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VALERIO MASSIMO

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oltraggio di lucrezia

Nome: Valerius Maximus
Nascita: I secolo a.c.
Morte: I secolo d.c.
Professione: Storico



Valerio Massimo (Roma, I secolo d.c. – Roma, post 31), secondo alcuni 20 a.c - 50 dc., è stato uno storico  romano.


LE ORIGINI

non si sa molto di lui, comunque proveniva da una famiglia povera, anche se viveva a Roma da alcune generazioni, ed era cliente del console del 14 d.c., Sesto Pompeo, e che il 27 avrebbe accompagnato il proconsole  in Asia e questi, per ringraziarlo, lo avrebbe aiutato ad entrare nel circolo letterario, in cui stava lo stesso Ovidio.
Al tempo dell'imperatore Tiberio (14-37) raggiunse l'apice della notorietà e fu anche il massimo periodo di produzione letteraria, specie dopo la caduta del prefetto  Seiano, esecrato tra gli esempi di ingratitudine.



FACTORUM ET DICTORUM MEMORABILIUM

Detto anche De factis dictisque memorabilibus o Facta et dicta memorabilia. Dopo aver accompagnato nel suo proconsolato in Asia nel 27 Sesto Pompeo, Valerio Massimo scrisse un manuale di Factorum et dictorum memorabilium, (anno 30 o 31 dc.) esempi storici e retorico-morali in libri IX, di cui uno mutilo. Gli antichi però ne conobbero anche un’edizione in 10 libri.

EDUCAZIONE SPARTANA
"Nec mihi cuncta conplectendi cupido incessit: quis enim omnis aeui gesta modico uoluminum numero conprehenderit, aut quis compos mentis domesticae peregrinaeque historiae seriem felici superiorum stilo conditam uel adtentiore cura uel praestantiore facundia traditurum se sperauerit?"

Secondo quello che l'autore espone qui sopra nella prefazione, si tratta di un manuale diretto a chi vuole citare gesta o sentenze riguardanti un determinato argomento.

Pertanto è un manuale ad uso dei retori e degli insegnanti delle scuole, costruito però con uno stile ampolloso e pretenzioso.

L’opera, dedicata a Tiberio, fu certamente pubblicata verso il 31, anno in cui fu condannato a morte Elio Seiano, il potente ministro del principe. A Seiano si allude, infatti, nella parte conclusiva dell’ultimo libro, fra gli esempi di facta scelerata, in un capitolo che sembra essere stato aggiunto a lavoro già finito. Il poema abbonda di passi in cui Tiberio è esaltato come “supremo difensore della nostra incolumità”.

GAIO GRACCO
Ognuno dei nove libri ha sette capitoli, ogni capitolo ha un tema particolare su cui si articolano le storie, che sono in tutto 91, riguardanti vari risvolti della vita romana, intorno a difetti e virtù, usi morali e immorali, pratiche religiose, superstizioni e antiche tradizioni.

Opera erudita di carattere divulgativo, raccoglieva fatti e aneddoti da fonti diverse, suddivisi in 9 libri con 95 categorie di vizi e virtù, al loro interno suddivisi in esempi sia romani che stranieri. Venne scritta durante il regno di Tiberio (42 ac. – 37 d.c.) La maggior parte delle brevi storie riguardano personaggi romani, solo una piccola parte riguarda personaggi stranieri, e di questi si tratta soprattutto di greci, in particolare filosofi e re.

 L'opera è una raccolta di exempla storici, circa un migliaio, diretta all'insegnamento nelle scuole, divisa per argomenti, in cui gli esempi, soprattutto romani,  sono attinti non tanto ai grandi storici greci, quanto a Cicerone, Sallustio e Livio. I temi sono disparati, ma tutti di carattere moraleggiante.


La modesta finalità dell'autore è infatti quella di portare al lettore exempla (esempi) attraverso i comportamenti virtuosi, oppure attraverso quelli più esecrabili, degli uomini famosi del passato, di modo che i retori, a cui questa opera sembra essere indirizzata, possano farne uso nei loro discorsi per ampliare storicamente le loro argomentazioni.

Nella redazione del poema Valerio si rivolse alle precedenti raccolte di argomenti analoghi, come quelle di Pomponio Rufo, Igino, forse Cornelio Nepote, ma ricorse spesso anche a diversi autori latini come Cicerone, Varrone, Tito Livio, Sallustio, Pompeo Trogo, e greci come Senofonte, Erodoto, Teopompo e Diodoro Siculo.

L'opera di questo autore si propone anche di essere un'edificante e piacevole lettura per il lettore occasionale, non necessariamente colto nell'arte della retorica (il persuadere tramite i discorsi):

"Pagina hac domestica certior fies, candide lector, de rebus classicis quas in aranea nostra mirabili totum orbem terrarum complectente invenias".

Valerio Massimo fu più volte usato e citato dagli autori latini successivi. Nel IV sec. dalla sua opera furono tratti due compendi; uno, che ci è giunto integralmente, di Giulio Paride, l'altro, che si arresta al III libro, di Nepoziano.

Lo stile particolare e il linguaggio piuttosto complesso di questo autore ha fatto sì che, a molti secoli dalla sua morte, egli sia uno degli autori più tradotti da chi si appresta a studiare il Latino assieme a Cesare, Cicerone, Fedro, Cornelio Nepote e Eutropio.

SCIPIONE L'AFRICANO
Tuttavia Valerio nasconde questa vacuità retorica sotto il pretesto etico dell'esaltazione della virtù, che ovviamente si rivela in Tiberio e ha il suo contrario in Seiano, insigne esempio di ingratitudine punita. Ragion per cui Valerio non può essere definito uno storico, quanto un retore che testimonia il progressivo sbriciolamento della storiografia in aneddotica e pettegolezzo, da taluni seguita, senza più la necessaria comprensione delle causalità degli eventi.

Per il suo carattere moraleggiante, l'opera ebbe molta fortuna nel Medioevo, circolando anche in due riassunti, quello di Giulio Paride e uno (mutilo) di Nepoziano, ambedue del IV-V secolo d.c.

Ne sono giunte due epitomi antiche e una medievale, un importante volgarizzamento nella prima metà del '300, attribuito ad Andrea Lancia.

Dante Alighieri non lo citò mai direttamente, ma già i primi commentatori della Commedia lo proposero come fonte di alcuni spunti o episodi dell'Inferno e del Purgatorio. La questione fu però controversa per gli studiosi.


CULTO DI ANGERONA

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La fonte letteraria più antica che ci parla di questa divinità è Varrone, nel VI libro del De lingua Latina, nei "civilia vocabula dierum qui deorum causa sunt instituti: Angeronalia ab Angerona, cui sacrificium fit in curia Acculeia et cuius feriae publicae is dies", «la festa degli Angeronalia prende il nome da Angerona, il cui sacrificio è compiuto nella curia Acculeia e di cui quel giorno è la festa ufficiale».

ANGERONA
Ce ne parla pure Marco Verrio Flacco nei "Fasti Prenestini":
- Festa pubblica. Divalia. Festa della Dea Angerona, che prese nome dal disagio della fastidiosa angina poichè ella un tempo rivelò un rimedio per essa. Hanno posto la statua di lei con la bocca imbavagliata sull'altare di Volupia, per mettere in guardia la gente a non proferire il nome segreto della città. -

La festa della Dea, considerata feriae publicae, ancora celebrata al tempo di Varrone, che nelle Antiquitates rerum divinarum, si limita a citare la festa come derivata ab Angerona.

Macrobio è invece più generoso nelle informazioni:
"Nel XII giorno (delle calende di gennaio) vi è la festa della diva Angerona, a cui i pontefici fanno un sacrificio nel sacello di Volupia."

Masurio aggiunge che la statua di questa Dea si trova sull’altare di Volupia rappresentata con la bocca chiusa e sigillata, perché coloro che dissimulano i loro dolori e i loro motivi di ansietà giungono, grazie alla loro sopportazione, a grandissimo piacere.

Giulio Modesto dice che si sacrifica a questa Dea perché il popolo romano fu liberato grazie a questa Dea da una malattia che è chiamata angina, a seguito di un voto.

Verrio Flacco dice che essa è chiamata Angeronia (alcuni la chiamano così) perché se viene resa propizia con il debito culto tiene lontane angosce e le preoccupazioni dell’animo. La dea Angerona, o Angeronia, era ritenuta sia da Verrio Flacco che da Masurio una divinità che soccorreva l’uomo in uno stato di difficoltà psicologica: secondo Verrio teneva lontano dagli uomini "angores ac sollicitudines animorum". secondo Masurio aiutava a sopportare "dolores anxietatesque".

Giulio Modesto invece riconduceva il culto della Dea ad una malattia chiamata angina; cos' la pensa anche da Festo, con una variante molto strana, in quanto l’angina è considerata un’epidemia tra gli animali e non tra gli uomini: Angeronae deae sacra a Romanis instituta sunt, cum angina omne genus animalium consumeretur, cuius festa Angeronalia dicebantur, «si diceva che per la dea Angerona fossero state istituite dai Romani delle cerimonie religiose, poiché ogni genere d’animale era stato ucciso dall’angina, e il nome di quella festa era Angeronalia».

Festo ci offre pure una minuta descrizione della condizione di chi cade in preda all’angoscia, usando il termine "cruciatus", cioè crocifisso, dando doppia valenza all’angere, condizione dell’anima e del corpo, accomunate dalla sensazione della strangulatio. Ma anche nelle Tusculanae Disputationes di Cicerone, si riscontra che l’angor è descritto sempre come malessere che investe anima e corpo.

DEA TACITA
Però quel che sostiene Festo non è vero neppure per i suoi tempi, l'autore è disinformato. Angerona può essere originata da diversi vocaboli angor, anxietas e angina. Sia Macrobio che Festo, per spiegare il significato di Angerona, ricorrono al verbo angere, soffrire nel corpo o nell'anima, ma poichè il termine angina ha la stessa radice ang. Però già da Celso era conosciuta la temibile malattia, e ne dedussero che la Dea proteggesse da questo male, solo che Celso la conosce come malattia prettamente umana.

Gli Dei in tempo più antico, avevano compiti precisi, ad esempio Robigo, la Dea che proteggeva il grano dalla ruggine, per cui i Romani avevano istituito la festa dei Robigalia, e la stanchezza che era presieduta da una Dea, Fessonia (da cui il termine popolare fesso per indicare uno stolto, o fessura per indicare un'apertura, o fessato per indicare un oggetto di argilla o ceramica con incrinatura), invocata in aiuto di coloro che soffrivano di stanchezza (fessi); mentre lo stato psicopatologico della depressione era rappresentato da Murcia, derivata da un termine piuttosto dispregiativo, cioè murcidus, in quanto marcidus. Insomma se sei depresso sei marcio dentro.

Inoltre i Romani spesso chiamarono gli Dei con i nomi delle cose che dagli stessi sentivano di ricevere, aggiungendo dei suffissi: ad esempio, da bellum (guerra) derivarono il nome Bellona e non semplicemente Bellum; da cunae (culle) Cunina e non Cuna; da segetes (messi) Segetia e non Seges; da poma (frutti) Pomona e non Pomum; da boves (buoi) Bubona e non Bos.
In genere si usavano tre suffissi: -ina; -ia ed -ona. Ovviamente ona riguarda Angerona ma non solo, pensiamo infatti a Bellona, Pomona, Bubona, Orbona, Alemona, Fluviona, Fessona, Adeona, Abeona, Intercidona, Mellona, ed Epona.

Il suffisso -ona riguarda l’esercizio di un ruolo in un ambito di competenza: Orbona è la Dea a cui si rivolgono i genitori orbati di un figlio o quelli che temevano avvenisse, poiché essa poteva provocare o stornare la morte di un figlio; Pomona, Bubona, Epona, Mellona  proteggevano i frutti (poma), i buoi (boves), i cavalli (equi) e il miele (mel); Alemona e Fluviona o Fluvonia, le Dee che sovrintendevano la nutrizione del feto (nutrire = alere),  e regolare il flusso mestruale (fluere).



L’ENIGMA DELLA STATUA IMBAVAGLIATA

Tutto ciò che scritto fin'ora però non spiega questo particolare tragico della Dea imbavagliata, esattamente come la Dea Tacita, il cui nome è invece estremamente ‘parlante’, era una dea muta, condannata al silenzio, poiché le era strappata la lingua per punizione.

La Dea Angerona, invece, non era irreversibilmente muta, ma poiché era rappresentata "ore obligato atque signato", fu interpretata da alcuni autori antichi come dea che intimava il silenzio.
ASCLEPIO
Sia Plinio che Solino, in un più ampio discorso che aveva come tema centrale l’evocatio, scelgono il simulacrum della Dea come simbolo del valore che il silenzio possedeva nella cultura romana, strumento privilegiato per proteggere Roma contro i nemici.

Entrambi inseriscono l’exemplum della raffigurazione della Dea trattando lo stesso argomento: la città, per non incorrere nel pericolo di evocatio, rito pubblico romano che consisteva nell’evocare la divinità protettrice della città che si voleva conquistare promettendole asilo a Roma, possedeva un secondo nome, tenuto segreto e protetto da un religioso silenzio; quando un certo Valerio Sorano osò rivelarlo fu immediatamente punito:

"Non alienum videtur inserere hoc loco exemplum religionis antiquae ob hoc maxime silentium institutae. Namque diva Angerona, cui sacrificatur a. d. XII kal. Ian., ore obligato obsignatoque simulacrum habet"
«non mi sembra fuori luogo inserire a questo punto l’esempio di un antico rito religioso istituito proprio per esortare a tale silenzio: la Dea Angerona infatti, la cui festa ricorre il 21 dicembre, ha una statua con la bocca chiusa e sigillata». (Plinio)

La vicenda di Valerio Sorano è narrata da Solino, lettore di Plinio, però con una variante sulla statua di Angerona:

"inter antiquissimas sane religiones sacellum colitur Angeronae, cui sacrificatur ante diem XII k. Ian.: quae diva praesul silenti ipsius praenexo obsignatoque ore simulacrum habet"

«nei più antichi tempi della religione giustamente era venerato il sacello di Angerona a cui veniva fatto un sacrificio il 21 dicembre: la quale Dea che era preposta proprio al silenzio aveva una statua con la bocca legata e sigillata».

Solino sostituisce obligare con praenectere, a rafforzare, attraverso il prefisso prae-, l’idea di una legatura accurata. La statua di Angerona era imbavagliata con attenzione e con sopra un sigillo di cera.

Quando uno scritto, o una lettera, doveva rimanere segreto infatti si raccomandava:

"cedo tu ceram ac linum actutum. Age obliga, obsigna cito"
«qua cera e filo. Fa’ presto chiudi e sigilla».



LA RISERVATEZZA LATINA: ANXIETATES DISSIMULARE

Un’altra variante al significato della rappresentazione della Dea ci perviene dal giurista Masurio, come riporta Macrobio, che, con le varie sofferenze contenute nel verbo angere, descrive la statua della Dea, precisa che il "simulacrum ore obligato atque signato" si trovava sull’ara della dea Volupia e questo perché qui "suos dolores anxietatesque dissimulant perveniant patientiae beneficio ad maximam voluptatem".

ANGERONA
Masurio mette Angerona in relazione con dolores et anxietates. Così Angerona è la Dea che aiuta a dissimulare: a lei ci si rivolge per nascondere adli altri i dolori e le angosce. La dea Tacita, la cui istituzione era fatta risalire a Numa, era invocata contro le cattive lingue e il pericoloso parlare altrui e descritta come musa muta e silenziosa, simbolo della conveniente riservatezza.

A Roma il silenzio e la discrezione erano tenuti in grande considerazione, non solo per il pericolo d’evocatio, ma anche sul piano sociale, tanto nelle donne, quanto negli uomini. I Romani adoravano il silenzio e detestavano certe forme sconvenienti di loquacità e tra queste certo c’era il lamentare le proprie sciagure o sofferenze. Angerona, aiutando a sopportare il dolore, di natura fisica o morale, sembra rappresentare l'interdizione sociale della lamentela, rafforzando volontà ed animo.

Ovidio, nelle Epistulae ex Ponto, costretto all’esilio, descrivendo alla moglie i drammatici segni lasciati dal tempo sul suo corpo, l’imbiancare dei capelli, le rughe che solcano il viso e le membra sempre più stanche, così spiega:
"Credo che questo sia opera degli anni, ma anche un’altra è la causa, l’ansia e il suo lavorio incessante; se qualcuno distribuisse le mie sofferenze su un gran numero di anni, credimi, io sarei più vecchio di Nestore di Pilo".

Mentre in un’altra drammatica lettera, indirizzata all’amico Flacco, dove ritroviamo il rammarico per tempo che passa, così faticoso nella sua condizione d’esule, il poeta lamenta:
"unda locusque nocent et causa valentior istis, 
anxietas animi, quae mihi semper adest"
«l’acqua e questo luogo mi nuocciono e una causa ancora più potente di queste, l’ansia che mai abbandona la mia anima».
Quindi Angerona è la Dea che scaccia l'angoscia ma pure quella che aiuta a dissimulare con stoica pazienza e decoro ansità ed angoscia..



LA PAURA DELLA MORTE

La Dea era festeggiata il 21 dicembre, il giorno del solstizio d’inverno. Lo sappiamo da un documento proveniente da Preneste, danneggiato ma ricostruito quasi interamente da Mommsen, in cui si evince che che le feriae publicae della Dea, le Angeronalia, dete anche Divalia, erano festeggiate il 21 dicembre: «festa della Diva Angerona, così chiamata dalla malattia angina».

L’iscrizione del I sec.a.c informa anche che la Dea era rappresentata «con la bocca imbavagliata nel tempio di Volupia, affinché colui che conosceva il nome segreto della città lo tacesse». Nell’ultima parte la presenza di anni novi pone l’accento sul passaggio tra il vecchio e il «nuovo anno».

SACRI MISTERI
In questo periodo invernale la luce veniva meno, fino alla parità di ore distribuite tra il giorno e la notte, è quella di angusti dies, dove il sole "tum tristitia quadam contrahit terram". In questa immagine di Cicerone per descrivere il tempo del solstitium, rimanda all'angoscia un po' come Macrobio:

"tempus quo angusta lux est, cum velut abrasis incrementis angustaque manente exstantia, ad minimum diei sol pervenit spatium, quod veteres appellavere brumale solstitium, bruma, a brevitate dierum cognominantes, id est ......, ex quibus latebris vel angustiis rursus emergens ad aestivum haemisphaerium".

"il tempo IN CUI la luce è angusta, CIOè dopo che il suo crescere è venuto meno e rimane un’angusta presenza, il sole giunge ad avere il più breve spazio, che gli antichi chiamarono solstizio brumale, bruma, così chiamato dalla brevità dei giorni, cioè da ........ , e da questi angusti recessi il sole poi risorge verso l’emisfero estivo."

Ricordiamo che differenti calendari latini conservano la festa dei Divalia e questo conferma l’importanza delle celebrazioni per Angerona, feriae diffusa in gran parte del mondo romano: nel calendario romano noto come Fasti Maffeiani.

Al 21 dicembre leggiamo C Div(alia) NP; in un’iscrizione epigrafica proveniente da Antium, nota come Fasti Antiates Maiores, nella data in cui cadeva il solstizio d’inverno troviamo C DIV(alia); e i Divalia sono citati anche in un calendario proveniente da Ostia antica, iscrizione danneggiata nella parte iniziale, ma in cui si può leggere AN(geronalia) NP.

Queste iscrizioni ci dicono che la festa era conosciuta al di là dell'Urbe e festeggiata  ancora in età repubblicana, come conferma Varrone.

Gli Angeronalia/Divalia, celebrati nel giorno più corto dell’anno, confermano l’influenza della Dea, contro l'angustia del solstizio d’inverno,  avvertito come angusti dies, evocanti lo spettro della morte.



IL VERO SIGNIFICATO

Il fatto che la Dea riguardasse l'ngustia del passaggio del solstizio d'inverno, quando il sole, ovvero la coscienza, sembra sparire sotto l'orizzonte, ci rivela il vero significato della curiosa immagine della Dea.
In senso iniziatico, ovvero dei Sacri Misteri, il solstizio d'inverno equivale alla Piccola Morte, altrimenti detta Morte iniziatica, quando il neofita perdeva le difese della mente esterna morendo al mondo, con un senso molto forte di angoscia e di morte.

DEA DEI FRUTTI AUTUNNALI
La via dei Sacri Misteri, che pochi seguivano ma di cui pochissimi riuscivano a giungere alla morte. rinascita, era appunto l'abbandono di tutto ciò che l'individuo aveva appreso dall'esterno, il cosiddetto "sapere saputo".

La mente perdeva la guida dell'anima e giungeva la notte oscura, o notte dell'anima, conosciuta pure da S. Giovanni della Croce, ma soprattutto conosciuta da quei pochi che coraggiosamente la portarono a termine descrivendone i passaggi attraverso l'alchimia e l'ermetismo.

Una delle prime premesse da fare all'adepto era il giuramento del silenzio, che doveva mantenere prima, durante e dopo. Se si pensa che i Sacri Misteri durarono per 1500 anni e che nulla si sa dei loro rituali segreti (perchè il poco che si sa riguarda solo i rituali pubblici), diremmo che gli iniziati abbiano saputo mantenere il segreto.

Ora al contrario di Asclepio che tiene il dito sulle labbra per intimare il segreto, la Dea tiene lei stessa il segreto, non perchè sia stata imbavagliata ma si è imbavagliata lei stessa. Non dimentichiamo che l'ultima vestale, per impedire che il Palladio venisse profanato dai cristiani le dette fuoco, seppure con la morte nel cuore.

La profanazione è dare un simulacro sacro in mani profane, o svelare segreti sacri dandoli ai profani. D'altronde, come diceva Carl Jung, se un'anima non sa tenere un segreto non ha nemmeno le energie per elaborare la sua anima e farla progredire in saggezza.

Ora al solstizio d'inverno il vero sole, quello che nasce dalle tenebre, quindi che nasce dentro di noi e non viene da fuori, annuncia la fine delle sofferenze e l'inizio della rinascita. Qui siamo noi a morire e rinascere e chi asserisce di morire e rinascere ogni giorno usa una bella metafora, ma non ha mai conosciuto la vera morte e rinascita, una cosa che accade solo una volta nella vita.

ASPENDOS (Turchia)

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TEATRO DI ASPENDOS PRESSO ANTALYA

Aspendos era un’importante e popolosa città della Panfilia, in Asia minore, secondo alcuni la più antica, a circa 40 km a est della moderna città di Antalya, in Turchia. Centro dal florido commercio, era situato sul fiume Eurymedon a 16 km dalla costa del Mar Mediterraneo, confinante con Side, città a cui era ostile.

Pregevoli infatti le serie di monete d'argento emesse fin dal V sec. a.c. Tale floridezza si mantenne a lungo (Cicerone, In Verrem, ii, 1, 20 la dice oppidum plenissimum signorum optimorum) e, sotto l'Impero, fu una della più prospere città d'Asia Minore.



LA STORIA

La città fu fondata intorno al 1000 ac. dai Greci forse provenienti da Argo, per questo la tradizione  attribuisce la sua fondazione ad Argo, un’altra da un eroe eponimo di nome Aspendos, un’altra ancora a fuggiaschi troiani.  La ricca monetazione indica che, nel V secolo ac, Aspendos era diventata la città più importante di Panfilia.

L'ACQUEDOTTO
Nel 546 ac venne conquistata dai Persiani. Il volto che la città ha continuato a battere moneta a proprio nome, tuttavia, indica che essa aveva una grande libertà anche sotto i Persiani. Purtuttavia nel 467 ac  il generale Cimone, con una flotta di 200 navi, distrusse la flotta persiana alla foce del fiume Eurymedon in un attacco a sorpresa.

I Persiani conquistarono nuovamente la città nel 411 ac ma nel 389 ac il comandante di Atene, sostò con la sua flotta al largo della costa di Aspendos. Sperando di evitare una nuova guerra, il popolo di Aspendos raccolse i soldi supplicandolo di ritirarsi senza causare danni ma i suoi uomini calpestarono tutti i raccolti nei campi. Infuriati, gli Aspendiani assassinarono il comandante ateniese nella sua tenda.

Quando Alessandro Magno marciò su Aspendos nel 333 ac dopo aver catturato Perge, i cittadini lo pregarono di non chiedere loro tasse e cavalli che avevano già precedentemente pagati come tributo al re persiano. Alessandro acconsentì, lasciando una guarnigione sulla resa della città. Si accorse però che gli Aspendians non avevano ratificato l'accordo dei loro inviati e si apprestavano a difendersi.

L'ACQUEDOTTO
Alessandro marciò verso la città con le sue truppe.
Gli Aspendians allora chiedere la pace, ma stavolta a condizioni diverse.

Gli vennero consegnati degli ostaggi, una guarnigione macedone sarebbe rimasto in città e 100 talenti d'oro e 4.000 cavalli sarebbe stata data in tasse ogni anno.

Passò poi sotto le dominazioni dei Tolomei e degli Attalidi ed infine, alla morte di Attalo III, sotto i Romani.

Nel 190 ac la città si arrese ai Romani, che in seguito saccheggiato essa dei suoi tesori artistici.
Verso la fine del periodo romano la città ha iniziato un declino che continuò per tutto il periodo bizantino.

Pur subendo gli influssi ellenici, Aspendos conservò a lungo il dialetto e i costumi indigeni: il suo nome antico era Estwediis (ciò è testimoniato dalla legenda delle monete).



DESCRIZIONE

L’abitato si trovava sulla riva destra del fiume Eurimedonte, nell’entroterra della Panfilia, adagiato su un pianoro naturale circondato da pendii molto ripidi.

L'acropoli, alta circa 60 m, è disposta su due colline, una molto più bassa dell'altra, e sembra fosse fortificata solo in corrispondenza degli accessi naturali. L'ingresso principale era a S.
La città non è stata mai scavata: esistono solo dei disegni risalenti al 1890.

I monumenti noti sono: lo stadio (in realtà un ippodromo), l’agorà trapezoidale con tabernae e un ninfeo, il bouleuterion (alle spalle dell’agorà), la basilica, il grandioso acquedotto (lungo ben 600 metri) e il teatro.



IL FORO

Era una grande piazza rettangolare con l'asse maggiore orientato nord-sud, bordata su tre lati da edifici pubblici, a ovest da Tabernae con portico, a est dalla basilica forse anch'essa con portico, a nord da un ninfeo, e a sud un ingresso monumentale.

L'ACROPOLI
Sul lato ovest si apriva il mercato, una costruzione originariamente a più piani, lunga 70 m e divisa in 15 ambienti che affacciavano su un portico a colonne. Sul lato nord, un ninfeo, lungo m 32,50 e alto 15, era decorato nella parete verso il Foro con due serie di cinque nicchie sovrapposte, con le inferiori inquadrate da colonne corinzie poste su sei basamenti rettangolari. 

Riccamente decorati con ornati floreali erano sia la trabeazione che correva continua sulle colonne e sulle nicchie più basse, sia il cornicione.
Sul lato est sorgeva una lunga basilica (m 105,48 × 26,90), a tre navate intere, più una quarta lunga 2/3 delle altre che corre sul lato della piazza fino all'altezza del ninfeo. 

Ad essa si accedeva da N, mediante tre passaggi ad arco che danno sull'asse maggiore e da un imponente vestibolo, ancora in piedi fino a 18 m di altezza All'estremità N-O dell'acropoli perviene un grandioso acquedotto che, su alte arcate, portava l'acqua ad A. dal N e del quale restano imponentissime rovine. Infine si trova il teatro.

INTERNO DEL TEATRO

IL TEATRO

Aspendos è nota per avere il teatro meglio conservato dell'antichità, costruito a spese di A. Curzio Crispino Arrunziano e di A. Curzio Auspicato Titinniano (C. I. L., iii, 231 a-B;C. I. G., 4342 d; e 4342 d 2-3-4).

Con un diametro di 96 m, il teatro, incassato nella roccia delle pendici orientali dell'acropoli, è fornito di posti a sedere per 7.000 persone.

Altri sostengono che i posti a sedere siano 15000. Il teatro, dell'età di Antonino Pio, fu costruito nel 155 dall'architetto Zenon greco, nativo della città. 

E 'stato periodicamente riparato dai Selgiuchidi, che lo usavano come un caravanserraglio, e nel XIII sec. fu trasformato in palcoscenico dai Selgiuchidi di Rum. 

PARTICOLARE DEI DECORI DEL TEATRO
Il caravanserraglio era un edificio costituito in genere da un muro che racchiudeva un ampio cortile ed un porticato, che veniva usato per la sosta delle carovane che attraversavano il deserto, ma che poteva anche includere stanze per i viandanti.

Per mantenere le tradizioni ellenistiche, una piccola parte del teatro è stato costruito in modo che si appoggi alla collina dove si eresse la Cittadella (Acropoli), mentre il resto è stato costruito su archi a volta.

Il palcoscenico alto isolava apparentemente il pubblico dal resto del mondo. Il  fondale della scena è rimasto intatto.

Il soffitto in legno sopra il palco, in pendenza e alto 8,1 metro (27 piedi) è andato perduto. Buche di inserimento per 58 pali si trovano nel livello superiore del teatro. Questi pali sostenevano un velario o una tenda che veniva tirata sopra il pubblico per fornire ombra.

Fino a poco tempo il teatro era ancora in uso per concerti, festival ed eventi. A causa dei danni causati dal montaggio di attrezzature teatrali moderne le autorità turche hanno sospeso ulteriori spettacoli. Una nuova struttura moderna nota come Aspendos Arena è stata costruita nei pressi a continuare la tradizione del teatro all'aperto di Aspendos.


La leggenda

Sul teatro c'è una leggenda il re Aspendos ha una figlia bellissima. Il re annuncia “farò sposare la mia figlia con chi realizza i servizi più utili alla mia popolazione.

PONTE EURYMEDON
Dopo aver sentito questo annuncio, due gemelli che fanno l’achitettura costruiscono due edifici magnifici. Uno di loro è il grandioso acquedotto con la capacità di trasportare l’acqua passando le vie molto complicate, l’altro invece il teatro di Aspendos. Il re dopo aver visto il grandioso acquedotto, vuole far sposare la sua figlia con questo architetto.

Pero’ la figlia, appassionata dell’arte, dice “Padre, per favore decidi vedendo ancora una volta il teatro”. Padre e figlia vanno a rivedere il teatro. E cominciarono a discutere. Nella discussione coinvolgono anche gli abitanti di Aspendos. Il popolo si divide in due. Da un lato il magnifico teatro, dall’altro lato il grandioso acquedotto. Il re si trovava di fronte a una dilemma.

Nel frattempo l’architetto del teatro mormorave tra se’ “la figlia del re dovrebbe essere la mia, la figlia del re dovrebbe essere la mia” sulla scena del teatro, senza accorgersi la presenza del re e sua figlia. Il re e la figlia sentirono la voce dell’architetto dall’altra parte del teatro. 
Il re riusci a concepire l’eccellenza dell’opera realizzata dall’architetto. Il re di fronte a questa magnifica opera decise di dividere in due la sua figlia. Pero’ l’architetto del teatro si oppose dicendo “non vorrei che la principessa muoia, io rinununcio a sposare con lei”. Il re vedendo l’amore sincera dell’architetto, gli permette di sposarsi con la sua figlia.

La leggenda sarebbe pure carina, se non somigliasse troppo al Giudizio di Salomone.

Nelle vicinanze si trovano i resti di una basilica, agorà, ninfeo e di 15 chilometri (9.3 miglia) di un acquedotto romano. Il Eurymedon Ponte Romano, ricostruita nel XIII secolo, è anche nelle vicinanze.



L'ACQUEDOTTO

Sappiamo che fu eretto per la munificenza e l'evergetism di un Ti. Claudio Erymneo (Bull. Corr. Hell., x, p. 160, 8) ed è databile al I sec. d.c.

LA BASILICA


LE TERME

A sud del teatro sono ancora da ricordare due edifici termali che facevano parte della città bassa, gli avanzi della quale sembrano anch'essi tutti di età imperiale.



LA MONETAZIONE

SARCOFAGO ROMANO RINVENUTO AD ASPENDOS
Aspendos è stata una delle prime città a coniare monete. La monetazione iniziò intorno al 500 ac, primi Staters e successive dracme, "l'oplita sul dritto rappresenta il militare per cui Aspendus era famosa nell'antichità," il rovescio raffigura spesso un Triskelion.

La leggenda appare sulle prime monete come l'abbreviazione ΕΣ o ΕΣΤ Ϝ Ε; dopo conio ha ΕΣΤ Ϝ ΕΔΙΙΥΣ, l'aggettivo da ΕΣΤ Ϝ ΕΔΥΣ (Estwedus), che era il nome della città nella lingua Pamphylian locale. La storia numismatica della città si estende dal greco arcaico alla tarda epoca romana. Infatti batté moneta fino all'età di Gallieno.













MARCO EMILIO LEPIDO

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Nome originale: Marcus Aemilius Lepidus
Nascita: 90 a.c. circa
Morte: 13 a.c.
Posizione: politico romano



















In quei giorni Lepido chiese al Senato di restaurare e adornare a proprie spese la basilica di Paolo, il maggior monumento della famiglia degli Aemili. Era ancora in uso a quei tempi la pratica della munificenza pubblica da parte dei cittadini privati, seguendo tale esempio Lepido fece rivivere lo splendore degli avi, sebbene la sua fortuna fosse modesta”. (Tacito, Annali).

Uscendo dalla curia Iulia, a poche decine di metri ci sono i resti dell’imponente Basilica Emilia.  un monumento di stato, e il ricordo della storia di famiglia e dei propri antenati della gens Aemilia.



LE ORIGINI

Membro della gens patrizia degli Emilii, Marco Emilio  Lepido nacque in epoca tardo repubblicana, nel 30 a.c., da Cornelia Scipione, a sua volta figlia di un precedente matrimonio di Scribonia, la prima moglie di Augusto, e da Paolo Emilio Lepido, anche lui di nobile rango tanto che fu console nel 34 a.c. Suo fratello, Lucio Emilio Paolo, fu inoltre console nell'1 d.c..

Pertanto era imparentato con la potente dinastia giulio-claudia, e sposò una donna di alto rango, Vipsania Marcella, figlia di Agrippa e della sua seconda moglie Claudia Marcella maggiore, e ne ebbe due figli: Emilia Lepida e Marco Emilio Lepido.
Vipsania andò in sposa a Druso Cesare, secondogenito di Germanico, l’influenza del padre su Tiberio la protesse finché egli fu in vita, ma nel 36 d.c. fu accusata di adulterio con uno schiavo e si suicidò. Il figlio Marco Emilio Lepido, amico e coetaneo dell'imperatore Caligola, cadde poi in disgrazia poiché coinvolto in una congiura di palazzo e anche lui si suicidò nel 39 d.c.
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Si risposò in seconde nozze attorno al 4, con moglie e altri figli non identificati. È descritto da Tacito (Annales, III, 11 e 72), come un uomo estremamente equilibrato: né servile, né in sfida con il potere imperiale.



LA RIVOLTA DALMATO PANNONICA

MARCO EMILIO LEPIDO
Marco divenne console nel 6 d.c.. e nell'inverno dell'8/9 diventò responsabile unico degli accampamenti invernali di Siscia durante la seconda fase della rivolta dalmato-pannonica. La Dalmazia e la Pannonia, facenti parte dell'Illirico romano, si ribellarono ai Romani, responsabili della cattiva amministrazione dei governanti, che avevano preteso tributi troppo gravosi.


I anno di guerra

L’insurrezione ebbe inizio nella zona sudorientale fra i dalmati Desiziati, comandati da Batone, estesa poi ai pannoni Breuci, sotto il comando di Pinnes e di un secondo Batone. I comandanti avevano servito nell’esercito romano come ufficiali di truppe alleate, e quindi ottimi conoscitori di metodi e disciplina romani.
Tiberio dovette impiegare tre anni di guerra, e numerosi ed esperti generali (come Marco Valerio Messalla Messallino sostituito in seguito da Marco Emilio Lepido, Aulo Cecina Severo, Marco Plauzio Silvano o Gaio Vibio Postumo).


II anno di guerra

Tiberio concentrò ben 10 legioni a Siscia per dividere i Pannoni dai Dalmati, arruolando nuove coorti di voluntariorum, mentre si aggiungevano due nuove legioni macedoni e tre di Cecina Severo. Così Tiberio  avanzò verso occidente, sotto il comando congiunto di Cecina Severo e Plauzio Silvano. Il nemico però attendeva l’esercito romano per bloccargli la strada, prima che si ricongiungesse a Tiberio.

