonda detta anche Pantheon, formata da una grande sala rotonda ricavata dall’edificio Termale Romano. Le terme della Rotonda, collocate a nord del teatro greco, sono infatti inglobate in una chiesa bizantina con ingresso sulla via della Rotonda che sale sulla collina, verso l'acropoli della città antica.

Gli scavi, condotti all'interno e all'esterno dell'edificio nel 1950, diedero la possibilità di distinguere:
- una fase termale di epoca ellenistico-romana,

- i rimaneggiamenti di epoca tardo-imperiale, nel V-VI sec. d.c., venne ripartito in più ambienti di minori dimensioni, probabilmente per suddividere oltre a uomini e donne, anche persone di rango.

- l'inserimento del culto cristiano del VI sec. d.c. con la chiesa dell'Assunta. L'adattamento dell'edificio a chiesa cristiana è identificabile nei resti del pavimento che si è sovrapposto alle vasche, nell'abside con catino in cui fu collocato l'altare maggiore e nelle due cappelle rettangolari inserite nelle due grandi vasche angolari.

- La chiesa utilizzò tutti i possibili materiali di recupero delle terme causandone una ulteriore rovina, inoltre, addossata alla chiesa e ricavata nelle rovine interrate delle terme, vi ricavò un' area cimiteriale, utilizzata fino al XVI sec. La chiesa divenne quindi una cappella funebre per figure di rilievo dell'epoca,

La struttura termale è composta da un grande complesso di edifici quadrati connessi con uno stesso orientamento. Vi si nota una grande sala absidata, probabilmente il frigidarium, a orientamento nord-sud, con a lato est un grande ambiente ad ipocausto con suspensurae sotto a un pavimento mosaicato di cui restano tracce, naturalmente un calidarium.

A ovest della grande sala absidata si apre un vasto ambiente pavimentato in grandi lastre marmoree, di cui venne fatto scempio collocandovi delle sepolture, di cui alcune realizzate distruggendo il prezioso pavimento. A sud si aprono altri ambienti del II-III sec., con due pavimenti ad ipocausto di piccoli ambienti circolari, forse un tepidarium. Altri ambienti quadrati si aprono a nord, all'interno dell'edificio della chiesa che poggia sulle strutture romane.

TERME DELLA ROTONDA (esterni)
Sulle Terme venne edificata l'ex chiesa di Santa Maria della Rotonda. L'ambiente in pianta quadrata presenta due aperture di epoca posteriore e un presbiterio quadrato (ex triclinium) circondato da stretti corridoi che fungono da deambulacro, con a est un piccolo catino absidale di cui rimane una porzione dell'alzato.

All'interno del vano quadrato dell'edificio ne è ricavato uno in forma circolare dal diametro di 11 metri e chiuso a cupola, mentre da esso si aprono nei quattro angoli del quadrato altrettanti nicchioni che funsero da cappelle, messe in comunicazione con l'ambiente circolare da arconi in pietra lavica. Sopra la cupola un singolare lucernario ad archetto faceva forse con funzioni di campanile.

A est della struttura si aprivano alcuni ambienti, un tempo sagrestia della chiesa, danneggiati dal bombardamento e ricostruiti nell'ultima campagna di lavori per ricavarne un piccolo ambiente per l'organizzazione delle visite.

Le terme in seguito vennero ritenute un panteon pagano, e addirittura preromano, per cui l'epigrafe qui sotto. Nella tradizione locale la Rotonda era infatti conosciuta col nome di Pantheon e molti eruditi catanesi la ritennero luogo di culto pagano. Per primo il principe di Biscariri riconobbe nel monumento un edificio termale; seguirono la sua opinione viaggiatori come Jean Houel e gli studiosi che successivamente se ne occuparono. Alla base della cupola una lunga iscrizione in latino celebra infatti l'intransigenza religiosa e pure superstiziosa del cristianesimo, che vedeva demoni in tutte le divinità che non fossero le sue:

 «QUOD INANI DEORUM OMNIUM VENERATIONI SUPERSTITIOSAE CATANENSIUM EREXERAT PIETAS IDEM HOC PROFUGATO EMENTITAE RELIGIONIS ERRORE IPISIS NASCENTIS FIDEI EXORDIIS DIVUS PETRUS APOSTOLORUM PRINCEPS ANO GRATIAE 44 CLAUDII IMPERATORIS II. DEO. OP. MAX. EIUSQUE GENITRICI IN TERRIS ADHUC AGENTI SACRAVIT PANTHEON.»

« Ciò che la pietà dei Catanesi aveva eretto all'inutile superstiziosa venerazione di tutti gli dei questo stesso tolto l'errore della falsa religione negli stessi primordi della nascente fede San Pietro Principe degli Apostoli consacrò nell'anno di grazia 44 a Dio Ottimo Massimo e alla sua genitrice ancora vivente nell'anno II di Claudio Imperatore ».

Secondo recenti studi archeologici la struttura risalirebbe al I-II sec. d.c., e venne monumentalizzata nel III secolo d.c., dato il periodo di forte prosperità di Catania a cui seguì un decadimento e abbandono tra la fine del VI e gli inizi del VII sec. d.c. L'edificio termale, considerato peccaminoso per l'importanza data al corpo, come molte altre terme, fu in abbandono per quasi due secoli in stato di profondo degrado, finchè divenne una chiesa intorno al IX-X sec. d.c. che ne adoperò le fondamenta e le pareti ancora integre.

Francesco Ferrara (1767-1850) - Storia di Catania sino alla fine del Secolo XVIII - Catania, 1829 scrive: " È stato un errore, ed una credulità popolare che sia stata l'antico Panteon di Catania, perché ha la forma rotonda. Fu evidentemente un atrio ai bagni; ve ne era un'altra uguale a poca distanza di cui sino a poco se ne vedevano le rovine ".
   Gli scavi archeologici hanno rilevato un livello ellenistico, uno romano con le terme, del I sec, un rimaneggiamento di età imperiale che rese circolare il calidarium, e un pavimento di epoca bizantina. Altri scavi vennero compiuti tra il 2004 e il 2008, scoprendo una gran quantità di tombe, identificando nove ambienti termali e ipotizzandone altri al di sotto delle vicine Via Rotonda e Via La Mecca..



TERME ROMANE DELL'ACROPOLI

Di fronte al Monastero dei Benedettini si custodiscono i resti di un edificio termale romano che testimonia la ricchezza di quest’area all’interno della quale sono stati ritrovati reperti archeologici, mosaici e parti di costruzioni antiche rivestite di marmi e di decorazioni.

Superato il portone che immette all’interno del monastero si possono vedere le trincee di scavo che si apre sulla sommità dell’acropoli dove, nel 1978, sono state scoperte tracce di:

- frequentazione preistorica del sito (neolitico ed età del rame),
- materiali greci risalenti al VII sec. a.c.,
- frammenti di tessuti urbani della Catania di età romana.

Nel cortile del Monastero dei Benedettini, oggi sede della facoltà di lettere dell’università di Catania, sono stati ritrovati i resti di una strada e di una domus romani. Poco lontano gli scarsissimi resti di un altro edificio termale: le Terme dell’Itria.



TERME DI PIAZZA DANTE

Attraversando in perpendicolare via Garibaldi, via Vittorio Emanuele e infine via teatro Greco ritroviamo il monastero dei Benedettini. Nella piazza antistante scopriamo un altro edificio termale romano: il balneum di piazza Dante, anch’esso probabilmente struttura termale privata in dote ad un’antica casa patrizia in epoca tardo imperiale.

RESTI DEL FORO

IL FORO

Il Foro romano di Catania è stato rinvenuto nel cortile San Pantaleone, con una serie di edifici circondanti un’ampia area centrale, probabilmente magazzini o negozi. Lorenzo Bolano descriveva nel Cinquecento otto ambienti con copertura a volta a sud e altri quattro a nord ( perduti questi ultimi con la creazione del Corso, attuale via Vittorio Emanuele II).
Il Bolano riferisce anche di un’ala occidentale distrutta ai suoi tempi, che descrive però come un impianto termale, e ancora Valeriano De Franchi, cartografo per l’opera del D’Arcangelo, ne traccia una prima planimetria chiamandola Terme Amasene.

Ai tempi del principe Ignazio Paternò Castello il pianterreno risultava essere già sepolto, mentre il secondo piano (cinque metri più in alto) era diventato residenza di popolani e i lati ridotti a due soltanto (quelli a sud e ad est) uniti ad angolo retto. Adolf Holm attesta esserci stati ai suoi tempi sette vani ad est e tre a sud e che questi furono chiamati “grotte di S. Pantaleo, per metà interrate e ridotte a povere abitazioni”.

Il Libertini nota che gli otto ambienti a sud persistano, mentre le strutture a est furono convertite in un unico corridoio. La facciata era di circa 45 metri di lunghezza. Tuttavia le strutture riconosciute dal Libertini erano quelle del secondo piano, mentre cinque metri più sopra rimanevano i ruderi del piano interrato che potrebbero essere i locali di cui fa menzione l’Holm.

Oggi del foro rimangono soltanto un paio di ambienti attigui visibili a sud, con ingresso architravato sormontato da una apertura ad arco, molto simile nell’aspetto ai magazzini del Foro Traianeo, oltre alle aperture ad arco semplice.

Della struttura a est rimangono i resti di una parete in opus reticulatum appartenenti ad uno dei magazzini. Tuttavia, in un lavoro del 2008, Edoardo Tortorici ha messo in dubbio la possibilità che si tratti di un foro, riferendola piuttosto a degli horrea. 



LA NAUMACHIA

La naumachia di Catania sorgeva presso l'attuale Castello Ursino, vicino alla Chiesa di San Giuseppe, una imponente opera pubblica di cui non resta traccia.
Nel colossale edificio artificialmente allagato, si riproducevano le battaglie navali e i giochi acquatici; era circondata da un ricco boschetto e conteneva anche una vasca adibita ad acquario. 

Lo speco, di 121 m x 172, era scavato nell’argilla e tutto intorno era circondato da numerosi alberi di ginepro e pioppo. I due muri paralleli dell’edificio erano lunghi oltre 200 m e distanti tra loro 131 m.
Durante l’eruzione del 1669, le ultime tracce di questo colossali monumento, rimasero per sempre sepolte sotto l’imponente colata lavica e nessuno ha mai pensato di disseppellirlo.



IPPODROMO

Accanto alla Naumachia sorgeva anche un ippodromo, lungo 1872 piedi, nel quale si svolgevano le corse durante la festa di Bacco. A delimitare il punto di partenza e quello di arrivo erano stati posti due obelischi; uno di questi è possibile ancora oggi ammirarlo in Piazza Duomo, proprio sopra l’elefante che adorna la fontana.
Durante l’eruzione del 1669, le ultime tracce di questo colossale monumento, rimasero per sempre sepolte sotto l’imponente colata lavica e nessuno ha mai pensato di disseppellirlo.



GINNASIO

Di esso si sa solo che sorgeva presso l'attuale Castello Ursino, perchè anch'esso sparì nella disastrosa eruzione del 1669



BASILICA DI St. AGOSTINO

Nell'odierna Piazza Mazzini, nei primi decenni del XVIII secolo, non è certo per mano di quali architetti, in quella che sarebbe dovuta divenire la principale piazza del mercato catanese sorsero quattro identici loggiati, ciascuno composto da 8 colonne in marmo bianco, che formarono una cornice quadrangolare lungo i perimetri del luogo ad eccezione delle quattro aperture stradali. Tali colonne furono recuperate da rovine di epoca romana probabilmente dai resti di una basilica posta dove oggi sorge la chiesa di Sant’Agostino con convento annesso.

Il vicino convento di S. Agostino conservava parte della struttura della basilica, consistente in un grosso muro cui poggiava l’edificio religioso e trentadue colonne, prima del terremoto del 1693 componenti il chiostro del convento, in seguito poste a decoro dell’antico Plano San Philippo (oggi Piazza Mazzini). Da qui inoltre provengono il torso colossale di imperatore giulio-claudio e un lastricato in calcare.



IL CARCERE ROMANO

RESTI DEL CARCERE ROMANO
Di fronte l’ospedale Santa Marta, accanto alla chiesa dei Minoritelli, giacciono i resti del carcere romano che la leggenda vuole sia stato il carcere di transito dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino prima che venissero uccisi a Lentini da Tertullo.

Si sa che i romani non usavano le carceri come pena detentiva ma come luogo di permanenza momentanea in attesa di giudizio, o come luogo di esecuzione per la pena di morte.



DOMUS DI VIA CROCIFERI

Lungo via Crociferi si trovano, purtroppo nascosti da orribili loculi di cemento e vetro, i resti della Domus di via Crociferi, una ricca casa patrizia di epoca romano imperiale.



L'ACQUEDOTTO

L'acquedotto romano si diramava verso tre direzioni: uno verso la Naumachia, uno verso la collina di Montevergine e uno verso la Porta del Re. Esso fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana e traversava il territorio compreso tra le fonti di Santa Maria di Licodia e l’area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere a Catania.

Le prime immagini che lo ritraggono si devono a Jean Houel che nel suo Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari illustra alcuni tratti dell’acquedotto, nonché la così detta botte dell’acqua di Santa Maria di Licodia, la grande cisterna di raccolta delle sorgive destinate alla distribuzione idrica.

Nel XIX secolo la struttura, già svalorizzata, subisce nuovi danneggiamenti per la realizzazione delle mura di Catania e per la passeggiata della Marina, dove vennero demoliti gli archi della contrada Sardo.

Non si conosce l'anno della costruzione del lungo acquedotto che avrebbe giunto le sorgenti di Santa Maria di Licodia con Catania, ma comunque è testimoniato dall’età augustea in poi, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide incisa con i nomi dei curatores aquarum e databile al I sec..

L’edificio subì diversi danneggiamenti, tra cui, secondo il Principe di Biscari, anche l’eruzione del 253 e una lapide, rinvenuta dal medesimo nel 1771 presso il complesso monacale dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui insisteva, ne ricorderebbe dunque un restauro eseguito. 

Nel 1556 il viceré Juan de Vega ordinò lo smantellamento di un lungo tratto dell’ancora esistente ponte-acquedotto sito nei pressi della città, per ricavarne materiale da costruzione  per le mura di Catania, dimezzandone la quantità di archi, da 65 a 32, e nel 1621 per un generale restauro della città, si spoliò il monumento insieme ad altri per la realizzazione di una strada pavimentata che divenne luogo di passeggio e svago, dotato di panchine e alberi. L’eruzione dell’Etna del 1669 interrò le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione. Ulteriori danni fecero il terremoto del Val di Noto del 1693 e l’incuria, nonché il cambio di destinazione d’uso e la cementificazione selvaggia.

Dell’edificio originario purtroppo non rimangono molte tracce, tuttavia sulla base di queste e sulle descrizioni passate sappiamo che l’acquedotto percorreva circa 24 km da Santa Maria di Licodia a 400 m.s.l.m. fino a Catania, presso il convento benedettino di San Nicola, coinvolgendo cinque territori comunali.


A Licodia quattro sorgenti venivano incanalate in un grande serbatoio (la Botte dell’acqua), di cui ci permane solo una documentazione da parte dell’Houel. Questa struttura, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, intercettava l’acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad uno specus, un canale aperto a est, verso Catania. 

La conduttura misurava 0,5 m in larghezza x 1,5 in altezza ed era coperta da una volta impermeabilizzata all’interno con un fine intonaco costituito da malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto). 

Il materiale usato per il resto dell’acquedotto era:
- pietra lavica, 
- roccia glabra per il riempimento,
- cocci ben squadrati per la copertura,
- un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso idrico,
- mattoni in terracotta per gli archi. 

Per mantenere costante la pendenza la struttura si interrava, o si sollevava su un muro di sostegno, mentre per i dislivelli notevoli vennero realizzati ponti-acquedotto su arcate portanti, talora anche su due file sovrapposte. Lungo il percorso c'erano i putei, pozzi di ispezione usati anche per la manutenzione e la pulizia, di cui ancora se notano numerosi, e diversi castella aquae (o castelli di distribuzione, ossia cisterne di filtraggio e diramazione dell’acqua) a Licodia, Valcorrente, Misterbianco, Catania. 

A Catania, a poca distanza dall’attuale Corso Indipendenza, il Biscari identifica una fabbrica quadrata coperta a volta, forse una conserva d’acqua e un’altra nella vigna dei Portuesi. Il sistema avrebbe dovuto raggiungere un grande serbatoio che secondo alcuni sarebbe il grande Ninfeo presso il convento benedettino. Attualmente esistono tre testimonianze a Catania dei resti dell’acquedotto romano. Di fronte l’ospedale Nuovo Garibaldi, dietro il liceo Spedalieri e in via Grassi in un orto privato.



SEPOLCRI

Le necropoli

Le necropoli di Catania antica si estendevano soprattutto nell’area a nord e a est dell’anfiteatro, che costituiva il limite settentrionale dell’abitato. Le scoperte degli ultimi anni hanno portato alla luce un’ampia necropoli di età romana sotto i palazzi delle Poste e de La Rinascente. Ancora, a est della via Etnea nel primo cortile della Caserma Lucchesi-Palli nella piazza della Fiera del Lunedì, sono stati rinvenuti resti di una sepoltura romana.


Necropoli di Leucatia

In cima al monte San Paolillo, vi sono i ruderi di un edificio sepolcrale che sin dal XVII secolo, si narrava di un’antica costruzione risalente al II-III sec. d.c., riferibile a un tempio di epoca romana, dedicato alla Dea Leucotea, di forma quadrata, edificata con grossi blocchi basaltici, con all’interno tre nicchie e coperta a volta. Le pareti dovevano presentarsi prive di alcun rivestimento marmoreo. La costruzione della monumentale tomba, agli inizi del ‘900, subì consistenti modifiche.

Per consentire una migliore panoramica della città, e per l’appostamento dei cacciatori, venne purtroppo costruito un terrazzino e una scalinata al posto dell’originaria artistica cupola. Negli scavi in loco del 1994 sono stati riportati alla luce: il banco lavico del monumento funerario, una tomba romana a cassa, un muro spesso 80 cm e lungo 6 m, del IV sec. a.c., e materiale ceramico dell’epoca greco-arcaica. 

L’analisi dei reperti conferma che la colonizzazione del territorio non è avvenuta solo a partire dalla città antica, ma contemporaneamente in aree periferiche che potevano avere per i Calcidesi una posizione strategica militare ed economica. L'area di Leucatia, vale a dire di Leucotea (la Dea dell'alba) non solo ospitò insediamenti indigeni pre-coloniali, ma anche una vasta area di necropoli romana lungo la direttrice della Catania-Messina.


Piazza S. Maria di Gesù

Un’altra zona fortemente interessata dalle necropoli antiche è quella che ruota intorno all’attuale piazza S. Maria di Gesù e al viale Regina Margherita.


 Chiesa di S. Euplio 

All’ingresso della recinzione che custodisce i ruderi dell’antica chiesa di S. Euplio si vede una scaletta che conduce ad un locale sotterraneo. Scesa tutta la scala si accede in una piccola camera molto umida e buia dalle pareti della quale emergono alcune pitture e su cui si aprono alcune nicchie laterali, mentre sul fondo è un piccolo altare con tracce, ormai quasi completamente scomparse, di affreschi parietali. Gran parte dell’ambiente è ricavato dentro la roccia; si vedono anche alcune nicchie laterali. Secondo studi recenti questo ambiente fu adibito a sepolcro.


Mausoleo circolare di villa Modica

Al numero 35 di via Vittorio Emanuele, all’interno di un giardino privato, si erge il Mausoleo circolare di villa Modica.

La Villa Modica è un edificio ottocentesco che sorge sul viale Regina Margherita, e il cui giardino ospita un importante Mausoleo Romano.

L’edificio funebre ha un diametro esterno di quasi 8 m e reca a ovest un’apertura ad arco per l'accesso alla tomba. Al di sopra una cornice in terracotta (di cui non rimangono che labili tracce) segnava il confine tra il pianterreno e il piano superiore. 

L’interno del piano inferiore è un ambiente circolare su cui si affacciano quattro nicchie ad arco ricavate nello spessore murario, mentre la particolare volta è a cono ribassato, realizzato da fasce parallele concentriche in pietre laviche.

Il secondo piano era invece costituito da un portico aperto verso est, costituito da due mezze colonne. Del secondo piano  rimane solo un alzato di circa 50 cm con un nicchione che doveva contenere una statua votiva.


Ipogeo quadrato

l’Ipogeo romano di Catania detto "quadrato" per la sua forma e per distinguerlo dal vicino Mausoleo Modica, a pianta circolare, è lungo circa 15 m x 12 ed è una tomba di età romana imperiale (I-II sec. d.c.), tra le poche sopravvissute delle vaste necropoli di Catina che occupavano l’area a nord dell’attuale centro storico di Catania.

L'ingresso ad ovest conduce uno stretto corridoio fino ad un loculo di fronte, a seguito di una scalinata che lo ingombrava per metà; ai due lati corrispondevano due piccole nicchie per altrettante urne funerarie e aperte all’esterno da strette feritoie.

A seguito della demolizione della parete sud per ricavare la bocca di una fornace per la calce, ad uso dell’allora vicino monastero dei Padri Riformati cui apparteneva, ne resta solo la nicchia a nord. L'ipogeo è costruito in opus incertum e coperto da una volta in mattoni. Il Principe di Biscari ne suppose un secondo piano, verosimilmente a piramide (spinto probabilmente anche dalla considerazione della forma in pianta quasi perfettamente quadrata), così come più tardi confermava il Serradifalco.


Via Gaetano Sanfilippo

In via Gaetano Sanfilippo si trova una costruzione romana inglobata nel cortile di un palazzo moderno. Essa è erroneamente chiamata Ipogeo (sottoterra) ma in realtà è visibile in tutta la sua interezza. Si tratta, in realtà, di un piccolo monumento funerario romano formato da una camera.


Viale Regina Margherita

Nel giardino di un edificio moderno del viale Regina Margherita è stato individuato un edificio sepolcrale di forma circolare a due piani.
Sempre in questa zona, negli anni Cinquanta del nostro secolo, è stato scoperto dall’archeologo Giovanni Rizza il più grande e significativo complesso cimiteriale della Catania cristiana.


San Gaetano alle Grotte

A piazza Stesicoro, sulla destra, al centro del mercato, si trova la chiesa di San Gaetano alle Grotte che sorge sui resti di un antico tempio fondato nel 262 d.c. dal vescovo S. Everio col titolo di S. Maria. All’interno di una grotta lavica originatasi forse nell’eruzione del Larmisi venne ricavata una cisterna ipogea di epoca romana, in seguito riadattata all’uso di sepolcreto paleocristiano delle necropoli.


Mausoleo romano del Carmine

Dietro il mercato con accesso dalla Caserma Centro Documentale Esercito di Catania, troviamo il Mausoleo romano del Carmine di cui sono serbati alcuni resti di un edificio funerario di epoca romana datato alla seconda metà del II secolo, erroneamente indicato come la tomba di Stesicoro.


 Ospedale Garibaldi

All’interno dell’ospedale Garibaldi si trova la Chiesetta della Mecca, ridotta oggi a cappella ospedaliera, che conserva l’accesso ad una cripta romana. Questa consiste di un colombario di oltre 6 m di lunghezza x 4 di larghezza. Il colombario venne costruito nella parte inferiore in pietra lavica e in mattoni nella parte superiore, con una copertura a volta a botte. Lungo le quattro pareti si aprono 18 loculi quadrangolari di cui uno, sul lato ovest, a nicchia, è molto più grande rispetto agli altri, evidentemente usato da un personaggio più importante.



Da: Un anfiteatro romano sotto piazza Rossetti

La sua esistenza trova un’autorevole conferma nello studio recentemente condotto dall’arch. Marinucci – Un’apocalittica alluvione avrebbe sommerso la conca entro cui sorgeva

Il Tempo, 26 Agosto 1974 – G. Catania

Da anni abbiamo sostenuto che al di sotto dell’attuale piazza Rossetti, dalla singolare pianta circolare, esiste un anfiteatro romano di notevoli proporzioni. L’affermazione trae spunto da alcuni riferimenti tramandatici dagli storici Romanelli (Scoverte Patrie), Luigi Marchesani (Storia di Vasto) e N. A. Viti (Memoria dell’Antichità di Vasto), entrambi questi due vastesi.

Recentemente, a conferma delle nostre indagini storiche ed archeologiche, l’architetto Alfredo Marinucci, autore del volume «Le iscrizioni del Gabinetto archeologico di Vasto», nella sua introduzione all’opera offre una esauriente e dettagliata relazione sull’esistenza proprio in piazza Rossetti di un anfiteatro romano:

« Ancora nel Rinascimento, nel “piano” di San Francesco da Paola, attuale piazza D. G. Rossetti, erano in evidenza ampie strutture di un complesso monumentale misurante 225 piedi (67 m circa) di lunghezza e per 210 (62 m. circa) di larghezza e variamente interpretato: Leandro Alberti, Flavio Biondo, Paolo Merula sostenevano che fosse un teatro, il Viti una Naumachia. 
Oggi, invece, possiamo con assoluta certezza affermare che il monumento in questione non è un teatro (o tantomeno un’impensabile naumachia), bensì un anfiteatro, in opera cementizia rivestita di opera mista fuori del perimetro urbano, a lato di esso, sulla cui ellisse, sorsero poi gli edifici che delimitarono la piazza sui lati nord ed est e di cui erano ancora visibili nel XVIII secolo le arcate »..

Delle vicende di questo anfiteatro ci siamo più volte occupati riferendo che un’improvvisa, apocalittica alluvione, allagò sommergendola nel fango disceso dalle colline circostanti la conca entro la quale era stato costruito l’anfiteatro, lasciando visibili le arcate esterne. 

Che entro questa conca naturale successivamente si svolgessero le «battaglie navali» a divertimento della popolazione, riempiendo l’invaso con le acque defluenti dall’acquedotto romano posto nelle colline di Cupello e Monteodorisio, per la condotta dell’attuale via «Naumachia» è anche presumibile, se alcuni autori, come l’attendibile Romanelli, riferiscono del teatro con una «Naumachia». 

Certo è che al di sotto dell’attuale piazza l’anfiteatro giace con tutto il suo splendore architettonico e l’inestimabile testimonianza storica dell’antichissima e civilissima Histonium. Giova anche rilevare come in epoca medievale, lungo le arcate emerse dalla colmatura alluvionale, si siano addossate le costruzioni di cui oggi si ha ancora visione



PORTA SALUTARIS

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Abbiamo poche notizie sulla porta Salutaris, della quale, non essendo ancora stato individuato alcun resto, non se ne conosce l'esatta dislocazione. Prendeva il nome dal vicino Tempio della Salus.

Questo tempio, detto anche Aedes Salutis, era situato sul colle Quirinale (che per tradizione fu annesso alla città, dal sesto re di Roma, Servio Tullio), nei pressi della Porta Salutaris (che prendeva il nome dal tempio) in corrispondenza dell'attuale palazzo del Quirinale.

Era stato costruito tra il 306 e il 303 a.c. da Gaio Giunio Bubulco, console nel 311 a.c.

I romani, guidati da Giunio nel Sannio, dopo aver ripreso Cluvie, dove in precedenza era stata massacrata la guarnigione romana, riuscirono a sopraffare i Sanniti in uno scontro campale, dove erano stati attratti con l'inganno dai Sanniti stessi.

Nel 302 a.c., durante il consolato di Marco Livio Denter e Marco Emilio Paolo, Gaio Giunio fu nominato dittatore, per far fronte agli Equi, insorti per la costituzione della colonia romana ad Alba Fucens, nel loro territorio. I romani ebbero facilmente ragione degli Equi, ed il dittatore ottenne il trionfo a Roma.

« Esaltati da queste parole, gli uomini - dimentichi di tutte le difficoltà - si riversarono sulla schiera nemica che si trovava in posizione sopraelevata. 
Sulle prime dovettero faticare molto per risalire la china. 

Ma poi, non appena i primi manipoli ebbero raggiunto la sommità del crinale e l'esercito si sentì saldamente piazzato su un'area pianeggiante, la paura si rivolse sùbito contro i responsabili dell'agguato i quali, liberandosi delle armi e fuggendo in tutte le direzioni, cercarono scampo in quegli stessi anfratti che prima erano loro serviti da nascondigli. 

DEA SALUS
Ma la conformazione accidentata del terreno, scelta apposta per creare problemi al nemico, andava adesso a loro discapito, impedendone i movimenti. Di conseguenza furono pochi quelli che riuscirono a salvarsi: vennero uccisi circa 20.000 uomini, e i Romani reduci dal trionfo si sparsero nei dintorni a fare razzia del bestiame offerto loro dal nemico in persona.»

(Tito Livio, Ab Urbe condita)

Di conseguenza, quando ancora era dittatore, Gaio Giunio inaugurò il Tempio della Salute sul colle del Quirinale per celebrare la vittoria del console nella II guerra sannitica (326-304 a.c.), decorato da un certo Fabius Pictor con scene della guerra e del trionfo, il più antico nome di pittore attivo a Roma pervenutoci..

La Porta Salutaris era dunque una delle tre porte che, insieme alla Quirinalis verso nord e alla Sanqualis verso sud, si aprivano sul lato occidentale del colle Quirinale, in posizione mediana tra le due. 

Il tratto di mura serviane dopo la porta Sanqualis proseguiva tra le attuali via XXIV Maggio e via delle Tre Cannelle per giungere fino al margine del colle che, verso nord, diveniva talmente ripido da non necessitare più di una protezione muraria, per cui le tre porte non potevano che aprirsi sugli unici tre avvallamenti che il colle presentava su quel lato.

Il nome della porta è dovuto alla vicinanza, nei pressi della stessa, del tempio dedicato alla Dea Salute, la cui posizione è nota con buona approssimazione.

Dunque la porta costituiva uno degli accessi alla città dalla parte della zona del Campo Marzio, la cui importanza e il cui sviluppo urbanistico già all'epoca della costruzione delle mura serviane, rendeva necessaria e opportuna l'aperture di diversi varchi.

"Il tempio della Salute si dimostra da Varrone e da Livio essere stato situato vicino al descritto tempio di Quirino; 105 ed inoltre questo dovendo evidentemente stare pure presso la porta che dal suo nome si chiamava Salutare, e questa collocandosi comunemente nel declivo del colle vicino alla salita delle Quattro Fontane, si viene così a stabilire la situazione del medesimo tempio su quella parte del monte ora occupato dal palazzo Quirinale."

La porta Salutaris doveva trovarsi dunque nei pressi dell'attuale via della Dataria, probabilmente vicino alla base della scalinata che porta fino alla piazza del Quirinale. 

Il colle Quirinale venne abbandonato in epoca medioevale ma fu riscoperto nel Cinquecento, quando venne chiamato Monte Cavallo proprio per la presenza dei Dioscuri con i cavalli. Il punto più alto del colle è l'incrocio di via delle Quattro Fontane. 

Secondo alcuni questo, cioè via delle Quattro Fontane, sarebbe il punto più probabile della locazione della Porta Salutaris, in quanto di solito le Porte della città si aprivano nel punto più alto e non sul più basso, onde fornire una migliore difesa in caso di attacco.

LA BATTAGLIA DI CANNE

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La battaglia di Canne del 2 agosto del 216 a.c. è stata una delle principali battaglie della II guerra punica, ed ebbe luogo in prossimità della città di Canne, in Puglia. L'esercito di Cartagine, comandato da Annibale, accerchiò e distrusse quasi totalmente un esercito numericamente superiore della Repubblica romana guidato dai consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone.

Ci sono tre resoconti principali della battaglia, ma nessuno contemporaneo. Il più vicino è quello di Polibio (200 - 124 a.c.), scritto 50 anni dopo. Tito Livio (59 a.c. - 17 d.c.) l'ha descritta al tempo di Augusto, e Appiano di Alessandria (95 - 165) ancora più tardi, con eventi non citati nè da Livio nè da Polibio. È considerata come una delle più grandi manovre tattiche della storia militare e, in termini di caduti in combattimento, una delle più pesanti sconfitte di Roma, seconda solo alla battaglia di Arausio.

Riorganizzatisi dopo le precedenti sconfitte della battaglia della Trebbia (218 a.c.) e del Lago Trasimeno (217 a.c.), i Romani decisero di affrontare Annibale a Canne, con circa 86 000 uomini tra Romani e truppe alleate.

I Romani ammassarono la fanteria pesante in una formazione più serrata del consueto, mentre Annibale utilizzò la tattica della manovra a tenaglia. Sarà proprio la stessa e famosa manovra a tenaglia che Scipione l'Africano eseguirà nella battaglia di Zama per sterminare l'esercito cartaginese guidato ancora da Annibale. E stranamente gli riuscirà in pieno, nonostante Annibale la conoscesse perfettamente.

All'inizio della II guerra punica, Annibale giunse in Italia attraverso le Alpi durante l'inverno. Queste colse di sorpresa tutti i suoi nemici, per quanto la via gli avesse ucciso moltissimi elefanti e molti uomini. Vinse i Romani la battaglia del Ticino, nella battaglia della Trebbia e nella battaglia del Lago Trasimeno, in quest'ultima l'esercito romano fu quasi annientato.


IL TEMPOREGGIATORE

Roma tremò e nominò un dittatore come usava fare nei momenti tragici. Nominò Quinto Fabio Massimo che, consapevole delle superiori capacità militari di Annibale, evitò di affrontarlo, usando solo tattiche di logoramento, intercettando le sue vie di rifornimento ed evitando la battaglia campale; il che gli conferì il soprannome di "Temporeggiatore". Il senato l'aveva scelto proprio perchè saggio e prudente.

Tuttavia la strategia di Fabio non ebbe grande successo tra i Romani, perchè abituati a vincere e soprattutto perchè i generali morivano dalla voglia di mettere in mostra le proprie capacità belliche, per conquistarsi la gloria e pure la ricchezza.

Si temeva inoltre che il saccheggio indisturbato dell'Italia, avrebbe potuto minare la fiducia degli alleati sulla potenza militare della Repubblica e della sua capacità di proteggerli da Annibale. Petanto, scaduto il mandato semestrale, il Senato romano, che a quel tempo seguiva molto l'umore del popolo, non rinnovò la dittatura, e passò il comando ai consoli Gneo Servilio Gemino e Marco Atilio Regolo, ma anche questi preferirono una prudente attesa. Neanche questo piacque al popolo e neppure ai senatori.

L'anno dopo, nel 216 a.c. vennero eletti infatti i consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone; quest'ultimo, uomo molto temerario, secondo Tito Livio e Polibio, voleva ingaggiare Annibale in una battaglia decisiva. Era quello che il popolo si aspettava, ma Emilio Paolo al contrario voleva attendere gli eventi. Il senato comunque dette loro un esercito dalle dimensioni senza precedenti.

In effetti Annibale aveva una cavalleria superiore a quella dei Romani sia per numero che per capacità e cercava una nuova battaglia campale per sconfiggere definitivamente i Romani. Stavolta era lui quello abituato a vincere, ed era uno stratega senza precedenti. L'unico che potrà competere con lui sarà Scipione, al tempo di Canne era però troppo giovane per comandare, aveva infatti solo 20 anni.



LA BATTAGLIA

Il racconto degli antefatti della battaglia di Canne non è univoco; mentre Polibio, ritenuto dal De Sanctis il più attendibile, narra i fatti stringatamente, Tito Livio, dove il De Sanctis vede distorsioni prese da Valerio Anziate, esagera forse le difficoltà di Annibale e  il discernimento di Emilio Paolo.

ANNIBALE
Comunque Polibio narra che Annibale, ancor prima dell'arrivo dei nuovi consoli, mosse con le sue truppe da Geronio e occupò la rocca di Canne, in una posizione strategica e quindi favorevole.

I Romani, raccolto il grano e altri vettovagliamenti intorno Canusio, li portavano nell'accampamento romano presso Geronio. La rocca di Canne era a ovest del promontorio del Gargano, nel territorio degli Apuli. Così Annibale si pose tra i Romani e le loro fonti di approvvigionamento.
Così la cattura di Canne « ha causato grande scompiglio nell'esercito romano, perché non è stata solo la perdita del posto e delle scorte in essa che li angosciava, ma il fatto che essa dominava il distretto circostante» (Polibio).

I consoli, decisi ad affrontare Annibale, marciarono verso sud alla sua ricerca. Per Tito Livio invece Annibale era in difficoltà: i viveri del suo esercito erano sufficienti per meno di dieci giorni e alcuni Iberi volevano disertare.  Quando entrambi gli eserciti si accamparono presso Geronio, Annibale finse di abbandonare il suo accampamento, pieno di bottino, nascondendo l'esercito dietro un'altura e lasciando accesi i fuochi da campo per far credere che il campo era ancora occupato.

Quando fu giorno, i Romani si accorsero che l'accampamento era stato abbandonato e i legionari chiesero di inseguire i nemici e saccheggiare il campo. Varrone era d'accordo ma Emilio Paolo, più prudente, mandò in esplorazione il prefetto Marco Statilio con uno squadrone di Lucani. Questi al suo ritorno,  riferì trattarsi di un tranello: i fuochi erano stati lasciati accesi nella parte rivolta verso i Romani, le tende erano aperte e gli oggetti più preziosi in vista.

Varrone avrebbe dato il segnale di penetrare nell'accampamento. ma Emilio Paolo riferì di auspici sfavorevoli a Varrone si fermò. Le truppe non non volevano di rientrare nell'accampamento, ma due servi, fuggiti dalla prigionia numidia, tornarono in quel momento, riferendo dell'agguato.

Tito Livio osserva che la « sbagliata arrendevolezza (di Varrone) aveva indebolito la sua autorità presso i soldati» Poi descrive Annibale terrorizzato dalle defezioni tra le sue truppe. De Sanctis non crede alla storia dell'accampamento abbandonato, e Statilio poi sarebbe un personaggio inventato,

La cronologia degli avvenimenti in Polibio è questa:

27 luglio - il primo giorno i Romani partirono da Geronio verso la località dove si trovavano i Cartaginesi.

28 luglio - Sotto il comando di Emilio Paolo, giunti il secondo giorno in vista dei nemici, si accamparono alla distanza di circa cinquanta stadi (circa 9,25 km) dalle loro posizioni.

29 luglio - Nella giornata successiva tolsero il campo per ordine di Varrone e avanzarono verso i Cartaginesi, ma vennero attaccati da Annibale mentre erano in marcia. Varrone respinse con successo l'attacco cartaginese e al sopraggiungere della notte gli avversari tornarono ai rispettivi campi. Questa piccola vittoria ridette fiducia ai romani.

30 luglio - Il giorno dopo, per ordine di Emilio Paolo, i Romani innalzarono due accampamenti presso il fiume Aufido: il maggiore, occupato da due terzi dell'esercito, su una riva del fiume a ovest, e il minore, con il terzo restante, sull'altra riva a est del guado. Il minore aveva il compito di proteggere i rifornimenti e intralciare quelli nemici.

1 agosto - Secondo Polibio, i due eserciti rimasero nelle rispettive posizioni per due giorni.
poi Annibale, sapendo che Emilio Paolo era in quel momento al comando, lasciò il suo accampamento e schierò l'esercito per la battaglia. Emilio Paolo non volle entrare in combattimento.

Vedendo il rifiuto del nemico, Annibale, che sapeva quanto fosse importante l'acqua dell'Aufidus per i romani, inviò da loro i cavalieri Numidi per danneggiare le provviste d'acqua del campo piccolo. d'acqua. Secondo alcune fonti Annibale avrebbe intorbidito l'acqua dei Romani o, addirittura, vi avrebbe fatto gettare dei cadaveri.

Narra Polibio, che la cavalleria di Annibale cavalcò fino ai limiti dell'accampamento minore, interrompendo l'approvvigionamento dell'acqua. I Romani non accettarono battaglia perchè Emilio Paolo lo vietava.
Ma il giorno dopo Varrone, senza consultare il collega, fece esporre il segnale di battaglia e fece attraversare il fiume alle truppe schierate, mentre Emilio Paolo lo seguiva impossibilitato a contrastarlo.

2 agosto - Annibale, nonostante la superiorità numerica del nemico, posizionò con tutta calma le sue truppe a est del fiume, dove era l'accampamento minore romano, e a un suo ufficiale di nome Gisgo che era intimorito dalla grandezza l'esercito romano, rispose ironicamente: « un'altra cosa che ti è sfuggita, Gisgo, è ancora più sorprendente: che anche se ci sono così tanti Romani, non ce n'è nemmeno uno tra loro che si chiami Gisgo». Un'arguzia che però a noi colpisce poco.
ROMANI

I DUE ESERCITI

I ROMANI

« Il Senato decise di mettere in campo otto legioni, il che non era mai stato fatto prima a Roma, ogni legione composta da 5.000 uomini, oltre agli alleati. I Romani combattono la maggior parte delle loro guerre con due legioni al comando di un console, con i loro contingenti di alleati, e raramente utilizzano tutte e quattro le legioni in una sola volta e per un solo compito. Ma in questa occasione, tanto grande era l'allarme e il terrore di ciò che sarebbe potuto accadere, che decisero di mettere in campo non solo quattro, ma otto legioni.»
 (Polibio, Storie III)

« Affermano alcuni che per reintegrare le perdite si arruolarono diecimila nuovi soldati; altri parlano di quattro legioni nuove, per affrontare la guerra con otto legioni; e si dice pure che le legioni furono accresciute di forze, tanto di fanti quanto di cavalieri, aggiungendo a ciascuna circa mille fanti e cento cavalieri, così che risultassero di cinquemila fanti e di trecento cavalieri, e che gli alleati diedero un numero doppio di cavalieri ed egual numero di fanti. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

Di queste otto legioni, circa 40.000 soldati romani, di cui circa 2.400 cavalieri, formarono il nucleo del nuovo esercito. Poiché ogni legione era accompagnata da un numero uguale di truppe alleate e la cavalleria alleata contava circa 4.000 uomini, la forza totale dell'esercito che avrebbe affrontato Annibale non sarebbe stata molto inferiore ai 90.000 uomini.

Tuttavia, alcuni autori hanno suggerito che la distruzione di un esercito di 90.000 uomini sarebbe stata impossibile. Essi sostengono che Roma abbia messo in campo probabilmente 48.000 fanti e 6.000 cavalieri contro i 35.000 fanti e i 10.000 cavalieri di Annibale.

Anche se non esiste alcun numero definitivo delle truppe romane, tutte le fonti concordano sul fatto che l'esercito cartaginese affrontò un esercito di grande superiorità numerica. Le legioni romane avevano due terzi costituiti da reclute, i cosiddetti tirones, ma c'erano almeno due legioni formate da legionari esperti e preparati, provenienti dall'esercito del console del 218 a.c., Publio Cornelio Scipione.

Equipaggiamento

Ogni legione era formata da 4.200 fanti (fino a 5.000, in caso di massimo pericolo) e da 300 cavalieri. Le unità alleate di socii, cioè le Alae, erano costituite da altrettanti fanti, e tre volte di cavalieri (900 per unità).
I fanti erano poi suddivisi in quattro categorie, sulla base della classe sociale/equipaggiamento ed età:
Schieramento
I manipoli di hastati e principes erano molto compatti, disposti frontalmente per 5 fila armati, ciascuna di 28-30 legionari; la profondità totale della legione poteva raggiungere gli 82 legionari.

Velites

- primi ad essere arruolati erano i Velites, in numero di 1.200 (tra i più poveri e i più giovani), e che facevano parte delle tre schiere principali ( Hastati, Principes e Triarii), in numero di 20 per ciascuna centuria.
Erano senza armatura, per essere agili nelle azioni di schermaglia e di disturbo. Avevano una spada e di un piccolo scudo rotondo di 90 cm, alcuni giavellotti leggeri, con un'asta in legno di 90 cm larghi un dito, e una punta metallica di circa 25 cm.

Hastati

- Seguivano gli Hastati, di censo ed età  superiori, in numero di 1.200, pari a 10 manipoli. e costituivano la prima linea dello schieramento in battaglia. Ciascun manipolo astato era formato da un rettangolo largo 40 unità e profondo 3.
Erano fanti corazzati in cuoio, con corazza ed elmetto di ottone adornato con tre piume di 30 cm, e con scudi di legno rinforzati in ferro di 120 cm  rettangolari e ricurvi. Avevano un gladio e due lance di cui una pesante (pilum) e l'altra era un  giavellotto.


Principes

I Principes, di età più matura, sempre in numero di 1.200, pari a 10 manipoli, erano la seconda fila dell'esercito. Erano una fanteria pesante armati e corazzati come gli hastati, ma la corazza era in maglia e quindi più leggera. Ciascuno dei manipoli dei principes era formato da un rettangolo largo 12 unità e profondo.


Triarii

In terza fila c'erano i Triarii, i più anziani, in numero di 600 (pari a 10 manipoli, non aumentabile neppure se la legione si accresceva da 4.200 fanti a 5.000, a differenza di tutte le altre precedenti classi che potevano passare da 1.200 a 1.500 fanti ognuna.

Rispecchiavano l'antico stile oplitico, armati e corazzati come i principes, fatta eccezione per la picca, che essi portavano al posto dei due pilum. Un manipolo di triarii era diviso in due formazioni, ciascuna larga 6 unità e profonda 10.


Equites

La cavalleria apparteneva a un buon ceto sociale, ma spesso accompagnati da socii e Latini della penisola italiana.

C'erano poi gli accensi (detti anche adscripticii e, in seguito, supernumerarii) che seguivano l'esercito senza ruoli e che seguivano i triarii. Essi colmavano le lacune che potevano verificarsi nei manipoli, talora come attendenti degli ufficiali.

Comando consolare

Talvolta ciascuno dei due consoli comandava la propria parte dell'esercito, ma dal momento che i due eserciti erano stati concentrati insieme, la legge romana prevedeva di alternare il comando su base giornaliera.

Senza dubbio Annibale sapeva che al comando dell'esercito romano si alternavano i due consoli, e dovette attaccare il giorno in cui deteneva il comando Varrone, che gli concesse il combattimento in campo aperto, nonostante il parere contrario di Emilio Paolo. però non vi è unanimità sul comando dell'esercito nel giorno della battaglia.

Alleati italici

Tutti gli alleati che parteciparono alla battaglia di Canne sono stati riportati nel libro VIII del poema Le puniche di Silio Italico:
- i Rutuli,
- i Sicani,
- gli abitanti dei boschi di Trivia,
- gli abitanti della foce del fiume Tosco
- gli abitanti del fiume Almone Cibele,
- gli abitanti di Castro,
- gli abitanti di Ardea,
- gli abitanti di Lanuvio,
- gli abitanti di Collazia
- gli abitanti di Tivoli,
- gli abitanti di Preneste
- gli abitanti di Crustumio,
- gli aratori di Labico,
- gli abitanti del Tevere,
- gli abitanti dell'Aniene
- gli abitanti di Simbruvio (lago anticamente formato dall'Aniene),
- gli abitanti di Sezia,
- gli abitanti delle valli veliterne,
- gli abitanti di Cori,
- gli abitanti di Segni
- gli abitanti delle paludi Pontine,
- le schiere ferentine,
- i Privernati,
- i contadini di Anagni,
- la gioventù di Sora,
- le genti di Scazia,
- le turbe di Fabrateria,
- i soldati di Atina,
- i soldati di Suessa,
- i soldati di Frosinone,
- il più bel fiore di Venafro e Larino,
- tutti gli uomini di Aquino,
- le schiere di Amiterno,
- le schiere di Casperia,
- le schiere di Foruli,
- gli abitanti di Rieti,
- gli abitanti di Nurzia,
- gli abitanti delle rupi tetriche,
- gli abitanti di Numana,
- i duci di Cupra,
- i duci di Ancona,
- i duci di Adria,
- gli alfieri di Ascoli,
- le genti vigorose degli Amerri
- le genti dei Camerti,
- i pastori di Sassina,
- i Tuderti,
- una legione di Etruschi comandata da Galba,
- la gioventù scelta di Cerveteri e Cortona,
- l'antica Gradisca,
- Palo
- Fregene
- i Fiesolani
- il popolo di Chiusi,
- i guerrieri delle cave di marmo di Luni,
- i Vetuloni,
- le schiere di Nepi
- Equi Falisci,
- i figli di Flavinia.
- i figli del lago di Bracciano
- i figli di Vico
- gli abitanti del Soratte,
- i Marsi,
- i Peligni,
- i soldati Sidicini,
- i soldati di Calvi,
- i guerrieri Vestini,
- i guerrieri che pascolano nella verdeggiante Penne,
- i guerrieri delle cime del Fiscello,
- i guerrieri delle campagne di Avella,
- i Marrucini,
- Corfinio
- Chieti
- i guerrieri della Campania,
- le genti di Sinuessa,
- le genti del Volturno,
- le genti di Amilca,
- Fondi,
- Gaeta,
- Antifate,
- Literno,
- Cuma,
- i figli del Gauro
- Nocera,
- la prole Dicearchea,
- il numeroso popolo della greca Partenope (Napoli),
- Nola,
- i soldati di Alife
- Acerra,
- i Sanniti,
- i mietitori di Nucra,
- Batulo,
- gli abitanti delle selve di Boiano,
 Bufra (Rufrae),
- Isernia
- Ordona,
- i Bruzi,
- le coorti delle montagne lucane
- Irpinia,
- i Salentini,
- il popolo di Brindisi,
- Licosa,
- Picentia, di Pesto e di Cerilla (Diamante),
- abitatori del Sele,
- i valorosi della pugnace Salerno,
- Policastro
- i popoli del Po,
- i soldati di Piacenza,
- soldati di Modena (Mutina),
- soldati di Cremona
- soldati di Mantova,
- i prodi di Verona
- i prodi di Faenza,
- i figli di Vercelli,
- i figli di Pollenzia,
- i figli di Ocno,
- i figli di Bologna,
- i figli degli stagni di Ravenna
- la schiera troiana profuga dei colli Euganei
- la schiera troiana profuga di Aquileia,
- gli eroi del Veneto,
- gli eroi di Saluzzo
- 3.000 frombolieri dell'Etna
- i figli dell'isola d'Elba.

LO SPIEGAMENTO TATTICO secondo Polibio:

- (a sinistra) formazione coortale composta da tre manipoli di triarii, principes e hastati di una legione di 4.200 fanti ("fronte manipolare" = 12/18 metri);
- (al centro) una legione di 5.000 armati ("fronte manipolare" = 12/18 metri);
- (a destra) legione di 5.000 armati, con uno schieramento estremamente compatto ("fronte manipolare" = 7,2/10,8 metri).

La distribuzione tradizionale degli eserciti di un tempo consisteva nel posizionare la fanteria al centro e la cavalleria in due “ali” a fianco. I Romani seguivano questa convenzione abbastanza fedelmente; Terenzio Varrone era a conoscenza del fatto che la fanteria romana era riuscita a penetrare nel centro dell'esercito di Annibale durante la battaglia della Trebbia, e era intenzionato a ripetere questa manovra di attacco frontale al centro impiegando una massa maggiore di legionari.

Quindi in questa battaglia dispose le linee di fanteria per lunghezza, anziché per larghezza e diminuì gli spazi fra i manipoli, sperando di penetrare più facilmente nel centro dell'esercito di Annibale. Contava per questo sulla fanteria pesante legionaria, in grado di esercitare una pressione irresistibile, grazie al suo armamento e al suo schieramento, in caso di urto frontale.

Narra Polibio che Varrone schierò la fanteria « disponendo i manipoli più fitti del solito e facendoli molto più profondi che larghi ». Però avendo ridotto l'estensione dell'esercito, ogni legionario disponeva di solo un metro di spazio sui lati e ogni manipolo occupava una linea di fronte di soli 4,5 metri.

- Ogni legione si dispiegò su un fronte di sessanta uomini (pari a 90 metri);
- ciascun manipolo si schierò con cinque legionari di fronte e trenta legionari di profondità,
- l'intero fronte delle otto legioni  e delle otto di alleati misurava 1.440 m con una profondità di un centinaio di m.
Pertanto i principes stazionavano immediatamente dietro gli astati, pronti a spingere in avanti al primo contatto per garantire un fronte unito.
- Il fronte obliquo, comprese le cavallerie, era circa di 3.000 m, obliquo in quanto la piana da nord a sud non era lunga abbastanza per fare altrimenti.

I due consoli adottarono una formazione della cavalleria serrata e rinforzata in profondità con un fronte di schieramento di soli 600 m sul fianco destro e di 1.700 m su quello sinistro, spazio ridotto a causa del terreno.
Lo schieramento ravvicinato dei cavalieri avrebbe dovuto favorire una lotta serrata e prolungata, per far guadagnare tempo ai legionari romani che dovevano sfondare il centro del fronte nemico.

Distribuzione delle truppe

I consoli Terenzio Varrone ed Emilio Paolo scelsero coscientemente di affrontare la battaglia a est del fiume Aufidus, schierando il loro enorme esercito a nord delle forze avversarie, con fronte a sud e il fianco destro sull corso del fiume. Varrone e Paolo credevano che i legionari, numericamente superiori, avrebbero spinto i Cartaginesi nel fiume dove li avrebbero facilmente sterminati.

Tenendo presente che le due vittorie precedenti di Annibale erano state in gran parte decise dalla sua abilità e scaltrezza, Varrone e Paolo ricercarono un campo di battaglia scoperto e privo di insidie. Il campo di Canne era un campo aperto, e le colline sul fianco sinistro dei Romani avrebbe impedito alla cavalleria numida rapidi aggiramenti.