Mentre l’avanguardia dell’esercito romano cercava di accamparsi e la restante parte era ancora in marcia, il nemico gli piombò addosso all'improvviso e per poco non riuscì a schiacciarlo. Comunque i Romani ebbero la meglio e Cecina e Silvano poterono unirsi a Tiberio.
Nella seconda parte dell’anno Tiberio dispose diverse colonne militari, che attaccassero simultaneamente in più punti il nemico.


III anno di guerra

La carestia e la paziente strategia di Tiberio avevano logorato i nemici Batone il Pannone tradì Pinnes e lo consegnò ai Romani. L’altro Batone, il Dalmata, venuto a conoscenza del tradimento, lo catturò e lo uccise, persuadendo i Pannoni a riprendemre le armi. Ancora una volta erano sconfitti da Plauzio Silvano, sopraggiunto da Sirmio.
Batone si ritirò tra i monti mentre Silvano, più a nord, riusciva a sottomettere definitivamente i Breuci.
Il piano del bellum dalmaticum  fu preparato meticolosamente da Tiberio nel corso dell'inverno, lasciando a Siscia, Marco Emilio Lepido, Silvano a Sirmo, Germanico a sud delle Alpi Dinariche e Cecina ancora in Mesia, mentre egli stesso faceva ritorno a Roma per l’inverno.


IV anno di guerra

Marco Plauzio Silvano e Marco Emilio Lepido si erano distinti in battaglia, sottomettendo l'importante città fortificata di Seretium e numerose altre località, ma non tutte le popolazioni dimostravano di sottomettersi, per cui Augusto decise di inviare nuovamente Tiberio che divise l'esercito in tre colonne:

  • la prima, affidata a Marco Plauzio Silvano, doveva dirigersi verso l'interno della Dalmazia, coprendo il lato sinistro dello schieramento romano;
  • la seconda, affidata al nuovo legato dell'Illirico Marco Emilio Lepido, doveva coprire il lato destro dello schieramento;
  • la terza, sotto il suo diretto comando, insieme a Germanico, doveva probabilmente percorrere il fiume Urbas, al centro dello schieramento, in direzione Andretium (nelle vicinanze di Salona), dove Batone il Dalmata si nascondeva.
  • Un quarto esercito, sotto il comando del governatore di Dalmazia, Gaio Vibio Postumo, ripuliva le coste adriatiche dei rivoltosi.

Tiberio giunse ad Andretium, prendendola d'assedio. Qui si ricongiunse con Lepido, che era un ottimo comandante, e dopo una lunga e sanguinosa battaglia sotto le sue mura, Batone si arrese. Augusto e Tiberio ricevettero l'ennesima acclamazione ad Imperator, mentre Germanico, Vibio Postumo, Marco Emilio Lepido, Plauzio Silvano e Cecina Severo ricettero gli ornamenta triumphalia.



GLI ONORI

Al termine della rivolta a Marco Emilio fu affidato l'incarico di governare la nuova provincia di Pannonia  fino al 10 e, poco dopo, a sostituire Gneo Calpurnio Pisone, nella Spagna Tarraconensis presidiata dopo il 9 da ben tre legioni, dove ancora lo troviamo nel 14, ma il cui mandato potrebbe essere durato dal 12 al 19, sembra condotto con notevole successo.

Ritroviamo poi Marco nel processo a Gneo Calpurnio Pisone del 20, per la morte di Germanico, uno dei tre consolari che accettarono il difficile compito di difenderlo.

Nel 21 si ritirò dal ballottaggio per la carica di governatore dell'Africa proconsolaris, poiché l'altro candidato era Quinto Giunio Bleso, zio di Elio Seiano.

Fece restaurare a proprie spese la Basilica Emilia del Foro romano, costruita dai suoi antenati, in onore alla gens emilia.. Nel 24 si adoperò per mitigare la pena inflitta da Elio Seiano ad alcuni elementi della famiglia di Germanico, tra cui Sosia Galla, moglie di Gaio Silio Aulo Cecina Largo, morto suicida quello stesso anno.

Fu nominato proconsole d'Asia dove rimase fino almeno al 28, ma il suo governo non ebbe qui molto successo. Morì cinque anni più tardi nel 33 d.c.
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SCOPERTE 7 STATUE NELLA VILLA DI MESSALLA

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http://www.repubblica.it/speciali/arte/recensioni/2013/01/08/news/villa_messalla_statue_ovidio-50097365/

Scoperte le statue cantate da Ovidio

Nel territorio del Comune di Ciampino è stata scoperta la villa di Marco Valerio Messalla Corvino, mecenate di Ovidio. Negli scavi trovate anche le statue che ispirarono al poeta il racconto del mito di Niobe nelle "Metamorfosi"

"Il cenacolo dei grandi poeti latini d'età augustea, da Ovidio ad Albio Tibullo, riprende vita alle porte di Roma, a Ciampino. Una scoperta che gli archeologi definiscono "eccezionale".
È la villa romana attribuita a Marco Valerio Messalla Corvino, console insieme a Ottaviano e comandante nella battaglia di Azio del 31 a.c..

Ma soprattutto mecenate di poeti e intellettuali d'età augustea che hanno scritto la storia della letteratura classica.
A restituire la villa, citata dalle fonti e il cui riferimento a "Valerii Messallae" deriva dai bolli sulle tubature, è il quartiere termale, dove gli ambienti sfoggiano frammenti di mosaici.
Ma a confermare che si tratta del tesoro di Messalla potrebbe essere un altro ambiente, distante alcune decine di metri: la natatio, la piscina all'aperto lunga oltre venti metri, con le pareti dipinte di azzurro.

Dall'interno della vasca sono riaffiorate una serie di sculture straordinarie.

Sette statue integre, con alcune mutilazioni ricostruibili, di oltre due metri d'altezza. Un repertorio statuario che illustra il mito di Niobe e dei Niobidi.

"Una di quelle scoperte che capita una sola volta nella vita di un archeologo", racconta Aurelia Lupi, guida, sotto la direzione scientifica di Alessandro Betori, dell'équipe della Soprintendenza ai beni archeologici del Lazio che tra giugno e luglio scorsi hanno avviato una campagna di sondaggi preventivi su un'area interessata da un progetto di edilizia sulla via dei Laghi all'interno dei cosiddetti Muri dei Francesi, una proprietà privata corrispondente al Barco dei Colonna.

L'area è la stessa finita di recente sulle cronache per la triste vicenda del Portale di Girolamo Rainaldi, il maestoso ingresso barocco crollato e lasciato in stato di abbandono.

"Statue di Niobe ne sono state trovate in passato, ma nel caso di Ciampino abbiamo buona parte dell'intero gruppo", sottolinea la soprintendente Elena Calandra:
"Sette statue d'età augustea complete, ma anche una serie di frammenti che possono essere ricomposti".

Capolavori che mettono in scena la tragedia del mito, la punizione della superbia di Niobe.

"Queste statue entreranno nei manuali di storia dell'arte classica" aggiunge Calandra.

Le meraviglie del circolo di Messalla dovevano ornare i quattro lati della piscina e un basamento in peperino al centro della vasca.
Sono rimaste inviolate sotto terra per secoli, probabilmente dopo che un terremoto nel II secolo le ha fatte precipitare sul fondo della vasca.

"Le sculture ci offrono nuove testimonianze sull'iconografia di Niobe" dice Alessandro Betori, direttore scientifico degli scavi. "

Nel gruppo spiccano due figure maschili di giovani colti nell'atto di osservare l'eccidio dei fratelli che appaiono a tutt'oggi inediti. E soprattutto, la villa da cui provengono appartiene a Messalla, protettore di Ovidio.

Non è un caso che la descrizione più vivida del mito di Niobe si trovi proprio nel suo capolavoro, le Metamorfosi. Da assiduo frequentatore del circolo, il poeta avrà forse avuto modo di vedere il gruppo dei Niobidi in tutto il suo splendore e di rimanerne ispirato".

Oppure, potrebbero essere stati i versi del poeta a suggerire a Messalla il tema del gruppo scultoreo che doveva impreziosire la piscina della villa.
Dalla scultura alla poesia, insomma. Ora servono risorse per restaurare e valorizzare le opere."



VALERIO MESSALLA

Fu un valente generale e scrittore, nonchè mecenate di grandi artisti, per i quali aveva eletto un circolo letterario.

Una tale istituzione richiedeva soldi, perchè gli artisti venivano ospitati vivendo con il padrone di casa e praticamente spesati di tutto.
Tra questi protesse e accolse Tibullo, Sulpicia e Ligdamo, ma fu anche amico di Orazio ed Ovidio. 

Era di famiglia patrizia e di rango senatorio, quindi di agiata condizione ma a Roma chi faceva più soldi erano i generali, e lui ebbe agio di mostrare ampiamente le sue qualità.
Per i suoi ideali repubblicani infatti si battè nella battaglia di Filippi a fianco di Bruto e Cassio. Passò poi dalla parte di Antonio ed infine entrò nelle file di Ottaviano.

Console nel 31 a.c. assieme ad Ottaviano, partecipò con l'Augusto alla Battaglia di Azio contro Antonio.

Ebbe poi il comando di una missione in Asia Minore e nel 30 a.c., soppresse la rivolta degli Aquitani nel 28 a.c. per cui celebrò un trionfo nel 27 a.c.

Tibullo lo descrive coraggioso e lieto di andare a cercare la gloria in guerra come a godersi nei piaceri la pace in villa.




BARCO COLONNA

Ora la Soprintendenza archeologica per il Lazio ha scoperto la villa romana di Messalla all’interno dei cosiddetti Muri dei Francesi, una proprietà privata corrispondente al Barco Colonna, affacciata sulla via dei Laghi.

C''è un quartiere termale costituito da alcuni ambienti a mosaico e una natatio, piscina all’aperto lunga oltre 20 m, con le pareti affrescate.
Da qui sono riaffiorate sette statue che illustrano il mito di Niobe e dei Niobidi. Sculture imponenti, di straordinaria bellezza.

Il Barco Colonna è un'area di verde pubblico situata nel comune di Marino, nella zona dei Castelli Romani. 
Occupa l'area di un'antica riserva di caccia o Barco della famiglia Colonna.

Il Barco sorge in una vallata umida solcata dalla Marana delle Pietrare, una delle più rilevanti zone dei Colli Albani sorta alla fine del XVI sec., dato che nel 1590 venne edificato il portale a bugne in peperino che sorge sul viale principale dell'area verde.

Il parco aveva fontane monumentali, adorne di statue alte fino a due m in peperino, di cui oggi ci restano solo poche testimonianze, come un nicchione e il Cellone, caratteristica statua acefala semi-nascosta fra le piante. Al termine del viale, dove si apre una radura, vi era un teatro delle acque, oggi rimpiazzato dalla cabina dell'acquedotto comunale.
Divenuto dal 1916 di proprietà del Comune di Marino.




MA ECCO IL RISVOLTO DELLA MEDAGLIA
FERMATEVI!
NON SEPPELLITE CON IL CEMENTO BELLEZZA STORIA E PAESAGGIO.


La villa di Marco Valerio Messalla Corvino, rinvenuta pochi mesi fa a Ciampino nei pressi di Roma, insieme alle sette straordinarie sculture di Niobe e dei suoi figli è in pericolo.

55.000 metri cubi di cemento potrebbero essere costruiti ad appena pochi metri di distanza dall'area degli scavi e dalla piscina, scenario originale delle sculture.

L'area dei rinvenimenti è denominata Muri dei Francesi, toponimo legato alla battaglia che lì si svolse e che determinò la fine della cattività avignonese del papato.

Area descritta dalla stessa Soprintendenza Archeologica di notevole valore ambientale, paesaggistico, storico e monumentale già prima delle sensazionali scoperte. Conserva infatti i resti del Barco Colonna, con casali secenteschi e il portale attribuito a Girolamo Rainaldi, dichiarato fin dal 1935 patrimonio nazionale, rovinosamente crollato nel 2011 e finora non restaurato.

Quel luogo, ancora intatto, ha ispirato il circolo letterario di Messalla, frequentato dai più grandi autori classici latini, luogo che con Ovidio e le sue Metamorfosi, permise l'incredibile osmosi tra letteratura e arte plastica rappresentata dal gruppo di Niobidi.

A Ciampino, nell'altra area di scavo in località Colle Olivo, è già stata decisa l'edificazione di 67.000 metri cubi per l'edilizia convenzionata, ad appena 10 metri dalla piscina e dalle terme che sono state recentemente scoperte, stando agli esperti, copia fedele in scala ridotta delle Terme di Ostia Antica.

Edificazione che, a ridosso della sommità del colle, compromette la particolare bellezza dell'orizzonte.

Ad essere in pericolo non sono solo i singoli reperti, ma "l'insieme" materiale ed immateriale costituito dai siti dei ritrovamenti tutti di straordinario valore, archeologico e paesaggistico. Tutti insistenti su di una stessa fascia, a ridosso dell'Appia Antica, tra la "Piana di Ciampino" e le prime pendici dei Castelli Romani, che interrompe il continuum edilizio tra Roma e l'area dei Colli Albani.Per questo motivo chiediamo:

- Di mettere urgentemente in sicurezza quanto rimane del Portale secentesco e provvedere alla sua ricostruzione.

- Di fermare le costruzioni a ridosso dei beni rinvenuti.

- Che venga rispettato il dettato dell'articolo 9 della Costituzione: "La Repubblica [...] Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione".

- Che venga rispettato il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, in particolare prescrivendo "le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità del bene culturale, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce".

- Che anche a Muri dei Francesi e a Colle Olivo sia attuato il criterio di tutela espresso nella recente sentenza del Consiglio di Stato in cui si afferma che "cura dell'interesse pubblico paesaggistico concerne la forma circostante, non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi".

- Che l'intera area del Parco dei Casali sia destinata alla città come patrimonio intangibile da salvare senza cedere a derive speculative che compromettono per sempre la ricchezza del territorio.



LE SPECULAZIONI EDILIZIE

Che alle numerose distruzioni perpetrate anche in anni non lontani nell’area dei Castelli romani non se ne aggiungano di nuove. Come il caso della villa cosiddetta di Augusto, nel territorio di Velletri, nella cui area, nonostante un vincolo archeologico, si è continuato a costruire, o come il caso di Colle Cagnoletto, nel territorio di Genzano, un’altura affacciata sulla via Appia antica, sulla quale la costruzione di un centro residenziale, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, ha polverizzato diverse ville romane.


L’amministrazione Comunale di Ciampino continua a confermare i due siti archeologici come luogo per l’edificazione delle zone 167 e rimane completamente insensibile all’importanza storica delle aree e al loro valore!

Quali interessi legano il sindaco, la giunta e le due soprintendenze, che da mesi tengono segreta l’importanza dei ritrovamenti?

Si tratta di ville romane venute alla luce insieme a strutture termali di notevoli dimensioni, magazzini, locali di servizio, statue, mosaici, ecc.. 

In una villa, attribuita a Marco Valerio Massalla Corvino, ultimo console insieme ad Ottaviano, sono state rinvenute ben 7 statue di marmo perfettamente conservate, tutte collocate intorno alla vasca termale e riferite al mito delle Niobi, descritte da Ovidio per le sue “Metamorfosi”, assiduo frequentatore del cenacolo culturale del console, che riuniva dotti e letterati nella sua sontuosa villa, a Muro dei Francesi.

Il Movimento Ciampino Bene Comune ha condiviso e sostenuto la battaglia delle associazioni cittadine per la salvaguardia e la valorizzazione delle aree archeologiche a Ciampino e richiede ora che la Soprintendenza Archeologica diffonda le informazioni sul ritrovamento dei reperti, confermando l’importanza delle aree, contrapponendo così alle mire degli interventi edilizi la necessità di una loro estrema tutela.

Le Soprintendenze ignorano da mesi le richieste di ben 22 associazioni cittadine per conoscere le notizie sui ritrovamenti. Anche l’interpellanza parlamentare dell’on. Antonio Rugghia è rimasta senza esito.

Perché la Soprintendenza ai Beni Archeologici non ha divulgato le informazioni sull’importanza dei siti archeologici di Colle Olivo e di Muro dei Francesi a Ciampino?

Perché la Soprintendenza ai Beni Paesaggistici non è ancora intervenuta con la tutela del vincolo sull’intera area del “Barco dei Colonna”?

Ci preoccupa che sindaco e soprintendenze continuino a incontrarsi senza far conoscere ai cittadini la consistenza e la qualità dei ritrovamenti e gli elementi di valutazione che determineranno le scelte e le decisioni sulle aree archeologiche e la loro tutela.

Alle richieste di conoscenza delle associazioni e dei cittadini si risponde: “non siete graditi”.

Ciampino Bene Comune

I FRATELLI ARVALI

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FRATES ARVALES

Secondo la tradizione, il collegio degli Arvali era stato istituito da Romolo il fondatore e primo re di Roma, e ne facevano parte i dodici figli del pastore Faustolo, colui che aveva raccolto e allevato i due gemelli allattati dalla lupa. Per questo motivo i sacerdoti si sarebbero chiamati fratres, o "fratelli". Noi pensiamo invece che il termine non si riferisse ai due figli di Rea, ma al rapporto di fratellanza tra di loro, come usava nell'antica religione italica, dove i "Fratelli" giuravano col sangue il segreto del rito.

FLORA ERA COLLOCATA ALL'INTERNO
DEL TEMPIO DEGLI ARVALI
In reltà il sodalizio degli Arvali iniziò prima della fondazione della stessa Urbe, poiché i membri fondatori furono non i figli di Faustolo ma i 12 figli di Acca Larenzia, divinità italica (Dea Lupa) antecedente agli Dei romani. In seguito i dodici vennero scelti tra i membri dell’aristocrazia, presieduti da un Maestro eletto annualmente e rinnovantesi al suo interno per cooptazione. Poi ne divenne membro fisso l’imperatore che ne “suggeriva” anche gli avvicendamenti.

La loro sede era da sempre situata nel tempio di Dia, con annesso bosco sacro, a cinque miglia da Roma, circa nell’attuale quartiere della Magliana. In questo tempio erano conservati, incisi su lastre di pietra, gli Atti dei Fratelli Campestri. Tra i loro compiti vi era la celebrazione del Giro dei Campi o Ambarvali, un rito propiziatorio delle messi agricole e a protezione dei venti nocivi – descritti da Catone, Tibullo e Virgilio – ed una festa mobile che si svolgeva in tre giorni verso la fine di Maggio.

Questa leggenda è citata anche da Plinio il vecchio nella sua "Historia naturalis" dove riferisce che le insegne di quel sacerdozio erano costituite, fin dalle origini, da una grande ghirlanda di spighe e da bende bianche. Le spighe erano l'emblema della Bona Dea, la Dea Madre, poi assimilata anche a Cerere, mentre le bende bianche erano il simbolo della purezza e della fedeltà alla Dea, ai suoi riti e ai suoi fratelli. Sicuramente le bende immacolate vennero fin da empi molto antichi poste sulla fronte, o sul polso, o sul collo del sacerdote.

Nel 493 a.c, i Romani costruirono un grande tempio dedicato alla dea Cerere, all'interno del quale, i sacerdoti Arvali celebravano i loro riti e le loro funzioni, coltivando il culto della Dea che andava a sostituire l'antica Dia.         (Dea Flora tra le divinità del Lucus Diae)



LA SACRALITA' DEL NUMERO 12

« Aruorum sacerdotes Romulus in primis instituit seque duodecimum fratrem appellavit inter illos ab Acca Larentia nutrice sua genitos... » (Plinio il vecchio.)
« Romolo per primo istituì i sacerdoti Arvali e chiamò se stesso dodicesimo fratello tra quelli generati da Acca Larentia, sua nutrice... »
Dunque erano fratelli perchè figli di Acca Larentia, l'antica Dea Lupa.
 "Gli Arvales erano infatti un antico collegio sacerdotale di dodici membri, che secondo l'antica tradizione rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, e si suppone siano i dodici mesi dell'anno" (Plin., Nat. Hist., XVIII, 6; Gell., VII, 7,8) ma su questo avremmo da ridire. 

Non fa venire in mente il Cristo coi dodici apostoli? E anche di questo si è parlato dei dodici segni zodiacali, ma c'è un però, ed è che al tempo degli antichi Arvali, e pure al tempo di Gesù Cristo tra gli ebrei, c'era per entrambi il calendario lunare. Per il popolo ebreo sussiste anche oggi, e come allora l'anno consta (tranne eccezioni) di 13 mesi, mentre a Roma in origine c'era un calendario lunare diviso in 10 mesi con inizio alla luna piena di marzo, istituito da Romolo nel 753 a.c.. Questo calendario era di dieci mesi e i loro nomi erano: Martius, Aprilis, Maius, Iunius, Quintilis, Sextilis, September, October, November, December. Tanto è vero che Dicembre non è il decimo ma il dodicesimo mese.

Ma c'è di più, anche i Salii erano un antichissimo collegio sacerdotale romano, e si dividevano in Salii Palatini, con 12 sacerdoti, e Salii Quirinali, anch'essi di 12 sacerdoti, e 12 furono le tavole della Legge istituite da Romolo, e 12 sono le ore antimeridiane e pomeridiane, 12 erano i principali Dei dell'Olimpo, 12 le fatiche di Ercole ecc.

Diciamo che fin dai tempi più antichi i numeri sacri, o fondamentali, furono il tre e i multipli di tre, quindi il tre, il sei, il nove e il 12. Ovunque la Dea Madre fu triplice, poi sostituita  da tre Dei (vedi gli Dei di Romolo: Giove, Marte e Quirino, sostituita poi dalla Triade Giove, Giunone, Minerva. Anche la religione cattolica ha una trinità pur essendo monoteista.



SACRIFICI INCRUENTI

I Fratelli Arvali si definivano “figli della madre terra “, pertanto tutti fratelli, e nei loro rituali, oltre ad onorare la Dea Cerere, compivano sacrifici anche per il Dio Bacco, e si crede avvenisse nella speranza di una buona produzione delle messi e delle viti. I sacrifici, come usava in tempi più antichi, erano incruenti e avvenivano con l'offerta dei prodotti della terra che venivano bruciati o sparsi al vento nei campi o versati in terra dei liquidi, come acqua, latte o vino.

La ragione dei riti arvali erano comunque misteriche, o almeno anticamente lo erano. La prima Dea cui si rivolsero alle origini fu la Dea Dia, e Dia era la Dea Madre da cui derivò per estensione il termine Dius. Avevano anche il loro anno liturgico, che era anche l'anno di carica dei dignitarî del collegio, ed andava da una festa delle sementi all'altra (ex Saturnalibus primis ad Saturnalia secunda).

L'arcaico sacerdozio, sorto sul Palatino, conta nei documenti solo una breve menzione di Varrone (De lingua latina, V, 8), e di Masurio Sabino (presso Gellio, VI, 7,8), mentre ne troviamo parecchie iscrizioni lapidarie con gran parte della storia e degli atti del collegio, dai primi tempi dell'impero fino alla metà del sec. III. Questi scritti sono un'ampia serie di documenti epigrafici, di dediche ma anche funerarie, riesumate per caso o per scavi sistematici, iniziati nel sec. XVI, e compiuti nel secolo passato nel luogo ove si estendeva il lucus Deae Diae, il bosco sacro, e dove i fratelli Arvali si adunavano per compiere i loro principali sacrifici. Un patrizio romano del IV secolo, Lucius Digitius Bassus, di Paestum, compare a Roma nell'epigrafe 33 come frater Arvalis ancora nel 145 d.c.



LE EPIGRAFI

Il luogo sacro era la moderna vigna Ceccarelli, posta sulla destra della via Portuense (via Campana), oltrepassato di poco il V miglio dove, nel 1570, si fecero le prime scoperte epigrafiche con le basi delle statue dedicate agl'imperatori in qualità di fratelli Arvali. L'Istituto germanico di corrispondenza archeologica di Roma, negli anni 1867-69, riportò alla luce numerose tavole scritte e diversi resti degli antichi edifici arvalici. Altri frammenti tornarono in luce in scavi eseguiti dallo stesso Istituto nel 1882, oltre ad altre scoperte fortuite avvenute a Roma e oltre. Ma la maggior parte delle epigrafi venne rinvenuta nelle Catacombe di Santa Generosa.

Importante fu il ritrovamento di un frammento degli atti arvalici sotto la chiesa di S. Crisogono in Trastevere, e di un altro nelle demolizioni fatte per il risanamento del teatro di Marcello. Queste epigrafi si trovano in gran parte nel Museo Nazionale Romano delle Terme e in gran parte nel Museo Vaticano. Si tratta in tutto di circa cento resoconti dettagliati di adunanze degli Arvali, che vanno dall'anno 14 all'anno 241 d.c.



LE ORIGINI

Le origini degli Arvali secondo gli studiosi si collegano ad una primitiva religione riferita alla coltura dei campi (arva), per la cui buona riuscita si facevano cerimonie sacrificali. La Dea Dia, che essi veneravano, era forse la stessa Cerere,. I solenni sacrifici dei fratelli Arvali si celebravano precisamente nei giorni delle antichissime Ambarvalia e nel sito medesimo che segnava il confine del primitivo territorio di Roma, cioè tra il V e il VI miglio della città (Strab., V, 3,2, p. 230).

POSIZIONE DELLE TERME DEGLI ARVALI
In queste cerimonie era interdetto l'uso del ferro mentre si veneravano le rozze antiche olle fittili, nonché il testo del celebre carme arvalico in lingua arcaica, divenuta incomprensibile agli stessi Romani dell'età imperiale. I sodali avevano la denominazione di fratres, esclusiva di questo collegio. Il loro numero era il dodici; ma nell'età imperiale venne anche superato, soprattutto per gl'imperatori ed i membri della famiglia imperiale. L'ammissione nel collegio arvalico (cooptatio) aveva luogo o per libera elezione del collegio o per volontà imperiale (ex litteris imperatoris), cosa che avveniva spesso.

In realtà le ambarvalia erano le feste dei campi in cui i suddetti venivano aggirati a piedi nel loro perimetro, con processione solenne sacerdotale, sostituita poi da quella del capofamiglia e famiglia, per stabilire pubblicamente e religiosamente i confini e quindi la proprietà. Questa presa di possesso avveniva all'inizio nell'ereditare o acquistare un campo e ogni anno per ribadire o mutare la proprietà del padrone.
La stessa cosa si faceva anticamente per la città di cui si deambulava il perimetro primitivo per ristabilire il possesso della propria città. Quest'ultima cerimonia, che era pubblica ed eseguita dai sacerdoti addetti, appunto gli Arvali, che all'inizio facevano anche da testimoni alle proprietà private deambulandone i confini insieme al proprietario.
La deambulazione della città avveniva da parte di tutti gli uomini d'arme per ristabilire il senso della patria da difendere in caso di pericolo rinforzando la solidarietà tra i soldati. Pertanto il Sodalizio dei Fratelli Arvali, che all'inizio ratificò anche la proprietà privata, poi solo quella della polis, fu un primo stabilirsi del diritto pubblico e privato.



L'ORGANIZZAZIONE

Come quasi tutti i collegi, gli Arvali avevano a capo un magister eletto annualmente nel II giorno delle feste del maggio, ma che entrava in carica il 17 dicembre e vi rimaneva fino allo stesso giorno dell'anno seguente. Per lo stesso periodo di tempo era eletto un flamen, che assisteva il magister nei sacrificî. Se il magister non poteva presiedere delegava uno dei colleghi, che diventava in quell'occasione il promagister.

Come in tutti gli altri collegi sacerdotali maggiori, i fratelli Arvali erano assistiti nelle cerimonie sacre da speciali ministri. Quattro nobili fanciulli, con genitori viventi (patrimi et matrimi) assistevano alle cerimonie triduane in onore della Dea Dia, vestiti della pretesta fimbriata (ricinium). Considerati alla stregua di figli, prendevano parte ai banchetti e recavano dalla mensa alle are le fruges libatae dei sacerdoti, cioè servivano a tavola. Ma ogni membro del collegio aveva un calator personale, generalmente un servo manomesso, per assisterlo nelle cerimonie. 

Nei sacrifici piacolari nel bosco arvalico, il calator agiva in luogo del magister cui era addetto. Alcuni fra i servi appartenenti allo stato (servi publici) erano destinati a prestare servizio agli Arvali, come addetti al collegio, non ai singoli sacerdoti. Potevano essere trasferiti ad altri uffici della pubblica amministrazione. V'era infine un aedituus, custode del tempio collegiale della Dea Dia.



LUCUS DIAE

Il bosco sacro della Dea (lucus deae Diae) si trovava al quinto miglio della via Campana, in cima a un clivus del lato destro della via. Il principale edificio sacro che sorgeva nel bosco era il tempio della Dea Dia, situato sul declivio del colle. Sui suoi ruderi è costruito il villino della vigna attuale.

RIPRODUZIONE DEL TEMPIO DEGLI ARVALI
Era di forma circolare, come i templi più antichi, col fronte ad oriente, con davanti una mensa ad uso ara, su cui gli Arvali compivano i riti: avanti ad essa era un caespes, un'ara naturale, formata da zolle di terra con cespugli. Ai piedi del colle, sul limitare del lucus, v'era un'altra ara, sulla quale s'immolavano le porciliae piacolari, con il foculus, il tripode metallico su cui si immolava la vacca bianca.

C'era poi il Caesareum, dedicato agl'imperatori defunti e divinizzati, dove s'immolavano vittime in loro onore. Qui si riunivano a banchetto gli Arvali nel II giorno delle feste ambarvali. Questo Caesareum, come il tempio della Dea Dia, fu ricostruito nel II sec. dell'impero, o agl'inizî del III. Congiunto o vicino al Caesareum era il tetrastylum, entrambi ai piedi della collina, nel piano che si estende verso il Tevere, ove infatti furono trovate le statue imperiali che decoravano l'interno del Caesareum.

Nel tetrastylum, o portico a colonne rettangolari, erano i sabsellia su cui si adagiavano gli Arvali per banchettare, riunirsi e riposarsi, e i posti erano protetti dal sole e dalla pioggia per mezzo di tende (papiliones). V'era anche un circus, ove, dopo leepulae, avevano luogo le corse.



I FASTI DEL COLLEGIO

Le tavole marmoree, sulle quali venivano di anno in anno incisi i fasti del collegio, furono dapprima poste sullo stilobate del tempio della Dea Dia. Finito lo spazio si passò alle parti lisce nella parte inferiore di alcune tavole, poi si passò ad altri monumenti arvalici, e perfino sui sedili.

La redazione degli atti arvalici è più sobria nei primi tempi, poi, da Augusto a Domiziano, diviene poi più ricca di particolari nella relazione delle feste e delle cerimonie sacre. Sotto Gordiano III (circa a metà del sec. III) cessò l'incisione delle memorie arvaliche. Per ciascun atto registrato sono indicati i nomi dei fratelli Arvali presenti alla seduta o alla cerimonia.

Dopo l'abbandono del bosco arvalico, nel sec. IV, le tavole scritte andarono disperse. Ma poiché fu più a lungo rispettato il tempio, in confronto agli altri edifici minori, le tavole scritte fuori dell'imbasamento del tempio, e cioè posteriori agli Antonini (fine del sec. II), furono le prime ad andare disperse e a servire da materiale da costruzione nei luoghi più disparati di Roma e vicinanze. Fra le altre tavole marmoree scritte ne furono trovate, negli scavi degli anni 1867-1869, alcune contenenti parte del calendario romano e della serie dei consoli e dei pretori che furono in carica tra gli anni 2 a.c. e 37 d.c.



LE FESTE

Ogni anno, nel mese di gennaio, si promulgavano i giorni della festa annuale della Dea. I tre giorni delle feste arvaliche erano o il 17, 19, 20 o il 27, 29, 30 di maggio; i primi negli anni pari dell'era verroniana, i secondi nei dispari.



IL I e il II GIORNO

- Nel primo di quei giorni le feste si celebravano in città, nel secondo, parte nel bosco sacro e parte in città, nel terzo in città.

- Nel I giorno si eseguiva il sacrificio in casa del magister, oppure sul Palatino in aede divorum. In questa cerimonia si consacravano le messi aride e le verdi, cioè quelle dell'anno precedente e quelle della stagione; poi seguiva un banchetto.

- Nel II giorno si compivano tre cerimonie nel bosco sacro della via Campana, e una in città, in casa del magister. Nel bosco sacro s'immolavano due porciliae piacolari, in espiazione preventiva di ogni trasgressione alla sacra inviolabilità del luogo; seguiva il solenne sacrificio di una vacca bianca, fatto dal magister, quindi gli Arvali scendevano nel tetrastilo per riunirsi a banchetto.

- La cerimonia del pomeriggio era la più solenne, e ne abbiamo una descrizione dettagliata nelle due tavole con la relazione della festa degli anni 218 e 219. Si sacrificava una agna opima nel tempio della Dea, poi si faceva l'offerta dei thesauri o dei doni personali degli Arvali alla Dea, e si prestava il culto alle ollae.



IL CULTO DELLE OLLAE

Questo rito aveva origine dalla più remota antichità, si dice, quando l'uso dei metalli non era ancora introdotto nel Lazio. L'adorazione di questi vasi molto antichi e ormai malridotti ha fatto torcere il naso a molti, adducendo che allora le ollae erano importanti perchè ancora non c'erano i metalli, ma in Italia il rame è comparso al più tardi nel 3000 a.c., era davvero un culto così antico? E le rozze ollae (che non erano ermeticamente chiuse in una tomba) non si sarebbero sgretolate?

OLLA ROMANA
Dunque le olle non erano adorate perchè non ne avevano di meglio, cioè di metallo, anche perchè fare le olle di metallo non è consigliabile non solo per il costo ma per la conservazione del prodotto. Col metallo il freddo e il caldo si trasferiscono immediatamente all'interno.

Dunque le olle in questione erano adorate per il loro contenuto non per le olle stesse. E cosa contenevano? Semplice, le sementi per l'anno successivo. Non doveva essere facile convincere i contadini a mettere da parte il cerale per l'anno successivo, specie se l'annata non era andata bene e il cereale era poco. Ma quelle sementi erano la garanzia del prodotto dell'anno successivo e veniva conservato nel tempio, affinchè nessuno lo profanasse.

Le sementi erano dunque sacre e creavano un sodalizio, perchè se qualcuno aveva avuto un raccolto carente, qualcuno ne aveva avuto di più abbondante, e in ogni caso la redistribuzione della semina avveniva in egual modo, comunque fosse stata la consegna dei semi. Ecco il sodalizio dei semi ed ecco il sodalizio dei Fratelli Arvali.



IL RITO

Quindi solo i sacerdoti avevano ingresso al tempio dove era custodito il tesoro dei semi e solo i sacerdoti, chiusi nel tempio, leggevano cantando e danzando in ritmo di 3/4 (tripodatio) il celebre carme arvalico, per nostra fortuna trascritto per intiero nella tavola dell'anno 218 e scoperta nel 1778 a Roma.



IL CARME ARVALE

Scritto in versi saturnii, che costituisce uno dei testi più antichi della lingua latina. Il carattere arcaico di questo testo si mantenne anche in epoche più tarde, in quanto i Romani ritenevano che ogni cambiamento nei particolari di un rito religioso ne avrebbe diminuito l'efficacia.

- Enos Lases iuuate
- neue lue rue Marmar sins (sers) incurrere in pleores
- satur fu, fere Mars, limen sali, sia berber.
- semunis alternei aduocapit conctos.
- enos Marmor iuuato
- triumpe, triumpe, triumpe, trium(pe tri)umpe.

Ogni saturnio, salvo l'ultimo, era ripetuto tre volte. 
L'interpretazione, data l'oscurità del testo, non è che approssimativa: 

"O Lari aiutateci! 
Non permettere, o Marte, che la morte e la rovina piombino sul popolo! 
Sii sazio, fiero Marte! Salta sulla soglia! Fermati, o barbaro (??)! 
Egli (Marte o il magister fratrum) invocherà alternativamente tutti i Semoni. 
O Marte, aiutaci! 
Triumphe...". 

- Nel v. 1 enos = nos(cfr. ἐμοί, μοί), ma v'è chi pensa ad enom (cfr. umbr. enom = tum). 
- Lases = Lares è forma anteriore al rotacismo. (Varrone - "In molte parole in cui gli antichi dicevano s, in seguito dicono r")
- Nel v. 2 lue, rue = luem, ruem (ruinam). 
- Marmar è raddoppiamento di Mars. 
- Sins = sinas (la terza volta si ha sers = seiris, siris,siveris). 
- In pleores = in plures. 
- Nel v. 3 fu è imper. della rad. *bhu- (cfr. fui, forem).Berber vien confrontato con βόρβορος, βεβρός, βάρβαρος. 
- Nel v. 4 semunis =Semones, divinità della sementa. 
- Alternei = vicissim. 
- Aduocapit (scil. Mars omagister fratrum) = aduocabit (cfr. falisco cupa = cubat), futuro singolare: il Marx (Lucili carmina, II, ad v. 1322) intende cunctos aduocapit, facendo del nom.cunctos l'equivalente di quisque. 
- Nel v. 5 Marmor è dittologia di Marmar. 
- Nel v. 6 triumpe, senza aspirazione, è esclamazione trionfale.

Altra interpretazione: 

- Aiutateci o Lari!
- Aiutateci o Lari!
- Aiutateci o Lari!
- O Marte non permettere che la dissoluzione si abbatta sul Popolo!
- O Marte non permettere che la dissoluzione si abbatta sul Popolo!
- O Marte non permettere che la dissoluzione si abbatta sul Popolo!
- Sii appagato, feroce Marte, balza al confine, prendi posizione!
- Sii appagato, feroce Marte, balza al confine, prendi posizione!
- Sii appagato, feroce Marte, balza al confine, prendi posizione!
- Invocherete uno dopo l'altro i Semoni, tutti!
- Invocherete uno dopo l'altro i Semoni, tutti!
- Invocherete uno dopo l'altro i Semoni, tutti!
- Aiutaci, Marte!
- Aiutaci, Marte!
- Aiutaci, Marte!
- Vittoria!
- Vittoria!
- Vittoria!
- Vittoria!
- Vittoria!

E ancora:

« - Lari aiutateci,
- Lari aiutateci,
- Lari aiutateci,
- non permettere, Marte, che rovina cada su molti.
- non permettere, Marte, che rovina cada su molti.
- non permettere, Marte, che rovina cada su molti.
- Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
- Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
- Sii sazio, crudele Marte. Balza oltre la soglia. Rimani lì.
- Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
- Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
- Invocate a turno tutti gli dei delle sementi.
- Aiutaci Marte.
- Aiutaci Marte.
- Aiutaci Marte.
- Trionfo, trionfo, trionfo, trionfo, trionfo. »

Noi interpretiamo questo come un'invocazione all'antico Marmar, il Dio Lupo figlio della Dea Lupa, cioè la cupidigia che distrugge le sementi messe da parte per la semina futura. Per questo gli si intima di non varcare il confine del tempio, affinchè le semenze non vengano toccate, nè dai topi, nè dagli uomini, nè dalle malattie. Infatti vengono poi invocati gli Dei delle sementi, i Semoni, affinchè aiutino a preservare i semi conservati nelle olle.



IL TERZO GIORNO

Seguiva un'altra refezione nel tetrastilo e poi avevano luogo le corse dei cavalli nel circo annesso al bosco sacro. Gli Arvali sul tramonto facevano ritorno in città e chiudevano la giornata con un terzo banchetto nella casa del magister.

Nel terzo giorno gli Arvali si radunavano ugualmente in casa del magister per una cena destinata a consumare il sacrificio offerto il giorno innanzi alla Dea Dia. Si distribuivano infine le sportulae o gettoni di presenza in denaro ai singoli intervenuti.



IL CULTO IMPERIALE

Il collegio degli Arvali compiva anche altri sacrifici, riferiti al culto degl'imperatori e della famiglia imperiale. Il natalizio di Augusto si celebrava nei giorni 23 e 24 di settembre e i sacrifici erano offerti una volta sul Campidoglio e una volta sul Palatino. I sacrifici anniversarî per il natale degl'imperatori viventi e per i membri della famiglia imperiale avevano luogo nel massimo tempio capitolino.

IL GIOVANE CESARE
Altri sacrifici votivi straordinarî si celebravano dagli Arvali in occasione delle consecrationes degl'imperatori e delle imperatrici, il felice ritorno d'un imperatore da una lontana spedizione e così via.

Gli Arvali compivano sacrifici anche per solenni promesse votive, o annualmente per determinate ragioni, o straordinariamente per cause speciali.
Ordinariamente il 3 gennaio si soleva celebrare sul Campidoglio una cerimonia nella quale si scioglievano i voti fatti precedentemente e se ne promettevano nuovi per l'anno cominciato. 
Tali sacrifici votivi si facevano alle tre divinità capitoline per la salute dell'imperatore e per la felicità ed incolumità dello stato. In caso di morte d'un imperatore durante l'anno, i voti fatti per l'imperatore defunto al principio dell'anno erano rinnovati per la salute del nuovo principe dopo la sua assunzione al trono. 
I voti, oltre che alle tre maggiori divinità capitoline, erano fatti alla Salus publica, a Marte, alla Vittoria, a Vesta, a Nettuno e ad Ercole.



SACRIFICI ESPIATORI

Il collegio arvalico celebrava anche sacrifici espiatorî (piacula) nel bosco sacro, ogniqualvolta si doveva compiere un atto reputato contrario alla tradizionale rigidità dei loro riti. Ma si compivano in ogni caso, poichè c'era quasi un'ossessione per il corretto procedimento dei riti, e credendo che un solo errore potesse scatenare l'ira degli Dei oppure annullare i benefici del rito, si faceva insieme a questo un rito piaculare per annullare gli effetti negativi di qualsiasi errore.

Inoltre, nel secondo giorno delle feste annuali, prima d'incominciare i sacrifici in onore della Dea Dia, si potavano gli alberi e si faceva la pulizia di tutto il bosco. Ma per far ciò si dovevano mettere le mani sulle piante sacre ed intangibili, e si dovevano adoperare strumenti di ferro, contrariamente alle antiche prescrizioni rituali, per cui gli Arvali espiavano questo con i piacula, cioè un sacrificio, consistente nell'immolazione di due porchette (porciliae), le cui carni venivano poi consumate dai sacerdoti.

Altri sacrifici espiatorî erano fatti quando si incidevano col ferro sul marmo gli atti del compiuto anno del magistero, e ogniqualvolta fosse caduto un albero del bosco o per vecchiezza o perché abbattuto dal vento o dal fulmine.

Naturalmente il divieto di toccare ferro, che in realtà riguardava all'epoca l'intera popolazione, riguardava il divieto di fare guerra o di pubbliche esecuzioni, per non macchiare di sangue la purezza delle nuove sementi.

Il legno degli alberi e dei rami abbattuti serviva per fare il fuoco nei sacrifici arvalici. Altri sacrifici espiatorî si facevano nel bosco in casi straordinarî, o per la caduta di un fulmine, o per essere caduta qualche parte di uno degli edifici sacri, o per altre cause diverse.

Questi sacrifici si facevano con l'immolazione di una porca, di una pecora e di un toro (suovetaurilia), seguita dall'uccisione di due vacche in onore della Dea Dia e di due ovini per ciascuna delle diverse deità venerate nel bosco sacro. Infine si immolavano altrettanti animali (verbeces), quanti erano gl'imperatori e le imperatrici divinizzati, venerati nel Caesareum.



IL DECLINO

Il Collegio dei Fratelli Arvalicaduto nell’oblìo al tempo di Augusto, venne da questi ricodificato e da allora l'imperatore ne fece parte di diritto, tanto che talora il numero dei fratres superò i 12., ma, a cominciare dalla metà del sec. III, con l'avvento del cristianesimo, andò sempre più declinando, fino a sparire, insieme con tutti gli altri culti nazionali pagani, alla fine del sec. IV.



OGGI

I resti arvalici sono oggi privati, nonchè devastati, nonchè non visitabili, in compenso il Municipio di "Roma XV" è denominato "Arvalia Portuense" dai resti di un tempio d'età augustea sito in prossimità del Fiume Tevere. Ma quale tempio?

"La catacomba di Generosa fa parte di un complesso archeologico, ricco di testimonianze non solo cristiane, ma soprattutto pagane. Nel sopraterra infatti è stato individuato un recinto sacro (chiamato il boschetto sacro alla Magliana), comprendente l’antico collegio pagano dei fratres Arvales, associazione sacerdotale pagana, le cui origini risalgono all’epoca repubblicana romana, dedicata al culto della dea Dia, il cui tempio è stato individuato nello stesso recinto: gli Arvali registravano la loro vita religiosa e cultuale (gli Acta fratrium Arvalium) in tavole marmoree, molte delle quali sono giunte fino ai nostri tempi, grazie al loro riutilizzo come lastre di pavimentazione della basilica di Generosa.
La catacomba è posta all’interno di una collina, e si sviluppa su un solo livello. L’antico ingresso della catacomba, come per altre catacombe romane, era chiuso da una basilica, fatta costruire da Damaso nella seconda metà del IV secolo, i cui resti sono stati individuati da Giovanni Battista de Rossi nell’Ottocento. Nell’abside una fenestella confessionis permetteva di vedere il principale luogo di culto martiriale, mentre una porta laterale dava accesso alla catacomba.L’attuale ingresso alla catacomba è di recente costruzione, ed è costituito da una piccola struttura in mattoni chiusa da una porta di ferro."
Insomma la catacomba si visita, il complesso archeologico degli Arvali no.

I CATALOGHI REGIONARI

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I Cataloghi Regionari, tanto spesso citati anche da noi per orientarsi sulla mappa o sui monumenti dell'antica Roma, sono due redazioni, leggermente diverse tra loro, pervenute da un originario catalogo delle 14 regioni di Roma augustea. Delle due versioni la prima è la CURIOSUM URBIS ROMA REGIONUM XIIII, mentre la seconda, priva di titolo, è normalmente conosciuta come NOTITIA URBIS  ROMAE.

Entrambi  sono un elenco di monumenti suddivisi per ogni regione, per la maggior parte in ordine topografico, e quindi il numero dei vici (quartieri) e delle loro edicole compitali, dei vicomagistri e dei curatores della regione, delle abitazioni (domus e insulae), dei magazzini (horrea), degli impianti termali (balnea), degli specchi d'acqua (lacus) e dei forni (pistrina). Alla fine di ogni elenco si cita a lunghezza del perimetro della regione trattata. Segue un riassunto finale con il numero complessivo di monumenti e delle altre categorie di edifici cittadini.


Datazione

CARTINA DELLE REGIONI DI ROMA (zoommabile)
La datazione dell'elenco originale è discussa, pur riferendosi all'epoca augustea sono ritenuti in genere di epoca costantiniana nel 315-316,  rielaborato in ognuna delle due versioni a noi giunte.

Queste sono datate sulla base del più recente monumento  citato: per la Notitia, la statua equestre di Costantino, eretta nel 334, mentre per il Curiosum, l'obelisco eretto da Costanzo II nel Circo Massimo nel 357.

Secondo altri, invece, la menzione del corpo dei pretoriani, sciolto da Costantino, indicherebbe una redazione già sotto Diocleziano e forse collegata alle sue riforme amministrative.

In seguito nell'originario elenco si sarebbero inserite varie interpolazioni fino al testo del Curiosum, dal quale a sua volta sarebbe derivato il testo della Notitia, con voci più numerose e Costantino citato come divus, dopo la sua morte.

Dunque la citazione dell'obelisco di Costanzo II nel Curiosum sarebbe un'interpolazione successiva. Anche lo scopo dell'elenco e il criterio per la scelta dei monumenti da citare, che non sembrano essere tutti quelli importanti all'epoca, è incerto: si è proposto che i monumenti fossero riferimenti topografici per indicare i confini delle regioni o di loro successive suddivisioni, ma non convince. I riferimenti numerici sono probabilmente tratti da documenti ufficiali, redatti a scopo amministrativo.



MANOSCRITTI

 Le versioni manoscritte, attraverso le quali i due elenchi sono giunti fino a noi sono:

Per il Curiosum: -
  • Vaticano latino 3321 (in scrittura onciale, forse derivato da un manoscritto in scrittura capitale), VIII secolo; 
  • Vaticano latino 1984 (scritto da varie mani in tempi diversi), XI-XII secolo; 
  • Vaticano latino 3227 (in scrittura beneventana minuscola), forse appartenuto all'abbazia di Montecassino, tardo XI - primo XII secolo; Laurenziano 89 sup.67, selezione in forma compressa del testo presente nel manoscritto Spirense, oggi scomparso. 
 Per la Notitia: -
  • Vienna (collezione nazionale), latinus 162, del IX secolo; 
  • Cattedrale di Speyer, manoscritto dell'VIII-X secolo, perduto alla metà del XVI secolo ma con alcune copie di varia attendibilità. 
  •  La Cronografia del 354. 


LA CRONOGRAFIA DEL 354

 - Nell'antica roma un ricco aristocratico cristiano di nome Valentinus ricevette un codice contenente un calendario illustrato per l'anno 354, insieme a un gruppo di documenti non illustrati, inclusa una lista di nomi di consoli, prefetti e vescovi di Roma a quella data.

Altre sezioni illustrate includevano il ritratto del console di quell'anno e il suo segno zodiacale. La calligrafia era di eccezionale qualità, essendo opera del più famoso calligrafo del secolo, Furius Dionysius Filocalus. Infatti Filocalo, da seguace cristiano, aveva aggiunto il proprio nome a fianco degli auguri di benessere per Valentino, che ornavano la pagina di apertura del codice.

 Le illustrazioni che accompagnavano il testo erano le prime illustrazioni a piena pagina di un codice nella storia  dell'arte occidentale, e anche esse possono essere state eseguite da Filocalus. Il codice originale continuò ad essere usato a lungo dopo il "giorno di Valentino".

 - Polemius Silvius probabilmente lo consultò, almeno un secolo più tardi, per il proprio calendario del 449, e  nel VI sec. fu preparato un planisfero per l'anno 579, che sembra sia stato illustrato con copie di illustrazioni dal codice del  354.
 - Altre tracce della sua esistenza sono in S. Columbanus di Luxeuil che avrebbe copiato il suo ciclo pasquale nel 602, e un lavoro anglosassone del 639 può riferirsi ad esso.
 - L'antico codice esisteva ancora nel IX sec., quando, a causa delle sue associazioni con l'età di Constantino, venne fatta una copia completa e fedele, il Luxemburgensis, oggi perduto.

 - Allo stesso tempo fu eseguita una copia illustrata del testo, entrambi direttamente dall'originale o per un intermediario. Quest'ultimo è ora San Gallo 878.

Da questo momento non vi sono altre tracce dell'originale autografo; infatti nel IV sec. sono meno di 20 i codici sopravvissuti (vedi E. A. Lowe, Codices Latini Antiquiores, Oxford, 1934, vol. 1: codices I, IV, XIV-XV).

 - Nel Rinascimento, la scoperta della copia del IX sec. causò grande emozione, ispirando diverse copie nel XVI e XVII sec.. Sfortunatamente i fogli andarono perduti nel Rinascimento, e la copia migliore (il Romanus), che era stata eseguita sotto la supervisione dello scolaro Nicholas-Claude Fabri de Peiresc, venne eseguita dopo questo evento.
Alla morte di Peiresc il Luxemburgensis era perduto. La nostra conoscenza del testo  è quella delle copie superstiti del rinascimento, nessuna delle quali appare adeguata.



IL TESTO

Il testo è una raccolta preziosa di dati sulla società romana, meno noto di quanto meriti, ma non un singolo volume contiene una edizione stampata della Cronografia nel suo complesso.
Theodor Mommsen pubblicò la parte 6,  il calendario,  in Inscriptiones Latinae Antiquissimae. Pubblicò il rimanente, senza illustrazioni, nel Monumenta Germaniae Historica, Chronica Minora

Le illustrazioni appaiono solo nel recente volume di Michele Salzman, che consiste di fotografie di manoscritti in monocromo, senza dubbio in copyright. Il perduto Codex Luxemburgensis illustrato del IX sec., manoscritto copia dell'originale del IV sec. ha in B. una nota che lo indica appartenente a Jean Brenner.Brenner, genero di Remacle Huart, custode degli archivi di Lussemburgo.

La descrizione di Peiresc comprende anche i dettagli della sua esecuzione. Egli registra i colori degli inchiostri usati nelle varie sezioni, e aggiunge che il testo del calendario, le calende, idi e nomi delle feste celebrate in questi giorni, e le notazioni astrologiche dei movimenti del sole nei vari segni zodiacali sono state scritte in inchiostro rosso in caratteri maiuscoli.

Lo schema dei colori è coerente con la pratica carolingia, e, per il calendario, riproduce l'uso del rosso e nero come sui calendari scolpiti sui muri nell'antichità. Lo schema dei colori è riprodotto in una certa misura nelle copie.
Questo manoscritto, mandato ad Aleandro il giovane nel Dicembre 1620, contiene solo le illustrazioni delle città imperiali, le dediche, le illustrazioni dei due consoli per l'anno, e la decorazione architettonica per le liste che iniziano con il Natales Caesarum. 1620, Biblioteca Apostolica Vaticana Codex Vaticanus latinus 9135. Illustrato.



LE FONTI DELLA  CRONOGRAFIA

I manoscritti del testo non contengono tutti le sezioni stesse. Ecco un elenco di tutte le sezioni:

- I. Dedica a Valentinus. (R1, fol.1; B, fol. 197; V, fol. 1)
- II. le 4 città Tyches: immagunu dello spirito delle città di Roma, Alessandria, Constantinopoli, e Trier. (R1, fols. 2-5) III.
- III. Dedica imperiale. (R1 fol.6, poi Lista dei Natali dei Cesari, poi R1 fol. 7; B fol. 198) IV.
- IV. I 7 pianeti e le loro leggende. (R1, fols.8-12).
- V. Effetto XII Segni. (S, G, fol 241).
-  VI. Calendario. Illustrazioni e testo dei mesi.
- VII. Ritratti dei consoli, Augustus Constantius e Caesar Gallus. (R1, fols. 13, 14)
. VIII. Lista dei consoli dal 508 a.c. al 354 d.c..
- IX. Ciclo orientale d.c. 312-358, con una continuazione fino al 410.
- X. Lista di Prefetti Urbani di Roma dal 254 - 354 d.c., finendo con Vitrasius Orfitus, che prese il suo officio l'8 Dicembre 353.
- XI. Deposizioni dei Vescovi di Roma dal 255 al 352, finendo con la sconfitta del vescovo Julius, d. 352.
- XII. Deposizioni dei Martiri. (B, fol. 195v; V, fol. 44; A, fol. 1)
- XIII. Lista dei vescovi di Roma, finendo con Liberius che prese il suo ufficio nel 352.
- XIV. Regioni della città di Roma (Notitia), datata 334-357 d.c.
- XV. Liber generationis, dalla creazione al.334.
-  XVI. Chronica Urbis Romae, dai re di Roma fino alla morte di Licinius nel.324 d.c..
-  XVII. Fasti Vindobonenses,  390-573/575 d.c.

Il testo contiene pure statistiche amministrative, probabilmente della prefettura cittadina; non è nella forma originale ma in due forme più tarde.

La prima di queste non ha titolo nei manoscritti trovati ed è riferito dagli studiosi moderni come Notitia urbis Romae regionum XIV. L'altra ha un titolo che è: Curiosum urbis Romae regionum XIIII. Il termine curiosum è solo il lavoro di un barbaro copista.



LA NOTITIA

La Notitia data al 334 d.c. o più tardi, come si riferisce alla statua equestre di Constantino, dedicata in quell'anno. Può datarsi nel 357 d.c., quando fu eretto il sesto obelisco nel Circo Massimo da Costantino.



IL CURIOSUM

 Il Curiosum non menziona questo obelisco, il che significa che ha una data posteriore al 357. Polemius Silvius usa il Curiosum nel suo calendario scritto nel 449 d.c., cheè quindi ilterminusantequemper questarecensione. Alcuni suggeriscono che se manca la menzione alle mura restaurate da Honorius nel 403 esso è anche significativo; ma poi non si menzionano le mura costruite da Aureliano dal 270-82.
Nordh d'altra parte valutadue testia seconda di quantosi siano discostatidal suoipotetico testoprimitivo,piuttosto che dallapresenzaoassenza dimonumenti. Egli nota l'aggettivo "divus" assegnato a Constantino, che rende entrambe le versioni post-constatiniane. Egli giunse alla conclusione che il Curiosum fosse un testo precedente. Le statisiche della fine del testo non coincidono con le altre versioni.
Questo suggerisce che essi abbiano un'origine indipendente, o che si siano corrotti nella trasmissione.


I manoscritti del Curiosum:
  • Siglum Location Shelfmark; Notes Date / Century A Rome, Vatican Vatican latin 3321. 
  • Pergamena. Scritti in onciale, probabilmente nel centro Italia (Lowe, Cod. Lat. Antiquiores I, p. 6). Deve derivare da un manoscritto in capitoli. Fonti:  Sul frontespizio è il manoscritto di Fulvio Orsini: « Lexicon di voce sacre et profane con alcune operette di Isidoro Ispalense, et altri, scritto di Lettere maiuscole, in 4° in carta pergamena, tocco dal Panormita. Fulv. Urs.» Dopo il frontespizio vi sono due pagine non numerate in onciale. Glossarium Synonyma, con l'aggiunta più tarda di Differentiae verborum Hisidori iunioris, i.e. Etymologiae Nel centro, on ff. 225b-228b, il Curiosum. Sull'ultimo foglio vi sono le parole «Ant. Panormitae» VIII   B Roma, Vaticano Vaticano latino. 1984. 
  • Pergamena. scritto a varie mani e vari tempi. Fonti: Estratti del Breviarium di Eutropius, con l'aggiunta di Paolol il diacono e Landolfo Sagace. Curiosum, on ff. 7a-8b. Miraculum primum. Capitolium Roma. L'accordo di Worms. Una lista di imperatori da Augustus a Constantius II. L'inizio dei regni degli Assyrians, delle Amazzoni, e degli Sciti. La caduta di Troia. Un estratto della Historia Francorum Paolo il diacono, Historia Langobardorum (incompleta) Historia Apolloni regis Tyri Alexandri Macedonis epistulam ad Aristotlem Un altro estratto di Historia Langobardorum Estratti delle controversie dei Lombards coi papi. Il falso decreto di Adriano I. Estratti dal Liber Pontificalis di Zaccaria, Stefano II e III, Leone III "atti di pontefici mescolati ad annali romani" 11-12 C Rome, Vatican Vatican latin 3227.
  • Pergamena, in Beneventano minuscolo. Il codice sembra appartenesse all'abate di Monte Cassino. Sul margine 24a è scritto "Casinum" e sull'ultimo foglio "Raynaldus dei gratia", redatto 1137-1155. D'accordo con Lowe (Scritti Beneventanit, p. 362) è precedente al XII sec.; Bannister (Monumenti Vaticani di paleografia musicale latina, Lipsia, 1913, p. 125, n. 356) concorda. Fonti:                                        una nota di Fulvio Orsini: « Philippiche di Cicerone di Lettera Longobarda, Sogno di Scipione, et P. Vittore epitomato. Fui. Urs. ».                                                                                                        Cicero, Philippics Versus XII Sapientum (Poet. lat. min. ed. Baehrens, IV, p. 139, n. 141)               L'inno, O Roma nobilis, Poema amoroso: O admirabile Veneris ydolum, descrizione delle regioni di Roma,  ff. 81a-83a. Cicero, Somnium Scipionis 11-12 D Firenze, Biblioteca Mediceo-Laurenziana Laurentianus pluteo 89 sup. 67.
  • Pergamena. Sul margine si legge: Descriptiones terrarum et aquarum a romanis script[oribus].Il codice contiene una forma compressa di testi contenuti nel perduto manoscritto Spirensis della Notitia Dignitatum. Fonti: Ps. Eticus, Cosmographia (erratamente titolata Orthographia) Itinerarium Provintiarum Antonii (Antonini) Augusti Itinerarium maritimum, quae loca tangere navigaturus debeat Itinerarium portuum vel positio navium; De septem montibus Romanae urbis De aquarum ductibus Romam rigantibus Regiones urbis Romae cum breviariis suis (ff. 34b-37a) Una forma contaminata del testo. una commistione di Notitia e Curiosum. Vi è pure un testo siriaco.


 I MANOSCRITTI de LA NOTIZIA

sono: Siglum Location Shelfmark; Vienna, National collection Latin. 162. Pergamena - Fonti:
  1. - Catalogo delle regioni (ff. 1a-5a) 
  2. - Descrizione di Constantinopoli 
  3. - Latin-German glossary di Rabanus Maurus da Glossae spirituales iuxta Eucherium episcopum. IX   B perduto. Questo manoscritto fi perduto fin dal XVI sec. quando venne censurato. Gli ultimi 6 lavori vennero decorati con illustrazioni. Alcune copie li riproducono, con varia fedeltà, che possono essere controllati in quanto alcuni fogli illustrati sono finiti nel cottage Norfolk come quadri in cornici. La descrizione di Roma era prefissata con un'immagine di donna seduta in trono con la lancia un una mano e uno scudo nell'altra. In cima era stato aggiunto « Urbs quae aliquando desolata, nunc clariosior  piissimo im perio restaurato », probabilmente riferito alla restaurazione Carolingia dell'imperatore. Il manoscritto non può essere precedente all'VIII sec., quando scrisse Dicuil, o al più tardi nel X sec., quando se ne fecero delle copie. 
  4. - Situs et descriptio orbis terrarum (pseudo-Etico) 
  5. - Itinerarium Antonini De montibus et aquis urbis Romae 
  6. - Liber de mensura orbis terrae (Dicuil) 
  7. - Notitia Galliarum Laterculus Polemii Silvii 
  8. - De montibus, portis et viis urbis Romae 
  9. - De rebus bellicis Altercatio Hadriani Augusti et Epicteti philosophi 
  10. - Descriptio urbis Romae 
  11. - Descriptio urbis Constantinopolitanae 
  12. - De gradibus cognationum 
  13. - Notitia Dignitatum. 8-10 a Oxford, Bodleian.
  14. - Pergamena. Il nostro catalogo è in 81a-84a. Acquistato da Bodleian nel 1817;  precedentemente a Venezia. Alla fine dell'ultimo test è scritto: « Exemplata est hec cosmographia, que Scoti dicitur, cum picturis ex vetustissimo codice quem habui ex Spirensi bibliotheca, anno Domini mccccxxxvi, mense ianuario, dum ego Petrus Donatus, Dei pacientia episcopus Paduanus, vice sanctissimi domini Eugenii pape IIII generali Basiliensi concilio presiderem». Questa cosmografia, chiamata Scozzese, fu copiata con le pitture da un codice antichissimo avuta dalla libreria di Speyer, 1436, Gennaio, mentre Pietro Donato, per la pazienza di Dio vescovo di Padova, dal potere del santissimo papa  Eugenius IV mentre presiedeva il concilio generale a Basilea. Vanno fatte due aggiunte: 
  15. - La misura delle province che non era nei precedenti codici, ma tratta da antico libro, 
  16. - Cyriaci Anconitani de septem mundi spectaculis (in Greco e Latino, 1436 b Paris, Bibliothèque Nationale. 
  17. - Pergamena. Il nostro catalogo è in 66a-68a. Non copiato dalla copia di Donato. Un'immagine monocromatica di Roma, con i dettagli di Speyer presenti in Valentini,  p.161. 15 c Vienna, National library. Copia diretta dello Spirensis. Lat. 3103 (Salzburg, 18 b). Datato alla fine "anno Domini 1484". Il nostro catalogo è in 65b-67b. Furono lasciati fogli bianchi per le illustrazioni, però mai eseguite. 1484 d Munich, State library copia diretta dello Spirensis. Latin. 10291 (Palat. 291) 
  18. - Pergamena. Notitia su 81a-84a. Questa copia rimarchevole per l'eleganza dei caratteri e la bellezza delle illustrazioni, fu eseguita nel 1542, come è indicato sotto l'immagine di Roma. Sul frontespizio c'è questo avvertimento, scritto tra il 1544 e il 1551: « Hic liber, cui titulus Itinerarium Antonini, ad verum atque archetypum exemplar descriptus Illustrissimo Principi ac domino domino Othoni Henrico, Comiti Palatino Rheni, utriusque Bavarie Duci  tanquam anti quitatis amatori atque indagatori studiosissimo, a venerabilibus ac honestis Cathedralis Ecclesie Spirensis Decano atque Canonico [Canonicis ?] dono missus est». (questo libro, intitolato Itinerarium Antonini, copiato dal vero esemplare per i più illustri Principi e lord, Lord Otho Heinrich,  etc, ..., dal più venerabile e onesto diacono e canonico della cattedrale di Speyer, inviato come dono). Cf. Seeck, Hermes IX (1875) pp.218-28 per tutte queste copie. 
  19. - Nel 1890 H. Omont scoprì un foglio della Notitia Dignitatum tra le lettere di Sir Thomas Phillipps in Cheltenham (ms. 16397), intitolato Mappa Mundi, dove si legge alla fine: « Explicit Mappa Mundi scriptum per Antonium Angeli de Aquila, sub anno Domini Millesimo CCCCXXVII, de mense iulii, die XIII eiusdem mensis».   Se il testo fosse completo, indicherebbe una copia prima di qualsiasi ormai noto, e che una copia scritta nel 1427 esisteva è testimoniata da Girolamo Surita nella sua edizione di Itinerario di Antonino (Coloniae Agrippinae, 1600, p. 174): 
  20. - « codex bibliothecae Neapolitanorum regum, qui postea Cardinalis de Ursinis fuit, anno 1427 exscriptus».  ( manoscritto della biblioteca del re di Napoli, che in seguito appartenne al cardinale Orsini, scritta nel 1427 ) 1542 Munich, State library Ms. lat. 794 (vict. 99) Copiato da una copia di Spirensis. 
  21. - Madrid, Biblioteca Nazionale.  Copiato da una copia di Spirensis.  
  22. - Vienna, National Library Ms. 12825 (suppl. 14)  Copiato da una copia dello Spirensis.  
  23. - Paris, BNF Ms. nouv. acquis. 1424.  Copiato da una copia di Spirensis.  Un tempo appartenne al cardinal Francesco Soderini e probabilmente copiato da quello tra il dicembre 1523 e il 1524. 
  24. - Vienna, National Library Ms. lat. 3102 (Salisburg. 30 b). Copiato da 'c' (3103),   anche se dice il contrario, per ordine di Bernardo di Cles, vescovo di Trento, come la seguente nota sul f. 1 mostra: « Librum hunc a satis incorrectum, incorrecte etiam est iussu nostro transcriptum ex antiquo exemplari reperto in Bibliotheca Capitulari Spirensi, dum ibi essemus cum Serenissimo Rege Ferdinando. in conventu imperiali anno 1529. Bern. episcopus Trid. » 
  25. -  1529 Roma, Vaticano. Barberini lat. 809.  Copiato da una copia dello Spirensis . 16 C/V Vienna, National Library Ms. 3416 (hist. prof. 452). 
  26. - 1 Foglio.1-70 contiene la Chronografia del 354, includendo la Notitia.
  27. - Una nota a margine riporta la data del 1480, in accordo al Valentini (p.82). ff. 71 contiene:Chronica Polonorum di Vincent Kadlubek 
  28. - De origine Getarum of Jordanes1480 I seguenti manoscritti originali sono listati da Valentini come contenente materiale che liquida come di nessun valore, senza essere più preciso: Cambrai 554, sec. XII. Firenze, Laurenziana Aedil. Fior. Eccles. 87, XIII sec. Libreria Nazionale di Vienna lat. 609. 
  29. - Codice Gaddianò rei. 148 della bibl. Laurenziana di Firenze, sec. XIII. Cod. Vatican lat. 3191, sec. XV, mutilato. Il folio 15 contiene questa nota: « Publio Vittore, et altre cose, scritto di mano del med.mo [del med.mo è cancellato e nell' interlineo è stato scritto di Pomponio Leto] in papiro, in 4o. Fulv. Urs. ». Ma la mano non è di Pomponio Leto, come da comparazione con le sue copie conosciute. 
  30. - Cod. Vatican lat. 3851, sec. xv. Bibl. dell'Escorial S. III, 27, sec.XV. 
  31. -  Cod. Vatican Ottob. lat. 2072, saec. XV. 
  32. -  Cod. Vatican Ottob. lat. 2089, saec. XV. 
  33. -  Cod. Vatican Urbin. lat. 452, saec. xv. Bibl. Marciana, Venezia 3731, sec. XV. 
  34. -  Bibl. Naz. di Roma Sessor. 286, sec. XV. 
  35. - Bibl. Naz. di Napoli IV . D . 22, sec. XV. 
  36. -  National library, Vienna 3224, sec. XV. 
  37. - Oxford, Bodleian, Canon. miscell. lat. 214, saec. XV. 
  38. - La prima edizione delle 14 regioni fu di Gelenius, Notitia utraque cum orientis tum occidentis ultra Arcadii Honoriique caesarum tempora..., nel 1552, a Basilea, basata sulla collezione Spirensis.


    NOTITIA DIGNITATUM

    La Notitia Dignitatum è un documento unico delle cancellerie imperiali romane. Uno dei pochissimi sopravvissuti documenti del governo romano, esso descrive l'organizzazione amministrativa degli imperi di oriente e occidente dalla corte imperiale alle province.
    Generalmente si usa considerare la data dell'impero d'occidente il 420 d.c., e dell'impero d'oriente il 400. Comunque, nessuna data è assoluta, e vi sono omissioni e problemi. Fonti: compilato dall'editore da varie fonti.

    Un manoscritto ufficiale bizantino, contenente una lista di impegni di corte, civili e militari, con statistiche, etc.  una sorta di libro di stato compilato nel 410 d.c., editato da Seeck (Berlino 1876). Vedi Giuliano in  Mélanges d'Archéologie, i. 284; iii. 80. (references) Notitia Regiōnum Antiquities Notitia Regiōnum. Una sopravvivenza delle XIV regioni in cui Augusto divise Roma. Fu eseguito al tempo di Constantino e specifica i principali edifici nei quartieri. Consta di due liste, la prima chiamata Notitia e la seconda Curiosum Urbis Romae Regionum XIV. Vedi Jordan, Topographie der Stadt Rom, vol. ii. (Berlin, 1871), e id., Forma Urbis Romae Regionum XIIII. (Berlin, 1874). 


    CHIESE EDIFICATE SOPRA I TEMPLI 

    Nello studio dell’inserimento dei luoghi di culto cristiano a Roma in edifici preesistenti tra il IV e il IX secolo, si è preso coscienza  delle chiese interessate a questo fenomeno.

    - 1 - Il Liber Pontificalis
    Il più noto gruppo di fonti di particolare valore per l’archeologia cristiana è il Liber Pontificalis.
    Si tratta di una raccolta di bibliografie, composta attraverso i secoli da vari redattori, preziosa per le notizie in essa contenute; oltre alle informazioni consuete relative alla provenienza del papa o agli anni di pontificato, spesso, infatti, vi si trovano notazioni sulla costruzione di edifici di culto, interventi di restauro a chiese già esistenti, ricordi di donazioni con cui i pontefici arricchivano il corredo delle basiliche, oltre a indicazioni topografiche e toponimi del tessuto urbano di Roma.
    Da molti autori e per molto tempo questa compilazione fu attribuita a papa Damaso e ad Anastasio Bibliotecario vivente nel sec. IX. Monsignor Duchesne, alla fine del XIX secolo, seguito poi dal Grisar, ha dimostrato che essa è anonima, o meglio dovuta alla penna di più redattori, molti dei quali ebbero a disposizione materiale abbondante, altri invece, specialmente per le biografie dei primi pontefici, fonti scarne e di disuguale valore.

    - 2 - Archeologia Cristiana.
    Nozioni generali dalle origini alla fine del secolo VI, Bari 1980, p.3. 2 Ibidem, p. 24.Il Liber Pontificalis, di cui Duchesne pubblicò un’edizione critica.