CARTAGINESI

I CARTAGINESI 

L'esercito cartaginese era composto da:
- 10.000 cavalieri,
- 40.000 soldati della fanteria pesante,
- 6.000 della fanteria leggera sul campo di battaglia,
esclusi i distaccamenti.

L'esercito cartaginese proveniva da varie aree geografiche;


La Fanteria

- la fanteria aveva 22.000 fanti iberici e celti,
- 10.000 fanti libici di fanteria pesante, di riserva tattica, che, divisi in due formazioni, fiancheggiavano i fanti iberici e celti.
- 8.000 guerrieri della fanteria leggera fra frombolieri delle Isole Baleari e lancieri di nazionalità mista

La cavalleria

- La cavalleria aveva 4.000 numidi,
- 2.000 spagnoli,
- 4.000 galli
- 450 libici-fenici.

Tutti avevano un forte legame di lealtà e fiducia verso Annibale, famoso e mitizzato per il suo coraggio ma soprattutto per le sue straordinarie qualità di stratega. I legionari romani non nutrivano lo stesso attaccamento verso i loro attuali generali. Come Cesare ben sapeva, l'attaccamento dell'esercito ai generali era una delle più potenti armi nelle battaglie.

- Nessun elefante, anche i Cartaginesi facevano grande uso di elefanti in battaglia per terrorizzare i cavalli nemici e scompaginare la fanteria,  qui non ce n'erano perchè pochi erano riusciti a valicare le alpi e quei pochi erano morti,


Equipaggiamento

- I fanti iberici erano dotati di spade, corte, maneggevoli, e con la punta, appunto per colpi da punta, giavellotti ed altri tipi di lancia, con grandi scudi ovali.
- I fanti galli  avevano anch'essi giavellotti ed altri tipi di lancia, con grandi scudi ovali, le loro spade erano però assai lunghe e senza punta, per i colpi di taglio.
- I fanti libici secondo Polibio avevano attrezzature prese dai Romani precedentemente sconfitti. Non si sa se solo scudi e armature o anche le armi.
- I tiratori, in qualità di fanteria leggera, portavano o frombole o lance.
- I frombolieri delle isole Baleari, ottimi tiratori, portavano corte, medie o lunghe fionde per lanciare pietre o altri tipi di proiettili. Avevano talvolta un piccolo scudo o uno strato di cuoio sulle braccia.
- La cavalleria pesante portava due giavellotti, una spada ricurva ed un pesante scudo.
- La cavalleria numida non portava armatura, talvolta senza le briglie per i cavalli e  un piccolo scudo, giavellotti e un coltello o un'arma da taglio più lunga.

CARTAGINESI
Polibio scrisse che « contro Annibale, le sconfitte subite nulla avevano a che fare con le armi o formazioni: Annibale stesso scartò l'attrezzatura con cui aveva iniziato (e) armò le sue truppe con armi romane».

Annibale fu uno stratega eccezionale, degno avversario del futuro Scipione, altro grande generale, l'unico che questi apprezzò e stimò, pertanto a Canne sapeva di non avere uno stratega che potesse competergli. Pertanto architettò uno schieramento e un piano di battaglia sorprendente e rischioso da cui poteva ottenere una vittoria decisiva e agghiacciante per i suoi nemici, che, ricordiamolo, aveva imparato ad odiare sin da bambino.

Comprese subito le intenzioni del nemico e la scarsa elasticità della sua formazione serrata, per cui decise di impiegare meno truppe e meno numerose, ma più esperte e più mobili, per eseguire una mirabile manovra a tenaglia.

Sebbene in inferiorità numerica, i Cartaginesi, a causa della distribuzione in lunghezza dell'esercito dei Romani, avevano un fronte di una dimensione quasi uguale a quella di quello nemico.

Così Annibale  pose al centro dello schieramento di 20000 soldati, tra fanti galli e fanti iberici, combattenti vigorosi ma quasi privi di armature ma bene armati, in una formazione ad arco proteso in avanti, sperando di attirare al centro, vista la debolezza degli attaccanti, tutti gli attaccanti omani.
Contava inoltre che la disposizione ad arco avrebbe consentito agli ibero-galli di guadagnare tempo e spazio di manovra per arretrare sotto l'urto romano senza disgregarsi.

Rifluendo compatti all'indietro, questi avrebbero costretto le legioni romane in un imbuto con i due lati scoperti dove sarebbe intervenuta la sua fanteria pesante africana di 10.000,  combattenti più esperti e armati con armamenti catturati al nemico, si da essere confusi coi romani, il che avrebbe disorientato gli avversari.

La fanteria africana, violenta e impressionante a vedersi, venne così schierata da Annibale sui due lati dietro l'arco degli ibero-galli, riservati alla seconda fase della battaglia, per attaccare ai fianchi i Romani.

Sul fianco sinistro con a capo Asdrubale pose 6.500  della cavalleria pesante ibero-gallica, per sbaragliare rapidamente la debole cavalleria romana guidata da Emilio Paolo.
Sul fianco destro invece schierò i 4.000 numidi guidati da Maarbale, cavalieri velocissimi in grado di battere la cavalleria di Varrone, ruotando poi attorno alla fanteria attaccando i legionari alle spalle.

In tal modo, con la fanteria gallo-iberica davanti, la fanteria pesante africana ai lati e la cavalleria iberica, gallica, e numida dietro, la manovra di accerchiamento e annientamento sarebbe stata compiuta.

Annibale era soddisfatto della sua posizione vicina al fiume Aufidus, perchè così i Romani non avrebbero potuto effettuare una manovra a tenaglia intorno all'esercito cartaginese, in quanto uno dei fianchi del suo esercito era proprio sulla riva del fiume.

I Romani erano invece intralciati sul loro fianco destro dal fiume, e quindi potevano ripiegare solo sul fianco sinistro. Inoltre, le forze cartaginesi avrebbero manovrato in modo che i Romani avessero la faccia rivolta a sud. In tal modo il sole del mattino batteva l'una e l'altra parte, molto opportunamente, di fianco, e il vento a tergo dei Cartaginesi avrebbe alzato polvere contro le facce dei Romani.




LA BATTAGLIA

 - Fase iniziale dell'attacco romano

- La battaglia ebbe inizio con il confronto tra le fanterie leggere che precedette la vera battaglia campale, con giavellotti, proiettili e frecce. I Velites erano avvantaggiati dalla superiorità numerica e dalla maggiore precisione di tiro.

- Pertanto Annibale decise di lanciare sin dall'inizio la cavalleria pesante comandata da Asdrubale contro la cavalleria romana, usando come protezione una grande nuvola di polvere creata della marcia degli eserciti e dello scontro iniziale tra fanterie leggere, al centro del campo di battaglia.

- La cavalleria pesante ibero-celtica, schierata sul fianco sinistro attaccò violentemente la cavalleria romana, con una tattica imprevista, una carica corpo a corpo. Polibio narra come i cavalieri ispanici e celti scesero da cavallo e affrontarono la battaglia a piedi, un metodo barbaro secondo Polibio, che però funzionò.. I Romani, sorpresi dall'attacco, schiacciati sia nelle prime linee sia in quelle più indietro, dovettero anch'essi scendere da cavallo e combattere appiedati.

« L'ala sinistra della cavalleria gallica e ispanica si azzuffò con l'ala destra romana, non tuttavia in forma di combattimento equestre: bisognava infatti lottare frontalmente poiché non era presente attorno spazio per evoluzioni; da un lato le serravano le schiere dei fanti e dall'altro il fiume. Si urtarono dunque da entrambe le parti in linea di fronte; forzati a immobilità dalla calca i cavalli, i cavalieri si abbrancavano l'uno per gettar l'altro di sella. La battaglia era ormai divenuta prevalentemente pedestre; tuttavia si combatté più aspramente che a lungo, e i cavalieri romani, respinti, volsero in fuga.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

« Dopo dunque la disposizione di tutto il suo esercito in linea retta, prese le compagnie centrali degli Ispanici e dei Celti e avanzò con loro, mantenendo il resto della linea in contatto con queste compagnie, ma a poco a poco essi si staccarono, in modo tale da produrre una formazione a forma di mezzaluna, la linea delle compagnie fiancheggianti stava crescendo in sottigliezza poiché era stata prolungata, il suo scopo era quello di impiegare gli Africani come forza di riserva e di iniziare l'azione con gli Ispanici ed i Celti»
(Polibio, Storie)

- Lo scopo di questa formazione era di rompere lo slancio in avanti della fanteria romana, e ritardare la sua avanzata, per distribuire la sua fanteria africana nella famosa tenaglia.
Una minoranza di autori però pensano che la manovra di Annibale non fu deliberata ma che la curvatura della prima fila fosse dovuta all'ampio fronte di fanteria spinto in avanti e poi, quando il senso della mezzaluna si invertì, la ritirata del centro cartaginese fu dovuta alla pressione del centro della linea romana molto concentrata. ma noi sappiamo quale fantastico stratega fosse Annibale, che solo grazie a questa abilità aveva ottenuto tante vittorie sui romani.

- Dopo lo scontro iniziale le legioni romane, guidate dai consolari Marco Minucio Rufo e Gneo Servilio Gemino attaccarono frontalmente in formazione serrata, protetti dai lunghi scudi affiancati, con i gladi pronti sulla mano destra.
I Romani, oltre 55.000 soldati contro circa 20.000, esercitarono un urto irresistibile contro il sottile fronte nemico, ma sull'ala destra dell'esercito cartaginese, i Numidi impegnarono la cavalleria alleata ai Romani rendendo incerto l'esito della battaglia.
Ma i cavalieri ispanici e gallici di Asdrubale accorsero in aiuto dei Numidi e la cavalleria alleata ai Romani venne sopraffatta e si disperse abbandonando il campo di battaglia. I Numidi li inseguirono fuori dal campo.

- Tito Livio narra qui di un inganno della cavalleria leggera cartaginese:
« All'ala sinistra dei Romani, dove contro i Numidi stavano i cavalieri degli alleati, ardeva la battaglia Circa cinquecento numidi, che oltre le solite armi e i giavellotti avevano gladii nascosti sotto le corazze, erano avanzati allontanandosi dai loro compagni fingendosi disertori, con gli scudi dietro le spalle; poi celermente erano scesi da cavallo, e, gettati ai piedi dei nemici gli scudi e i dardi, furono accolti in mezzo allo schieramento e, condotti nelle ultime file, ebbero l'ordine di fermarsi là dietro. Finché la battaglia non fu accesa da tutte le parti, stettero fermi; quando poi la lotta tenne occupati gli occhi e l'animo di tutti, allora, dato piglio agli scudi, che giacevano sparsi qua e là tra i mucchi degli uccisi, assalirono i soldati romani alle spalle, e, ferendoli alla schiena e tagliando loro i garetti, produssero grande strage, spavento e confusione anche maggiori.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri)

Su questo episodio abbiamo seri dubbi, difficile immaginare che gli smaliziati romani si ponessero alle spalle dei disertori, semmai l'avrebbero posti a combattere in prima fila, come già facevano spesso con i mercenari. La vita dei legionari romani valeva molto di più dei mercenari, figuriamoci dei disertori, di cui non si sarebbero assolutamente fidati.

- Mentre i Romani avanzavano, il vento dall'Est secondo Theodore Dodge, o il Volturno da sud secondo Livio, soffiava polvere oscurandone in parte la vista.  Data la distanza del luogo di battaglia dagli accampamenti i romani  non avevano potuto dormire a sufficienza per iniziare presto la marcia, in più erano poco idratati a causa dell'attacco di Annibale il giorno prima in cui aveva distrutto alcune riserve d'acqua.


Distruzione dell'esercito romano 

- Dopo meno di un'ora di scontri corpo a corpo tra gli ibero-galli e le legioni romane, imbattibili in uno scontro frontale, le linee cartaginesi iniziarono a ripiegare con numerose perdite. Annibale iniziò quindi il ritiro controllato dei suoi e la mezzaluna delle truppe ispaniche e galliche si piegò verso l'interno, a mano a mano che i guerrieri si ritiravano. Conoscendo la superiorità dei legionari romani, Annibale aveva istruito la sua fanteria a ritirarsi volontariamente, creando così un semicerchio sempre più serrato attorno alle forze attaccanti romane.

- In questo modo, aveva trasformato la forza d'urto delle legioni del console Emilio Paolo in elemento di debolezza, e mentre le prime file avanzavano gradualmente, le truppe romane cominciarono a perdere la coesione, pressando per raggiungere la vittoria.

Invece sotto la pressione delle linee successive lo schieramento delle legioni divenne più serrato, con meno libertà di movimento. Annibale e Magone riuscirono a mantenere uno schieramento difensivo che, pur con pesanti perdite, riuscì a ripiegare lentamente conservando la coesione e permettendo di completare la manovra combinata sui fianchi e alle spalle delle legioni in formazione serrata.

I Romani non si accorsero delle truppe africane alle estremità sporgenti della mezzaluna ormai rovesciata. Grazie alla manovra, Annibale riuscì a guadagnare tempo affinchè la cavalleria cartaginese costringesse alla fuga la cavalleria romana su entrambi i fianchi e per attaccare il centro romano alle spalle.

Inoltre i Romani esposero i fianchi dove erano schierati i reparti meno esperti delle legioni romano-italiche.


Ecatombe di legionari romani

La fanteria romana, ormai esposta su entrambi i suoi fianchi a causa della disfatta della cavalleria, aveva formato un cuneo spinto sempre più in profondità nel semicerchio cartaginese, avanzando con ai lati la fanteria africana.

Annibale ordinò alla sua fanteria di girare verso l'interno e avanzare contro i fianchi del nemico, creando un accerchiamento delle legioni romane in uno dei primi esempi conosciuti di manovra a tenaglia.

Quando la cavalleria cartaginese attaccò i Romani alle spalle, ed i fanti africani li assalirono sui fianchi destro e sinistro, la fanteria romana in avanzata frontale fu costretta a fermarsi. I legionari tentarono di tornare indietro con gravi perdite, urtando per giunta le altre linee delle legioni, costringendole ad arrestarsi per mancanza di spazio.

Così la massa dei legionari si ritrovò serrata da ogni parte, compressa in uno spazio sempre più ristretto, colpita da tutti i lati. i Romani vennero progressivamente annientati dalla fanteria africana sui fianchi, dalla cavalleria alle spalle, dagli ibero-galli di fronte, con continui sanguinosi combattimenti corpo a corpo. I legionari vennero inesorabilmente distrutti; perdettero i centurioni e le insegne, i piccoli gruppi che tentarono la fuga vennero rincorsi e uccisi.

Polibio: « in quanto i loro ranghi esterni erano continuamente distrutti, ed i superstiti erano costretti a ritirarsi e si stringevano insieme, sono stati infine tutti uccisi, dove si trovavano».
I cartaginesi continuarono il massacro dei Romani per circa sei ore e, secondo la narrazione di Tito Livio, l'impegno fisico dell'annientamento con armi bianche di migliaia di Romani fu estenuante anche per i guerrieri africani per cui Annibale chiamò al massacro la cavalleria pesante ibero-gallo.

Il console Emilio Paolo, anche se all'inizio del combattimento era stato gravemente ferito da una fionda, decise di rimanere sul campo e di combattere fino alla fine; in alcuni punti riaccese la battaglia, sotto la protezione dei cavalieri romani. Infine mise da parte i cavalli, perché gli mancavano anche le forze per riuscire a rimanere in sella. Livio narra che allorché Annibale apprese che il console aveva ordinato ai cavalieri di smontare a piedi, avrebbe detto:
« Quanto preferirei che me li consegnasse già legati!».

Infine il console cadde valorosamente sul campo, colpito dai nemici, senza essere stato riconosciuto. La carneficina durò sei ore.
« Tante migliaia di Romani stavano morendo. Alcuni, le cui ferite erano eccitate dal freddo mattino, nel momento in cui si stavano alzando, coperti di sangue, dal mezzo dei mucchi di uccisi, erano sopraffatti dal nemico. Alcuni sono stati trovati con le teste immerse nelle buche in terra, che avevano scavato; avendo, così come si mostrò, realizzato buche per loro stessi, e essendosi soffocati. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita)
Cowley afferma che circa 600 legionari furono massacrati ogni minuto fino a quando l'oscurità pose fine alla carneficina.

VITTORIA DI ANNIBALE
Fuga dei soldati romani

Dopo la morte di Emilio Paolo i superstiti fuggirono in modo disordinato: settemila uomini ripiegarono nell'accampamento più piccolo, diecimila in quello più grande, e circa duemila nello stesso villaggio di Canne; questi furono subito accerchiati da Cartalone e dai suoi cavalieri, poiché nessuna fortificazione proteggeva il villaggio.

Nei due accampamenti i soldati romani erano quasi disarmati e privi di comandanti; quelli dell'accampamento maggiore chiesero agli altri di unirsi a loro, mentre la stanchezza ancora ritardava l'arrivo dei nemici, esausti dalla battaglia e impegnati nei festeggiamenti per la vittoria, si sarebbero diretti tutti insieme a Canosa. Alcuni chiesero perché dovessero essere loro a esporsi andando all'accampamento maggiore e non potessero invece essere gli altri ad andare da loro. Ad altri mancava il coraggio di muoversi.

Tito Livio a questo punto narra l'episodio del tribuno militare Publio Sempronio Tuditano, il quale avrebbe detto loro:
« Preferite dunque essere catturati da un cupidissimo e spietato nemico, che sia stimato il prezzo delle vostre teste, e se ne chieda il prezzo da chi domanderà se siate cittadini romani o alleati latini, così che la vostra vergogna e la vostra miseria procacci onore agli altri? Non lo vorrete, se pure siete i concittadini del console Lucio Emilio che preferì morire valorosamente anziché vivere ignominiosamente, e dei tanti valorosissimi che sono ammucchiati intorno a lui. Ma, prima che la luce ci colga qui e più dense turme nemiche ci chiudano la via, erompiamo, aprendoci la via tra questi drappelli disordinati che schiamazzano sulle porte! Col ferro e con l'audacia ci si fa strada anche tra dense schiere nemiche. Stretti a cuneo, passeremo attraverso questa gente rilassata e scomposta come se nulla ci si opponesse. Venite dunque tutti con me, se volete salvare voi stessi e la Repubblica!».

Il tribuno militare venne seguito da una parte dei legionari e nonostante le frecce dei Numidi, in seicento riuscirono a riparare nell'accampamento maggiore. Dopo che si, con altri soldati. riuscirono a giungere incolumi a Canosa.Tutti questi particolari, non presenti in Polibio, sono stati considerati da De Sanctis in parte immaginari.

La fine della battaglia

La sera, avendo raggiunto la vittoria completa, i Cartaginesi sospesero l'inseguimento dei nemici, tornarono nell'accampamento e, trascorse alcune ore di festa, si misero a dormire. Durante la notte, a causa dei feriti che giacevano ancora sulla piana, riecheggiarono lamenti e grida. La mattina successiva iniziò la depredazione, da parte dei Cartaginesi, dei corpi dei Romani caduti in battaglia.

Poiché l'odio mortale e inestinguibile che i Cartaginesi provavano per i loro nemici non era stato placato dal massacro di 40.000 di loro, essi picchiarono e pugnalarono i feriti ancora in vita ovunque li trovarono, come una sorta di passatempo mattiniero dopo le dure fatiche dei giorni precedenti. Ma molti di loro scoprirono il loro petto ai loro assalitori, e invocarono il colpo mortale che avrebbe posto fine alle loro sofferenze.

Durante l'esplorazione del campo, un soldato cartaginese fu trovato ancora vivo, ma imprigionato dal cadavere del suo nemico Romano disteso su di lui. Il volto del cartaginese e le sue orecchie erano orrendamente lacerate. Il romano, cadendo su di lui quando entrambi erano gravemente feriti, aveva continuato a battersi con i denti, poiché non riusciva più a usare la sua arma, e morì alla fine, bloccando il suo nemico esausto con il proprio corpo esanime.


PERDITE DI ROMANI E ALLEATI

Polibio scrisse che della fanteria romana e degli alleati, 70.000 furono uccisi, 10.000 catturati, e "forse" solo 3.000 sopravvissero. Dei 6.000 cavalieri romani e alleati, solo 370 riuscirono a mettersi in salvo.

Per Tito Livio: « 45.000 fanti, si dice, e 2.700 cavalieri, metà romani e metà alleati, caddero uccisi: tra essi i due questori dei consoli: Lucio Atilio e Lucio Furio Bibàculo, e ventinove tribuni dei soldati, alcuni consolari e già stati pretori o edili (tra essi Cneo Servilio e Marco Minucio, che era stato maestro della cavalleria l'anno precedente e console alcuni anni addietro); e inoltre ottanta/novanta senatori o eleggibili senatori per le cariche già esercitate, i quali si erano arruolati come volontari. 3.000 fanti e 1.500 cavalieri si narra che furon fatti prigionieri. [Altre uccisioni e migliaia di prigionieri verranno fatti tra i milites delle due legioni lasciate a difesa e come riserva negli accampamenti] »

- Anche se Livio non cita la fonte, attinse da Quinto Fabio Pittore, uno storico romano che ha combattuto nella II guerra punica e che scrisse su di essa essa. In seguito tutti gli storici romani (e greco-romani) seguirono in gran parte le cifre di Livio.

- Appiano di Alessandria disse che 50.000 furono uccisi e "moltissimi" furono presi prigionieri.

- Plutarco concorda, « 50.000 Romani caddero in quella battaglia e 4.000 sono stati presi vivi ».

- Quintiliano: « 60.000 uomini sono stati uccisi da Annibale a Canne».

- Eutropio: « 20 funzionari consolari e di rango pretorio, 30 senatori e 300 altri di discendenza nobile e sono stati presi o uccisi e così come 40.000 fanti e 3.500 cavalieri»

La maggior parte degli storici moderni respingono Polibio ma accettano le cifre di Livio, anche se altri ne considerano molto meno.

ECATOMBE ROMANA

LUCIO EMILIO PAOLO

La morte del console Lucio Emilio Paolo durante la battaglia di Canne. Verso la fine della battaglia, un ufficiale romano di nome Lentulo, mentre stava fuggendo a cavallo, vide un altro ufficiale seduto sulla pietra, debole e sanguinante. Quando scoprì che era Emilio Paolo gli offrì il proprio cavallo, ma Emilio, vedendo che era troppo tardi per salvare la propria vita, declinò l'offerta ed esortò Lentulo a fuggire al più presto dicendo:
« Vai avanti, quindi, tu stesso, il più veloce che puoi, sfrutta al meglio la tua strada verso Roma. Chiama le autorità locali qui, da me, che tutto è perduto, e devono fare ciò che essi possono per la difesa della città. Vai più veloce che puoi, o Annibale sarà alle porte prima di te. »

Emilio mandò un messaggio anche a Fabio (il Temporeggiatore), declinando le proprie responsabilità nella battaglia e dichiarando che aveva fatto ciò che era in suo potere per continuare la sua strategia. Lentulo, ricevuto il messaggio, e vedendo che i Cartaginesi erano vicini, se ne andò, abbandonando Emilio Paolo al suo destino. I Cartaginesi, accortosi dell'uomo ferito, infilzarono le lance uno alla volta nel suo corpo, finché non smise di muoversi.

Il giorno dopo la battaglia Annibale onorò il nemico ordinando il funerale del console Emilio Paolo. Il che dimostra che sapeva riconoscere e apprezzare gli uomini valorosi anche se nemici e romani. Il suo corpo fu posto su un rogo altissimo e fu elogiato da Annibale, che gettata sul cadavere una clamide tessuta d'oro e un drappo di porpora, gli dette l'estremo addio:
« Va, o gloria d'Italia, ove dimorano spiriti eccelsi d'insigne valore! La morte ti diede già lode immortale mentre la Fortuna agita ancora i miei eventi e mi nasconde l'avvenire».


SCIPIONE, IL FUTURO AFRICANO

Varrone invece si rifugiò in Venosa con un drappello di circa cinquanta cavalieri e decise che avrebbe cercato di radunare lì i resti dell'esercito, che pian piano giunsero fino a raggiungere le 10.000 unità, tra i quali c'era pure anche il giovane Publio Cornelio Scipione.

SCIPIONE
Questi, dopo la disfatta di Canne, si era adoperato per porre in salvo i pochi e sbandati superstiti delle legioni romane, guidandoli verso Canosa, dove ci fu una prima riorganizzazione dell'esercito romano.

Si trattava di un'impresa molto pericolosa, distando la città solo quattro miglia dal campo di Annibale. Scipione frenò il desiderio di fuga di numerosi patrizi che volevano fuggire in esilio in parte esortandoli e in parte minacciandoli. Si fece invece raccontare dai superstiti le fasi della battaglia, e l'insolita tattica dell'avversario.

Livio narra che di fronte alla prospettiva di sbandamento e di ammutinamento dopo la sconfitta, Scipione fu l'unico dei capi militari a mostrare decisione e coraggio: alle richieste dei comandanti di riunire un consiglio per deliberare sulla situazione, oppone un netto rifiuto, non era tempo di discutere ma di osare e agire.

Infatti riuscì ad esortare gli uomini e a guidarli, insieme agli altri capi, fino a Roma. Qui i romani, commossi dal coraggio e la fermezza del ventenne Scipione, si strinsero attorno a lui come ad un eroe.


PERDITE DI CARTAGINESI E ALLEATI

Tito Livio riferisce che Annibale perse 6.000 o circa 8.000 uomini. Polibio riporta 5.700 morti: 4.000 galli, 1.500 spagnoli e africani, e 200 cavalieri. Annibale comandò che allo splendore dell'aurora del giorno seguente si desse sepoltura ai compagni morti con roghi funebri.

Conseguenze

 Annibale mentre conta gli anelli dei cavalieri romani uccisi nella Battaglia di Canne.
« Mai prima d'ora, mentre la stessa città era ancora sicura, c'era stato tanto turbamento e panico tra le sue mura. Non cercherò di descriverlo, né io indebolirò la realtà andando nei dettagli. Dopo la perdita di un console e dell'esercito nella battaglia del Trasimeno l'anno precedente, non fu una ferita dopo l'altra, ma una strage molto (più) grande quella che era stata appena annunciata. Secondo le fonti due eserciti consolari e due consoli sono stati persi, non c'era più nessun accampamento romano, nessun generale, nessun soldato in esistenza, Puglia, Sannio, quasi tutta l'Italia giaceva ai piedi di Annibale. Certamente non c'è altro popolo che non avrebbe ceduto sotto il peso di una simile calamità.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

Per un breve periodo di tempo, i Romani furono nel caos completo. I loro migliori eserciti nella penisola erano stati distrutti, i pochi restanti erano fortemente demoralizzati, e l'unico console restante (Varrone) era completamente screditato. Fu una catastrofe terribile, Roma dichiarò una giornata di lutto nazionale, in quanto non c'era nessuno a Roma che non avesse una qualche relazione con una persona che vi era morta o che non ne fosse almeno conoscente.

Il Senato fece cessare tutte le processioni pubbliche, vietò alle donne di uscire di casa e proibì i venditori ambulanti, erano così disperati che, guidati dal ceto politico senatorio in cui era ritornato a dominare Quinto Fabio Massimo Verrucoso, ricorsero al sacrificio umano, una pratica orribile e barbara che rimase un'onta, due volte seppellendo persone vive  al Foro di Roma e abbandonando un bambino di grandi dimensioni nel Mare Adriatico.

Tito Livio riporta che il sacrificio fu decretato dai ‘'decemviri sacrorum'’ dopo una loro consultazione dei Libri Sibillini che suggerirono di procedere con "sacrificia aliquot extraordinaria" (alcuni sacrifici straordinari), furono seppelliti vivi nel Foro Boario un uomo e una donna celti e due greci.
Plutarco ricorda come nel 228 a.c., si fossero fatti analoghi sacrifici prima della guerra contro gli Insubri. Gli unici due sacrifici umani per

Lucio Cecilio Metello, un tribuno militare, disperando per la sorte di Roma, invitò gli altri tribuni a fuggire via mare all'estero e prestare servizio a qualche principe straniero. Egli fu molto redarguito per queste parole e fu costretto a pronunciare un giuramento indissolubile di fedeltà a Roma. Inoltre, i sopravvissuti romani di Canne, riuniti in due legioni, vennero assegnati alla Sicilia per il resto della guerra, come punizione per il loro umiliante abbandono del campo di battaglia. In poche parole per non essere morti. Saranno questi a chiedere a Scipione, il futuro Africano, di riscattarli portandoli con lui in battaglia a Zama.

Oltre alla perdita del suo esercito, Roma ebbe una sconfitta di prestigio. Un anello d'oro era un segno di appartenenza alle classi patrizie della società romana. Annibale con il suo esercito aveva raccolto più di 200 anelli d'oro dai cadaveri sul campo di battaglia, e questa collezione è stata ritenuta essere pari a "tre moggia e mezzo", vale a dire più di 27 litri. Inviò per mezzo di suo fratello Magone Barca tutti gli anelli a Cartagine come prova della sua vittoria.

Il bottino fu versato sul vestibolo della curia cartaginese. Annibale, dopo le vittorie della Trebbia e del Lago Trasimeno, aveva sconfitto l'equivalente di otto eserciti consolari (sedici legioni oltre a un numero uguale di alleati).

In 20 mesi di campagne, Roma aveva perso un quinto (150.000) di tutta la popolazione di cittadini che aveva oltre i diciassette anni. Inoltre la maggior parte del Sud Italia aderì alla causa di Annibale: Arpi, Salapia, Herdonia, Uzentum,  Capua e Taranto  revocarono la loro fedeltà a Roma e la offrirono ad Annibale.

« Quanto più grave è stata la sconfitta di Canne, rispetto a quelle che l'hanno preceduta, lo si vede dal comportamento degli alleati di Roma; prima di quel fatidico giorno, la loro lealtà rimase irremovibile, ora ha cominciato a vacillare per la semplice ragione che disperano del potere romano. »
(Polibio - Storie)

Nello stesso anno si ribellarono anche le città greche in Sicilia e il re macedone Filippo V, che aveva già promesso il suo appoggio ad Annibale dette inizio alla I Guerra Macedonica contro Roma. Il neo re Geronimo di Siracusa stipulò un'alleanza con Annibale.

Dopo la battaglia Maarbale, il comandante della cavalleria numida, esortò Annibale a cogliere l'opportunità e marciare immediatamente su Roma:
« Anzi, perché tu ben sappia quanto si sia ottenuto con questa giornata, fra cinque giorni banchetterai vincitore sul Campidoglio. Seguimi, io ti precedo con la cavalleria, affinché ti sappiano giunto prima di apprendere che ti sei messo in marcia»

Al rifiuto di Annibale Maarbale avrebbe esclamato:
« Gli Dei evidentemente non hanno concesso alla stessa persona tutte le doti: tu sai vincere, Annibale, ma non sai approfittare della vittoria».

Annibale secondo alcuni ebbe paura, secondo altri aveva buoni motivi per non rischiare: aveva perso molti uomini, e assediare Roma richiedeva costringere l'entroterra a garantire il proprio approvvigionamento ed impedire quello del nemico. Strano pensiero visto che quasi tutti fuggirono dalla nave che affondava, pure Capua, un tempo alleata di Roma, e altre città stato, cambiarono alleanza schierandosi con Cartagine.

Si dice che Roma avesse ancora forze considerevoli in Iberia, in Sicilia, in Sardegna e altrove, ma non ne disponeva a Roma, i suoi veterani, i suoi allenati legionari erano scomparsi, restavano dei giovinetti che si erano allenati solo nelle palestre. Inoltre il livello morale dell'Urbe era bassissimo, per le vie di Roma c'era il panico e probabilmente Annibale avrebbe avuto la meglio.
Non dimentichiamo però che furono legionari giovani e imberbi che Scipione allenò per mesi e mesi prima di recarli con sè in battaglia, convinto, come Mario e Cesare dopo di lui, che il buon generale forgia i buoni soldati.



NESSUNA RESA

Comunque subito dopo Canne, Annibale inviò Cartalóne a Roma per negoziare un trattato di pace con il Senato in termini moderati. Eppure, straordinariamente, il Senato romano rifiutò di trattare. Anzi mobilitò tutta la popolazione maschile romana e creò nuove legioni arruolando contadini senza terra e persino gli schiavi.

" Nel 1540 anno della fondazione di Roma i consoli Lucio Emilio e Publio Tenerzio Vanone vengono inviati contro Annibale e succedono a Quinto Fabio Massimo. Inoltre il dittatore Fabio li aveva esortati affinché non combattessero con Annibale comandante astuto e senza pazienza. Tuttavia, partito Fabio, a causa dell’impazienza del console Varrone si combattè presso Canne ed i consoli furono entrambi vinti da Annibale. In questa battaglia vennero uccisi tremila Africani e una grande parte dell’esercito di Annibale venne ferita. Ma anche i Romani subirono una gravissima strage. Infatti nella battaglia vennero uccisi il console Emilio Publio,venti ex consoli o pretori, trenta senatori vennero catturati ed uccisi, trecento uomini nobili, quarantamila soldati, tremilacinquecento cavalieri. E tuttavia in queste sventure nessuno dei Romani pensò di fare menzione di pace. Dopo questa battaglia molte città dell’Italia ,che erano state agli ordini dei romani, si diedero ad Annibale. Annibale, con varie torture,uccise i prigionieri e mandò a Cartagine tre maggi di anelli d’oro, che erano stati sottratti dalle mani dei cavalieri, senatori e soldati dei romani. "
(Eutropio)

Quindi la parola “pace” fu proibita, il lutto venne limitato a soli 30 giorni e l'esternazione del proprio dolore in pubblico fu vietata anche alle donne.


LA GRANDEZZA DI ROMA

Ecco lo straordinario ardimento dei romani: hanno perso tutto, i figli, gli armamenti, gli alleati. Ora le città amiche si defilano e passano dalla parte del nemico. Roma non ha un esercito, se Annibale, deluso e adirato per il rifiuto, la assedia, Roma deve tremare, perchè non ha nè esercito nè amici. Eppure, anzichè accettare la pace offerta da Annibale con moderate richieste, risponde: - Nessuna pace! -

Ricordiamo che i generali degli eserciti e i loro ufficiali non sono i guerrieri barbari che combattono coraggiosamente e se sopravvivono tornano alla tribù nelle capanne a litigare con la tribù vicina. Il guerriero barbaro dorme sulle stuoie e non sa nè leggere nè scrivere, sa solo che se muore in battaglia va nel paradiso degli avi.

I capitani romani quando non combattono vanno alle terme a fare i bagni, e poi vanno ai lauti banchetti rallegrati da danze e musica, e discutono di filosofia, di poesia e di teatro. I romani hanno molto da perdere, eppure hanno il fuoco nelle vene, e il popolo è d'accordo, piange ma è d'accordo: Roma non si arrende! 

Questo spirito fiero e guerriero accompagnerà la repubblica e l'impero, e i grandi generali saranno sempre centri di raffinata cultura, come nei circoli del generale Mecenate o dei generali Scipioni.
Tutto questo rimarrà fino all'avvento del cristianesimo, perchè i romani non correranno più alle armi, tesi a conquistarsi il paradiso futuro raccomandandosi a Dio. Il destino di Roma allora verrà affidato a quei guerrieri barbari che combatteranno per Roma da mercenari, quegli stessi barbari che da sempre i romani avevano sconfitto. E sarà la fine dell'impero.

Ma per ora i romani della sconfitta di Canne hanno un animo d'acciaio, e non accettano alcuna resa. Roma è troppo orgogliosa per arrendersi. Così i romani ricominciano l'addestramento dei giovani, non si piange e non ci si piega al nemico. La guerra riprenderà, ma tesa a catturare capisaldi e con un combattimento costante, secondo la strategia di Quinto Fabio Massimo.

Questo forse, più che i soldati perduti in battaglia, costrinse Annibale a ritirarsi a Crotone, da dove verrà in seguito richiamato in Africa per la battaglia di Zama, cioè per combattere di nuovo i romani, che conoscevano le sconfitte ma non la resa, perchè Roma non poteva essere tradita dai romani.

LUCIO COCCEIO AUCTO

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GROTTA DI COCCEIO

Nome: Lucius Cocceius Auctus
Nascita: Cuma I sec. a.c.
Morte: Roma I sec. a.c.
Professione: Ingegnere ed architetto

Lucio Cocceio Aucto  nacque a Cuma in data imprecisata nel I sec, a.c.e morì a Roma sempre nel I sec. a.c. restando famoso nei posteri come valentissimo architetto e ingegnere romano.

La gens Cocceia era plebea e se ne hanno cenni fin dalla repubblica, ed è la gens da cui provenne poi l'imperatore Nerva.
Alle dipendenze di Marco Vipsanio Agrippa, stratega di Augusto, realizzò importanti opere di ingegneria militare e civile.

CRIPTA NEAPOLITANA
Nel 37 a.c. progettò e realizzò il Portus Iulius, un imponente complesso portuale sul golfo di Pozzuoli, collegato con canali artificiali al lago Lucrino e al lago d'Averno; secondo Strabone,

Cocceio scavò anche un tunnel (detto Grotta di Cocceio) per collegare l'infrastruttura portuale con la città di Cuma.

Ma non fu questa la sua unica opera di traforo; nel territorio tra Cuma e Napoli realizzò, sempre secondo la testimonianza di Strabone, la Crypta Neapolitana, e probabilmente anche la Crypta Romana e la cosiddetta Grotta di Seiano.

Queste grotte venivano scavate all'epoca con asce a doppia lama, cunei e magli, strumenti che dagli stessi operai vennero immortalate scolpendole nella volta della Crypta Romana a Cuma.

Non si interessò solo alla costruzione di infrastrutture; nel 27 a.c., ancora per volere di Agrippa, edificò a Roma il primo Pantheon, distrutto poi da un incendio.

Nel 20 a.c., a Pozzuoli, su commissione del ricco mercante Lucio Calpurnio, si occupò del rifacimento del Capitolium, l'attuale duomo della città.

Vi sono però altre interpretazioni che non confermano la reale esistenza di Cocceio.

CRIPTA ROMANA
Nella Crypta Neapolitana (Grotta vecchia di Posillipo per raggiungere Napoli da Fuorigrotta), una breve iscrizione riporta:

L C O C C E I U S L C POSTUMI L A U G U S T U S A R C H I T E C T

L’iscrizione cosiddetta di Cocceio, secondo la tradizione etrusca degli acronimi, ponendo poche lettere in luogo di frasi note e di non porre alcuna interruzione tra una parola (o un’abbreviazione) e l’altra, ha dettato molti dubbi agli studiosi.

Ed ecco le iscrizioni:

LUCIO TARQUINIUS COMITIO CAUSSAM COICIUNTO EO IUNUS LUCRETIUS CONDIDIT HOC MONUMENTO POSTUMIUS COMINIUS AURUNCUS LARCIUS FLAVIUS AULUS SEMPRONIUS ATRATINUS MARCUS MINICIUS AUGURINUSTUS ALBUS REGILLENIS CURAVIT HOC INTRA LIMITEM VERGINIUS CAELIOMONTANUS TRICOSTUS

GROTTA DI SEIANO
Questa opera, come le altre che recano la medesima iscrizione (Basilica di Massenzio, Pantheon, Portus Iulius, la Crypta Romana, la cosiddetta Grotta di Seiano, la Dragonara a Miseno) venne dedicata, come se fossero Numi tutelari, ai primi Consoli Romani, esattamente quelli che governarono nel periodo 509-496 a.c.

Infatti nel 509 a.c. fu console Lucius Tarquinius Collatinus sostituito da Valerio Publicola e Horatio Pulvillus e Iunius Brutus, sostituito da Lucretius Tricipitinus nel 501 a.c. poi seguito da Postumius Cominius Auruncus e Larcius Flavius ai quali seguirono nel 497 a.c.

Aulus Sempronius Atratinus e Marcus Minucius Augurinus, nel 496 a.c. i Consoli Aulus Postumius Albus Regillensis e Verginius Tricostus Caeliomontanus antenato di Lucius Verginius Tricostus Esquilinus nel 402 a.c.

Questa stessa iscrizione appare anche nella Grotta omonima (detta anche “della Pace” nota poi in tutto il mondo come PAX ROMANA), galleria sotterranea che collega Cuma con il lago d'Averno.

Sappiamo tuttavia che la professione di architetto e ingegnere non era molto quotata nell'antica Roma, visto che non esistevano scuole in tal senso ma soprattutto si apprendeva militarmente dove si era
abituati a costruire fortini e ponti.

PORTUS IULIUS OGGI SOMMERSO
Insomma era una conoscenza che non si apprendeva a scuola ma con l'esperienza, il che dovrebbe far pensare molto sui lunghi anni che oggi gli architetti e ingegneri passano sui libri e quanti pochi nei cantieri.

Pertanto quasi mai si ponevano i nomi degli architetti ma in genere coloro che commissionavano le opere, e soprattutto durante la repubblica i consoli, in età imperiale gli imperatori presero spesso il primo posto e non di rado essi stessi erano capaci ingegneri, come Adriano.

Siamo dell'opinione che l'idea dell'acronimo sia un po' stiracchiata almeno per gli usi romani e che Cocceio fosse di certo non l'unico ma uno dei diversi ingegneri che collaborarono all'esecuzione o al restauro di molte opere monumentali romane.

PANTHEON
Ma c'è un particolare che convince particolarmente dell'esistenza di Lucio Cocceio.

A parte altre fonti è citato più volte da Strabone che ne parla e ne dichiara le opere, se fosse stato un acronimo sicuramente, essendo suo contemporaneo, (60 a.c. - 23 d.c.), ne sarebbe stato sicuramente a conoscenza.

A parte che questo uso degli acronimi è rarissimo in ambiente romano dove semmai si spezzavano le parole o si ponevano le sole iniziali di un nome specificandone però il cognomen, se Strabone ne parla come di un architetto sa quel che dice.

L'architetto di un alto dignitario o dell'imperatore stesso è un personaggio pubblico che tutti conoscono.

BATTAGLIA DI ZAMA

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La battaglia di Zama fu l'ultima battaglia della II guerra punica combattuta il 19 ottobre 202 a.c. fra truppe romane e cartaginesi nella località di Zama. Determinò il tramonto della potenza punica a favore di Roma sul Mediterraneo.


LE FONTI

Ci restano due tradizioni sulla battaglia di Zama:
- una di Tito Livio (59 a.c. - 17) e Polibio, (206 - 124 a.c.), seguita dalla maggior parte degli storici moderni, 
- l'altra di Appiano (95 - 165) e Cassio Dione (155 - 235), meno attendibili per molti, a parte il Saumagne.

Le due versioni presentano discrepanze di ordine topografico, strategico, tattico, numerico e cronologico. I testi antichi, anche quelli storici, mancano spesso di obbiettività, o perchè interessava più l'aspetto letterario e romanzato, o perchè scritti da generali che volevano esagerare le loro glorie sui campi di battaglia, o perchè volevano osannare i romani per far piacere agli imperatori. 

DIALOGO TRA SCIPIONE ED ANNIBALE PRIMA DELLA BATTAGLIA


PROTAGONISTI


PUBLIO CORNELIO SCIPIONE (235 - 183 a.c.)

Grande generale e uomo politico romano.  
Nel 211 a.c., a soli 24 anni, ma già molto esperto, avendo alle spalle ben 7 anni di servizio militare, fu inviato in Spagna dal senato e dai comizi come proconsole per riprendere il controllo dell’Iberia. Il giovane condottiero romano iniziò una guerra spietata contro gli insediamenti cartaginesi ottenendo numerose vittorie,
nel 209 a.c. condusse con successo un attacco a sorpresa contro il quartier generale dell'esercito cartaginese stanziato a Carthago Nova (l'odierna Cartagena);

SCIPIONE
- nel 208 a.c. a Baecula sconfisse il generale cartaginese Asdrubale, che comunque varcò i Pirenei e giunse in Italia per portare aiuto al fratello Annibale.

- Riuscì invece a conquistare Cadice, allontanando definitivamente dalla Spagna l'esercito cartaginese.

- Eletto console nel 205 a.c., tra il 204 e il 203 a.c. guidò una campagna militare in Africa settentrionale, sconfiggendo i Cartaginesi ai Campi Magni (l'odierna Suk al-Khamis, in Tunisia). 
- Annibale fu allora richiamato dall'Italia e Scipione ottenne su di lui una vittoria decisiva nella battaglia di Zama (202 a.c.). Per questa vittoria, che mise fine alla seconda guerra punica, Scipione fu soprannominato "Africano".

- Nel 190 a.c., durante il consolato del fratello Lucio Cornelio, fu il suo consigliere nella guerra contro il re seleucide Antioco III, che si concluse con la disfatta dell'esercito siriaco a Magnesia, in Asia Minore.
- Rientrato a Roma, Scipione fu accusato dal suo avversario politico Marco Porcio Catone di avere accettato denaro da Antioco e subì un processo. Assolto dalle accuse, si ritirò dalla vita pubblica nella propria villa di Literno, in Campania.



ANNIBALE BARCA (247 – 183 a.c.)

Considerato uno dei più grandi strateghi della storia, diventò famoso per le sue vittorie nella II guerra punica.
ANNIBALE
Figlio di Amilcare Barca, che gli aveva inculcato l’odio contro Roma, succedette a soli 25 anni al cognato Asdrubale nel governo dei territori spagnoli.

Dopo due anni trascorsi a completare la conquista dell’Iberia mise sotto assedio Sagunto (che cadde nel 219 a.c.), città alleata a Roma, e diede inizio alla II guerra punica che da lui si disse "guerra annibalica", poiché ne fu l’abile protagonista.

Partito dalla Spagna, col suo esercito attraversò i Pirenei e le Alpi, scese quindi in Italia dove sconfisse le legioni romane:

- al Trebbia (218 a.c.),

- al Lago Trasimeno (217 a.c.)

- a Canne (216 a.c.).

Dopo la vittoria di Scipione in Tunisia fu richiamato in Africa nel 204 a.c. per difendere Cartagine e venne poi sconfitto da Scipione a Zama nel 202 a.c.
Dopo la sconfitta definitiva di Zama fu esiliato in Siria dal re seleucide Antioco III nel 195 a.c. e successivamente, dopo la sconfitta di Antioco III da parte dei Romani, in Bitinia presso il re Prusia I 
nel 189 a.c. Qui si tolse la vita nel 183 a.c. per non cadere nelle mani dei Romani.



I PREGRESSI

- 216 a.c. - Il disastro di Canne (216 a.c.), con l'annientamento da parte di Annibale delle otto legioni comandate da Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone sembrava aver deciso la sorte di Roma a favore di Cartagine. Ci volle la strategia temporeggiatrice di Fabio Massimo per evitare la fine della repubblica.

Il senato si dedicò subito alla riorganizzazione dell’esercito. Annibale dal canto suo, deluso dalla mancata defezione dal campo romano della maggior parte degli alleati italici della Repubblica, fece una dimostrazione in forze davanti alle mura di Roma, ma privo delle adeguate strutture per l'assedio, dovette tornare nell'Italia meridionale per consolidare il suo esercito.
Naturalmente fiorirono le leggende e si disse che il Dio romano Redicolo apparve ad Annibale, dopo la battaglia di Canne, che aveva percorso la via Appia Antica arrivando fino alle porte di Roma. Il Dio aveva assunto una sembianza così spaventosa da indurre Annibale a tornare indietro con tutto l'esercito.

- 212 a.c. - Dal suo canto Roma, limitandosi a tenere sotto controllo i movimenti di Annibale nell'Italia del sud, aveva già nel 212 formato 22 legioni, più di quante ne avesse prima di Canne.

- 207 a.c. - Asdrubale riuscì a varcare i Pirenei e ad entrare in Italia, ma fu duramente battuto sul fiume Metauro, nelle Marche. Annibale aveva certamente bisogno di rinforzi, ma per capovolgere definitivamente le sorti del conflitto aveva bisogno di un generale dell’abilità e dell’esperienza del fratello al comando di truppe numerose.
La testa mozzata del fratello, che i Romani fecero arrivare nel campo cartaginese, troncò ad Annibale le speranze di ricevere aiuti dalla madrepatria. Le uniche basi e gli unici alleati che gli rimanevano erano nel Bruzio, che cercò di raggiungere evitando qualsiasi scontro con i romani.

- 206 a.c. - Asdrubale di Giscone e Magone Barca, nel 206, affrontarono di nuovo i romani in Spagna ma, alla battaglia di Ilipia, Scipione sconfisse decisamente anche Asdrubale di Giscone cacciando definitivamente la dominazione cartaginese e il suo esercito dalla Spagna.
Dopo questa serie di pesanti sconfitte, seguite alle vittorie iniziali, i cartaginesi richiamarono Annibale dall'Italia che tornò sul suolo africano, dopo 20 anni di battaglie, ad Hadrumetum (Susa - Tunisia),

- 205 a.c. - Rientrato a Roma nel 205 Scipione fu nominato console e da questa posizione tentò di convincere il Senato ad appoggiarlo nel suo progetto: portare la guerra in Africa per sconfiggere definitivamente Cartagine. I senatori sapevano di poter battere Cartagine ma non consideravano necessario un intervento immediato perché al momento Roma non era in condizioni di pericolo, inoltre la presenza di Annibale in Italia non poteva protrarsi all’infinito, cosa tra l’altro trascurabile per la marginalità strategica ed economica del possesso cartaginese.

Fabio Massimo, sorretto da larga parte del Senato e sostenitore della pace, considerava la proposta di Scipione un’impresa dall’esito incerto e un rischio inutile, perché la minaccia di Annibale poteva tornare a farsi sentire.

Secondo Scipione invece Annibale non era più una minaccia; lui che aveva guidato le legioni romane alla conquista dei territori iberici battendo nemici superiori per numero e fama, era convinto di poter sconfiggere Annibale sul proprio territorio segnando la fine di Cartagine per incoronare Roma regina del Mediterraneo.

INIZIO DELLA BATTAGLIA
Il popolo sostenne Scipione, e al popolo romano i senatori non potevano dire di no, per cui gli fu assegnata come provincia consolare la Sicilia, con l’autorizzazione a partire per l’Africa, ma non gli fu concesso di reclutare nuove legioni, poteva arruolare volontari e doveva accontentarsi della V e VI legione presenti in Sicilia, erano i reduci della sconfitta di Canne cui si erano aggiunti gli sconfitti delle due battaglie di Herdonea.

Ma i reduci della sconfitta di Canne erano quelli che il giovanissimo Scipione aveva rincuorato e incoraggiato a seguirlo quando tutto era perduto, promettendo loro di portarli alla salvezza, e così fece. I legionari salvati avevano ora cuore solo per due cose, dimostrare al loro capitano l'immensa gratitudine per averli scampati da morte certa, e il desiderio fortissimo di riabilitarsi dalla terribile sconfitta agli occhi del popolo romano.

I romani infatti avevano grande rispetto per i legionari perchè da loro dipendeva la sicurezza della patria, e ne seguivano costantemente le gesta attraverso i messi che giungevano a Roma. Si formava così una specie di tifoseria per l'uno o l'altro capitano o soldato che avessero compiuto gesta particolari.

Ora tutta Roma osannava quel giovinetto intelligente e coraggioso che aveva saputo porsi a capo di incalliti veterani per condurli alla salvezza quando tutto sembrava perduto, inclusa la sicurezza di Roma.

205 a.c. - Scipione arrivò in Sicilia con 7.000 volontari, prese contatto con le truppe, e cominciò l’addestramento che per lui era tutto. Non sarebbe partito fino a quando i suoi uomini non avessero assimilato i suoi schemi tattici che erano alla base di tutte le sue vittorie.

204 a.c. - Scipione salpò da Lilibeo (Marsala) con 16.000 fanti e 1.500 cavalieri, aveva trasformato un gruppo di volontari e veterani esiliati in una macchina da guerra perfetta, la più efficiente che Roma abbia mai visto.

- 203 a.c. - Annibale abbandona l'Italia nell'autunno del 203. Vedeva di giorno in giorno diminuire i propri alleati e le proprie forze in scaramucce ed assedi, in una guerra di logoramento nella quale il suo genio non sarebbe mai potuto brillare. Imbarca solo i migliori tra i suoi uomini sacrificando cavalli e gli animali da soma. Non ci sono nè il tempo nè le risorse.
I cartaginesi riconoscevano il valore di Annibale ma lo temevano: davanti al senato romano i messi di Cartagine che chiedevano la pace dissero che la guerra era un equivoco: una questione personale di Annibale che aveva disobbedito agli ordini della città.
Appena sbarcato con i suoi 15.000 veterani, riassettò l'esercito, ricevendo reclute da Cartagine e i mercenari di Asdrubale Giscone (... - 202 a.c.) e Magone Barca ( 219 - 203 a.c.), per prepararsi a combattere la battaglia decisiva.
Publio Cornelio Scipione era già sbarcato in Africa nel 204 a.c., dove iniziò subito le battaglie contro i generali nemici sconfiggendoli tutti e perfezionando la sua tattica d'accerchiamento che ora riusciva a fare anche senza cavalleria. Aveva inoltre ottenuto l'alleanza del principe in esilio, Massinissa (229 - 148), fornendogli aiuti per riconquistare il trono, usurpato da Siface, alleato di Cartagine. Il giovane principe ricambiò offrendo la sua amicizia e la sua preziosa cavalleria, che tanto aveva aiutato Annibale.

Le truppe di Magone arrivarono subito dopo quelle di Annibale, e furono almeno in gran parte avviate ad Hadrumentum. I cartaginesi, certi di vincere, rifiutarono il trattato di pace offerto da Scipione, che non sperava altro e che reagì devastando i territori dell'interno della Tunisia, inoltre richiamò Massinissa e la sua cavalleria, impegnati a sedare delle rivolte in Numidia, Massinissa per combattere contro Vermina, si era spinto molto in là, fino ai confini della Mauretania.



Scipione sbarcò presso Utica (porto Farina) e la assediò. Le sue legioni furono finalmente rinforzate dall'arrivo della cavalleria numida del principe Massinissa. Intanto i cartaginesi con 30.000 fanti e 3.000 cavalieri guidati da Asdrubale e il re dei numidi Siface, alleato di Cartagine, stava risalendo il corso del fiume Bagradas con 50.000 fanti e 10.000 cavalieri. Le due armate nemiche posero i campi a una dozzina di km a sud del campo romano.

Scipione a Roma aveva diversi nemici, stava per affrontare «...non Siface, re di gente barbara e rozza oppure Asdrubale, comandante noto per le sue fughe, oppure eserciti raccogliticci adunati in fretta con una folla mezzo armata di contadini, ma avrebbe dovuto affrontare Annibale divenuto vecchio in mezzo alle vittorie ed un esercito mille volte cosparso di sangue romano»
(Livio, XXX 28 3-5).

- 203 a.c. - Scipione attaccò gli accampamenti numidi e punici riportando una grande vittoria. Secondo le cifre riportate dagli storici i morti furono 40.000, con pochi scampati, tra cui Siface e Asdrubale, mentre da parte romana le perdite furono dell’ordine delle decine. 

Vinse ancora ai Campi Magni, (Suk Al-Khamis - Tunisia), dove mise in rotta l’esercito improvvisato di Cartagine, guidato ancora una volta da Asdrubale e Siface. Ottenuti questi successi, Scipione pose il campo a Tunisi minacciando l’assedio a Cartagine, comunque sempre difesa da poderose mura.

Il gran consiglio cartaginese, ora in preda al panico, richiamò in patria Annibale e il suo esercito. Era quello che Scipione desiderava, fiducioso di poter sconfiggere Annibale in una battaglia campale.

- 202 a.c. - Verso la primavera del 202, dunque, le forze di Scipione erano ancora divise e distanziate da settimane di marce ma il carattere di Scipione, con la sua enorme calma e sicurezza placava tutti gli animi. 

Un convoglio di 30 da navi guerra e 200 navi onerarie cariche di rifornimenti per Scipione, fu travolto da una tempesta e disperso. Le onerarie vennero catturate dai cartaginesi. A Scipione erano giunte notizie, subito comunicate ai cartaginesi, che il senato romano aveva ratificato gli accordi di pace. Ma Scipione non era d'accordo.

Le devastazioni di Scipione avevano annientato le ricchezze dei grandi proprietari terrieri e dei mercanti cartaginesi, per cui sollecitarono Annibale ad affrontare i romani. Ma Annibale rimaneva ad Hadrumentum, addestrando con cura le sue milizie. Egli era in attesa che si risolvesse il confronto tra Massinissa e Vermina, onde poter contare sulle forze di quest'ultimo..

Finalmente Annibale tolse il campo e giunse a Zama, a circa 140 km in linea d'aria tanto da Hadrumentum quanto da Cartagine. Annibale doveva verificare se Massinissa non si fosse già ricongiunto con Scipione. Diede incarico a tre esploratori di accertare la situazione: ma questi furono catturati e condotti da Scipione, che fece fare loro il giro dell'accampamento, si assicurò che avessero visto tutto, e li rimandò indietro con una scorta romana affinché tornassero sani e salvi da Annibale

Si pensa che Scipione volesse far notare l'assenza di Massinissa che comunque er abbastanza vicino..
Fatto sta che Annibale chiese un colloquio a Scipione, il quale accettò solo all'arrivo di Massinissa.
Scipione era un genio della strategia, forse pari o comunque vicino al grande Giulio Cesare. Anche Annibale però fu un grandissimo stratega e tra i due uomini vi fu sempre un grande rispetto reciproco, non consueto per Annibale che spesso disprezzava i suoi nemici romani:

Scipione si recò fino ai pressi di Narraggarra, e annunciò ad Annibale che si poteva iniziare a discutere del luogo migliore per i colloqui. Annibale seguì Scipione verso ovest, spostando il proprio campo nei pressi di Sicca Veneria Entrambe le armate erano lontanissime dalle loro basi, ma mentre per Annibale Hadrumentum sarebbe stata un rifugio sicuro in caso di sconfitta, per Scipione i Castra Cornelia erano solo un punto di imbarco.

Come narrano Polibio e Livio. Annibale cerca di convincere Scipione, a non rischiare una sconfitta, ma di stipulare una pace più giusta per Cartagine, perché "oggi sei tu quello che io fui a Trasimeno e a Canne" (Livio XXX 30 12).

Annibale ha 45 anni, con molta più esperienza di Scipione che ha solo 33 anni, ma che in realtà sta nell'esercito da 16 anni. E' giovane, risoluto, ammira Annibale di cui riconosce il valore tattico ma comunque è certo di poterlo battere. Scipione chiede la guerra e guerra fu..


LUOGHI DELLA BATTAGLIA

Il luogo della battaglia di Zama non è certo; è stata di recente collocata a Naraggara (per es. da De Sanctis) o a Margaron (da Veith); ma senza prove inoppugnabili. Dalla  "Storia del mondo Romano", vol 1. di Howard. H. Scullard:

"Nell'Africa settentrionale vi erano probabilmente due città chiamate Zama (una terza a Sidi Abd el Djedidi, a nord-ovest di Kairouan, non era forse chiamata Zama). Zama Regia era con ogni probabilità Seba Biar, ma questo insediamento può essere scomparso e la Zama dell'impero romano può essersi trovata nell'odierna Jama: vedi Scullard, Scipio (1970), pag. 271 segg. Una volta determinati approssimativamente i paraggi di Zama, i luoghi esatti sono meno importanti per le operazioni militari, dal momento che a Zama c'era evidentemente solo l'accampamento di Annibale, prima della sua avanzata finale a ovest verso il campo di battaglia. Dal canto suo, Scipione si accampò a Naraggara (Livio; Polibio indica Margaron, che è altrimenti sconosciuta), ma è impossibile individuare in quella zona un campo di battaglia adatto. Il luogo più probabile è quello proposto da Veith (Atlas, col. 40, Schlachtfelder, IV, p. 626 segg.) nella pianura di Draa-el-Metnam, a circa tredici chilometri da El Kef, pressappoco a metà strada tra Naraggara e Zama (Seba Biar). Un sopralluogo ha corroborato in chi scrive la convinzione della plausibilità di questa collocazione, su basi geografiche oltre che letterarie. La maggior parte della letteratura sulla questione è vagliata criticamente da Veith, Schlachtfelder, III, pag. 599 segg. e IV, p. 626 segg., sebbene egli stranamente trascuri la valida versione data da De Sanctis, SR, III, 2, pp. 549 segg., 588 segg., che apparve prima che egli pubblicasse il suo quarto volume. Per la discussione di un'altra collocazione, proposta da F. H. Russell (Archeology, 1970, p. 122 segg.), vedi Scullard in Polis and Imperium, Stud. in Hon. of E. T. Salmon (a cura di J. A. S. Evans, 1974), p. 225 segg. (dove ho corretto il nome della collina su cui Scipione si accampò da Koudiat el Behaima a Koudiat Sidi Slima)."




FORZE IN CAMPO

I ROMANI

- Fanteria: 
  • 23.000 Romani e Italici (Appiano), 
  • 6.000 Numidi (Liv., XXX, 29, 4; Pol., XV, 5, 12) 
  • 900 berberi (De Sanctis).
- Cavalleria: 
  • 1.500 Romani e Italici (Appiano), 2.400 tra Romani e Italici (secondo Livio),
  • 4.000 Numidi (Liv.,  Pol.), 
  • 600 Berberi (Appiano). 
  • 300 cavalieri romani, particolarmente addestrati e molto ben equipaggiati, che Scipione aveva addestrato in Sicilia.


I CARTAGINESI

- Fanteria: 
  • 12.000 mercenari tra Liguri, Celti, Baleari e Mauri (Pol., XV, 11, 1), 
  • 15.000 Libi e Cartaginesi, 
  • 15.000 veterani della campagna d'Italia 
  • 4.000 macedoni (Liv., XXX, 26, 3).
- Cavalleria: 
  • 2.000 Cartaginesi, 
  • 2.000 Numidi.
- Elefanti: 80 (Liv., XXX, 33, 4)



GLI ESERCITI

L'ESERCITO ROMANO

La legione romana era generalmente schierata “a scacchiera” su tre file di combattimento divise in manipoli. La prima fila era formata dai manipoli degli hastati, intervallati dallo spazio di un manipolo; dietro al quale si locavano i manipoli dei principes, che si schieravano sulla seconda fila; l’ultima fila era formata dai triarii che coprivano gli intervalli lasciati vuoti dai manipoli dei principes.

Gli hastati e i principes, sempre piuttosto giovani, erano equipaggiati con un elmo di bronzo, una corazza e un grande scudo ovale. L'armamento era composto di due giavellotti di peso diverso (s. pilum - pl. pila) e da una spada corta per il corpo a corpo dopo avere scagliato i giavellotti.

La fanteria leggera era costituita dai velites, soldati giovanissimi a supporto del manipolo. Portavano un elmo di bronzo, spesso coperto da una pelle di lupo, uno scudo rotondo (Parma), alcuni giavellotti leggeri e una corta spada di tipo italico o spagnolo come quella dei fanti pesanti.

I legionari meno giovani formavano i manipoli dei triarii che nello schieramento della legione erano disposti in terza fila. Erano equipaggiati come i principes e gli hastati, ma al posto del pilum avevano lunga lancia di tipo oplitico. I triarii erano una riserva mobile alle spalle della legione, o per respingere con le lunghe aste gli attacchi dei cavalieri nemici, o per attaccare i fianchi o il retro delle formazioni avversarie.


I Romani di Scipione

- Al centro: le legioni, 
  • in prima linea gli astati, 
  • seconda linea i principi
  • terza linea i triari. 
I manipoli non erano schierati a scacchiera, come erano soliti fare i romani, ma ogni manipolo di principi era allineato perfettamente al corrispondente degli astati sul fronte dell'esercito, per permettere il passaggio degli elefanti senza troppi danni negli ampi spazi così liberati (Liv.  Pol.). 
Per rafforzare il fronte, tra un manipolo e l'altro di astati furono sistemati i veliti, con l'ordine di iniziare la battaglia e di ritirarsi dietro l'esercito lasciando liberi i corridoi verticali.

- Ala Sinistra: cavalleria italica guidata da Gaio Lelio (Liv. Pol.) e probabilmente anche i cavalieri berberi di Damacas.
- Ala Destra: cavalleria e fanteria numidica guidata da Massinissa (Liv. Pol.).



L’ESERCITO CARTAGINESE

L’esercito cartaginese era formato da truppe mercenarie reclutate tra le popolazioni soggette al dominio cartaginese. Popoli diversi con lingue diverse e diversi stili di combattimento. Nella II guerra punica vennero reclutati nell’entroterra africano, come i famosi cavalieri leggeri numidi, e la fanteria pesante libo-fenicia, nonchè i coloni iberici, con un'ottima fanteria medio-leggera e una buona cavalleria.
Le vittorie di Annibale in Italia fecero accorrere nel suo esercito i Galli della pianura padana e molti Italici del centro-sud.
Nel corso della campagna di Annibale, le sue truppe spesso si riequipaggiarono con il materiale catturato ai Romani sul campo di battaglia, e saranno questi i suoi “veterani” a Zama.


L'esercito di Annibale aveva:
- una fanteria di: 
  • 15.000 veterani d'Italia, molti dei quali Italici o Spagnoli, 
  • 15.000 fanti Libi e Cartaginesi, poco abili sul campo, 
  • 12.000 mercenari tra Liguri, Celti, Balearici e Mauritani più 4.000 Macedoni. 
- una cavalleria di:
  • 2.000 cartaginesi 
  • 2.000 numidi. 
Inoltre 80 elefanti africani delle foreste, più piccoli di quelli delle savane, ma comunque pericolosi.


Schieramento cartaginese:
- Al centro: 
  • davanti a tutti  80 o più elefanti, 
  • dietro questi la prima linea di fanteria formata dai mercenari; 
  • in seconda linea si trovavano i libi e i cartaginesi. e forze inviate dalla Macedonia in aiuto dei punici guidate da Soprato (Liv.);  
  • in terza linea, distanziati di uno stadio (Pol.), cioè circa 200 m, i veterani della campagna italica di Annibale.
- Ala sinistra: cavalleria numidica
- Ala destra: cavalleria cartaginese



LA BATTAGLIA

Annibale, come Scipione aveva previsto, lanciò la carica degli elefanti. 
Però i romani avevano avevano già avuto a che fare con questi giganteschi animali; che se da un lato si lanciavano pungolati dai loro padroni, dall'altro si frastornavano se udivano suoni forti e acuti.

Infatti i romani iniziarono a trarre suoni acutissimi dalle trombe, batterono sugli scudi e innalzarono alte grida, al che gli elefanti si imbizzarrirono.

Così gli animali fuggirono volgendosi contro la cavalleria numidica dell'ala sinistra cartaginese che si scompaginò. Scipione ne approfittò mandando Massinissa, che era stato posto di fronte a questa, con i suoi cavalieri, per sbaragliare gli avversari già disorientati..

LOCALIZZAZIONE DEGLI ESERCITI
Tuttavia qualche elefante non imbizzarrito proseguì la corsa iniziale avventandosi sui romani, Subentrarono allora i veliti a bersagliare da distanza i pachidermi, che per sfuggire ai dardi, cercarono di fuggire, trovando aperti gli spazi che i manipoli degli hastati romani avevano liberato, tirandosi di lato e creando dei corridoi nello schieramento romano.

Una strategia simile a quella di Annibale l'aveva usata il re indiano Poro contro l'esercito macedone di Alessandro Magno nella battaglia di Idaspe, ponendo gli elefanti in prima linea.

Comunque i Romani già conoscevano gli elefanti: infatti, nella battaglia di Benevento (275 a.c.) riuscirono ad avere la meglio sulle truppe epirote e tarantine, facendo scagliare dai propri arcieri frecce infuocate e torce contro le torri montate dagli elefanti, in modo da far imbizzarrire i pachidermi e creare così scompiglio tra le stesse truppe amiche (Floro, I, XVIII).

(Livio e Polibio riferiscono che ottanta elefanti furono utilizzati da Annibale nella battaglia di Zama, undici dei quali furono poi portati a Roma. Tra le condizioni di pace imposte ai Cartaginesi, Polibio ci informa che era richiesta anche la consegna di tutti gli elefanti.)
Colpiti dai veliti, che si erano riparati dietro le file degli hastati, e dai principes, questi elefanti fuggirono addosso all'altra ala della cavalleria cartaginese.

Le prime file di Annibale come previsto arretrarono fra le seconde file, mentre la cavalleria fuggì inseguita da Massinissa e Lelio.
La cavalleria romana in effetti non temeva rivali, i cavalieri sapevano tirare da cavallo, salire o scendere al volo, sapevano far saltare grossi ai cavalli e pure comandarli con la voce.

Gli astati romani ebbero la meglio sulla prima linea cartaginese che del resto erano quasi tutti mercenari, che iniziò ad arretrare. 

Ma la seconda linea formata dai veterani di Annibale resistette e ingaggiarono i corpo a corpo della fanteria. Ala fine gli astati di Scipione erano stanchi per cui subentrarono i principi che contrattaccarono seriamente.

Scipione tentò di ripetere la manovra dei Campi Magni e mosse le sue file di principi e triari sui fianchi per accerchiare le forze di Annibale, ma i veterani che Annibale teneva di riserva nella terza linea, ne rimasero fuori, e Inoltre lo spazio tra loro e i romani era disseminato di cadaveri, formando una barriera invalicabile.

Scipione dovette rinunciare e far retrocedere le seconde file per reggere l'urto dei cartaginesi. Inoltre i corridoi creati per far fuggire gli elefanti, non permettevano l'utilizzo della tattica manipolare, che necessitava di una disposizione a scacchiera. Perciò, gli hastati furono i più penalizzati nell'urto del combattimento. 

Ora la battaglia per i romani era diventata molto dura, e i fanti erano stanchi.
Però le cose non stanno proprio così perchè Scipione non ha fallito la sua manovra a tenaglia.

Aveva si fatto compiere ai suoi legionari il movimento sui fianchi, già utilizzato con successo in precedenza, ma questa volta solo per estendere da entrambi i lati il fronte degli hastati non per aggirare il nemico.

Così il fronte romano risultò pari o di poco superiore a quello cartaginese ma con principes e triarii, finora poco impegnati, che si trovarono a combattere sulle ali contro forze più stanche, anche se gli hastati, impegnati finora nello scontro, dovevano ora vedersela con i veterani cartaginesi ancora freschi.

La manovra geniale di Scipione aveva esteso il suo fronte, assottigliando i ranghi fino a coprire tutto il fronte punico, evitando così un possibile accerchiamento da parte dei cartaginesi.. Però ora i romani dovevano arrivare allo scontro frontale con un nemico che li soverchiava per numero e per la maggiore freschezza.

La cavalleria avversaria era dispersa, ma pure quella di Scipione che li inseguiva e che venne tosto richiamata. Finalmente tornarono Lelio e Massinissa con i loro cavalieri e si avventarono alle spalle delle forze cartaginesi, accerchiandoli e massacrandoli. Annibale aveva contato di poter fiaccare i romani sullo scontro con ben tre linee: elefanti, mercenari, e soldati cartaginesi, prima di arrivare al confronto decisivo con i veterani dell'ultima linea, dove i romani dovevano essere ormai stanchissimi.

Ma i legionari romani non erano soldati qualsiasi. Non era la leva dei contadini che abbandonavano il campo per una guerra tornandovi l'anno dopo. Erano volontari scelti e addestrati in tutti i modi e con tutti i tempi. 

Scipione, come Cesare, addestrava i suoi uomini col sole e con la pioggia, e magari con la neve, di giorno e di notte, con un compito molto specialistico per ciascuno ma in grande sintonia con gli altri.

La legione romana era un corpo unico e come tale funzionava senza personalismi o privilegi. 

I romani sapevano combattere bene e a lungo, e i veterani di Annibale non poterono competere con quelli di Scipione, seppure più stanchi. 

Come al solito i romani ebbero la meglio.

Finita la battaglia iniziò I'inseguimento e il massacro, come era accaduto a Canne sui romani, ma stavolta era sui cartaginesi.. 

Annibale riuscì a fuggire verso Cartagine. Scipione aveva avuto la sua battaglia campale e come ne aveva avuto in anticipo la certezza, aveva vinto.
Cartagine era finita.



IL CONTO FINALE

- Perdite romane
1.500 - secondo altri 4000, metà dei quali numidi

- Perdite puniche
24.000 morti secondo altri 20000
circa 15.000 prigionieri - secondo altri 10000

- Bottino dei Romani
11 elefanti
132 insegne militari



LE CONSEGUENZE

La vittoria di Zama pose fine alla II guerra punica (219-202 a.c.) e sancì il crollo della potenza cartaginese nel Mediterraneo.

Cartagine che per sessant’anni aveva conteso a Roma il predominio sul Mediterraneo occidentale, era sconfitta per sempre.

Roma non fu tenera con la sua rivale:  le fece smantellare completamente la flotta da guerra, consentendole solo poche decine di navi, tutte le colonie cartaginesi in Spagna passavano al dominio romano; in più Cartagine doveva pagare un pesantissimo tributo che per cinquant'anni avrebbe gravato sulla sua economia.

Mezzo secolo dopo ci sarebbe stata una III guerra punica, culminata con la distruzione di Cartagine, ma fu la vendetta su una vendetta su di una rivale già distrutto.

Per paura della vendetta romana la città costrinse il grande Annibale, il vincitore di tante battaglie, ad andare in esilio presso il re di Siria Antioco III; ma dopo la sconfitta di quest'ultimo contro i Romani in Bitinia, Annibale si avvelenò per non essere consegnato a Roma.


PALMYRA (Siria)

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IL DECUMANO MASSIMO

Ricordiamo Palmyra com'era, prima dell'avvento dell'isis..


TADMOR (o Tadmur)

Palmira fu in tempi antichi un'importante città della Siria, posta in una oasi 240 km a nord-est di Damasco e 200 km a sud-ovest della città di Deir ez-Zor, che si trova sul fiume Eufrate. Il nome greco della città, Palmyra, è la traduzione dell'aramaico, Tadmor, che significa 'palma'.

Oggi appare come una distesa di rovine monumentali nel deserto, ma durante l'Impero Romano Palmira fu una delle metropoli commerciali più vive, come testimoniano le fonti storiche e archeologiche.

È stato per lungo tempo un importante centro carovaniero, tanto da essere soprannominata la Sposa del deserto, per i viaggiatori ed i mercanti che traversavano il deserto siriaco per collegare l'Occidente (Roma e le principali città dell'impero) con l'Oriente (la Mesopotamia, la Persia, fino all'India e alla Cina), ed ebbe un notevole sviluppo tra il I ed III sec. d.c.

L'archeologo Jørgen Christian Meyer nel 2008 ha iniziato a rilevare l’area montuosa a nord di Palmira. I terreni su cui si è concentrata la ricerca di Meyer, più di 100 Kmq, su cui ingegnosamente veniva incanalata l’acqua piovana verso la pianure, rendendo così possibile l’agricoltura.

Gli archeologi vi hanno individuato i resti di più di 20 villaggi raggiungibili da Palmira in pochi giorni di cammino, che si aggiungono ai 15 insediamenti precedentemente scoperti da un altro gruppo di ricercatori nella zona ad ovest della grande metropoli antica.

Gli archeologi hanno anche trovato le tracce di una vasta rete di serbatoi e canali artificiali che raccoglievano e convogliavano l’acqua in occasione degli improvvisi temporali stagionali.

Il paesaggio intorno alla città era quindi caratterizzato da colture - tuttora diffuse in Siria - di olivi, fichi e pistacchi come testimoniano i resoconti romani. Veniva coltivato anche l’orzo, come dimostrano le analisi polliniche condotte su un mattone di fango proveniente dalle aree rilevate da Meyer.

Si è discusso sui cambiamenti climatici nell’antichità e alcuni ricercatori si affidano a questa spiegazione; ma oggi si sa che il clima non è mutato granchè negli ultimi duemila anni. Anche se la zona a nord di Palmira è una steppa desertica,  potrebbe avere un enorme potenziale per l'agricoltura se si investissero tempo ed energia nel controllo delle risorse.

Il fatto è che un tempo si usufruiva di ogni pioggia con cisterne e canali, nel massimo rispetto della natura, mentre oggi o si parla di centrali idroelettriche che inquinano ma che piacciono a multinazionali e a governanti, oppure non si provvede a nulla perchè ci si arricchisce solo la popolazione.

I suoi antichi abitanti riuscivano a catturare e canalizzare dai 12 ai 15 centimetri di pioggia ogni anno. Le testimonianze archeologiche indicano che questo sistema durò fino a circa il 700 d.c., periodo in cui iniziò il declino della città.

In effetti, anche se la fonte sulfurea che alimentava l'oasi di Palmira sembra esaurita, ma oggi Tadmor, con un sistema di irrigazione del terreno, riesce a mantenere viva una fiorente oasi che permette ai 45.000 abitanti di vivere non solo di turismo ma anche di agricoltura.

BAAL, YARHIBOL E AGLIBOL


LA STORIA

I più antichi ritrovamenti di insediamenti umani risalgono a ben 75.000 anni fa. La prima documentazione storica di Palmyra risale al XIX a.c. in un contratto assiro rinvenuto a Kültepe in Cappadocia (Anatolia), dove si fa riferimento al nome Puzur-Ishtar di Tadmor antico nome di Palmyra, nome che mantiene tuttora la città vicina al sito archeologico.

La città di Tadmor è menzionata così negli archivi assiri di Kanech, in Cappadocia, nel XIX secolo a.c., e poi è citata più volte negli archivi di Mari, nel XVIII secolo a.c., dove si parla di personaggi palmireni e di Palmyra; un'altra tavoletta, del XIV-XIII secolo a.c., ritrovata a Meskenè sull'Eufrate parla sempre di personaggi palmireni e ha l'impronta del sigillo di uno di questi. In epoche successive Palmyra è stata abitata dagli Amorrei, Aramei e Arabi.

Poi viene citata ancora negli archivi assiri, nell'XI secolo a.c., come Tadmor del deserto. A quel tempo era solo una città commerciale nella estesa rete commerciale che univa la Mesopotamia e la Siria settentrionale.

Tadmor è citata anche nella Bibbia come una città del deserto fondata e fortificata da Salomone, nel Primo libro dei Re, ma in realtà esistente molto prima.

Non si sa più nulla di Palmira fino al I sec. a.c., quando la città viene citata col nuovo nome, assegnatole durante il regno dei Seleucidi (IV - I sec. a.c.).



I Seleucidi

Quando i Seleucidi presero il controllo della Siria nel 323 a.c. la città fu abbandonata a sé stessa e divenne indipendente. Palmira fiorì come città carovaniera durante il I sec. a.c., come riferisce  Flavio Giuseppe (37 - 100), nel secolo successivo, con un proprio dialetto semitico e un proprio alfabeto.

Dopo aver traversato l’Asia, navigato nell'Oceano Indiano e nel Golfo Persico, le merci che dovevano raggiungere l’Europa venivano trasportate in parte lungo il fiume Eufrate fino alla Siria e da qui, passando per Palmira, raggiungevano sulle carovane dei cammelli i porti del Mediterrano.

Altri percorsi più a nord sarebbero stati più veloci e diretti. Ma duemila anni fa Palmira si trovava tra l’Impero Romano a ovest e gli imperi dei Parti e dei Persiani a est, e tutta una serie di piccoli regni, lungo l'Eufrate, ognuno dei quali esigeva un pedaggio.

Palmira offriva quindi ai carovanieri una via senza pedaggi, consentendo loro di traversare ai cammelli i campi col raccolto già effettuato campi coltivati, pascolando liberamente e concimando così i campi, ricevendo in cambio l'acqua e magari qualche altro scambio di beni. In epoca ellenistica, Palmyra era già una fiorente città divisa in classi sociali: sacerdoti, artigiani, e mercanti.

VIA COLONNATA E TETRAPILO

Il Dominio romano

Dopo il controllo dell'impero romano, nel 64 a.c., mantenne una certa indipendenza e l' importanza commerciale. Plinio il Vecchio (23 e il 79 d.c.), nella sua Naturalis Historia scritta nel 77 d.c. dice di Palmyra:

"Palmyra è una nobile città per il sito in cui si trova, per le ricchezze del suolo, per la piacevolezza delle sue acque. Da ogni lato distese di sabbia circondano i suoi campi, ed ella è come isolata dal mondo per opera della natura. Godendo di una sorte privilegiata tra i due maggiori imperi, quello dei Romani e quello dei Parti, ella viene sollecitata dall'uno e dall'altro, quando si scatenano le discordie"
La città era tanto ricca che, nel 41 a.c., Marco Antonio cercò di occuparla per saccheggiarla, ma senza riuscirvi e dovette desistere. Sotto Tiberio (14-37) Palmira fu annessa ufficialmente alla provincia romana di Siria, verso il 19 d.c., e sotto Nerone (54-68) fu integrata nella provincia. Sotto Tiberio la città, ormai ricchissima, costruì il santuario di Baal, col tempio dedicato a Baal, a Yarhibol (il Sole) e Aglibol (la Luna).

Con la cooperazione degli sceicchi nomadi l'autorità di Palmira fu riconosciuta dalle oasi del deserto, tanto di renderla un vero stato che, nel 24, aveva fondato una colonia sull'Eufrate e un fondaco a Vologasia, la città del regno dei Parti, da dove raggiungevano le coste del Golfo Persico, dove arrivavano la navi provenienti dall'India.

Sotto il regno di Traiano (53 - 117) la città fu annessa all'impero, ma nel 129 Adriano visitò Palmira e le fu concesso lo stato di Civitas Libera che permetteva al senato e al popolo di Palmyra di stabilire e raccogliere le tasse, dandole il nome di Palmira Hadriana (Tadmur Adriana).

Tra la fine del II e l'inizio del III secolo, Settimio Severo o suo figlio Caracalla, concessero a Palmira lo statuto di città libera.
La generosità dell'imperatore, o il suo calcolo mirato, permise il grande sviluppo della città culminato nel II sec., il periodo d'oro di Palmyra. Le attività economiche si estendevano ad est fino all'India e alla Cina attraverso la via della seta, e ad ovest fino a Roma, sostituendo il ruolo di Petra che aveva perso importanza dopo l'annessione da parte dei romani nel 106 d.c.

La dinastia romana dei Severi, in parte di origine siriana, era molto favorevole a Palmyra, tanto che l'imperatore Caracalla (188 - 217), figlio del fondatore della dinasta, Settimio Severo, e di Giulia Domna originaria di Emesa, concesse alle città di Emesa e a Palmyra il titolo di colonia romana e la cittadinanza romana ad alcuni contabili arabi. Questo aumentò lo sviluppo di Palmyra ma ne decretò anche la  fine.

Benché di fronte all'impero partico, Palmira non era mai stata coinvolta nelle guerre contro Roma. Ma dopo che il fondatore della dinastia sasanide Ardashir I, nel 224, era asceso al potere, a partire dal 230 il commercio palmireno diminuì per l'occupazione sasanide della Cappadocia  e della Mesopotamia, il territorio tra il Tigri e l'Eufrate.

Carre (dove fu assassinato Caracalla) cadde nel 238 e le incursioni dei Sasanidi continuarono anche sotto il regno del successore Shapur I, che arrivò a minacciare Antiochia

Un contabile palmireno, Hairan, discendente della famiglia gentilizia dei Settimi, ottenne la cittadinanza romana e divenne senatore a Roma. Intanto la dinastia dei sassanidi, ostile a Roma,  sotto lo scettro di Ardashir I, aveva conquistato le foci del Tigri e d'Eufrate, precludendo a Palmira l'accesso al golfo arabico.

Il figlio del senatore Hairan, Odenato, avendo parteggiato per Settimio Severo contro Pescennio Nigro, era stato nominato governatore della provincia di Siria da Valeriano. Odenato combattè varie battaglie contro i sassainidi fino a cacciarli dall'Anatolia meridionale. Questi successi militari furono grandemente ricompensati dall'imperatore Galieno che gli conferì il titolo di dux romanorum ed egli stesso si fece proclamare in seguito Re dei Re, finchè un suo cugino lo fece assassinare insieme a suo figlio nel 267.

ZENOBIA

ZENOBIA

Poco dopo la morte di Odenato, sua moglie Zenobia (242 - 275) prese la corona in nome del figlio minorenne, Vaballato, si sottrasse al controllo di Roma e si autoproclamò Augusta.

Quindi nominò suo figlio Vaballato Augusto e accrebbe i propri domini attaccando nel 270 l'Arabia, la Palestina e l'Egitto e conquistandole. Poi Zenobia si spinse a nord, conquistò la Cappadocia e la Bitinia arrivando sino alla città di Ancira.

Però nel 270 Aureliano venne acclamato imperatore e nel 272 riconquistò l'Egitto, poi la Bitinia e la Cappadocia, poi sconfisse l'esercito palmirense ad Emesa. La regina rifugiò a Palmira, ma Aureliano raggiunse l'oasi e iniziò delle trattative per la resa della città. Durante le trattative, Zenobia ed il figlio, Vaballato, fuggirono, ma furono catturati.

Palmira non soffrì danni nella resa, ma nel 273 si ribellò e stavolta fu saccheggiata, i suoi tesori furono portati via e le mura furono abbattute; la città, abbandonata, tornò a essere un piccolo villaggio e divenne una base militare per le legioni romane.


Tardo impero

Nel 293 Domiziano fortificò la città, per difendere Palmira dai Sasanidi e fece costruire, entro le mura un grande accampamento, con un pretorio ed un santuario per le insegne per la Legio I Illirica.

Non si hanno più notizie finchè l'imperatore Giustiniano (482 - 565), nel VI secolo, per l'importanza strategica della zona, fece rinforzare le mura e vi installò una guarnigione. Ma la città venne conquistata dagli Arabi nel 634 e sotto il loro dominio Palmira andò in rovina.



IL SITO ARCHEOLOGICO


L'AGORA

Presso l'edificio del senato si trova l'agorà, il foro delle città romane, circondata da quattro portici, sulle cui colonne, sorrette da mensole, erano situate le statue dei dignitari dal lato nord, dei militari sul lato ovest, dei capi delle carovane dal lato sud e dei senatori sul lato est, dove giustamente si trovava l'edificio del senato.

L'agorà di Palmira risale all'inizio del II secolo, presenta una pianta quadrangolare (m 84 x 71), con portici sui quattro lati e un muro quasi del tutto crollato.

Sembra disponesse di 2 fontane, 10 porte e 95 colonne.

Aldifuori di una delle pote nel XiX sec. venne ritrovata una stele che aveva incisi i dazi doganali in epoca romana (Tariffe di Palmira), del 137 d.c.. Il passaggio di un cammello costava 2 dinari, se carico 12 dinari, per uno schiavo 20 dinari, una giara di vino 7 dinari ecc.

Le colonne presentano delle mensole che erano sormontate da statue. Nell'insieme dovevano esserci quasi duecento mensole, in parte sulle colonne e in parte sui muri interni dei portici. Uno degli ingressi nell'agorà era situato nel portico dei senatori, la porta centrale era adornata da statue dei familiari di Settimio Severo, la cui moglie Giulia Domna era figlia del gran sacerdote di Emesa.

Le iscrizioni più antiche dell'agorà datano dagli anni 76-81 d.c., benché nella maggioranza i portici fossero costruiti all'epoca di Adriano. Alcuni blocchi di pietra e alcune colonne dell'agorà, parzialmente distrutta durante il regno di Zenobia, furono adoperati da questa regina per la costruzione delle mura di fortificazione.

Presso l'angolo sud-ovest dell'agorà sorgeva una basilica rettangolare (81,5 m x 12) che si suppone potesse servire per le riunioni e per i banchetti.

INGRESSO AL TEMPIO DI BEL

SANTUARIO DI BEL O BAAL

« Bel, tua abitazione è Babel, Borsippa la tua corona;
i cieli nella loro estensione sono il tuo addome.
Con i tuoi occhi penetri il tutto,
con i tuoi oracoli tu scruti gli oracoli,
con uno sguardo impartisci gli ordini.
[Con] il tuo tocco consumi i potenti,
[...] gli umili li prendi per mano;
[quando] li guardi ti prendi pietà per loro,
fai vedere loro la luce ed essi vantano il tuo valore.
»

(Dalla preghiera a Marduk In Rituale dell'Anno Nuovo a Babel)

RICOSTRUZIONE GRAFICA DEL TEMPIO DI BAL
L'edificio religioso, dedicato a Bel o Baal, assimilato al greco Zeus ( Jupiter, cioè Padre Giove), fu edificato sotto il dominio partico riportando sia lo stile greco-corinzio, sia babilonese, come si osserva nella strana merlatura superiore del tempio (I sec. d.c.). Il tempio fu consacrato tra il 32 e il 38, mentre il colonnato e i propilei furono innalzati alla fine del II sec.

INGRESSO
Il grande recinto sacro è quadrangolare, di m 205 x 210, circondato da un alto muro di cinta alto ben 11 m, con un portico sorretto da un doppio colonnato. L'ampio cortile interno era completamente lastricato in pietra e all'interno aveva una cella centrale consacrata nel 32 d.c. ma la costruzione del tempio fu completata solo alla metà del II sec. d.c.

I portici sui lati nord, est e sud erano a doppia fila di colonne corinzie. Nel lato ovest, dove si trova l'ingresso attuale, aveva una sola fila di colonne ma aveva un triplo arco monumentale conducente all'ingresso alla cella centrale. Purtroppo tale ingresso venne modificato dagli Arabi che lo trasformarono in fortezza.

Il tempio ha due nicchie, una rivolta a nord, che conteneva la triade della divinità palmirene, Baal, Yarhibol (il Sole) e Aglibol (la Luna). In epoca araba la cella del tempio fu trasformata in moschea, come dimostra il mihrab presente sul muro meridionale.

Il monumento attuale è costruito sopra un precedente santuario di epoca ellenistica che a sua volta è stato costruito sopra ad un terrazzamento artificiale, infatti sono stati trovati dei manufatti dell'epoca del Bronzo Medio (2200-1500 a.c.) a circa 6 metri di profondità.

In questo tempio si venerava, come Dio principale, il Dio Bel, corrispondente a Zeus per i greci e Giove per i romani. Il nome Bel deriva dalla pronuncia babilonese della parola semitica Ba'al che significava signore. Nell'antica Palmyra si pronunciava Bol che divenne Bel pe fondersi col Dio babilonese Bel Marduk.

Altre due divinità erano molto seguite a Palmyra: Yarhibol, Dio del sole, e Aglibol, Dio della luna. Bel assieme a queste due divinità formavano la triade di Palmyra e sono rappresentate nel soffitto del vano a nord della cella.

SOFFITTI NICCHIA NORD
A circa metà dell'altezza delle colonne sono presenti delle mensole dove erano poste le statue dei cittadini benemeriti che avevano contribuito alla costruzione del tempio come indicano le scritte in greco e in palmireno. Queste mensole sono tipiche di Palmira e non risultano in altre zone.

Al centro della corte si trova la cella, il tempio vero e proprio, dove potevano entrare solo i sacerdoti. Si arriva all'ingresso della cella tramite un ampio scalone in lieve pendenza. L'ingresso è formato da una grande porta leggermente rastremata come nell'uso etrusco e miceneo.

La cella. di m 10 x 30, era circondata da un portico colonnato (peribolo) di 15 + 8 colonne. Al suo interno, ai lati nord e sud, sono presenti due vani, usuali dei templi orientali, chiamati thalamos. I soffitti dei vani sono in un solo mastodontico blocco di pietra, scolpito con decorazioni geometriche a cassettoni.

In quello sud il soffitto a cupola è scolpito a bassorilievi raffiguranti i busti delle sette divinità planetarie con al centro Bel. Alla sinistra della cella una scala conduce al tetto dove sopra si innalzava una terrazza, decorata da quattro torri angolari. All’interno c’erano le statue della triade Bel, Aglibol e Yarhibol, e sicuramente si osservavano i movimenti della luna, del sole e dei pianeti.

INTERNO
Il tetto del peribolo era sorretto da monumentali architravi trasversali sulle quali erano scolpiti bellissimi bassorilievi con divinità e scene di vita, due di queste architravi sono poste ai due lati della porta monumentale tra la porta e la cella. Tracce di colore residuo dimostrano che, in origine, questi bassorilievi erano dipinti.

Il tempio ha due nicchie, una rivolta a nord, che conteneva la triade di Palmira: Baal, Yarhibol (il Sole) e Aglibol (la Luna) e venne consacrato tra il 32 e il 38, ma il colonnato fu ultimato solo verso il 120, mentre i propilei furono innalzati alla fine del II sec.

L'ampio cortile interno era completamente lastricato in pietra.  In epoca araba la cella del tempio fu trasformata in moschea, come dimostra il mihrab presente sul muro meridionale della cella.
Vi si trovano bassorilievi con immagini di frutta, offerta al Dio. In primo piano una palma, simbolo di Palmira.

VIA COLONNATA CON MENSOLE


LA VIA COLONNATA O IL GRANDE COLONNATO

La via colonnata inizia di fronte all'ingresso del santuario di Baal ed il primo tratto si conclude con l'arco severiano, a tre fornici, collocato ad arte per nascondere una deviazione di 30 gradi del secondo tratto della via.

I resti dell'antica città si estendono per una superficie maggiore di 10 Kmq, il commercio rese Palmyra un centro internazionale di dimensioni paragonabile alla città di Antiochia, la capitale della Siria del tempo.

I quartieri più importanti di Palmyra si trovavano ai lati della strada principale, Decumanus. Questa strada attraversa la città di epoca romana da est a ovest, la prima sezione e più larga delle altre, iniziava dai propilei del tempio di Baal e arrivava alla porta trionfale che è stata costruita a pianta triangolare per mascherare l'angolo di questa prima sezione con la seconda.

Essa era la prosecuzione della grande via carovaniera, che si trasformava in una grande e splendida strada colonnata che divideva in due parti il centro cittadino. La strada era decorata da un ampio portico, alto una decina di m, le cui colonne mantenevano con l’aiuto di mensole ben 95 statue, che rappresentavano i personaggi più importanti di Palmira.

ALTARE
La via colonnata, di cui si osservano le colonne con le mensole per le statue, aveva una carreggiata larga 11 metri, affiancata da due portici di 7 m.

Alcune colonne più alte nelle file delle colonne hanno iscrizioni importanti. La penultima di queste conserva le tracce di una mensola strappata, sulla quale si trovava la statua della regina Zenobia, come è dimostrato da un'iscrizione greca e palmirena, incisa sul tronco della colonna.

A sinistra di questa un'altra colonna, la cui mensola, come dalla iscrizione in palmireno, sosteneva una statua di Odenato, il marito della regina.

Entrambe le iscrizioni sono dell'anno 271. Furono dunque incise un anno prima che P. venisse conquistata dalle truppe di Aureliano.

L'andamento non rettilineo è dovuto al fatto di dover evitare edifici già preesistenti come il santuario di Nabo, il teatro e l'agorà. Questa prima sezione, che collegava il tempio di Bel alla città, sembra fosse utilizzata per scopi religiosi.

La seconda sezione arriva fino al tetrapylon uno dei centri della città e non era pavimentata per permettere il passaggio dei cammelli, i portici laterali, invece, avevano una pavimentazione parziale. Ciascun portico era largo 7 m mentre la strada era larga 11 m, una specie di autostrada.

Continuando sul Decumanus si incontra per primo il tempio di Nabo, posto sulla sinistra. La pianta di questo tempio è del tipico tempio siriano: un'ampia corte chiusa da mura e portico interno con al centro il tempio. La corte non ha una pianta regolare ma trapezioidale, probabilmente a causa di monumenti precedenti.



IL COLONNATO TRASVERSALE

Il Colonnato Trasversale, lungo 230 m, è due volte più largo della parte scoperta del Grande Colonnato, e cioè 22 m. I due portici coperti laterali sono larghi 6 m ciascuno. Esso corre da sud - ovest a nord - est, inizia presso le mura e presso la porta detta oggi di Damasco con uno spiazzo ovale. Come rilevano le iscrizioni, rimaste su alcune colonne, questo colonnato aveva caratteristiche piuttosto sacre. La maggioranza delle iscrizioni risale agli inizi del sec. II, quindi precedente al Grande Colonnato.

Sicuramente attraverso la Porta di Damasco entravano in città le grandi carovane dei mercanti, che procedevano lungo la Valle delle Tombe, provenienti da Damasco. Da nord - ovest il Colonnato Trasversale è adiacente al quartiere occidentale della città; nel periodo di Diocleziano questo quartiere fu diviso dal colonnato tramite un muro innalzato sul luogo degli antichi magazzini e botteghe, che si trovavano nel porticato nord - ovest dello stesso colonnato.

TETRAPILO

IL TETRAPILO

Questo particolare monumento romano, di forma cubica, fu costruito nel II sec. d.c. ed è una porta quadrupla situata nel Grande Colonnato. Si trova al centro di una piazza ovale che si colloca all’estremità ovest della via colonnata di Palmira. Esso è composto da quattro piedistalli con quattro colonne ciascuno, in granito rosa, provenienti dall’Egitto. ognuna delle quali sosteneva una trabeazione. Ogni colonna era decorata con ornamenti a viticci.

All'interno di ogni gruppo di colonne era collocata una statua, ma non sappiamo quali perchè ce ne sono pervenuti solo i piedistalli senza iscrizioni. Aveva pertanto un’entrata per ognuno dei quattro lati.  Di questo edificio monumentale sono rimaste soltanto le rovine di quattro giganteschi zoccoli, innalzati sopra un podio quadrato, dal lato di 18 metri.


Dal tetrapylon inizia la terza sezione del decumanus che piega di dieci gradi rispetto la precedente. Questa sezione, lunga circa mezzo Km, attraversa la zona residenziale della città e porta al campo di Diocleziano

Non lontano dal tetrapilo sorgeva l’ agorà, un ampio spazio rettangolare lungo m 84 x 71 circondato da portici colonnati in stile corinzio. In origine,più di 200 statue raffiguranti militari, personaggi importanti e dignitari decoravano le colonne e le nicchie della piazza.

A S-O del tetràpylon si trovano ancora le rovine del portico che conduceva sulla piazza, situata a N dell'agorà. Un'altra strada stretta era tracciata a N-E del tetràpylon e conduceva al santuario di Ba῾alshamīn, esplorato negli anni 1954-56 dal Collart.

L'ARCO DI SETTIMIO SEVERO

SANTUARIO DI NABU

Poco dopo passato l'arco severiano, sulla sinistra, vi è il santuario di Nabu, una divinità mesopotamica, assimilata ad Apollo. Figlio di Marduk e di Ṣarpanitum, detto più raramente figlio di Enki, era il Dio della scrittura e della sapienza, protettore degli artigiani e degli scribi, scrittore dell'universo.

Il Dio era effigiato con l'alta tiara neo-assira, una spada al fianco e un arco dietro le sue spalle: la mano destra è alzata in gesto propiziatorio, la sinistra tiene forse una tavoletta scrittoria. Fu associato ad Apollo per via dell'arco.

Il santuario fu edificato tra la fine del I sec. e la metà del II sec. d.c. La cella, o tèmenos, di forma trapezoidale, è accessibile da sud attraverso un propileo con sei colonne sul fronte e, poco più indietro, due semicolonne e due altari che inquadrano la porta. All'interno del recinto tre lati hanno un portico sorretto da colonne, mentre il quarto è chiuso da un muro.

La corte, circondata da portici costruiti a varie fasi nel II sec. d.c., fu poi tagliata a nord per far posto alla costruzione del Grande Colonnato; le colonne dei portici hanno una base modanata e capitelli simil dorici filettati. Un altare monumentale munito di ampio zoccolo, ornato di bassorilievi e circondato da colonne, è stato eretto verso la fine del II sec. d.c. nella parte anteriore della corte.

SANTUARIO DI BAALSHAMIN

SANTUARIO DI BAALSHAMIN

Il santuario di Baalshamin (il signore del cielo), che riporta iscrizioni del 130, in cui si ringraziava l'imperatore Adriano per l'edificazione del tempio, era stato dedicato in realtà il 17 d.c. al Dio Baalshamin, che i romani assimilarono a Mercurio, ma che era il Dio dei tuoni dei fulmini e delle piogge.

Adriano l'aveva riedificato sul tempio più antico, ed era gestito da una tribù nomade. Sorge solitario a nord, a 200 m della Via Colonnata. Una strada stretta tracciata a nord est del tetràpylon consentiva di raggiungere il santuario, esplorato negli anni 1954-56 dal Collart.

Esso fu fondato negli anni 130-131, come illustra l'iscrizione bilingue sulla mensola a sinistra dell'entrata. Male è il nome del fondatore del tempio, uomo molto facoltoso, che finanziò non solo il tempio voluto da Adriano ma pure il soggiorno di Adriano a Palmira nel 126, quando per l'occasione il nome della città era diventato Hadriana Palmyra. Il tempio prostilo ha sei colonne nel vestibolo e pilastri corinzi sul lato esterno delle pareti.

Le 6 colonne ospitavano originariamente, sulle 6 mensole che si protendevano all'esterno, altrettante statue di culto, in seguito demolite e fatte a pezzi.

Venne costruito sul un tempio preesistente della metà del I sec., eretto nello stesso periodo in cui furono costruite le mura che circondano il santuario. La cella del tempio è illuminata da finestre, particolare architettonico che non appartiene all'architettura classica. A nord - est del tempio, nel recinto del santuario, si trova un colonnato parzialmente ricostruito.

Il cerimoniale religioso si svolgeva nei cortili; in uno è stata rinvenuta una sala per i banchetti sacri, designata da un iscrizione; vi erano stati eretti altari con una dedica e talvolta bassorilievi; pozzi e canalizzazioni di terracotta provvedevano alla distribuzione dell'acqua; nicchie votive, monolitiche o in muratura, contenenti l'immagine di divinità, erano incastrate nei muri. Sull'architrave monumentale di un'edicola era scolpito un bassorilievo stupendo, sotto la forma di un'aquila che accoglie sotto le ali spiegate i busti radiati di un Dio lunare e di un Dio solare, vale a dire Ba‛alshamīn, il Signore dei Cieli, che accoglie i due paredri, Aglibōl e Malakbēl, che costituivano con lui una triade.

ARCO DI SETTIMIO SEVERO

ARCO DI SETTIMIO SEVERO

Tra la fine del II e l'inizio del III secolo, Settimio Severo oppure il suo successore, il figlio Caracalla, concessero a Palmira lo statuto di città libera. L'arco, a tre fornici, deve essergli stato dedicato in questa occasione.



TERME DI DIOCLEZIANO

Sulla destra della via colonnata, di fronte al tempio di Nabu, si trova il portico composto di quattro colonne monolitiche di porfido egizio, sporgenti rispetto alla linea dei portici. sorgevano le terme di Diocleziano, edificate nel II secolo d.c. da Sossiano Ierocle, scrittore governatore della Siria fenicia ai tempi di Diocleziano (284-305), nonchè nemico dei cristiani. L'edificio, di non grandi dimensioni, 85 metri x 51,

I RESTI DELLE TERME
L'iscrizione incisa da Sossianus Hierocles, governatore della provincia di Siria-Fenicia all'epoca della tetrarchia, ne aveva fatto attribuire la costruzione a Diocleziano. Ma si trattò soltanto di un rifacimento, perché gli scavi hanno dimostrato che sono più antiche: tanto lo stile della decorazione scolpita quanto le statue di marmo scoperte all'interno (fra cui un torso loricato di Settimio Severo) ci riportano agli ultimi anni del II sec. d.c. 

Gli scavi hanno messo in luce installazioni idrauliche e gli impianti termali usuali, frigidarium, calidarium, gymnasium: una piscina quadrata, profonda, circondata su tre lati da colonnati; una sala ottagonale con bacino centrale; un cortile a peristilio.

Gli scavi condotti dal Service des Antiquités siriano negli anni 1959-1960 hanno messo in luce la piscina centrale delle terme, circondata da colonnato, un profondo canale aperto e altri locali appartenenti alle terme di Diocleziano.

Cento metri a nord - ovest da questo edificio si trova la sorgente del Serraglio con l'acqua potabile.

IL TEATRO


IL TEATRO

Il teatro è un tipico teatro romano edificato nella seconda metà del II sec., ancora in buone condizioni di conservazione ed utilizzato per spettacoli. Una buona sonorizzazione permette di sentire l'eco della propria voce se posti nel centro dello spazio che veniva occupato dall'orchestra.

L'edificio che contiene la scena, ben conservato e lungo m 48, è disposto parallelamente al Grande Colonnato; la, scena è larga m 10,5, ha tre esedre, una curvilinea in mezzo e due rettangolari ai lati. Il piano dell'orchestra è pavimentato con lastre quadrangolari ed ha un diametro di 20 m.

La cavea ha conservato 9 gradini e resti del decimo, ed è divisa in 11 cunei. A sinistra e a destra dell'edificio scenico si trovano due ingressi arcuati che conducono all'orchestra.

Dietro il teatro si erge un porticato semicircolare, che costituisce l'ambulacro, in forma di una cavea estremamente tondeggiante. Dal porticato, in direzione sud ovest, si diparte una strada stretta con colonne da ambo i lati, che conduce ad una porta nelle mura, adorna di nicchie.

Accanto alla porta si trova un piccolo locale per la guardia, dal lato esterno delle mura sono due bastioni semicircolari. A 120 m da questa porta, verso sud ovest, all'odierno incrocio dei sentieri delle carovane per Homs e per Damasco, coricata per terra si trova una delle tre colonne onorifiche erette a Palmira. Essa fu costruita nel 139 d.c. e sulla sua cima si trovavano due statue.

SENATO E NEGOZIO

SENATO (CURIA)

Il Senato, piuttosto piccolo, aveva un vestibolo ed una corte interna ed era contornato da alcune botteghe.



LA BASILICA

LA BASILICA
Presso l'angolo sud-ovest dell'agorà sorgeva una basilica rettangolare (81,5 metri x 12) che si suppone potesse servire per le riunioni e i banchetti



TEMPIO DI ALLAT

A nord est del tetràpylon si trovano le rovine del tempio di Allat e la già menzionata colonna onorifica; su uno dei suoi rocchi è inciso un orologio solare. La Dea Allat era una divinità molto adorata e forse più arcaica della stessa triade.

Alla Dea gli arabi facevano una libagione sacra che si accompagnava a queste parole: - Alla Terra, al Sale e ad Allat, che è la migliore di tutte. -
Col tempo la Dea venne soppiantata da Allah che divenne il Dio unico della religione araba e Allat scomparì.