    - 3 - Feliciana e Coroniana
    Comprende le vite dei papi da Pietro a Martino V (morto nel 1431). L’esistenza di vari manoscritti permise allo studioso di individuare una prima redazione dell’opera, caratterizzata dall’unitarietà compositiva, che dovette interrompersi con la biografia di Felice IV (morto nel 530), composta da un contemporaneo; questa è pervenuta sino a noi non nella versione originale, ma tramite due epitomi: una detta “Feliciana” perché giunge appunto sino al 530, elaborata evidentemente poco dopo quella data ed un’altra detta “Cononiana” dall’ultima vita riportata, quella di papa Conone (morto nel 687), composta, quindi aggiungendo al nucleo originario le altre biografie. Esiste poi una seconda redazione, elaborata sempre sulla  prima, ma rivista e arricchita, che si arresta però al tempo di papa Silverio (morto nel 537).
    Vari manoscritti hanno poi tramandato le biografie dei pontefici successivi, in genere da contemporanei, con le quali è stato possibile ampliare la raccolta fino al pontificato di Martino V. Nelle biografie dei vescovi di Roma ricorre spesso, come si diceva, la menzione delle opere compiute dai papi 4 e tra questeimteressanti le date e i fatti delle trasformazioni di vari edifici (domus o templi) in luoghi di culto.
     Nella biografia di Pio I (141-155) si riprende una notizia dagli Atti delle Sante Pudenziana e Prassede: Hic ex rogatu beate Praxedis dedicavit ecclesiam thermas Novati, in vico Patricii, in honore sororis sue sanctae Potentianae 

    - 5 . Presentando la vita di papa Marcello (308-309) si afferma: damnatus est in Catabulum (la scuderia e deposito di merci della corporazione dei pubblici spedizionieri). Matrona quaedam, nomine Lucina, vidua… quae domum suam nomine beati Marcelli titulum dedicavit…

    - 6 . Arrivati a papa Silvestro (314-335) si parla della chiesa titolare costruita sul fondo del presbitero Equizio iuxta thermas Domitianas, ma non si parla delle strutture preesistenti e le terme, in verità, sono di Traiano; di poi si presentano i doni fatti alla basilica lateranense e dopo aver presentato le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo si afferma: Eodeam tempore fecit Costantinus Augustus basilicam in palatio Sessoriano, ubi etiam de ligno sanctae Crucis domini nostri Iesu Christi in auro et gemmis conclusit, ubi et nomen ecclesiae dedicavit, quae cognominatur usque in hodiernum diem Hierusalem

    - 7 - Liber Pontificalis
    Texte, introduction et commentaire, voll. III, Parigi 1886.
    - “Liber Pontificalis” e gli edifici ecclesiastici di Roma nella tarda antichità e nell’alto medioevo, Groningen 1975. L’Autore mette in evidenza il complesso di problemi filologici, storiografici e archeologici del Liber Pontificalis in modo particolare per quanto riguarda le biografie di Adriano I, Leone III e Gregorio IV.
    - Liber Pontificalis, I, 132 (d’ora in poi abbreviato in LP). Si fa riferimento ad Acta Sanctorum, maii, IV, 299. Osservazioni sugli edifici romani in cui si insediò l’ecclesia Pudentiana, in Ecclesiae Urbis, II, pp. 1033- 1071. 6 LP I, 164. 7 Ibidem, 179. Mi è sembrato importante segnalare la notizia di papa Sisto III (432-440) il quale ottiene il permesso imperiale per poter costruire una chiesa in onore di S. Lorenzo: fecit autem basilicam sancto Laurentio, quod Valentinianus Augustus concessit 

    - 8 .
    - Papa Felice IV (526-30) fecit basilicam Sanctorum Cosmae et Damiani in urbe Roma, in loco qui appellatur via Sacra, iuxta templum urbis Romae.  Si riteneva infatti che papa Felice IV avesse trasformato in chiesa l’antico edificio romano mediante la costruzione dell’abside, ma sembra che questa risalga al IV secolo. Felice ha solo decorato con mosaico l’abside, lasciando intatto l’edificio. Bisogna notare che il templum urbis Romae è quello di Venere e Roma.

    - 9 .
    - Gregorio Magno  fondò nel palazzo della sua famiglia tra il 575 e il 581, dunque molto prima della sua elezione a pontefice, un monastero: domum suam constituit monasterium. Trattasi del monastero in clivo Scauri.
     - Papa Bonifacio IV (608-615) Eodem tempore petiit a Focate principe templum qui appellatur Pantheum, in quo fecit ecclesiam Beatae Mariae semper virginis et omnium Martyrum
    Questa richiesta di Bonifacio IV, come l’autorizzazione data più tardi da Eraclio per la rimozione delle tegole del tempio di Roma, dimostra l’autorità imperiale a Roma nonostante le funzioni assunte dal papato nel governo cittadino con Gregorio Magno. Con l’acquisizione e dedicazione del Pantheon la Chiesa diventa proprietaria di uno dei più bei monumenti che fossero allora dentro la città.
    - Di papa Onorio (625-638) si dichiara fecit ecclesiam Beati Adriani in Tribus Fatis, quam et dedicavit… Fecit autem in domum suam iuxta 

    - 10.
    - Lateranis monasterium in honore sanctorum apostolorum Andreae et Bartholomei, qui appellatur Honorii. Si tratta della chiesa di S. Lorenzo in Lucina. Infatti l’intervento di Valentiniano è giustificato dalla concessione di un’area statale, quella cioè della meridiana di Augusto. Cfr. Hillnerr J.,
    - Le chiese di Roma e l’occupazione degli spazi pubblici, in Ecclesiae Urbis, I, pp. 321-329. , Nestori A.,   - Da Gregorio Magno (590-604) a Leone III (793-816).
    - Si veda anche Giovanni Diacono, Vita Sancti Gregorii (PL LXXV, 61ss, col 65). Il monastero fu dedicato a S. Andrea. Come monasterium S. Andreae qui appellatur clivum Scauri e simili denominazioni appare nel Liber Pontificalis I, 471, 480; II, 22 e in altri documenti dal VI al XII sec.
    Nella biografia di Gregorio Magno, Giovanni Diacono descrive, tra l’872 e l’882, il monastero molto dettagliatamente, inclusi i due oratori, uno dei quali dedicato alla Vergine Maria e l’altro a S. Barbara; lì presso era un triclinium, un atrio vicino a un nymphaeum con ritratti murali dei genitori di Gregorio accanto a S. Pietro e la cantina dei monaci con dentro una piccola abside che serbava un ritratto di S. Gregorio in un tondo di gesso (coll. 229,230). 12 LP I, 317.
    Il termine iuxta compare 166 volte, salvo omissioni, nel Liber Pontificalis ed il significato è: “accanto, vicino a…”. Il termine nella sua accezione topografica assume un valore elastico: si passa da “vicinissima” a “relativamente distante”. Si prosegue poi per il nostro argomento con Gregorio II (715-731) il quale post matris obitum domum propriam in honore sanctae Christi martyris Agathae, additis a fundamento cenaculis, vel quae monasterii erat necessaria, a novo construxit 
    L’accenno alla casa privata di Gregorio II trasformata in monastero pare difficile stabilire a quale delle sette chiese dedicate a S. Agata in Roma si possa riferire. Anche papa Paolo I (757-67) in sua propria domu monasterium a fundamentis in honore sancti Staphani, scilicet martyris atque pontificis, necnon et beati Silvestri, idem pontificis et confessoris Christi, construxit 

    - 11 .
    - Nell’abbondante biografia di papa Adriano I (772-795) si parla dell’ampliamento della diaconia di S. Maria in Cosmedin. Il pontefice utilizzò i materiali di un monumento antico distrutto con un immenso rogo: diaconia vero Sanctae Dei genetricis semperque virginis Mariae, quae appellatur Cosmidin, dudum breve in edificiis existens, sub ruinis posita, maximum monumentum de tubertinos tufos super ea dependens, per annum circuli plurima multitudo populi congregans, multorumque lignorum struem incendens, demolivit. Simulque collectio ruderum mundans, a fundamentis aedificans, praedictamque basilicam ultro citroque spatiose largans, tresque absidas in ea construens praecipuus antistes, veram Cosmidin amplissima noviter reparavit
    - Sotto Adriano I, dunque, un grande edificio a blocchi di tufo, in rovina e incombente sulla diaconia di S. Maria in Cosmedin, fu demolito; l’antica basilica, quindi, fu allargata di molto e ricostruita dalle fondamenta, con tre absidi. Il Liber Pontificalis parlando di seguito del restauro della basilica dei SS. Cosma e Damiano, la qualifica come sitam in Tribus Fatis. Invece nella biografia di Leone III (795-816) è la basilica di S. Martina ad essere collocata in Tribus Fatis. Elencando i doni di Leone III alla chiesa di “Gerusalemme” si specifica quae ponitur in Sussurrio.
    - Anche Leone IV (847-855) fa dei doni alla chiesa di “Jerusalem”: et in Suxorio fecit ciburium
    - Nella biografia di Stefano V (885-891) si parla ancora di offerte del pontefice in aecclesia quae vocatur Hierusalem in Sussurrio

    - 12 .
    - Infine nella continuazione del Liber Pontificalis di Pietro Guglielmo e nella recensione del XV secolo è la chiesa di S. Adriano ad essere posta in Tribus Fatis 23 quando sono elencate le chiese consacrate da papa Pasquale II (1099-1118). Le Tria Fata erano le statue femminili in bronzo che sorgevano nel Foro, presso i Rostra Augusti, di rimpetto alla Curia, non lontano dal tempio di Giano (forse le Carinae?). Tutti sanno che il redattore del Liber Pontificalis qualche volta potrebbe non essere del tutto obiettivo. Può accadere che, per ingraziarsi il personaggio del quale sta componendo la biografia, usi termini forse non aderenti alla realtà ed allora ci potremmo trovare di fronte ad indicazioni un poco enfatizzate. Tuttavia non si può mai parlare di un ribaltamento dello stato delle cose, perché scrivendo per dei contemporanei l’assertore delle notizie poteva essere subito smentito.

    Fonti ricavate da itinerari, cataloghi e sillogi. Per la grande quantità dei pellegrini che venivano a Roma, stupefatti dinanzi alla bellezza delle basiliche ed emozionati davanti alle reliquie dei martiri, si sentì il bisogno di tracciare semplici guide che fornissero le indispensabili informazioni topografiche e i nomi dei martiri.
    Altre composizioni, poi, le compilarono gli stessi pellegrini con l’intento di descrivere le cerimonie viste e i tesori dei monumenti visitati a ricordo del loro pellegrinaggio.
    Nacque così un gruppo speciale di lavori, detti dal loro contenuto itinerari, cataloghi e sillogi, vere e proprie guide ad uso dei pellegrini che si recavano a venerare le tombe dei martiri. Si tratta, in particolare per gli esemplari più antichi, di testi estremamente chiari che si distinguono per la precisione delle indicazioni riporate.

    - 13 .  Gesta regum Anglorum di Guglielmo di Malmesbury
    L’itinerario romano viene inserito da Guglielmo nel XII sec. nel testo Gesta regum Anglorum,  in Codice topografico della città di Roma, a cura di Valentini R. e Zucchetti G., II, Roma 1942, pp. 138-153, ma è decisamente più antico, come si deduce da alcuni particolari che un redattore medievale non avrebbe più potuto annotare ai suoi tempi a causa dell’abbandono in cui erano caduti molti cimiteri suburbani. Guglielmo di Malmesbury probabilmente era nato intorno al 1080 ed era monaco bibliotecario nell’abbazia benedettina di Malmesbury.

    L’incarico di bibliotecario gli diede la possibilità di conoscere non solo le fonti della storia inglese, ma anche quelle di altre regioni e degli scrittori classici e sacri in possesso delle biblioteche inglesi.
    Il testo Gesta regum Anglorum inizia dai tempi dell’occupazione romana ed arriva al regno di Enrico I. Nel IV libro l’Autore inserisce la cronaca della I crociata e parlando del passaggio delle soldatesche per l’Italia sotto il comando di Roberto, fratello del re d’Inghilterra, e dell’aiuto a Urbano II per rientrare a Roma, Guglielmo interrompe il suo racconto per una digressione sulla città eterna e un catalogo delle porte e dei luoghi santi di Roma.

    La digressione si chiude con la lamentela sullo scempio che si faceva allora dei luoghi sacri romani. L’Autore utilizza un documento a carattere topografico collocabile tra il 648 e il 682. Il documento, dopo aver presentato la XIV porta e la via Aurelia, descrive il monte Celio sottolineando il fatto che è intra urbem. In questo modo si evidenzia l’unico caso in cui i corpi dei martiri sono deposti in una sepoltura dentro la città.

    Infatti, i martiri Giovanni e Paolo sono posti in sua domo, quae est facta ecclesia post eorum martyrium; et Crispinus et Crispinianus, et sancta Benedicta 
    Si fa qui riferimento alla Passio dei SS. Giovanni e Paolo in cui è detto che Crispino, Crispiniano e Benedetta furono sepolti sul Celio in domo Ihoannis et Pauli, non longe ab ipsis

    - 14 . Mirabilia Urbis Romae
    Una speciale ammirazione era suggerita da questo itinerario ai pellegrini che si preparavano a visitare Roma anche con fantasiose leggende, non elaborate dalla immaginazione popolare, ma da eruditi medievali affascinati dalla città di Roma. Il libretto nato con funzione di guida per pellegrini, è costituito da una periegesi, seguita da un certo ordine topografico, con soste in luoghi di maggiore importanza: dal Vaticano si arriva al Campo Marzio, si sale al Campidoglio, per scendere al Foro Romano. Dal Palatino si scende al Colosseo e di lì all’Aventino, al Celio, al Laterano, al Viminale e al Quirinale. La rassegna termina con una visita a Trastevere. Il testo, nel medioevo, ebbe molta celebrità e diffusione.
    Dopo aver presentato le mura, le porte, gli archi trionfali, i colli, le terme, i palazzi e i teatri della città di Roma, si raccontano alcune leggende e si arriva al racconto di papa Bonifacio IV che chiede all’imperatore Foca il Pantheon.
    Siamo al cap. 16: Venit Bonifacius papa tempore Focae imperatoris christiani. Videns illud templum ita mirabile dedicatum ad honorem Cibeles, matris deorum, ante quod multotiens a daemonibus Christiani percutiebantur, rogavit papa imperatorem ut condonaret ei hoc templum; ut sicut in kalendis novembris dedicatum fuit ad honorem Cibeles, matris deorum, sic illud dedicaret in kalendis novembris ad honorem beatae Mariae semper virginis, quae est mater omnium sanctorum. Quod Caesar ei concessit 
    Al cap. 24 si dice: iuxta eum templum Fatale, id est sancta Martina; iuxta quod est templum Refugii, id est Sanctus Hadrianus; prope aliud templum Fatale…Templum Minervae cum arcu coniunctum est ei; nunc autem vocatur Sancti Laurentius de Mirandi. Da qui si ricava che il tempio, erroneamente denominato di Minerva, era unito ad un arco Iuxta eum Sancti Cosmatis ecclesia, quae fuit templum Asili. Retro fuit templum Pacis et Latonae; super idem templum Romuli. Purtroppo questa fonte ha nomi favolosi e talvolta inventati dei monumenti così si interrompe per sempre la trasmissione dei toponimi reali.

    Veniamo ora all’opera De Mirabilibus Urbis Romae
    compilata tra il XII e il XIII secolo da un erudito inglese: il “maestro Gregorio”. Formatosi culturalmente sugli scrittori classici, l’Autore affascinato dall’antica Roma non bada alla città cristiana e riferisce con passione artistica i monumenti pagani.
    Giunto alle porte di Roma, dall’altura di Monte Mario “così numerose sono le torri da sembrare spighe di grano, tante le costruzioni dei palazzi, che a nessun uomo riuscì mai a contarle”. Ho notato che Mastro Gregorio cita solo due templi tra i tanti presenti in città, soffermandosi, però, a spiegarli in dettaglio e con interesse. Le due strutture architettoniche hanno qualità di conservazione diverse: la prima, “il tempio di Pallade” andato in rovina già allora e ridotto a granaio, la seconda, il Pantheon, trasformato in chiesa cristiana appariva, al contrario, in perfetto stato, come è a tutt’oggi. Molte chiese medievali, come sappiamo, furono edificate su costruzioni preesistenti appartenenti a templi pagani ed il Pantheon rappresenta il caso di più grande interesse.
    Nel testo in esame si può annotare una grande confusione quando si parla dei templi antichi (tra le rovine romane ne vengono contati più di cento), ed il Pantheon viene considerato solo nella sua valenza cristiana, Mastro Gregorio non si sofferma, purtroppo, sulla trasformazione del tempio in chiesa, ma, di questo edificio, mostra un grande interesse per la struttura originaria della quale, primo fra tutti, offre una sommaria descrizione.
    Descrive poi le Mirabilia Urbis Romae in Codice topografico della città di Roma, III, p. 35. 29 Quest’arco venne demolito nel 1546. In esso si sono riconosciuti il fornix Fabianus e l’arco portico di Augusto.
    De Mirabilibus Urbis Romae in Codice topografico della città di Roma, III, pp. 143-167. 31 La descrizione è ricca di notizie sulla struttura e sulla storia del monumento, che si rivelano però insufficienti per permettere di identificare l’antico edificio con certezza.

    - 15.
    - Nardella C., Il fascino di Roma nel Medioevo,
    - le “Meraviglie di Roma” di mastro Gregorio, Roma 1998, pp. 78-80,
    - Il Panteon, le colonne che lo sostengono, le statue che decorano l’atrio, la larghezza del tempio per lui pari  a circa 43 m, la rovina del tetto originariamente risplendente per una copertura dorata (la rimozione delle tegole fu opera del bizantino Costante II, ma Gregorio la mette nel conto dell’avidità dei Romani)
    Specificatamente al cap.21
     (DePantheon) così è scritto: Pantheon autem brevi transitu praetereo, quod quondam erat idolium omnium deorum, immo daemonorum. Quae domus nunc dedicata ecclesia in honore omnium sanctorum Sancta Maria Rotunda vocantur, antonomastice quidem a prima et pociori parte, cum sit omnium sanctorum ecclesia. Haec quidem habet porticum spaciosam multis et mirae altitudinis columpnis marmoreis sustentatam. Ante quam conchae et vasa alia miranda de marmore porfirico et leones et cetera signa de eodem marmore usque in hodiernum diem perdurant. Huius domus latitudinem ipse mensus sum, habetque spacium CCLXVI pedes in latitudine. Cuius quondam tectum deauratum fuit per totum. Set inmoderatus amor habendi et auri sacra fames Romani popoli aurum abrasit et templum deorum suorum deturpavit. Qui ob inexplebilem cupiditatem, dum aurum sitivit et sitis, a nullo scelere manum retraxit aut retrhait.

    - 16. Petrarca
    Ora si lascia Roma e le leggende dei Mirabilia e si arriva agli umanisti che intendono risvegliare l’interesse per la città di Roma e le sue memorie. Il primo personaggio che si incontra è Francesco Petrarca che, con un brano del Familiarium rerum liber (VI,2,5-14), nei primi mesi del 1337 visitò Roma e ricevette un’impressione sconcertante, infatti agli amici  dovette confessare la propria incapacità di riprendersi dallo sbalordimento ricevuto “miraculo rerum et stuporis mole”. Il poeta sostò di nuovo a Roma in brevi soggiorni. In queste soste fuggevoli, nonostante le sue abbondanti conoscenze letterarie, il Petrarca, davanti alle rovine e ai monumenti dell’antica Roma dovette farsi solo un’idea imprecisa.
    Petrarca ricorda le passeggiate fatte tra le rovine di Roma con fra’ Giovanni Colonna dell’Ordine dei Predicatori, è piuttosto un susseguirsi di toponimi, di ricordi storici, che un itinerario che egli rincorre mentalmente. A noi interessa il riferimento al Pantheon, opera di Agrippa dedicato alla vera Madre di Dio: Hoc opus Agrippae, quod falsorum deorum matri veri Dei mater eripuit

    - 17. Giovanni Cavallini  nella suaPolistoria de virtutibus et dotibus Romanorum cerca di incoraggiare i Romani nello studio della storia della propria città. L’opera è dedicata a papa Clemente VI e composta dunque durante il suo pontificato (1343-1352). L’Autore è uomo di grande cultura grazie anche ai libri che ha potuto consultare sia a Roma che ad Avignone. Conosce molti autori latini. Dei medievali si avvale della Graphia 39 , cita leggende dei santi, emergono vicende di vita romana attinenti le famiglie romane più in vista. Il metodo di ricerca del Cavallini è meticoloso e ciò dà valore all’opera. Il capitolo 10° può avere dei riferimenti degni di attenzione per la mia ricerca. In esso si parla del rione De Campitello et Sancto Hadriano.
    Dopo aver spiegato il nome del quartiere “Campitelli” prosegue con la II pars regionis eiusdem dicitur regio Sancti [H]adriani, a nomine dicti sancti. Sed verius dicta est ab atriis et habitationibus ingentibus ipsius ecclesiae, quae fuit antea templum Asili, id est refugium a Romulo conditumac templum Cathellinae, ubi est hodie ecclesia Sanctae Mariae de Inferno et templum Mirandorum, ubi est hodie ecclesia Sancti Laurentii in Miranda, in qua egregia superiorum opera carmine comprehensa cantabant poetae huiusmodi mirandorum

    - 18.  Epistola
    Di Pier Paolo Vergerio il Vecchio 41 (1370-1444), pedagogista di Capodistria che visse a Firenze, viene riportata un’Epistola (LXXXVI). L’erudito vide per la prima volta Roma all’inizio del 1398. Facendo parte della delegazione diplomatica presso il papa Bonifacio IX, a nome di Francesco Novello da Carrara, ebbe l’occasione di visitare la città di Roma. L’impressione che ricevette fu molto negativa, dal punto di vista sia materiale sia morale. A Roma, però, il Vergerio si legò con vincoli di stima e di amicizia con Cosma Migliorati, il quale, una volta divenuto papa, lo riportò a Roma nella Curia Romana (giugno 1406) dove tenne il posto di segretario papale per tutto il breve pontificato di Innocenzo VII. Positivo invece è il giudizio sulla Roma cristiana.

    - 19. Ancora una volta il richiamo alla conversione di edifici romani in luoghi di culto è al Pantheon: Est praeterea templum mirificum Pantheon, ab Agrippa extructum, quod, ut olim Cybeli et reliquis daemonibus, ita nunc beatae Virgini et ceteris sanctis dicatum est. Quod a Foca Caesare impetratum Bonifacius quartus in nostram transtulit religionem. Anche questo passo è evidentemente debitore dei Mirabilia.

    - 20 . Tractatus de rebus antiquis et situ urbis Romae
    Di autore anonimo, da collocare al 1411 (si ricorda il restauro del corridoio tra Castel S. Angelo e il Vaticano). I documenti di riferimento sono i Graphia e i Mirabilia. L’Autore si è impegnato nell’evidenziare le corrispondenze tra la città antica e quella nuova. Mentre nei documenti precedenti, specie in quelli destinati ai pellegrini, abbiamo constatato un’egemonia lasciata alla Roma cristiana e alle chiese, qui incontriamo un carattere e un orientamento nuovi: la volontà di seguire l’antico testo dei Mirabilia nell’intento di identificare i singoli toponimi, cioè di illustrare la Roma classica. Delle mirabili chiese e famose reliquie neppure una parola. Si menziona una lunga lista di templi nei quali si sono inseriti i luoghi di culto cristiano. Gli esempi sono numerosi.
    Una citazione interessante si riferisce al Pantheon, idest templum Cybelis, et Sancta Maria Rotunda hodie vulgariter nominata, nulli dubium, ut patet in historia, fuit constructa per industriam Marci Agrippae et ex pecunia aerarii. Lucius Septimius et M. Aurelius Antoninus Pius, vetustate corrupta et incendio, restauraverunt eam ex omni cultu, ut per exhibita et epitaphia litterarum patet (dopo l’incendio il Pantheon fu restaurato da Adriano). Retro dictum locum Pantheonis fuit templum Minervae Calcidiae, videlicet vulgariter nunc est ecclesia Sanctae Mariae in Minerva, quae circa eam et in ea manifeste patet. Prosegue dicendo iuxta ipsum fuit templum Fatale publicum, idest ubi Sancti [H]adrianus. Ad sanctam Martinam fuit templum Refugii 44 …iuxta templum Faustinae et divi Antonini, quod Sanctus Laurentius in Miramento vocatur, est adhuc ecclesia Sancti Cosmae et Damiani, quae fuit aerarium imperatoris, et primo templum Latonae 

    - 21. De varietate Fortunae
    scritto da Poggio Bracciolini, che nacque nel 1380 a Terranova, non lontano da Arezzo. Studiò a Firenze. Nel 1403 si trovava a Roma dove Bonifacio IX gli offrì un posto nella cancelleria pontificia come scrittore delle lettere apostoliche. Era legato da vincoli di amicizia con Nicolò V. Proprio l’opera presa in considerazione è dedicata a questo pontefice e ha come scopo presentare la storia come un connettersi di sorti avverse e prospere. Vi è dunque l’idea di presentare la città di Roma come esempio del corso e ricorso della fortuna. Questo dà l’occasione a Poggio di presentare ai suoi contemporanei una minuziosa descrizione delle rovine della città di Roma per restituir loro un nome e una storia.
    Ormai sui documenti medievali, Mirabilia e Graphia, era stato gettato discredito e nessuno prestava più fede a questi libri. Il De veritate Fortunae è un dialogo tra l’Autore e un altro erudito Antonio Loschi. Roma con le sue rovine antiche appare come lo scheletro di un gigante abbattuto. Lo studioso si applica a ritrovare la corretta topografia. Oltre alle fonti classiche Poggio ha tenuto presenti anche le fonti medievali, gli Acta martyrum e il Liber Pontificalis.
     I passi interessanti sono i seguenti:
    Erat pone, Capitolium versus, Romuli templum, cuius pars muri vetustissima quadrato lapide nunc quoque mirandam speciem sui praebet, hodie Cosmae et Damiano consecratum. Huic proximum fuit divi Antonini, divaeque Faustinae templum, nunc beato Laurentio dicatum; cuius porticus plurimae marmoreae columnae ruinam effugerunt. Castoris insuper et Pollucis aedes contiguae, loco edito in via Sacra, altera occidentem, altera orientem versus (hodie Maria Novam appellant)… Placet quibusdam, neque abest a vero coniectura, fuisse Saturni templum iuxta forum, prisci aerarium vocabant, nunc Hadriano pontifici sacratum (erroneamente si chiama tempio di Saturno o erario la chiesa di S. Adriano). Stat ad hunc diem nobilis porticus aedis Mercurii, eam religio nostra ad Angelum Michaëlem transtulit, ubi est piscatorium forum (non si hanno notizie di un culto di Mercurio nel Foro “Piscium” e la chiesa di S. Angelo fu costruita nell’interno del portico di Ottavia) 
     Parlando delle terme romane si evidenzia: Alexandri Severi thermas scimus fuisse prope M. Agrippae Pantheum, quarum plura extant et preclara vestigia. Domitianas, quarum perpauca rudera conspiciuntur, fuisse in iis locis, ubi nunc Sylvestri ecclesia est, scriptum in vita Pontificum adverti 48 …Servavit religio nostra locum in foro dicatum Martinae martyri, quem quondam Secretarium Senatus Theodosii tempore fuisse, litterae incisae significant, ubi adhuc tabulis marmoreis antiquate caelaturae parietes undique exornantur

    - 22 . La Roma instaurata
     Ad uno studio  più scientifico arriva Flavio Biondo (1392-1463), di Forlì, umanista, storico e archeologo, nella sua Roma instaurata dedicata a papa Eugenio IV. L’Autore era convinto che Roma viveva solo dei ricordi presenti nelle sue rovine e la trasmissione di memorie romane sarebbe andata persa con il finire delle rovine  Scrisse anche l’Italia illustrata e la Roma triumphans sulle istituzioni e costumi dei Romani.stesse. Il Biondo si considera un restauratore e con molta scrupolosità consulta i documenti antichi per riportare alla luce la storia dell’Urbe. Diede coraggio ai cittadini di Roma nell’avere rispetto per le rovine della città. Apprezzabile fu anche il rigore scientifico con cui analizzò la Roma cristiana come la Roma pagana. Con lui la topografia fa passi da gigante: mette da parte i Mirabilia e la Graphia e prende come guida i Regionari.
    La Roma instaurata è condotta a termine nel settembre del 1446. Al cap. LXXVIII del I libro che riguarda “De ecclesiis quas nunc habet Caelius mons” si dice: Nunc vero nostri christiani ritus ecclesiis mons ipse in primis est ornatus. Nam ea in parte ad quam in Palatinum montem vergens clivum Scauri habet, hic monasterium est Sancti Gregorii, in paternis aedibus ab eodem aedificatum; inde est Sanctorum Iohannis et Pauli ecclesia, cuius superbi olim aedificii palatio, quod ex Romanis pontificibus inhabitaverint nonnulli, et nunc paene funditus diruto, continent curiae Hostiliae fundamenta.
    La Curia Hostilia è da ricordare che non ha avuto mai relazioni con il Celio; il Biondo localizza la presunta curia nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo forse per gli atti del loro martirio che sarebbe avvenuto “iuxta curiam Hostiliam”. Nel libro II al cap. VIII “Agrippinae thermae ubi fuerint” viene riportato che: Marcum Agrippam aedificasse Pantheum, quae nunc est Sancta Maria Rotunda, etsi prope vulgo notorium est, suo tamen loco ostendemus.
    Nel cap. LVII “Asilum ubi” dopo aver parlato della frana della rupe Tarpea si parla di un tempio trasformato nella chiesa di S. Maria Egiziaca: nec absurde videmur opinari vetustum illud templum, quod saxo ingenti quadrato extructum Sanctae Mariae Aegyptiacae dedicatum ad aream pontis Sanctae Mariae est, Asili templum fuisse
    Continua con il cap. LXVI “Aedes Concordiae ubi”: Aedem Concordiae ex praedictis fuisse apparebit eodem in Palatino colle contra templum Romuli sive Sanctorum Cosmae et Damiani, in illo extructam ecclesiam.
    Nel III libro al cap. LIIII si parla della chiesa di S. Adriano “in tribus foris”: unde ecclesia quae est Sancti Hadriani ad Honorio primo pontifice Romano temporibus Focae imperatoris aedificata in tribus foris a bibliothecario appellatur, quod ipsius ecclesiae locum ad dicta tria fora pertinuisse videamus (“in tribus foris” è denominazione posteriore all’altra più antica “in tribus Fatis”).
    Segue la descrizione della chiesa di S. Martina (“Sanctae Martinellae”) al cap. LV: est autem ipsius Sancti Hadriani ecclesiae propinqua alia ecclesia Sanctae Martinellae nunc appellata, quam vulgo fertur in Martis templo fuisse aedificatam: sed quod templum ibi Mars habuerit ignoramus. La chiesa di S. Martina non fu edificata, come sappiamo, sull’ara del tempio di Marte. L’errore proviene da un distico che si leggeva una volta sulla porta dell’antico edificio: Martyrii gestans virgo Martina coronam Eiecto hinc Martis numine templa tenes

    - 23 . Ye Solace of Pilgrimes
    Per i pellegrini inglesi fu composta una guida di Roma dall’agostiniano Giovanni Capgrave (1393-1464) dal titolo Ye Solace of Pilgrimes. L’Autore venne a Roma nell’Anno Santo del 1450 che vide l’afflusso di numerosi pellegrini. Alcuni di questi composero narrazioni della città eterna per proprio ricordo o per utilità dei futuri pellegrini. Quest’ultima motivazione mosse il Capgrave a scrivere la sua guida. Il sollazzo del pellegrino consta di tre parti.
    La prima riprende i Mirabilia e questa per noi è la parte meno interessante.
    Segue poi la seconda e la terza parte più degne di attenzione perché costruite sulle più recenti guide per pellegrini. Infatti la seconda parte elenca le chiese che i pellegrini devono visitare e le chiese stazionali dove hanno luogo i servizi liturgici. La terza parte descrive le altre chiese importanti, iniziando da quelle dedicate alla Beata Vergine Maria. Segue così uno dei comuni Libri indulgentiarum et reliquiarum. L’Autore è interessato all’archeologia per cui presta attenzione alle numerose iscrizioni che ricopia e traduce per i pellegrini. Ye Solace of Pilgrimes fu scritto in Inghilterra tra il 1450 e il 1453 come si evince da alcuni riferimenti storici.
    Nel capitolo Of Othis Holy Palaces Et Her Names Be For It Was Cristen  si dice: Quella chiesa che è chiamata S. Adriano, fu una volta il tempio del Rifugio…. Qui “Rifugio” può essere l’equivalente di “Asylium”. Segue il capitolo Of The Stacion At Cosmas And Damianus  che presenta l’origine della basilica: Il papa Felice VIII  fece costruire questa chiesa in Roma come ivi è scritto in versi, dei quali alcuni qui trascritti:
    Aula Dei claris radiat speciosa metallis…
    Martiribus medicis popolo spes certa salutis…
    Optulit hoc Domino Felix antistite dignum

    - 24 . Excerpta a Pomponio
    Pomponio Leto nacque in Basilicata nel 1428, trasferitosi a Roma, dove seguì le  lezioni di Lorenzo Valla, fece della sua casa sul Quirinale un centro per studiosi di antichità pagane e cristiane detta Accademia Romana fondata nel 1465. Insegnò a La Sapienza dal 1465-1466 e dal 1473 fino alla sua morte avvenuta nel 1497.
    Gli Excerpta a Pomponio dum inter ambulandum cuidam domino ultramontano reliquias ac ruinas Urbis ostenderet si dicono raccolti dalla viva voce di Pomponio mentre conduceva un forestiero a visitare i monumenti di Roma. Per un riferimento a Sisto IV la data degli Excerpta è da fissarsi dopo il 1479.
    Nel giro archeologico il nostro erudito nota che "Prope Forum, ubi nunc est hospitale Aromatarioum, fuit porticus Antonini imperatoris et Faustinae" e prosegue con la descrizione del Campidoglio, "qui in radicibus Capitolii supra forum Romanum, versus septentrionem, est carcer: nunc dicitur Sancti Petri: olim fuit illa pars carceris, quam construxit Tullus Hostilius et appellatur Tullianum. Ex altera parte Capitolii, versus meridiem, ubi est ecclesia Sancti Nicolai in Carcere, fuit post aedificatus carcer ibi a Claudio Decemviro: quem appellavit carcerem plebis Romanae"
    Non poteva mancare la descrizione del Pantheon: "Ubi nunc est ecclesia S. Mariae Rotundae, ibi fuit Pantheon, dicatum Iovi Victori cuius tegmen fuit e laminis argenteis. Illas laminas substulit Constans, nepos Heraclei, veniens ad urbem. Antipantheon appellatur prothyrion. M. Agrippa fecit illud" 
     Si continua con "Ubi est ecclesia Sancti Laurentii in Lucina cum hortis, ibi fuit campus appellatus Martius: in quo habebantur comitia. Et ubi est domus nova facta, quae est cappellanorum cuiusdam cappellae Sancti Laurentii, fuit basis horologii nominatissimi. In Campo Martio ubi est epitaphium capellanorum, ibi fuit efossum horologium: quod habeat .VII. grados circum, et lineas distinctas metallo inaurato. Et solum campi erat ex lapide amplo quadrato, et habeat lineas easdem: et in angulis quatuor venti ex opere musivo cum inscriptione, ut: BOREA SPIRAT" 
    Non lontano dal tempio di Ercole fatto demolire in parte da Sisto IV, "versus Aventinum montem, fuit alterum templum appellatum Ara Maxima", resti della quale sono stati scoperti nella cripta di S. Maria in Cosmedin

    - 25. Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae
    L’opera  di Francesco Albertin si compone di due parti, come dice il titolo: la descrizione della Roma antica e quella della Roma nuova. L’Albertini era nato a Firenze e aveva ricevuto un’istruzione adatta per la carriera ecclesiastica. Nel 1502 si trasferisce a Roma dove studia nello “Studium Urbis” e diventa cappellano del Cardinale di S. Sabina. Morì tra il 1515-1520. Compose due opere famose come primi esempi di guide per le città italiane. Una di queste è appunto l’ Opusculum uscito il 4 febbraio del 1510. Martino V affidò la chiesa di S. Lorenzo in Miranda all’Università degli Speziali nel 1430; cfr. ibidem, p. 425. 61 Idem. 62 Ibidem, p. 426.
    L’orologio di Augusto aveva un obelisco trasportato a Roma da Eliopoli, contemporaneamente all’altro del circo Massimo, e collocato nel Campo Marzio, nelle vicinanze dell’odierna chiesa di S. Lorenzo in Lucina, dove servì da gnomone per una meridiana. Misura m. 21,79 ed oggi si trova in piazza Montecitorio. Cfr. Ibidem, p. 427. 64 Ibidem, p. 435.
    Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae, ibidem, pp. 462-546.
     In ecclesia Sancti Laurentii in Lucina fuit basis nominatissima Urbis: non longe a qua est obeliscus magnus semisepultus: ubi effossum fuit horologium cum lineis et gradibus deauratis; in anguli vero .IIII. venti ex opere musivo sculpti visebantur cum hac incriptione cubitalibus litteris, ut: BOREA SPIRAT 
    Probabilmente la fonte è Pomponio Leto. Al capitolo “De Templis Urbis”, dopo la descrizione del Pantheon con relativa iscrizione, senza notare comunque che è una chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria, si passa a descrivere il tempio rettangolare sulla riva sinistra del Tevere: "templum et sacellum Pudicitiae adhuc apparet integrum apud pontem Sanctae Mariae, ad honorem beatae Mariae Aegypticae dicatum; nonnulla volunt fuisse templum Fortunae sive Dianae. Haec duo templa, scilicet Sanctae Mariae Aegypticae et Sancti Stephani, unum in honorem Dianae sive Aurorae, alterum vero Fortunae… Templum Herculis Victoris in foro Boario erat rotundum, in quo loco repertum fuit simulachrum Herculis deauratum, tempore Syxti IIII, post ecclesiam Sanctae Mariae in Cosmedin ut apparet in epythaphii, non longe a quo erat Ara Maxima"
    Seguono le descrizioni del "Templum Faustinae adhuc vestigia nonnulla extant in ecclesia Sancti Laurentii in Miranda, ubi ingentes columnae cum hac inscriptione apud ecclesia Sanctorum Cosmae et Damiani visuntur: DIVO ANTONINO ET DIVAE FAVSTINAE EX S. C"

    - 26 . Historia delle stationi di Roma
    Infine riporto delle citazioni di Pompeo Ugonio romano, professore di retorica nell’Arciginnasio del “La Sapienza” e bibliotecario del cardinale Ascanio Colonna. Lo studioso morì il 28 aprile 1614. Le sue opere a stampa consistono quasi esclusivamente in discorsi tenuti nell’Arciginnasio fra il 1586 ed i1 1601. Per il mio studio è importante la Historia delle stationi di Roma che si celebrano la quadragesima, dove oltre le vite dei Santi, alle chiese de’ quali è statione, si tratta delle origini, fondationi, riti, restaurationi, reliquie e memorie di esse chiese, antiche e maderne. L’opera fu pubblicata a Roma nel 1588.
    I - Dopo l’introduzione l’Autore inizia con il primo giorno di quaresima: mercoledì delle ceneri e la prima stazione, come è tradizione, si situa a S. Sabina. In questo contesto, credendo la chiesa dell’Aventino inserita in un tempio, si riportano informazioni interessanti sulle motivazioni di questo uso.
     Si parte da Costantino che, una volta ricevuto il Battesimo da papa Silvestro, comandato per tutte le parti del Romano Imperio il culto del vero Dio, i templij degl’Idoli, quali erano particolarmente in Roma numero infiniti,  per magnificenza mirabili, non furono tutti subitamente destrutti, ma li chiusero, à quelli fu vietato l’entrarvi dentro secondo la Conftitutione di Costantino che nelle leggi habbiamo, dove scrivendo a Tauro.Prefetto del Pretorio così dice. “Placuit in omnibus locis, atque vrbibus vniverfis claudi protinus, templa acceffu vestito, omnibus licentiam delinquendi perditis denegrari”.
    Et poco piu giu vi è la legge di Arcadio Honorio la quale specifica che le fabbriche pubbliche no li distruggessero, ma solo si astenessero da sacrificij: “sicut sacrificia prohibemus ita volumus publicorum operum ornamenta ferari”. Ne però si può negare che molti templij de falsi Dei no fussero in quel primo fervore della fede christiana del tutto gettati a terra. Ma bene si dice, che buona parte di quelli concedendosi ad un certo affetto de cittadini nuovamente fatti Christiani, per no estinguer le superbe memorie de padri loro, furono lasciati in piede, i quali nondimeno come scrive S. Gironimo restando abbandonati, di fuligine; di tele di aragne coperti divennero nidi di gufi e di nottole.