TEMPIO DI ALLAT

SANTUARIO BEL HAMMON

Il santuario dedicato al Dio Bel-Hammon venne scoperto nel 1965 da un gruppo archeologico francese diretto da R. du Mesnil du Buisson, partendo dalla scoperta dell'impianto della sorgente Efca, di carattere sacro, da cui sgorga l'acqua che irriga l'oasi.

Tra le costruzioni erette in cima alla montagna che domina la sorgente, riconobbero un'iscrizione datata al maggio dell'89 d.c. ha permesso di riconoscere la corte del tempio di Bēl, il cui scavo ha permesso di risalire fino alle tracce di un passato molto antico, con ceramiche dell'Età del Bronzo Antico, del 2100 - 2200 a.c. 



TEMPIO SEPOLCRALE

Tra il Grande Colonnato e il Colonnato Trasversale, c'è una grande tomba del III sec., oggi chiamata il Tempio Sepolcrale. Si pensa che l'edificio si trovasse al di fuori del recinto urbano e che vi sia stato incorporato ai tempi di Zenobia, quando durante i lavori di fortificazione, le mura furono spostate più a nord ovest, inglobando le esistenti costruzioni tombali a forma di case, un po' come le mura aureliane a Roma inglobarono gli acquedotti. 
Nel Tempio Sepolcrale si notano sei colonne che sostengono il timpano parzialmente distrutto.



PORTA PRETORIA

Circa 90 m dalla Porta di Damasco, nel muro fortificato che corre da nord ovest lungo il Colonnato Trasversale si trova la cosiddetta Porta Pretoria, scoperta dalla missione archeologica polacca nel 1959; la porta è disposta obliquamente all'asse del Colonnato Trasversale. 

La porta, che ha un ingresso principale e due passaggi laterali, si trova probabilmente sul luogo di un'altra più antica, o forse di un arco che portava dal Colonnato Trasversale al quartiere occidentale.

Dalla Porta Pretoria, attraverso un portico romano, probabilmente del II sec. e parallelo al Colonnato Trasversale, una larga via Pretoria conduce al tetràpylon scoperto nel 1960. All'interno della porta invece, la cui facciata è parallela alla via, s'innesta di sbieco l'asse della strada che non le è perpendicolare



TEMPIO DELLE INSEGNE

Dal tetràpylon, la via Pretoria conduceva attraverso un edificio a forma di propileo fino ad un tempio oblungo, eretto sopra un alto zoccolo, con scale monumentali dai tre lati. La cella di questo tempio termina con un'abside. L'edificio serviva forse nell'epoca di Diocleziano come tempio delle insegne; esso è costruito quasi interamente con blocchi provenienti da altri edifici.


IL SERRAGLIO

Del palazzo di Zenobia non è restata traccia.





LA NECROPOLI 

Palmyra è circondata da una serie di necropoli. Vicino al santuario di Ba‛alshamīn, all'interno di un recinto quadrangolare, preceduto da un vestibolo a cielo aperto, sono state scavate quattordici tombe, disposte ai due lati di un dròmos, coperte di lastre sormontate da una volta di mattoni crudi. 

Ciascuna tomba conteneva molti corpi, disposti in successive inumazioni; un'iscrizione, dell'11 d.c., era probabilmente una delle più recenti. Si rinvenne un ricco corredo funerario: armi, gioielli, lucerne, ceramica, coppe di alabastro, della metà del II sec. a.c. Si sono trovate anche sepolture individuali, ma le famiglie più importanti si costruivano il loro mausoleo. Questi mausolei sono divisi in tre tipi fondamentali:


Tombe a torre

Sono i monumenti funerari più antichi, risalenti fino al I secolo a.c., costruite a forma di torre a base quadrata sopra un podio a gradini, mentre i vari piani sono collegati da una scala in pietra. Le prime torri erano molto semplici e i loculi erano esposti all'esterno, dal I sec. d.c. invece iniziarono a decorare le torri sia all'esterno che all'interno.

Questo tipo di tombe sono tipiche di Palmyra e non hanno uguali nelle città dell'antico oriente a parte delle tombe nella regione dell'Eufrate che, però, dipendeva da Palmyra.


Gli ipogei

La costruzione di questo tipo di tombe inizia dal I sec. d.c., fino ad ora ne sono state scoperte più di cinquanta ma ne rimangono decine che devono essere ancora scavate. La pianta di queste tombe è quasi uguale per tutte: una galleria principale davanti all'ingresso e due o quattro ali o esedre laterali.


Le tombe-case

Queste tombe sono le più recenti, la maggior parte delle tombe casa risale al III secolo d.c. Come dice il nome hanno la forma di una piccola casa con un portico colonnato.

La più ben conservata delle tombe a torre è quella di Elahbel. Il nome deriva da uno dei suoi quattro fondatori Elahbel, Ma'nai, Shokayi e Maliku.


Tomba a torre di Elahbel 

TOMBA DI ELAHBEL
È stata costruita nel 103 d.c. ed è composta da un ipogeo con l'ingresso sul lato nord e di una torre a quattro piani con l'ingresso sul lato sud.

Il primo piano è ornato da pilastri scanalati con capitelli corinzi che dividono i sostegni per i loculi. Il soffitto è dipinto e diviso in cassettoni.

Sulla parete est si possono vedere i resti dei busti della famiglia e, sopra la porta, è presente il busto di uno dei figli dell'amministratore della tomba.

Queste tombe venivano costruite dalle famiglie palmirene più ricche che ponevano i corpi dei loro familiari nei loculi al primo piano.

Gli altri piani erano concessi ai corpi di famiglie sufficientemente ricche da pagare "l'affitto", ma non abbastanza da potersi costruire una propria tomba.

Tra gli ipogei quello detto dei Tre Fratelli è il più interessante.

Ci si accede scendendo su una larga scala in pietra di sei gradini, sulla porta d'ingresso sono incise cinque iscrizioni le quali informano che l'ipogeo è stato costruito dai tre fratelli Na'amai, Male e Sa'adai e che alcune parti sono state vendute nel 160, 191 e 341.


I loculi 

L'interno è diviso in due ali con le volte a botte, i muri sono ricoperti di stucco e contengono 65 campate formate da sei loculi. Il fondo della galleria centrale è decorato da affreschi in stile siro-ellenistico.

I PIANO TOMBA ELAHBEL
Le immagini dei defunti sono dipinte entro spazi rotondi, mentre in alto è rappresentato Achille tra le figlie di Licomede.

Nell'ala sinistra si trova il monumento funebre di Male con la data di fondazione 142-143

I palmireni seppellivano i loro morti all'interno di loculi posti uno sopra l'altro.

Questi loculi erano composti dalle sporgenze scolpite su due pilastri di roccia paralleli.

Queste sporgenze avevano lo scopo di sorreggere delle lastre di pietra che separavano i vari loculi e dove venivano appoggiati i corpi.

I loculi venivano chiusi da un'altra lastra di pietra sulla quale era stato scolpito, in rilievo, il busto del defunto e il suo nome.

Si pensa che, grazie alla grande individualità dei palmireni, ogni busto rappresentasse veramente il defunto, ma non è da escludere che gli artigiani esponessero nelle loro botteghe una serie di effigi già pronte dove bastava aggiungere il nome.

Oppure, come è accaduto fra gli Etruschi, veniva sbozzata la figura della persona cui poi veniva attaccata una testa somigliante a quella del defunto.



LA SCOPERTA

Il sito e l'oasi di Palmira vennero visitate, a quel che si sa, solo nel 1751, da un gruppo di disegnatori, tra cui l'italiano Giovanni Battista Borra che ne tratteggiò varie tavole, capeggiati da due inglesi, Robert Wood e James Dawkins, che nel 1753, pubblicarono in inglese e francese "Les Ruines de Palmyra, autrement dite Tadmor au dèsert", che crearono enorme interesse nel mondo accademico.

Solo verso la fine del XIX secolo però iniziarono le ricerche scientifiche, copiando e decifrando le iscrizioni; ed infine, dopo l'instaurazione del mandato francese sulla Siria, vennero iniziati gli scavi, che continuano ancora oggi.

LE ORIGINI DEL CARNEVALE - CARRUS NAVALIS

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PROCESSIONE ISIACA


CARNE ADDIO

Il Carnevale ha un'origine antica, straniera prima e poi romana. Si dice che il termine Carnevale derivi dal latino "carnem levare" ovvero “togliere la carne”, come preannuncio della fine del carnevale quando inizia la proibizione cattolica di mangiare carni.

Infatti dopo il banchetto del martedì grasso, ovvero l'ultimo giorno di Carnevale, inizia la quaresima, (40 giorni ma in realtà 44) tempo di digiuno e purificazione in attesa della Pasqua. In questi quaranta giorni, 40 come quelli del digiuno di Gesù nel deserto, i cattolici si dedicano alla preghiera ed ad opere di carità, associate a digiuni, penitenze e mortificazioni.

Secondo altri deriva da "carne levamen" una variazione latina, o da carne laxare (lasciare la carne), o da carne vale (addio carne) sempre con l'obbligo di rinunciare alla carne, oppure da Carrus navalis.

Ora non avrebbe senso chiamare il Carnevale col significato di rinuncia alla carne quando per tutta la durata del carnevale si può, ed è nell'uso più sfrenato, mangiare carne. Sarebbe stato logico chiamare allora carnevale la quaresima dove effettivamente l'uso è proibito.  

Inoltre il carnevale, festa che si celebra nei Paesi di culto cattolico, è caratterizzato da parate di carri allegorici e da mascheramenti. Che c'entra la carne? Vero è invece che nel mondo antico, la festa in onore della Dea egizia Iside, importata anche nell'impero Romano, comporta la presenza di gruppi mascherati, come attesta lo scrittore Lucio Apuleio nelle Metamorfosi (libro XI).
I latini avrebbero detto SINE CARNE o VALE CARNE, non carne vale.
Invece CARNEVALE con  CARrus NaVALis ha parecchio in comune.

Il Martedì grasso è una festa che rappresenta la fine della settimana dei sette giorni grassi (carnevale), i quali precedono il Mercoledì delle Ceneri che segna l'inizio della Quaresima.



MERCOLEDI' DELLE CENERI

I festeggiamenti maggiori avvengono il Giovedì grasso e il Martedì grasso, ossia l'ultimo giovedì e l'ultimo martedì prima dell'inizio della Quaresima, nei giorni di Giove e di Marte. In particolare il Martedì grasso è il giorno di chiusura dei festeggiamenti carnevaleschi, dato che la Quaresima inizia con il Mercoledì delle ceneri.

NAVE DI ISIDE
Nel mercoledì delle Ceneri il prete cattolico sparge cenere sul capo dei fedeli annunciando  « Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris » cioè  « Uomo ricorda: eri polvere e polvere tornerai » Anche se ora col concilio Lateranense l'avvertimento è stato sostituito con l'incentivazione «Convertitevi e credete al Vangelo» che suona strano, perchè se celebrano il rito sono già convertiti e già credono al Vangelo.

E' un vero peccato aver snaturato così l'antico rito pagano che invitava ad accettare i cicli di vita e di morte, seppure senza la cupezza del rito cattolico.

Si dice che il carnevale risalga alle Antesterie greche e ai Saturnali romani. Evidentemente devono esserci degli aspetti in comune tra i due e con il Carnevale.

ANTESTERIE

LE ANTESTERIE

Le dionisiache greche, o Antesterie, cadevano nel mese di Antesterione (a cavallo fra febbraio e marzo) durante le quali, si dice, passava il carro di colui che doveva restaurare il cosmo dopo il ritorno al caos primordiale. Vediamo di quale caos si parla.

La festa dura tre giorni e inizia ufficialmente al tramonto; durante il primo giorno si trasporta tutto nella zona del santuario, solo allora si onora il Dio con le prime libagioni. Si beve il vino nuovo con il proprio boccale e anche i bimbi e gli schiavi partecipano, quindi riguarda tutti. 

Il 12 di Antesterione, il clima di allegria e di ebbrezza cambia, e compaiono i fantasmi, spiriti chiamati Cari, considerati gli antichi abitanti dell'Attica. Così, per proteggersi, si cospargono le porte di pece, si comprano rametti di biancospino e i templi restano chiusi, In questo giorno si usano maschere e vi sono cortei con carri.

Il 13 di Antesterione era il giorno delle pentole, nelle quali si ponevano cereali e miele cotti insieme. Ai morti viene infatti offerta la cosiddetta panspermìa, una torta impastata col seme di ogni pianta. Si sacrificava infine ad Ermes "ctonio" per amore dei morti e si mangiava dai pentoloni nella speranza di una vita riconquistata. Questa nuova vita iniziava con degli agoni. Il giorno della contaminazione finiva dunque in questo modo e così divenne proverbiale l'esclamazione "fuori, o Cari, le Antesterie sono finite".

SATURNALI

I SATURNALI

Si dice Carnevale il periodo che intercorre tra il 17 Gennaio (festa di S. Antonio abate) ed il primo giorno di quaresima. I Saturnali romani si festeggiavano del resto dal 17 al 23 dicembre. Più o meno ci siamo.
I saturnali si festeggiavano in onore di Saturno, Dio delle seminagioni. Anche qui si allude ai semi.
La parte ufficiale consisteva in un solenne sacrificio nel tempio della divinità, seguito) da un pubblico banchetto, durante il quale i partecipanti si scambiavano auguri di benessere e prosperità.
Nei banchetti privati, tra parenti ed amici che si concludevano in mascherate, farse e vere e proprie orge, era consuetudine lo scambio di doni di ogni genere.

Gli schiavi godevano della più ampia libertà, con un temporaneo scioglimento dagli obblighi sociali e dalle gerarchie per lasciar posto al rovesciamento dell'ordine, allo scherzo e anche alla sfrenatezza sessuale.



I PARENTALIA

Però a Roma il 13 Febbraio c'era la festa dei Parentalia, in cui avevano inizio le celebrazioni degli antenati e degli avi che duravano nove giorni. Le celebrazioni erano in onore dei defunti e si concludevano il 21 febbraio con la cerimonia dei Feralia.  I templi restavano chiusi. I matrimoni non venivano celebrati.. Venivano offerte corone di fiori ai defunti.



I FERALIA

Il 21 febbraio si concludeva la cerimonia dei Feralia, altre celebrazioni in onore dei defunti. I Feralia non avevano a che vedere con i giorni di "ferie", ma  con le feste dell'antica Dea Fiera, ovvero la Signora delle belve. Si usava mangiare pane e vino accanto alle sepolture offrendone ai defunti, cosa inglobata dal cristianesimo nell'eucarestia, ma ne fu in secondo tempo bandito l'uso accanto alle tombe perchè troppo simile al culto pagano.



I TERMINALIA

Il 23 febbraio si celebrava a Roma la festa dei Terminalia, la cui cerimonia pubblica aveva luogo al VI miglio della via Laurentina, antico confine dello stato romano, con il sacrificio di una pecora.
Tuttavia Plutarco riferisce che Termine era l’unica divinità romana che rifiutava i sacrifici cruenti e accettava in dono solo foglie e petali di fiori per ornare i suoi simulacri. Infatti nell'uso romano si offrono fiori e rami ai morti, senza sacrifici cruenti, almeno nei periodi più arcaici. Non è difficile poi comprendere che il Dio Termine, Dio dei confini e dei limiti, fosse la divinità che poneva limite alla vita di ognuno, come dire che la vita è a termine.


NAVIGIUM ISIDIS


NAVIGIUM ISIDIS

Ora le Antesterie, i Saturnali, i Parentalia, i Feralia e i Terminalia hanno in comune i festeggiamenti per la gioia di vivere e la consapevolezza della fredda morte, per cui occorre bere, amare e copulare, come dice Catullo:

"Lesbia dammi dieci, cento e mille baci,
perchè domani la fredda more ci coglierà"

Ma c'era una cerimonia in particolare che riuniva tutto questo, che è molto simile, se non identico, all'odierno Carnevale, ed era il Navigium Isidis, culminante nel: 

NAVIGIUM ISIDIS

CARRUS NAVALIS (CARNEVALE)

Il Navigium Isidis (la nave di Iside) era un "RITO IN MASCHERA" molto festoso dedicato alla vicenda della Dea Iside che fece risorgere il suo sposo Osiride dopo aver ritrovato, viaggiando per terre, fiumi e mari, tutte le parti del suo corpo smembrato. Quindi Morte e Resurrezione. Non ricorda un po' la festa del Cristo morto e risorto? Si, ma il carnevale precede la morte del Cristo e la resurrezione.

La celebrazione della vicenda di Iside venne diffusa nella religione romana in tutto l'impero verso il 150 d.c., ma in Egitto è molto più antica. La festa, che si teneva nel primo plenilunio dopo l'equinozio di primavera corrispondente un po' al tempo della Pasqua cattolica che cade la domenica successiva al primo plenilunio dopo l'equinozio di primavera. 

Diciamo che la Chiesa per non copiare il rito totalmente ci ha aggiunto di suo il termine della domenica.
Il Navigium Isidis consisteva in un corteo in maschera in cui un'imbarcazione di legno (CARRUS NAVALIS) veniva ornata di omaggi floreali.

Apuleio, nel suo romanzo Le metamorfosi, ha descritto il Navigium Isidis, e le Navi di Nemi dell'imperatore Caligola, grande seguace del culto isiaco, erano sicuramente dedicate a questo rito, in quanto corrispondono alla descrizione di Apuleio.

Ora Iside era anche la Dea del Mare e la Protettrice dei Naviganti, appellativi che la Chiesa ha spostato pari pari alla Madonna, ma la nave di Iside era per eccellenza la Barca Lunare, quindi barca notturna, su cui venivano traghettati i defunti dal regno dei vivi al regno dei morti.

L'imbarcazione veniva issata sul Carro che si diceva per questo "navale", e veniva trainato da umani mascherati, le cui maschere richiamavano non solo i defunti ma anche i demoni del mondo dei morti.

NAVIGIUM ISIDIS (Pompei)

IL CARRUS NAVALIS ROMANO

Questi demoni erano orribili e buffi, ma nella traduzione romana del Carrus Navalis venne introdotto qualcosa in più dell'allegria, e cioè la burla, perchè sovente venivano riprodotti personaggi influenti dell'epoca, come l'Imperatore, i Senatori o i Generali, comunque personaggi che venivano caricaturati per lo sbeffeggio. I romani avevano l'abitudine di ironizzare sui potenti e per quanto qualche imperatore non gradiva, non si riuscì mai a frenare questo sarcasmo.

Ma c'era un altro contenuto importante del Carrus, e cioè la morte, quella che Totò chiamò argutamente "La Livella". La morte rendeva gli uomini tutti uguali, per questo alla festa e al seguito del Carrus Navalis erano ammessi tutti, schiavi compresi e pure i bambini. Infatti, soprattutto nella festa romana, lunghe processioni di persone mascherate seguivano il carro cantando e danzando, con soste gustose per permettere ai mimi di comporre una scena o a una danzatrice di esibirsi, e non mancavano le danze collettive nè gli acrobati.

Tutto il popolo correva a mascherarsi per onorare il Carrus Navalis che portava un grande scrigno ermeticamente chiuso, simbolo della morte inconoscibile. Le prostitute non potevano mancare esibendo le loro bellezze e le romane coi loro gioielli tintinnanti non erano da meno. Perfino le matrone in quei giorni abbandonavano i pepli e si scatenavano nelle libagioni e nelle vesti scollate, e data l'occorrenza, nessuno le giudicava per questo. Del resto di fronte alla morte cadono tante critiche e tanti schemi.

ISIDE CHE GUIDA LA BARCA
Con la tradizione cattolica il Navigium Isidis è stato diviso in Carnevale (carrus navalis, la processione delle maschere) e Pasqua (resurrezione dello smembrato dopo l'equinozio di primavera).

Ora a Roma le maschere incarnavano gli antenati, tanto è vero che nei funerali i parenti indossavano maschere somiglianti oppure di fantasia che dovevano riprodurre i defunti. La festa del Carrus Navalis, facente parte della celebrazione delle anime dei morti, prevedevano uno "sconfinamento nei mondi" per cui i morti visitavano cerimonialmente i vivi, e questi ultimi, indossando le maschere degli antenati, gli permettevano di incarnarsi in loro, e così, attraverso loro, gli antenati potevano parlare. 

Poichè si presuppone che i morti abbiano superato le barriere del tempo, per cui sanno di presente, passato e futuro, essi possono parlare e profetizzare ai vivi. Questo era uno dei fini primari del carnevale: raccogliere vaticinii, e infatti a Roma, accanto ai crocicchi e alle edicole, gli indovini e le fattucchiere sedevano in attesa di clienti. Queste categorie non erano ben viste dalle autorità ma per l'occasione si chiudeva un occhio. 

L'altro fine era di coltivare la consapevolezza della morte, per il ridimensionamento dell'ego, e per comprendere la necessità e il piacere di vivere bene la vita, godendosela senza remore. Non a caso ai trionfatori sui carri colui che gli teneva la corona di alloro sopra la testa gli mormorava: "Ricordati che sei un uomo, e che pertanto devi morire". Il carnevale era un allegro "Memento mortis

Tutto ciò provocò negli anni una moltiplicazione dei carri e delle persone al seguito delle processioni.

Questa commistione tra vivi e morti però destabilizza il cosmo umano, si che alla fine si compie un rito purificatorio che ristabilizzi i confini tra vivi e morti, Pertanto le maschere non servivano a nascondere la propria identità sebbene a rimandarne a un'altra, che era in genere quella del defunto ma pure di altri spiriti liberi.

CULTO DI SEMO SANCUS

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SANCUS IN ETRURIA

SANCUS
Come nella religione etrusca N. Thomas De Grummond ha suggerito di identificare Sancus nell'iscrizione Selvans Sanchuneta (che pertanto deriverebbe dal nome dei proprietari del bosco) trovata nel cippo portato alla luce presso Bolsena, così altri studiosi accomunano l'epiteto Sancus a una familia gentilizia locale. In genere però le selve erano i cosiddetti luci (in latino), i boschi sacri dedicati alle divinità più antiche da cui prendevano nome.

Il teonimo (nome di una divinità) Sans Tec trovata incisa su statue di bronzo (uno di un ragazzo e una dell'arringatore) da una zona vicino a Cortona è stato visto come una forma etrusca del teonimo stesso. Ma allora era un Dio o una familia?



SANCUS A ROMA

Nell'antica religione romana, Sancus (conosciuto pure come Sangus o Semo Sancus) era un Dio, il Dio della fede o fiducia (fides), dell'onestà e dei giuramenti. Il suo culto è tra i più antichi culti romani, sicuramente sabino.

Dal suo nome deriva senza dubbio il termine latino Sanctus, cioè Santo, un termine importante per un Dio importante, che usa la chiesa cattolica a tutt'oggi... per i santi appunto, visto il Dio garantiva e proteggeva non solo giuramenti e matrimoni, ma pure l'ospitalità, la legge, il commercio e i contratti in genere. Ma ne deriva anche il termine Sanzione, cioè la punizione per chi contravviene al giuramento o ai patti. Alcune forme di giuramenti venivano fatti in suo nome e onore al momento della firma dei contratti e di altri atti importanti civili.

Era anche il Dio della luce celeste, il vendicatore della disonestà, il sostenitore della verità e della buona fede, il santificatore degli accordi. Di qui la sua identificazione con Ercole, che era pure lui il custode della sacralità dei giuramenti. Sancus fu poi considerato, come Ercole, il figlio di Giove, opinione ricordata da Varrone e attribuita al suo insegnante Aelius Stilo. La sua festa cadeva nelle Nonae di giugno, vale a dire 5 giugno.



I TEMPLI

Tempio sul Quirinale

Un importante tempio dedicato a Sancus stava sul colle Quirinale, sotto il nome di Semo Sancus Dius Fidus. Dioniso di Alicarnasso scrive che il culto di Semo Sancus fu importato a Roma in tempi assai remoti dai Sabini che avevano appunto occupato il Quirinale. Catone e Silius Italicus scrissero che Sancus era un Dio sabino, padre dell'eponimo eroe sabino Sabus. Sicuramente come Romolo, era un fondatore divinizzato.
Secondo la tradizione il suo culto si disse fosse stato introdotto dai Sabini e forse dal re Titus Tatius che gli aveva dedicato un piccolo santuario. L'attuale costruzione del tempio è generalmente ascritta a Tarquinio il Superbo, sebbene fosse stato dedicato da Spurius Postumius il 5 giugno del 466 ac.

Il suo tempio sul Quirinale fu descritto nel XIX secolo da Lanciani, che lo locava vicino a Porta Sanqualis delle Mura Serviane non lontano dalla moderna chiesa di S. Silvestro, precisamente sul Colle Mucialis. Sembra che la Porta Sanqualis prendesse nome proprio dal Dio Sancus.

Il tempio venne descritto dagli autori classici come un tempio senza tetto in modo che i giuramenti fossero protetti dal cielo. Ma probabilmente era scoperto solo in parte perchè al suo interno si conservavano parecchie reliquie: una statua di bronzo di Tanaquil, ovvero Gaia Caecilia,  la cintura contenente i rimedi (le erbe) che le persone venivano a raccogliere, la rocca, il fuso, le pantofole, e dopo la presa di Priverno nel 329 a.c., i medaglioni in ottone o i dischi di bronzo fatti con le monete confiscate da Vitruvio Vaccus.

Dioniso di Alicarnasso ricorda che anche il trattato tra Roma e Gabii era conservato in questo tempio. Questo probabilmente fu il primo trattato internazionale da registrare e conservate in forma scritta nell'antica Roma, scritto sulla pelle del bue sacrificato al Dio col suo contratto e fissato su un telaio di legno o uno scudo.

Secondo Lanciani le fondazioni del tempio vennero scoperte nel marzo 1881, sotto il convento di S. Silvestro al Quirinale (o degli Arcioni), in seguito il quartier generale dell '(ex) Royal Engineers. Lanciani riporta che il monumento aveva la forma di un un parallelogramma, con 35 m di lunghezza e 19 di larghezza, con pareti di travertino e decorazioni in marmo bianco. Era circondato da altari votivi e piedistalli di statue. Nella letteratura latina è a volte chiamato Aedes, a volte sacello, questa ultima denominazione probabilmente legata al fatto che era uno spazio sacro a cielo aperto. Platner scrive anche se le sue fondamenta erano già state rilevate nel XVI sec.

Lanciani suppone che la statua qui  descritta avrebbe potuto essere stata trovata sul sito del santuario sul Quirinale come appariva sul mercato antiquario di Roma al momento degli scavi di S. Silvestro.
La residenza dei sacerdoti presso il santuario del Quirinale era adiacente alla cappella: ampia e comoda, dotata di una fornitura di acqua per mezzo di un tubo di piombo. I tubi sono stati trasferiti al Museo Capitolini e portano la stessa scritta trovata sulla base della statua. La statua è ora ospitata nella Galleria dei Candelabri del Palazzo Vaticano. Le fondamenta del tempio sotto  sono state distrutte.


Tempio sull'isola tiberina

C'era forse un altro santuario o altare (ara) dedicato a Semo Sancus sull'Isola del Tevere, vicino al tempio di Iupiter Iurarius. Questo altare reca l'iscrizione vista e travisata da S. Giustino (Semoni Sanco Deo, letta come :Simoni Deo Sancto), ed è stato scoperto l'isola nel mese di luglio del 1574. Si è conservato nella Galleria Lapidaria dei Musei Vaticani, primo scomparto. Lanciani avanza l'ipotesi che, mentre il santuario sul Quirinale era di origine sabina, quello sull'isola Tiberina era latino.

Secondo altra fonte la statua di Sancus (come Semo Sancus Dius Fidus) è stata trovata sull'Isola Tiberina. La statua è a grandezza naturale ed è del tipo arcaico di Apollo. L'espressione del volto e la modellazione del corpo tuttavia sono realistiche. Entrambe le mani sono mancanti, in modo che sia impossibile dire quali erano gli attributi del Dio, forse la clava di Ercole e / o l'oxifraga, l'uccello augurale propria del (avis sanqualis) Dio, ipotesi fatta dall'archeologo Visconti e riportato da Lanciani. Altri studiosi pensano che avrebbe dovuto tenere dei fulmini nella sua mano sinistra.

L'iscrizione sul piedistallo menziona una decuria di sacerdoti bidentali. Lanciani fa riferimento ad un commento di Festus sui bidentalia in cui si afferma fossero piccoli santuari di divinità minori, a cui le hostiae bidentes, agnelli di due anni venivano sacrificati. William Warde Fowler dice che questi sacerdoti avessero a che fare coi fulmini, bidental essendo sia il termine tecnico per il puteal, il buco simile a un pozzo lasciato dai colpi nel terreno sia per le vittime utilizzate per placare il Dio e purificare il sito. Per questo motivo i sacerdoti di Semo Sancus sono stati chiamati sacerdoti bidentali. Essi erano organizzati, come una società laica, in una decuria sotto la presidenza di un magister quinquennalis.


Tempio a Velitrae

Semo Sancus ebbe un grande santuario a Velitrae,  Velletri, in territorio Volsco.



SIMON MAGO

Giustino martire ricorda che Simon Magus, uno gnostico menzionato nella Bibbia, fece tali miracoli con le sue arti magiche durante il regno di Claudio che venne adorato come un Dio e onorato e venerato con una statua nell'isola tiberina con i due ponti che portavano l'iscrizione " Simoni Deo Sancto", cioè "a Simone il Dio Santo". Comunque, nel 1574, la statua di Semo Sancus venne scoperta sull'isola, si che la maggior parte degli studiosi pensarono che s. Giustino martire avesse confuso Semoni Sanco con Simon.


Sancus come Semo

Il nome di questa divinità venne a volte frainteso o confuso. Aelius Stilo lo identifica con Ercole ma pure, essendo il Dio Fidius, con un Dioscuro, ciè Castore. Nella tarda antichità, Marziano Capella pone Sancus nella XII regione del suo sistema cosomologico, che attinge alla tradizione etrusca associando Dei a specifiche parti del cielo. Nel Fegato di Piacenza la casella corrispondente porta il teonimo Tluscv.
La prima parte del teonimo definisce il dio come appartenente alla categoria della Semones o Semunes, entità divine degli antichi romani e italici.

A Roma questo theonimo è attestato nel carmen Arvale e in un'iscrizione frammentaria. Fuori Roma, nri territori Sabini, Umbri e Peligni: in un'iscrizione da Corfinium si legge: Çerfom sacaracicer Semunes sua[d, "sacerdote di  Cerfi e di Semones", affiancando le due entità Cerfi e Semunes. Il Cerfi è menzionato nelle tabelle Iguvine in associazione con Marte ad esempio in espressioni come Cerfer Martier. La loro interpretazione rimane oscura.

Secondo le antiche fonti latine il significato del termine semones denoterebbe semihomines (anche spiegato come se-homines, uomini separati da quelli ordinari, che hanno lasciato la loro condizione umana: il prefisso se, sia in latino e in greco può indicare la segregazione), o Dei medioxumi, vale a dire gli Dei di secondo grado, o semidei, le entità della sfera intermedia tra gli Dei e gli uomini. Il rapporto di questi soggetti a Semo Sancus è paragonabile a quella dei geni di Iovialis Genius: come tra i genii c'è un Iovialis Genius, così allo stesso modo tra i semones c'è un Sancus Semo. I semones sarebbero quindi una classe di semidei, persone che non condividevano il destino dei comuni mortali, anche se non sono stati ammessi al Cielo, come Fauno, Priapo, Picus, e Silvano. Tuttavia alcuni studiosi ritengono che i semones siano spiriti della natura, che rappresentano il potere generativo dei semi.

La divinità Semonia è collegata al gruppo dei Semones, come dimostra Festus sv supplicium: quando un cittadino è stato messo a morte l'usanza era quella di sacrificare un agnello di due anni (bidentis) a Semonia per placarla e purificare la comunità. Solo successivamente potrebbe la testa e la proprietà del colpevole essere devoluti al Dio appropriato. Che Semo Sancus ricevette lo stesso tipo di culto e sacrificio è mostrato nell'iscrizione ora sotto la statua del Dio dove si legge: decuria sacerdotum bidentalium.
Il rapporto tra Sancus e i semones del carmen Arvale  rimane oscuro, anche se alcuni studiosi pensano che Semo Sancus e Salus Semonia o Dia Semonia sarebbero alla base di questa teologia arcaica. Si pensa comunque che i Semoni fossero arcaiche divinità o semidivinità preposte al buon funzionamento dell'agricoltura e la protezione dei campi coltivati.


Sancus e Salus

STATUA DI SANCUS CHE SI
TROVAVA AL QUIRINALE
Le due divinità erano legati in diversi modi. I loro santuari (Aedes) erano molto vicini l'uno all'altro su due colline adiacenti del Quirinale, il Collis Salutaris e il Collis Mucialis. Alcuni studiosi sostengono anche alcune iscrizioni a Sancus sono stati trovate sul colle Salutaris. Inoltre Salus è il primo delle divinità menzionate da Macrobio riguardo alla loro sacralità: Salus, Semonia, Seia, Segetia, Tutilina, divinità collegate agli antichi culti agrari della valle del Circo Massimo, che rimangono piuttosto misteriosi.

La statua di Tanaquil posta nel santuario di Sancus aveva una reputazione per il contenimento di rimedi nella sua cintura, che la gente andava a raccogliere, di nome praebia. Come numerose statue di ragazzi indossavano l'apotropaico bulla d'oro, bolla o medaglione, che conteneva rimedi contro l'invidia, o il malocchio, Robert E. A. Palmer  ha osservato un legame tra questi e il praebia della statua di Tanaquil nel sacello di Sancus.

Gli studiosi tedeschi  Georg Wissowa, Eduard Norden e Kurt Latte scrivono di una divinità chiamata Salus Semonia attestata in una sola iscrizione dell'1 dc., che menziona una Salus Semonia nell'ultima riga di 17 righe. Gli studiosi concordano che questa ultima linea venne aggiunta più tardi e non può essere datata con certezza. In altre iscrizioni Salus non è connessa a Semonia. Ma non si può negare che La Salus Semonia potesse essere la fusione di due divinità collegate alla salute e ai prodotti della terra.


Sancus Dius Fidius e Jupiter

Il rapporto tra le due divinità è certo in quanto entrambi proteggono i giuramenti, sono collegati con la luce del cielo e la produzione di fulmini. Questa sovrapposizione di caratteri ha generato confusione circa l'identità del Sancus Dius Fidius tra gli studiosi sia antichi che moderni, infatti il Dio, come Dius Fidius, a volte è stato considerato un altro teonimo per Iupiter. L'autonomia di Semo Sancus da Giove e il fatto che Dius Fidius è un teonimo alternativo designa Semo Sancus (e non Giove) corrispondente all'umbro Dio Fisus Sancius, due parti che costituiscono Sancus e Dius Fidius: in Umbra e Sabina Fisus è corrispondente esatto di Fidius. Che Sancus come Iupiter sia responsabile del rispetto dei giuramenti, delle leggi di ospitalità e di fedeltà (Fides) fa di lui una divinità connessa con la sfera dei valori e della sovranità.

G. Wissowa avanzò l'ipotesi che Semo Sancus fosse il genio di Giove. Ma W. W. Fowler vi legge un anacronismo poichè Sancus è un Genius Iovius, come appare nelle Tavole Iguvine. D'altronde il concetto di genio di una divinità compare solo in epoca imperiale (basti pensare al genio di Augusto).

Theodor Mommsen, William W. Fowler e Georges Dumezil rifiutano la tradizione che attribuisce origini sabine al culto di Semo Sancus Dius Fidius, perchè secondo loro il teonimo sarebbe latino e non sabino, e perchè non è stato trovato un Semo sabino vicino a Roma, mentre i Semones sono attestati in latino nel carmen Arvale. Secondo questi studiosi Sancus deriverebbe da popolazioni  Osco-Umbre o Latino-Falische.

I dettagli del culto di Fisus Sancius a Iguvium e quelli di Fides a Roma, come quello del mandraculum, un pezzo di tessuto di lino che copre la mano destra l'officiante, o la theurfeta (orbita) o orbes ahenei, piccolo disco di bronzo portato nella mano destra dall'offerante a Iguvium e deposto nel tempio di Semo Sancus nel 329 ac dopo una questione di tradimento confermano il parallelismo tra le due divinità.

Alcuni aspetti del rituale del giuramento per Dius Fidius, come il procedimento a cielo aperto e / o nel compluvio di residenze private e il fatto del tempio di Sancus non avesse tetto, hanno suggerito al romanista O. Sacchi l'idea che il giuramento di Dius Fidius che ha preceduto quello per Iuppiter Lapis o Iuppiter Feretrio, dovrebbe avere la sua origine in tempi preistorici, quando il tempio era all'aria aperta e definita da punti di riferimento naturali come ad esempio il più alto albero vicino. A supporto di questa interpretazione è che Sancus in sabino significherebbe il cielo secondo Johannes Lydus, etimologia che però viene respinta da Dumézil e Briquel tra gli altri.
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Sancus ed Hercules

L'interpretazione di Aelius Stilo del teonimo come Dius Filius si basa in parte sulla intercambiabilità e alternanza di lettere D e L in lingua sabina, che avrebbe reso la lettura di Dius Fidius come Dius Filius, cioè come Dios Kouros, ma viene da pensare che la prima dicitura sia poco latina, non esiste il Dio figlio ma semmai il figlio di Dio, che sarebbe poi Flius Dei, e comunque cattolico più che pagano..
D'altronde nel teonimo delle Tabelle Iguvine, appare  Fisus o Fisovius Sancius, formula che comprende le due componenti del teonimo. Comunque tanto Varrone che Macrobio considerano le due divinità, Sancus ed Ercole, come una cosa sola.


Sancus e Mars

A Iguvium Fisus Sancius è associato a Marte nel rituale del sacrificio alla Porta Tesenaca come uno degli Dei della triade minore e questo dimostra il suo collegamento militare in Umbria.
L'aspetto marziale di Sancus si nota nella Legio sannita Linteata, legata da una serie di giuramenti sotto la speciale protezione di Iupiter. Mentre i soldati vestono rosso porpora con accessori d'oro, quelli della Legio veste di bianco con accessori argento, a sottolineare la purezza della fedeltà.
Un prodigio riferito da Livio riguardante un uccello sanqualis che ruppe un  meteorite caduto in un bosco sacro a Marte a Crustumerium nel 177 ac. venne visto da alcuni studiosi come un segno di un aspetto marziale di Sancus.

IL TEATRO ROMANO

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TEATRO GRECO

L'uso del teatro fra i greci si perde nella notte dei tempi, sembra che già nel V sec. a.c. vi fossero ammessi anche donne, bambini e schiavi. Del resto i greci consideravano il teatro non solo un divertimento ma soprattutto un luogo dove i cittadini si riunivano per celebrare gli antichi miti, ogni volta rieditati con stili differenti dai drammaturghi.. Lo spettatore greco che si recava a teatro in realtà imparava la storia degli Dei e degli eroi, la storia e i principi morali che accomunavano i greci e i drammi dell'esistenza..

Il teatro investiva i greci in massa, sia perchè poco caro, sia perchè era considerato un orgoglio nazionale che i barbari non avevano. La rappresentazione teatrale era sacra, infatti si svolgeva durante un periodo sacro in uno spazio sacro, non a caso il teatro accoglieva l'altare del Dio.

Aristotele lo chiamò il fenomeno della "catarsi" (purificazione), perchè la tragedia porrebbe di fronte agli uomini gli impulsi più violenti  che si trovano, più o meno inconsciamente, nell'animo umano, permettendogli di sfogarli senza passare all'azione. Però nella tragedia c'erano persecutori e perseguitati, carnefici e vittime, e forse l'identificazione avveniva anche e soprattutto nelle vittime. In qualche modo il teatro era anche moralizzatore, suscitando pietà per gli offesi e rabbia contro i prepotenti.

Nel teatro greco si svolgevano le tragedie e le commedie.

TEATRO BULGARO DI FILIPPOPOLI

LA TRAGEDIA

Questa affrontava i temi più sentiti dell'epoca, una vicenda umana incentrata su un problema etico o religioso con un epilogo drammatico. In questo modo la rappresentazione suscitava nello spettatore forti emozioni di pietà e di terrore, esercitando una catarsi delle emozioni. In qualche modo dunque risvegliava gli animi e li faceva vibrare di passioni, forse più che una catarsi un risveglio.


LA COMMEDIA

Se ne ha notizia già nel VI sec. a.c.probabilmente derivato dalle antiche feste propiziatorie in onore delle divinità legate ai culti dionisiaci. Ma veniva usata anche per fare satira politica.

Assunse un carattere orgiastico-religioso durante le feste e le falloforie dionisiache. Sorsero inoltre degli spettacoli burlechi come le farse di Megara, composte di danze e scherzi, e simili spettacoli si svolgevano anche alla corte del tiranno Gerone in Sicilia.

La commedia antica, si sviluppò da tempi lontanissimi fino al IV sec. a.c.; la commedia di mezzo, durò fino all'inizio dell'Ellenismo (dal 388 al 321 a.c) con stile pìù sciolto basato sugli eventi del quotidiano e sulla parodia mitologica, e la commedia nuova, che coincide con l'età ellenistica introdusse personaggi stereotipi che durarono fino alla Commedia dell'arte

Dopodichè il genere comico passò a Roma, all'interno della cultura latina, attraverso le cosiddette palliatae.



TEATRO LATINO

Il teatro latino fu la cultura della Roma antica, visto soprattutto come intrattenimento, spesso incluso nei giochi, accanto ai combattimenti dei gladiatori, ma soprattutto, sin dalle origini venne collegato alle feste religiose. Risale al 240 a.c. la prima rappresentazione dell'opera teatrale latina prodotta da Livio Andronico, liberto di origine greca.

La provenienza di molti testi è di origine greca, a volte rielaborate o mescolate ad alcuni elementi di tradizione etrusca. Gli etruschi praticavano il teatro nei contesti più disparati, per festeggiare la morte di un defunto (perchè di feste di trattava, gli etruschi temevano poco la morte).

Il teatro di Segni nel Lazio, è torto considerato da alcuni di fattura romana, perchè non solo era etrusco, cosa evidente in quanto tutto scavato nella collina, cosa che mai avrebbero fatto i romani, abituati a lavorare coi blocchetti di pietra, tufo, laterizi ecc.), ma sorgeva dentro la necropoli. Inoltre ci si accorge che i gradini non consentivano la seduta, a meno di sedersi a ordini alterni, il che avrebbe richiesto un doppio lavoro di scavo.

E' evidente che il teatro serviva sia per sedersi sia per seguire lo spettacolo all'impiedi, soprattutto nelle cerimonie religiose. Il teatro del resto era rivolto alla popolazione intera, e l'ingresso era gratuito. Ma gli etruschi avevano i propri comici e gli attori migliori, tanto è vero che per inaugurare il primo teatro a Roma vennero richiesti attori etruschi.

TEATRO DI ASPENDO

TEATRO ROMANO

Tito Livio (59-17 a.c.), narra che attorno al 364 a.c. si sarebbero svolte a Roma le prime rappresentazioni teatrali, ad opera di attori etruschi. Infatti, durante i ludi romani fu introdotta per la prima volta nel programma manifestazioni teatrali con farse, parodie, canti e danze, chiamati fescennina licentia, di derivazione etrusca.

Ma i Romani cominciarono a costruire edifici teatrali in muratura soltanto dopo l'88 a.c.. Nel periodo precedente i luoghi degli eventi teatrali erano costruzioni di legno provvisorie spesso erette all'interno del circo o di fronte ai templi di Apollo e della Magna Mater.

L'atellana, farsa popolaresca di origine osca, proveniente dalla città campana di Atella, fu importata a Roma nel 391 a.c.: con le maschere e l’improvvisazione degli attori su un canovaccio. In Magna Grecia e Sicilia dalla fine del V al III secolo a.c. si diffonde infatti la farsa fliacica, commedia popolare, in gran parte improvvisata in cui gli attori-mimi erano provvisti di costumi e maschere caricaturali.

Tito Livio, in Ab Urbe condita, racconta come in quell'anno i romani, non riuscendo a debellare una pestilenza, decisero di inserire, per placare l'ira divina, anche ludi scenici, per i quali fecero venire appositamente dei ludiones (cioè artisti e danzatori), dall' Etruria.

« ...si dice che tra i tanti tentativi fatti per placare l'ira dei celesti vennero anche istituiti degli spettacoli teatrali, fatto del tutto nuovo per un popolo di guerrieri i cui unici intrattenimenti erano stati fino ad allora i giochi del circo. Ma a dir la verità si trattò anche di una cosa modesta, come per lo più accade all'inizio di ogni attività, e per giunta importata dall'esterno. Senza parti in poesia, senza gesti che riproducessero i canti, degli istrioni fatti venire dall'Etruria danzavano al ritmo del flauto, con movenze non scomposte e caratteristiche del mondo etrusco. In séguito i giovani cominciarono a imitarli, lanciandosi nel contempo delle battute reciproche con versi rozzi e muovendosi in accordo con le parole. Quel divertimento entrò così nell'uso, e fu praticato sempre più frequentemente. Agli attori professionisti nati a Roma venne dato il nome di istrioni, da ister che in lingua etrusca vuol dire attore. Essi non si scambiavano più, come un tempo, versi rozzi e improvvisati simili al Fescennino, ma rappresentavano satire ricche di vari metri, eseguendo melodie scritte ora per l'accompagnamento del flauto e compiendo gesti appropriati. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 2)

Da queste forme teatrali nacque un teatro propriamente romano: la satira. "Satura quidem tota nostra est" (Institutio oratoria, x.1.93), diceva con orgoglio Quintiliano nel I secolo. Era una rappresentazione teatrale mista di danze, musica e recitazione, divenendo poi la critica della società o dei potenti dell'epoca, aprendo la strada a Varrone e ad Orazio, che svilupperanno il genere 'satirico' in forma letteraria.Nevio propone drammi di soggetto romano, con una satira a personaggi contemporanei come Publio Cornelio Scipione, per cui la satira personale venne proibita per legge.

Accanto alle commedie d'ambientazione greca, cominciano ad affermarsi le commedie di argomento romano con l'introduzione dell'elemento musicale. La commedia 'greca' era chiamata fabula palliata (così chiamata dal pallium, mantello di foggia ellenica indossato dagli attori), mentre la commedia ambientata nell'attualità romana era detta fabula togata (dalla "toga", mantello romano) oppure tabernaria.

Rispetto alle commedie modellate sull'esempio greco, qui le donne hanno parte attiva, e i personaggi femminili sono tratteggiati nella loro psicologia.



LA TRAGEDIA

Anche il genere tragico fu ripreso dai greci. Era detta fabula cothurnata (da cothurni, le calzature con alte zeppe degli attori greci) oppure palliata (da pallium, come per la commedia) se di ambientazione greca. Quando la tragedia trattava dei temi della Roma dell'epoca, con allusioni alle vicende politiche correnti, era detta praetexta (dalla toga praetexta, orlata di porpora, in uso per i magistrati).

Verso la fine della repubblica, crebbe l'interesse per il teatro, non più solo per il popolo ma pure per le classi più ricche e più colte. Cicerone, appassionato frequentatore di teatri, riferisce che il pubblico romano giungeva a fischiare quegli attori che, nel recitare in versi, avessero sbagliato la metrica.


IL DIVERTIMENTO

Gli spettacoli nell'età di Cesare assumono un gusto veristico, calarono i generi comici e tragici,mentre vennero prediletti la danza e il mimo, in genere grottesco e accompagnato da musica. Gli attori sono senza maschera, vi sono anche attrici e si va a piedi nudi per permettere la danza.

La pantomima divenne un genere di grande successo, tanto che alcuni imperatori (come Caligola e Nerone) si cimentarono nell'arte del mimo e del canto.

Poi il teatro divenne scena solo di commedie e tragedie del passato, che se pur raramente rappresentate, si trasformarono scene grandiose, con macchine teatrali, incendi veri in scena, belve e ogni sorta di animali, coreografie composte da centinaia di persone, scene dipinte, schermi mobili, e, infine, la grande invenzione del teatro romano, il sipario.




IL TEATRO DELL'IMPERO

    Alle rappresentazioni e ai giochi potevano accedere tutti. La rappresentazione si svolgeva in una cornice di esibizioni varie, dai giocolieri alle danzatrici, con cui il teatro doveva competere per vivacità e colpi di scena. Svetonio racconta che Augusto, permise ai cavalieri di poter sedere nelle prime 14 file di gradini:

    « Quando poi la maggior parte dei cavalieri, logorati patrimonialmente dalle guerre civili, non osavano assistere ai giochi seduti sui [primi] quattordici [ordini di] gradini, per timore delle punizioni riguardanti gli spettacoli teatrali, proclamò che queste non fossero applicate a loro stessi e ai loro parenti, qualora avevano fatto parte dell'ordine equestre una volta. »
    (Svetonio, Augustus, 40.)

    A Roma le rappresentazioni teatrali erano finanziate dallo stato e si svolgevano durante i ludi e le feste, in occasione di cerimonie religiose, trionfi militari, elezioni politiche, funerali di personalità pubbliche.  A differenza del teatro greco, più istruttivo e catartico, il teatro romano serviva da intrattenimento. Spesso infatti aveva attori o attrici famosi per la bellezza e il fascino che spesso giocavano a fare i seduttivi con il pubblico, e non mancavano le battute salaci a sfondo sessuale e i doppi sensi.


    IL TEATRO DI TAORMINA


    L'ARCHITETTURA

    Gran parte dell'influenza architettonica dei Romani proveniva dai Greci, e così la progettazione del teatro, ma con differenze specifiche: ad esempio i teatri romani avevano proprie fondamenta, e non erano dati da lavori fatti esclusivamente con la terra nè erano chiusi tutt'intorno da colline naturali.

    I teatri romani ereditano il loro schema di base dal Teatro di Pompeo, il primo teatro stabile romano. ed erano costruiti in piano, mentre quelli greci in collina. nel teatro romano gli spettacoli dovevano solo divertire, nel teatro greco dovevano istruire i cittadini.

    Gli antichi teatri romani erano costruzioni di legno provvisorie spesso erette all'interno del Circo Massimo o di fronte ai templi di Apollo Sosiano e della Magna Mater, ma il primo e più antico teatro romano in muratura è quello costruito in età tardo repubblicana a Bononia (Bologna) verso l'88 a.c., con un emiciclo di circa 75 m di diametro e gradinate in laterizio.

    La sua novità architettonica era nell'avere una struttura fondata su una fitta rete di murature radiali e concentriche. Fu successivamente ampliato e abbellito con marmi pregiati in età imperiale da Nerone verso la metà del I sec. d.c.

    Il teatro romano dell'età imperiale è un edificio costruito in piano e non su un declivio naturale come quello greco, e ha una forma chiusa, che rende possibile la copertura con un velarium, ed è l'esempio di teatro che più si avvicina all'edificio teatrale moderno. A Roma il primo teatro ad essere costruito interamente in muratura fu quello di Pompeo, del 55 a.c..

    TEATRO DI BENEVENTO
    Le gradinate semicircolari della cavea poggiano ora su archi e volte in muratura, e sono collegate alla scena con loggiati laterali. La facciata della scena viene innalzata a numerosi piani e decorata, fino a diventare frons scenae, proscenio. Esso si differenzia da quello greco per una scaenae frons più profonda e più bassa, l'orchestra venne dimezzata ad un semicerchio, e chiusa da un muretto per permettere spettacoli di acqua o di gladiatori. 

    Lo sfondo era un unico pezzo monumentale alto e complesso, di dimensioni maestose, ricco di colonnine e nicchie, di cornici e ornamenti, statuine, scalette e porte. Sul rialzo del palco vi erano fregi ornamentali molto elaborati e ricchi di particolari.

    Compare il sipario, che durante la rappresentazione si abbassa in un apposito incavo, mentre il velarium di derivazione navale, viene utilizzato per riparare gli spettatori dal sole. Il teatro romano dell'età imperiale è un edificio costruito in piano e non su un declivio naturale come quello greco, e ha una forma chiusa, che rendeva possibile la copertura con un velarium, ed è l'esempio di teatro che più si avvicina all'edificio teatrale moderno.

    La cavea, la platea semicircolare costituita da gradinate, fronteggiava il palcoscenico (pulpitum), che per la prima volta assume una profondità cospicua, rendendo possibile l'utilizzo di un sipario e una netta separazione dalla platea.

    La cavea ed era divisa in settori. Numerose corsie verticali e un portico in cima ai gradini, permettevano uno spostamento in senso orizzontale. C'era anche un sistema di raffreddamento attraverso condotte e pozzi d'acqua fredda, alla fine del quale l'aria veniva convogliata sul pubblico. Fu anche grazie ai romani che venne inventato l'auleum, ovvero una tenda frontale che poteva essere sollevata o fatta cadere e serviva per coprire parte della scena e nascondere gli attori.


    Scenografia
    La scenografia prevede:
    • il proscenium, l'area di palcoscenico in legno più vicina al pubblico, raffigurante in genere un via o una piazza, corrispondente all'attuale proscenio.
    • la scenae frons, un fondale dipinto.
    • periaktoi, di derivazione greca, prismi triangolari rotabili con i lati dipinti con una scena tragica, una comica e una satirica.
    • l'auleum, un telo simile al nostro sipario (sconosciuto ai greci) che permetteva veloci cambi di scena o veniva calato alla fine dello spettacolo. In alcuni teatri invece di cadere dall'alto veniva sollevato.
    L'organizzazione degli spettacoli teatrali era specifico compito degli "aediles" o in qualche caso del "praetor urbanus", i quali spesso li producevano con denaro proprio, facendone elemento di propaganda politica. Questo condizionava la libertà degli autori.



  • ludi Romani si celebravano in settembre, in onore di Giove Ottimo Massimo, nel Circo Massimo; alla loro organizzazione erano preposti gli edili curuli;
  • ludi plebei avevano luogo in novembre nel Circo Flaminio, pure in onore di Giove; a partire dal 200 a.c., vi furono introdotte le rappresentazioni drammatiche, inaugurate con lo Stichus di Plauto; alla loro organizzazione erano preposti gli edili plebei;
  • ludi Apollinares si svolgevano in luglio, presso il tempio di Apolloe alla loro organizzazione era preposto il pretore urbano;
  • ludi Megalenses, in onore della Magna Mater; si svolgevano in aprile, affiancati poi dai ludi scaenici ealla loro organizzazione erano preposti gli edili curuli;
  • ludi Florales, in onore di Flora con gli spettacoli di mimi andavano dal 28 aprile al 3 maggio;
  • ludi Ceriales, in onore di Cerere, si svolgevano dal 12 al 19 aprile: organizzati dagli edili plebei, avevano rappresentazioni teatrali ogni giorno tranne l'ultimo in cui si svolgevano ludi circenses o giochi di animali.
  • I teatri romani furono costruiti in tutte le aree dell'impero, dalla Spagna, al Medio Oriente. Tutti i popoli appresero dai romani l'architettura e lo stile dei teatri romani.

    Ed ecco i teatri di cui si ha ricordo, scavati e non (i nomi originali sono in corsivo)



    I TEATRI DELL'IMPERO

    ALBANIA 
    - Teatro romano di Buthrotum - Butrinto 

    ALGERIA
    - Teatro romano di Calama - Guelma
    - Teatro romano di Culcul - Djemila
    - Teatro romano di Madaurus - Madaura
    - Teatro romano di Thamugadi - Timgad
    - Teatro romano di Thubursicum Numidarum - Khamissa
    - Teatro romano di Theveste - Tébessa
    - Teatro romano di Tipasa - Tipasa


    BULGARIA

    - Teatro romano di Stara Zagora
    - Teatro romano di Philipoppolis - Plovdiv
    - Teatro romano di Serdica - Sofia


    CIPRO

    - Teatro greco-romano di Curium


    CROAZIA

    - Teatro romano di Pola - Pietas iulia


    EGITTO

    - Teatro romano di Alessandria - Alexandrea ad Aegyptum (Alessandria d'Egitto)


    FRANCIA
    - Teatro romano di Alba-la-Romaine - Alba Augusta Helviorum
    - Teatro romano di Orange - Aurasio
    - Teatro romano di Arles - Arelate
    - Teatro romano di Argentomagus - Saint-Marcel (Indre)
    - Teatro romano di Autun - Augustudunum
    - Teatro romano di Mandeure - Epomanduodurum
    - Teatro romano di Bouchauds - Saint-Cybardeaux - Germanicomagus
    - Teatro romano di Fourvière - Lione - Lugdunum
    - Teatro romano di Lillebonne - Juliobona
    - Teatro romano di Vienne - Julia Viennensis
    - Teatro romano di Vaison-la-Romaine - Vasio Vocontiorum


    TEATRO ROMANO DI PETRA


    GERMANIA

    - Teatro romano di Magonza - Mogontiacum


    GIORDANIA

    - Teatro romano di Abila - Quwaylibah
    - Teatro romano di Gadara - Umm Qais
    - Teatro romano meridionale di Gerasa - Jerash
    - Teatro romano settentrionale di Gerasa - Jerash
    - Teatro romano di Amman - Philadelphia
    - Teatro romano di Pella
    - Teatro romano di Petra


    ISRAELE

    - Teatro romano di Beit She'an - Scythopolis
    - Teatro romano di Caesarea Maritima
    - Teatro romano di Diocaesarea - Zippori
    - Teatro romano di Eleutheropolis - Beit Guvrin
    - Teatro romano di Hamat Gader
    - Teatro romano di Hippos
    - Teatro romano di Sebaste (Samaria)
    - Teatro romano di Shuni (Binyamina)
    - Teatro romano di Tiberiade - Tiberias


    ITALIA
    - Teatro romano di Alba Fucens
    - Teatro romano di Ventimiglia - Albintimilium
    - Teatro romano di Amiternum - L'Aquila
    - Teatro romano di Anzio - Antium
    - Teatro romano di Ascoli Piceno - Asculum
    - Teatro romano di Augusta Bagiennorum - Bene Vagienna - Augusta Bagiennorum
    - Teatro romano di Aosta - Augusta Praetoria
    - Teatro romano di Benevento - Beneventum
    - Teatro romano Pietrabbondante - Bovianum Vetus
    - Teatro romano di Brescia - Brixia
    - Teatro romano di Cales - Calvi Risorta
    - Teatro romano di Carsulae
    - Teatro romano di Cassino - Casinum
    - Teatro romano di Cividate Camuno - Civitas Camunnorum
    - Teatro romano di Catania
    - Teatro romano di Grumento - Grumento Nova - Grumentum
    - Teatro romano di Helvia Recina - Macerata
    - Teatro romano di Ercolano - Herculaneum
    - Teatro romano di Falerone - Falerius Picenus
    - Teatro romano di Ferentino - Ferentino - Ferentinum
    - Teatro romano di Ferentium - Viterbo
    - Teatro romano di Fiesole - Faesulae
    - Teatro romano di Fermo - Firmum
    - Teatro romano di Firenze - Florentia
    - Teatro romano di Gubbio - Ikuvium
    - Teatro romano di Juvanum - Monterotondo
    - Teatro romano di Liternum
    - Teatro romano di Lecce - Lupiae
    - Teatro romano di Locri - Locri Epizefiri
    - Teatro romano di Luni - Luna
    Teatro romano di Milano - Mediolanum
    Teatro romano di Minturno - Minturnae
    - Teatro greco-romano di Marina di Gioiosa Ionica - Mystia
    - Teatro romano di Neapolis - Napoli
    - Teatro romano di Nora - Pula
    - Teatro romano di Otricoli - Ocriculum
    - Teatro romano di Ostra antica - Ostra Vetere
    - Teatro romano di Ostia Antica - Ostia
    - Teatro romano di  Peltuinum - Prata d'Ansidonia
    - Teatro romano di Pompei - Pompeii 
    - Teatro romano di Pompei (teatro piccolo)
    - Teatro romano di Pausilypon - Posillipo
    - Teatro romano di Balbo - Roma
    - Teatro romano di Marcello - Roma
    - Teatro romano di Pompeo - Roma
    - Teatro romano di Sepino - Saepinum
    - Teatro romano di Spoleto - Spoletium
    Teatro romano di Suasa - Castelleone di Suasa
    - Teatro romano di Sessa Aurunca - Suessa
    - Teatro romano di Taormina - Tauromenion
    - Teatro romano di Teramo - Interamnia Praetutiorum
    - Teatro romano di Torino - Augusta Taurinorum
    - Teatro romano di Teano - Teanum Sidicinum
    - Teatro romano di Chieti - Teate
    - Teatro romano di Trieste - Tergeste
    - Teatro romano di Tusculum - Monte Porzio Catone
    - Teatro romano di Urvinum Mataurense - Urbino - Urvinum Mataurense
    Teatro romano di Urbs Salvia - Urbisaglia
    - Teatro romano di Venafro - Venafrum
    Teatro romano di Verona - Verona
    Teatro romano di Berga - Vicenza - Vicetia
    Teatro romano di Volterra - Volaterrae


    LIBANO

    - Teatro romano di Byblos (Byblos)


    LIBIA


    - Teatro romano di CyreneShahhat
    - Teatro romano di Leptis Magna - Lebda
    - Teatro romano di Sabratha - Sabrata


    LUSSEMBURGO

    - Teatro romano di Dalheim - Ricciacum

    PALESTINA

    - Teatro romano di Erode - Gerico - Jericho
    - Teatro romano di Nablus - Flavia Neapolis

    PORTOGALLO

    - Teatro romano di Braga - Bracara augusta
    - Teatro romano di Évora - Ebura
    - Teatro romano di Lisbona - Olissipona


    REGNO UNITO
    - Teatro romano di Camulodunum - Colchester - Camulodunum
    - Teatro romano di Verulamium - St Albans - Verulanum

    TEATRO DI SAGUNTO

    REPUBBLICA DI MACEDONIA

    - Teatro romano di Eraclea LincestideBitola
    - Teatro romano di Scupi
    - Teatro romano di Stobi


    SIRIA

    Teatro romano di Apamea
    - Teatro romano di Caesarea Philippi - Caesarea Philippi - Baniyas
    - Teatro romano di Cyrrhus - Cirro
    - Teatro romano di Dura Europos
    Teatro romano di Filippopolis - Shahba
    - Teatro romano di Jable - Gabala
    Teatro romano di Bosra - Nova Traiana Bostra
    - Teatro romano di Palmira

    SPAGNA

    - Teatro romano di Acipinio - Ronda
    - Teatro romano di Badalona - Baetulo
    - Teatro romano di Baelo Claudia
    - Teatro romano di Calatayud - Bilbilis
    - Teatro romano di Cartagena - Carthago Nova
    - Teatro romano di Saragozza - Caesarea Augusta
    - Teatro romano di Clunia - Colonia Clunia Sulpicia
    - Teatro romano di Cordova - Corduba
    -Teatro romano di Cadice - Gades
    - Teatro romano di Mérida - Emerita Augusta
    - Teatro romano di Italica -
    - Teatro romano di Málaga - Malaca
    - Teatro romano di Medellín - Metellinum
    - Teatro romano di Alcúdia - Pollentia
    - Teatro romano di Regina - Casas de Reina - Regina
    - Teatro romano di Sagunto - Saguntum
    - Teatro romano di Segóbriga - Saelices
    - Teatro romano di Tarragona - Tarraco


    SVIZZERA

    Teatro romano di Augusta Raurica - Augusta Raurica
    Teatro romano di Aventicum - Avenches
    Teatro romano di Lenzburg - Lencis


    TUNISIA

    - Teatro romano di Bulla Regia
    - Teatro romano di Cartagine - Tunisi
    - Teatro romano di Dougga -Thugga

    TEATRO DI ORANGE


    TURCHIA

    - Teatro romano di Alicarnasso - Halicarnassus - Bodrum
    - Teatro romano di Ancyra - Ankara
    - Teatro romano di Arycanda
    - Teatro romano di Afrodisia - Aphrodisias
    - Teatro romano di Aspendos
    - Teatro romano di Caunus
    - Teatro greco - romano di Efeso - Ephesus
    - Teatro romano di Erythrai
    - Teatro romano di Euramos
    - Teatro di Hierapolis
    - Teatro romano di Knidos (origini preromane)
    - Teatro romano di Laodicea sul Lycus
    - Teatro romano di 
    - Teatro romano di Mileto
    - Teatro romano di Myra
    - Teatro romano di Nysa
    - Teatro romano di Patara
    - Teatro romano di Perge - Pergamo
    - Teatro romano di Phaselis
    - Teatro romano di Phocaea
    - Teatro romano di Sagalassos (origini preromane?)
    - Teatro romano di Selge
    - Teatro romano di Side
    - Teatro romano di Telmessos
    - Teatro romano di Vize

    UNGHERIA
    - Teatro romano di Gorsium-Herculia - Tác

    CERIMONIAE EQUITUM

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    MASCHERA EQUITES DA CERIMONIA (copia)

    PROBATIO, NOMINA, RECOGNITIO, TRANSVECTIO E DECURSIO EQUITUM erano le principali cerimonie che riguardavano l'ordine degli Equites.



    PROBATIO EQUITUM

    ELMO DA CERIMONIA (copia)
    Sembra che dopo scelta la nomina che dovesse essere approvata dal censore, ma l'approvazione era legata ad un periodo di apprendistato in cui il novizio dovesse aver dato prova di sè, come lealtà, obbedienza, coraggio e onestà, per la probatio i novelli cavalieri passavano in rassegna davanti al censore, ripartiti in tre centurie, o almeno in tre gruppi (tres equitum numero turmae, ternique vagantur).

    Questa cerimonia, che non va confusa con la Transvectio, era in realtà una cerimonia molto antica che venne ripristinata da Augusto.



    NOMINA EQUITUM

    Pochissimo si sa sull'investitura dei cavalieri, se non per alcuni accenni sulle epigrafi (L. AELIANO L. F. /AN. PROVINCIALI / EQUO PUBLICO ORNATO). Per molto tempo gli venne concesso all'investitura di indossare un anello d'oro che li distinguesse come tali in mezzo al popolo, e durante la cerimonia venivano loro conferite delle mezze picche argentate (dette hastae pure) che erano il distintivo del cavaliere, insieme a un piccolo scudo. Per meriti speciali o azioni di valore le Hastae Pure venivano sostituite da mezze picche dorate.

    Nell'investitura dei Cavalieri romani, e solo in quella (non avveniva coi cavalieri stranieri) il nome del nuovo cavaliere veniva registrato in un albo: In album equitum describebatur.



    RECOGNITIO EQUITUM

    Era una cerimonia pubblica in cui i censori in carica facevano un'ispezione pubblica, detta appunto Equitum Recognitio, che avveniva nel Foro. Gli equites delle varie tribù si schieravano in ordine, ognuno di loro veniva chiamato per nome e doveva sfilare a piedi davanti ai censori, i quali potevano apprezzare o deprezzare il comportamento del cavaliere, sia per come aveva agito in quell'anno, sia per il suo aspetto attuale.

    MASCHERA ORIGINALE DA CERIMONIA
    Potevano infatti giudicarne l'equipaggiamento incompleto, o l'indegnità del suo comportamento, e sequestrargli il cavallo, obbligandolo a rifondere le spese del mantenimento allo stato. 

    I censori avevano in quest'occasione il potere di togliere al cavaliere il cavallo e ridurli alle condizioni di un aerarius, cioè di un soldato stipendiato di fanteria; per contro potevano assegnare l'equus publicus a un cavaliere che aveva finora servito con un cavallo a sue spese e si era dimostrato valoroso.

    In questa rivista delle truppe, gli equites che volevano ritirarsi dal servizio, o avevano passato i limiti di età facevano davanti ai censori un resoconto delle campagne cui avevano partecipato e delle azioni compiute, ed erano congedati con onore o con disonore.

    La cosa avveniva così: dopo aver osservato i cavalieri e le note che li riguardavano, i censori annotavano i loro nomi sull'albo, dopodichè li richiamavano in rassegna nome per nome. Coloro che non venivano nominati erano decaduti dall'incarico e dovevano restituire il cavallo e il resto. In questo tipo di degradazione però non c'era infamia (infamis) e il cavaliere poteva, se riteneva ingiusto l'esonero, ricorrere ad un apposito tribunale il quale, se riconosciute le sue ragioni, poteva reintegrarlo direttamente nella carica.

    Questa cerimonia ebbe inizio in epoca repubblicana ed ebbe seguito in epoca imperiale. Infatti Augusto vi apportò alcune modifiche:

    DECURSIO EQUITUM
    SOTTO NERONE
    « [Augusto] frequentemente ispezionò le turmae dei cavalieri e ripristinò le loro sfilate tradizionali, abbandonate da lungo tempo. Ma non tollerò che, durante le sfilate, un qualunque accusatore potesse arrestare un cavaliere, come avveniva di solito, e permise a coloro che fossero vecchi o avessero qualche problema fisico, di lasciare il loro cavallo nella formazione di parata e di venire a piedi per rispondere a chi li chiamasse; permise poi a chi, superati i trentacinque anni, non volesse più mantenerlo [il cavallo], il permesso di restituirlo.»
    (Svetonio, Augustus)

    E ancora:
    « Ottenuti dieci aiutanti dal Senato, costrinse ciascun cavaliere a dargli conto della sua vita e a coloro che risultavano colpevoli inflisse una pena, ad altri una nota di disonore, ai più un'ammonizione, ma sotto varie forme. Il tipo più lieve di ammonizione fu nella consegna personale di una tavoletta che essi dovevano leggere a bassa voce e subito sul posto; criticò alcuni perché avevano prestato a tasso d'usura denaro che avevano avuto a bassi interessi. »
    (Svetonio, Augustus, 39.)
    CAVALIERE IN ASSETTO DA CERIMONIA

    LA TRANSVECTIO

    Un'altra occasione in cui gli equites si mostravano al pubblico in tempo di pace era quella della Transvectio, che consisteva in una specie di parata militare. Tito Livio ricorda che nel 304 a.c. i censori Quinto Fabio Massimo Rulliano (III sec. a.c.) e Publio Decio Mure (III sec. a.c.), veterani ed eroi delle guerre sannitiche istituirono l'Equitum Transvectio, che si teneva alle Idi di Quintilis (15 Luglio).

    ELMO ORIGINALE DA CERIMONIA
    Tutti gli equites si riunivano in processione partendo dal tempio di Marte, posto nel Campo Marzio fuori le mura, dove avevano compiuto una breve cerimonia, ed entravano in città, passando per il Foro e facendo una tappa davanti al Tempio dei Dioscuri, dove si celebrava un'ulteriore cerimonia. 

    Tutti gli equites erano coronati con rami di ulivo (senza alloro), e indossavano la trabea, portando con sé i riconoscimenti ottenuti in battaglia.

    La trabea era una toga con più strisce di porpora che inizialmente veniva indossata solo dai re (il primo fu Tarquinio Prisco), poi anche dagli auguri e dai consoli durante le cerimonie pubbliche, infine anche dagli equites nelle cerimonie ufficiali. 

    Era più corta e meno ampia della toga, e veniva fermata con una fibula. Ce ne dà conferma Dionigi di Alicarnasso.

    La Transvectio serviva anche a censire gli equites, registrando su appositi rotoli, quanti di loro fossero andati in congedo oppure morti, si da conoscere quale fosse il loro ammontare effettivo, quali i loro gradi e le loro benemerenze. In base a ciò si stabilivano le ulteriori nomine ed eventuali passaggi di grado.

    In questa moneta appare appunto la transvectio equitum, non collegata ad alcun evento bellico del periodo (non quindi una acclamatio).

    In questo sesterzio Nerone  cavalca verso destra tenendo una lancia; dietro di lui un soldato sempre a cavallo (forse un pretoriano), tiene un vexillum; moneta del 65.



    LA DECURTIO EQUITUM

    La decursio equitum è una cerimonia spesso intesa, fin dalle fonti antiche, come alternativa alla transvectio equitum, ovvero la parata annuale, creata da Augusto nel 5 a.c., dei cavalieri romani a Roma che sfilavano di fronte all'imperatore.

    La Decurtio era guidata da un sevirato dei cavalieri, affidato ai figli dei senatori e, con qualche rara eccezione, ai membri del ceto equestre. In altri casi però, la Decursio, era la parata di cavalieri romani in occasione dell'apoteosi di un imperatore, come nel caso di Antonino Pio (86 - 161). La Decurtio era in genere usata come cerimonia funebre per la morte di un imperatore o imperatrice.


    DECURSIO EQUITUM DELLA COLONNA ANTONINA

    DECURSIO SULLA COLONNA ANTONINA

    Un esempio di Decursio come "giostra a cavallo" durante la cerimonia funebre, la troviamo sulla colonna di Antonino Pio a Roma, sulla cui base sono rappresentate due scene quasi identiche della duplice consecratio della coppia imperiale, due scene quasi identiche della duplice consecratio della coppia imperiale (una per Antonino e una per Faustina, come le doppie aquile).

    Vi sono raffigurati poi i membri del rango equestre intenti a celebrare il decursio o decursius, ovvero la giostra a cavallo durante la cerimonia funebre, coi relativi vessilliferi, all'esterno, e un gruppo di pretoriani all'interno.

    Questo rito, che doveva aver avuto luogo attorno all'ustrino dove si era svolta la cerimonia di cremazione, si era svolta in due tempi (prima la processione a piedi, poi la giostra a cavallo).

    Nella raffigurazione tuttavia sono per ragioni di effetto contemporanee, collocando una parata dentro l'altra. Anche nella Colonna Traiana la raffigurazione dei campi militari è "a volo d'uccello", il che permette, nella Colonna Antonina, di inquadrare l'intero moto circolare della giostra, con i cavalieri posti su due piani principali, in file di due o tre, poggianti su sottili lembi di terreno ad altezze diverse. La presenza di scorci è novità assoluta in un monumento ufficiale romano.

    Lo stesso termine veniva usato per l'Apoteosi o per gli Onori Militari resi dai soldati ai funerali o degli Imperatori o a degni Generali che si erano distinti nelle battaglie.

    Rispetto alla scena dell'Apoteosi quella dei funerali è ancora più particolare: le figure quasi a tutto tondo, si raccolgono in un ovale centrale stagliandosi vigorosamente dallo sfondo neutro, creando un netto contrasto tra lo sfondo levigato e la scena in plastico movimento, forse ispirato dall'arte orientale degli antichi greci nelle province asiatiche, come nella Gigantomachia di Pergamo, che a Roma si tradusse nell'Atrium Minervae ove si osserva lo stesso contrasto tra rilievo plastico e sfondo piatto.

    La prima cerimonia di Decursio è menzionata per il funerale di Sempronio Gracco (Sempronius Gracchus), ucciso nella II Guerra Punica (Tito Livio). I soldati marciavano per tre volte intorno alla pira ardente. Ma il rito era sicuramente molto più antico. (Virgilio, Eneide - Tacito, Annali)

    GAIO CASSIO LONGINO

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    G. CASSIO LONGINO (Madrid)

    Nome: Cassius Longinus
    Nascita: 5 d.c.
    Morte: 69 d.c. Roma
    Professione: Giurista, Politico

    Gaius Cassius Longinus fu un grande giureconsulto romano, nacque il 5 d.c. da Lucio Cassio Longino (console suffetto nell'11 d.c.) e da Aelia, figlia del famoso giureconsulto Quinto Elio Tuberone, nipote del giureconsulto S. Sulpicio Rufo, e sorella di Q. Elia Tuberone.

    Il padre di Gaio Cassio Longino fu Lucio Cassio Longino consul suffectus nell'11 d.c. che sposò Aelia, figlia del famoso giureconsulto Quinto Elio Tuberone, nipote del giureconsulto S. Sulpicio Rufo e sorella di Q. Elia Tuberone, console nell'11 d.c..

    Apparteneva alla famosa e gloriosa Gens Cassia, di antichissima nobiltà, che aveva fornito molti alti magistrati all'Urbe.

    Si narra infatti che fosse originariamente patrizia e che solo in seguito agli avvenimenti che coinvolsero il console Spurio Cassio Vecellino, i figli di lui furono espulsi, o lasciarono volontariamente l'ordine patrizio.

    A questa importante gens apparteneva la familia Longina tristemente famosa per l'uccisione di Cesare.

    Il fratello maggiore, Lucio Cassio Longino fu console nel 30 d.c. (lo stesso anno in cui Gaio fu consul suffectus, partigiano di Seiano (20 a.c. - 30 d.c.), amico e confidente di Tiberio, e sposò nel 33 Drusilla sorella di Caligola.

    Gaio Cassio Longino si sposò con Giunia Lepida della gens cassia e della famiglia dei Silani; il suocero era M. Silanus console nel 19 d.c.; la moglie era pronipote di Augusto.

    LONGINO
    Fu un noto giurista, e scrisse un manuale di interpretazione del diritto romano, conservato lacunoso nei secoli e noto come Institutiones Gaii.

    È tra i giuristi classici più frequentemente citati nel Digesto di Giustiniano. Venne esiliato in Sardegna da Nerone, con l'accusa di conservare, fra le imnafini degli antenati, anche quella del Gaio Cassio Longino cesaricida.

    E' certo che Cassio fu partecipe dei tentativi di ristabilire un po' di giustizia nel periodo neroniano, visto che rappresentò per il periodo il più grande giureconsulto esistente.

    Esiliando lui si esiliava la libera giurisprudenza e il ritorno dall'esilio sotto Vespasiano rappresentò il rinascere della giurisprudenza. Allievo di Masurio Sabino, insieme al quale diresse la scuola che da entrambi prese il nome: detta anche dei Cassiani o Sabiniani. Secondo Plinio il fondatore della scuola però fu Cassio.

    È una delle statue che adornano la facciata del Palazzo di Giustizia che si affaccia sul Tevere, come si vede nella foto qua sotto..

    La via Cassia fu dovuta sicuramente alla gens cassia, come riferisce Festo, sembra che il suo ordinante fosse il censore Lucio Cassio Longino Ravilla che fu Tribuno della plebe nel 137 a.c., console nel 127 a.c., censore nel 125 a.c.e il cui nome è legato alla proposta della Lex Cassia per il voto scritto anziché orale.

    Sulla Via Cassia Festo ci dice soltanto essere stata lastricata da un Cassio, probabilmente a un membro della familia Longina, ma non fu, come alcuni hanno supposto, Caio Cassio Longino, perchè è di molto precedente.

    Caio Longino fu Pretore nel 27 d.c. Console nel 30 d.c. e Proconsole della provincia d'Asia nel 40 e legato imperiale propretore in Siria dal 49 al 51. Nel 58 fu inviato a sedare la rivolta di Pozzuoli.

    Nessuna opera di Cassio ci è giunta, come tante opere classiche non sfuggì ai roghi del cristianesimo che distrusse biblioteche pubbliche e private.

    Le uniche notizie sulle sue opere le dobbiamo ricavare dai frammenti in cui il giureconsulto è nominato; le uniche notizie certe riguardano un'opera intitolata Iuris civilis libri, in almeno 10 libri, probabilmente era l'opera principale di Cassio.

    Morì nel 69 d.c. quasi certamente a Roma.

    DOMUS FAUSTAE

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    DOMUS FAUSTAE

    Tra via Amba Aradam e via dei Laterani durante la costruzione della nuova sede dell'INPS sono venuti alla luce, nel 1959, a una decina di metri di profondità, un gruppo di edifici su terrazzamenti digradanti verso sud e verso ovest, di età giulio-claudia, con muri in opera reticolata, e con restauri del II sec. d.c., oltre a un completo rifacimento del IV sec.. Era una vasta villa costeggiata dalle mura aureliane, quindi ai limiti di Roma antica. Aveva naturalmente un grande cortile interno con grandi ali laterali, e vasti giardini ricolmi di piante e statue.

    Nel corso dei secoli, per ragioni di livellamento edilizio, tutte le strutture superiori furono rase al suolo mentre si conservarono quasi interamente quelle più in basso.

    Gli edifici sono tre e il più interessante conserva un ampio corridoio largo 5 m di cui è stato possibile scavare finora un tratto di 27 metri di lunghezza, che si estende in direzione est-ovest.

    Sul lato sud presenta grandi finestre, su quello nord, all'interno, una serie di grandi affreschi di età costantiniana che rappresentano personaggi di dimensioni maggiori del vero, purtroppo mal conservati e difficili da decifrare,  databili al IV sec. Il corridoio si allarga all’estremità orientale in un'esedra, anch’essa finestrata, con un basamento al centro.

    Si suppone che l’esedra fosse il centro di un portico che si estendeva per 60 m, per un edificio orientato nord-sud con un profondità di circa 40 m. La conformazione del terreno e la successiva scoperta del ninfeo all’incrocio con via dei Laterani fanno però pensare ad una struttura di dimensioni minori.

    Oggi si tende a riconoscere in questo edificio la Domus Faustae, la moglie di Costantino e sorella di Massenzio, la sfortunata donna che venne fatta giustiziare da suo marito facendola soffocare in un bagno bollente. (Costantino venne considerato santo e "simile agli apostoli" dalla Chiesa ortodossa, da alcune Chiese orientali antiche e dalla Chiesa cattolica in Sardegna). La domus sorgeva nei pressi della Basilica, probabilmente verso l’attuale Via Amba Aradam, e i terreni coprivano tutta la zona che comprende anche l’attuale area basilicale.



    SANTAMARIA SCRINARI

    Gli studi condotti dalla professoressa Valnea Santamaria Scrinari (Commendatore della Repubblica Italiana e Cavaliere della Regina di Danimarca per i meriti di archeologa) vennero pubblicati dal Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana di Roma, insieme all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale.

    Il ricco volume si intitola “Dalle aedes Laterani alla Domus Faustae”, incluso nell’opera “Il Laterano imperiale” (Città del Vaticano, 1991).

    La Scrinari collegò il più antico nucleo del sito con il testo di Giovenale, che nella satira decima (X, 17) nomina le Egregiae Lateranorum Aedes, cioè, la sontuosa dimora dei Laterani, in relazione ai funesti tempi di Nerone e ai giardini di Seneca.

    L’archeologa ipotizzò quindi che questa fosse la lussuosa casa di Plauzio Laterano, console nel 65 d.c., che partecipò alla congiura contro l’imperatore Nerone, ordita proprio in quell’anno da Gaio Calpurnio Pisone e vari complici.

    Attigua alla dimora dei Laterani, doveva essere proprio quella dei Pisoni, noti anche per la loro villa di Baia, nell’area dei Campi Flegrei: gli affreschi qui ritrovati richiamano proprio lo stile di quelle ricche ville vesuviane.

    Le dimore erano decorate e arredate riccamente, come dimostrano i reperti (statua femminile, erma fallica, colonna, pavimento, affreschi…). Inoltre l'attuale Battistero della Basilica sfruttò le sottostanti Terme di Fausta.

    La congiura dei Pisoni è narrata da Tacito, negli Annali, in cui si racconta della scoperta del complotto da parte di Nerone, che si vendicò giustiziando i colpevoli.

    Molti di costoro abitavano ai piedi del colle Celio, dove risiedeva probabilmente anche Seneca, che era stato il precettore di Nerone e venne da questo indotto al suicidio, in seguito alla sua presunta partecipazione alla congiura.

    Seguì poi la confisca delle proprietà dei congiurati e l'annessione al demanio imperiale.  Sembra che la proprietà dei laterani sia per un breve periodo tornata privata, quando, al principio del III sec. d.c., Settimio Severo ne fece dono a Sestio Laterano, console nel 197, condottiero vittorioso nelle spedizioni d'Oriente.

    La cortina laterizia di mattoni rossi è una tipica struttura muraria severiana e potrebbe suffragare le ipotesi della Scrinari, tanto più che negli scavi sono emerse condutture di piombo con inciso il nome dei Laterani. 

    Si ritiene infatti che i due nuclei più antichi fossero la casa di Pisone e quella dei Laterani, espropriate durante il regno di Nerone e inglobate nel IV sec. nel palazzo imperiale di Fausta, di cui farebbe parte il terzo nucleo, quello con il corridoio affrescato. L''interpretazione dei personaggi raffigurati sull'affresco del corridoio come membri della famiglia costantiniana testimonierebbe l'ipotesi.

    Ma non sono tutti d'accordo, e l’attribuzione degli edifici a residenza della moglie dell’imperatore Costantino, non convince, sia perchè le figure degli affreschi sono danneggiate e mancanti delle teste, potrebbero essere personaggi della famiglia imperiale ο divinità in consesso. Inoltre la loro datazione oscilla tra i primi anni e il II quarto del IV sec.



    OPTANUS MILEVITANUS

    D'altronde Optatus Milevitanus (vescovo numida), narrando del sinodo indetto da papa Milziade nel 313 sulla questione dello scisma donatista, ci informa che i partecipanti: “convenerunt in domum Faustae in Luterano”.

    Fausta venne allora interpretata come l'imperatrice Flavia Maxima Fausta, moglie di Costantino. In quanto alla domus l'imperatore l'avrebbe donata, in tutto ο in parte, al papa, in occasione del sinodo e comunque in connessione con l'erezione della basilica e del battistero.



    ERNEST NASH

    Una decina d'anni fa un articolo di Nash, criticando tale teoria, fa presente che nulla attesti che questa Fausta, citata da Optatus, sia proprio l’imperatrice, ma che anzi è assai difficile che la moglie di Costantino abbia mai posseduto un palazzo a Roma in quanto sembra non sia mai tornata in questa città dopo la sua nascita. 

    FLAVIA MAXIMA FAUSTA
    Inoltre anche il Liber Pontificalis che elenca minuziosamente tutti i doni e le proprietà assegnati da Costantino alla basilica e al battistero, non cita quella che avrebbe dovuto costituire proprio la donazione più prestigiosa, ossia quella del palazzo imperiale.

    Il Nash anzi osserva che la leggenda del palazzo lateranense di Costantino e della sua donazione al pontefice non comparirebbe prima del Constitutum Constantini, il famoso falso del VIII sec.

    Ritiene, inoltre, che quest'ultima sia divenuta proprietà di Fausta, la moglie di Costantino e che sia quindi quella domus Faustae in Laterano nella quale si svolse il concilio del 313 e che Costantino avrebbe donato al papa per farne la sua sede: il primo nucleo del palazzo papale.



    MARGHERITA GUARDUCCI

    La studiosa Guarducci, ha fatto inoltre  notare che l'imperatrice visse i primi cinque anni della sua fanciullezza a Roma e che quindi la casa che l'aveva ospitata da bambina potrebbe essere rimasta di sua proprietà e a suo nome anche in sua assenza  e inoltre analizza l'opportunità politica perchè il sinodo si svolgesse in un campo sottoposto all'imperatore, ma in maniera indiretta, per esempio nel caso dell'abitazione della moglie.

    In conclusione, l’unica cosa certa è che ci troviamo di fronte a parte di una casa tardo antica di alto livello, con una decorazione decisamente lussuosa per cui è anche proponibile - ma finora non è dimostrato con certezza - l'appartenenza alla famiglia imperiale.


    La studiosa riconosce in quella Fausta la moglie di Costantino, sorella di Massenzio. E riconosce nelle strutture con lungo loggiato il palazzo imperiale, che Massenzio aveva ristrutturato e aveva probabilmente intitolato alla sorella prima che andasse sposa a Costantino: la Domus Faustae.

    La Scrinari ricorda che Massenzio risiedette, come imperatore associato, a Roma, dove realizzò una serie di interventi edilizi con l’intento di restituire all’impero l’antico prestigio.

    Per questo l’archeologa ipotizza che Massenzio abbia voluto, sul podio, al centro dell’esedra, la “lupa capitolina”, simbolo della più antica romanità, le cui misure sarebbero coerenti con il podio stesso. E in un documento medievale questa zona è indicata come “porticus ad lupam”.



    I BENI CULTURALI VENDUTI AI PRIVATI, SOLO IN ITALIA.....

    Qui Inps, uffici e archeologia ai privati la domus di Costantino

    Nel 1959 durante gli scavi per la costruzione della sede provinciale dell' Inps in via Amba Aradam fu fatta una scoperta di eccezionale valore storico artistico: venne individuata infatti la "Domus Faustae" cioè la dimora privata della famiglia di Costantino e di sua moglie Fausta che le fonti antiche ricordano nell' area un tempo proprietà dei Laterani. 

    Oggi questo sito, non aperto al pubblico, visitato di tanto in tanto da qualche scolaresca al seguito di un docente di storia dell' arte particolarmente informato, è molto amata dagli studiosi stranieri. Stanno lì sotto ore e ore francesi e canadesi, tedeschi e americani. 

    AFFRESCHI DOMUS FAUSTAE
    Ora che il palazzo è stato ceduto al Fip questa sede archeologica potrebbe anche diventare proprietà privata e non essere più gestita ma solo protetta dalla sovrintendenza. Roma comunque potrebbe averla già persa. 

    Proprio prima che passasse la legge delle cessioni la sovrintendenza ai Beni archeologici stava concertando con l' Inps un piano per la messa in sicurezza e la valorizzazione di questo ritrovamento, già vincolato visto che fa parte dei beni del demanio. Il vincolo vuol dire però che il palazzo si porta dietro una sorta di inalienabilità, ma nessun vincolo contiene la clausola dell' esposizione al pubblico di un bene sotto tutela. Eppure la vista di questa dimora romana è un' esperienza indimenticabile. 

    Lo scavo ha rivelato una serie di strutture edilizie interpretate come la domus di Fausta, (fine III inizio IV sec.), seconda moglie di Costantino e sorella di Massenzio, un' attribuzione in seguito contestata da altri studiosi che vedevano due nuclei edilizi del I secolo d.c., la sede della domus di Calpurnio Pisone e quella della domus dei Laterani. 

    In ogni caso la dimora, schiacciata dai piloni di cemento dell' edificio dell' Inps, appare magnifica: c'è ancora un lungo tratto murario, un corridoio e delle stanze. 

    Le pitture, tardo antiche, sono state portate al Museo nazionale romano, sono megalografie molto rovinate, che raffigurano una serie di personaggi della casa imperiale, una processione divina. 

    All' area archeologica conservata nel sottosuolo "si accede" dall' angolo tra via dei Laterani e via Amba Aradam attraverso un elegante giardino ed una scala a lenta gradonata. 

    Si passa accanto ad un resto di muro in grossa opera reticolata di tufo d' epoca neroniana, si raggiunge un cortile lastricato un tempo di marmi policromi ad intarsio di cui un frammento si conserva nell' angolo vicino alla scala d' accesso. 

    La vicinanza della campagna è richiamata anche dalla presenza nel cortile di un pozzo. E una volta laggiù ci si immagina naturalmente com'era fatto il loggiato con il possente muro di fondo in tufelli e grossa malta grigia, quasi si vede l' impostazione della loggia con l' ampia esedra centrale. E c'è di più. Alcuni studiosi sostengono che il basamento ritrovato quasi intatto accanto al portico fosse quello che sosteneva la Lupa capitolina. Come dire che il più pregnante simbolo della romanità non è più di Roma, anzi presto sarà venduto al miglior offerente.
    (anna maria liguori)


    COSTANTINOPOLIS (Turchia)

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    BISANZIO (BISANTIUM)

    Bisanzio nasce come un'antica città greca fondata da coloni di Megara nel 667 a.c. che venne chiamata Byzantion in onore del re Byzas. I megaresi fondarono altresì in Asia Minore non solo Bisanzio, ma pure Eraclea Pontica e Calcedonia. 

    La tradizione vuole che il sito fosse stato scelto consultando l'Oracolo di Delfi, che consigliò di creare la nuova città facendo "l'opposto del cieco" (per altri di fronte alla terra dei ciechi). L'interpretazione fu di fare l'opposto di ciò che si fece nella fondazione sulla riva opposta di Calcedonia, città greca sul Bosforo, che "ciecamente" non venne costruita sull'alto sperone, su cui invece Byzas fondò la propria colonia.

    La posizione felice dal punto di vista commerciale e geografico, ma distaccato dal mondo greco e quindi dalle sue vicissitudini, permisero alla città di prosperare economicamente, senza troppi coinvolgimenti nelle vicende politiche e militari della Grecia. Inglobata nell'impero di Alessandro Magno, fece parte del Regno di Pergamo, da cui poi passò all'Impero Romano grazie al testamento di Attalo III.

    86 a.c.- Nel corso della I guerra mitridatica, il nuovo console Flacco si recò in Asia, per resistere a Lucio Cornelio Sillae porre fine alla guerra contro Mitridate VI del Ponto. Gaio Flavio Fimbria accompagnò Flacco in questa spedizione. I rapporti tra Flacco e Fimbria degenerarono quando il primo, in occasione di un contrasto tra Fimbria e un questore in cui era stato chiamato a fare da arbitro, decise in favore del questore: Fimbria minacciò di tornare a Roma, e Flacco lo congedò dal servizio.

    69 a.c. - Durante la guerra civile del 69, Tacito narra che a Bisanzio fu allestita una flotta da Gaio Licinio Muciano, alleato di Vespasiano, per far fronte alla sua marcia verso l'Italia contro le armate di Vitellio.

    196 - Settimio Severo, per punire la città d'avere parteggiato per il suo rivale Pescennio Nigro, ne fece radere le mura e demolire una parte dei monumenti, togliendole allo stesso tempo i privilegi di città libera (196 d.c.) con l'ordine di passare i diritti di città alla vicina Perinto.



    ACROPOLI DI BISANZIO
    1- Aphrodite Temple
    2- Apollo Temple
    3- Artemis Temple
    4- Poseidon Temple
    5- Athena Ekbasia Temple
    6- Temenos Temple
    7- Stadion
    8- Amphitheater
    9- Demeter Temple
    10- Kore Temple
    11- Apollo Temple
    12- Helios Temple
    13- Selene Temple
    14- Pluto Temple
    15- Hera Temple
    16- Agora 1
    17- Agora 2
    18- Tetrastoon

    Mentre Flacco era in viaggio per mare, Fimbria sollevò le truppe di Bisanzio contro Flacco. 

    Il console tornò a Bisanzio, ma fu costretto a fuggire e a rinchiudersi a Nicomedia. Fimbria però lo fece prendere e decapitare, gettò la sua testa in mare e lasciò il corpo senza sepoltura.

    Grazie all'intercessione del figlio Caracalla, Bisanzio fu ricostruita subito dopo dallo stesso Settimio Severo, divenuto Imperatore anche sull'Oriente

    La città ottenne così gli antichi privilegi e la sua precedente prosperità grazie ad un ampliamento di ben 200 ettari rispetto all'estensione precedente, con molti e bellissimi edifici pubblici e privati.

    282 - La Historia Augusta racconta che al tempo dell'Imperatore Gallieno (nel 262):

    « la città di Bisanzio, famosa per le sue battaglie navali, punto strategico del Ponto, fu rasa al suolo dai soldati dello stesso Gallieno, tanto che nessun abitante poté salvarsi. E così oggi [attorno al 400 d.c.] non esiste più a Bisanzio alcuna famiglia di antica discendenza, salvo chi poté fuggire in quanto era in viaggio o nell'esercito, tanto da rappresentare la nobiltà ed antichità della sua famiglia. »
    (Historia Augusta - Due Gallieni, 6.8-9.)

    Poco dopo lo stesso Gallieno mosse contro i soldati che avevano compiuto un tale eccidio, e ne fece grande strage, come esempio per tutti coloro che si macchiavano di un simile delitto.



    COSTANTINOPOLI (COSTANTINOPOLIS)

    Costantinopoli (Costantinopolis, che in greco significa "Città di Costantino") o Nuova Roma (Nova Roma) o la Città d'Oro furono i nomi dell'odierna  Istanbul, sulle rive del Bosforo, il più grande centro urbano turco.

    Quando Costantino I decise di edificare una nuova capitale per l'Impero, si rivolse a Bisanzio, che si trovava al centro di grandi vie commerciali sia terrestri che marine verso i principali centri dell'Impero, e inoltre dominava gli stretti strategici del Bosforo e dei Dardanelli.

    Inoltre per la sua dislocazione alla sommità di una penisoletta era facilmente difendibile. Infatti la città era circondata da tre lati dal mare, sempre via mare era facile rifornirla e, per il lato terra, venne eretto un imponente sistema di fortificazioni.

    Il nome Costantinopoli venne usato tra la rifondazione ad opera di Costantino che  la inaugurò con rito etrusco, come nuova sede del potere imperiale, chiamandola Nova Roma. Il termine però non venne usato, preferendo gli abitanti della città e dell'Impero Romano riferirsi ad essa come città di Costantino.

    Durante tale periodo la città fu una delle capitali dell'Impero romano (330-395) e capitale dell'Impero romano d'Oriente o Impero bizantino (395-1204).

    324 - L'imperatore aveva avuto modo di conoscere la zona nell'anno 324, quando vi aveva combattuto e sconfitto il rivale Licinio, Augusto d'Oriente, nella battaglia di Crisopoli. Apprezzando la strategica posizione della città di Bisanzio, Costantino, appena divenuto unico imperatore, decise di farne la nuova Roma.

    BLAKERNAE

    LA FONDAZIONE (330)

    330 - Sembra fu lo stesso Costantino, Pontifex Maximus, a tracciare con la propria lancia il perimetro sacro della mura, il pomerium, assegnando alla città lo stesso nome segreto di Roma, probabilmente Flora, e battezzandola ufficialmente Nova Roma. L'atto ufficiale di fondazione della nuova capitale si tenne l'11 maggio 330 d.c. con un complesso cerimoniale pagano che riproducesse la nascita di Roma assicurandone altrettanta gloria e fortuna.

    L'opera colossale di ricostruzione vide un allargamento dell'area urbana da 200 a 700 ettari, la costruzione di nuove mura, di un nuovo porto nel Corno d'Oro e di un nuovo impianto urbano, con la creazione di nuovi edifici, templi, strutture pubbliche atti a fare della città la nuova Roma.

    FORO DI COSTANTINO
    Nella nuova capitale venne forse trasportato il Palladio, la statua già protettrice di Troia e poi di Roma.  Era una statua di legno, senza gambe, alta tre cubiti (circa 60 cm, per cui era alta circa m 1.80) che ritraeva Pallade, l'amica libica di Atena, con una lancia nella destra e una rocca e un fuso nella sinistra; il suo petto era coperto dall'egida. 

    Atena, uccidendo per sbaglio la compagna di giochi, addolorata assunse il nome di Pallade e fece costruire questa immagine, ponendola sull'Olimpo a fianco del trono di Zeus. Evidentemente Pallade, che significa la fanciulla, venne sostituita da Atena dai nuovi invasori. Enea trasferì la statua a Roma e Costantino a Costantinopoli, dove venne seppellita al centro del foro, sotto la Colonna di Costantino.

    Vennero individuati sette colli come a Roma e la città venne divisa, come Roma, in XIV regiones. Come per Roma, venne posto un cippo per indicare il centro dell'Impero, la prima pietra miliare da cui misurare tutte le distanze, il Milion.

    Il grandioso complesso dei Palazzi Imperiali venne eretto all'estremità della penisola, accanto al grande circo e al foro dell'Augustaion, ricalcando il modello romano del Foro-Palatino-Circo Massimo. Nel foro venne edificata l'aula del Senato. Vi si aggiunse però la basilica di Santa Sofia.

    Per rispetto però agli antichi Dei, che lo stesso Costantino ancora venerava, vennero portati dal santuario di Delfi la bronzea colonna serpentina, dedicata a Pitone e ad Apollo, che venne posta nella spina del grande ippodromo, assieme al tripode celebrativo della vittoria greca nella battaglia di Platea e all'Ercole di Lisippo, simbolo di forza. Costantino infatti, pur proteggendo la nuova religione cristiana, non abbandonò mai il paganesimo, tanto è vero che fino all'ultimo fece celebrare nei templi il Natale del Deus Invictus Mitra.



    LE VICENDE STORICHE

    A Costantinopoli mancavano molte delle antiche cariche repubblicane romane. Non vi erano né pretori, né tribuni nè questori. I senatori, che portavano il titolo di clarus ("illustre"), al posto del romano clarissimus ("illustrissimo"), erano in realtà i numerosi patrizi trasferiti da Roma alla nuova città, anche grazie alle elargizioni promesse da Costantino, che donava le terre del demanio imperiale per incentivare l'edilizia.

    PARTICOLARE DELL'IPPODROMO
    Sebbene l'Imperatore continuasse a risiedere nella vicina Nicomedia, l'antica Bisanzio, in cui i lavori procedevano alacremente divenne così la nuova capitale dell'Impero Romano, assieme alla vecchia Roma, testimoniandolo con speciali monete commemorative.

    332 - Inoltre nel 332 Costantino annunciò l'inizio di pubbliche distribuzioni di grano ai cittadini, come accadeva a Roma con la plebe. Sembra che all'epoca si elargissero 80.000 razioni quotidiane attraverso una rete di 117 punti di distribuzione

    337 - Alla morte di Costantino, nel 337, molto era ancora in costruzione, anche se già da tre anni le strutture principali erano in funzione e si contavano ormai novantamila abitanti.

    346 - Persecuzioni contro i pagani di Costantinopoli. Viene bandito il famoso oratore Libanius, accusato di essere un “mago”.



    COSTANTINOPOLI ROMANA (337-395)

    360 - Divenuta capitale, Costantinopoli fu sede di un Praefectus urbi, al pari di Roma: il primo conosciuto è Onorato (359-361). Il 15 febbraio 360 venne finalmente inaugurata dal successore di Costantino, Costanzo II, la cattedrale di Santa Sofia, alla presenza del vescovo di Costantinopoli Eudossio. Il prestigio di essere sede imperiale portò Costantinopoli ad affermare il diritto di essere pari nell’onore alla stessa Roma.

    361 - La tolleranza religiosa e la restaurazione dei culti pagani dichiarate a Costantinopoli (1° dicembre 361) dall'Imperatore Flavio Claudio Giuliano.

    363 - Sotto gli altri imperatori della dinastia costantiniana, la città continuò a crescere e a prosperare. L'ultimo esponente della dinastia Giuliano, detto l'Apostata, lasciò alla città un nuovo grande porto, realizzato sul lato meridionale e affacciato sul Mar di Marmara.
    Sul piano militare fu un grande generale e seppe difendere l'impero da ogni attacco nemico, sul piano politico, l'Imperatore tentò di impedire l'affossamento della religione pagana consentendo a tutti la libertà religiosa, pagani o cristiani che fossero. Cercò quindi di restaurare l'antica religione romana e i culti pagani, abrogati e perseguitati dai precedenti imperatori, restaurando i templi ed edificandone di nuovi.

    363 - L'assassinio dell'imperatore Giuliano (26 giugno) segnò però la fine della rinascita pagana e il ritorno dell'intolleranza religiosa cristiana.

    364 - Valente divenne imperatore romano dal 364, anno in cui il fratello Valentiniano I, già comandante dell'esercito di Goiliano gli affidò la parte orientale dell'Impero romano, alla sua morte.

    Come i fratelli Costanzo II e Costante I, Valente e Valentiniano avevano credo religiosi differenti: Valente era Ariano e Valentiniano adottava il Credo di Nicea. L'arianesimo sosteneva che la natura divina di Gesù fosse inferiore a quella di Dio per cui vi fu un tempo in cui il Verbo di Dio non esisteva e dunque venne creato in seguito, Cadeva così il concetto di Trinità elaborata dagli scritti di Giustino di Nablus. Il Credi di Nicea invece sosteneva in Dio ma trino, cioè composto da tre parti equivalenti (padre, figlio e spirito santo).

    Un editto imperiale (11 settembre) ordina la pena di morte per quei Gentili che praticano il culto antico degli Dei o praticano arti divinatorie. Con altri tre editti (4 febbraio; 9 settembre; 23 dicembre) si ordina la confisca di tutte le proprietà dei Templi Pagani e la pena di morte per i Pagani che partecipano ai riti, anche se privati.

    ACQUEDOTTO DI VALENTE

    365 - Sia Costantino che i suoi immediati successori avevano una visione unitaria dell'Impero, ma nel 365 questo venne diviso definitivamente in due parti con Costantinopoli capitale della parte orientale, e Milano prima e Ravenna poi furono le capitali della parte occidentale.

    368 - L'acquedotto fu completato da Valente, nel 368, ma questa costruzione era già stata iniziata dai precedenti imperatori. Includeva un sistema di acquedotti e canali, che si estendevano per tutta la Tracia, fino alla capitale dove raggiungeva le cisterne sotterranee, come la Basilica Cisterna.

    L'imperatore Valente costruì a Costantinopoli il nuovo palazzo extraurbano di Hebdomon, sulle rive della Propontide (oggi detto Mar di Marmara), nei pressi del Corno d'Oro, che divenne il luogo di acclamazione degli imperatori militari.

    L'imperatore provvide anche all'approvvigionamento idrico della città con la costruzione dell'Acquedotto di Valente.

    372 - L'imperatore Valente ordinò al governatore dell'Asia Minore di sterminare tutti gli ellenici e tutti i documenti relativi al loro sapere.

    378 - La battaglia di Adrianopoli ebbe luogo presso l'omonima città, nella provincia romana di Tracia (oggi Turchia occidentale), il 9 agosto 378 e si concluse con l'annientamento dell'esercito romano guidato dall'imperatore d'Oriente Valente ad opera dei Visigoti di Fritigerno.

    381 -  Nel 381 la diocesi urbana, venne innalzata al rango di Patriarcato di Costantinopoli. Alla morte di Valente, in ogni caso, la storia dell'arianesimo nell'oriente romano giunse alla fine: il suo successore Teodosio I avrebbe infatti imposto il credo di Nicea tramite l'editto di Tessalonica:

    "Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all'insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste".
    La famosa libertà romana per le diverse religioni era tramontata, non solo verso le altre religioni, ma anche verso la propria se non si credeva ciecamente a tutto ciò che i vescovi stabilivano tra di loro cosa fossero le verità e quali le falsità sulla fede si rischiava molto spesso la vita..

    MURA TEODOSIANE

    Teodosio

    L'imperatore svolse importanti opere edilizie, realizzando una colonna commemorativa nel Foro Boario, la Colonna di Teodosio, purtroppo trasformando lo splendido tempio di Afrodite nella nuova sede prefettizia, fece inoltre edificare il Monastero di San Giovanni di Studion, centro della cristianità ortodossa.

    378 - Dopo la devastante sconfitta dell'Imperatore Valente nella battaglia di Adrianopoli, nel 378 contro i Visigoti di Frigerno, Costantinopoli temette grandemente le invasioni dei Barbari, che infatti avrebbero in futuro devastato l'Impero.

    380 - Una delle principali preoccupazioni di Teodosio fu di rendere cristiano tutto l'Impero, emanando  l'Editto di Tessalonica del 380:
    "Vogliamo.. si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste".
    Il culto cristiano non fu mai spontaneo ma potentemente obbligato nei secoli.