    Poscia, si come suole dal male Iddio ritrarne bene, quelle istesse fabbriche de falsi Dei rimaste deserte, vacue, furono in tempo da Christiani con concessione de gl’Imperatori  del Senato occupate; consacrate sotto il nome di alcun Santo o Santa trasferite al culto della nostra Religione. Al qual costume par che riguardi la Constitutione di Theodofio II, la quale trattando di questa materia cosi dice. “Cuncta corum fama, templa, delubra si qua etiam nunc restant integra, precepto Magistratuum destrui, collocatione, venerandae Christianae Religionis signi expiari praecipium”.
    Et piu espressamente S. Gregorio nell’epift. 71 del 9 lib. scrivendo à Mellito Vescovo commanda che i templi de gl’antichi Dei no li distruggano, ma con le debite cerimonie li purghino; introdottovi le Reliquie de Santi li consacrino. L’Autore così giunge alla conclusione che “non è fuori di ragione” che la chiesa di S. Sabina sia stata edificata sopra le rovine e le vestigia dell’antico tempio di Diana.

    III - Nella terza stazione quaresimale ci troviamo ai SS. Giovanni e Paolo sul Celio. L’Ugonio inizia cercando di dare un’identità al famoso Pammachio fondatore della chiesa e viene identificato con l’amico di S. Girolamo. Poi si parla della chiesa che insieme al monastero fu sopra qualche fabrica antica essere edificata. Imperochè da più bande si scoprono gran vestigij di vecchie muraglie. Lo studioso le ritiene essere o la Curia Hoftilia oppure che questo medesimo loco fu la casa paterna dei SS. Giovanni e Paolo, dove come s’è mostro di sopra furono ammazzati e sepolti
    XIII - La tredicesima stazione si tiene a S. Clemente a via Labicana. L’Autore riportando una citazione del Liber Pontificalis nella biografia di papa Damaso dice che quefta chiesa già fu la casa sua paterna; egli stesso la confacrò.
    XV - Nella quindicesima stazione siamo a S. Cecilia a Tratevere, l’Ugonio riportando la vita della Santa scritta da Pietro Natale riferisce che santa Cecilia avanti che morisse pregò S. Vurbano Papa che dapoi che ella fusse passata di questa vita, volesse la sua casa consacrare in Chiesa, il che dicono esser da Papa Vrbano stato eseguito.
    XXI - Nella XXI stazione si riporta la notizia della trasformazione delle Terme di Novato “fratello di Timoteo e delle Sante Pudenziana e Prassede” in chiesa. La vergine Prassede rimasta erede delle fraterne Terme, fece influenza à S. Pio papa I che le dette Terme fussero voltate in chiesa ad honore di S. Pudentiana sua sorella, come si dice nel Liber Pontificalis.
    XXIII - La chiesa dei SS. Cosma e Damiano è riportata nella XXIII stazione quaresimale. L’Ugonio inizia dicendo che tutti i cultori di cose antiche sono d’accordo nel ritenere che davanti la chiesa passasse la famosa Via Sacra. Invece tra gli eruditi il dubbio rimane sul fatto che la chiesa si fosse insediata in un antico tempio e quale tempio fosse. Riportando l’opinione di Martin Polacco tra le altre sue falsità lasciò scritto che quefto era il tempio dell’Afilio, che è come a dire della Misericordia ò della franchigia, il quale fu instituito da Romolo à fine di ingrandire la città, ciò il raccettare, assicurare in Roma quelli che altronde erano per haver commesso alcun delitto discacciati. Ma l’Asilo, ricorda l’Autore, era vicino alla chiesa di S. Giovanni decollato. Raffaele Volterrano, viene riferito, ritiene che la chiesa dei Santi Medici fosse il tempio di Castore e Polluce. Tutti gli Antiquarij che io habbia visto si accordano, che questa chiesa fusse il tempio di Roma, altrimenti di Romolo, over di Romolo e Remo
    XXIV - Venendo alla chiesa di S. Lorenzo in Lucina nella XXIV stazione interessante è la notizia del ritrovamento dell’obelisco consacrato, per l’Ugonio, da Augusto al Sole, scolpito con lettere egizie, alto 110 piedi, posto come gnomone dell’orologio. L’obelisco per ordine di Sisto V nel 1586 fu ritrovato dietro la chiesa sotto le case della famiglia dei Conti. Ma poichè portava i segni di un incendio ed era molto rovinato e dovendosi abbattere molte case per riportarlo completamente alla luce, non parve portasse la spesa à tirarlo fuora, onde dopo pochi giorni che stette scoperto, di nuovo fu con la medesima terra nello stesso luogo sotterrato.
    Circa ottant’anni prima nello stesso luogo fu trovato, come testimonia Pompeo Leto, un Horologio bellifsimo; grande di metallo, che haveva i gradi, le linee indorate, con il suolo intorno di pietre quadrate… e negli angoli i quattro venti fatti à Musaico con questa inscritione: Vt Borea spirat.
    Di modo che da tutte queste cose che dette abbiamo, si conosce che al tempo de Gentili il sito di questa chiesa il fuo circuito fu da nobili edifitij; da opere superbe; magnifiche occupato. Volendo in seguito papa Sisto III, dedicare in questo luogo la chiesa a S. Lorenzo Martire, in quanto entro le mura della città nel 435 non vi era nessuna chiesa dedicata al santo martire, prese il consenso di Valentiniano Imperatore, il quale sopra l’antiche fabriche de Romani haveva il dominio. Così si legge nella vita di esso Sisto appresso Anastasio Bibliohtecario: “fece ancor Sisto un’altra Basilica al B. Lorenzo, la quale Valentiniano Augusto gli concesse
    XXV - Alla XXV stazione ci troviamo a S. Susanna. Ugonio riferisce che molti scrittori ecclesiastici sono soliti chiamare questa chiesa ad duas domos. Alcuni perché ritengono che qui vi fossero le case di Casso, Catullo e di Aquilio, altri, ed è anche l’opinione del nostro Autore, perché come attesta S. Ambrogio, qui furono congiunte le due case, quella di S. Gabino padre di S. Susanna e quella di S. Caio papa suo zio. Le quali case furono voltate in chiese dette poi di S. Gabino e S. Sufanna. Si cita appresso il passo della Passio di S. Susanna che riporta questa notizia
    XXVI - La chiesa di S. Croce in Gerusaemme interessa la XXVI stazione. L’Autore è molto interessato a narrare gli episodi miracolosi della vittoria di Costantino su Massenzio e il ritrovamento del legno della S. Croce a Gerusalemme da parte di Elena, la madre dell’imperatore, come fondamenti ideologici alla costruzione della basilica. Riporta invero che intorno alla chiesa vi sono molte vestigia antiche, ma preferisce non dilungarsi troppo su questi resti per andare direttamente ai racconti che possono edificare i suoi lettori. Riferisce anche un’iscrizione in terracotta colorata in azzurro fatta, dice l’Ugonio, 90 anni prima dal Cardinale Titolare.
    Nell’iscrizione si dice: questa è la sacra Cappella detta Girusalemme, perché santa Melena, madre del gran Costantino Imperatore, tornando di Girusalem intorno 325 anni doppo la venuta del Signore, avendo ritrovate le insegne del Trofeo di Chrifto la fabricò nella sua propria camera…
    XXXVI -  S. Marcello in via Lata è la meta della XXXVI stazione quaresimale. In questo medesimo luogo al tempo di Massentio imperatore hebbe la casa sua una nobile gentildonna romana chiamata Lucina, la quale circa gli anni di Chrifto 350 ne fece dono à S. Marcello papa, acciò ivi confacrasse una chiesa in honore di Christo; la quale fu poi da Massentio profanata; voltata in uso di stalla; ricovero di sporchi animali, dove condannato à stare S. Marcello
    LII -  La penultima stazione quaresimale (LII) si tiene a S. Maria Rotonda, in Campo Marzio. Questa chiesa fu già tempio de Gentili, il quale 39 anni a.c. fabbricò M. Agrippa genero di Cesare Augusto, nel terzo suo Confolato  lo dedicò, come Plinio scrive nel lib. 36 al cap. 15 a Giove Vendicatore…ma come Dione narra nel lib. 53 era insieme sacro a Cybele tenuta madre de i Dei; a tutti i Dei.
    Qui l’Autore si dilunga nello spiegare l’etimologia del termine Pantheon (tutti gli dei) e a presentare il luogo come ricettacolo di tutte le superstizioni del tempo e abitazione dei demoni. Poi riferice come Bonifacio IV nel 606 chise esso tempio in gratia a Foca imperatore, per dedicarlo al culto della nostra Religione; l’ottenne… e toltone via le profane statue che vi erano; purgatolo da ogni superftitioso culto co solenne cerimonia lo dedicò alla gloriosa Vergine Maria madre di Dio; a tutti i Santi Martiri.



    LE ISCRIZIONI

     Con l’età costantiniana la comunità cristiana di Roma si impossessa di una pratica di scrittura molto particolare: l’epigrafia monumentale che si inserisce su un monumento di pubblica frequentazione per trasmettere un messaggio. Dopo un secolo di epigrafia funeraria e quindi privata, la Chiesa si appropria di un mezzo di comunicazione scritta tipica del mondo romano funzionale all’essere esposta al pubblico. Iscrizioni si trovavano nella basilica vaticana e nella basilica di S. Agnese sulla Nomentana con dediche ai fondatori dei luoghi di culto.
    Nella II metà del IV sec. papa Damaso fa compiere l’elaborazione di componimenti in versi per la diffusione del culto dei martiri, il popolo è abituato ai vari Dei e un Dio unico non basta, o si trovano sostituzioni o tornano agli antichi Dei.. Nel V sec., dopo il sacco di Alarico, a Roma  invece di imbracciare le armi si aumenta l’attività edilizia religiosa, con la scrittura monumentale. Si riduce l’incisione su marmo e si diffonde la tecnica dell’epigrafia a mosaico, vedi l'iscrizione dedicatoria nella basilica di S. Sabina.
    Sempre in uno spazio chiuso della basilica di S. Maria Maggiore si può notare l’iscrizione dedicatoria nell’arco trionfale (Xystus episcopus plebi Dei). L’iscrizione del VI sec. nella basilica dei SS. Cosma e Damiano, ancora in situ, è fonte autorevole sull’inserimento della chiesa in un edificio preesistente.
    Nella basilica dei SS. Cosma e Damiano l’iscrizione è in tre pagine di due righe ciascuna separate da una grande croce latina. La decorazione rappresenta una Maiestas Domini con la figura di Cristo che regge nella mano sinistra il rotolo chiuso. L’iscrizione esalta “la luce preziosa” della fede dei due santi medici, che risplende più alta di quella che emana dalla decorazione a mosaico e celebra negli ultimi due versi l’offerta (dignum manus) dell’antistes Felix:
    AVLA DEI CLARIS RADIAT SPECIOSA METALLIS/ IN QUA PLVS FIDEI LVX PRETIOSA MICAT/ MARTYRIBUS MEDICIS POPVLO SPES CERTA SALVTIS/ VENIT ET EX SACRO CREVIT HONORE LOCVS/ OPTVLIT HOC DOMINO FELIX ANTISTITE DIGNVM/ MUNUS VT AETHERIA VIVAT IN ARCE POLI
    Rispetto alla tradizione dell’iscrizione monumentale di apparato, di norma destinata a superfici piane e ad un andamento rettilineo, questa iscrizione ricalca l’articolazione dei testi in pagine e si ricollega più alla prassi libraria che non a quella epigrafica e dunque ad una lettura individuale più che ad una lettura collettiva. In questa stessa epoca, per influsso dei codici miniati tardoantichi, si assiste ad una massiccia presenza, negli apparati decorativi degli edifici di culto, della scritta come didascalia.
    Nell’abside dei SS. Cosma e Damiano le scritte didascaliche si accompagnano non solo alle figure dei SS. Felice e Teodoro, ma anche all’immagine del fiume Giordano e ai quattro fiumi paradisiaci. Nel catino absidale Cristo appare su una scala di nubi, che conduce verso un paradiso racchiuso da palme e percorso dal Giordano; i principi degli apostoli presentano i due santi titolari, mentre incedono ai due lati estremi il papa committente con S. Teodoro.
    In questa Maiestas Domini si nota una rappresentazione più gelida e bizantina che formulerà il linguaggio artistico dei secoli a venire. Un’altra iscrizione antica si trovava nell’abside dell’aula della basilica di S. Andrea in Catabarbara:
    IVNIUS BASSVS .V.C. CONSVL ORDINARIUS PROPRIA IMPENSA A SOLO FECIT ET DEDICAVIT FELICITER
    Inscriptiones christianae Urbis Romae septimo seculo antiquiores, II, Roma 1888, p.71.

    Citazione da GAGIANO DE AZEVEDO M.,
    La datazione delle tarsie della basilica di Giunio Basso, in Rendiconti della Pontificia Accademia di Archeologia, serie 3 a , 40 (1967-1968), p. 151.Questa fu ricostruita dal De Rossi e potè stabilire che l’edificio era stato fondato nel IV sec. da uno Iunius Bassus durante il suo consolato,  una acquisizione testamentaria verificatasi dopo la morte di Valila posteriore al 471 ma prima di papa Simplicio 483:
    HAEC TIBI MENS VALILAE DECREVIT PRAEDIA, CHRISTE, CUI TESTATOR OPES DETULIT ILLE SUAS, SIMPLICIUS QUAE PAPA SACRIS COELESTIBUS APTANS EFFECIT VERE MUNERIS ESSE TUI; ET QUOD APOSTOLICI DEESSENT LIMINA NOBIS, MARTYRIS ANDREAE NOMINE COMPOSUIT. UTITUR HAC HERES TITULIS ECCLESIA IUSTIS, SUCCEDENSQUE DOMO MYSTICA IURA LOCAT. PLEBS DEVOTA VENI, PERQUE HAEC COMMERCIA DISCE, TERRENO CENSU REGNA SUPERNA PETI

    L’iscrizione fu aggiunta successivamente nella stessa abside (insieme al mosaico di soggetto cristiano) e collegandola ad una precisa notizia del Liber Pontificalis 84 il De Rossi potè stabilire che, poco dopo la metà del V sec., il proprietario era un patricius goto romanizzato di nome Valila, detto anche Flavius Theodosius che poi donò l’edificio al papa Simplicio (468-483) il quale infine ne trasformò, come sappiamo, l’aula absidata nella basilica di S. Andrea 85




    REGIONE I - PORTA CAPENA


    "I limiti di questa regione, chiamata Porta Capena dalla porta di simil nome situata nel recinto di Servio, sono molto controversi; imperocchè si vedono da alcuni topografi protratti persino al luogo detto la Caffarella, posto distante dall'attuale porta della Città di circa due miglia, onde includervi alcuni edifizi che stanno in quel d'intorno. Ma trovandosi prescritto da Rufo il perimetro di questa regione essere stato di 13223 piedi, e da Vittore come pure dalla Notizia di soli dodicimila e duecentoventi, si deduce che dal luogo ove stava l'antica porta Capena, il quale si riconosce sotto alla villa già dei Mattei prima di giungere alle terme Antoniane, la regione non si potesse estendere più lungi dalla porta Appia o S. Sebastiano. Sembra inoltre che tale regione si trovasse interamente situata fuori dell'antico recinto delle mura di Servio, ma però contenuta in quello di Aureliano, occupando nel piano lo spazio che sta tra il luogo in cui si trovava la nominata porta Capena e la porta Appia, con parte dei due monti che costeggiano tale situazione al di là delle terme Antoniane."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS ET AEDES CAMENARUM
    - VICUS DRUSIANUS
    - VICUS SULPICI ULTERIORIS
    - VICUS SULPICI CITERIORIS
    - VICUS FORTUNAE OBSEQUENTIS
    - VICUS PULVERARIUS
    - VICUS HONORIS ET VIRTUTIS
    - VICUS TRIUM ARARUM
    - VICUS FABRICI
    - AEDES MARTIS
    - AEDES MINERVAE
    - AEDES TEMPESTATIS
    - AREA APOLLONIS
    - AREA SPEI
    - AREA  GALLI, SIVE THALLI
    - AREA  GALLI, SIVE GALLIAE
    - AREA PINARIA
    - AREA CARSURAE
    - LACUS PROMETHEI
    - LACUS VESPASIANI
    - BALINEUM TORQUATI 
    - BALINEUM VECTII 
    - BALINEUM BOLANI
    - BALINEUM MAMERTINI
    - BALINEUM  ABASCANTIANI
    - BALINEUM ANTIOCHIANI
    - THERMAE SEVERIANAE
    - THERMAE COMMODIANAE
    - ARCUS D. VERI PARTHICI
    - ARCUS D. TRAJANI
    - ARCUS DRUSI
    - MUTATORIUM CAESARIS
    - ALMO FLUVIUS
    - VICI IX.
    - AEDICULAE X.
    - VICOMAGISTRI XXXVI.
    - CURATORES II. 
    - DENUNCIATORES II
    - INSULAE IIII. M. CC. L. 
    - DOMUS CXX. 
    - HORREA XIII. 
    - BALINEAE PRIVATAE LXXXII
    - LACUS LXXXIII
    - PISTRINA XX
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII. M. CC. XXII.


    SESTO RUFO

    - VICUS HONORIS ET VIRTUTIS
    - VICUS FORTUNAE OBSEQUENTIS
    - VICUS SULPICI CITERIORIS
    - VICUS DRUSIANUS
    - VICUS SULPICI ULTERIORIS
    - VICUS PULVERARIUS
    - VICUS TRIUM. ARARUM
    - VICUS FABRICI
    - AEDES MARTIS
    - AEDES MINERVAE
    - AEDES TEMPESTATIS
    - AEDES MERCURII
    - AEDES APOLLINIS
    - AREA MERCURII CUM ARA
    - AREA SPEI
    - AREA GALLIAE
    - AREA ISIDIS
    . AREA PINARIA
    - AREA CARSURAE
    - LACUS PROMETHEI
    - LACUS SANCTUS
    - LACUS VESPASIANI
    - LACUS SUDANS
    - LACUS TORQUATI
    - LACUS PUBLICUS
    - LACUS BIVIUS
    - LACUS SPEI
    - LACUS GRATIAE
    - LACUS MAMERTINI
    - LACUS SALUTARIS
    - LACUS LXXI. SINE NOMINE
    - BALINEUM TORQUATI
    - BALINEUM VETTI 
    - BALINEUM BOLANI
    - BALINEUM ABASCANTIANI
    - BALINEUM MAMERTINI
    - BALINEUM METTIANI
    - BALINEUM ANTIOCHIANI
    -THERMAE COMMODIANAE
    - THERMAE SEVERIANAE
    - ARCUS DRUSIANUS
    - ARCUS VERI 
    - ARCUS AUGUSTI 
    - ARCUS TRAIANI
    - ARCUS BIFRONS
    - MUTATORIUM CAESARIS
    - ALMO FLUVIUS
    - ARA ISIDIS
    - TEMPLUM ISIDIS
    - TEMPLUM SERAPIDIS
    - TEMPLUM FORTUNAE VIATORUM
    - VICI IX.
    - AEDICULAE X.
    - VICOMAGISTRI XXXVI
    - CURATORES II.
    - DENUNCIATORES II.
    - INSULAE IIII. M. CC. L.
    - DOMUS C. XXI.
    - HORREA XIIII.
    - BALINEAE PRIVATAE LXXXII.
    - PISTRINA XII.
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XIII. M. CC. XXIII.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - AEDEM HONORIS ET VIRTUTIS
    - AEDEM CAMENAS
    - LACUM PROMETHEI. 
    - BALINEUM TORQUATI
    - THERMAS SEVERIANAS ET COMMODIANAS
    - AREAM APOLLINIS
    - AREAM APOLLINIS ET SPLENIS
    - VICUM VITRIARIUM
    - AREAM PANNARIAM
    - AREAM MUTATORIUM CAESARIS
    - BALINEUM ABASCANTI ET MAMERTINI. 
    - AREAM CARRUCAE
    - AEDEM MARTIS
    - AEDEM FLUMEN ALMONIS
    - ARCUM DIVI VERI. ET TRAIANI. ET DRUSI
    - VICI. X. AED. X.
    - VICOMAGISTRI XLVIII. CUR. II.
    - INSULAE III. M. CC. L.
    - DOMUS CXX. HORREA XVI.
    - BALINEA LXXXVI.
    - LACOS LXXXI
    - PISTRINA XX. 
    - CONTINET PEDES XII. M. CC. XI.




    REGIONE II - CELIMONTANA


    "Il perimetro della regione Celimontana, così chiamata dal nome del monte Celio su cui era situata, viene ad essere determinato dalla forma dello stesso monte; imperocchè il giro di questo si trova incirca a corrispondere ai dodici o tredici mila e duecento piedi, che dai regionari si prescrive. Perciò rimane escluso quell'altro monte situato verso la porta Latina e considerato aver fatto parte della regione antecedente, che diversi topografi lo hanno creduto il Celiolo degli antichi; e così anche non può esser compreso in questa regione il piano posto verso l'Esquilino, nel quale il Nardini stabilisce esservi stata l'antica Subura."


    PUBLIO VITTORE

    - TEMPLUM CLAUDII
    - MACELLUM MAGNUM
    - CAMPUS MARTIALIS 
    . CAMPUS LUPARIAE
    - ANTRUM CYCLOPIS
    - CASTRA PEREGRINA
    - CAPUT AFRICAE
    - ARBOR SANCTA
    - DOMUS PHILIPPI
    - DOMUS VICTILIANA
    - REGIA TULLI HOSTILII TEMPLUMQUE QUOD IS IN CURIAM REDEGIT ORDINE A SE ANCTO IDEST PATRIBUS MINORUM GENTIUM
    - MANSIONES ALBANAE 
    - MICA AUREA
    - ARMAMENTARIUM
    - SPOLIUM SAMARIUM
    - LUDUS MATUTINUS
    - LUDUS GALLICUS
    - COHORTES QUINQUE VIGILUM
    - VICI VII
    - AEDILI.VIII 
    - VICOMAGISTRI XXVIII
    - CURATORES II
    - DENUNCIATORES II 
    - INSULAE III. M.
    - DOMUS CXXXIII
    - HORREA XXIII
    - BALINEAE PRIVATAE XX
    - PISTRINA XII 
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII M. CC.


    SESTO RUFO

    - TEMPLUM BACCHI
    - TEMPLUM FAUNI
    - TEMPLUM DIVI CLAUDII
    - CAMPUS MARTIALIS FONTINARUM
    - MACELLUM MAGNUM
    - CAMPUS LUPARIAE
    - ANTRUM CYCLOPIS 
    - CASTRA PEREGRINA
    - CAPUT AFRICAE
    - ARBOR SANCTA
    - DOMUS VITELLIANA
    - DOMUS PHILIPPI 
    - REGIA TULLI CUM TEMPLO
    - MANSIONES ALBANAE
    - MICA AUREA
    - ARMAMENTARIUM
    - COELIOLUM
    - SPOLIUM SAMARIUM
    - LUDUS MATUTINUS
    - LUDUS GALLICUS
    - CAMPUS CAELIMONTANUS 
    - TERMAE PUBLICAE
    - DOMUS PARTHORUM 
    - DOMUS LATERANI
    - COHORTES V. VIGILUM
    - SUBURA
    - VICI VIII
    - AEDES. VIII
    - VICOMAG. XXXII
    - CURATORES II 
    - DENUNCIATORES II 
    - DOMUS CXXIII
    - HORREA XXIIII
    - BALINEAE PRIVATAE XX
    - PISTRINA XXII
    - LACUS FUND. XI. SINE NOMINE
    - REGIO IN CIRCUITU CONTINET PED. XII. M. CC.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - TEMPLUM CLAUDIUM
    - MACELLUM MAGNUM
    - LUPARIOS VEL LUPANARIOS
    - ATRIUM CYCLOPIS
    - COHORTES V. VIGILUM
    - CAPUT AFRICES
    - ARBOREM SANCTAM
    - CASTRA PEREGRINA
    - DOMUM PHILIPPI
    - DOMUM VICTILIANA 
    - LUDUM MATUTINUM
    - LUDUM MATUTINUMET DACICUM
    - SPOLIARUM SANIARIUM
    - MICAM AVREAM
    - VICI VII
    - AEDES VII
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. Il
    - INSULAE IIII M. DC
    - DOMUS CXXVII
    - HORREA XXVII
    - BALNEA LXXXV
    - LACOS LXV. 
    - PISTRINA XV
    - REGIO CONTINET PED. XII. M. CC.




    REGIONE III - ISIDE E SERAPIDE


    "La posizione della III regione, denominata Iside e Serapide da qualche tempio a tali divinità dedicato, di cui più non si conosce la sua posizione, sembra potersi stabilire dai monumenti che conteneva avere occupato quella parte in forma quasi triangolare del monte Esquilino, che si crede esser quella distinta dagli antichi col nome di Oppio; come pure di essersi estesa nel piano posto tra questa parte dell'Esquilino ed il Celio che dall'Anfiteatro Flavio giunge sino vicino a S. Giovanni Laterano. II giro di questa regione si determina dai Regionari essere stato di 12450 piedi, e questa misura si trova approssimativamente a confrontare nella descritta località."


    PUBLIO VITTORE

    - AMPHITHEATRUM QUOD CAPIT LOCA LXXXVII.M
    - LUDUS MAGNUS. 
    - LUDUS DACICUS
    - DOMUS BRYTTIANA
    - SAMIUM CHORAGIUM
    - PRAETURA PRAESENTISSIMA
    - THERMAE TITI CAES. AUG.
    - THERMAE TRAIANI CAES. AUG. PHILIPPI CAES.AUG.
    - LACUS PASTORIS
    - SCHOLA QUAESTORUM CAPULATORUM
    - PORTICUS LIVIA
    - CASTRA MISENATIUM
    - SUBURA
    - VICI VIII. 
    - AEDICULAE VIII
    - VICOMAG. XXIV
    - CUR. II
    - DENUNCIATORES II.
    - INSULAE II. M. DCC. LVII
    - DOMUS CLX-HORREA XVIII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXX
    - LACUS LXV-PISTRINA XII
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII. M. CCC. L.


    SESTO RUFO

    - AMPHITHEATRUM FLAVII
    - LUDUS MAGNUS
    - MAMERTINUS
    - DACICUS
    -TRIBUS GRATIAE AREAE
    - DOMUS BRYTTIANA-
    - SUMMUM CHORAGIUM
    - PRAETVRA PRAESENTISSIMA
    - THERMAE TITI CAES.
    - TRAIANI 
    - NYMPHEUM CLAUDII AGU.
    - LACUS PASTORIS
    - SCHOLA QUAESTORUM. GALLI
    - PORTICUS LIVIAE
    - TEMPLUM CONCORDIAE
    - CASTRA MISENATIUM
    - CAPUT SUBURRAE
    - VICI VIII
    - VICUS ALBUS
    - VICUS FORTUNAE VICINAE
    - VICUS ANCIPORTUS
    - VICUS BASSIANUS
    - VICUS STRUCTORUM
    - ASELLUS
    - LANARIUS
    - PRIMIGENIUS
    - AEDICULAE VIlI
    - BONAE SPEI
    - SERAPIDIS
    - SANGI FIDONI
    - MINERVAE
    - ISIDIS
    -VENERIS
    - AESCULAPII
    - VULCANI
    -VICOMAGISTRI XXIV CUR. Il
    - DENUNC. Il
    - INSULAE II. M. DCCC. VII
    - DOMUS CLX. HORREA XIX
    - BALINEAE PRIVATAE XXC
    - LACUS XXV. SINE NOMINE. PISTRINA XXIII
    - REGIO CONTINET PEDES XII. M. CCCC. L.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - MONETAM
    - AMPHITHEATRUM QUI CAPIT LOCA LXXXVII. M
    - LUDUM MAGNUM
    - DOMUM BRITTI
    - PRAESENTIS SUMUM CHORAGIUM
    - LACUM PASTORUM
    - SCHOLAM QUAESTORUM ET CAPLATORUM
    -THERMAS TITIANAS ET TRAIANAS
    - PORTICUM LIBIES SEU LIVIAE
    - CASTRA MISENATIUM
    - VICI XII
    - AED. XII
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. Il
    - INSULAE II. M. DCCLVII.
    - DOMUS LX
    - HORREA XVIII-BALNEA LXXX
    - LACOS LXV
    - PISTRINA XVI
    - CONTINET PEDES XII. M. CCC. L.




    REGIONE IV - TEMPIO DELLA PACE O VIA SACRA


    "La regione quarta si trova essere stata denominata dagli antichi ora Tempio della Pace, ed ora Via Sacra; ed i suoi limiti sono comunemente stabiliti più ristretti di quanto si prescrive dai Regionarj. Benchè nei cataloghi di questi vi si vedano differenze nell'assegnarne la misura, e benchè per il molto fabbricato che si trovava nella regione, rendendo il giro evidentemente alquanto tortuoso, venisse aumentato il perimetro in proporzione dello spazio che occupava, conviene però supporre essere stata almeno la regione protratta dalla via Sacra o dal tempio di Venere e Roma, ove aveva principio, sino verso la moderna Subura, occupando ivi il piano posto tra l'Esquilino ed il Quirinale; come ancor estendendosi in quella parte dell'Esquilino stesso, su cui si è situato il portico di Livia col tempio della Concordia. Il giro di tale spazio si trova avvicinare di più alla misura dei tredicimila piedi, che Vittore e la Notizia dell'Impero prescrivono al perimetro di questa regione, di quello che si stabilisce comunemente."


    PUBLIO VITTORE

    - TEMPLUM PACIS
    - TEMPLUM REMI
    - TEMPLUM VENERIS
    - TEMPLUM FAUSTINAE
    - TEMPLUM TELLURIS
    - VIA SACRA
    - BASILICA CONSTANTINI
    - BASILICA PAULLI AEMILII
    - SACRIPORTUS o SACRIPORTICUS
    - FORUM TRANSITORIUM
    - BALINEUM DAPHNIDIS
    - PORTICUS ABSIDATA
    - AREA VULCANI CUM VULCANALI, UBI LOTUS A ROMULO SATA IN QUA AREA SANGUINE PER BIDUUM PLUIT
    - BUCCINA AUREA VEL BUCCINUM AUREUM
    - APOLLO SANDALARIUS
    - HORREA CARTHAREA, VEL TASTARIA, VEL TESTARIA
    - SORORIUM TIGILLUM
    - COLOSSUS ALTUS CII. SEMIS HABENS IN CAPITE RADIOS VII. SINGULIS XII SEMIS
    - META SUDANS
    - CARINAE
    - DOMUS POMPEII
    - AVITA CICERONUM DOMUS
    - VICI VIII
    - AEDICULAE VIII
    - VICOMAG.XXXII
    - CURATORES II
    - DENUNCIATORES II.
    - INSULAE II. M. DCC. LVII
    - DOMUS CXXXVIII
    - HORREA VIII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - LACUS LXXVIII
    - PISTRINA XII
    -REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XIII. M.


    SESTO RUFO

    - TEMPLUM PACIS
    - TEMPLUM REMI
    - TEMPLUM DIVAE FAUSTINAE
    - TEMPLUM URBIS ROMAE ET AUGUSTI
    - TEMPLUM VENERIS
    - TEMPLUM TELLURIS
    - TEMPLUM SOLIS
    - TEMPLUM LUNAE
    - TEMPLUM CONCORDIAE IN PORTICU LIVIAE
    - BASILICA CONSTANTINI
    - VIA SACRA
    - BASILICA PAULLI
    - SACRIPORTICUS ALIAS SACRIPORTUS
    - FORUM TRANSITORIUM CUM TEMPLO D. NERVAE
    - BALNEA DAPHNIDIS
    - VOLCANALE
    - PORTICUS ABSIDATA
    - BUCENA AUREA
    - APOLLO SANDALARIUS
    - HORREA TESTARIA
    - SACELLUM STRENUAE
    - SORORIUM TIGILLUM
    - META SUDANS
    - CAPUT LYNCO
    - CARINAE CAPUT
    - DOMUS POMPEI
    - AVITA CICERONUM
    . AEQUIMELIUM
    - AREA VICTORIAE
    - ARCUS TITI
    - VICI VIII.
    - VICUS SCELERATUS
    - VICUS EROS
    - VICUS VENERIS
    - VICUS APOLLONIS
    - VICUS TRIUM VIARUM
    - VICUS ANCIPORTUS MINOR
    - VICUS FORTUNATUS MINOR
    - VICUS SANDALARIUS
    - AEDICULAE VIII
    - AEDICULA MUSARUM
    - AEDICULA SPEI
    - AEDICULA MERCURII
    - AEDICULA IUVENTUTIS
    - AEDICULA LUCINAE VALERIANAE
    - AEDICULA IUNONIS LUCINAE
    -AEDICULA MAVORTII
    - AEDICULA ISIDIS
    - VICOMAG. XXXII
    - CUR. II
    - DENUNC. II
    - INSULAE II. M. DCC. LVIII
    - DOMUS CXXXVIII
    - HORREA XVIII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - LACUS LXXIX
    - PISTRINA XXIII
    - REGIO IN CIRCUITU CONTINET PEDES XVIII.. M.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - PORTICUM ABSIDATAM
    - AURA BUCINUM
    - APOLLINEM SANDALARIUM
    - TEMPLUM TELLURIS
    - VIGILUM SORORUM
    - COLOSSUM ALTUM PEDES CII. S. HABET IN CAPITE RADIA VII SINGULA PEDUM XXII. S.
    - METAM SUDANTEM
    - TEMPLUM ROMAE
    - AEDEM IOVIS
    - VIAM SACRAM
    - BASILICAM NOVAM ET PAULI
    - TEMPLUM FAUSTINAE
    - FORUM TRANSITORIUM
    - SUBURAM
    - BALNEUM DAPHNIDIS
    - VICI VIII
    - AED. VIII
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - INS. II. M. DCLVII
    - DOMUS LXXXVIII
    - HORR. XVIII. BALINEA LXXV
    - LACOS LXXI
    - PISTRINA XV
    - CONTINET PED. XIII. M.