    392 - Con l'editto di Costantinopoli emanato da Teodosio I l’8 novembre 392, si operò la completa distruzione del culto politeista romano.

    395 - Sia Costantino che i suoi immediati successori avevano una visione unitaria dell'Impero, ma dopo la sua morte questo venne diviso definitivamente in due parti (395) e Costantinopoli divenne la capitale della parte orientale, mentre Milano prima e Ravenna poi divennero la capitale della parte occidentale. Da allora la crescita di Costantinopoli fu costante, mentre le città occidentali declinarono sempre più.

    Alla morte dell'Imperatore le esequie vennero celebrate (per la I volta con rito cristiano) a Milano dal vescovo Ambrogio, colui che si era vantato di aver bruciato la sinagoga ebraica (bruciare le sinagoghe era un "atto glorioso" affinché "non possa esserci luogo in cui Dio è negato"- Ambrogio).

    405 - Flavio Antemio, prefetto del pretorio per l'oriente, per ordine di Arcadio inizia a costruire le mura Teodosiane.

    408 - Sale al trono Teodosio II.
    Alla morte di Teodosio, l'Impero venne definitivamente diviso nelle due metà: Impero Romano d'Occidente, con capitale Ravenna, e Impero Romano d'Oriente, con capitale Costantinopoli.

    Il nuovo giovane Imperatore d'Oriente, il debole Arcadio, protetto prima dal prefetto Flavio Rufino, poi da Eutropio, realizzò in città un nuovo foro, il Foro di Arcadio, lungo la via Mese, avviando la costruzione delle nuove mura.
    Durante il regno del successore, Teodosio II, venne portata a termine la cerchia muraria, che da lui venne detta Teodosiana.

    410 - Roma venne saccheggiata nel 410 dai Visigoti.

    413 - Ma mentre per Roma, fin dal primo sacco subito ad opera dei Visigoti, iniziò una fase di rapido spopolamento, Costantinopoli prosperò. Infatti nel 413 le mura dovettero essere ampliate e la cinta muraria comprese in totale un'area quasi doppia rispetto a quella precedente.

    415 - Lo stesso Teodosio II riedificò Santa Sofia, distrutta in un incendio e riconsacrata nel 415, e costruì il primo nucleo dell'Università di Costantinopoli, inaugurato nel 425 nei pressi del Foro Boario.

    416 - A Costantinopoli (7 dicembre) tutti gli ufficiali dell'esercito, gli impiegati pubblici e i giudici non cristiani vengono licenziati.
    423 - Nel 423 Teodosio II dichiarò che tutte le religioni pagane non erano altro che "culto del demonio" ed ordinò per tutti coloro che persistevano a praticarle, punizioni quali il carcere e la tortura. La tolleranza religiosa romana che aveva accolto ogni religione estranea purchè non volesse annientare le altre (come la cristiana) era miseramente finita insieme alla civiltà dell'impero.

    425 - Vengono completate delle mura Teodosiane.

    441 - Per sventare l'attacco degli Unni l'imperatore versò loro un tributo annuale. Ma nel 441 Attila sconfisse l'esercito romano in Tracia, effettuando poi una nuova invasione nel 447. 

    Attila venne chiamato non a caso il Flagello di Dio, come fosse mandato da Dio a punire i cattolici poco adempienti alla religione. Infatti i gloriosi legionari di un tempo non esistevano più. L'amore per la patria venne sostituito con l'amore di Dio, un tributo molto impegnativo, che prendeva quasi l'intera giornata del credente, tra messe, cerimonie e preghiere. Al contrario degli Dei romani che poco invadevano la vita del popolo, libero di vivere la propria vita e di scegliersi gli Dei che preferivano.

    In quello stesso anno, come a sottolineare la collera divina, un tremendo terremoto devastò la città, ma le mura furono riparate per opera del prefetto del pretorio d'Oriente, Costantino, impedendo così agli Unni di poterne approfittare per espugnare la città.

    447 - Gran parte delle mura Teodosiane viene distrutta da un fortissimo terremoto.

    450 - Il successore di Teodosio II, Marciano decise nel 450 di sospendere il pagamento del tributo ad Attila, che mosse quindi all'invasione dell'Occidente.

    455 - Roma venne saccheggiata  nel 455 dai Vandali.


    Giustiniano

    476 - Nel 476 Odoacre, re degli Eruli, depone l'ultimo imperatore d'Occidente, Romolo Augustolo, e restituisce le insegne imperiali all'imperatore d'Oriente Zenone, in segno di sottomissione. Quest'ultimo fu però deposto dalla ribellione di Basilisco dopo appena un anno. Riuscì a riconquistare il trono, che tenne fino alla propria morte, sedando le ribellioni di Marciano (479), di Illo (484–488) e dei Samaritani (484/489).

    GIUSTINIANO
    Ha termine la diarchia delle due "Rome", Da tale momento l'Impero d'Oriente sarà l'unico a sopravvivere, considerandosi unico e legittimo erede dell'intero impero romano.

    Sebbene Costantinopoli si definisse romana, così come i suoi abitanti si definivano Romei, dal momento della caduta dell'Occidente, seguì uno sviluppo sempre più autonomo da quello dell'occidente latino, con caratteri sempre più greci e "orientali", definiti come bizantini, dall'antico nome di Costantinopoli, Bisanzio.

    Vi fu un serio decadimento dell'arte, cadde la prospettiva, la fluidità delle forme e degli atteggiamenti, i volti divennero statici, frontali e privi di espressione. Pure avendo questo stile un suo fascino per le preziosità, gli ori e i diademi, si trattò comunque di un fascino cupo e pesante.

    482 - Con gli imperatori Anastasio I Dicoro il monofisita, che rimise in sesto le casse dello stato, e Giustino, grande persecutore di ariani e monofisiti, ma soprattutto con la splendida epoca di Giustiniano (482-565), Costantinopoli prosperò.

    Essa divenne una grande città, anche se di dimensioni inferiori alla Roma di età imperiale.

    Sebbene a Costantinopoli all'inizio del V secolo si contassero infatti 4.388 domus, il triplo che a Roma, il numero delle insulae era di gran lunga inferiore alle oltre 46.000 di Roma.

    Anche il lusso propendeva ancora verso Roma, dove vi erano 830 terme private (a Costantinopoli 153) e dove i ricchi senatori davano spettacoli molto più fastosi rispetto a quelli che poteva permettersi la nuova classe dirigente di Costantinopoli.

    525 - Antiochia fu distrutta da un terremoto nel 525.

    MURA MARITTIME
    527 - Salito al trono nel 527, l'imperatore Giustiniano promosse grandi opere ed ebbe la tenacia e la buona sorte di vedere realizzati gran parte dei suoi progetti, sia in ambito politico-militare, sia negli ambiti religioso, giuridico e architettonico.

    Le grandi imprese architettoniche per lui, secondo lo storico bizantino Procopio di Cesarea, rivestivano la stessa importanza della riconquista della parte occidentale dell'impero, della restaurazione dell'ortodossia religiosa e della codificazione del diritto. La sua politica universale trovò un valido strumento di propaganda nelle grandi opere che abbellirono Costantinopoli.

    532 - Il malcontento per alcuni aspetti delle riforme giudiziarie introdotte dal suo Corpus Iuris Civilis, la diffusione del monofisismo, le lotte politiche che coinvolgevano l'imperatore e gli eredi di Anastasio I, congiuntamente al crescente potere acquisito sin dagli inizi del suo regno dai demoi degli Azzurri e dei Verdi, i due partiti politici espressi dalle tifoserie dell'Ippodromo, esplosero l'11 gennaio 532.
    Secondo il Monofisismo la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina e dunque in lui era presente solo la natura divina e su questa disquisizione si torturarono e uccisero un'infinità di persone, invocando per giunta il nome di Cristo.

    Nel circo vi fu rivolta di Nika, in cui si batterono le due principali fazioni politiche, devastando l'intera città per sei giorni, Poi la rivolta venne repressa sanguinosamente dai generali Mundo e Belisario.

    537 - Al termine della rivolta il danno più evidente era la distruzione della basilica di Santa Sofia, che l'imperatore fece ricostruire nel 537.

    540 - Antiochia venne conquistata dai persiani.
    La caduta di Costantinopoli, e quindi la fine dell'Impero Romano d'Oriente, è indicata talvolta come l'evento che convenzionalmente chiude il Medioevo e inizia l'evo moderno.

    580 - Gli inquisitori cristiani attaccano un Tempio segreto di Zeus ad Antiochia. I Sacerdoti Pagani si suicidano, ma il resto dei Gentili vengono arrestati, incluso il vice governatore Anatolius, torturati e mandati a Costantinopoli per essere imprigionati. Condannati a morte furono dati in pasto ai leoni e quelli non divorati vennero crocifissi. I loro cadaveri furono trascinati per le strade dalle folle cristiane e poi lasciati insepolti nella polvere.
    L'IPPODROMO

    I MONUMENTI

    Il centro cittadino era proteso verso il mare, sul sito della vecchia Bisanzio. Da qui si dipartiva la principale arteria della città, la Mese, che, in corrispondenza della piazza del Philophation si biforcava. Un ramo proseguiva verso nord, alla porta di Adrianopoli e alla via della penisola balcanica, l'altro proseguiva invece a sud-ovest, diventando la via Trionfale che, raggiungendo la Porta d'Oro, conduceva alla via Egnazia, in direzione della Grecia e di Roma.

    I porti principali si trovavano all'entrata del Corno d'Oro (un estuario preistorico invaso dal mare) nel Bosforo, sul lato nord-orientale della penisola (Prosphorion, Neorion) e sul Mar di Marmara, un mare interno che separa il mar Nero dal Mar Egeo (Kontoskalion/Portus Julianus), sul lato meridionale-orientale.

    Il foro non seguiva lo schema tipico delle città e degli accampamenti romani, ovvero l'allineamento delle strade parallele sui due assi ortogonali del cardo e del decumano. Esso si estendeva ad occidente, su un'altura. era a pianta circolare e circondato da colonne a doppio ordine.

    Gli edifici imperiali e quelli e dell'amministrazione di stato si affacciavano sul circo (come a Roma i palazzi imperiali si affacciavano sul Circo Massimo), dove si svolgevano non solo le corse dei cavalli, ma anche le cerimonie e le manifestazioni pubbliche. Accanto vi era la basilica di Hagia Sophia e altre importanti chiese.

    C'erano tutti i poteri: quello imperiale, con il complesso dei palazzi regali, la basilica che da ufficio civile era stato trasformato in ufficio religioso, e il circo per il divertimento e insieme per le manifestazioni pubbliche, laddove però il popolo si batteva per assurdi poteri pseudo religiosi.

    Occorre capire che seguire un tale vescovo con un tale credo poteva incontrare il favore dell'imperatore ottenendo larghissimi sussidi. A volte si ricorreva anche all'imperatrice o ai consiglieri per influenzare la scelta del credo che comportava ricchezza e poteri.

    Nonostante la magnificenza profusa da Costantino, per lungo tempo la nuova capitale non fu in grado di competere con le altre metropoli dell'Impero, soprattutto con Roma, che venne superata solo alla sua decadenza quando iniziarono le sue barbare spoliazioni e devastazioni.

    Tra le chiese fondate da Costantino c'erano quella dedicata alla Santa Sapienza (la Santa Sofia, prima della riedificazione al tempo di Giustiniano I (527-565) che ne fece un capolavoro di architettura, e quella dei Santi Apostoli, a pianta centrale, che divenne il mausoleo imperiale.

    Queste grandi opere seppure molto belle non possedevano più la solidità immortale delle opere più antiche, visto che molto dell'arte di costruire era già andata persa. Infatti la distruzione dell'antica Roma non accadde per cause naturali ma venne perpetrata con secoli e secoli di distruzione organizzata,

    Così queste costruzioni bizantine si dimostrarono a volte fragili, fino a crollare miseramente. Nonostante ciò vi fu una grande espansione, e negli anni successivi a Costantino si provvide ad elaborare ed aggiungere conventi, chiese, palazzi. 

    Inoltre, sempre a modello di Roma, Costantino fece edificare il milion, un arco considerato il "centro" dell'Impero (a Roma era una colonna), e dal quale si misuravano le distanze con le altre città, poi il palazzo della Magnaura (dal latino "magna aula", grande aula) nel cui vastissimo salone venivano svolti gli atti solenni e ricevute le ambascerie più importanti,

    Al complesso del Gran Palazzo si affacciava sul principale luogo di pubblico raduno della città: il Grande Ippodromo. Ma venne annesso anche lo Tzykanisterion, un grande campo per le gare di Polo, gioco importato dalla Persia che era diventato il maggiore svago della nobiltà bizantina, e i bagni di Zuxippo, le principali terme della città. Queste, già esistenti al tempo della vecchia Bisanzio, erano state poi inglobate e ampliate dalle opere costantiniane, divenendo parte dei palazzi imperiali. Infine il Palazzo del Boukoleon, residenza privata degli imperatori.

    LE MURA

    LE MURA

    Quando venne riedificata la Nova Roma, Bisanzio disponeva già di una cinta muraria, le cosiddette Mura Severiane, erette da Settimio Severo nel II secolo d.c.

    Le mura della nuova capitale, erette da Costantino, e dette pertanto Mura Costantiniane, si estendevano per Km 2,8 attraverso la penisola, ad ovest delle vecchie mura, dal Mar di Marmara al Corno d'Oro, includendo un territorio esteso tre volte il precedente.

    Completate nel 328, a queste mura si aggiungevano le opere difensive che proteggevano la città dal mare.

    Nonostante la loro ricostruzione, le mura costantiniane divennero nuovamente troppo piccole per la nuova città in espansione, per cui, ottant'anni dopo, la cerchia fronte terra venne ricostruita.

    Le nuove mura, dette Mura Teodosiane, vennero completate sotto l'imperatore Arcadio (377 - 408), e furono un capolavoro di architettura militare dovuto al prefetto del pretorio Flavio Antemio.

    Le mura vennero prolungate per Km 6,5, dal Mar di Marmara al quartiere delle Blachernae, vicino al Corno d'Oro, il canale di 31 km diretto da Nord-Est a Sud-Ovest che mette in comunicazione il Mar Nero col Mediterraneo, e vennero completate nel 413. Le mura avevano nove porte e numerose posterule.

    La nuova cinta muraria aveva tre fortificazioni concentriche. La cerchia interna o Grandi Mura, era costituita da uno spesso e alto muro con alte torri e numerose porte, con altezza tale da superare con le armi dal lancio la cerchia esterna, più bassa e anch'essa intervallata da torri, alternate rispetto a quelle interne.

    Tra le due cerchie murarie si snodava una strada militare protetta, utilissima nei combattimenti.

    Oltre la cerchia esterna si trovava un vallo eretto a creare un'ulteriore spazio traversato da un'altra strada militare allagabile in caso d'assedio, con un sistema a compartimenti stagni.

    PORTA AUREA

    LA PORTA AUREA

    L'accesso principale alla città era rappresentato dalla Porta Aurea, o Porta d'Oro, aperta sulla via Egnazia, che conduceva, attraverso la rotta Durazzo-Brindisi, alla via Appia e a Roma. Essa era la porta principale di Costantinopoli attraverso le mura teodosiane, usata nel corso delle cerimonie trionfali, e si trovava all'estremità meridionale delle mura.

    La affiancava una fortezza nota come Strongylon (detta anche Pentapyrgion e poi Eptapyrgion), riedificata dai Turchi col nome di Yedikule.  Non lontano dalla Porta Aurea sorgevano l'importante monastero di San Giovanni di Studion e la Torre di Marmo, giunzione tra le Mura teodosiane e le Mura marittime della città rivolte verso il Mar di Marmara.

    La Porta d'Oro, spesso attribuita a Costantino ma con alcune incertezze, si mantenne fino alla fine dell'impero bizantino e venne distrutta nel 1509 da un terremoto.

    In origine la Porta Aurea era un arco trionfale eretto nel 388, durante il regno di Teodosio I per celebrare la vittoria sull'usurpatore Magno Massimo. Un'ode infatti gli venne dedicata sul tema:

    Haec loca Theudosius decorat post fata tyranni.
    aurea saecla gerit qui portam construit auro.


    (Teodosio adornò questi luoghi dopo la caduta del tiranno.
    portò un'età dell'oro colui che costruì la porta d'oro.)

    L'arco si ergeva solitario, al di fuori delle vecchie mura costantiniane ma all'interno dell'area di espansione della città, lungo la Via Egnazia. L'arco venne presto inglobato nella nuova cinta muraria voluta dal successore di Teodosio, Arcadio affiancandogli due alte torri rivestite di marmo.

    La porta venne edificata in larghi blocchi di marmo squadrati e levigati uniti da malta, a tre fornici con bassorilievi e statue, e in cima una Vittoria alata su una quadriga bronzea.
    I battenti vennero coperti di foglia d'oro, da cui il nome aurea.

    Dalla porta iniziava la via Trionfale che, attraversato il Foro di Arcadio e il Foro Boario, sfociava nella piazza triangolare del Philadelphion, ricongiungendosi con la Mese, la grande via centrale.

    Da qui, attraversando il Foro di Teodosio e il Foro di Costantino raggiungeva il Milion, con i complessi monumentali dell'Augustaion, del Gran Palazzo, del grande ippodromo e della basilica di Santa Sofia.

    La porta, detta anche la "Porta di Attalos", è stato descritta nel tardo periodo bizantino dallo studioso Manuele Crisolora. Questi la descrisse come una costruzione di "blocchi di marmo con ampia e grande apertura", e coronata da un portico.

    Nei secoli precedenti, la porta era stata decorata con molte statue, tra cui una rappresentante Costantino I, che però si distrusse cadendo in un terremoto nel 740. Alla fine dell'epoca bizantina, sulla porta fu dipinta una crocifissione.



    LA VIA MESE

    La via Mese (dal greco: «via di Mezzo») era la via principale di Costantinopoli, larga 25 m e affiancata da portici colonnati con le relative botteghe.

    Era lo scenario delle più importanti processioni imperiali bizantine, almeno fino all'epoca dei Comneni: l'imperatore vittorioso, alla testa dell'esercito, entrava in città dalla Porta Aurea e seguiva la Mese fino al Gran Palazzo, tra ali di folla giubilanti. Il suo corso corrisponde all'attuale via di Divanyolu di Istanbul.

    La Mese iniziava presso il Milion, il punto dal quale si misuravano le distanze da Costantinopoli, che si trova ancora oggi nei pressi di Hagia Sophia, per poi dirigersi verso occidente, superando l'Ippodromo e i palazzi di Lauso e Antioco. Dopo circa 600 metri giungeva al Foro di Costantino, dove era collocata una delle due curie senatoriali. Questo tratto della strada era anche noto come Regia («Strada imperiale»), in quanto costituiva il percorso cerimoniale originale, dal Gran Palazzo e dalla piazza dell'Augustaion fino al Foro di Costantino.

    Il tratto successivo collegava il Foro di Costantino al Foro di Teodosio (anche noto come Forum Tauri); a circa metà percorso incrociava la via nota come Makros Embolos, in un punto segnato dal tetrapylon chiamato Anemodoulion («Servo dei venti»). Il tetrapylon era un monumento romano a forma cubica, con una porta su ognuna delle quattro facce laterali: generalmente eretto dove si incrociavano 4 strade.

    A valle del Foro di Teodosio, la strada si biforcava, in corrispondenza del Capitolium: un ramo raggiungeva la chiesa dei Santi Apostoli (con pianta a croce greca) e poi la Porta di Polyandrion; l'altro ramo attraverso il Forum Bovis e il Foro di Arcadio, raggiungeva la Porta Aurea, e da lì si congiungeva alla via Egnatia.

    FORO DI COSTANTINO

    FORO DI COSTANTINO

    Il Foro venne edificato al momento della fondazione della nuova capitale nei pressi delle mura della città antica.

    Di forma probabilmente circolare con portici, era intersecato sui lati est-ovest da due archi trionfali e a nord ospitava l'aula del senato, al centro si trovava la monumentale colonna oggi conosciuta come Çemberlitaş o "colonna bruciata", unico resto visibile ancora oggi del complesso, sormontata da una statua di Costantino ormai perduta.

    La piazza, decorata da numerose statue provenienti da tutte le città dell'Impero, rimase utilizzata e sostanzialmente intatta fino al sacco veneto del 1204.

    IL SENATO

    IL SENATO

    Posto a nord nel foro di Costantino si presentava come un grande edificio basilicale adorno di marmi e con una ricca collezione di statue che ne fecero una specie di museo, custode dei capolavori classici che strappò da ogni dove del suo impero, tra i quali le fonti ricordano lo Zeus di Dodona, in Epiro; l’Atena di Lindos, nell’isola di Rodi; infine, il gruppo delle Muse proveniente dal Μουσεῖον del Monte Elicona, in Beozia.

    Il senato era ornato da quattro grandi colonne di porfido, dinanzi all'edificio erano collocate due grandi statue di bronzo raffiguranti Anfitrite e Atena, sembra trattarsi della Promachos di Fidia



    LA COLONNA DI COSTANTINO

    Al centro del foro si trovava un alto monumento simbolo del potere imperiale, la colonna-santuario di Costantino.

    Si trattava di una grande colonna sormontata da una statua bronzea dell'Imperatore rappresentato come Helios, il Dio greco del Sole, esattamente come aveva fatto Nerone accanto al Colosseo.

    Si tratta di una colonna composta da otto tamburi di porfido proveniente da Eliopoli,  sormontata da una statua raffigurante l'imperatore in veste di Helios.

    Sul globo che teneva nella mano destra era infissa una croce, nella mano sinistra portava una lancia e sulla testa portava una corona a sette raggi, come figura anche nella monetazione dell'imperatore fino al 326.

    La colonna portava l'iscrizione "Costantino, che splende come il sole"e lo sguardo della statua era rivolto verso il sole nascente. La colonna è alta 23,40 metri, compresa la statua doveva raggiungere i 37 metri.

    Durante il tardo impero una tradizione bizantina affermava che il Palladio, trasferito da Roma a Costantinopoli da Costantino, era seppellito sotto questa colonna.

    Nella nuova tradizione si suppone invece che sotto la colonna si trovino parti della croce di Gesù ritrovate da Elena, madre dell'imperatore.

    Cosa molto improbabile visto che Elena riempì l'impero romano di reliquie della croce. Di recente è stato effettuato un restauro della colonna, ora di nuovo visibile al pubblico.

    La colonna si ergeva su uno zoccolo alto circa cinque m, che racchiudeva un santuario dove si celebrava la messa, si bruciavano incensi, si accendevano lampade votive e si pregava, verso l'immagine imperiale, che scongiurasse sciagure proteggendo la città che aveva fondato. 

    L'identificazione con Helios risulta connessa ai teologi di corte, che sfruttarono l'antica simbologia del Sol Invictus, la assimilarono a Cristo, come "sole di giustizia e salvezza", per farla accettare al popolo, rivestendola con l'immagine dell'unico Dio.. 

    Del resto Costantino era molto devoto al Sol Invictus, un Dio assimilato a Mitra, che faceva celebrare ogni anno il 25 Dicembre, come si soleva fare nel culto pagano. 

    FORO DI TEODOSIO

    FORO DI TEODOSIO

    Il Foro di Teodosio era dislocato lungo la centrale di Costantinopoli, la via Mese, a circa 500 m dal Foro di Costantino, nell'area corrispondente all'attuale piazza Beyazit di Istanbul.

    Fu originariamente costruito per volere dell'imperatore Costantino I, che lo chiamò Forum Tauri («Foro del Toro»), ma a partire dal 384 fu ricostruito per volere dell'imperatore Teodosio I sul modello del Foro di Traiano a Roma.

    I lavori cambiarono totalmente l'aspetto del foro, che si arricchì di chiese, terme, portici attorno al foro e l'erezione di una colonna trionfale al suo centro, il Forum Tauri fu ri-dedicato a Teodosio nel 393.

    Alla metà dell'VIII secolo, durante il regno dell'imperatore Costantino V, il foro fu convertito in un mercato del bestiame; fu probabilmente in questa occasione che fu eretto un muro meridionale parallelo alla via Mese.




    LA COLONNA DI MARCIANO

    COLONNA DI MARCIANO
    La colonna di Marciano fu eretta a Costantinopoli dal praefectus urbi Taziano (450-c.452) e dedicata all'imperatore Marciano (450-457).

    Essa venne realizzata in granito egiziano grigio-rosso, e la colonna poggia su una base quadrangolare di marmo bianco. Le lastre della base vennero decorate con croci greche incorniciate da medaglioni su tre lati e con due genii che reggono un globo sul fronte.

    Sulla colonna si erge un capitello corinzio sormontato da un piedistallo, sopra cui poggiava la statua di Marciano. Sulla base si legge:

    « Principis hanc statuam Marciani
    cerne torumque
    praefectus vovit quod Tatianus

    opus»

    cioè:

    « Osserva questa statua del princeps Marciano
    e la sua colonna,
    perché il prefetto Taziano fece voto
    di questa opera »



    LA COLONNA DI TEODOSIO

    Il fusto della colonna era decorato con rilievi celebranti la vittoria dell'imperatore sui barbari, mentre una statua di Teodosio era presente sulla sommità. All'interno della colonna era ricavata una scala a chiocciola che permetteva ai visitatori di raggiungere la sommità della colonna.

    Al centro del foro si trovava la colonna di Teodosio, una colonna coclide eretta nel 386 in onore di Teodosio I. La colonna coclide era una grande colonna isolata decorata da un fregio che vi si snodava attorno e che conteneva una scala a chiocciola all'interno ("coclide" era la spirale della chiocciola).

    Sia la colonna che la collocazione richiamavano la Colonna traiana posta nel Foro di Traiano a Roma.
    Teodosio, spagnolo come Traiano, scelse di richiamarsi al modello del grande Traiano e di riprodurre i monumenti di Roma a Costantinopoli. Era ai piedi di questa colonna che si teneva la cerimonia di accoglienza degli ambasciatori stranieri e che l'imperatore era ricevuto in occasione del suo ritorno da Occidente.

    Nel 478, a causa di un terremoto, due supporti della statua di Teodosio cedettero, causando il crollo del simulacro, ma la colonna rimase intatta.

    La colonna rimase senza statua fino al 506, quando Giovanni Paflagonio restaurò tutte le statue di Costantino della città ed eresse una statua dell'imperatore bizantino Anastasio I (491 al 518) sulla sommità della colonna, al posto di quella di Teodosio. La colonna rimase in piedi fino alla fine del XV secolo, e alcuni suoi pezzi furono utilizzati per la costruzione delle terme di Patrona Halil.

    Sembra che nell'Augusteon, dove prima c'era la colonna di porfido con la statua di Elena, Teodosio abbia sostituito la colonna con una di piombo, ponendovi sopra la propria statua d'argento che pesava un equivalente attuale di 700 kg.


    LA STATUA EQUESTRE DI TEODOSIO

    Nel 394 fu dedicata a Teodosio una statua equestre, posta al centro del foro, sulla cui base erano incisi dei versi che facevano riferimento all'aspetto solare della regalità:

    « Sorgi da oriente, scintillante, un secondo Elios
    Per i mortali, Teodosio, sereno tra i cieli
    Con Oceano e la Terra senza confini ai tuoi piedi.
    Splendentemente preparata alla guerra, la tua cavalcatura,
    Redine leggera, grande spirito, sebbene piena di furia. »

    Stranamente nessuna ode agli imperatori pagani sottolineò tanto la guerra e la furia di questo imperatore cattolico.

    ARCO TRIONFALE

    L'ARCO TRIONFALE

    L'arco trionfale fu costruito a cavallo della via Mese, la strada principale di Costantinopoli, che partiva da Hagia Sophia e raggiungeva la Tracia e i Balcani, costituendo uno dei due accessi al foro.

    L' arco trionfale fu edificato in marmo proveniente dall'isola di Marmara. Esso era a tre fornici, dei quali quello centrale era più largo e alto. I fornici erano separati e affiancati da otto colonne per lato, decorate in maniera tale da richiamare il bastone di Ercole. Costruito secondo il modello degli archi trionfali di Roma, era sormontato da una statua di Teodosio, orientata verso Occidente, e da quella di suo figlio Arcadio, voltata verso Oriente.

    L'arco, insieme al resto del foro, fu gravemente danneggiato dal terremoto del  558, in occasione del quale la statua di Arcadio cadde al suolo. L'arco fu distrutto poi definitivamente dal terremoto del 740. Una delle colonne fu riutilizzata nella Basilica-Cisterna, mentre un'altra è conservata all'esterno del Museo archeologico di Istanbul.

    TETRAPYLON

    TETRAPYLON

    Il tetrapylon, letteralmente le quattro colonne, era un monumento usato spesso a Costantinopoli in corrispondenza di una piazza. Era in sostanza un arco quadrifronte, come quello di Giano a Roma. Sovente il tetrapylon era sormontato dalla statua di una Nike in volo o da altra divinità. Anche il Million fu comunque un tetrapilyon, solo molto più sontuoso.



    FORO DI ARCADIO

    Il foro di Arcadio fu costruito dall'imperatore Arcadio nel 403, nell'area Xerolophos, l'ultimo di una serie di forum che arrivava alle mura di Costantino ed alla Porta Dorata. Tra questi ricordiamo il Foro di Teodosio, il Foro di Costantino, il Forum Bovis ed il Forum Amastrianum, costruiti partendo dal centro della città verso ovest, lungo la via Mese.

    Il forum fu in seguito trasformato in bazaar dagli Ottomani, chiamato Avrat Pazarı o "Bazaar delle donne". Fu usato per la vendita all'asta delle donne, chiamate anche 'Cariye', ovvero le odalische.



    LA COLONNA DI ARCADIO

    Ormai ogni imperatore voleva la sua colonna e la colonna di Arcadio, situata al centro del forum, era decorata a spirale con bassorilievi rappresentanti i trionfi dell'imperatore, come la colonna Traiana di Roma. In cima alla colonna, alta oltre 50 m, si trovava un enorme capitello corinzio sormontato da una statua equestre di Arcadio, posta nel 421 dal figlio Teodosio II. La statua fu distrutta da un terremoto nel 704 ma la colonna rimase in piedi ancora per un millennio, prima di essere volutamente demolita nel 1715, quando era ormai sul punto di crollare. Ora ne resta solo la base mutilata ed alcuni frammenti delle sculture che la ornavano, esposti presso i Musei archeologici di Istanbul.

    Venne edificato anche il milion, un arco considerato il "centro" dell'Impero, e dal quale si misuravano le distanze con le altre città, il palazzo della Magnaura (dal latino "magna aula", ovvero grande aula) salone dove venivano svolti gli atti solenni e ricevute le ambascerie più importanti, e il Palazzo del Boukoleon, residenza privata degli imperatori.



    IL PALAZZO IMPERIALE o PALAZZO DELLA MAGNAURA

    Detto il Gran Palazzo (Magnum Palatium) o Magnaura (dal latino "magna aula", grande aula) il palazzo imperiale era la reggia sontuosa ma pure l'apparizione del sovrano nella sua tribuna, dalla quale si mostrava al popolo per presenziare ai giochi, circondato da un'aureola pressoché divina.

    Il palazzo fu costruito a partire dal 330, assieme alla rifondazione della città come Costantinopoli - Nuova Roma, quale residenza di Costantino e dei suoi discendenti. Venne rimaneggiato ed ampliato numerose volte, in particolare durante i regni di Giustiniano II e Teofilo.

    Del palazzo restano poche vestigia rimaneggiate in periodi successivi a Costantino. Dell'epoca del primo imperatore resta solo l'Ippodromo, costruito contemporaneamente alle mura. ispirato al Circo Massimo di Roma,

    Era anche detto Sacro Palazzo (Sacrum Palatium), un ampio complesso bizantino sul limite sud-orientale della penisola su cui sorge la città, nei pressi dell'Ippodromo, della Basilica di Santa Sofia e Santa Irene. Fu principale residenza degli imperatori bizantini dal 330 al 1081, quasi 800 anni, la principale residenza degli imperatori bizantini e del potere terreno sugli uomini sancito da Dio.

    Abbandonato nel XIII sec. e demolito alla presa di Costantinopoli da parte di Maometto II, ne sono stati ultimamente riportati alla luce alcuni mosaici, visitabili nel Museo del Mosaico.

    Il palazzo era probabilmente costituito da una serie di padiglioni, similmente al successivo Gran Serraglio ottomano, nel quale è stato in seguito inglobato. Era una vera e propria cittadella di 25000 mq di superficie, che racchiudeva caserme, cortili, fontane, edifici destinati alle più varie funzioni, una ventina tra chiese ed oratori.

    L'accesso principale avveniva dall'Augustaion, attraverso la Porta della Chalke. Da qui si accedeva al palazzo della Daphne, edificio cerimoniale dove si concentravano le varie attività amministrative: l'edificio doveva il nome ad una delle sue statue, raffigurante la ninfa Dafne e che lì era stata trasportata da Roma.



    Gli edifici di rappresenzanza:

    Tra i saloni di rappresentanza vi erano:
    - la Triconca, la sala dei ricevimenti dei 19 Akkubita, 
    - e la Magnaura, vasta basilica a tre navate, dove fu in seguito insediata l'Università. La scuola originariamente fu fondata presso il Foro Boario nel 425 da Teodosio II, con il nome di Pandidakterion. Aveva 31 cattedre per legge, filosofia, medicina, aritmetica, geometria, astronomia, musica, retorica etc., 15 cattedre per il latino e 16 per il greco. Solo nell'849 però la scuola fu riconosciuta ufficialmente come università.
    La sala del trono del Chrysotriklinos, edificata da Giustino II, era un ambiente a pianta ottagonale con volta a cupola, dalla sfarzosa decorazione. Da qui si accedeva all'appartamento imperiale dell'Octagon, con l'annesso Vestiarios, alla Phylax, dov'era custodito il tesoro, e alle cappelle di San Teodoro e del Pantheon.

    PORTA DELLA CHALKE

    LA PORTA DELLA CHALKE

    La Porta della Chalke (Porta di Bronzo) era a l'accesso monumentale al Gran Palazzo reale.
    Era affacciata sull'angolo sud dell'Augustaion, il principale foro della città, e fu fatta costruire dall'architetto Eterio per volere dell'imperatore Anastasio I, per celebrare la sua vittoria nella Guerra isaurica. La porta fu danneggiata gravemente da un incendio durante la rivolta di Nika del 532 e poi restaurata da Giustiniano I.

    Quando il centro principale del complesso si trasferì nel palazzo del Bucoleon, la Chalke perse la sua funzione di principale accesso ai palazzi imperiali, sostituita dalla porta posta al disotto del Kathisma, la loggia imperiale affacciata sull'ippodromo.

    AUGUSTAION


    L'AUGUSTAION

    L'Augustaion era un grande cortile compreso tra la basilica di Hagia Sophia e il Gran Palazzo, noto come Tetrastoon. Era ornato di statue e giardini tra cui una statua della madre di Costantino, Elena, collocata su di una colonna.

    Fu progettato dall'imperatore Costantino I sul luogo dell'antica agorà della città, e qui si affacciava il Senato di Costantinopoli, costruito da Costantino o da suo nipote Giuliano.


    COLONNA GIUSTINIANA

    LA COLONNA GIUSTINIANA

    Giustiniano aggiunse all'Augustaion l'omonima colonna sulla cui sommità era posta una sua statua equestre bronzea, realizzata, si dice, coi soldi della fusione della statua d'argento di Teodosio. La colonna, eretta su un'alta base di marmo, fu realizzata tutta in bronzo dorato. Secondo altri la colonna era invece in porfido rosso.
    L'imperatore a cavallo portava con la sinistra il globo con la croce e con la destra ammoniva, si disse, minacciosamente l'oriente.
    A questa stessa colonna il conquistatore turco fece però appendere la testa del vinto Giustiniano.

    Nel cortile vi era anche un gruppo statuario raffigurante tre re barbari che offrono tributi, posto di fronte alla colonna di Giustiniano. A seguito della presa di Costantinopoli, Maometto II fece rimuovere la statua equestre e la fece fondere, mentre la colonna fu distrutta intorno al 1515.

    MILION

    IL MILION

    Il Milion o Million era un monumento miliario eretto all'inizio del IV sec. a Costantinopoli. 

    A modello del Miliario aureo di Roma, esso era il miliario della capitale romana d'Oriente, e tutte le distanze da Costantinopoli alle varie città dell'impero erano riferite a questo punto; era dunque l'omologo del Miliario aureo di Roma.

    Rimase intatto almeno fino al tardo XV secolo. Dei  frammenti furono riscoperti negli anni 1960 e collocati nell'angolo settentrionale della piazza di Hagia Sophia, nei pressi della Cisterna Basilica.

    Quando Costantino I ricostruì la città di Bisanzio per farne la Nova Roma («Nuova Roma»), decise di riprodurvi molte caratteristiche di Roma, tra cui il Milion. La nuova costruzione richiamava il Miliario aureo di Roma: era considerato l'inizio di tutte le strade che da Costantinopoli portavano nelle città europee dell'Impero, e sulla base erano incise le distanze tra la capitale e le principali città dell'Impero.

    RESTI DELLA COLONNA AUREA
    Il monumento costantinopolitano era molto più complesso del suo omologo romano. Si trattava infatti di un tetrapylon, un sorta di doppio arco trionfale, sormontato da una cupola, poggiata su quattro arcate. Sulla sommità si trovavano le statue di Costantino e di sua madre Elena, rivolte a oriente, e dietro di loro una statua della Tyche della Città.

    Fu eretto nella prima regione della città, a oriente dell'Augustaion, nei pressi delle antiche Mura di Bisanzio, all'inizio della via principale della nuova città, la via Mese.

    Dall'inizio del VI secolo, l'edificio divenne un passaggio sempre più importante del cerimoniale imperiale. Giustiniano I vi aggiunse una meridiana, mentre Giustino II adornò la parte inferiore con le statue di sua moglie Sofia, sua moglie Arabia e sua nipote Elena. Il monumento era alche decorato da statue equestri di Traiano, Adriano, Teodosio II e una quadriga di bronzo di Elio.

    Durante la prima metà dell'VIII secolo, le volte della costruzione furono adornate dagli imperatori Filippico e Anastasio II con dipinti dei concili ecumenici precedenti, ma durante l'epoca dell'Iconoclastia, l'imperatore Costantino V li sostituì con scene dell'ippodromo.

    Sotto la dinastia dei Comneni si moltiplicarono lotte nella città, come quelle tra Niceforo III e Alessio I, o quelle tra le truppe imperiali e la principessa Maria di Antiochia, che da questa posizione controllava l'Augustaion.

    Scomparve probabilmente all'inizio del XVI secolo a causa dell'ingrandimento del vicino Acquedotto di Valente e la successiva erezione del vicino suterazi (il serbatoio idrico a torre).

    Negli anni 1967 e 1968, gli scavi rivelarono alcune fondazioni e un frammento, ora rieretto come pilastro, pertinenti all'edificio. Questi resti sono stati identificati come appartenenti al Milion grazie alla loro vicinanza ad una parte di una canalizzazione bizantina incurvata, che sembra corrispondere all'angolo della scomparsa via Mese, come riportata dalle fonti letterarie.

    Presso il Μilion si trovava «fin dai tempi antichi un carro di Zeus-Helios tirato da quattro cavalli di fuoco e sorretto da due colonne», che, in occasione delle cerimonie d’inaugurazione della città, era trasportato nell’Ippodromo scortato da guardie e con l’aggiunta di una nuova piccola statua della Tichè, appositamente ordinata da Costantino.


    CAPITOLIUM

    CAPITOLIUM

    CAPITOLIUM
    Esso era stato concepito dai vincitori romani sull'immagine del Capitolium di Roma, il massimo tempio consacrato alla sacra trinità degli Dei, cioè Giove, Giunone e Minerva.

    Qui la statua del re degli Dei era posta al centro, quella della sua posa alla sua destra, e la statua della Dea della guerra e delle arti alla sua sinistra.

    Alcuni tra i templi più belli di Bisanzio vennero trasformati in edifici di diversa funzionalità, spesso anche in spregio alla precedente funzione religiosa.

    Nel 407, l’edificio sacro fu sconsacrato con l’apposizione di una croce, non per farne un altro edificio religioso ma per sancirne il possesso cristiano.

    Si sa che l'imperatore Teodosio I concesse ulteriori ‘sale’ ai ristoranti che già si affollavano nella zona del Capitolium, ormai declassato a zona di locande e mense.

    L’edificio infatti, dopo aver perso la sua funzione religiosa, diventò per un periodo di tempo sede dell’università di Costantinopoli, e i vani adiacenti furono appunto occupati da popinae.

    TEMPO DI HELIOS

    I TEMPLI

    Costantino concesse a se stesso la carica di Pontifex Maximus, ovvero di responsabile e garante di tutte le religioni licitae presenti nell’Impero. Nella Lettera ai Provinciali d’Oriente del 324 d.c. l’imperatore concesse ai fedeli delle religioni non cristiane che, pur non essendo ancora giunti alla verità, potessero mantenere intatti e frequentare liberamente i propri luoghi di culto, senza che però venissero effettuati dei sacrifici. 

    Dunque Costantino non ordinò la chiusura dei templi pagani se non in casi particolari e in definitiva operò per: la chiusura di alcuni templi; la requisizione degli oggetti, dei materiali preziosi e delle statue al loro interno; la distruzione di pochi santuari.

    Lo storico Libanio scrive nella Pro templis che: «[Costantino] utilizzò le ricchezze dei templi per costruire la città alla quale consacrò tutto il suo zelo, ma non apportò alcun mutamento al culto ufficiale; nei templi regnava la povertà, ma era facile vedere che tutto il resto si svolgeva normalmente», confermando che gli antichi santuari continuavano a funzionare anche se sottotono, senza sovvenzioni ufficiali ma lasciati all’iniziativa privata.
     
    Viceversa la legge emanata da Teodosio II e Valentiniano III nel 435, oltre a ribadire il divieto di compiere sacrifici e ogni pratica proibita pena la condanna a morte, ordinava che i rimasti templi pagani venissero «distrutti e purificati con l’apposizione di un segno della venerabile religione cristiana»

    I templi attivi in Costantinopoli erano:

    - Il tempio di Tyche presso la basilica cittadina, fatto ricostruire da Costantino, un tempio risalente a Bisanzio, ma riedificato nella forma tramandata da Zosimo, cioè con all’interno una statua di Rea presa da Cizico e una di Fortuna fatta venire da Roma. 

    La prima era una statua molto antica, per tradizione realizzata dagli Argonauti come potnia theron, con il polos in testa e i due leoni ai lati, modificata però togliendo i leoni e ponendo verso l'alto i palmi della Dea. Zosimo l'interpretò come trasformazione di Rea-Cibele in Madonna; difficile da credere, perchè anche se dal 431 venne diffuso il culto della Madonna, nel 330 invece, alla data della sua edificazione, tale culto non esisteva proprio. 

    - Il tempio di Afrodite, che, per ordine di Costantino, venne privato delle sue fonti di reddito e depredato delle sue ricchezze, e che poi Teodosio I fece trasformare in una rimessa per il carro del prefetto del pretorio, con accanto un ospizio per le prostitute povere. Successivamente viene trasformato in casa di piacere.

    - Il tempo di Apollo, che, per ordine di Costantino, venne privato delle sue fonti di reddito e depredato delle sue ricchezze, e che Teodosio I fece trasformare in un’aulé oikematon (sala di ricreazione o di piacere) donata alla chiesa di Santa Sofia

    - Il tempio di Artemide, che, per ordine di Costantino, venne privato delle sue fonti di reddito e depredato delle sue ricchezze, e che Teodosio I fece trasformare in una sala per il gioco dei dadi.

    - Tempio di Artemide a Sole, che per ordine di Teodosio I venne trasformato in stalla.

    - Il tempio di Poseidone

    - Il tempio di Atena Ekbasia (colei che indica la giusta via)

    - Il tempio Temenos (lo spazio sacro requisito per sacralizzare le gare in onore degli Dei)

    - Il tempio di Demetra

    - Il tempio di Kore

    - Un secondo tempio di Apollo

    - Il tempio di Elios

    - Il tempio di Selene

    - Il tempio di Plutone

    - Il tempio di Era



    LA CISTERNA BASILICA

    La Cisterna Basilica è la più grande cisterna sotterranea ancora conservata ad Istanbul.

    LA CISTERNA
    Scoperta sul finire del XIX secolo, la cisterna fu costruita sotto il regno Giustiniano I (527-565), il periodo più prospero dell'Impero romano d'Oriente, nel 532. 

    Oggi si presenta come un enorme spazio sotterraneo di circa 140 m per 70, in cui trovano spazio dodici file di 28 colonne alte 9 metri e distanziate l'una dall'altra di 4,90 m. 

    I capitelli sono un misto tra gli stili Ionico e Corinzio, con alcune eccezioni di Dorico o addirittura di colonne non decorate.

    I muri perimetrali sono di mattoni ed hanno uno spessore di 4 metri.

    La malta utilizzata nella costruzione è speciale ed impermeabile.

    Buona parte dei materiali e delle colonne sono elementi di riuso, ne sono testimonianza in particolare due enormi e splendide teste di gorgone provenienti probabilmente da un arco monumentale del foro di Costantino, poste rovesciate sotto le colonne di sostegno della volta.

    Il che non dimostra il rispetto che si dovrebbe avere per certi antichi e irripetibili capolavori artistici.

    La cisterna era alimentata da un acquedotto che portava acqua fin dalla foresta di Belgrado, uno dei più lunghi della romanità.
    L'IPPODROMO

    L'IPPODROMO

    L'ippodromo di Costantinopoli si trova oggi sulla piana dell'attuale quartiere di Sultanahmet, accanto alla Moschea Blu. Esso era straordinariamente monumentale, con una lunghezza di circa 450 m x 120 m di larghezza, e collegava la zona imperiale, a sud, ed i nuovi quartieri residenziali, a nord.


    Il suo modello fu ispirato al Circo Massimo di Roma. Un passaggio conduceva direttamente dal Gran Palazzo al Kathisma, la loggia imperiale, dalla quale l'imperatore si presentava alla folla radunata nel circo per assistere alle gare.

    La kathisma, la tribuna imperiale, era la tribuna dove si svelava l'ampia liturgia del potere imperiale, cioè all'apparizione del sovrano nella sua tribuna, dalla quale si mostrava al popolo per presenziare ai giochi, vestito e addobbato di pesanti vesti ornate a oro fino e gemme, carico di corona e gioielli, simile ai certi santi cattolici portati in processione incoronati e pesanti di ori e gemme.

    Purtroppo il potere religioso unito al potere di stato aveva annientato la purezza dei costumi romani, quella augusta semplicità per cui gli imperatori di un tempo apparivano in toga e corona d'alloro, ammantati fa un semplice manto rosso che li distingueva dal popolo.

    L'Ippodromo era anche il fulcro di collegamento tra la zona imperiale, a sud, ed i nuovi quartieri residenziali, a nord.
    Ancora oggi dell'antico ippodromo bizantino rimangono pochi resti, ma è ancora visibile una parte dei monumenti che ne decoravano il centro: l'obelisco di Teodosio, la colonna Serpentina in bronzo, oltre alle vestigia della curva a sud-est.

    L'ippodromo fu eretto da Costantino contemporaneamente alla fondazione della "Nuova Roma". Le gradinate erano in legno, e solo nel secolo X furono riedificate in marmo. Nella spina venne posta la colonna serpentiforme di Delfi.



    LA COLONNA SERPENTIFORME

    La Colonna serpentina, conosciuta anche come Tripode di Delfi o Tripode di Platea, è un'antica colonna di bronzo, alta circa 8 m, collocata nell'Ippodromo di Costantinopoli.

    La colonna è il residuo di un antico tripode sacrificale greco di Delfi trasferito a Costantinopoli da Costantino nel 324. 

    Esso era stato edificato per commemorare la vittoria dei Greci sull'Impero persiano nella battaglia di Platea (479 a.c.). 

    La colonna rimase integra, con le tre teste di serpenti, fino alla fine del XVII sec. ma due delle teste sono scomparse, e la terza è esposta al Museo archeologico di Istanbul.

    La colonna serpentina, insieme al tripode e al piatto dell'offerta (entrambi perduti) costituivano l'offerta sacrificale all' Apollo Delfico del 478 a.c., dopo la sconfitta dell'esercito persiano nella battaglia di Platea, ottenuta contro i Persiani che avevano invaso la Grecia continentale.

    La Colonna venne citata da Erodoto, Tucidide, Demostene, Diodoro Siculo, Pausania, Cornelio Nepote e Plutarco, e il suo spostamento a Costantinopoli per ordine di Costantino è citato dagli storici bizantini Zosimo, Eusebio di Cesarea e Socrate Scolastico. 

    Le vittorie greche a Platea fecero desistere l'Impero persiano ad attaccare la Grecia continentale. Per questo i Greci costruirono una colonna di bronzo costituita da tre serpenti intrecciati, i cui corpi formavano la colonna, per commemorare le 31 città-stato greche che avevano partecipato alla battaglia. 

    Narra Erodoto che la colonna venne fusa nel bronzo delle armi persiane e dalle spoglie persiane fu ricavato anche un tripode aureo anch'esso dedicato ad Apollo a Delfi.

    Purtroppo Costantino derubò i Greci di un monumento che non era tanto un'opera d'arte quanto un simbolo del loro passato e la loro gloria. Nessun degli antichi imperatori romani, che di certo molte belle sculture sottrassero alla Grecia, avrebbe mai privato un popolo tanto amato e stimato di tanto simbolo storico.



    L'OBELISCO DI TEODOSIO


    Successivamente Teodosio I vi fece trasportare un parallelepipedo marmoreo, scolpito con l'immagine dell'imperatore, che fece da piedistallo all'antico obelisco egizio di Tutmosi III, risalente al 1450 a.c. e proveniente da Eliopoli.

    Infine fu costruito un obelisco in muratura, rivestito di lastre di bronzo da Costantino VII Porfirogenito.

    La parte terminale dell'ippodromo, chiamata sphendoné cioè "fionda", era invece il luogo deputato alle esecuzioni capitali.

    L'ippodromo fungeva da campus dei grandi schieramenti politici della città: alla destra del basileus sedevano gli esponenti della fazione degli Azzurri, detti "i miserabili", corrispondenti alla parte più povera e rurale della popolazione; alla sinistra i Verdi, ovvero la borghesia cittadina detti "i contribuenti".

    Spesso il destino e le fortune dell'Imperatore erano legate alle gare che si tenevano nell'ippodromo e agli scontri e alle passioni che qui infiammavano le due fazioni, talvolta sfocianti in tumulti così gravi da rovesciare il trono.

    Famoso l'esempio della rivolta di Nika, sedata poi nel sangue, che rischiò di rovesciare Giustiniano I.


    PALAZZO DEL BUCOLEONE

    PALAZZO DEL BUCOLEONE

    Il palazzo del Bucoleone o di Boukoleon, era un palazzo imperiale appartenente al complesso del Gran Palazzo e noto anche come Palazzo d'Ormisda o Palazzo di Giustiniano, era considerato una delle meraviglie dell'epoca medievale.

    INGRESSO DEL BUCOLEON
    Esso era affacciato sul mare e dotato di un proprio porto, e costituiva il nucleo meridionale del complesso palatino. Edificato come residenza privata dei membri della famiglia imperiale, divenne in seguito la dimora preferita degli Imperatori e nuovo cuore del Gran Palazzo.

    Il nome originale, Palazzo d'Ormisda, derivava da quello del cognato del re sasanide Sapore II, il ricchissimo principe Ormisda che durante il regno di Costantino I si era rifugiato a Costantinopoli, e dal quale aveva preso nome l'intera regione della città in cui aveva posto la sua residenza.

    Eretto probabilmente da Teodosio II nel V sec., il palazzo venne ampliato raggiungendo il massimo splendore nel VI sec., con Giustiniano I il Grande, quando prese il nome di Palazzo di Giustiniano o Bucoleone.

    Il nome deriverebbe da una grande statua raffigurante bue e leone insieme, posta all'interno del porto realizzato alla base del palazzo. Si dice vi fossero ben 500 stanze, ed una sala banchetti per oltre 300 invitati.

    Il palazzo smise di essere residenza imperiale sotto la dinastia dai Comneni nel XII secolo. Il Bucoleone rimase così, assieme al Gran Palazzo come residenza di rappresentanza, per le grandi cerimonie. In questo periodo l'accesso marittimo del Palazzo, il porto di Bucoleon, divenne l'accesso di rappresentanza della città, destinato ad accogliere le visite dei sovrani stranieri

    Le rovine del palazzo vennero parzialmente distrutte nel 1873 per la realizzazione della vicina linea ferroviaria(!).



    LE BASILICHE

    La basilica 'A'è l'unica basilica di epoca giustinianea di cui si conosca la pianta. È caratterizzata da diverse caratteristiche peculiari. Lo spazio centrale era quasi quadrato, con due corti laterali. Il nartece sul lato occidentale era in comunicazione con le due corti. I capitelli ricordano quelli di Hagia Sophia, un altro edificio eretto da Giustiniano.

    Lo spazio tra le colonne che dividevano la basilica in navate erano chiusi da balaustre. L'ambone della basilica 'A'è l'unico preservatosi dell'epoca, ed è conservato nel giardino di Hagia Sophia. Gli scavi delle fondamenta della Facoltà di Lettere e Scienze dell'Università di Istanbul hanno portato alla luce i resti di tre basiliche pertinenti al foro. I loro nomi sono sconosciuti, e sono dunque note come basiliche 'A', 'B' e 'C'.

    SANTA IRENE

    SANTA IRENE


    L'edificio sorse sopra un tempio pagano e fu la prima chiesa costruita a Costantinopoli. 

    SANTA IRENE OGGI
    Costantino commissionò la chiesa di Hagia Irene nel IV sec. e Giustiniano I la restaurò. 

    È stata usata come chiesa del Patriarcato prima che fosse costruita la chiesa di Hagia Sofia. La chiesa, dedicata alla Pace di Dio, è una delle tre dedicate da Costantino ad attributi divini, insieme ad Hagia Sophia (Saggezza) e Hagia Dynamis (Forza). 

    Sull'usanza romana di costruire divinità che corrispondevano a personalizzazioni di grandi valori (Come gli Dei Honor, Virtus, Spes ecc.) anche Costantino si creò le sue divinità come qualità di Pace saggezza e Forza divine.

    SANTA SOFIA

    SANTA SOFIA

    La basilica di Santa Sofia cioè della Divina Sapienza, è una basilica, nonché uno dei principali monumenti di Istanbul. Subì tre rifacimenti.


    Prima chiesa

    Conosciuta come "Magna Ecclesia", a causa delle sue enormi dimensioni, fu dedicata al Logos, la II persona della SS. Trinità, la cui festa cadeva il 25 dicembre, l'anniversario della nascita dell'incarnazione del Logos in Cristo.

    Inaugurata nel 360 sotto Costanzo II, fu edificata vicino alla zona dove era in costruzione il palazzo imperiale.

    L'edificio fu progettato come una tradizionale basilica latina con colonnato, gallerie e tetto in legno. L'ingresso era preceduto da un doppio nartece, come un doppio atrio.

    Il Patriarca di Costantinopoli Giovanni Crisostomo entrò in un conflitto con l'imperatrice Elia Eudossia, moglie dell'imperatore Arcadio, e per questo fu mandato in esilio nel 404. Durante gli scontri che avvennero in seguito, questa prima chiesa fu in gran parte distrutta da un incendio e non ne resta nulla.


    Seconda chiesa

    La seconda chiesa fu voluta da Teodosio II, che la inaugurò nel 415. Incendiata durante la rivolta di Nika, del 532 contro l'imperatore Giustiniano, la chiesa bruciò quasi completamente.

    Diversi blocchi di marmo appartenenti all'edificio sono stati scoperti nel 1935 sotto il cortile occidentale; tra questi quello raffigurante 12 agnelli (i 12 apostoli). Originariamente parte del monumentale ingresso principale, i blocchi sono visibili in uno scavo adiacente all'ingresso dell'edificio. Scavi ulteriori sono stati abbandonati per paura di pregiudicare l'integrità della basilica.



    Terza chiesa (attuale struttura)

    L'imperatore fece spoliare i migliori templi per tutto l'impero.
    Nel 401 il tempio di Artemide ad Efeso, considerato una delle sette meraviglie del mondo, venne purtroppo distrutto dai cristiani guidati dal Santo Giovanni Crisostomo, grande persecutore e uccisore di ebrei.

    Le splendide colonne rimaste furono fatte trasportare dall'imperatore per la costruzione di Santa Sofia.

    Ma impiegò pure le grandi pietre dalle cave di porfido egiziane, il marmo verde dalla Tessaglia, la pietra nera dalla regione del Bosforo e pietra gialla dalla Siria. Otto colonne corinzie vennero prelevate da Baalbek in Libano. Le colonne più grandi sono di granito. Raggiungono un'altezza di circa 19 o 20 m con un diametro di 1,5 m; la più grande pesa oltre 70 tonnellate. 

    Più di diecimila persone vennero impiegate nel cantiere. L'imperatore, insieme al patriarca Eutichio, inaugurò la nuova basilica nel 537 con una sfarzosa liturgia. I mosaici all'interno della chiesa vennero, comunque, completati solo sotto il regno dell'imperatore Giustino II (565-578).nel 572, pochi giorni dopo la distruzione della seconda basilica, l'imperatore Giustiniano I decise di costruire una nuova basilica completamente diversa, più grande e maestosa.

    Santa Sofia divenne la sede del patriarca di Costantinopoli e il luogo principale per le cerimonie imperiali dei reali bizantini, come le incoronazioni.

    La basilica ha una pianta a rettangolo di 71x77 m, con tre navate, arcate divisorie in doppio ordine, ed un'abside opposta all'ingresso, esternamente poligonale. La navata centrale è sormontata da una cupola centrale traforata da 40 finestre ad arco e sostenuta da quattro pennacchi.

    SANTA SOFIA
    Le varie riparazioni effettuate nel corso del tempo hanno reso la cupola leggermente ellittica, con un diametro che varia tra i 31,24 m e i 30,86 m.
    L'ingresso è preceduto da un doppio nartece. Gli interni sono arricchiti con mosaici, marmi pregiati e stucchi: colonne in costoso porfido o marmo verde della Tessaglia sono impreziosite da capitelli finemente scolpiti. Nel corso degli anni sono stati aggiunti alcuni mausolei laterali.

    I terremoti del 553 e del 557 fessurarono la cupola centrale e la semicupola orientale. La cupola principale crollò completamente nel terremoto del 558 soprattutto a causa di errori architettonici. L'imperatore ordinò la riedificazione a Isidoro il Giovane che utilizzò materiali più leggeri ed elevò la cupola di altri 6,25 m, conferendo all'edificio la sua altezza interna attuale di 55,6 m.

    All'interno, alcuni corridoi laterali riccamente decorati conducono alla navata centrale, con la grande cupola che poggia su pennacchi ed archi, scaricando il peso su quattro pilastri sostenuti da contrafforti. I pilastri sono costruiti con pietre lavorate, legate tra loro da colate di piombo, mentre volte, archi e pareti sono in laterizi. I quattro pennacchi triangolari concavi permettono di passare dalla struttura circolare della cornice a quella rettangolare della navata.

    Verso l'abside e verso l'ingresso due semicupole poggiano su esedre a colonne. Nella fascia superiore della grande cupola vi sono numerose finestre, in seguito parzialmente murate per ragioni di stabilità.

    Sulle navate laterali si aprono i matronei, destinati alla corte imperiale che da lì assisteva alla messa. Sopra questi si aprono due file sovrapposte di finestre più ampie al centro, più piccole verso i lati e nella fila inferiore.

    La decorazione interna, inizialmente aniconica, fu integrata da Giustino II con cicli evangelici e con scene del Dodecaorto, il sistema di 12 feste bizantine. La cupola riporta un Cristo Pantocratore benedicente, a mezzo busto.

    SANTA SOFIA OGGI
    La Porta Imperiale era l'ingresso principale tra l'interno e l'esterno del nartece, riservato esclusivamente all'imperatore. La galleria superiore, ornata a mosaici e destinata all'imperatore e la sua corte, è disposta a ferro di cavallo e segue la navata centrale fino all'abside.
    La Loggia dell'Imperatrice si trova al centro della galleria superiore da cui l'imperatrice e la sua corte seguivano la cerimonia che si svolgeva in basso. Una pietra verde segna il punto in cui sorgeva il trono.
    La Porta di marmo, all'interno di Santa Sofia, si trova nella galleria superiore, verso sud. Fu utilizzata dai partecipanti ai sinodi che entravano e uscivano attraverso questa porta.

    Le superfici interne sono rivestite di pannelli marmorei di diversi colori, verde e bianco con viola e porfido, e da mosaici a fondo d'oro. I capitelli presentano trine e trafori come un merletto, e vi compare lo stemma giustinianeo.

    Originariamente, sotto il regno di Giustiniano, le decorazioni erano disegni astratti su lastre di marmo sulle pareti e sulle volte con mosaici curvilinei. Di questi, si possono ancora vedere gli arcangeli Gabriele e Michele. I pennacchi della galleria sono realizzati in Opus sectile con fiori e uccelli. Successivamente vennero aggiunti mosaici figurativi, distrutti però durante l'iconoclastia (726-843). I mosaici tuttora presenti appartengono al periodo post-iconoclasta.
    La ricostruzione, che dette alla chiesa l'aspetto attuale, venne riconsacrata nel 562.

    La basilica di Santa Sofia è uno dei più grandi esempi superstiti di architettura bizantina, si narra che Giustiniano, vedendola finita esclamasse: "Salomone, ti ho superato!" . Evidentemente Giustiniano riconosceva nella sua religione una matrice più ebraica che non romana o greca.

    MONASTERO AKALEPTOS

    MONASTERO AKALEPTOS

    Il Monastero di Cristo Akataleptos (l'inconoscibile) è oggi stato trasformato in moschea. Durante l'occupazione latina di Costantinopoli la sua chiesa era stata riconsacrata a S. Francesco di Assisi.

    Esso è nominato per la prima volta nell'Alessiade di Anna Comnena ma alti identificano invece questa chiesa con quella di Maria Kyriotissa (che porta in braccio il Signore) per il ritrovamento dietro una lapide turca, sopra un portale, di un'icona della Vergine.

    Il nucleo principale è frutto del rimaneggiamento di epoca comnena (1190-1195 c.ca.) di un edificio del VI-VII sec, di cui sono stati incorporati l'abside e parte dell'esonartece.
    La planimetria presenta una pianta a croce greca con nartece ed endonartece. La chiesa comnena presentava anche due navatelle laterali oggi scomparse.
    I bracci N e S della croce terminano con pareti curve con un triplice ordine di finestre.

    Il mosaico raffigurante la Presentazione di Gesù nel Tempio risale alla piccola chiesa preesistente l'ampliamento comneno (VI sec.) ed è il più antico finora rinvenuto ad Istanbul. Era collocato nel vano di una finestra murata nel corso di una ristrutturazione del complesso, cosa che gli ha consentito di scampare alle devastazioni del periodo iconoclasta.

    Nell’insieme il programma iconografico della cappella risulta da una commistione di elementi bizantini (la vergine e i due santi vescovi) e latini affiancati ma non fusi.
    I resti del mosaico e degli affreschi sono attualmente conservati nel Museo archeologico di Istambul.
    Dopo la conquista la chiesa divenne la moschea dei Dervisci erranti (Kalenderhane camii)


    MONASTERO PANTOKRATOR

    MONASTERO PANTOKRATOR

    Il Monastero di Costantino Lips (Panachrantos) è quasi unanimemente identificato con la moschea Fenari-Isa Camii.

    Venne fondato nel 1363, da due fratelli, Alessandro e Giovanni con l'aiuto dell'imperatore Giovanni V Paleologo. I due fratelli prima di dedicarsi a vita monastica furono comandanti militari al servizio di Bisanzio. Venne chiamato Pandokratoros in ricordo del mausoleo e monastero fatto costruire a Costantinopoli da Giovanni II Comneno che portava lo stesso nome.


    MONASTERO KYRIOTISSA

    MONASTERO KYRIOTISSA

    L'iconografia trionfale di Maria Regina si impose dopo il concilio di Efeso del 431, ove venne riconosciuta la Maternità divina di Maria. A partire dall’epoca di Giustiniano I (527-565) lo vediamo ricorrere nei principali centri dell’impero, a cominciare da Costantinopoli nell'omonimo monastero. La Madonna viene presentata come il «trono della Sapienza». 

    Il monastero venne edificato nel Vi sec. sopra delle terme tardo romane e dopo la conquista di Costantinopoli divenne una moschea.

    Nell’Icona, al centro della composizione, e al modo delle imperatrici bizantine, è seduta su un cuscino rosso posto su un trono decorato con perle e pietre preziose. La solennità dell’Immagine è resa dalla staticità frontale di Madre e Figlio, sullo stesso asse verticale. La Madonna veste un maphorion blu scuro e pantofole rosse con suola dorata e decorata con perle. Nel suo grembo siede il Bambino, in tunica e mantello giallo ocra, con lumeggiature dorate. Gesù con la mano destra benedice e con la sinistra stringe il rotolo della Legge.
    MONASTERO DI SAN GIOVANNI

    MONASTERO DI SAN GIOVANNI

    Il monastero di Studion o Studios fu fondato a Costantinopoli, nella zona occidentale della città, vicino al mar di Marmara, nel 463 dal console Flavio Studio, ricco e fervente che lo edificò nel quartiere Psammathia vicino alla moderna chiesa di San Costantino e a poca distanza dalla Porta Aurea che, dedicandolo a san Giovanni Battista. I suoi monaci in onore del loro fondatore vennero detti "Studiti".

    Il monastero si oppose alle dottrine monofisite contenute nell'Henotikon di Zenone, non accettarono lo scisma di Acacio (484-519) e tra l'VIII ed il IX secolo avversarono l'iconoclastia entrando in conflitto anche con il patriarca Metodio il Confessore.

    Studion iniziò a decadere con il progressivo declino dell'Impero bizantino: nel 1204 venne saccheggiato dai latini nel corso della IV crociata, e non risorse fino al 1290.

    Gli ultimi monaci vennero dispersi e gran parte del monastero venne distrutto dai Turchi durante la conquista di Costantinopoli nel 1453: la basilica, risalente al V secolo, venne parzialmente distrutta e trasformata in moschea.

    SACRI APOSTOLI

    SACRI APOSTOLI

    La prima delle Chiese a Costantinopoli fu quella dei Sacri Apostoli (o Santi Apostoli), edificata dallo stesso Costantino e dedicata ai Dodici Apostoli, con un'icona e un epigramma per ciascuno. Sulla lunetta della porta principale era presente un altro epigramma, nel quale erano descritte le morti degli apostoli:

    "- Il popolo di Alessandria mette a morte Marco.
    - Matteo dorme il grande sonno della vita.
    - Roma vede Paolo morir di spada. 
    - Filippo sconta la stessa morte di Pietro.
    - Bartolomeo muore soffrendo sulla croce.
    - Una croce strappa alla vita anche Simone. 
    - Il vano Nerone crocifigge Pietro in Roma.
    - Da morto e da vivo vive Giovanni.
    - In pace Luca è morto, alla fine.
    - Gli uomini di Patrasso crocifiggono brutalmente Andrea.
    - Un coltello tronca i percorsi di Giacomo.
    - In India uccidono Tommaso con le lance".

    Costantino la concepì come suo mausoleo funebre e vi si fece seppellire. Anche Giustiniano fu qui sepolto e così la maggior parte degli imperatori e dei patriarchi fino all’XI secolo.
    Nel 356 o 357 vi furono traslate le reliquie di S.Andrea apostolo, di S.Luca e di S.Timoteo. Successivamente anche quelle di S.Gregorio di Nazianzo, detto il Teologo, e di S.Giovanni Crisostomo.

    Nel 1204 i crociati profanarono la Chiesa, asportando tutti gli oggetti preziosi.
    Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli nel 1461 demolì l'edificio e vi costruì la Moschea Fatih Mehmet Camii, per esservi sepolto.


    MYRELAION

    MYRELAION

    Poco prima del 922,  Romano I Lecapeno acquistò una casa nella IX regione di Costantinopoli, presso il Mar di Marmara, in zona Myrelaion (luogo della mirra).

    Salito al trono ne fece il nucleo di un nuovo palazzo imperiale, il palazzo di Myrelaion, eretto su una gigantesca rotonda del V sec.

    Nel X sec. la rotonda venne convertita in una cisterna coprendo i suoi interni con una volta sorretta da 70 colonne. Vicino al palazzo dell'Imperatore costruì una chiesa come luogo di sepoltura della sua famiglia.

    La prima persona ad esservi tumulata fu la moglie dell'imperatore, Teodora, nel 922, seguita dal suo figlio maggiore che morì nel 931. Così Romano interruppe una tradizione di sei secoli, poiché gli imperatori bizantini da Costantino I erano stati sepolti nella Chiesa dei Santi Apostoli.

    Successivamente l'imperatore convertì il palazzo in un convento di suore e, alla sua morte nel 948, venne anch'egli sepolto nella chiesa.

    Dopo la conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453, il Myrelaion venne convertito in moschea
    L'edificio venne finalmente restaurato nel 1986, e nel 1990, venne restaurata anche la cisterna che ospitò un centro commerciale per alcuni anni. Ora la cisterna è usata dalle donne per pregare.


    PORTO TEODOSIACO

    PORTO TEODOSIACO

    Venne fatto edificare da Teodosio I nel IV secolo d.c. in prossimità del porto edificato dall'imperatore Giuliano, corredato di un Horreum Theodosianum (magazzini del porto). Il Porto di Teodosio divenne col tempo il centro più importante di smistamento del grano (una delle materie prime
    maggiormente commerciate all’epoca) proveniente dall’Egitto. 

    Gli archeologi hanno scoperto 36 relitti e la maggior parte di questi sono del VI e del VII secolo. Gli scavi nel complesso promettono di fornirci dati unici per una maggiore comprensione dei traffici commerciali del Mediterraneo, delle tecniche di navigazione e di molti altri aspetti riguardanti l'età Antica e quella medievale.

    Le banchine in legno e i tantissimi frammenti ceramici di anfore attestano, ad oggi, solo una parte della grande portata commerciale che il porto teodosiano rappresentava per Costantinopoli.



    GLI SCAVI

    La maggior parte degli edifici fu demolita nella generale ricostruzione di Istanbul nei primi anni dell'Impero Ottomano. Tuttavia un incendio ai primi del XX sec. riportò alla luce una sezione del Gran Palazzo. Vennero rinvenute celle per i prigionieri, ampi vani e possibili tombe.

    In circostanze del tutto accidentali invece è avvenuto il ritrovamento, nel cantiere di un immobile situato a circa 30/40 m a sud della colonna di Costantino, di un ritratto di Tiberio rilavorato e adattato, secondo una pratica frequente nel IV secolo, alle fattezze di Costantino o di uno dei suoi figli, una rara sopravvivenza di tante statue ritraenti il sovrano e altri personaggi della dinastia imperiale ricordate dalle fonti.
    Scavi contemporanei si stanno conducendo a Istanbul nell'area del palazzo, ma attualmente solo meno di un quarto dell'area complessiva è stata scavata. La maggior parte dei mosaici sono visitabili presso il Museo del Mosaico di Istanbul.

    GLI ELVEZI

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    I Tigurini sono Elvezi, e le prime notizie su questo popolo risalgono al II sec. a.c. quando il condottiero Divicone (Divicus) a capo dei Tigurini, assieme ai Cimbri, agli Ambroni e ai Teutoni, penetrò nella Gallia Narbonense ove sconfisse un corpo di spedizione romano condotto dal console Lucio Cassio Longino nel 107 a.c. nella battaglia di Agen (Guerre cimbriche).

    Andò così:
    Lucio Cassio Longino venne eletto console nel 107 a.c. con Gaio Mario. Nello stesso anno, durante la guerre cimbriche, i Tigurini, tribù degli Elvezi, guidati da Divicone, penetrarono nella Gallia narbonese, provincia romana. Cassio Longino, a quel punto, si diresse con sei legioni e seimila cavalieri verso Tolosa, percorrendo la strada fatta costruire da Gneo Domizio Enobarbo, e ingaggiò battaglia, a poca distanza dalla città celtica, contro il popolo dei Volci Tectosagi, a cui si erano uniti parte dei Cimbri, Teutoni e Tigurini, riuscendoli a battere.

    Dopodiché il console continuò l'avanzata in territorio nemico, portando con sé i bagagli, come se fosse una normale marcia di trasferimento, risalendo la valle del fiume Garonna, fino a Burdigala.

    L'esercito romano, ormai distante dalla provincia romana, fu massacrato nella zona di Agen, nei territori dei Nitiobrogi, e i superstiti fatti passare sotto il giogo; lo stesso Cassio Longino perse la vita.

    Praticamente come le Forche Caudine, Roma certe cose non se le dimenticava e se le legava al dito.
    Nessun popolo doveva potersi vantare di aver sconfitto i omani e per giunta avergli fatto le forche.
    I Romani non lo dimenticavano, e neppure Cesare, che era agli inizi della sua carriera di generale.

    Finora era stato in politica pagando e indebitandosi per farsi conoscere ed eleggere, ma il suo maggior pregio, e Cesare lo sapeva, era come condottiero,

    Cesare sapeva di essere un uomo straordinario, ma voleva l'occasione per dimostrarlo. Doveva vincere le guerre stupendo la gente, doveva farlo in modo eccezionale. Gli Elvezi furono un'occasione ghiotta. Anche se il senato temeva gli uomini troppo ambiziosi, non poteva che essere grato a chi avesse lavato l'onta del disonore a un esercito romano.

    LE FORCHE

    CESARE

    (la sintesi)

    Cesare nel 58 a.c., memore del massacro degli uomini di Longino, impedì il passaggio agli Elvezi che premevano per entrare nella Narbonense, sconfiggendo anche i Tigurini di li a poco, vendicando l'onta romana come afferma nel De Bello Gallico.

    Giulio Cesare nei Commentarii de bello Gallico indicava che gli Elvezi vivevano nei luoghi compresi fra il Giura (a ovest), il Reno (a est e a nord) e il Lago Lemano e il Rodano (a sud). La tribù era divisa in quattro pagi (tra questi quello dei Tigurini). Cesare spiega che allo stato di endemica guerra con i confinanti e bellicosi Germani, deriva un valore degli Elvezi superiore a quello degli altri Galli.

    Più i suoi nemici erano forti e valorosi più Cesare avrebbe avuto onore a sconfiggerli, questa era la tattica, ma che gli Elvezi erano coraggiosi era vero.


    (i precedenti)

    Nel 105 a.c. questa federazione di popoli sconfisse nuovamente i romani a Orange, ma la loro avanzata verso la penisola italica venne fermata nel 102 a.c. dal generale romano Gaio Mario presso Aix-en-Provence. L'anno seguente anche i Cimbri vennero sconfitti presso Vercelli nella battaglia dei Campi Raudii. I Tigurini, che erano rimasti nelle retrovie, ripiegarono verso nord, insediandosi, probabilmente, nel territorio descritto da Cesare. Ora Gaio Mario era lo zio di Cesare, ed era anche il suo mentore, il suo idolo e l'uomo da emulare.



    GAIO MARIO

    La battaglia dei Campi Raudii, detta anche battaglia di Vercelli, fu combattuta nel 101 a.c. fra l'esercito comandato dal console Gaio Mario ed un potente corpo di spedizione composto da tribù germaniche di Cimbri, vicino all'insediamento di Vercellae, nel territorio della ex Gallia Cisalpina.

    I Cimbri vennero distrutti, con più di 140.000 morti e 60.000 prigionieri, compresi moltissimi fra donne e bambini. Una gran parte del merito di questa vittoria fu attribuito a Lucio Cornelio Silla, legato del proconsole Quinto Lutazio Catulo, che comandava la cavalleria romana e degli alleati italici.

    CESARE INTERLOQUISCE CON DIVICONE CAPO DEGLI ELVEZI


    CESARE


    Delle vicende degli Elvezi non si sa più nulla fino al 61 a.c. quando decisero, forse sotto la pressione delle tribù germaniche, di migrare dall'Altipiano svizzero alla Saintonge e, per questo, si prepararono ad attraversare il territorio dei Sequani.

    Cesare racconta che le tribù galliche chiamarono lui, che era governatore della provincia romana della Gallia Narbonense, per difenderle da questa migrazione.

    Orgetorige fu il capo della tribù celtica degli elvezi (stanziata in Svizzera e nella Germania del sud). Nel 61 a.c. guidò la migrazione del suo popolo nella Gallia. Cospirò con il gallo Dumnorige degli edui, a cui diede in sposa la figlia, e con Castico dei sequani per prendere ognuno il potere assoluto nelle rispettive tribù e per regnare insieme sulla Gallia. Scoperto il complotto, gli elvezi tentarono di processarlo, ma lui si mosse in armi con circa 10.000 uomini. Alla fine morì, forse per sua stessa mano.

    Nonostante la morte del capo Orgetorige, che più di ogni altro aveva voluta la migrazione, gli Elvezi decisero di intraprendere il lungo viaggio, distruggendo prima tutti i loro villaggi e i loro beni, così da non avere alcun motivo per ritornare sui loro passi.

    Così Cesare, lasciato il suo luogotenente (Tito Labieno) a presidiare Ginevra (avamposto degli Allobrogi), reclutò cinque nuove legioni in Italia e si preparò ad affrontare gli Elvezi con 29.000 uomini. Sempre secondo Cesare, gli Elvezi ammontavano invece a 368.000 unità di cui 92.000 abili alle armi.

    Scontratisi con l'esercito romano quando erano ormai nel territorio degli Edui, gli Elvezi vennero sconfitti nella Battaglia di Bibracte e i superstiti (circa 110.000) furono costretti a tornare sull'Altopiano.



    BATTAGLIA DI BRIBACTE

    La battaglia di Bibracte (combattuta 25 km a sud di Bribacte edua) costituisce il primo importante scontro tra Gaio Giulio Cesare e le popolazioni celtiche degli Elvezi.

    Cesare riuscì, come in altre occasioni, a battere un esercito nettamente superiore al suo, e questo gli diede anche il pretesto per cominciare la conquista della Gallia. Ma andiamo per ordine.

    Il sud della Gallia era già da circa 70 anni sotto il dominio romano (Gallia Narbonense), quando Cesare ne divenne il suo governatore.

    Egli doveva divulgare a tutta la repubblica romana il suo prestigio di generale, così approfittò della migrazione degli Elvezi, abitatori dell'attuale Svizzera, che nel 58 a.c. decisero di migrare in massa, perché pressati dai vicini Germani (al di là di Danubio e Reno, e dalla recente invasione delle popolazioni suebe guidate da Ariovisto).

    Bruciarono tutti i loro villaggi e si misero in marcia verso le terre dei Santoni, nella parte sud-occidentale della Gallia. Nel percorso avrebbero dovuto passare in territorio romano, nelle terre degli Allobrogi. Gli Elvezi chiesero il permesso di attraversare il territorio romano, ma ottennero un netto rifiuto dopo aver atteso una risposta dal proconsole, Cesare, per due settimane sulle rive del fiume Rodano di fronte a Ginevra.

     "Il capo degli amabasciatori era Divicone. Questi così trattò con Cesare: se il popolo romano avesse stipulato la pace con gli Elvezi. gli Elvezi si sarebbero diretti e stanziati ove egli avesse deciso e ordinato che stessero: se invece avesse voluto insistere a fare la guerra, si ricordasse sia del vecchio insuccesso del popolo romano, sia dell'antico valore degli Elvezi. Poichè aveva attaccato all'improvviso un solo villaggio, mentre quelli che avevano attraversato il fiume non potevano portare aiuto ai loro compagni, non per tale motivo si doveva attribuire grandissimo merito, nè disprezzare loro, essi questo avevano imparato dai loro padri e dai loro antenati, a combattere con il coraggio più che ad affidarsi all'inganno e ai tranelli. Per questo motivo non doveva permettere che quel luogo dove gli Elvezi si erano fermati, prendesse il nome e tramandasse il ricordo da una disfatta dal popolo romano e dal massacro dell'esercito." (De bello gallico)

    Cesare temeva che, una volta attraversato il territorio romano, potessero lasciarsi andare ad azioni di saccheggio. Gli Elvezi furono, così costretti a chiedere il permesso di passaggio ai vicini Sequani che, grazie all'intercessione dell'eduo Dumnorige, accettarono.

    Perchè Cesare fece attendere Divicone per due settimane sull'altra sponda del fiume prima di dargli una risposta? Semplice, voleva che Divicone su arrabbiasse tanto, ma tanto da insultare lui e quindi Roma tutta. Cesare voleva la guerra.



    DUMNORIGE

    Insieme a Orgetorige degli Elvezi e a Castico dei Sequani, avrebbero cospirato, come narra Cesare nel De bello Gallico per impossessarsi del potere.

    RICOSTRUZIONE DUMNORIGE A BRIBACTE
    Per rinsaldare questa triplice alleanza, Orgetorige gli diede in sposa sua figlia.

    La cospirazione di Orgetorige fu però scoperta dagli Elvezi che fermarono il loro capo ma non desistettero dal proposito di migrare.
    Nel 58 a.c., Dumnorige convinse i Sequani a concedere il passaggio nel loro territorio agli Elvezi, che avevano deciso di migrare dai loro territori in altre zone.

    Ma Cesare, appena eletto governatore della Gallia Narbonense, si oppose con la forza delle armi a questa migrazione, chiedendo tra l'altro agli edui, alleati di Roma, di pensare ai rifornimenti per i suoi legionari.

    L'ordine-richiesta non fu accettato di buon grado dalla tribù gallica.

    Intanto Lisco, vergobretus degli edui, rivelò a Cesare che era stato l'influente e popolare Dumnorige a provocare il ritardo dei rifornimenti.
    Nonostante altri problemi da lui
    creati, Cesare non prese provvedimenti, ma si limitò a far controllare l'eduo, grazie all'intercessione del fratello Diviziaco, che aveva buone relazioni con Cesare e i romani.

    Diviziaco era un druido gallico, vergobreto (capo politico o magistrato supremo) del popolo gallico degli edui, fedele alleato di Roma e di Gaio Giulio Cesare al tempo della conquista della Gallia. Nel 63 a.c. chiese aiuto militare al Senato contro la minaccia dei germani, che stavano invadendo la Gallia.

    Dumnorige continuò a brigare alle spalle di Cesare e nel 54 a.c. fu tra i nobili gallici che Cesare propose di portare con lui come ostaggi durante la sua seconda spedizione militare in Britannia per evitare che in sua assenza scoppiassero rivolte in Gallia. Dumnorige disse che l'intenzione del romano era di uccidere lui e gli altri leader, dopodiché scappò dal campo romano con la cavalleria edua. Cesare lo fece allora inseguire dal resto della sua cavalleria. Dumnorige fu ucciso e i suoi uomini tornarono al servizio del romano.

    A quel punto Cesare che disponeva solo di una legione, ma non poteva ritirarsi, non solo cercava un pretesto per intervenire in Gallia, ma poteva vendicare l'onta romana delle Forche Elvezie, un'occasione da non perdere. Tornò nella Gallia cisalpina, recuperò le tre legioni di stanza ad Aquileia, ed arruolate altre due nuove legioni (la XI e XII), tornò in Gallia a marce forzate.



    I TIGURINI

    Finalmente ricevette una richiesta d'aiuto, gli Edui, alleati del popolo romano, chiesero l'intervento armato per i continui saccheggi degli Elvezi che traversavano i loro territori.

    Cesare aveva ora, il giusto pretesto per attaccare, nemmeno il Senato avrebbe potuto negarglielo.

    Andò al fiume Saona, dove i tre quarti dell'esercito nemico avevano già guadato il fiume (erano lì già da tre settimane a compiere l'operazione), eccezion fatta per i Tigurini. Colti totalmente alla sprovvista non ebbero alcuna possibilità di difesa e il tutto si risolse in una carneficina (almeno 90.000 uccisi tra soldati e civili).

    Cesare, una volta costruito un ponte sul fiume, ricevette un'ambasciata da parte degli Elvezi. Nessun accordo fu però raggiunto, tanto che Cesare fu costretto ad inseguire gli Elvezi nelle terre degli Edui. E dopo un paio di nuovi piccoli scontri, anche tra le rispettive cavallerie, arrivò il giorno dello scontro campale.



    BRIBACTE


    Cesare distava circa 18 miglia da Bibracte, la città più grande e ricca degli alleati Edui, mollò l'inseguimento degli Elvezi, per approvvigionarsi dagli Edui. Gli schiavi fuggiti a Lucio Emilio, decurione dei cavalieri galli, avvertirono i nemici. Gli Elvezi pensarono allora di impedire il vettovagliamento dell'armata romana, invertirono la marcia e inseguirono la retroguardia dei Romani.

    Accortosi dell'inseguimento, Cesare ritira le sue truppe sopra un colle lì vicino, inviando contro gli Elvezi alcuni reparti di cavalleria ausiliaria e di alleati Edui per distrarre il nemico, al fine di poter schierare le truppe al meglio in vista della battaglia.

     "Cesare schierò a metà del colle le quattro legioni di veterani [la VII, VIII, IX e X)] in tre file mentre ordinò di collocare sulla cima le due legioni appena arruolate [la XI e XII]  insieme alle truppe ausiliarie oltre a radunare i bagagli in un sol luogo, e che questo luogo fosse fortificato dai soldati schierati nella parte più alta della collina. Gli Elvezi, che avevano seguito i romani con tutti i loro carri, radunarono in un sol luogo i bagagli, poi in file serrate, rigettata la cavalleria romana, si fecero sotto alla prima schiera dopo aver formato una falange."



    CESARE 

    Qui accade un imprevisto, le legioni non conoscono Cesare, o lo conoscono appena. Lui intanto ha raddoppiato a tutti i militari lo stipendio e questo glielo ha reso molto caro, ma non conoscono le sue abilità in battaglia, per ora non si fidano. Li ha portati a combattere un nemico con un esercito molto più grande del loro e gli uomini si ribellano, la cavalleria e gli ufficiali a cavallo se la battaglia va male possono scappare, loro invece restano lì a morire.

    CESARE
    Ed ecco la grandezza di Cesare, un gesto, come tanti suoi gesti, che fa la storia. Nessuno prima di lui e nessuno dopo di lui seppe conquistare così i suoi soldati. Avrebbe potuto farne uccidere alcuni come rivoltosi, tanto per dare l'esempio, oppure farli bastonare, ma non è lo stile di Cesare. I suoi uomini devono aver fiducia in lui, così, anzichè rispondere, scese da cavallo. I soldati lo guardano, e lui ordina agli ufficiali di scendere anch'essi da cavallo, eseguono. I soldati sembrano non capire poi esultano, il loro generale è appiedato come loro, sfida la sorte come loro, è uno di loro.
    Nessuno si tira più indietro, la battaglia ha inizio.

    « Cesare fece allontanare il suo cavallo e quello di tutti gli ufficiali, perché tutti si trovassero in egual pericolo e non potessero fuggire, poi attaccò battaglia. I legionari scagliando i pilum da posizione più elevata, facilmente scompigliarono la falange degli Elvezi. E dopo averla scompaginata mossero all'attacco sguainando la spada. »
    (Cesare, De bello Gallico)

    Gli Elvezi in grande difficoltà, feriti e con gli scudi perforati gli scudi, per giunta non potendo utilizzare i giavellotti nemici che appositamente piegavano le punte al primo colpo, preferirono abbandonare lo scudo e lanciarsi nella mischia, ma molti furono costretti ad indietreggiare ed a ritirarsi su una collina vicina.

    « operare una conversione costituendo ora due fronti: la prima e la seconda schiera per far fronte a quelli che erano già stati battuti [gli Elvezi] la terza schiera [i triarii] per resistere all'assalto dei nuovi arrivati [Boi e Tulingi]. »
    (Cesare, De bello Gallico)

    Gli Elvezi, incoraggiati e pieni di speranze, tornarono a combattere su due fronti, tanto più che sono in netta superiorità numerica. Ma non riuscendo a sostenere gli assalti dei Romani, cominciarono ad indietreggiare. Una parte di loro tornò a rifugiarsi sulla collina vicina, altri si raccolsero presso i carri ed i bagagli lottando disperatamente fino a tarda notte. Dalla barricata di carri si scagliavano dardi sui Romani che tentavano di avvicinarsi. Finalmente i Romani si impadronirono del campo dei nemici con grande strage di uomini.

    La battaglia, cominciata a mezzogiorno, giunta la notte, permise ad una parte degli Elvezi di fuggire nell'oscurità verso il paese dei Lingoni, senza che i Romani se ne avvedessero. Ne sopravvissero in tutto "solo" 130.000 dei 368.000 della campagna iniziale.

    Cesare, una volta seppelliti i morti e curati i feriti, inviò ai Lingoni degli ambasciatori affinché non fornissero agli Elvezi alcun aiuto, in caso contrario sarebbero stati considerati nemici del popolo romano. Riprese poi l'inseguimento, fino a quando gli Elvezi, spinti dalla mancanza di ogni cosa, mandarono a Cesare degli ambasciatori per trattare la resa.

    Cesare accettò la resa degli Elvezi a condizione che gli lasciassero ostaggi, armi, gli schiavi che erano fuggiti da loro e che tornassero nei loro luoghi d'origine insieme agli alleati Tulingi e Latovici, ordinando agli Allobrogi di fornire loro frumento sufficiente per il viaggio.

    « Cesare diede ordine di far ritorno nei loro luoghi d'origine, affinché non restasse disabitato il paese dal quale gli Elvezi erano partiti, ed i Germani, che abitavano oltre il Reno, non si trasferissero dal loro paese in quello degli elvezi, attratti dalla fertilità dei campi, e potessero diventare popoli confinanti con la Gallia Narbonense e gli Allobrogi. Su richiesta degli Edui concesse loro di accogliere nelle loro terre i Boi, valenti guerrieri. Gli Edui diedero loro campi da coltivare e più tardi riconobbero loro le stesse condizioni di diritto e libertà pari alle proprie. »
    (Cesare, De bello Gallico)

    La battaglia, del 58 a.c., segnò l'inizio vittorioso della conquista della Gallia e provocò fortissime perdite (più di 100.000 uomini) nel campo elvetico. Le sei legioni romane che si scontrarono a 25 km a sud di Bibracte con i 60.000 armati elvetici ed i 15.000 tra Boi e Tulingi erano la VII, VIII, IX, X, XI, XII che assommavano, secondo alcuni calcoli, circa 25.000 legionari e 4-5.000 cavalieri ausiliari tra provinciali ed edui.



    ANCORA GLI ELVEZI

    Narra Cesare che nel 52 a.c. circa 8.000 Elvezi partirono in soccorso di Vercingetorige assediato dai Romani ad Alesia, per cui Battaglia di Alesia e vittoria di Cesare

    Nelle Storie di Tacito suicidatosi Nerone nel 68, scoppiò il conflitto fra i pretendenti al principato: Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano. Ignorando la morte di Galba, gli Elvezi combatterono contro Vitellio, comandante delle legioni del Reno.

    La XXI legione, di stanza a Vindonissa e fedele a Vitellio, attaccò un convoglio di rifornimento ad un castellum mantenuto e presidiato dagli Elvezi. Costoro, per contro, intercettarono e fermarono un centurione diretto dalla Germania alla Pannonia con una missiva di Vitellio.

    A questo punto Aulo Cecina, per compiacere Vitellio, devastò le campagne degli Elvezi, uccidendo migliaia di uomini e prendendone altre migliaia come schiavi. Con la resa dell'oppidum di Aventicum e l'esecuzione di Iulius Alpinus (forse il capo della rivolta), Vitellio schiacciò definitivamente la ribellione degli Elvezi.

    « Gli Elvezi, popolo gallico famoso un tempo per le sue armi e per i suoi guerrieri ed ora solo per il ricordo delle gesta passate. »
    (Tacito, Hitoriae)

    Il territorio degli Elvezi venne definitivamente inglobato nell'Impero, confluendo nella provincia della Germania superiore. Lucio Cassio Longino e il suo esercito, passati sotto le forche elvezie nel 107 a.c., ora, dopo 49 anni, riposavano in pace, erano stati vendicati da Giulio Cesare nel 58 a.c..

    SACRI MISTERI DI VENERE

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    VENERE DI POMPEI

    Per Platone, anzi per Diotima nel Convivio, vi sarebbero state due Veneri: Venere Urania, figlia di Urano, il cielo, la Venere Celeste, rappresentante l’amore puro, e Venere Pandemia, figlia di Dione, la Venere Terrestre, Dea dell’amore volgare.

    Aggiunge però che l'amore vero, quello della Venere Celeste, appartiene solo all'amore di un uomo verso un efebo. Insomma ci sembra che Platone avesse strane opinioni sulla Venere Urania, e pure sulla Venere Pandemia.

    Se per Venere Urania si intende Venere Celeste, per Venere Pandemia si intende Venere Terrestre, e se non abbiamo separato l'istinto dalla mente, diremmo che quella Terrestre è almeno la più completa.
    Sesso e sentimenti stanno bene insieme e non è indispensabile metterci l'amore, ma il rispetto e la benevolenza si, altrimenti è sopraffazione, fisica o solo ideologica.

    I romani non vedevano il sesso come una cosa peccaminosa, almeno fino all'avvento del cristianesimo, ma anzi alcuni lo consideravano sacro. Questo accadde in epoca preromana ma pure romana, ed era la via sacra della ierodulia, ovvero il sesso sacro, quello che si faceva nei templi della Dea.

    Nei Sacri Misteri di Venere la Dea, in qualità di sorgente del sesso e quindi della vita era la Matrice di tutte le cose che vivono sulla terra, animali, uomini e piante.

    I Mysteria erano in effetti la festa dell'entrata nell'oscurità e dell'uscita verso la luce.

    - Mesrob Mashtot', armeno - Inno alla Dea - 394 d.c.:

    - Com’ella tanto nella inestinguibile tempesta
    è aurora che qui a oriente giunge,
    ha così tutti noi in sé, la Dea,
    amanti di Lei, la preziosissima, l’interna, che
    irrompe sconvolgendo i nostri colloqui vani.
    Insinuandosi, Ella penetra come Afrodite regna
    nelle spume dove pure nacque
    Telemaco figlio di Ulisse
    e ne derivò lo scotimento dei mondi.
    Nelle azzurrine davanti Leucade plaghe di
    Zacinto, come sogno, tra i templi
    issati all’onore di Apollo, noi pure
    osservammo di lontano la felice beanza
    naturale che ci attende e prima
    e dopo l’usuale nascita, l’usuale morte. -




    IL MITO

    Afrodite, Dea greca dell’Amore, della Bellezza e della Fecondità, affine alla Dea fenicia Ishtar protettrice dell’amore sensuale, chiamata Venere dai Romani che le dedicarono la stella del mattino, secondo Omero sarebbe nata da Zeus e da Dione, per Esiodo, invece, sarebbe emersa dalle acque del mare fecondate dal seme di Urano, presso l’isola di Cipro.

    Appena emersa dalle acque sarebbe stata trasportata dagli zefiri a Cipro, o a Pafo o a Citera e, approdata sulla riva, sarebbe stata accolta dalle Ore, rivestita, adornata e condotta sull’Olimpo.
    In realtà Afrodite era una Grande Madre, sopravvissuta perchè relegata a Dea dell'amore sensuale, non più universale.

    Il mito narra che Afrodite (o Venere), innamorata d’Anchise, futuro padre di Enea, si presentasse vestita da principessa frigia, col mantello rosso, che giacesse con lui su pelli d’orso e di leone mentre intorno ronzavano le api. Il costume frigio, col classico cappello a cono, indicava la facoltà magica acquisita nei Sacri Misteri, la cui ultima fase è rappresentata dal mantello di porpora, perché il nero, il bianco e il rosso erano i colori della luna, della Madre Luna, ossia di tutta l'Opera.

    Leda and the Swan, circa 1st Century AD. Roman mosaic from Sanctuary of Aphrodite on Palea Paphos, Cyprus, now in the Cyprus Museum, Nocosia.
    AFRODITE PAFOS

    La Dea, che aveva l’aspetto selvaggio nell’orsa e nella leonessa a lei sacre, chiese in cambio il segreto, come si faceva giurare al neofito dei culti misterici.

    - L’accoppiamento era l’iniziazione ai Sacri Misteri di Afrodite, cui erano sacri l’orsa e il leone come Ortia o Dea Orsa, la Dea lunare che a Sparta iniziava i neofiti attraverso l’accoppiamento con le sacerdotesse, e l’italica Nortia, sempre Dea orsa, o Norchia (venerata nell’omonimo paese laziale), la Dea che in un mito uccide il figlio e amante Adone. Sembra che la Dea fosse preposta all’erezione del maschio che veniva sollecitato con leggere fustigazioni, usanza che poi passò all’iniziazione bacchica e rivolta alle donne, come si vede nella Villa dei Misteri a Ercolano. -

    Apuleio - Le metamorfosi - X

    - Finalmente sfilarono le schiere degli iniziati ai sacri misteri, uomini e donne di ogni condizione e di tutte le età, sfolgoranti nelle loro vesti immacolate di candido lino, le donne coi capelli profumati e coperti da un velo trasparente, gli uomini con il cranio lustro, completamente rasato, a indicare che erano gli astri terreni di quella grande religione; inoltre dai sistri di bronzo, d'argento e perfino d'oro, traevano un acuto tintinnio.

    Seguivano poi i ministri del culto, i sommi sacerdoti, nelle loro bianche, attillate tuniche di lino, strette alla vita e lunghe fino ai piedi, recanti gli augusti simboli della onnipotente divinità. Il primo di loro reggeva una lucerna che faceva una luce chiarissima, però non di quelle che usiamo noi, la sera, sulle nostre mense, ma a forma di barca, e tutta d'oro, dal cui largo foro si sprigionava una fiamma ben più grande.

    Il secondo era vestito allo stesso modo ma reggeva con tutte e due le mani degli altarini, i cosiddetti «soccorsi», a indicare la provvidenza soccorritrice della grande Dea; il terzo portava un ramo di palma finemente lavorato in oro e il caduceo di Mercurio, il quarto mostrava il simbolo della giustizia: una mano sinistra aperta.


    VENERE DI MILO
    Questa, infatti, lenta per natura, priva di particolari attitudini e di agilità, pareva più adatta della destra a raffigurare l'equità. Costui, inoltre, portava anche un vaso d'oro, rotondo come una mammella, dal quale libava latte, un quinto recava un setaccio d'oro colmo di rametti anch'essi d'oro e un altro un'anfora."

    Ma cosa erano i "Sacri Misteri di Venere"?
    "noi pure osservammo di lontano la felice beanza naturale che ci attende e prima e dopo l’usuale nascita, l’usuale morte "

    Ed Eraclito conferma: "Morte è quanto vediamo da svegli; sogno, quanto vediamo dormendo."

    I Sacri Misteri di qualsivoglia divinità avevano tutti lo stesso fine: togliere di mezzo tutte le influenze, i credo, i doveri e la morale istillata dalla società dell'apoca per liberare la mente e risvegliare il Daimon interiore, il Genio personale, il Puer Aeternum.

    Liberarsi di tutto ciò che ci è stato insegnato non è facile, perchè nei Sacri Misteri si perdeva la fede in tutto ciò che gli altri credevano, salvo verifica personale. Solo che questo traguardo si otteneva mediante una via di tipo sessuale.

    Si cercava la spiritualità nell'amplesso con l'altro, un'esperienza liberatrice, visto che nell'orgasmo la mente si fa da parte, e quello è l'attimo in cui si può iniziare a capire il mondo.

    Questa via era sia per uomini che per donne, ma insegnata dalle donne, in quanto più capaci di un maschio di arginare i propri desideri sessuali.

    In nome di Venere gli adepti, sia femmine che maschi, si dedicavano alla prostituzione sacra, anche se sembra che gli adepti maschi fossero di numero molto inferiori alle femmine.

    Teoricamente desterebbe meraviglia, quando mai un maschio rifiuterebbe le attenzioni sessuali di una donna, però "essere a disposizione di" ridimensiona molto il ruolo maschile ed essere oggetto degli altrui piaceri forse non era tanto gradito.

    Si pensa pure che solo le donne attempate o tutt'altro che veneree ricorressero a tali prestazioni. Ma la cosa più probabile è che gli uomini si prestassero all'uso con i maschi, insomma che la prostituzione maschile fosse di tipo omosessuale, e questo sembra più probabile.

    AFRODITE PAFOS
    Il prestare il proprio corpo per il piacere altrui non sembra tanto spirituale, invece a guardar bene la cosa si comprende che era un grande insegnamento.

    Le donne non dovevano rispondere della loro verginità. Inoltre imparavano a conoscere i lati più fragili dei maschi, giungendo così ad ottenere un rapporto alla pari.

    Le sacerdotesse del sesso venivano, al contrario delle prostitute, altamente rispettate dai maschi (pena il sacrilegio) e le donne imparavano a superare così la gelosia e il possesso da parte dei loro partner.

    Inoltre acquisivano meriti nella loro società avendo svolto mansione di grande prestigio. Sembra che la prostituzione sacra venisse praticata a Sparta, sul suolo italico e pure a Roma, almeno durante la monarchia e la prima repubblica.

    Si ipotizza che praticare il sesso con un partner occasionale accogliendolo come simbolo universale dell'altro

    LA DOMUS ROMANA

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    DOMUS E VILLE

    Calcolando che più o meno Roma imperiale potesse occupare la superficie del centro storico, cioè di quasi 1.280 kmq, di certo non poteva bastare ad una popolazione 1.200.000 - 1.500.000 abitanti. Un notevole spazio era occupato dalle vie, dalle piazze, dagli edifici pubblici, dai templi, basiliche, teatri, circhi, magazzini, caserme, poi dal Tevere, dai parchi, dai giardini, dalle palestre, dai portici, dai bagni pubblici, dalle scuole e dalle terme. Il rimedio all'insufficienza dello spazio fu lo sviluppo in altezza delle case romane, cioè le insule.

    Solo con gli studi pubblicati ai primi del Novecento sugli scavi archeologici di Ostia e sui resti trovati sotto la scala dell'Ara Coeli, nonchè su quelli vicini al Palatino in via dei Cerchi, ci si è accorti che la casa romana non poteva esser presa a modello dalle case di Pompei ed Ercolano dove prevaleva la classica domus indipendente perchè a Roma prevalevano le insulae, insomma più palazzi che ville.

    Pertanto l'abitazione degli antichi romani era di due tipi: la domus e l'insula. Le case popolari, cioè le insule, avevano aperture soprattutto verso l'esterno, un po' come i palazzi di oggi. Infatti le insule erano palazzi, a volte isolate, a volte costituivano una serie di edifici disposti a quadrilatero, con un cortile centrale, porte, finestre e scale sia verso l'esterno sia verso l'interno.

    Dal III sec. a.c. si edificarono le insulae di tre piani (tabulata, contabulationes, contignationes) tanto che Tito Livio, narrando dei prodigi che nell'inverno del 218-17 a.c. avevano preconizzato l'invasione di Annibale, narra che un toro sfuggito al padrone nel Forum Boarium era entrato in un portone, raggiunto il terzo piano e si era lanciato nel vuoto terrorizzando i passanti.

    « Vista l'importanza della città e l'estrema densità della popolazione, è necessario che si moltiplichino in numero incalcolabile gli alloggi. Poiché gli alloggi al solo piano terra non possono accogliere tale massa di popolazione nella città, siamo stati costretti, considerando questa situazione, a ricorrere a costruzioni in altezza.»
    (Vitruvio, De architectura, II, 8, 17)


    Essendo poi le insule soggette a incendi e a crolli lamenta Giovenale:
    «Chi teme o mai temé che gli crollasse
    la casa nella gelida Preneste
    o tra i selvosi gioghi di Bolsena [...]?
    Ma noi in un'urbe viviam che quasi tutta
    si sostiene su esili puntelli;
    questo rimedio gli amministratori
    alle mura cadenti oppongono solo,
    e poi, quando tappato hanno alle vecchie
    crepe gli squarci, voglian che si dorma
    placidi sotto gli imminenti crolli

    La domus invece era una costruzione solida e tranquilla, poderosa e signorile, di pianta rettangolare, solidamente costruita su un solo piano con mattoni o calcestruzzo (impasto di sabbia, ghiaia, acqua e cemento), costituita da mura quasi senza finestre verso l'esterno ma totalmente aperta verso l'interno. Si distingueva dalla villa suburbana, che invece era un'abitazione privata di villeggiatura situata al di fuori delle mura della città, e dalla villa rustica, situata in campagna e dotata di ambienti appositi per i lavori agricoli.

    La casa si sviluppava in orizzontale ed era composta da molte stanze con funzioni diverse: l'ingresso bipartito in vestibulum e fauces (da cui si accedeva all'atrium, che era la stanza centrale subito dopo l'ingresso, da cui si poteva accedere agli altri ambienti che vi si affacciavano), le stanze da letto dette cubicula, la sala dei banchetti detta oecus tricliniare o triclinium (dove gli ospiti potevano mangiare sdraiati sui letti tricliniari), alcuni ambienti laterali detti alae, il tablinum (locale adibito a salotto solitamente posto in fondo all'atrium).

    Le stanze che si affacciavano direttamente sulla strada erano solitamente affittate a terzi per essere adibite a negozi o botteghe artigiane ed erano denominate tabernae. Nel retro della casa all'aperto c'era l'hortus, il giardino/orto domestico.

    Le domus più prestigiose erano più ampie ed erano composte di due parti principali: la prima gravitava attorno all'atrio, la seconda attorno al peristylium, un grande giardino porticato su cui si affacciano altre stanze, ornato solitamente da alberi da frutto, giochi d'acqua e piccole piscine.




    Insomma l'ordine era più o meno così:

    - Ostium
    - Vestibulum
    - Facies
    - Atrium
    - Androm
    - Perystilium
    - Lararium
    - Piscinula
    - Hortus
    - Culina
    - Triclinium
    - Cubicula
    - Balneum
    - Stanze degli schiavi
    - Magazzini



    LA STORIA

    - Degli edifici romani abbiamo le prime notizie verso la metà dell'VIII sec. a.c., quando gli aristocratici romani trasformano le loro capanne (casae) in domus. Queste possedevano più ambienti, tra cui una grande sala, che affacciano tutti su una corte. I suoi muri erano in argilla bagnata e pressata su rami stagionati, mentre il tetto era di rami più grossi ricoperti di paglia.