    REGIONE V - ESQUILINA


    "La regione quinta, detta Esquilina dal monte su cui si trovava in parte collocata, si estendeva dal colle Viminale e dalla sommità dell'Esquilino, denominata dagli antichi Cispio, sino al recinto delle mura di Aureliano. Ma nel perimetro prescritto dai Regionari, di quindici in sedici mila piedi, non potevano esser compresi alcuni edifizj situati assai distanti dalla nominata località, i quali si trovano registrati nei cataloghi dei Regionari o per aggiunte posteriori, o perchè appartenevano per giurisdizione a questa regione."


    PUBLIO VITTORE

    - LACUS PROMETHEI
    - MACELLUM LIVIANI
    - NYMPHAEUM D. ALEXANDRI
    - COHORTES VII. VIGILUM
    - AEDES VENERIS ERYCINAE AD PORTAM COLLINAM
    - HORTI PLANCIANI VEL PLAUTIANI, MECAENATIS
    - REGIA SERVII TULLII
    - HERCULES SULLANUS
    - AMPHITHEATRUM CASTRENSE
    - CAMPUS ESQUILINUS ET LUCUS
    - CAMPUS VIMINALIS SUB AGGERE
    - LUCUS PETELINUS
    - TEMPLUM IUNONIS LUCINAE
    - LUCUS FAGUTALIS
    - DOMUS AQUILII I. C.
    - DOMUS Q. CATULI, ET M. CRASSI
    - ARA IOVIS VIMINEI
    - ARA MINERVA MEDICA
    - ARA ISIS PATRICIA
    - LAVACRUM AGRIPPINAE
    - THERMAE OLYMPIADIS
    - VICI XV
    - AEDICULAE TOTIDEM
    - VICOMAG. LX
    - CUR. II
    - DENUNC. II
    - INSULAE III. M. DCCC. L
    - DOMUS C. XXX
    - LACUS LXXIX
    - HORREA XXIII
    - BALINEAE LXXV
    - PISTRINA XII
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XV. M. DCCCC.


    SESTO RUFO

    - TEMPLUM IOVIS VIMINEI
    - AEDES VENERIS ERYCINAE
    - HORTI PLANTIANI
    - LACUS PROMETHEI
    - MACELLUM LIVIANUM
    - NYMPHEUM ALEXANDRI
    - STATION. COHOR. VII. VIGILUM
    - HORTI MECAENATIS
    - REGIA SERVII TULLII
    - AMPHITHEATRUM CASTRENSE
    - TRES TABERNAE
    - CAMPUS VIMINALIS SUB AGGERE
    - CAMPUS ESQUILINUS
    - LUCUS PETILINUS
    - FAGUTALIS
    - TEMPLUM IUNONIS LUCINAE
    - DOMUS AQUILII IURECONSULTI
    - ARA IOVIS VIMINEI
    - ARA MINERVA MEDICA
    - ARA PANTHEUM
    - ARA ISIS PATRICIA
    - TEMPLUM SILVANI
    - TEMPLUM AESCULAPII
    - THERMAE OLYMPIADIS
    - LAVACRUM AGRIPPINAE
    - VICI XV
    - VICUS SUCUSANUS
    - VICUS URSI PILEATI
    - VICUS MINERVAE
    - VICUS USTRINUS
    - VICUS PALLORIS
    - VICUS SEIUS
    - VICUS SILVANI
    - VICUS CAPULATORUM
    - VICUS TRAGOEDUS
    - VICUS UNGUENTARIUS
    - VICUS PAULLINUS
    - VICUS PASTORIS
    - VICUS CATICARIUS
    - VICUS VENERIS PLACIDAE
    - VICUS IUNONIS.
    - AED. XV.
    - AEDES SEIAE
    - AEDES VENERIS PLACIDAE
    - AEDES CASTORIS
    - AEDES PALLORIS
    - AEDES SILVANI
    - AEDES APOLLINIS
    - AEDES CLOACINAE
    - AEDES HERCULIS
    - AEDES MERCURII
    - AEDES MARTIS
    - AEDES LUNAE
    - AEDES SERAPIDIS
    - AEDES VESTAE
    - AEDES CERERIS
    - AEDES PROSERPINAE
    - VICOMAG. LX
    - CUR. II. DEN. II
    - INSULAE III. M. D. CCC
    - DOMUS CLXX
    - LACUS LXXXIX
    - HOR. XVII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - PISTRINA XXXII
    - REGIO CONTINET PEDES XV. M. DCCCC. L.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - LACUM ORFEI
    - MACELLUM LIVIANI
    - NYMPHAEUM ALEXANDRI
    - COHORTES II VIGILUM
    - HORTOS PALLANTIANOS
    - HERCULEM SULLANUM
    - AMPHITHEATRUM CASTRENSE
    - CAMPUM VIMINALEM SUB AGGERE
    - MINERVAM MEDICAM
    - ISIDEM PATRICIAM
    - VICI XV
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - INSULAE III. M. DCCC. L
    - DOMUS CLXXX
    - HORREA XXIII
    - BALINEA LXXV
    - LACOS LXXIV
    - PISTRINA XV
    - CONTINET PED. XV. DC.




    REGIONE VI - ALTA SEMITA


    "La sesta regione, denominata Alta Semita da qualche piccola via posta sull'alto del monte, occupava quasi per intero il colle Quirinale e parte di quello degli Orti, con la valle sottoposta che separa l'uno dall'altro colle. In tale località si trova confrontare il giro dei circa quindicimila seicento piedi, che si prescrive dai Regionari a questa regione."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS BELLONAE
    - VICUS MAMURI
    - TEMPLUM SALUTIS IN COLLE QUIRINALE
    - TEMPLUM SERAPEUM
    - TEMPLUM APOLLINIS ET CLATRAE
    - TEMPLUM FLORAE
    - CIRCUS FLORALIS
    - CAPITOLIUM VETUS
    - AEDES DIVI FIDII IN COLLE
    - FORUM SALLUSTII
    - FORTUNA PUBLICA IN COLLE
    - STATUA MAMURI PLUMBEA
    - TEMPLUM QUIRINI
    - DOMUS ATTICI
    - MALUM PUNICUM AD QUOD DOMITIANUS DD
    - TEMPLUM GENTIS FLAVIAE, ET ERAT DOMUS EIUS
    - HORTI SALLUSTIANI
    - SENACULUM MULIERUM
    -THERMAE DIOCLETIANAE
    - CONSTANTINIANAE
    - BALINEA PAULI
    - DECEM TABERNAE AD GALLINAS ALBAS
    - AREA CALLIDII
    - COHORTES III. VIGILUM
    - VICI XII-AEDICULAE XVI
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - DENUNC. II
    - INSULAE III. M. D. V
    - DOMUS CXLV
    - HORREA XVIII
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - LACUS LXXVI
    - PISTRINA XII
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XV. M. DC.


    SESTO RUFO

    - VICUS BELLONAE
    - VICUS MAMURCI
    - CIRCUS FLORAE
    - TEMPLUM FLORAE
    - TEMPLUM SALUTIS
    -TEMPLUM SERAPEUM
    -TEMPLUM FIDEI
    - TEMPLUM APOLLINIS ET CLATRAE
    - TEMPLUM SALUTIS IN COLLE QUIRINALI
    - AEDES D. FIDII
    - TEMPLUM FORTUNAE LIBERAE
    - TEMPLUM FORTUNAE STATAE
    - TEMPLUM FORTUNAE REDUCIS
    - FORUM SALLUSTII
    - TEMPLUM VENERIS IN HORTULIS SALLUSTIANIS
    - STATUA MAMURI
    - AEDES FORTUNAE PUBLICAE IN COLLE
    - STATUA QUIRINI ALTA PED. XX.
    - TEMPLUM QUIRINI
    - DOMUS ATTICI
    - DOMUS FLAVII
    - MALUM PUNICUM
    - TEMPLUM MINERVAE
    - SENACULUM MULIERUM
    - THERMAE DIOCLETIANAE ET MAXIMIANAE
    - BALINEUM PAULI
    - DECEM TABERNAE
    - AD GALLINAS ALBAS
    - AREA CALLIDII
    - COHORTES III-VIGILUM
    - VICI XII
    - VICUS ALBUS
    - VICUS PUBLICUS
    - VICUS FLORAE
    - VICUS QUIRINI
    - VICUS FLAVII
    - VICUS MAMURI
    - VICUS FORTUNARUM
    - VICUS PACCIUS
    - VICUS TIBURTINUS
    - VICUS SALUTIS
    - VICUS CALLIDIANUS
    - VICUS MAXIMUS
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - DENUNC. Il
    - AEDICULAE XVI
    - AEDICULA FORTUNAE PARVAE
    - AEDICULA GENII LIBERORUM
    - AEDICULA GENII LARUM
    - AEDICULA DIANAE VALERIANAE
    - AEDICULA JUNONIS IULIAE
    - AEDICULA SPEI
    - AEDICULA SANGI
    - AEDICULA SILVANI
    - AEDICULA VENERIS
    - AEDICULA HERCULIS
    - AEDICULA VICTORIAE
    - AEDICULA MATUTAE
    - AEDICULA LIBERI PATRIS
    - AEDICULA SATURNI
    - AEDICULA IOVIS
    - AEDICULA MINERVAE
    - INS. III. M. DV
    - LACUS LXXVI
    - DOMUS CXLV
    - HORREA XIX
    - BALINEAE PRIVATAE LXV
    - PISTRINA XXIII
    - REGIO CONTINET IN CIRCUITU PED. XV. M. DC.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    TEMPLUM SALUTIS ET SERAPIS-FLORAM-CAPITOLIUM ANTIQUUM-THERMAS CONSTANTINIANAS-STATUAM MAMURI-TEMPLUM DEI QUIRINI-HORTOS SALLUSTIANOS-GENTEM FLAVIAM-THERMAS DIOCLETIANAS-COHORTES III-VIGILUM. X. TABERNAS. GALLINAS ALBAS-VICI XVII-VICOMAG. XLVIII-BALINEA LXXV-LACOS LXXIII-PISTRINA XVI-CONTINET PEDES XV. D. CC.




    REGIONE VII - VIA LATA


    "La settima regione era chiamata Via Lata da una via larga che vi transitava, la quale stava evidentemente in principio della Flaminia, e doveva corrispondere alla parte superiore dell'attuale via del Corso; poichè la chiesa di S. Maria ivi posta ne conserva tuttora l'antica denominazione. La regione da tale luogo, posto presso al Campidoglio, si estendeva lungo la stessa via sino dove esisteva l'arco di L. Vero e di Marco vicino al palazzo Fiano, ed occupava tutto il piano tra la detta Via Lata e la parte occidentale del Quirinale. In tal modo sembra che il perimetro di questa regione verso il monte fosse prescritto dal giro che tenevano le mura di Servio per il tratto posto tra il foro di Trajano ed il circo di Flora; e verso il piano dal piede del colle Pinciano, vicino agli orti di Lucullo, giungesse sino all'indicato arco di Marco, e da questo punto arrivasse al Campidoglio seguendo la moderna via del Corso. Tale perimetro, aggiungendovi le tortuosità prodotte dal molto fabbricato che vi si trovava, poteva benissimo formare la misura di circa tredicimila e settecento piedi che si prescrive dai Regionari. Questa regione in tal modo si trovava intieramente fuori del recinto di Servio: ma per i molti vici che si vedono registrati nel catalogo di Rufo doveva essere però molto abitata."


    PUBLIO VITTORE

    - LACUS GANYMEDIS
    - COHORTES VII
    - VIGILUM ALITER PRIMORUM VIGILUM
    - ARCUS NOVUS-NYMPHAEUM IOVIS
    - AEDICULA CAPRARIA-CAMPUS AGRIPPAE
    - TEMPLUM SOLIS
    - CASTRA GENTIANA ALITER GYPSIANA
    - PORTICUS CONSTANTINI
    - TEMPLUM NOVUM SPEI. FORTUNAE
    - QUIRINI
    - SACELLUM GENII SANGI
    - EQUI AENEI TYRIDATIS
    - FORUM SUARIUM
    - ARCHEMORIUM
    - HORTI ARGIANI
    - PILA TIBURTINA
    - AD MANSUETOS
    - LAPIS PERTUSUS
    - VICI X-VICOMAG. XL
    - CURATORES II
    - DENUNC. II
    - INSULAE III. M. CCC. LXXXV
    - DOMUS CXX
    - HORREA XXV
    - PISTRINA XVI
    - BALINEAE PRIVATAE LXXV
    - LACUS LXXVI
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XII. M. DCC.


    SESTO RUFO

    - VICUS GANYMEDIS
    - VICUS GORDIANI MINOR
    - VICUS NOVUS ALIAS NOVOS
    - VICUS CAPRARIUS
    - VICUS SOLIS
    - VICUS GENTIANUS
    - VICUS SANGI ALIAS SANCI
    - VICUS HERBARIUS
    -  VICUS MANSUETUS
    - SUGILLARIUS MINOR
    - VICUS SOLATARIUS
    - VICUS FORTUNAE
    - VICUS SPEI MAIORIS
    - VICUS NOVUS ULTERIOR
    - VICUS LIBERTORUM
    - VICUS PUBLII
    - VICUS NOVUS
    - VICUS CITERIOR
    - VICUS STATUAE VENERIS
    - VICUS ARCHEMORIUM ALIAS ARCHEMONIUM
    - VICUS AEMILIANUS
    - VICUS PISCARIUS
    - VICUS CAELATUS
    - VICUS VICTORIAE
    - VICUS VICINUS
    - VICUS GRAECUS
    - VICUS LANARIUS ULTERIOR
    - VICUS POMONAE
    - VICUS CAPUT MINERVAE
    - VICUS TROIANUS
    - VICUS PEREGRINUS
    - VICUS CASTUS
    - VICUS MINOR
    - VICUS PUTEALUM
    - VICUS SCIPIONIS
    - VICUS IUNONIS
    - VICUS SELLARIUS
    - VICUS ISIDIS
    - VICUS TABELLARIUS
    - VICUS MANCINUS
    - VICUS LOTARIUS
    - LACUS GANYMEDIS
    - LACUS PERTUSUS
    - ARCUS GORDIANI
    - ARCUS NOVUS
    - ARCUS VERI ET MARCI AUGG.
    - NYMPHAEUM IOVIS
    - AEDICULA CAPRARIA
    - CAMPUS AGRIPPAE
    - TEMPLUM SOLIS
    - CASTRA GENTIANA
    - CASTRA GYPSIANA
    - PORTICUS CONSTANTINI
    - TEMPLUM NOVUM SPEI
    - TEMPLUM FORTUNAE
    - TEMPLUM QUIRINI
    - SACELLUM GENII SANGI
    - COHORTES VII
    - VIGILUM
    - AEQUIS AENEI TYRIDATIS
    - FORUM SUARIUM
    - ARCHEMORIUM
    - HORTI ARGIANI
    - PILA TIBURTINA
    - LAPIS PERTUSUS
    - INS. III. M. CCC. LXXXV
    - DOMVS CXX
    - HORREA XXV
    - CUR. II-
    - DEN. II
    - VICOMAG. CXX
    - BALINEAE PRIV. LXXXV
    - PISTRINA XXVII
    - LACUS LXXVI.
    - REGIO CONTINET IN CIRCUITU PED. XIII. M. D. CC.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - LACUM GANYMEDIS
    - COHORTES V VIGILUM
    - ARCUM NOVUM
    - NYMPHEUM IOVIS
    - AEDICULA CAPRARIA
    - CAMPUM AGRIPPAE
    - TEMPLUM SOLIS ET CASTRA
    - PORTICUM GYPSIANI ET CONSTANTINI
    - EQUOS TYRIDATIS REGIS ARMENIORUM
    - FORUM SUARIUM
    - FORUM MANSUETAS
    - LAPIDEM PERTUSUM
    - VICI XV
    - AEDICULAE XV
    - VICOMAG. XLVIII.
    - CUR II
    - INSULAE III. DCCC. V
    - DOMUS CXX
    - HORREA LXV
    - BALNEA LXXV
    - LACOS LXXXVI
    - PISTRINA XVI
    - CONTINET PEDES XIII. M. CCC.




    REGIONE VIII - FORO ROMANO


    "La regione VIII, chiamata Foro Romano dal nome di questo celebre foro che conteneva, abbracciava nel suo giro l'intiero monte Capitolino con il piano, che sta tra questo e gli altri due colli Palatino e Quirinale, confinando colla regione IX nella parte occidentale del Campidoglio, colla XI verso il Tevere, colla X sotto il lato occidentale del Palatino, colla IV tra l'angolo settentrionale del detto colle Palatino ed il meridionale del Quirinale, colla VI a piedi del medesimo colle Quirinale, e colla VII nel breve tratto di spazio che separa il Campidoglio dal Quirinale verso Settentrione. La misura assegnata dai Regionari di 12 in 13000 piedi si trova approssimativamente confrontare nel descritto giro. Questa regione, per la moltiplicità dei monumenti che conteneva, e per la sua centrale situazione, doveva essere certamente la più interessante. Intorno la disposizione dei suoi monumenti, e specialmente di quelli che stavano nel giro del foro Romano, insorsero in ogni tempo molte controversie, in modo che lo scoprimento solo dell'antico suolo potrà mostrare la verità. Pertanto per non trascurare questa parte interessante della città se ne indicherà quivi le principali sue disposizioni."


    PUBLIO VITTORE

    - ROSTRA POPULI ROMANI
    - AEDES VICTORIAE CUM ALIA AEDICULA VICTORIAE VIRGINIS DD. A PORCIO CATONE
    - TEMPLUM IULII CAESARIS IN FORO
    - VICTORIAE AUREAE STATUA IN TEMPLO IOVIS OPT. MAX
    .- FICUS RUMINALIS ET LUPERCAL VIRGINIS
    - COLUMNA CUM STATUA M. LUDII
    - GRAECOSTASIS
    - AEDES OPIS ET SATURNI IN VICO IUGARIO
    - MILLIARIUM AUREUM
    - SENATULUM AUREUM
    - PILA HORATIA UBI TROPEA LOCATA NUNCUPANTUR
    - CURIA
    - TEMPLUM CASTORUM AD LACUM IUTURNAE
    - TEMPLUM CONCORDIAE
    - EQUUS AENEUS DOMITIANI
    - ATRIUM MINERVAE
    - LUDUS AEMILIANUS
    - IULIA PORTICUS
    - ARCUS FABIANUS
    - PUTEAL LIBONIS
    - IANI DUO CELEBRIS MERCATORUM LOCUS
    - REGIA NUMAE
    -TEMPLUM VESTAE
    - TEMPLUM DEORUM PENATIUM
    -TEMPLUM ROMULI
    - TEMPLUM IANI
    - FORUM CAESARIS
    - STATIONES MUNICIPIORUM
    - FORUM AUGUSTI CUM AEDE MARTIS ULTORIS
    -TRAJANI CUM TEMPLO ET EQUO AENEO ET COLUMNA COCHLIDE QUAE EST ALTA PEDES CXXVIII HABETQUE INTUS GRADUS CLXXXV FENESTELLAS XLV
    - COHORTES SEX VIGILUM
    - AEDICULA CONCORDIAE SUPRA GRAECOSTASIM
    - LACUS CURTIUS
    - BASILICA ARGENTARIA
    - UMBILICUS URBIS ROMAE
    - TEMPLUM TITI ET VESPASIANI
    - BASILICA PAULLI CUM PHRYGIIS COLUMNIS
    - FICUS RUMINALIS IN COMITIO UBI ET LUPERCAL
    - AEDES VEIOVIS INTER ARCEM ET CAPITOLIUM PROPE ASYLUM
    - VICUS LIGURUM
    - APOLLO TRANSLATUS EX APOLLONIA A LUCULLO XXX. CUB
    .- DELUBRUM MINERVAE
    - AEDICULA INVENTAE
    - PORTA CARMENTALIS VERSUS CIRCUM FLAMINIUM
    - TEMPLUM CARMENTAE
    - CAPITOLIUM UBI OMNIUM DEORUM SIMULACRA CELEBRANTUR
    - CURIA CALABRA, UBI PONTIFEX MINOR DIES PRONUNCIABAT
    - TEMPLUM IOVIS OPTIMI MAXIMI
    - AEDIS IOVIS TONANTIS AB AUG. DD. IN CLIVO CAPITOLINO
    - SIGNUM IOVIS IMPERATORIS A PRAENESTE DEVECTUM
    - ASYLUM
    - TEMPLUM VETUS MINERVAE
    - HORREA GERMANICA
    - HORREA AGRIPPINA
    - AQUA CERNENS QUATRUOR SCAUROS
    - FORUM BOARIUM
    - SACELLUM PUDICITIAE PATRICIAE
    - AEDES HERCULIS VICTORIS DUAE
    - ALTERA AD PORTAM TRIGEMICAM
    - ALTERA IN FORO BOARIO COGNOMINE ROTUNDA ET PARVA
    - FORUM PISCARIUM
    - AEDES MATUTAE
    -VICUS IUGARIUS IDEM ET THURARIUS UBI SUNT ARAE OPIS ET CERERIS CUM SIGNO VERTUMNI
    - CARCER IMMINENS FORO A TULLO HOSTILIO AEDIFICATUS MEDIA URBE
    - PORTICUS MARGARITARIA
    - LUDI LITTERARII
    - VICUS UNGUENTARIUS
    - AEDES VERTUMNI IN VICO THUSCO
    - ELEPHANTUS HERBARIUS
    - VICI XII
    - AEDICULAE TOTIDEM
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - DENUNCIATORES II
    - INSULAE III. M. DCCC. LXXX
    - DOMUS CL
    - BALINEAE PRIVATAE LXVI
    - HORREA XVIII
    - LACUS CXX
    - PISTRINA XX
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XII. M. DCCC. LXVII.


    SESTO RUFO

    - ROSTRA POPULI ROMANI
    - FIDES CANDIDA
    - AEDES VICTORIAE
    - AEDICULA VICTORIAE
    - TEMPLUM ROMULI
    - CONCORDIAE
    - VESPASIANI
    - MIVERVAE
    - VESTAE
    - SATURNI
    - IULII
    - AUGUSTI
    - IUNONIS MARTIALIS
    - CASTORUM
    - SENACULUM AUREUM
    - PUTEAL LIBONIS
    - COMITIUM
    - SCHOLA XANTHA
    - LIVIAE PORTICUS
    - ARCUS FABIANUS
    - LACUS CURTIUS
    - REGIA NUMAE
    - TEMPLUM DEUM PENATIUM
    - TEMPLUM LARUM
    - FORUM CAESARIS
    - FICUS RUMINALIS
    - VICUS IUGARIS ALIAS LIGURIUS
    - VIA NOVA
    - LUCUS VESTAE
    - ALIAS LOCUTIOS
    - DELUBRVM MINERVAE
    - BASILICA PAULLI
    - TEMPLUM IANI
    - FORUM PISCARIUM. BOARIUM
    - CARCER
    - FORUM AUGUSTI
    - TRAIANI
    - CAPITOLIUM CUM ARCE
    - CURIA CALABRA
    - TEMPLUM IOVIS CAPITOLINI
    - ASYLUM
    - TEMPLUM IOVIS FERETRII
    - TEMPLUM VENERIS CALVAE
    - CURIA HOSTILIA SUB VETERIBUS
    - DELUBRUM LARUM-AEDES IUNONIS
    - AEDICULA MATRIS ROMAE
    - COLUMNA DIVI IULII
    - EQUUS AENEUS DOMITIANI
    - COLUMN. MAGN. LUDI SAECUL
    - ARA SATURNI.
    - TEMPLUM VENERIS ET ANCHISAE
    - TEMPLUM IANI PUBLICI
    - TEMPLUM EQUA CERNENS QUATUOR SATYROS
    - VICUS NOVUS
    - LUDI LITTERARII
    - VICUS UNGUENTARIUS MINOR
    - TUSCUS .... TUSCO.
    - BASIL....
    - MACELL.....
    - VICI XII
    - VICOMAG. XLIX
    - CUR II
    - DENUNC. Il
    - INSUL.... IL. DCCC. LXXX.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - ROSTRAS III
    - GENIUM POPULI ROMANI
    - SENATUM
    - ATRIUM MINERVAE
    - FORUM CAESARIS
    - AUGUSTI
    - NERVAE
    - TRAIANI
    - TEMPLUM TRAIANI ET COLUMNAM COCHLIDEM ALTAM PEDES CXXVII. SEMIS. GRADOS INTUS HABET CLXXX. FENESTRAS XLV
    - COHORTES VI. VIGILUM
    - BASILICAM ARGENTARIAM
    - TEMPLUM CONCORDIAE ET SATURNI, ET VESPASIANI, ET TITI
    - CAPITOLIUM
    - MILIARIUM AUREUM
    - VICUM IUGARIUM
    - GRAECOSTADIUM
    - BASILICA IULIA
    -TEMPLUM CASTORUM
    - TEMPLUM MINERVAE
    - TEMPLUM VESTAM
    - HORREA AGRIPPIANA
    - AQUAM CERNENTEM. IIII.
    - SCAUROS SUB EADE
    - ATRIUM CACI
    - PORTICUM MARGARITARIAM
    - ELEPHANTUM HERBARIUM
    - VICI XV
    - AEDES XXXIV
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - INSULAE III. M. CCCC. LXXX
    - DOMUS CXXX.
    - HORREA XVIII
    - BALNEA LXXXVI
    - LACOS CXX
    - PISTRINA XX
    - CONTINET PED. XIIII. M. LXVII.




    REGIONE IX - CIRCO FLAMINIO




    "Nello spazio occupato dalla regione IX, detta Circo Flaminio da questo edifizio che conteneva, si trova ora situata la più grande parte del fabbricato di Roma moderna. Questa regione si estendeva in grandezza più delle finora altre descritte regioni; poichè il suo giro si vede stabilito da Vittore di 30500 piedi, e dalla Notizia di trentadue e cinquecento; e si trovava intieramente fuori del recinto di Servio. Abbracciava nel suo giro il celebre Campo Marzio, costeggiando da una parte il corso del Tevere, e dall'altra confinando colla settima regione, e per piccolo tratto coll'ottava sotto al Campidoglio, e colla undecima verso il foro Olitorio. È da osservarsi inoltre che tre sono principalmente le direzioni state date alle antiche fabbriche di questa regione. Quelle situate circa nel mezzo della medesima verso il Campo Marzio sono state collocate maestrevolmente a seconda della linea meridionale, quelle poste verso l'VIII regione, nel luogo denominato propriamente Circo Flaminio, inclinavano per poco verso Oriente; e quelle situate dalla parte della settima regione secondavano la direzione della via Lata, ossia della moderna via del Corso."



    PUBLIO VITTORE

    - STABULA IIII. FACTIONUM
    - AEDIS ANTIQUA APOLLINIS CUM LAVACRO
    - AEDIS HERCULI MAGNO CUSTODI CIRCI FLAMINII
    - PORTICUS PHILIPPI
    - AEDIS VULCANI IN CIRCO FLAMINIO
    - MIMITIA VETUS
    - MIMITIA FRUMENTARIA
    - PORTICUS CORINTHIA CN. OCTAVII QUAE PRIMA DUPLEX FUIT
    - CRYPTA BALBI
    - THEATRUM BALBI CAPIT LOCA XXX. M. XCV. CL. CAESAR DEDICAVIT ET APPELLATUR A VICINITATE
    - IUPITER POMPEIANUS
    - THEATRUM MARCELLI CAPIT LOCA XXX. M. UBI ERAT ALIUD TEMPLUM IANI
    - DELUBRUM CN. DOMITII
    - CARCER CL. XXVIR
    - TEMPLUM BRUTI CALLAICI
    - VILLA PUBLICA UBI PRIMUM POPULI CENSUS EST ACTUS IN CAMPO MARTIO
    - CAMPUS MARTIS
    - AEDIS IUTURNAE AD AQUAM VIRG.
    - SEPTA TRIGARIA
    - EQUIRIA
    - HORTI LUCULLANI
    - FONS SCIPIONUM
    - SEPULCRUM AUGUSTORUM
    - CICONIAE NIXAE
    - PANTHEON
    - THEATRUM POMPEI
    - BASILICA MACIDII
    - MARTIANI
    - TEMPLUM D. ANTONINI CUM COCHLIDE COLUMNA QUAE EST ALTA PEDES CLXXV. HABET INTUS GRADUS CCVI. ET FENESTELLAS LVI.
    - THERMAE ADRIANI
    - THERMAE NERONIANAE, QUAE POSTEA ALEXANDRINAE
    - THERMAE AGRIPPAE
    - TEMPLUM BONI EVENTUS
    - AEDES BELLONAE VERSUS PORTAM CARMENTALEM, ANTE HANC AEDEM COLUMNA INDEX BELLI INFERENDI
    - PORTICUS ARGONAUTARUM
    - PORTICUS MELEAGRICUM
    - PORTICUS ISEUM
    - PORTICUS SERAPEUM
    - PORTICUS MINERVIUM
    - MINERVA CHALCIDICA
    - INSULA PHELIDII SIVE PHELIDIS
    - VICI XXX
    - AED. TOTID
    - VICOMAG. CCXX
    - CURAT. II
    - DEN. II
    - INSULAE III. M. DCCLXXXVIII
    - DOMUS CXL
    - BALINEAE PRIVATAE LXIII
    - HORREA XXII
    - PISTRINA XX.
    - REGIO IN AMBITU HABET PED. XXX. M. D.


    SESTO RUFO

    - CIRCUS FLAMINIUS
    - AEDES ANTIQUA APOLLINIS CUM COLOSSO LAVACRUM APOLLINIS
    - STABULA QUATUOR FACTIONUM
    - HERCULI MAGNO CUSTODI
    - PORTICUS PHILIPPI
    - AEDES VOLCANI IN CIRCO FLAMINIO
    - MIMITIA VETUS
    - THEATRUM BALBI
    - CRYPTA BALBI
    - PORTICUS CORINTHIA CN. OCTAVII
    - THEATRUM LAPIDEUM
    - MIMITIA FRUMENTARIA
    - LUCUS MAVORTIANUS
    - MINERVA VETUS CUM LUCO
    - LUCUS POETILINUS
    - FONS SCIPIONUM .... TIS.
    ............
    - SEPULC...
    - AEDES APOLLINIS
    - THERMAE HADRIANI
    - VILLA PUBLICA
    - THEATRUM POMPEII
    - EQUIRIA
    - STADIUM
    - AMPHITHEATRUM TAURI STATILII
    - IUPITER POMPEIANUS
    - THEATRUM MARCELLI
    - DELUBRUM CN. DOMITII
    - CARCER C. VIRORUM
    - HORTI LUCULLANI
    - CAMPUS MARTIS
    - SEPTA TRIGARIA
    - AEDES NEPTUNI
    - AEDES IUTURNAE AD AQUAM VIRGINEM
    - TEMPLUM BRUTI CALLAICI
    - LUCUS VICTORIAE VETUS.
    - HORTI ET TERMAE AGRIPPAE
    - DOMUS ET CIRCUS ALEXANDRI PII IMPERATORIS
    - LACUS THERMAR. NERON....


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - STABULA IIII. FACTIONUM
    - PORTICUM PHILIPPI
    - MINUCIAM VETEREM ET FRUMENTARIAM
    - CRYPTA BALBI
    - THEATRA III.
    - IN PRIMIS T BALBI, QUOD CAPIT LOCA XI. M. DX.
    - T POMPEII CAPIT LOCA XVII. M. DLXXX.
    - T MARCELLI CAPIT XX. M
    - ODEUM CAPIT LOCA X. M. DC
    - STADIUM CAPIT LOCA XXX. M. LXXXVII.
    - CAMPUM MARTIUM
    - TRIGARIUM
    - CICONIAS NIXAS
    - PANTHEUM
    - BASILICAS NEPTUNI, MATIDIES, MARCIANI
    - TEMPLUM ANTONINI, ET COLUMNAM COCHLIDEM ALTAM PEDES CLXXX. S. GRADUS INTUS HABET CCIII. FENESTRAS LVI
    - THERMAS ALEXANDRINAS ET AGRIPPINAS
    - PORTICUM ARGONAUTARUM ET MELEAGRI
    - ISEUM ET SERAPEUM
    - MINERVAM CHALCIDICAM
    - DIVORUM MENSULE FELICLES
    - VICI XXXV-AED. XXVV.
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II.
    - INSULAE II. M. DCCLXXVII
    - DOMUS CXL
    - HORREA XXVII-BALNEA LXIII
    - LACOS CXX
    - PISTRINA XX.
    - CONTINET PED. XXXII. M. D.




    REGIONE X - PALAZZO


    "La regione X occupava per intiero il monte Palatino; e dal Palazzo che stava ivi collocato ne riceveva il nome. I suoi limiti nella parte del foro Romano, ed in quella del Circo Massimo si trovano chiaramente stabiliti dalla posizione degli edifizj situati nel confine delle due regioni. Nella parte verso l'Esquilino questa regione giungeva probabilmente sino alla via Sacra; ed in quella posta verso il Celio doveva occupare evidentemente per intiero la valle che divide i due colli con qualche piccola parte del Celio stesso, onde dare al suo perimetro la misura degli 11600 piedi stabilita dai Regionari. Sul monte Palatino, che formava la parte principale di questa regione, stava edificata la primitiva Roma. Quindi questo colle dalle più vili abitazioni che componevano la prima Città, passò nel tempo della grandezza Romana a contenere le più magnifiche fabbriche che mai si potessero eseguire, e che formavano il Palazzo Imperiale. Sotto questo aspetto viene in miglior modo considerata nel parlare delle abitazioni dei Romani in particolare nell'indicata opera dell'Architettura antica. Pertanto quivi, secondo il piano stabilito, indicherò la posizione dei principali monumenti che conteneva."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS PADI
    - VICUS CURIARUM
    - VICUS FORTUNAE RESPICIENTIS
    - VICUS SALUTARIS,
    - VICUS APOLLINIS
    - VICUSHUIUSQUE DIEI
    - ROMA QUADRATA
    - AEDES IOVIS STATORIS
    - CASA ROMULI
    - PRATA BACCHI UBI FUERUNT AEDES VITRUVII FUNDANI
    - ARA FEBRIS
    - TEMPLUM FIDEI
    - AEDIS MATRIS DEUM
    - HUIC FUIT CONTERMINUM DELUBRUM SOSPITAE IUNONIS
    - DOMUS CEIONIORUM
    - SUELIA
    - IOVIS COENATIO
    - AEDIS APOLLINIS UBI LYCIINI PENDEBANT INSTAR ARBORIS MALA FERENTIS
    - AEDIS DEAE VIRIPLACAE IN PALATIO
    - BIBLIOTECAE
    - AEDES RHAMNUSIAE
    - PENTAPYLON IOVIS ARBITRATORIS
    - DOMUS AUGUSTANA
    - DOMUS TIBERIANA
    - SEDES IMPERII ROMANI
    - AUGURATORIUM
    - AD MAMMAEAM, HOC EST DIETAE MAMMAEAE
    - ARA PALATINA
    - AEDES IOVIS VICTORIS
    - DOMUS DIONYSII
    - DOMUS Q. CATULI
    - DOMUS CICERONIS
    - AEDES DIIOVIS
    - VELIA
    - CURIA VETUS
    - FORTUNA RESPICIENS
    - SEPTIZONIUM SEVERI
    - VICTORIA GERMANICIANA
    - LUPERCAL
    - VICI VI
    - AED TOTIDEM
    - VICOMAG . XXIIII
    - CUR. II
    - DENUNC. II
    - INSULAE II. M. DC. XLIIII
    - DOMUS LXXXVIII
    - LACUS LXXX
    - HORREA XLVIII
    - PISTRINA XX
    - BALINAEAE PRIVATAE XXXVI
    - REGIO IN AMBITU HABET PED. XII. M. DC.


    SESTO RUFO

    Non pervenuta.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - CASAM ROMULI
    - AEDEM MATRIS DEUM ET APOLLINIS RHAMNUSII. PENTAPYLUS
    - DOMVM AUGUSTANAM ET TIBERIANAM
    - AEDEM IOVIS.
     - CURIAM VETEREM
    - FORTUNAM RESPICIENTEM
    - SEPTIZONIUM DIVI SEVERI
    - VICTORIAM GERMANIANAM
    - LUPERCAL
    - VICI XX
    - AEDES XX.
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II
    - INSULAE II. M. DCC. XLII
    - DOMUS LXXXIX.
    - HORREA XLVIII
    - BALINEA XLIIII
    - LACOS XC
    - PISTRINA XX
    - CONTINET PED. XI. M. D. X.




    REGIONE XI - CIRCO MASSIMO


    "La regione XI che era distinta collo stesso nome del Circo Massimo in essa contenuto, oltre lo spazio compreso fra il monte Palatino e l'Aventino, occupato quasi per intiero dal detto Circo, si estendeva ancora nel piano situato lungo il corso del Tevere e posto tra le due estremità delle mura del recinto di Servio; cioè dalla porta Trigemina alla Flumentana. In tale località veniva a formare un giro di circa 11500 piedi come si trova registrato dai Regionari."