    - Verso la metà del VI sec. a.c. si cominciano a costruire muri un poco più solidi, formati da un muretto in ciottoli di tufo con sopra un elevato in argilla. Il tetto poi, all'uso etrusco, divenne un tetto in tegole e coppi.

    - Alla fine del VII sec. a.c. le mura delle case furono interamente edificate in ciottoli squadrati di tufo e le porte ebbero stipiti in tufo lavorato.

    - Verso la metà del VI sec. a.c. l'abitazione romana seguì del tutto il modello etrusco, cioè la casa che si sviluppa attorno all'atrio, parzialmente ricoperto dall'incontro delle quattro falde del tetto, sorrette da travi orizzontali.

    Dall'apertura dell'atrio (compluvium) entravano la luce e l'acqua piovana, raccolta in una vasca (impluvium) e di qui fatta defluire in una cisterna sotterranea, il che assicurava una riserva d'acqua per i bisogni della casa. Ma anche nei giardini intorno alla casa si scavarono cisterne come approvvigionamento d'acqua per le piante.

    I muri erano in massi di tufo di elevata grandezza realizzati in opera quadrata irregolare. Questo modello di abitazione durò tre secoli. Sembra che il primo esempio di casa ad atrio a Roma sia stato quello di Tarquinio Prisco (che del resto era etrusco) sul Palatino, prima residenza privata poi domus publica.

    - Tra la fine del III sec. a.c. e la metà del II sec. a.c. la casa romana si trasforma interamente sul modello etrusco, ma senza un piano urbanistico. Poi Nerone ne fece sviluppare uno ma relativo solo a una parte del Palatino. L'atrio di forma arcaica si trasforma in opus caementicium, simile al cemento odierno, ma privo delle armature in ferro. Ne è di esempio l'atrium regium della domus publica di Augusto, ricostruita nel 210 a.c., con peristilio e criptoportico.

    - Dal 110 - 120 d.c. si sviluppano sempre di più le insulae, in cui abitavano il proprietario e gli affittuari.



    LE STANZE

    La domus romana si evince soprattutto dagli scavi di Pompei, ed è una combinazione tra l'antica Domus Italica, formata da un solo cortile aperto (atrium) su cui si aprivano le stanze e da un giardinetto (hortus), con la casa greca sviluppata attorno a un peristylium.

    Il numero e l'ampiezza degli ambienti e dei giardini, l'arredamento e la decorazione delle stanze variavano a seconda dell'eta' (repubblicana, imperiale, ecc.) e della ricchezza del proprietario. La domus si snodava comunque in stanze che si susseguivano in un ordine prestabilito: fauces, atrium, alae, triclinium,tablinum, peristilio.

    Le domus più ricche erano però composte di due parti principali: la prima sviluppata attorno all'atrio, la seconda attorno al peristylium, un grande giardino porticato su cui si affacciano altre stanze, ornato in genere da alberi da frutto, giochi d'acqua. fontane, piccole piscine, statue ed oscillum.

    I nomi delle stanze della parte anteriore della casa erano quelli latini dell'antica domus italica (atrium, tablinium, cubiculum, ecc.), mentre invece quelli della parte posteriore derivavano dalla casa greca (peristylium, exedra, triclinium, ecc.).



    OSTIUM

    Nella domus si accedeva da una porta affacciata sulla strada (ostium), di cui nella pittura qua sopra se ne scorge una sulla sinistra, con ai lati due colonne e un architrave lavorato aldisopra.

    Era la soglia d'ingresso che immetteva in un corridoio (vestibulum), che, a sua volta, conduceva alla vera e propria entrata (fauces); da qui si passava al cortile interno, detto atrio, dotato di lucernario (atrium). In epoca imperiale la domus si fornì anche di una seconda uscita di servizio detta posticum posta normalmente sul lato della parete più ampia della casa, per permettere il passaggio della servitù e dei rifornimenti senza ingombrare l'ingresso principale.

    La porta stradale dava l'idea della lussuosità della casa, visto che dal di fuori il suo interno era invisibile, così le famiglie più ricche la ornavano con marmi pregiati, colonne con ricchi capitelli corinzi ed architravi, anch'essi in marmo, finemente lavorati.

    In quanto alla porta vera e propria essa era di legno massiccio e borchiato, fornito internamente di poderosi catenacci. Spesso il legno era lavorato a cassettoni con rinforzi orizzontali e verticali, spesso dotata di battenti di bronzo raffiguranti sfingi, teste di leone, di lupo, o si qualche divinità.




    VESTIBULUM

    Era un breve e stretto corridoio che dall'ostium portava alle fauces, l'entrata vera e propria della casa. Il vestibolo non era molto illuminato eppure spesso aveva un soffitto a volta decorato con dipinti o stucchi.

    Dobbiamo sempre considerare l'illuminazione artificiale, con candele e torce, includendo pure delle torce fissate ai muri per le serate eleganti, dove gli ospiti potevano ammirare ogni passaggio della domus, apprezzando sia la finezza dei padroni di casa sia le loro possibilità economiche. Per questo tutto ciò che poteva venire ornato lo era, trattandosi di affreschi o marmi in opera sectile o stucchi su pareti e soffitti.



    FAUCES

    L'entrata principale si trovava generalmente su uno dei due lati più corti della casa. La porta era costituita da un alto portone in legno a due battenti con grosse borchie in bronzo; al centro di ogni battente non era raro trovare raffigurata la testa in bronzo, di un lupo o di un leone che stringeva in bocca un grande anello da usare come batacchio.

    Spesso poi per terra c'era un mosaico con la figura di un cane minaccioso con la scritta "Cave canem", attenti al cane, un avviso ai questuanti ma soprattutto ai ladri.




    ANDRON

    Attraverso un corridoio chiamato andron, (da cui la parola androne, cioè ingresso), dall'atrio si raggiungeva il peristylium, la parte piu' interna e spettacolare della casa. Era qui, nella parte posteriore della casa, che si svolgeva di solito la vita privata della famiglia, tutta raccolta intorno ad un giardino ben curato.

    Anche l'androne veniva ornato nelle domus più signorili con dipinti, mezzecolonne, stucchi ecc., e pure con tendaggi e talvolta panchine o scranni. Da lì si accedeva al peristlio e da questo prendeva luce.


    ATRIUM

    L'atrio (atrium) era in epoca arcaica la stanza del focolare al centro della domus, dove i muri erano anneriti dal fumo (ater) e attorno al quale si svolgeva la vita familiare. Questa usanza fu presto abbandonata ma restò a simboleggiare il focolare una piccola piattaforma rialzata interna all'impluvio, il cartibulum.

    IL CARTIBULUM
    Il cartibulum era quel tavolinetto di pietra o di marmi vari che quasi sempre si rinvenne a Pompei, Ercolano ecc. costituito da una lastra marmorea sorretta da due grosse lastre lavorate e poggiate sopra strette basi.

    Le due lastre erano scolpite a foggia di animali come grifoni, sfingi, leoni ecc. o se più semplici, con motivi floreali. Questo tavolinetto simboleggiava il tavolino dell'antica domus, dove si poggiavano i cibi e la famiglia di riuniva per mangiare attorno a questo desco che all'epoca doveva essere semplicemente in legno.

    Successivamente invece venne spesso usato dal padrone di casa per sbrigare gli affari che non richiedevano troppi cerimoniali. Infatti vi venivano poggiati gli strumenti per scrivere, dallo stilo alle tavole cerate e alle pergamene, un cesto dove raccogliere lettere e suppliche o conti vari.

    Nell'Atrium, generalmente quadrato, c'era un Lararium in cui erano esposte le immagini degli antenati, le statue dei Lari, dei Mani e dei Penati protettori della casa, della famiglia e di altre divinita', le opere d'arte, gli oggetti di lusso e altri segni di nobilta' o di ricchezza; qui il padrone di casa riceveva visitatori e clienti, soci e alleati politici. Inizialmente, accanto ad essi, veniva alimentato un fuoco sacro, che non doveva mai spegnersi, pena l'ira degli Dei, ma poi quest'usanza tramontò.

    L'Atrio poteva essere:

    - Displuviatum, di derivazione greca ed etrusca, con pendenza del tetto verso le pareti laterali che faceva sgrondare l'acqua in docce ai quattro angoli.

    - Testudinatum, privo dell'impluvio, utilizzato solo in ambienti piccoli e di scarsa importanza. In linea con l'ingresso, nella parete opposta dell'atrium, si apriva il tablinium che affacciava a sua volta sul peristylium.

    Probabilmente l'atrio non era chiuso da porte ma da tende, che nella stagione estiva potevano essere lasciate aperte offrendo ai visitatori una fuga prospettica di splendido effetto. Di solito venivano qui accolti i clientes del padrone di casa, spesso ex schiavi liberati, o i liberti altrui che proponevano affari, o informatori o procacciatori di voti per le elezioni.

    Di norma c'era anche un cofano contenente dei soldi che il dominus elargiva ai vari clientes o per ottemperare ai pagamenti. Ma su questo tavolo si poteva anche riscuotere, ad esempio l'affitto dei negozi di proprietà del dominus che spesso si aprivano sui lati esterni della domus.

    La parte anteriore della casa era pertanto un grande vano, l'atrio, con un'ampia apertura sul soffitto, spiovente verso l'interno (compluvio): di qui scendeva l'acqua piovana, che veniva raccolta in una vasca rettangolare (impluvio) sistemata nello spazio sottostante. Quest'acqua era poi convogliata in una cisterna sotterranea, che costituiva la riserva idrica della casa.

    In seguito l'atrium identificò il cortile interno: uno spazio aperto circondato su tre o tutti i lati da portici, dotato di copertura con impluvio e corrispondente compluvio. Nell'atrium erano collocati la cappelletta per i Lari, (lararium) e la cassaforte domestica (arca).

    Dell'atrium Vitruvio descrive alcune tipologie:
    - Tuscanicum, il tipo più antico e più largamente diffuso in cui il peso del tetto è sorretto unicamente dalle travature orizzontali
    - Tetrastylum, con una colonna a ciascuno dei quattro angoli dell'impluvium. Ne è un esempio la Casa delle Nozze d'Argento di Pompei.
    - Corinthium, con un maggior numero di colonne e un'ampia apertura di luce.


    L'impluvio svolgeva anche la funzione di contribuire a rendere più luminosa e bella la casa, riflettendo la luce solare e l'azzurro del cielo. L'atrio rappresentava anche la principale fonte di illuminazione della casa che, praticamente sprovvista di finestre, sarebbe stata altrimenti buia.



    LARARIUM

    Posto nell'atrio era una rientranza o nicchia o edicola fatta e decorata in varie fogge, o con soffitto arcuato o con un tettuccio di mattoni o legno o pietra.

    IL LARARIUM SUL FONDO
    Talvolta si presentava come una nicchia dipinta sulla cui base si poggiavano le statuine sacre, con accanto le essenze odorose da bruciare e l'offerta di vino o altro. In altri casi si trattava di un'edicoletta, dipinta o mosaicata, con un tettuccio spiovente e alcuni gradini. Oppure aveva davanti un altarino in pietra o in cementizio su cui si bruciava l'offerta. A volte il larario poggiava direttamente sull'altarino sorretto da due colonnine.

    Ma una domus poteva avere anche più di un larario, sicuramente uno più grande ed altri minori, da tenere nei cubicula o fuori della porta per non doversi recare necessariamente nell'atrio quando si aveva la necessità di pregare.

    Nel larari, oltre ai Lari, ai Penati e ai mani, si ponevano le statuine o le immagini di altre divinità cui si era particolarmente devoti. Talvolta vi comparivano geni vari o serpenti o esseri mitici. Ed ecco invece gli arnesi che si custodivano nel larario per il rito quotidiano:

    - Acerra - un cofanetto, di forma quadrangolare o cilindrica, dove si conservava l’incenso da usare nei sacrifici; detto anche arca turaria, di terracotta o di metallo inciso o di legno. Nelle cerimonie la recava un giovane assistente (camillus), al sacerdote perché ne traesse i grani da gettare nel fuoco.

    - Salinum - vasetto del sale purificato. Era in genere di metallo inciso, Il sale aveva un grande valore purificatorio tanto è vero che la Dea Salus traeva il suo nome dal sale. I romani credevano che fosse purificatorio anche nei confronti degli spiriti malvagi.

    - Gutus - contenitore di latte o vino destinati ad uso sacro. Poteva essere in terracotta, in metallo, in vetro o in pietra.

    - Patera - piattino delle offerte, tondo in genere ma qualche volta ovale. Poteva contenere cibo e/o vino. Veniva usato in tutte le circostanze di riti religiosi.

    - Incensus - varie qualità di resine, o misture di resine ed incensi che venivano bruciate su carboncini..

    - Turibulum - bruciatore di incenso ed erbe. In genere in metallo su cui si poneva la sabbia, il carboncino e sopra l'incenso.

    - Lucerna - una lucerna sacra usata esclusivamente per il rito del larario. La sua luce veniva accesa all'inizio del rito e spenta al suo termine.




    CAVEDIO

    Così si denominò cavedio (cavaedio) lo spazio scoperto al centro della domus, che oggi si definirebbe chiostrina. Poteva essere di vaie misure, perloppiù quadrato se l'atrio era quadrato o rettangolare come l'altro.

    La sua ampiezza dipendeva pure dalla locazione della villa, più grande se la domus era in zona più meridionale o assolta e più ristretta al nord o in zone più fredde.

    Esso era contornato al perimetro da un muro, sul quale si aprivano le porte di accesso alle varie stanze. Queste prendevano pertanto da esso aria e luce, offrendo protezione dalla pioggia e dall'afa estiva.



    COMPLUVIUM

    Generalmente la domus signorile non era dotate di finestre sull'esterno, o, se vi erano, erano molto piccole per evitare che dall'esterno potessero entrare rumori o, peggio, ladri.

    L'illuminazione era fornita pertanto e soprattutto dalla luce solare che entrava dal compluvium dell'atrio. e illuminava di riflesso le stanze ad esso adiacenti.

    In genere il compluvium aveva delle antefisse che ornavano gli spioventi interni del tetto che potevano essere intravisti dall'atrio, di solito in terracotta semplice o decorata e colorata. Le antefisse potevano avere teste di divinità, o teste di grifoni o semplicemente fregi floreali, eseguiti in terracotta colorata.

    Aveva inoltre almeno quattro doccioni agli angoli del tetto aperto, di solito in pietra, a foggia di lupo, leone, grifone o altro. I doccioni, oltre ad essere decorativi, aiutavano il percorso dell'acqua nel riversarsi dentro la vasca sottostante. Infatti dal compluvium entrava, oltre che la luce, anche l'acqua piovana che veniva raccolta in una vasca o cisterna quadrangolare al centro dell'atrio detta impluvium.



    IMPLUVIUM

    Trattavasi della vasca in pietra posta aldisotto del compluvium che serviva a raccogliere l'acqua piovana. In genere era ornata di marmi, talvolta con colonne, statue o vasi sempre di pietra. Ce n'erano con una statuetta al suo centro posta su un piedistallo, o con una statua posta sul "cartibulum", o con quattro vasi posti agli angoli della vasca.

    La vasca era bassa, visto che l'acqua non poteva debordare in casa, ma era fornita di un troppo-pieno che faceva defluire, ad un certo livello, l'acqua dentro una cisterna sotterranea. Di solito aveva un bordo e uno o più gradini interni, talvolta con un mosaico sul fondo ed intorno alla vasca. Questa acqua serviva per innaffiare il giardino, lavare i panni e tenere pulita la casa. Per bere si ricorreva invece ad un pozzo posto in genere nel giardino.



    TABLINIUM

    Sul fondo dell'atrio, proprio di fronte all'entrata, si trovava una grande sala di soggiorno (tablinum), separata dall'atrio soltanto da tendaggi. In questa parte della casa erano esposte le immagini degli antenati, le opere d'arte, gli oggetti di lusso e altri segni di nobiltà o di ricchezza.

    Nella parete dell'atrium, posta direttamente di fronte all'ingresso, si apriva dunque questa grande stanza, la stanza-studio del padrone di casa dove erano conservati gli archivi di famiglia e dove riceveva i suoi clienti: aveva gli angoli delle pareti foggiate a pilastri, era separata dall'atrium soltanto da tendaggi, e aveva un'ampia finestra che dava sul peristylium da cui riceveva luce ed aria.

    Era arredata spesso con un grande tavolo di pietra ed una imponente sedia posti al centro della stanza, in legno o in vimini, corredata di ricchi cuscini damascati con frange e pennacchi, mentre di lato erano sistemati alcuni sgabelli, tutti arredi dalle gambe tornite e decorate con intagli in osso, in avorio o in bronzo.

    Qui il padrone di casa riceveva i visitatori, i clienti, gli schiavi da lui liberati, i soci, i questuanti e gli alleati politici, oppure persone che gli offrivano qualcosa o da cui doveva ottenere lui stesso qualcosa. In origine esso conteneva anche il letto maritale, ovvero il talamo nuziale; più tardi rimase soltanto come sala di ricevimento.

    Il tablinum (o tabulinum, da tabula) introduceva dall'atrio al peristilio, da cui era separato da un'ampia finestra o da una stanzetta. Le sue pareti erano affrescate, e i busti marmorei della gens e della familia erano posti su piedistalli ai due lati della stanza.

    Esso era a tutti gli effetti l'ufficio o lo studio del capofamiglia, il luogo dove egli svolgeva gli affari, in genere era dotato di un tavolo, di una seggiola su cui poteva sedere il dominus, nonchè una per l'ospite, o più di una per gli ospiti, di un ricco forziere, di uno o due candelabri, di tavolinetti più piccoli dove venivano posate bottiglie e bicchieri per offrire agli ospiti di riguardo, o vasellame d'argento che dessero l'idea della ricchezza del proprietario e pure del suo buon gusto.



    PERISTYLIUM

    La vita privata della famiglia si svolgeva di solito nella parte posteriore della casa, raccolta intorno ad un giardino ben curato, che poteva anche essere circondato da un portico a colonne (peristilio) e ornato da statue, marmi e fontane.

    Il peristylium consisteva in un giardino (Hortus) in cui crescevano con ordine ed armonia erbe e fiori, con sentieri, aiuole e a volte piccoli labirinti, il giardino all'italiana nasce da qui, quel giardino a siepi elaborate che poi in Francia verrà chiamato giardino alla francese. Il giardiniere curava le piante e spesso le sagomava a forma di animali.

    Era circondato su ogni lato da un portico (Porticus) generalmente a due piani, sostenuto da colonne: il tutto arricchito da numerose opere d'arte, ornamenti marmorei, da affreschi, statue, fontane e oggetti in marmo (vasi, tavoli e panche).

    Generalmente si appendevano alla sommità delle sue colonne degli oggetti che oscillavano al vento, detti appunto "Oscilla" (oscillum al singolare) che potevano essere di marmo inciso (da ambedue le parti) o in terracotta, o in bronzo o in gesso colorato.

    Era la zona più luminosa, e spesso una delle più sontuose. Nel peristilio non era raro trovare anche una piscina, in genere stretta e lunga. Nel Peristylium affacciavano anche le camere da letto padronali, generalmente a due piani, sostenuti da colonne: lo arricchivano numerose opere d'arte e ornamenti marmorei.

    Quest'ultimo era un cortile contornato da colonne sulle quali si poneva un tetto che si appoggiava alla casa. Le colonne avevano capitelli tuscanici, o dorici, o ionici o corinzii. Potevano essere lisce o scanalate, in marmo o in muratura.

    Talvolta venivano dipinte di rosso in genere nella parte inferiore, in questo caso la parte dipinta era liscia mentre la superiore era scanalata. Veniva così a crearsi un portico le cui pareti erano spesso finemente decorate con pitture e mosaici.

    Il pavimento del portico era generalmente in cocciopesto (con mescolato coccio o pietrisco), o in cotto, o in marmo composito o in mosaico. L'interno del peristilio conteneva piante, alberi, fontane, balaustre, statue, vasi, erme, tavolini in pietra, vasche con pesci e piscine.

    Talvolta la piscina centrale era pur restando stretta, però molto lunga, si da ospitare ponticelli che facessero passare da una parte all'altra, e talvolta erano costellate ai bordi di statue e pure di panchine che consentivano di godere della frescura dell'acqua. Alcune domus possedevano invece piccole o grandi vasche di pesci, o fontane con giochi e schizzi d'acqua che potevano essere aperti o chiusi mediante macchinari.

    Il peristylio accoglieva panchine lavorate, in granito o in marmo, e sui muri spesso dipinti con grottesche, scene mitiche, divinità, scene di animali o di piante e uccelli. Talvolta invece le pareti erano decorate in opus sectile, cioè con marmi colorati tagliati e inseriti tra loro.

    Quest'ultima soluzione era molto costosa ma redditizia nel tempo perchè non si rovinava. La pittura invece era destinata a deteriorarsi per cui dopo diversi anni doveva essere ricostituita. Da considerare però che gli artisti all'epoca erano tanti e non costavano moltissimo. L'arte a Roma e dintorni era di casa.



    CUBICULUM

    Le camere da letto si chiamavano cubicoli. Esse, come indica il nome, erano stanze piccole, il più delle volte prive di finestre e si aprivano ai lati sinistro e destro dell'atrium. In genere i padroni dormivano in letti divisi, talvolta in un'unica stanza, talvolta in due stanze separate. In ogni caso il letto matrimoniale per i romani non esisteva.

    CUBICULUM
    In latino erano dette cubicula (al singolare cubiculum), delle piccole e buie camere da letto simili a delle cellette alla cui illuminazione provvedevano soltanto delle deboli lucerne che poco evidenziano quei capolavori di affreschi o di mosaici che spesso decoravano queste stanze, e le alae, due ambienti di disimpegno aperti. Sulle due ali (alae) del peristylium vi erano le camere i cubicula padronali, un po' piu' ampi di quelli nelle ali dell'atrio, talvolta con una finestrella munita di grate.

    O almeno questo si pensa, ma non abbiamo idea di quali e quanti candelabri illuminassero la stanza finchè i padroni, che di solito dormivano in stanze divise, non avessero preso sonno. Era in genere compito dello schiavo spegnere silenziosamente le lanterne quando si accorgeva che l'altro aveva preso sonno.

    D'altronde non avrebbe avuto senso ornare tanto le pareti con scene mitiche o di freschi giardini se il proprietario non avesse l'uso di restare per un po' sveglio, magari leggendo qualche testo di allora che oltre a deliziarlo gli conciliasse il sonno.

    Il cubiculum aveva in genere un pavimento di mosaico a tessere bianche con semplici ornamenti, le pitture alle pareti erano diverse per stile e colore da quelle del resto della casa e il soffitto sopra il letto era sempre a volta.

    L'arredamento dei cubicula erano i letti, i più diffusi erano dei lettini a una piazza (lectuli); vi erano poi quelli a due piazze per gli sposi (lectus genialis). I letti potevano essere in bronzo, più spesso in legno lavorato o in legni pregiati esotici che lucidati emanavano tanti colori come le piume di un pavone (lecti pavonini).

    LA CULINA

    CULINA

    Si affacciavano sul peristylium anche la cucina (culina) che, vista la sontuosita' dei banchetti si potrebbe pensare fosse una stanza grande come sullo stile di quelle medievali, invece era il locale piu' piccolo e tetro della casa; uno sgabuzzino occupato quasi tutto da un focolare in muratura, invaso dal fumo che usciva da un buco sul soffitto vista l'assenza di fumaioli, con la presenza di un camino, un piccolo forno per il pane e l'acquaio.

    La cucina non aveva comunque una ubicazione fissa; a volte la si trovava anche che affacciava nell'atrium, ma e' caratteristica costante che fosse stata sempre un ambiente piccolo e buio. Un aspetto comune delle cucine romane erano le casseruole e pentole di rame (o bronzo) fissate sulla parete in bella mostra, con accanto i colini; arricchivano la dotazione degli utensili i pestelli in marmo, gli spiedi, le padelle di terracotta, le teglie a forma di pesce o di coniglio.

    Il piano di cottura era costituito da un bancone in muratura dove veniva spianata la brace come in un barbecue; il fuoco si accendeva grazie ad un acciarino a forma di ferro di cavallo che, tenuto per la parte centrale, veniva fatto percuotere addosso ad un pezzo di quarzo tenuto fermo dall'altra mano; da innesco veniva usata una striscia di fungo legnoso del genere Fomes che cresceva sugli alberi e della paglia quando il fungo cominciava a rilasciare il calore ricevuto dalle scintille. Una volta calda la brace, su questa venivano posizionati sopra dei tre piedi di metallo, come fornelli, dove sopra vi si mettevano le pentole e le marmitte.

    IL BALNEUM

    BALNEUM

    Annesso alla cucina c'era il bagno (balneus), riservato alla famiglia padronale, e le stanze della servitu' (cellae servorum); queste non avevano una disposizione fissa (a volte, infatti, si trovavano nella parte dell'atrium).

    Quattordici acquedotti che portavano all'Urbe un miliardo di litri d'acqua al giorno, 247 vasche di decantazione (castella), le numerose fontane ornamentali, le grosse canalizzazioni delle case private hanno fatto pensare che nella case romane vi fosse una distribuzione di acqua corrente in tutta l'urbe.

    Solo con il principato di Traiano l'acqua (aqua Traiana) di sorgente fu portata sulla riva destra del Tevere dove la gente sino ad allora si era dovuta servire di quella dei pozzi. Poi anche nella riva sinistra le derivazioni collegate ai castella, venivano concesse dietro pagamento di un canone solo a titolo strettamente personale e per le terre agricole.

    Il balneum, il bagno romano, era l'esatta copia delle terme (comprendeva infatti l'apodyterium, lo spogliatoio, il calidarium, la piscina dell'acqua calda, il tepidarium, piscina dell'acqua tiepida, per arrivare al frigidarium che era la piscina con l'acqua fredda). In alcune ville più ricche si poteva trovare anche la bibliotheca, la diaeta, un padiglione per intrattenere gli ospiti ed il solarium, una terrazza che poteva anche essere coperta.

    IL TRICLINIUM

    TRICLINIUM

    La sala da pranzo veniva chiamata triclinio perché conteneva tre letti a tre posti, su cui i romani si sdraiavano durante i banchetti. Il triclinio detto oecus tricliniare o triclinium, poteva essere ubicato di fianco a una delle due alae, ed era la grande e sontuosa sala da pranzo, che prendeva luce da una apertura che dava da una parte sul peristylium e dall'altra sull'atrio.

    Si trovava nell'una o nell'altra parte della casa, spesso in entrambe. Pertanto si poteva avere più di un triclinio, in genere i due lati si usavano a riguardo della stagione. L'esposizione a nord nella stagione più calda, a sud nella stagione primaverile o autunnale e invece interna alla casa nella stagione più fredda. Così i letti venivano spostati da un lato all'altro della casa a seconda del numero degli ospiti.

    TROCLINI IN MURATURA
    I triclini erano lussuosi, con affreschi alle pareti e mosaici ai pavimenti. In epoca imperiale furono soggetti a trasformazioni in esedra, sala per feste e ricevimenti. In genere queste stanze erano a tre letti ma esistevano però triclini più vasti che potevano accogliere più letti di questi. In genere questi erano eseguiti in muratura, rivestiti con materassini e lenzuola, con coperte nella stagione più fredda.

    Trattavasi di un letto unico a tre lati, muniti di cuscini, lenzuola e coperte con lo spazio per tavolini interni. Gli ospiti giacevano a pancia sotto poggiando su un gomito e con l'altra mano pescavano bocconcini di cibo già tagliati e posti nelle ciotole dagli schiavi.

    Gli schiavi porgevano loro i bicchieri e il cibo, toglievano i piatti vuoti, fornivano le salviette per pulirsi e cambiavano o lenzuolini se si sporcavano. In altri casi si trattava di letti veri e propri, di legno, semplici o decorati.

    I tre letti, all'interno del triclinio, erano disposti a ferro di cavallo in modo da permettere facilmente il passaggio della schiavitù. Il letto centrale, il medius lectus, che poteva contenere più di un solo letto, era destinato agli ospiti più importanti, tra i quali vi era il personaggio più prestigioso in assoluto, che sedeva sulla parte più alta, il locus consularius.

    I triclini laterali, che potevano contenere più di un solo letto ed erano sempre posti affiancati, erano chiamati rispettivamente imus lectus, destinato alle persone meno importanti, tra cui, per rispetto agli ospiti si poneva il padrone, e il sumus lectus, su cui erano gli ospiti di media importanza.

    Tra i letti triclinari vi era un tavolo che, a seconda della sua forma, assumeva nomi diversi: quello di forma quadrata era detto cilliba e poggiava su quattro piedi, quello circolare, che poggiava su tre piedi, veniva chiamato mensa, e quello utilizzato per le bevande era detto urnarium.

    Alla fine di ogni banchetto la servitù provvedeva a rimettere in ordine i letti triclinari sostituendone le lenzuola macchiate, ed a raccogliere dal pavimento i resti del cibo gettato, secondo usanza, in terra durante il pasto. Ma gli schiavi personali che spesso gli ospiti stessi si portavano, badavano a cambiare la clamide del padrone quando la scorgevano macchiata o provvedevano a nettargli le mani con acqua di rose fornita dagli schiavi del padrone.



    HORTUS

    Nella parte posteriore della casa, al cui centro vi era il peristilio (peristylium), si svolgeva di solito la vita privata della famiglia, tutta raccolta intorno ad un giardino ben curato (Hortus), che poteva anche essere circondato da un portico a colonne (porticus) e ornato da statue, marmi e fontane, dove affacciavano le camere da letto (i cubicola) padronali.

    I Romani iniziarono a riservare spazi verdi all’interno delle domus cittadine, a partire dal II secolo a.c., un po' all'uso greco greco, dove la cura di piccoli frutteti o giardini era già in uso fin dal V sec. a.c.  I primi horti romani riguardarono anzitutto gli alberi da frutto e le erbe aromatiche. Seguirono poi i viridaria, con specie arboree e da fiore provenienti da tutto il bacino del mediterraneo, coltivati sia per l'uso commestibile che per la bellezza.

    Negli horti delle domus si coltivavano, oltre agli alberi da frutto, il rosmarino, l'alloro. la salvia, le rape, la ruta, il rafano, le carote, l'issopo, la borragine, l'achillea, le cipolle, l'aglio, i porri, la lattuga, la cicoria, i carciofi, l'indivia e i cetrioli. Il termine hortus tuttavia venne comunemente utilizzato per indicare sia l’orto-frutteto che il viridarium.



    PISCINULA
    PISCINULA

    Il termine piscinula deriva da piscis, pesce, in quanto vasca atta a contenere i pesci, che divenne tuttavia una delle bellezze dei peristilii.

    Essa costituiva uno dei maggiori pregi del peristilio, perchè nella stagione calda contribuiva con le piante a tenere l'aria più fresca.

    Era d'uso anche cenare accanto alla piscina godendo del dolce rumore dell'acqua e della sua frescura.

    Alcuni amavano porre dei pesci nella piscina, altri la riservavano per potervisi bagnare, senza però esporsi al sole, perchè le romane amavano il candore della pelle, l'abbronzatura era riservata alle schiave e alle contadine.

    La piscina era rivestita di marmi e così il suo bordo, oppure era in massi di travertino. Sul suo bordo si ponevano panchine, statuette, vasi di marmo, erme, cespugli ecc.



    PORTICUS

    Il giardino romano nelle ricche ville ornate e abbellite di capolavori, era quasi sempre circondato da un porticato di colonne, raramente di mattoni, più spesso di marmo. Le colonne di mattoni erano tonde o quadrate, quelle in marmo erano tonde, talvolta colorate per metà, in genere con la parte inferiore rossa e quella superiore gialla o bianca, oppure di colore naturale.

    Le colonne avevano una base e un capitello ciascuna che sorreggevano il tetto spiovente sotto cui ripararsi dalla pioggia e dalla calura. Talvolta sotto al porticato si apriva il triclinio estivo, spesso eseguito in muratura.



    EXEDRA

    Il significato greco originale dell'esedra era di un sedile all'esterno della porta conducente a una stanza che si apre su un portico, circondata tutt'intorno da banchi di pietra alti e ricurvi: un ambiente aperto destinato a luogo di ritrovo e conversazione filosofica. Un'esedra poteva anche essere uno spazio vuoto ricurvo in un colonnato, magari con una cupola e comunque in genere con sede semicircolare.

    L'esedra fu adottata dai Romani, ma come un grande ambiente di ricevimento, di ricreazione, utilizzato anche per banchetti e cene, con pavimenti in mosaico e pareti ricoperte di affreschi e marmi colorati. A volte avevano piani diversi, con scalinate, balaustre, scogli di pomice, statue, acqua che discendeva in rivoli, piante lacustri e portatorce per riflettere le luci tremule delle torce sulle acque gorgoglianti.



    I PAVIMENTI ROMANI

    Le stanze potevano essere pavimentate con tecniche speciali di diverso pregio: cocciopesto, piastrelle di terracotta, mosaici in bianco e nero o a colori, e preziosissimi pavimenti in marmo detti sectilia. Le pareti e a volte anche il soffitto erano decorate con affreschi. Poiché le stanze avevano una funzione prefissata spesso si adattavano i mosaici alla destinazione dell'ambiente. Per il triclinium, ad esempio, le nature morte dei cibi.

    Nei vani di rappresentanza o destinati alla vita privata compare dal I sec. d.c. il battuto cementizio a fondo rosso con decorazioni lineari di tessere calcaree bianche. Al centro vi si poneva un mosaico a tappeto in cementizio con pietre multicolori o una campitura di cementizio con scaglie in pietre di vari colori a tutto campo.
     
    Nelle terme si usava il laterizio con elementi di varie forme, talora associati a tesserine di calcare; infine l'opus spicatum, in parte nel vestibolo e, nel complesso termale, nella latrina e nei vani interpretati come apodyterium e frigidarium. Il sistema decorativo dei pavimenti in laterizio e battuti cementizi decorati venne poi ripreso nel tempo dai pavimenti veneziani e dalle famose cementine dei primi "900",



    RISCALDAMENTO

    Gli impianti di riscaldamento romani erano costituiti dall’ipocausi, uno o due fornelli alimentati secondo l'intensità o la durata della fiamma da legna, carbone vegetale o fascine e da un canale attraverso il quale passava il calore assieme alla fuliggine e al fumo che arrivavano nell'ipocausto adiacente, formato da piccole pile di mattoni (suspensurae) attraverso il quale circolava il calore che scaldava il pavimento delle stanze sospese sopra lo stesso ipocausto.

    Le suspensurae non ricoprivano mai l'intera superficie degli ipocausti per cui per scaldare il pavimento di una stanza occorrevano più ipocausti. Invece poteva essere utilizzato per riscaldare un vano unico e isolato come si vede nelle stanza da bagno delle ville pompeiane o nel calidarium delle terme.




    ILLUMINAZIONE

    Le domus romane erano grandi e spaziose, areate ed igieniche, fornite di bagni e latrine, dotate di acqua corrente, calda e fredda, riscaldate d'inverno da un riscaldamento centrale (gli ipocausti, complessi dispositivi che facevano passare correnti d'aria calda sotto i pavimenti), vetri colorati e decorazioni con mosaici, affreschi variopinti e statue, erano abitazioni volte a soddisfare i bisogni dei loro inquilini, abbinandovi bellezza ed estetica, tanto da poter essere considerate le più comode che siano state costruite fino al XX secolo.

    L'illuminazione della casa romana si basava sulle ampie finestre usate per illuminare e ventilare gli ambienti ma non sempre le finestre erano provviste del lapis specularis, una sottile lastra di vetro o di mica. Ma esternamente la domus aveva solo finestre poste in alto sulla strada, onde evitare rumori e ladri.

    Spesso il lapis specularis veniva usato per chiudere una serra, o una sala da bagno o le terme, o gli edifici pubblici, ma per le finestre delle case popolari, si usavano soprattutto tele o pelli che ostacolavano solo in parte il vento e la pioggia, oppure, nelle case un po' più ricche battenti in legno che riparavano meglio dal freddo o dal calore ma che non lasciavano passare la luce.

    Plinio il Giovane, che pure povero non doveva essere, racconta che per ripararsi dal freddo era costretto a vivere allo scuro tanto che neppure si vedeva il bagliore dei lampi. Questo non significa però che le sue finestre non avessero vetri, ma che era costretto a chiudere anche gli sportelli delle finestre per non far entrare il freddo.

    In pratica la domus era racchiusa su se stessa come un fortino: con finestre poste sempre in alto, e senza balconi. Gli ambienti prendevano aria e luce dalle aperture del soffitto in corrispondenza dei due principali e spaziali ambienti interni dell'atrium e del peristylium, che costituivano i centri delle due parti in cui la casa era divisa, rappresentando così la classica abitazione delle popolazioni meridionali e mediterranee, che invitava alla vita all'aperto.

    Le domus naturalmente avevano il meglio, cioè lastre trasparenti alle finestre, di talco, di mica o di vetro, che era il più costoso. L'illuminazione artificiale era invece nelle ricche domus affidata alle candele, già conosciute da Greci ed Etruschi, questi ultimi ne facevano di cera d'api con stoppini di giunco, ma ha origini molto antiche anche presso i Romani.

    Le candele di cera d'api erano un lusso, perchè per procurarsele occorreva possedere allevamenti di api o acquistarne da chi ne possedeva. I romani ne avevano molti di allevamenti nelle ville rustiche ma di certo l'uso era ingente rispetto alla produzione per cui il prezzo era notevole.

    Le candele si ottenevano avvolgendo uno strato di cera o di sego a uno stoppino formato da piante palustri. Si formavano così dei piccoli ceri, simili a quelli che si usano in chiesa per accendere le candele, e poi se ne attorcigliavano alcuni insieme, formando grosse candele attorcigliate. ovvero "a torcione" che, per il loro aspetto simile a una fune, venivano chiamate funalia. Dall'essere attorcigliate deriva invece il nome italiano di "torcia".

    Erano poi ampiamente usate le lucerne, tanto dai poveri quanto dai ricchi. Venivano alimentate con dell'olio, a volte di oliva, ma pure di noce, di sesamo, di ricino o di pesce e probabilmente di olii minerali, già conosciuti nel periodo antico, e di grassi animali, cioè di sego. Nelle domus venivano usati solo olii vegetali che spandevano un buon odore,

    Si eseguirono lucerne in diversi materiali, in pietra, in vetro, o in metallo o in terracotta. Alcune venivano eseguite in metalli preziosi, argento e perfino oro. Nelle domus venivano usate le più costose, in metalli preziosi, in bronzo, in marmo o in vetro.

    Esistevano lucerne aperte e lucerne chiuse. Quelle aperte erano a forma di coppa con bordo alto per evitare il traboccamento del combustibile. mentre lo stoppino veniva inserito in un beccuccio o un incavo nell'orlo.

    Quelle chiuse, più usuali, avevano come unica apertura il beccuccio, oppure avevano un foro al centro con o senza coperchio. Se c'era il coperchio, in genere era per le lucerne di metallo e veniva attaccato alla lucerna con una catenella. Nelle case più sontuose, le lucerne costituivano veri e propri lampadari.

    Per tenere alte le lucerne, oltre ad essere poggiate su candelabri a fusto con piattello, venivano appese, con catenelle, a candelabri a più braccia. Candelabri e lampadari erano dunque le illuminazioni più praticate nelle domus.

    Le lucerne venivano appese a questi lunghi candelabri per illuminare meglio l'ambiente, realizzati in argento o in bronzo, c'era poi un braciere a terra per riscaldarsi, in genere in bronzo con decorazioni di statuette e incisioni, strumenti da scrivere e oggetti in argento ostentati sul tavolo a far bella mostra completavano l'arredamento tipico.



    DECORAZIONI

    I romani amavano il colore. Erano colorate le pareti esterne delle domus, come del resto anche quelle interne, e ovunque vi erano riquadri con figure, spesso mitologiche, piccoli paesaggi o decorazioni geometriche dai colori sgargianti: azzurro, rosso e giallo ocra.

    Il mondo dei romani era vistosamente colorato, molto più del nostro attuale, dagli interni delle case, ai monumenti e agli abiti delle persone che nelle grandi occasioni esibivano un vero trionfo di tonalità.

    Le statue erano colorate e così spesso venivano colorate le colonne, per non parlare dei frontoni degli edifici. Non solo le pareti erano affrescate, ma pure i pavimenti erano elaborati con mosaici, spesso in bianco e nero, ma pure in pietre colorate. Anche i ninfei e le esedre venivano ornati a mosaico, e spesso con tasselli di pasta vitrea che erano dotati di mille sfumature e mille colori.

    Ma non basta, perchè anche i soffitti venivano colorati. I solai in legno venivano coperti con un soffitto a cassettoni, che molto spesso si crede di invenzioni medievali. Invece i romani abbellirono i loro soffitti cassettonati con sculture in legno in genere floreali, in qualche caso con teste di animali o altri fregi, dipinte in vari colori e in varie sfumature.



    I MOBILI

    Nelle domus romane, per quanto ricche, erano presenti pochissimi mobili, a cominciare da piccoli armadi a muro (armarium) e bauli usati per riporvi i vestiti, i triclinium, e i letti (cubicula), invece abbondavano le decorazioni alle pareti. Lo splendore della casa dipendeva infatti dalla qualità e la quantità di marmi, statue, e affreschi parietali.

    I romani però facevano largo uso delle sedie, delle quali si conoscono molti tipi, come la sella o seggiola senza schienale, la sedia con schienale e braccioli (cathedra) e la sedia con un sedile lungo (longa).

    In particolare colpiscono certe ampie sedie di vimini con alto schienale che usano ancora oggi e che si dichiarano di stile provenzale senza sospettarne la provenienza romana.

    I romani usavano tavoli a quattro gambe di marmo o di legno su i quali venivano esposti per essere ammirati gli oggetti più preziosi (cartibula), o da tavolini tondi in legno o bronzo con tre o quattro gambe mobili. Più rare le sedie di cui i romani non sentivano la necessità poiché usavano prevalentemente i letti. Vi era una particolare sedia, una specie di seggiolone (thronus) ma era destinato agli Dei.

    La sedia con la spalliera più o meno inclinata (cathedra) era usata dalle grandi dame romane che Giovenale accusa di mollezza. I resti di questa particolare sedia sono stati ritrovati nella sala di ricevimento del palazzo di Augusto e nello studio di Plinio il Giovane dove egli riceveva i suoi amici.

    Successivamente divenne la sedia del maestro nella schola e ancora più tardi del prete cristiano.
    I romani sedevano di solito su dei banchi (scramna) o preferivano usare degli sgabelli senza spalliera e braccioli (subsellia) che portavano con sé.

    C'erano poi degli armadietti dove si riponevano le lenzuola, oppure l'argenteria, o i rotoli di pergamena o altre cose. Erano armadi con gli sportelli fatti di legni incrociati o vimini intrecciati, dove filtrava luce e aria, un po' come certi armadietti etnici di oggi.

    Infatti i romani le vesti non le riponevano negli armadi ma nei bauli, puliti e ripiegati per benino, ma pure ben stirati, perchè dovevano essere perfetti onde modulare bene le pieghe. Non sappiamo come stirassero le vesti, forse con dei ferri caldi o pietre calde, fattostà che i romani portavano anche vesti di lino e il lino gualcito sarebbe stato orribile.

    Tappeti, coperte, trapunte completavano l'arredamento della casa romana stesi sul letto o sulle sellae dove brillava il vasellame in argento dei ricchi, spesso istoriato d'oro dai maestri cesellatori e incastonato di pietre preziose. Ben diverso quello dei poveri in semplice argilla.



    LEGIO VIII GALLICA VETERANA MUTINENSIS

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    - La legio VIII Gallica Veterana Mutinensis, di epoca tardo repubblicana, avrebbe origine antecedente alla conquista della Gallia di Gaio Giulio Cesare, e cioè dal 91 a.c. all'88 a.c. nella Gallia Cisalpina.
    Sappiamo di una legione VIII che prese parte alla guerra sociale negli anni 90-89 a.c., ma non si è certi sia la stessa utilizzata da Cesare nel 58 a.c..

    - Sicuramente però una legio VIII nella Gallia Transalpina nel 67-65 a.c., guidata dal governatore Caio Calpurnio Pisone, uomo intrigante e crudele, combattè per reprimere la rivolta dei Galli Allobrogi (odierna Savoia). Il che fa pensare fosse una prosecuzione dell'altra.

    - Nel 62 a.c. partecipò, insieme alla legio VII (legio VII Macedonica Paterna) e alla IX (legio VIIII o IX Triumphalis Macedonica) a sedare la cospirazione di Catilina nel Piceno.



    GIULIO CESARE

    58 a.c. - all'inizio del proconsolato di Gaio Giulio Cesare la VIII era acquartierata, insieme alle legioni VII e IX, nella Gallia Cisalpina, in zona Aquileia.

    Prese parte alla successiva conquista della Gallia di Cesare degli anni 58 -50 a.c., partecipando ad una lunga serie di battaglie e campagne militari, come:

    58 a.c. - a Genava (Ginevra) nella fase finale della battaglia, vittoria solo parziale contro gli Elvezi.

    58 a.c. - sull'Arar, vittoria romana sugli Elvezi mentre traversavano il fiume.

    58 a.c. - a Bibracte Cesare vince gli Elvezi che avevano un esercito superiore al suo.

    58 a.c. - in Alsazia vinse l'esercito germanico di Ariovisto che era molto superiore al suo.

    57 a.c. - sul fiume Axona e sul Sabis contro le popolazioni dei Belgi che alla fine si arresero.

    52 a.c. - Battaglia di Avaricum, tra l'esercito di Cesare e l'esercito gallico dei Biturigi. Vinsero i romani, e massacrarono l'intera popolazione dell'oppidum gallico.

    « Cesare lasciate nel campo due legioni che aveva da poco arruolate, affinché, se in qualche parte dello schieramento vi fosse stato bisogno, potessero essere impiegate come riserva, schierò in ordine davanti al campo le altre sei legioni. Anche i nemici schierarono ugualmente le proprie truppe. 
    Tra i due eserciti c'era una grande palude. I nemici attendevano che i nostri la attraversassero, mentre i nostri erano pronti ad attaccare il nemico in difficoltà, qualora avesse iniziato ad attraversarla. Nel frattempo tra le due schiere si svolgeva uno scontro di cavalleria. Dato che nessuno dei due eserciti si decideva ad attraversarla, dopo l'esito favorevole per i nostri dello scontro di cavalleria, Cesare riportò i suoi nell'accampamento. 
    Allora i nemici si diressero verso l'Aisne che scorreva dietro al nostro campo. Trovati lì dei guadi, cercarono di far passare oltre il fiume parte delle truppe per provare ad espugnare il forte comandato dal luogotenente Quinto Titurio ed interrompere il ponte. Se ciò non gli fosse riuscito, volevano devastare i campi dei Remi che ci erano di grande utilità per la condotta della guerra e impedire così i nostri i rifornimenti. 
    Informato da Titurio, Cesare fece passare il ponte a tutta la cavalleria e ai Numidi armati alla leggera, ai frombolieri e agli arcieri e si diresse verso i nemici. I nostri, assaliti i nemici in difficoltà nel fiume, ne uccisero gran parte. Con una grande quantità di proiettili respinsero gli altri che con grande audacia cercavano di passare sui corpi dei morti. 
    I primi che erano riusciti a passare, circondati dalla cavalleria, furono uccisi. I nemici, avendo capito che non c'era possibilità né di espugnare la città né di passare il fiume, e vedendo che i nostri non avanzavano in luogo sfavorevole per combattere, mentre cominciarono a mancare loro le vettovaglie, convocata l'assemblea, stabilirono che fosse bene che ognuno tornasse in patria e che tutti da ogni parte giungessero a difendere quelle popolazioni, i cui paesi per primi fossero invasi dall'esercito romano, che combattessero piuttosto nel proprio paese che in quello altrui e che usufruissero delle vettovaglie patrie. 
    Decisero ciò anche perché erano venuti a sapere che Diviziaco e gli Edui si avvicinavano al Paese dei Bellovaci. Non avevano potuto convincere questi ad attendere più a lungo e a non portare aiuto ai loro concittadini »
    (Cesare, De bello Gallico, II 8, 5-10.) -

    52 a.c. - a Gergovia, tra Vercingetorie e Cesare, dove Cesare fu sconfitto.

    52 a.c. - ad Alesia Cesare ottenne la sottomissione definitiva dei galli che aveva vinto sebbene avessero un esercito tre volte più numeroso del suo.

    « Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un'insegna durante i combattimenti... i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggitivi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l'arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi... Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l'esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga... Se i legionari non fossero stati sfiniti... tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all'inseguimento, raggiunge la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli viene preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi. »
    (Cesare, De bello Gallico, VII, 88.)

    52-51 a.c. - Durante l'inverno l'VIII gallica era al servizio del legato Gaio Fabio (legato sotto Cesare dal 54 al 49 a.c.), insieme alla VIIII del legato Lucio Minucio Basilo (futuro complice dell'assassinio di Cesare) , presso i Remi (della Gallia Belgica meridionale), per proteggerli dai vicini Bellovaci (della Gallia Belgica nord-orientale conquistata da Gaio Giulio Cesare nel 57 a.c.) ancora in rivolta..


    49 - 45 a.c. La Guerra Civile

    All'inizio della guerra civile, la legione si trovava presso  Matisco (Macon) nella Gallia Comata, secondo altri ad Aquae Sextiae nella Gallia Narbonense.

    49 a.c. - Prese parte prima all'assedio di Marsiglia,  organizzato da Cesare e condotto da Gaio Trebonio e da Decimo Bruto, che si concluse con la vittoria dei romani.

    49 a.c. - Prese parte alla campagna in Hispania

    "Cesare 
    (il cui esercito ha una pericolosa scarsità di viveri), non potendo più aspettare, fece costruire dai suoi soldati delle navi, sulla base di quanto aveva appreso durante le sue spedizioni in Britannia. La chiglia e l'ossatura erano in legno leggero. Il resto dello scafo era di vimini, rivestito di cuoio.
    Portata a termine la loro costruzione, le fece trasportare di notte su dei carri uniti insieme, per 22 miglia romane (oltre 30 km) oltre il suo accampamento. Grazie poi a queste navi fece passare dei soldati sull'altra riva, dove andò ad occupare un vicino colle fortificandolo, prima che gli afraniani se ne accorgessero.
    Vi trasferì quindi una legione sull'altra riva e iniziò la costruzione di un ponte da entrambe le parti, portandolo a termine in due soli giorni. Concluse queste operazioni, condusse al campo base il convoglio in totale sicurezza, oltre a tutti coloro che in precedenza si erano recati alla ricerca di frumento, e riattivò così la via degli approvvigionamenti.
    Questo stesso giorno, Cesare ordinò alla sua cavalleria di assalire all'improvviso i foraggiatori nemici, che a loro insaputa erano sparsi ovunque e raccoglievano rifornimenti senza alcun timore. Il bottino raccolto fu notevole. Numerosi furono i capi di bestiame da soma catturati. Negli scontri i cesariani riuscirono a distruggere un'intera coorte di caetrati. Alla fine senza perdite fecero ritorno all'accampamento del loro comandante"
    (Cesare - De Bello Civili)

    48 a.c. - L'VIII venne trasferita in Macedonia dove combatté a Dyrrhachium dove l'esercito di Cesare subì una rara sconfitta.

    48 a.c. - Combattè nella decisiva battaglia di Farsalo, nella quale Cesare sconfisse Pompeo con un esercito che era meno della metà di quello del suo nemico..

    46 a.c. - La legione gallica prese poi parte alla battaglia di Tapso in Africa, dove due legioni dei conservatori disertarono in favore di Cesare che vinse ancora una volta.
    . Subito dopo la legione venne sciolta ed i suoi veterani vennero inviati alle terre a loro donate, come liquidazione della carriera militare, in Campania a Casilinum ( Santa Maria Capua Vetere).
    Cesare l'aveva guidata dal 58 a.c. al 46 a.c..

    44 a.c. - Cesare è stato assassinato. I veterani dell'VIII gallica, mal adattandosi alla vita civile, chiesero ad Antonio di ricostituire la legione VIII.



    CESARE AUGUSTO

    43 a.c. - L'VIII gallica di Cesare viene ricostituita da Augusto che la rinomina VIII Augusta, e che combattè nella battaglia di Mutina (battaglia di Modena), ricevendo da Ottaviano una ricompensa di 20.000 sesterzi per la strepitosa vittoria. La legione diventa così l'VIII Augusta Mutina.

    42 a.c. - L'VIII rimase con i triumviri durante la battaglia di Filippi contro gli assassini di Cesare.

    41 a.c. -  La Legio Augusta prese le parti di Ottaviano durante l'assedio di Perugia contro Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio.,

    31 a.c. - Restò con Augusto fino alla battaglia di Azio. Questa legione non sembra sia, pertanto, da identificare con la omonima VIII di Marco Antonio, reclutata in Oriente, probabilmente durante il suo soggiorno a fianco della regina d'Egitto, Cleopatra VII e che combatté sul fronte opposto.

    Onori di battaglia:
    - Veterana (dai veterani di Cesare),
    - Gallica (dopo la conquista della Gallia),
    - Mutinensis (dopo la vittoriosa battaglia di Mutina).

    Come insegna ebbe il toro (emblema di Cesare)
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