    PUBLIO VITTORE

    - CIRCUS MAXIMUS QUI CAPIT LOCA CCCLXXXV. M. XII. PORTAE.
    - TEMPLUM MERCURI
    - AEDES DITIS PATRIS
    - AEDES CERERIS
    - VENERIS OPUS FABII GURGITIS
    - PORTUMNI AD PONTEM AEMILI OLIM SUBLICI.
    - PORTA TRIGEMINA
    - SALINAE
    - APOLLO COELISPEX
    - AEDES PORTUMNI
    - HERCULES OLIVARIUS
    - ARA MAXIMA
    - TEMPLUM CASTORIS.
    - AEDES CERERIS
    - AEDES POMPEI
    - OBELISCI II IACET ALTER, ALTER ERECTUS
    - AEDES MURCIAE
    - AEDES CONSI SUBTERRANEA
    - FORUM OLITORIUM. IN EO COLUMNA EST LACTARIA AD QUAM INFANTES LACTE ALENDOS DEFERUNT
    - AEDES PIETATIS IN FORO OLITORIO
    - AEDES JUNONIS MATUTAE
    - VELABRUM MAIUS-VICI VIII
    - AED. TOTID
    - VICOMAG. XXXII
    - CUR. Il
    - DENUNC. II
    - INSULAE M. DC
    - DOMUS LXXXIX.
    - BALINEAE PRIVATAE XV
    - HORREA XVI
    - LACUS LX
    - PISTRINA XII.
    - REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XI. M. D.


    SESTO RUFO

    - APOLLO COELISPEX
    - SALINAE
    - PORTA TRIGEMINA
    - LUCUS SEMELIS MINOR
    - AEDES PORTUMNI AD PONTEM SUBLICII
    - DITIS PATRIS
    - CERERIS
    - PROSERPINAE
    - TEMPLUM MERCURII
    - HERCULIS
    - HERCULES TRIUMPHALIS
    - CIRCUS MAXIMUS
    - HERCULES OLIVARIUS
    - ARA MAXIMA
    - TEMPLUM CASTORIS .... MUR...
    - BALISICA CAII ET LUCII ... PUD... IUNO ...
    - AEDES CONSI
    - VICUS CONSINIUS
    - VICUS PROSERPINAE
    - VICUS CERERIS
    - VICUS ARGAEI PISCARIUS
    - VICUS PARCARUM
    - VICUS VENERIS
    - VICUS SANCTUS
    - FORUM OLITORIUM.
    - COLUMNA LACTARIA
    - AEDES PIETATIS
    - AEDES MATUTAE
    - VELABRUM MAIUS IN FORO OLITORIO
    - SACRARIUM SATURNI CUM LUCO
    - AREA SANCTA
    - AEDES XII
    - VENERIS
    - IUNONIS ....


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - TEMPLUM SOLIS, ET LUNAE, ET MERCURII
    - AEDEM MATRIS DEUM ET IOVIS
    - CEREREM. XII PORTAS
    - PORTAM TRIGEMINAM
    - APOLLINEM CAELISPICEM
    - HERCULEM OLIVARIM
    - VELABRUM
    - ARCUM CONSTANTINI
    - VICI XXI
    - AED.XXI
    - VICOMAG.XLVIII
    - CUR. II
    - INSULAE II M. D. DOMUS LXXXVIII.
    - HORREA XVI
    - BALNEA XV.
    - LACOS XX
    - PISTRINA XVI
    - CONTINET. PED. XI. M. D.




    REGIONE XII - PISCINA PUBLICA


    "La regione XII era chiamata Piscina Pubblica da un grande luogo per bagni ch'era stato fatto per comodo di esercitarsi al nuoto la gioventù; ed occupava nella sua larghezza lo spazio posto tra il Celio e l'Aventino, confinando ivi con la II e la XIII regione, che poste sui detti monti ne portavano lo stesso nome; ma però onde stabilirle un più conveniente spazio di quello che le si attribuisce, il quale si trova occupato in gran parte dalle sole terme Antoniane, doveva estendersi pure su quella parte dell'Aventino che resta disgiunta verso Oriente dal medesimo colle Aventino propriamente detto, e dove ora stanno le Chiese di S Sabina e di S. Balbina. In lunghezza poi dal Circo Massimo doveva giungere poco oltre il lato meridionale delle terme Antoniane, ove cominciava per tale parte la regione I. Il suo giro da Vittore e dalla Notizia si prescrive di 12000 piedi, e nella indicata località si trova confrontare incirca tale misura."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS VENERIS ALMAE
    - VICUS PISCINAE PUBLICAE
    - VICUS DIANAE
    - VICUS CEIOS. TRIARI
    - VICUS AQUAE SALIENTIS
    - VICUS LACI TECTI
    - VICUS LACI FORTUNAE MAMMOSAE
    - VICUS COLAPETI PASTORIS
    - PORTAE RADUSCULANAE
    - PORTAE NEVIAE
    - VICTORIS
    - HORTI ASINIANI
    - AREA RADICARIA
    - CAPUT VIAE NOVAE
    - FORTUNA MAMMOSA
    - ISIS ATHENODORIA
    - AEDES BONAE DEAE SUBSAXANAE.
    - SIGNUM DELPHINI
    - THERMAE ANTONINIANAE
    - SEPTEM DOMUS PARTHORUM
    - CAMPUS LANATARIUS
    - DOMUS CHILONIS
    - COHORTES III. VIGILUM
    - DOMUS CORNIFICI
    - PRIVATA HADRIANI
    - VICI XII
    - AEDIC. TOTID
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. Il.
    - DENUNC. II.
    - INSULAE II. M. CCCC. LXXXVI.
    - DOMUS C. XIIII.
    - BALINEAE PRIVATAE XLIII.
    - LACUS LXXX.
    - HORREA XXVI.
    - PISTRINA XX.
    - REGIO IN AMBITU HABET PED. XII. M


    SESTO RUFO

    Non pervenuta.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - AREAM RADICARIAM
    - VIAM NOVAM
    - FORTUNAM MAMMOSAM.
    - ISIDEM ATHENODORIAM
    - AEDEM BONAE DEAE SUBSAXANAE
    - CLIVUM DELFINI
    - THERMAS ANTONINIANAS
    - VII DOMUS PARTHORUM
    - CAMPUM LANATARIUM
    - DOMUM CILONIS
    - COHORTES IIII. VIGILUM
    - DOMUM CORNIFICIES
    - PRIVATA HADRIANI
    - VICI XVII.
    - AED. XVII.
    - VICOMAG. XLVIII.
    - CUR. II.
    - INSULAE II. M. CCC. LXXXVII.
    - DOMUS CXIII.
    - HORREA XXVII.
    -BALNEA LXXIII.
    - LACOS LXX.
    - PISTRINA XXV.
    -  CONTINET PED. XII. M.




    REGIONE XIII - AVENTINA


    "La XIII regione, oltre lo spazio che occupava sul monte Aventino, dal quale ne traeva la sua denominazione, si estendeva ancora nel piano posto verso il Tevere e contenuto entro il recinto delle mura, nel di cui mezzo s'innalza il Testaccio. Il giro di questa regione si prescrive da Vittore essere stato di 6200 piedi; e tale misura si trova confrontare nella descritta località, non però comprendendo la parte del monte, che si stende disgiunta verso Oriente, stata considerata nell'antecedente regione."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS FIDII
    - VICUS FRUMENTARIUS
    - VICUS TRIUM VIARUM
    - VICUS CESETI
    - VICUS VALERII.
    - VICUS LACI MILIARII
    - VICUS FORTUNATI
    - VICUS CAPITIS CANTERI
    - VICUS TRIUM ALITUM
    - VICUS NOVUS
    - VICUS LORETI MINORIS
    - ARMILUSTRI
    - AEDES CONSI
    - VICUS COLUMNAE LIGNEAE
    - VICUS MINERVA IN AVENTINO
    - VICUS MATERIUS
    - VICUS MUNDICIEI.
    - VICUS LORETI MAIORIS UBI ERAT VERTUMNUS
    - VICUS  FORTUNAE DUBIAE
    - ARMILUSTRUM
    - TEMPLUM LUNAE IN AVENTINO
    - COMMUNAE DIANAE.
    - THERMAE VARIANAE
    - TEMPLUM LIBERTATIS
    - DOLIOLUM
    - AEDES BONAE DEAE IN AVENTINO
    - PRIVATA TRAIANI
    - REMURIA
    - ATRIUM LIBERTATIS IN AVENTINO
    - MAPPA AUREA
    - PLANTANON
    - HORREA ANICETI
    - SCALAE GEMONIAE
    - PORTICUS FABRARIA
    - SCHOLA CASSII
    -TEMPLUM IUNONIS REGINAE A CAMILLO DD. VEIIS CAPITIS
    - FORUM PISTORIUM
    - VICI XVII.
    - AED. TOTID.
    - VICOMAG. LXXIIII.
    - CURAT. II.
    - DENUNCIATORES II.
    - INSULAE II. M. CCCC. LXXXVIII.
    - DOMUS CIII.
    - BALINEAE PRIVATAE LXIIII
    - LACUS LXXVIII
    - HORREA XXVI
    - PISTRINA XX
    - REGIO IN AMBITU HABET PED. XVI. M. CC.


    SESTO RUFO

    Non pervenuta.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - ARMILUSTRIUM
    - TEMPLUM DIANAE ET MINERVAE
    - NYMPHEA III.
    - THERMAS SYRES ET DECIANAS
    - DOLOCENUM
    - MAPPA AUREA
    - PLATANONIS
    - HORREA GALBES ET ANICIANA
    - PORTICUM FABARIAM
    - SCALAM CASSII
    - FORUM PISTORUM
    - VICI XVIII
    - AED. XVIII
    - VICOMAG. XLVIII
    - CUR. II.
    - INSULAE II. M. CCCC. LXXXVII.
    - HORREA XXXV.
    - BALNEA XLIIII
    - LACOS LXXXIX
    - PISTRINA XX
    - CONTINET. PED. XXIII. M.




    REGIONE XIV - TRANSTIBERINA


    "L'ultima regione denominata Transtiberina dal luogo in cui stava posta al di là del Tevere, avendo un perimetro di circa 30000 piedi, come si trova registrato nel catalogo di Vittore, non poteva perciò essere contenuta nel solo spazio del Trastevere, che era circondato dal recinto Aureliano: ma sembra che si estendesse ancora verso il Vaticano, e che occupasse incirca quanto si trova ora rinchiuso dalle moderne mura."


    PUBLIO VITTORE

    - VICUS CENSORI
    - VICUS GEMINI
    - VICUS ROSTRATI
    - VICUS LONGI AQUILAE
    - VICUS STATUAE SICCIANAE
    - VICUS QUADRATI
    - VICUS RACILIANI MAIORIS
    - VICUS RACILIANI MINORIS
    - VICUS JANICULENSIS
    - VICUS BRUCTANUS
    - VICUS LARUM RURALIUM
    - VICUS STATUAE VALERIANAE
    - VICUS SALUTARIS
    - VICUS PAULI
    - VICUS SEX. LUCEI
    - VICUS SIMI PUBLICI
    - VICUS PATRATILLI
    - VICUS LACI RESTITUTI
    - VICUS SAUFEI
    - VICUS SERGI
    - VICUS PLOTI
    - VICUS VIBERINI
    - VICUS GAIANUM
    - IN INSULA AEDES IOVIS ET AESCULAPII ET AEDES FAUNI
    - NAUMACHIAE
    - CORNISCAE
    - VATICANUS
    - HORTI DOMITIAE
    - IANICULUM
    - MANIAE SACELLUM
    - BALINEUM AMPELIDIS
    - BALINEUM PRISCILLIANAE
    - STATUA VALERIANA.
    - STATUA SICCIANA
    - SEPULCRUM NUMAE
    - COHORTES VII. VIGILUM
    - CAPUT GORGONIS
    - TEMPLUM FORTIS FORTUNAE
    - AREA SEPTIMIANA
    - HERCULES CUBANS
    - CAMPUS BRUTANUS
    - CAMPUS CODETANUS
    - HORTI GETAE
    - CASTRA LECTICARIORUM
    - VICI XXII.
    - AED. TOTID.
    - VICOMAG. LXXVIII.
    - CUR. II
    - DENUNC. Il.
    - INSULAE IIII. M. CCCC. V.
    - DOMUS CC.
    - BALINEAE PRIVATAE LXXXVI.
    - LACUS CLXXX.
    - HORREA XXII.
    - REGIO IN AMBITU HABET PEDES XXXIII. M. CCCC. LXX. VIII.


    SESTO RUFO

    Non pervenuta.


    NOTIZIA DELL'IMPERO

    - GAJANUM ET FRYGIANUM
    - NAUMACHIAS V. ET VATICANUM
    - HORTOS DOMITIES
    - MOLINAS
    - BALINEUM AMPELIDIS, ET DIANES
    - COHORTES VII. VIGILUM
    - STATUAM VALERIANAM
    - CAPUT GORGONIS
    - FORTIS FORTUNA
    - CORARIAM SEPTIMIANAM
    - HERCULEM SUBTERRAM MEDIUM CUBANTEM SUB QUEM PLURIMUM AURUM POSITUM EST
    - CAMPUM BRUTTIANUM ET CODETANUM
    - HORTOS GETES
    - CASTRA LECTICARIORUM
    - VICI LXXVIII
    - AEDES LXXVIII.
    - VICOMAG. XLVIII.
    - CUR. II.
    - INSULAE IIII. M. CCCC. V.
    - DOMUS CL.
    - HORREA XXII.
    - BALNEA LXXVII.
    - LACOS CLXXX.
    - PISTRINA XXIIII.
    - CONTINET PED. XXIII. M.

    PLAUTO

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    Nome: Titus Maccius Plautus
    Nascita: Sarsina, 250 a.c.
    Morte: 184 a.c.












    Da Alularia:
    Non fate meraviglie:
    in due parole vi dirò chi sono.
    Sono il Lare domestico di quella
    casa, da cui m'avete visto uscire.
    Già da molt'anni l'abito e la guardo
    per l'avo e per il padre
    di quello che ora la possiede. Il nonno
    in gran segreto e con grandi preghiere
    un bel gruzzolo d'oro m'affidò
    seppellendolo in mezzo al focolare
    e pregando che ben lo custodissi.




    LE ORIGINI

    Questi versi sono di Plauto, un autore latino tra i più conosciuti per le opere ma più sconosciuto per la vita. Egli nasce A Sarsina, allora in Umbria, oggi in Emilia Romagna, nel 250.

    La data di nascita si ricava indirettamente da una notizia di Cicerone (Cato maior 14,50), secondo cui Plauto scrisse da senex la sua commedia Pseudolus. Lo Pseudolus risulta rappresentato nel 191, e la senectus per i Romani cominciava a 60 anni. e sempre Cicerone ( Brutus, XV, 60 ) ci fa sapere che Plauto morì nel 184 a.c., le uniche notizie certe sulla vita di Plauto sono dunque la nascita e la morte. La data di morte, del 180- 184 a.c., è sicura; Per il resto si possono fare e si sono fatte solo supposizioni.

    Plauto fu esponente arguto e prolifico del genere teatrale della Palliata (commedia latina con contenuto greco), ideato dall'innovatore della letteratura latina Livio Andronico, geniale poeta, drammaturgo e attore teatrale  romano.

    Ci sono incertezze anche sul suo nome: Titus Maccius Plautus, in quanto il triplo nomen era prerogativa del cives romanus  mentre il poeta era del suolo italico. Gli antichi lo citarono come Plautus, romanizzazione di un cognome umbro Plotus. Fino all’Ottocento venne chiamato però Marcus Accius Plautus.

    Un antichissimo codice di Plauto, il Palinsesto Ambrosiano, rinvenuto ai primi dell’800 dal cardinale Angelo Mai, riporta il nome completo come Titus Maccius Plautus; da Maccius, che per errore di divisione delle lettere, era uscito fuori il tradizionale M. Accius (che sembrava credibile per influsso di L. Accius, il nome del celebre tragediografo).

    Tuttavia il nomen Maccius rimanda al nome di una maschera fissa del teatro italico, Maccus, lo sciocco che suscita ilarità per cui forse il poeta lo avrebbe scelto per se stesso, modificando Maccus in Maccius cioè “della gens Marcia”, giocando sulla sua nobiltà; oppure è un errore o un’invenzione dei biografi.  Ma il nomen Maccius "Maccio", il prototipo dello sciocco, deriverebbe dall'omonima maschera atellana; lo stesso termine "Plautus" può significare o "piedi piatti" oppure "orecchie lunghe e penzoloni". 

    Molto probabilmente, quindi, si tratta di nomi d’arte che Plauto aveva usato durante l’attività di attore. Forse lo stesso Plauto aveva corretto burlescamente Maccus in Maccius cioè “della gens Marcia”: una sorta di gentilizio con cui il poeta si attribuiva scherzosamente dei nobili natali; La Gens Marcia era tra le cento gentes originarie ricordate dallo storico Tito Livio, ma Plauto era nato in Umbria, oppure è un’invenzione dei biografi che nel nomen Maccius indicavano la sua attività drammaturgica.

    Altri dubbi rimangono su Plauto e la sua opera, sulla data di composizione, sulla prima rappresentazione delle singole commedie e sui rapporti con Nevio, che fu in un certo senso il suo predecessore, poichè dai frammenti delle sue opere a noi giunti si nota una colorita inventiva verbale che sembra anticipare Plauto.

    Girolamo anticipa la sua data di morte al 200 a.c., ma un accenno della Càsina assicura che Plauto era vivo nel 186, quando avvenne lo “scandalo dei Baccanali”. 
    Da un altro passo di Cicerone ( Cato maior , XIV, 50 ) si evince una data di nascita oscillante tra il 255 e il 251 a.c. Altre notizie su Plauto si ricavano da altre fonti, come da Aulo Gellio che attinse da Varrone. Nell’epitaffio del poeta citato da Gellio (pytdo da Varrone) si dice che, alla morte di Plauto.: "numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt" ("scoppiarono in pianto tutti insieme ritmi innumerevoli").

    Gli storici antichi derivarono notizie dalle sue opere sulla base di vaghissime allusioni autobiografiche. Gellio racconta che Plauto, avendo perduto, a causa di traffici sfortunati, il denaro guadagnato, e per questo indebitato, divenne schiavo del creditore che gli assegnò di girare la macina del mulino.

    Durante la schiavitù Plauto avrebbe scritto tre commedie. Per altri anche se non in schiavitù, cominciò a comporre commedie trovandosi in ristrettezze, fra cui il "Saturio" (Il pancia piena) e l’ "Addictus" (schiavo per debiti), che già dai titoli richiamano rovesci finanziari; e una terza, dal titolo sconosciuto, che, rappresentate con successo, furono l’inizio di una fortunata attività teatrale durata oltre un quarantennio.

    È ancora Gellio a riferirci che Plauto avrebbe passato la giovinezza in una compagnia di comici, da cui avrebbe appreso il mestiere di teatrante e che, dopo aver raggiunto la fama come autore, avrebbe continuato occasionalmente a vestire i panni dell’attore, ma anche questa è supposizione.

    Ebbe fama anche perchè fu il primo autore latino a dedicarsi a un solo genere letterario. Fu alieno della politica, anche se non insensibile agli avvenimenti del tempo, la sua produzione si svolse, del resto, praticamente durante la II guerra punica, evitando così le pene che ebbe a soffrire Gneo Nevio che venne per questo imprigionato ed esiliato.

    Visse interamente della sua arte, con instancabile fervore creativo e con molto successo. Se come dicono scriveva per vivere, dovette vivere piuttosto agiatamente.
    "Allora, la comicità originale nasce proprio nel contatto fra la materia dell’intreccio e l’aprirsi di "occasioni" in cui l’azione si fa libero gioco creativo, diventa "lirismo comico" (Barchiesi)

    Plauto fu autore di enorme successo, sia contemporaneo che postumo, e di grande prolificità. Sembra che durante il II sec. a.c. circolassero circa centotrenta commedie legate al nome di Plauto, anche se non sappiamo quante fossero autentiche. 

    Nello stesso periodo, verso la metà del II secolo, cominciò un'attività editoriale che ebbe grande importanza per le opere di Plauto. Di Plauto furono condotte vere "edizioni" ispirate ai criteri della filologia alessandrina. Benefici effetti di questa attività si risentono nei manoscritti pervenuti sino a noi: le commedie furono dotate di didascalie, di sigle dei personaggi; i versi scenici di Plauto furono impaginati da competenti, in modo che ne fosse riconoscibile la natura; e questo in un periodo che ancora aveva dirette e buone informazioni in materia.

    Per tradizione Plauto avrebbe scritto ben 140 commedie, un numero assurdo. Ma era così famoso che i capocomici avranno spacciato spesso commedie di altri autori come commedie di Plauto.

    Per mettere ordine nel numeroso materiale tramandato nel nome di Plauto, nel I sec. a.c. l’erudito latino Varrone fissò un numero di commedie certe, basandosi su criteri di affinità linguistica e stilistica. Attribuì a Plauto con certezza 21 commedie, che sono poi quelle giunte a noi per intero.



    LA PRODUZIONE LETTERARIA

    Che noi sappiamo fece solo commedie, e di grande successo, visto che ancor oggi si trasmettono nei teatri. Certamente sono state alla base del teatro successivo non tragico. Perfino Shakespeare attinse da lui, anche se tutto lascia supporre che l'autore inglese fosse in realtà italiano e anzi siciliano, ma questo è un discorso a parte.
    Alla sua morte, entrarono in circolazione tutta una serie di commedie a suo nome, molte delle quali rivelatesi in seguito dei falsi. Nel I sec. a.c., ne circolavano 130 titoli e la tradizione gliene attribuiva ben 140. Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio Varrone, le studiò ("De comoedis Plautinis") e le suddivise in tre gruppi:

    - 21 certamente plautine (dette appunto "Fabulae Varronianae");
    - 19 di attribuzione incerta
    - tutte le altre considerate spurie.

    Probabilmente essendo nome di successo, dei capocomici rappresentavano commedie di altri autori dichiarandole di Plauto.

    Per mettere ordine sul materiale tramandato nel nome di Plauto, nel I sec. a.c. l’erudito latino Varrone fissò un numero di commedie certe, basandosi sul linguaggio e sullo stile.

    Egli considerò come sicuramente plautine 21 commedie e l’autorità di Varrone fu tale che si continuarono a ricopiare solo le 21 autentiche. 

    Tuttavia, da varie testimonianze degli antichi, si è indotti a pensare che esistessero altre commedie sicuramente plautine, e oggi perdute: quali:
    "Commorientes",
    "Colax",
    "Gemini lenones",
    "Condalium",
    "Anus",
    "Agroecus",
    "Faerenatrix",
    "Acharistio",
    "Parasitus piger",
    "Artemo",
    "Frivolaria",
    "Sitellitergus",
    "Astraba".

    Fra quelle più rappresentate ricordiamo:
    Anfitrione, Bacchides, Miles Gloriosus, Pseudolus e Menaechmi, pervenute per intero.

    Attraverso le relative "didascalie" (le brevi notizie che i grammatici davano in base alle indicazioni trovate nei copioni delle compagnie drammatiche, intorno alla prima rappresentazione, alla sua esecuzione e al suo esito), sappiamo la data di composizione solo dello  "Stichus" (200 a.c.) e dello "Pseudulus" (191 a.c.): la cronologia delle altre si può stabilire ipotizzando un’evoluzione del suo teatro dalla "farsa" ad una specie di "opera buffa", ma senza certezze.

    Provando comunque ad azzardare un ordine cronologico, questo potrebbe essere:
    "Asinaria" (212),
    PLAUTO
    "Mercator" (212-10),
    "Rudens" (211-205),
    "Amphitruo" (206),
    "Menaechmi" (206),
    "Miles gloriosus" (206-5),
    "Cistellaria" (204),
    "Stichus" (200),
    "Persa" (dopo il 196),
    "Epidicus" (195-4),
    "Aulularia" (194),
    "Mostellaria" (inc.),
    "Curculio" (200-191?),
    "Pseudolus" (191),
    "Captivi" (191-90),
    "Bacchides" (189),
    "Truculentus" (189),
    "Poenulus" (189-8),
    "Trinummus" (188),
    "Casina" (186-5);
    in più la "Vidularia" pervenuta in parte.

    I titoli delle 21 commedie attribuite a Plauto sono: Anfitrione, La commedia degli asini, La commedia della pentola, Le Bacchidi, I prigionieri, La ragazza dal profumo di cannella, La commedia della cesta, Gorgoglione, Epidico, I Menecmi, Il mercante, Il soldato spaccone, La commedia del fantasma, Il cartaginese, Pseudolo, La gomena, Stilo, Le tre monete, Lo zoticone, La commedia del baule,

    Tutte queste commedie sono state oggetto di studio e catalogate in sei gruppi:

    - dei Simillini (o dei Sosia): riguarda lo scambio di persona, dello specchio e del doppio;
    - dell'Agnizione: alla fine di questo tipo di commedie avviene un riconoscimento improvviso ed imprevedibile dell'identità di un personaggio;
    - della beffa: in questo tipo sono organizzati scherzi e beffe, bonari o meno;
    - del romanzesco: dove compaiono i temi dell' avventura e del viaggio;
    - della caricatura (o dei Caratteri): contenenti una rappresentazione iperbolica, esagerata di un personaggio;
    - composita: che racchiude al suo interno uno o più elementi delle sopraccitate tipologie.



    MODELLI GRECI

    Sulla scena del teatro plautino non compaiono cittadini romani; i personaggi non indossano la toga ma il pallium. Plauto, infatti, come tutti i poeti comici latini, traduce testi greci per la scena romana, tuttavia, rinnovandoli e trasformandoli con grande originalità.
    Lo stesso stesso poeta usa l’espressione "vortit barbare", “traduce in una lingua straniera”, cioè in latino.

    Il termine vertere in latino non indica la tradizione letterale – per la quale esisteva il termine exprimere – ma la traduzione artistica; in effetti Plauto non si limita a proporre in latino i contenuti dei testi greci, ma li rielabora e li adatta alla lingua e alle esigenze culturali dei romani.



    LA COMICITA' 

    Sulla scena del teatro plautino non compaiono romani perchè i personaggi non indossano la toga ma il pallium. Plauto, infatti, ma il discorso vale per tutti i poeti comici latini, traduce testi greci per la scena romana. Tuttavia, pur rifacendosi ai modelli della commedia greca, vi ha trasposto aspetti e personaggi della società romana con freschezza e brio.

    Per indicare il modo con cui propone al pubblico i modelli greci, usa l’espressione vortit barbare, “traduce in una lingua straniera”, cioè in latino. Il termine vertere sta per volgere, infatti Plauto non si limita a proporre in latino i testi greci, ma li rielabora adattandoli alla lingua e ai costumi dei romani. Non ci sono pervenuti gli originali greci da cui derivano le commedie plautine, per cui non possiamo valutare l’indipendenza e l’originalità  rispetto ai modelli greci. Conosciamo però il Menandro.

    Una delle differenze fondamentali con la commedia di Menandro, è che, mentre quello cerca la coerenza e l’organicità degli intrecci, Plauto sacrifica verosimiglianza e logica a favore degli effetti comici. Altra differenza è che il teatro di Menandro è un teatro personalistico e psicologico, mentre Plauto accentua i tratti caricaturali dei personaggi per ricavarne maschere grottesche. C'è un rovesciamento e un paradosso della realtà, in cui sono i giovani a trionfare sui vecchi, le mogli sui mariti; ma con ciò Plauto non mette in discussione la società romana, perchè vuole solamente far divertire. Plauto è un'anima leggera, anche se arguta, così la sua opera è leggera e arguta.

    Ed ecco alcuni espedienti:

    1. inserimento di parti cantate,  come avverrà poi per l’operetta, come nella Cistellaria: il giovane Alcesimarco, tenuto lontano dalla sua Selenio perché il padre vuole costringerlo a sposare una ragazza di buona famiglia, sfoga nel canto tutta la sua infelicità,
    2. - contaminatio: mescolanza di parti di commedie diverse,
    3. giochi di parole, 
    4. metafore, 
    5. accostamento di termini raffinati e rozzi
    6. scambi di personaggi e colpi di scena
    7. la parodia,  un’imitazione caricaturale, uno scritto o una scenetta che mette in ridicolo ciò che tutti conoscono: quanto più una cosa è nota, tanto più efficace è la caricatura.
    8. il metateatro, con coinvolgimento diretto del pubblico tramite un personaggio che gli si rivolge direttamente, la cosiddetta rottura dell’illusione scenica, che si ha quando il pubblico che assiste a uno spettacolo cessa di immedesimarsi nella vicenda rappresentata, perché viene invitato dai personaggi stessi a prendere atto del carattere fittizio dello spettacolo. Ciò accade per esempio quando uno dei personaggi, nel bel mezzo della rappresentazione, si mette a dialogare con il pubblico. Frequenti i casi in cui nella commedia, ambientata in Grecia, i personaggi fanno riferimento alla cultura e alla società romana: il personaggio parla da romano rivolgendosi a un pubblico romano. In una scena del Curculio, il parassita esprime un giudizio indignato su tutti quegli stranieri, in prevalenza di origine greca – i Romani li chiamavano con disprezzo graeculi – che si affollano in città, facendosi così portavoce dell’ostilità verso i Greci immigrati che all’epoca di Plauto era avvertita soprattutto dai ceti popolari, i frequentatori più affezionati delle commedie plautine.
    9. mescolanza dei linguaggi e dei registri linguistici (quotidiano, rustico, letterario, raffinato; linguaggio giuridico, sacrale, carmina).
    10. l’accentuazione caricaturale e macchiettistica dei difetti dei protagonisti;
    11. battute volgari ed esasperazione di sentimenti naturali.
    12. l'uso frequente di espressioni greche o grecizzanti, parole mezzo latine e mezzo greche, inusitate e ridicole (ad es. "pultifagus" = "mangiapolenta"), grecismi con terminazione latina ("atticissare" = "parlare greco"), parole formate da più radici ("turpilucricupidus" = "desideroso di turpi guadagni"), oltre a neologismi veri e propri ("dentifrangibula", riferito ai pugni che "rompono i denti"; "emissicius", che si manda alla scoperta di qualcosa e perciò, riferito agli occhi, curioso, da spia); superlativi iperbolici e ridicoli ("ipsissimus", stessissimo; "occisissimus", uccisissimo).
    13. I giochi di parole, identificazioni scherzose (ad es. "Ma è forse fumo questa ragazza che stai abbracciando?" "Perché mai?" "Perché ti stanno lacrimando gli occhi!" Asin.619).
    14. i doppi sensi, soprattutto a sfondo sessuale. 
    15. I nomi dei personaggi alludono al carattere del personaggio sulla scena:
      Artotrogo: mangia pane;
      Palestrione: da palaistra, palaioo, “combatto”;
      Periplectomeno: periplekomai; “generosità e cordialità”;
      Sceledro: da scelus e dran, “artefice di delitti.
      Filocomasio: “che ama brigate e bagordi”;
      Pleusicle: da pleo, allude al suo navigare da Atene a Efeso per riprendersi l’amata;
      Lucrione: è il vice di Sxceledro e impersona lo schiavo avido di denaro;
      da lurcio o lurco, significa “ghiottone”;
      Acroteleuto: da akron (cima) e teleutè, “colei che sta in cima”, cioè ne sa una più del diavolo: si spaccia per la moglie di Periplecomeno, invaghitasi del miles;
      Carione: il cuoco del senex, allude all’abbondanza di schiavi dalla Caria.
    16. I "numeri innumeri", gli "infiniti metri", la predilezione per le forme "cantate". Ne deriva uno stile è vario e polifonico. P. non dipende esclusivamente dallo stile di alcun modello e anzi, come già detto, dà sfoggio di ampia originalità: ristrutturazione metrica, cancellazione della divisione in atti, completa trasformazione del sistema onomastico.
    Malgrado ciò, la lingua di Plauto ha una certa raffinatezza, come quella che si udiva nelle discussioni del Senato, nelle assemblee del popolo e dei tribunali, più fine della parlata popolare, ma schietta e diretta. Non dimentichiamo che gli spettatori romani parlavano il latino piuttosto bene e pure il greco, visto che l'alfabetizzazione del popolo era equivalente a quella odierna. Poi col cristianesimo le scuole chiusero e la gente dimenticò non solo il greco ma pure il latino, dando luogo a un guazzabuglio di lingue volgari diverse.

    Plauto dà spazio a musica e canto, due terzi dei versi erano accompagnati dal suono del flauto, mentre nelle commedie di Menandro sono scarse le parti in metri lunghi o in metri lirici. In Plauto troviamo i "cantica", metri lirici cantati e parti in metri lunghi recitati e accompagnati dal flauto.

    Nella metrica, Plauto è un maestro: mescola metri nelle due forme del "deverbium" (parti recitate senza accompagnamento) e del "canticum" (recitativo accompagnato), liberamente alternate, riscrivendo parti che in Menandro erano destinate solo alla recitazione. Le parti liriche e polimetriche, dai ritmi assai variati, mossi e vivaci occupano circa 3000 versi, per esprimere concitazione ed emotività, come si è fatto e si fa ancora nei films.



    GLI INTRECCI

    Gl'intrecci delle commedie plautine derivano da originali greci, complicati ma ripetitivi. 16 su 20 presentano la stessa situazione di base: l'amore ostacolato di un adulescens per una giovane cortigiana: l’ostacolo è la mancanza di denaro (l’adulescens dipende economicamente dal padre) per ottenerne i favori o per "riscattarla". Può essere innamorato anche di una fanciulla onesta ma senza dote, e, in questo caso, gli ostacoli sono gli impedimenti sociali che ne derivano. L’adulescens lotta per far trionfare l’amore contro un antagonista, padre, lenone, miles gloriosus, o mercenario che sia.

    Come aiuto ha un amico, un vecchio comprensivo o un parassita, ma, più di ogni altro, il "servus callidus" (scaltro). Spesso la commedia si risolve per gli inganni organizzati di quest'ultimo per ingannare il padrone e carpirgli il denaro necessario all’adulescens. Ogni commedia è a lieto fine: i giovani vengono perdonati dai padri, che si riconciliano anche con i servi; i danni e le beffe restano insomma ai personaggi esterni alla famiglia, quali il miles e il lenone. Spesso si sposano in seguito all'"agnizione" o "riconoscimento", tipo la ragazza era nata libera da genitori benestanti, ma esposta o rapita dai pirati. In questo modo vivono l'amore e la speranza giovanile di un mondo migliore, ma non si intaccano i valori indiscutibili della famiglia e delle classi sociali.

    Le commedie plautine hanno personaggi più o meno fissi:
    - il servus callidus,
    - il senex,
    - l’adulescens,
    - il lenone,
    - il parassita,

    I ruoli ruotano attorno a determinate categorie di persone:
    - il senex avaro e immorale;
    - il giovane innamorato e senza soldi;
    - il servo astuto e fedele al padroncino, che egli aiuta con i suoi intrighi a realizzare il desiderio d’amore; - il lenone è una persona avida e sfrontata;
    - la meretrix, ossia l’etera, costituisce l’oggetto del desiderio: è superficiale, calcolatrice, una bellona formosa con poco sale;
    - il parasitus, uno spiantato disposto a tutto pur di ottenere un pasto gratuito;
    - il miles, smargiasso e vanesio.

    Il vero protagonista della commedia è il servus: da lui dipende sempre la soluzione dell’intreccio, grazie ai suoi colpi di genio, con cui sbroglia le situazioni più ingarbugliate. Il servo, per tutta la durata della commedia, è il padrone assoluto della scena: il destino dei personaggi dipende da lui, persino quello del dominus, che nonostante le terribili minacce rivolte all’indirizzo delle schiavo, è da questo costantemente tenuto sotto scacco.

    L’adulescens poi inganna il padre impunemente, con un rovesciamento carnevalesco della realtà sociale: analogamente infatti a quanto avveniva nei baccanali, in cui tutto era lecito, in cui gli anelli più deboli della catena sociale, servi e giovani, diventano i trionfatori.

    Pertanto il teatro plautino ha la funzione di operare un temporaneo scioglimento dagli obblighi e dalle gerarchie sociali, dando alle classi subalterne l’illusione di un riscatto sociale, di una liberazione dalle dure leggi della realtà sociale. Ma nel finale della commedia si assiste a un ritorno all’ordine originario e alla normalità: il senex rinuncia ai suoi propositi immorali, il giovane riconosce l’autorità del padre, il servus si sottomette nuovamente agli ordini del padrone.



    I PERSONAGGI

    "Musas plautino sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent." ("Se le Muse avessero voluto esprimersi in latino avrebbero parlato con la lingua di Plauto): così Quintiliano, nella sua "Instituto oratoria", ci tramanda il giudizio critico di Elio Stilone, filologo latino del II sec. a.c. .

    I personaggi di Plauto come abbiamo detto non sono caratteri individuali ma maschere fisse,  per questo già noti al pubblico come si presentano sulla scena: anche i nomi propri ribadiscono il loro ruolo. tipo:
    • il servus callidus,  servo astuto e fedele al padroncino, che aiuta con gli intrighi a realizzare il desiderio d’amore; 
    • l’adulescens, o attor giovine, sempre innamorato e con poche risorse, economiche e intellettuali,
    • il senex avaro e immorale; 
    • il lenone, avido e senza cuore,
    • la meretrix, ossia l’etera oggetto del desiderio: in genere superficiale, calcolatrice, e con poco cervello
    • oppure la fanciulla innocente rapita e costretta
    • il parassita, uno spiantato disposto a tutto pur di ottenere un pasto gratuito
    • il miles, smargiasso e vanesio.
    che insieme ripropongono i soliti schemi:

    1. lo scontro fra il senex e l’adulescens per la conquista del denaro e della donna amata: il denaro per riscattare la ragazza, che nella maggior parte dei casi è alle dipendenze di un lenone che, insieme al senex, è l’oppositore del giovane; 
    2. il giovane è spalleggiato dal servus;
    3. il lieto fine con il coronamento del sogno d’amore del ragazzo.

    Se la trama è vecchia gli inganni, le beffe, gli scambi di persona, gli equivoci e i riconoscimenti sono però nuovi e vari. Frequente l’agnizione o riconoscimento, che permette lo scioglimento dell’intreccio proprio quando le cose volgono al peggio: per esempio l’etera è una fanciulla di nobili origini e che appena nata era stata esposta con alcuni oggetti, che servono al suo riconoscimento.


    Il vero protagonista della commedia però è il servus: da lui dipende la soluzione dell’intreccio, grazie ai suoi colpi di genio, padrone assoluto della scena: il destino dei personaggi dipende da lui, persino quello del dominus, che nonostante le terribili minacce rivolte all’indirizzo delle schiavo, è da questo tenuto sotto scacco.

    Se a ciò si aggiunge che anche l’adulescens inganna il padre impunemente, allora in ogni commedia plautina si assiste a una sorta di rovesciamento carnevalesco della realtà sociale in cui i servi trionfano sui padroni, i padri insidiano le donne dei figli, persone libere sono trattate come schiave, i figli prevalgono sui genitori, insomma un vero e proprio mondo alla rovescia in cui gli anelli più deboli della catena sociale, servi e giovani, diventano i trionfatori. L'inconscio con le sue istanze libertarie trova così un modo di espressione in cui il popolo può lasciarsi andare: è la catarsi.

    Frequenti i riferimenti ad usi e costumi romani: ad es., nelle similitudini e nelle metafore di tipo militare: il servo presenta spesso la sua lotta contro i suddetti "antagonisti" come una battaglia o una guerra in cui egli fa parte del generale vittorioso, senza però mai sfiorare i grandi avvenimenti dell’epoca: Canne, Zama, le guerre contro la Macedonia, la Siria, l’Etolia. Plauto lasciava fuori la realtà e il pubblico con lui.

    Tutta l'arte teatrale successiva risentirà di Plauto, da Moliere a Goldoni, a Scarpetta, al Barbiere di Siviglia rossiniano, e un po' anche in Shakespeare, come nel Mercante di Venezia, dove l'amore trionfa grazie alle
    astuzie del servo o del barbiere, o dell'amico, e i giovani si sposano ingannando il vecchio avaro e libidinoso.



    LE PASSIONI

    Sono la molla principale delle azioni; tutti i personaggi risultano dominati da un impulso che li spinge a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di ottenere ciò che desiderano. Fra tutti, spicca il desiderio amoroso del giovane, a causa del quale egli appare disposto a tutto, persino a sfidare la tremenda auctoritas del padre.
    Qui la parodia è molto usata, per esempio, un personaggio di bassa estrazione sociale che si esprime come gli eroi di una tragedia; un giovane festaiolo e scapestrato che canta la sua passione per una ragazza, una passione fisica e poco romantica, nei toni languidi dell’elegia, cioè della poesia d’amore in cui la donna è fortemente idealizzata.
    Curculio, è il soprannome del parassita protagonista, il termine significa “gorgoglione”, che è il verme parassita del grano. Qui il giovane Fedromo, in compagnia del servo Palinuro, giunto davanti alla casa del lenone dove dimora la bella Planesio, in attesa che si apra la porta della casa per avere un incontro d’amore clandestino con lei, intona una serenata ai chiavistelli della porta.

    Nel Miles Gloriosus ad esempio le passioni sono quasi tutte rappresentate:

    È la rappresentazione di un soldato tanto ottuso quanto vanitoso, in cui secondo alcuni studiosi è da cogliere un intento caricaturale nei confronti della figura non tanto del soldato romano quanto del soldato mercenario greco. Questi infatti era una figura sconosciuta a Roma, dove all’epoca di Plauto il servizio militare era dovere di ogni cittadino. Si presenta sempre nelle vesti del gloriosus, cioè del fanfarone, che si vanta di imprese mai compiute, spacciandosi per gran seduttore:: un conquistatore immaginario di nemici e di donne, ma sempre smentito dagli avvenimenti delle commedie. Ridendo di questi milites, i romani si sentivano orgogliosi del proprio valore militare.

    Il primo atto ha lo scopo di presentare il personaggio: il miles viene ritratto mentre, davanti a un seguito di schiavi e di armigeri, si pavoneggia come un divo e si lascia lusingare dal parassita, che per guadagnarsi da vivere, lo copre di lodi, inventando gesta belliche e amorose che il protettore non ha mai intrapreso.

    Nel brano seguente, a far le spese della vena comica di Plauto è il linguaggio degli elogia e dell’epica. In particolare, vi sono numerose espressioni che si possono considerare frutto di vera e propria deformazione parodica:
    l’esagerazione: le improbabili imprese di Pirgopolinice – capace di sfondare la pelle di un loefante con un pugno – sono la parodia delle figure degli eroi che in Omero appaiono campioni di coraggio e di forza, oltre che terribili uccisori di nemici.
    Inoltre, nel valore e nella bellezza di cui Pirgopolinice si fregia vi è un’allusione all’ideale della kalokagathia omerica.

    In questo brano la parodia consiste nel meccanismo del rovesciamento / ribaltamento, ossia nel trasferire il modello epico da un contesto alto (di tono elevato e solenne) a uno basso e degradato. Il servo Crisalo, nel descrivere le modalità della propria impresa non trova niente di meglio che paragonarla all’impresa con cui i Greci sottomisero la città di Troia:
    - a. gli Atridi hanno conquistato la città di Priamo dopo anni di assedio e con l’apporto di un immenso esercito?
    Lui ha fatto di meglio perché è riuscito a impossessarsi dell’oro del vecchio tanghero senza l’aiuto di alcuno e in pochissimo tempo.
    - b. Lo stratagemma che ha escogitato è paragonabile a quello escogitato da Ulisse, di cui Crisalo non esita a porsi sullo stesso piano.
    - c. le donne troiane intonarono un triste compianto funebre su Pergamo un tempo superba e ora ridotta  a un cumulo di macerie?
    Lui lo intonerà per il vecchio che sta per essere spogliato del suo oro.




    LE OPERE


    AMPHITRUO  (Anfitrione)

    E' l’unica commedia a soggetto mitologico.Vi si narra le vicende di Anfitrione e del suo servo Sosia (da cui il termine usato oggi per indicare una straordinaria somiglianza tra due persone), i quali partono da Tebe per andare in guerra col re di Tebe che va a combattere contro i Teleboi.

    Giove si è però invaghito della bella moglie di Anfitrione, Alcmena, così prende le sembianze di Anfitrione per giacere con lei, e fa trasformare Mercurio in Sosia.

    Tornato Anfitrione,  manda il servo Sosia ad annunciare del suo arrivo, ma lo blocca Mercurio che lo pone in confusione, convincendolo di non essere Sosia. Questi comincia a dubitare sulla propria identità e si chiede: 

    - chi è lui, lo schiavo arrivato dal porto alla casa di Anfitrione;
    - dove sono morto? Se costui ha la mia imago, significa forse che è il mio fantasma e che io sono morto?
    - dove sono stato trasformato? Pensa d'essere oggetto di una stregonera che ha mutato il suo aspetto
    c’è un altro che ha preso il suo posto... ma
    - ci sarà ancora un padrone che lo attende presso le navi?
    - forse no, ma è meglio: non essere più Sosia potrebbe dire non essere più schiavo.
      Sosia ironizza sulla controfigura che indossa la sua maschera immaginando che gli venga tributato da vivo un onore che nessuno gli renderà da morto, perché schiavo e non nobile.

      Anfitrione, ascoltato lo strano discorso di Sosia si irrita e va dalla moglie, vittima dell'inganno, e fra i due nasce un diverbio che dura fino al ritorno di Giove. Il povero generale non sa che fare, quando  un'ancella di Alcmena gli racconta che la donna ha partorito miracolosamente due gemelli, uno dei quali tanto forte da uccidere due serpenti; La vicenda si conclude con il disvelamento finale ed il tipico deus ex machina: Giove infine appare nel suo vero aspetto, confessa l'adulterio e spiega come si sono svolti i fatti dicendo che dei gemelli uno, Ercole, è suo figlio, l'altro, Ificle, è figlio di Anfitrione, così, si fa per dire, sono tutti soddisfatti.

      Il tema greco dell’amore ricorre spesso nelle commedie plautine, una compulsione e una forza che non lascia scampo né agli uomini né agli Dei, perchè Cupido si sa, colpisce chi vuole. Ma anche questo a volte è comico, per il tono elegiaco dell'ignorante che piazza termini a sproposito, o il rozzo spasimante che parla della sua brama sessuale in termini ridicolmente romantici. Oppure per il marito cornuto che deve sottostare agli Dei come i seri ai padroni, però gli Dei pagani sanno essere riconoscenti dei sacrifici, ripagando direttamente in vita.



      ASINARIA  (La commedia degli asini)

      Il giovane Argirippo è innamorato della cortigiana Filenio, figlia dell’avara Cleareta che pretende in giornata la somma di venti mine, altrimenti darà la figlia al rivale Diabolo. Filenio però è anche desiderata dal padre di Argirippo, che incorre così nelle ire di sua moglie.
      Sarà lo stesso padre a venire in soccorso di Argirippo, incaricando due servi di casa di procurarsi il denaro a danno della sua ricca e avara moglie. Uno dei servi fingerà di essere l’amministratore della padrona e riuscirà a riscuotere le venti mine che un mercante deve a quella per l’acquisto di certi asini. La commedia [dall' "Onagos" di Demofilo] è giunta assai mutila e con un certo numero di contraddizioni interne.



      ALULARIA  (La commedia della pentola)

      Un ricco ed avaro signore, Euclione, ha nascosto in una pentola il tesoro di casa, da lui improvvisamente ritrovato, e per avarizia vive comunque nella più squallida povertà. Per timore che gliela possano rubare, egli la nasconde nel tempio della Buona Fede e successivamente nel bosco di Silvano.

      Ma Strobilo, servo del giovane Liconide, lo spia e se ne impadronisce. Euclione ha una figlia che vuole sposare con il ricco e anziano Megadoro, ma il giovane Liconide ne è innamorato e ricambiato.

       Il vecchio è fuori di sé dalla disperazione, tanto più che Liconide confessa di aver messo incinta Fedria, sua figlia.

      Qui la commedia si interrompe, ma la conclusione è scontata: in cambio dell’oro, Euclione concede la mano della figlia a Liconide, che a sua volta darà la libertà al servo Strobilo.

      L’originale greco è ignoto, ma è probabile che fosse una commedia di Menandro in cui l’avaro aveva nome Smicrine.



      BACCHIDES (Le Bacchidi)

      Deriva dalle "Evantides" di Filemone o da "Il doppio inganno" di Menandro. Due sorelle gemelle sono cortigiane, entrambe chiamate Bacchide, vivono l’una a Samo, l’altra ad Atene. Il giovane Mnesiloco, di passaggio a Samo, s’innamora della prima Bacchide, di cui si impadronisce tuttavia un ricco miles, che la conduce con sé ad Atene. 

      Mnesiloco dà incarico di recuperarla all’amico Pistoclero, che dopo averla trovata si fa sedurre dalla seconda Bacchide. Mnesiloco, che crede di essere stato tradito dall’amico, dà al servo Crisalo l’incarico di trovare il denaro per riscattare l’amata. 
      Mnesiloco e il suo amico Pistoclero per avere il denaro con cui riscattare una delle sorelle da un prestito che la tiene legata al soldato Cleomaco, si servono dunque dell'astuto servo di Mnesiloco, Crisalo, che raggira per ben due volte il padre del giovane per ottenere la somma. Alla fine i severi padri dei giovani, Nicobulo e Filosseno, accondiscendono agli amori dei loro figli e anzi paiono cedere essi stessi alle grazie delle due avvenenti cortigiane.

      Il servo Crisalo, ingegnoso e scaltro, si rende comico nella glorificazione di se stesso. Ad esempio nel descrivere le modalità della propria impresa la paragona all’impresa con cui i Greci sottomisero la città di Troia:
      a. gli Atridi hanno conquistato la città di Priamo dopo anni di assedio e con un immenso esercito? Lui ha fatto di meglio perché è riuscito a impossessarsi dell’oro del vecchio senza l’aiuto di alcuno e in pochissimo tempo.
      b. Lo stratagemma che ha escogitato è paragonabile a quello escogitato da Ulisse, quindi Crisalo si pone sullo stesso piano.
      c. le donne troiane intonarono un triste compianto funebre su Pergamo un tempo superba e ora ridotta  a un  cumulo di macerie? Lui lo intonerà per il vecchio che sta per essere spogliato del suo oro.



      CAPTIVI  (I prigionieri)

      E' l'unica commedia senza vicende amorose. Durante la guerra tra Elide ed Etolia, un ricco proprietario terriero dell'Etolia, Egione, scopre che il figlio è stato fatto prigioniero. Compra così molti Elei per uno scambio, tra i quali anche Filocrate, figlio di un latifondista Eleo, con il servo Tindaro, che hanno tuttavia deciso di scambiare le parti. Egione decide di mandare il servo per chiedere del figlio, ma credendo di inviare in Elide il servo, manda invece il padrone. Scoperto l’inganno, getta in catene il povero Tindaro. Ma Filocrate ritorna con il figlio di Egione ormai libero; in aggiunta, si scopre che anche Tindaro è figlio di Egione, rapito in tenera età e venduto come schiavo in Elide. "Captivi" è una commedia diversa, priva di vicende amorose e fondata sul tema dell’amicizia e della lealtà e non vi compare alcuna donna.



      CASINA  (La ragazza dal profumo di cannella)

      Il tema è il contrasto tra un giovane e un vecchio (Lisidamo, padre del giovane, un senex libertino) che s'innamorano della stessa ragazza, Casina, una trovatella raccolta in casa da Lisidamo e da sua moglie Cleostrata.


      Essi hanno indotto, l’uno il proprio fattore, l’altro il proprio scudiero, a chiedere la mano della fanciulla, per poterne poi essi stessi disporre. Lisidamo, vistasi intralciare la strada dal figlio, lo spedisce all’estero, ma la moglie del vecchio, che ha capito, prende le parti del figlio assente.

      Poiché Lisidamo e sua moglie non riescono ad accordarsi, decidono di ricorrere alla sorte che favorisce il fattore. Si preparano le nozze, ma in luogo di Casina viene presentato come sposa Calino, lo scudiero, travestito da donna, che, approfittando dell’oscurità della stanza in cui viene condotto, bastona il fattore e Lisidamo.

      Naturalmente il conflitto si risolve al favore del giovane, a causa anche della ingegnosa opposizione di Cleostrata, che in questa commedia incarna la figura della uxor morosa ("moglie scorbutica, intrattabile").
      Casina è tra le commedie più "libere", più comiche e più riuscite commedie. Deriva da una commedia di Difilo, "Clerumenoe", cioè "I sorteggianti".



      CISTELLARIA  (La commedia della cesta): 

      Il giovane Alcesimarco ama Selenio, trovatella allevata da una cortigiana; ma il padre gli impone di sposare un’altra ragazza, figlia del vicino Demifone, a sua volta alla ricerca di un’altra figlia avuta molti anni prima da una donna e abbandonata in una cassetta con dei contrassegni. Selenio rivolgendosi alla compagna e cortigiana Ginnasio, le confida la sua pena d’amore, che le consuma il cuore come un morbo dal quale dispera di poter guarire, perché non esiste medico che possa curare un simile male. 
      Alcesimarco intanto, tenuto lontano dalla sua Selenio perché il padre vuole costringerlo a sposare una ragazza di buona famiglia, sfoga nel canto tutta la sua infelicità. Infine si scopre che la ragazza abbandonata è Selenio, che ora Alcesimarco può sposare con l’assenso del padre. Nonostante una lunga lacuna (più di seicento versi) l’intreccio di questa commedia è abbastanza chiaro. L’originale greco sembra di Menandro.



      CURCULIO  (Gorgoglione, propriamente verme roditore del grano)

      Curculio (tradotto anche in Pidocchio) è un parassita che aiuta il suo protettore, il giovane Fedromo, innamorato della cortigiana Planesio, a coronare il suo sogno d'amore, cercando di riscattarla dal lenone Cappadoce. Il parassita, che veste anche la parte del "servus currens", scopre che un miles ha già comprato la ragazza, depositando presso un banchiere la somma, che verrà pagata a chi presenterà una lettera sigillata con l’anello del soldato. Curculio, travestito da soldato, si impadronisce ai dadi dell’anello, confeziona una falsa lettera e riscatta la ragazza.

      Nel frattempo, sul palcoscenico sale l’impresario della compagnia recitante, timoroso di non rivedere più il vestito che ha prestato a Curculio. Sopraggiunge furibondo il soldato, ma Planesio identifica nell’anello del miles quello che era solito portare il padre, dal quale era stata un giorno rapita: il soldato viene riconosciuto come suo fratello, e Fedromo può felicemente sposare la donna.

      La commedia prende il titolo dal parassita protagonista Gorgoglione, d’insaziabile voracità: il "curculio" è, infatti, il verme roditore del frumento. Il "Curculio" contiene, inoltre, la famosa "serenata dei chiavistelli " (atto I, scena III), che il giovane Fedromo rivolge alla porta dell’amata, perché dischiuda i suoi battenti.

      La serenata ai chiavistelli è una variante di un tipo di componimento noto alla lirica greca, il paraklausithuron, una composizione assai ricorrente nella letteratura greca e latina e consiste in un lamento che un personaggio rivolge alla porta chiusa dell’amata.

      Un’altra celebre variazione sul tema è quella proposta da Properzio: a prendere la parola è addirittura la porta, che si lamenta dei turpi costumi della nuova padrona di casa, che la costringono ad assistere all’indegno spettacolo di giovani che litigano, schiamazzano o piangono rivolgendosi a lei, la porta, costretta a sopportare tutto questo senza poter battere ciglio, lei che un tempo era appartenuta alla dimora di un illustre condottiero carico di trionfi.

      Nel "Curculio" poi, l'omonimo protagonista, egli stesso greco, sta attraversando una via e gli danno fastidio questi Greci che hanno invaso le vie della città e vanno in giro col capo coperto, carichi di libri, confabulando fra loro e affollando le osterie in cerca di chi possa offrire loro in bicchiere di vino.

      Plauto sfrutta a fini comici una certa ostilità nei confronti dei Greci, tipica di una parte della società romana e che aveva trovato portavoce in Catone. Plauto conia addirittura un verbo, "pergraecari", che significa più o meno "gozzovigliare alla greca", vivere in modo dissoluto, proprio come farebbero i Greci.



      EPIDICUS  (Epidico)

      Epidico è un servo che, con la sua scaltrezza, permette al suo padroncino Stratippocle di sposare una suonatrice di cetra. Non manca nella commedia il riconoscimento di una sorella di Stratippocle, una prigioniera conosciuta dal giovane in guerra.
      Il giovane Stratippocle s'innamora in due tempi diversi di due cortigiane, affidando al "servus" Epidico l’incombenza di trovare ogni volta il denaro necessario a riscattarle. Epidico riesce ripetutamente ad ingannare il vecchio Perifane, padre di Stratippocle, carpendogli il denaro di cui ha bisogno. Ma quando i suoi raggiri stanno per essere scoperti, una delle due ragazze viene riconosciuta figlia di Perifane e sorella di Stratippocle, che ripiega dunque sull’altra cortigiana mentre Epidico viene affrancato per meriti d’ingegno.
      L’intreccio è più complicato del solito. Ma l’interesse della commedia sta soprattutto nella figura d’Epidico: il più abile, astuto, diabolicamente scaltro dei servi che il teatro abbia mai dato.



      MENAECHMI  (I Menecmi)

      Si racconta di due fratelli gemelli (Menecmo e Sosicle), nativi si Siracusa, che hanno vissuto in famiglie separate e casualmente s'incontrano, tipica commedia degli equivoci dovuti a scambio di persona.  Uno dei due, in occasione di una solennità, viene condotto a Taranto dal padre, l’altro rimane a casa con il nonno. Nella confusione della festa, il ragazzo si smarrisce, e il padre, dopo averlo cercato per giorni, non sopravvive al dolore della perdita.

      Il fanciullo sperduto incontra un mercante di Epidamno che lo adotta e lo conduce con sé. Il nonno, addolorato per la perdita del figlio e nipote, dà al gemello sopravvissuto il nome del fratellino scomparso, Menecmo. 

      L’altro intanto si è fatto uomo e ha sposato una ragazza di buona famiglia, ricca ma gelosissima; ha intrecciato una relazione con la cortigiana Erotio, alla quale ha regalato un manto sottratto al guardaroba della moglie.

      La vicenda si svolge ad Epidammo, dove in casa di Erotio si sta preparando un banchetto cui la donna intende invitare Menecmo e il suo parassita. Il cuoco della ragazza, uscito per fare spesa, incontra Menecmo II, il quale non ha mai interrotto le ricerche del fratello scomparso ed è giunto occasionalmente a Epidamno. Il cuoco, scambiandolo per Menecmo I, gli rivolge la parola. Di tutto il discorso però comprende assai poco, al punto da convincersi che il solo scopo dello sconosciuto è di attirarlo in casa di una cortigiana.

      Si decide a seguirlo in casa di Erotio, e poiché la donna lo accoglie con affettuosa confidenza, crede di aver fatto colpo su di lei e lo invita a pranzo.

      Gli equivoci vanno a ripetizione, a pranzo Erotio chiede a Menecmo II di far apportare modifiche al manto e quello acconsente, pensando sia il compenso che chiede da lui e si reca a farlo aggiustare. Uscito di casa, con il capo ancora incoronato dalla corona conviviale, Menecmo II viene scorto da Poeniculus, che crede di trovarsi di fronte Menecmo I, colpevole di essersi goduto il pranzo senza invitarlo. 

      Deciso a vendicarsi, rivela alla moglie e al suocero la tresca di Menecmo I; questi, inconsapevole di ciò che lo attende, viene assalito dalla moglie, che pretende la restituzione del manto.
      Menecmo I, sperando di riportare la pace in famiglia, si reca da Erotio per farselo restituire; la cortigiana, convinta che voglia prenderla in giro, lo caccia in malo modo, affermando di avergli consegnato il mantello poco prima.

      Torna Menecmo II che, fatto aggiustare il manto, torna da Erotio, ma viene assalito dalla moglie di Menecmo e dal padre di questa. Alle disperate proteste di Menecmo II, che cerca di dimostrare la propria identità, nel suocero comincia a farsi strada il pensiero che il genero sia impazzito. Quando Menecmo II si accorge che nessuno gli crede e che il suocero minaccia di farlo legare, simula un attacco di pazzia furiosa e, fingendo di sentire delle voci divine che gli impongono di cavare gli occhi alla moglie e di fare a pezzi il suocero con l’ascia, mette in fuga entrambi.

      Le rocambolesche situazioni si succedono in un’irresistibile tensione comica. Quando già i due Menecmi sono ritenuti pazzi e ci si rivolge ormai ai medici, essi si trovano l’uno dinanzi all’altro davanti alla casa di Erozio e tutto si chiarisce. La lunga serie di peripezie rende questa commedia tra le più animate del teatro classico: un susseguirsi ininterrotto di saporose battute, di botte e risposte, di capovolgimenti di situazioni, senza un solo attimo di stasi. 
      Benché non si conosca l’originale greco da cui essa sia derivata, si sa che una non piccola schiera di commediografi greci Menandro, Antifane, Posidippo, s’ispirò a questo motivo dell’identità di due persone. Del resto, il motivo non è nuovo neppure in Plauto: si pensi solo al Mercurio-Sosia e al Giove-Anfitrione dello stesso Amphitruo. Ma in tempi passati vi si è ispirato più volte il cinema americano.



      MERCATOR  (Il mercante): 

      Stesso tema di Casina con uguale epilogo. Un giovane (Carino) e il padre del giovane (Demifone) si invaghiscono della stessa ragazza, una bella schiava, Pasicompsa, che Carino ha condotto da Rodi dove si era recato per commercio.

      Demifone, che ha avuto un sogno premonitore, fa comprare al porto la fanciulla dall’amico Lisimaco, che la dovrà custodire in casa sua per un giorno, profittando dell’assenza della moglie Dorippa.

      Ma questa ritorna, l’equivoco deve essere per forza spiegato e il vecchio Demifone cede il posto al figlio. Alla fine le cose si mettono a posto e si suggerisce una scherzosa legge per i vecchi, imponendo a coloro che hanno compiuto 60 anni, siano sposati o scapoli, di non impelagarsi in avventure amorose.
      Deriva dall’ "Emporos" di Filemone. 



      MILES GLORIOSUS  (Il soldato spaccone)

      Il soldato Pirgopolinice, millantatore e spaccone, nonchè grande libertino, viene beffato da un suo servo, l'ingegnoso Palestrione, che riesce a far ricongiungere il suo ex padroncino (Pleusicle) con la ragazza amata (Filocomasio).  Il primo atto ha lo scopo di presentare il personaggio: il miles si pavoneggia come un divo e si lascia lusingare dal parassita, che per guadagnarsi da vivere, lo copre di lodi, inventando gesta belliche e amorose che il protettore non ha mai intrapreso. Secondo lui  Pirgopolinice sarebbe capace di sfondare la pelle di un elefante con un pugno.

      Il giovane Pleusicle ama la bella Filocomasio, una giovane etera in possesso di Pirgopolinice, che vive in un appartamento del soldato fatto sorvegliare a Sceledro.

      Durante un’assenza del giovane, la ragazza era stata rapita dal "miles" Pirgopolinice, soldato smargiasso e fanfarone, a cui il parassita Artotrogo fa credere di essere irresistibile con le donne.

      Palestrione, servo di Pleusicle, parte per avvertire il padrone di ciò che è accaduto, ma viene rapito dai pirati e finisce per essere donato proprio al miles.

      Pleusicle, avvertito di nascosto da Palestrione, si fa ospitare da Pericleptomeno, un amico del padre, in una casa contigua a quella stessa del miles.
      Palestrione pratica una breccia nel muro di confine tra le due case, consentendo agli amanti di incontrarsi. Ma Sceledro, servo del miles, li scorge mentre si baciano, e costringe Palestrione a escogitare una serie di inganni per salvare i due amanti, fingendo che esista una gemella di Filocomasio.
      Sceledro, vedendo che Filocomasio non lo riconosce, teme di aver perduto il possesso di sé, e Palestrione rincara la dose: e se qualcuno li avesse immutati, cioè trasformati a sua insaputa, così da non essere più riconoscibili alle persone note?
      Palestrione, poi, organizza una feroce beffa ai danni di Pirgopolinice: gli fa credere che la moglie di Periplectomeno sia pazzamente innamorata di lui; il miles, così, licenzia in un sol colpo Filocomasio e Palestrione, dando loro la libertà, ma, entrato nella casa di Periplectomeno per un appuntamento galante, trova un marito furibondo e i servi pronti a fustigarlo ignominiosamente come adultero.

      Gran parte della trama proviene dalla commedia greca "Alazon" ("Il vanaglorioso"), ma è probabile che P. abbia largamente applicato la "contaminatio", assumendo da un altro dramma il motivo del foro nel muro e della sorella gemella.
      Secondo alcuni studiosi è la caricatura non tanto del soldato romano quanto del soldato mercenario greco. Questi infatti era una figura sconosciuta a Roma, dove all’epoca di Plauto il servizio militare era dovere di ogni cittadino. Il miles è gloriosus, cioè fanfarone, che si vanta di imprese mai compiute, spacciandosi per gran seduttore: un conquistatore immaginario di nemici e di donne, ma sempre smentito dai fatti. Ridendo di questi milites, i romani si sentivano orgogliosi del proprio valore militare..



      MOSTELLARIA  (La commedia del fantasma)

      Mentre il padre Teopropide, un ricco mercante di Atene, è assente da lungo tempo per affari, il giovane Filolachete si dà alla pazza gioia con l’amico Callidamate, assistito dal servus Tranione, che ha anche dovuto procurarsi un prestito per riscattare la bella Filemazio, una cortigiana amata dal padroncino.

      Torna inaspettatamente il padre, mentre è in corso un gran banchetto. Tranione spranga la porta, e per impedire a Teopropide di entrare inventa che la casa è abitata da un fantasma. Giunge nel frattempo un usuraio per riscuotere un credito, e Tranione è costretto ancora a mentire, affermando che il denaro è servito a comprare un’altra abitazione. Teopropide chiede di vederla, e il servo escogita nuovi geniali trucchi per mostrargliela, ingannando anche il vero proprietario. Infine la verità viene a galla, e solo l’intervento di Callidamate che promette di soddisfare personalmente a ogni debito, salva Tranione dall’irosa furia di Teopropide.
      Si pensa che la "Mostellaria" derivi dal "Phasma" di Filemone o di un autore minore, Teogneto.



      PERSA (Il persiano)

      E' la storia di un astuto servo (Sagaristione), che, travestito da persiano, libera una ragazza (Lemniselenide) dal lenone Dordalo, per favorire i desideri di un amico, anch'egli servo (Tossilo). La caratteristica più importante di questa commedia è che i protagonisti sono eccezionalmente solo dei servi (oltre al lenone infine beffato).


      Dunque il servo Tossilo riscatta dal lenone Dordalo una ragazza che ama. Poi traveste da orientale la figlia di un parassita e finge di venderla allo stesso Dordalo, che cade nel tranello. La somma ricavata serve a cancellare il debito iniziale. Il parassita trascina in tribunale il lenone, reo di aver comprato una ragazza libera.

      La commedia si conclude con una grande festa, durante la quale Dordalo viene beffato e bastonato per la sua insipienza e Tossilo può giustamente trionfare. E', per definizione, la "commedia degli schiavi", dei quali Plauto ha saputo ritrarre linguaggio, licenziosità e malizie.



      POENULUS  (Il cartaginese)

      Agorastocle, un giovane cartaginese rapito all'età di sette anni, vive in Etolia, adottato da un ricco signore. Accanto a lui abitano due sorelle, anch'esse rapite da piccole e ancora sfruttate dal loro padrone. Il giovane si innamora di una delle due sorelle, Adelfasio, ma se il giovinetto, innamorato di Adelfasio, è ricco, le due fanciulle conducono invece una vita misera, in potere dello sfruttatore Lico. Una ben architettata trappola, ordita da Milfione, servo di Agorastocle, e recitata dal villico Collibisco, offre il modo di citare lo sfruttatore in tribunale. Giunge frattanto da Cartagine, in cerca delle figlie scomparse, il padre Annone: egli si incontra con Agorastocle ed è condotto da questi in casa di Lico, dove può riconoscere e riabbracciare le figliole. Alla fine interviene il cartaginese Annone che riconosce in Agorastocle suo nipote e nelle sorelle le sue due figlie rapite. Agorastocle si sposa così con la cugina Adelfasio.
      Modello della commedia è stato il "Carchedonios" di Menandro. Una prima redazione del Poenulus doveva aver titolo "Patruos" (Lo zio). E' interessante l'uso della lingua punica da parte del giovane protagonista.

      Tutto inizia nel disordine e nell'equivoco, ma gli eventi non sono così brutti come appaiono, perchè c'è una sorte nascosta e benevola che rimette in sesto le cose. E' importante quindi ricordare che niente riuscirebbe al servo, o alla sua astuzia, senza l'ausilio determinante della "fortuna" (Tyche), che ne contempera il merito del successo, contribuendo  a "rimettere le cose a posto". Tutto si sana dunque senza violare i costumi o il sistema cui la società è avvezza.



      PSEUDOLUS  (Pseudolo)

      Pseudolo è il nome dello schiavo protagonista, assieme al lenone Ballione, della commedia. Quest'ultimo ha pattuito di cedere ad un soldato macedone per venti mine la cortigiana Fenicia, di cui è innamorato Calidoro, padroncino di Pseudolo. Lo scaltrissimo servo riesce con i suoi raggiri a beffare il lenone e a consegnare la ragazza amata al suo padrone.


      Dunque Calidoro ama Fenicia, che il lenone Ballione ha già venduto ad un miles per venti mine: quindici anticipate, più cinque che un messo del soldato sborserà entro la sera.

      Pseudolo si mette all’opera, dopo aver elaborato il piano d’attacco con cui espugnare la casa del lenone, assiste all’arrivo di un personaggio incaricato dal miles di ritirare la ragazza, costringendolo a rivedere i suoi piani.

      Infatti, il servo plautino, vero deus ex machina dell’intreccio, è anche una figura sovversiva, perché i suoi stratagemmi determinano una sovversione di tutto ciò che è considerato normale: i servi infatti dominano sui padroni e i giovani sui vecchi genitori: tutto il contrario di ciò che accade nella realtà quotidiana, in cui:
      1. i figli scapoli corteggiano le donne
      2. i vecchi lasciano in pace le donne desiderate dai figli;
      3. i figli accettano l’autorità paterna senza drammi, per quanto severa essa sia.
      Pseudolus, riconoscendo il fallimento del suo progetto, si abbandona a una considerazione filosofica sul ruolo preponderante della Fortuna sulle vicende umane, con una riflessione sul linguaggio filosofico, al motivo del contrasto fra sapere umano e sapere divino: l’uomo, finché il suo destino non si compie – ha una grande stima di sé e nutre vane speranze: il povero nella ricchezza, il malato è convinto di guarire, e così via. Con tutto ciò Pseudolo sgomina ogni ostacolo e vince addirittura un’impossibile scommessa con Simia, padre di Calidoro. Ballione perde la ragazza, è costretto a restituire il denaro al messo del miles e a sborsare per giunta altre venti mine a Simia per un'altra scommessa perduta.



      RUDENS  (La gomena)

      in questa palliata di ambientazione marinaresca due cortigiane del lenone Labrace, naufragano durante una tempesta di mare e si rifugiano in un tempio, inseguite dal lenone. Un pescatore di nome Gripo, servo di Damone, che poi risulterà essere padre di una delle due ragazze, trascina con una gomena (rudens) un baule, preso nella rete in mare. Le ragazze scoprono, dai segni nel baule, che sono libere, quindi non di proprietà del lenone.
      Questi infatti, dopo aver promesso la bella fanciulla ad un giovane innamorato di lei, da cui aveva ricevuto un lauto anticipo, era fuggito durante la notte per sfruttare altrove la ragazza. Ma la tempesta ributtò sulla riva i partenti. La ragazza si rifugia con la propria ancella nel tempio di Venere, a poca distanza dal quale vive un uomo a cui un tempo è stata rapita la propria figlia. Segue naturalmente il riconoscimento: la ragazza che, sottratta all’avido lenone, può finalmente riabbracciare il padre e sposare il suo innamorato.

      Derivata da una commedia di Difilo, quest'opera ha una scena diversa, anziché la solita piazzetta su cui s’affacciano le case dei personaggi, ha una spiaggia battuta dal mare in tempesta, e un ambiente di pescatori che vivono di stenti, com’è detto nel coro ch'è al principio del II atto, l’unico coro della Commedia latina. Quanto all’atmosfera, il comico è quasi del tutto assente nel "Rudens", in cui predomina al contrario un tono tra il patetico e il solenne, che sfiora in qualche punto la tragedia.



      STICHUS  (Stico)

      E' una commedia sulla fedeltà coniugale, o almeno passava per tale.

      Due spose, Panegiride e Panfila, che hanno i mariti (Epignomo e Panfilippo, tra di loro fratelli) in viaggio oltremare per ricostituire un patrimonio in rovina, da tre anni non hanno più notizie di loro.
      Il padre vorrebbe farle risposare, ma esse, novelle Penelopi, resistono alle tentazioni, e c'è pure un parassita, Gelasimo, che da tre anni patisce la fame.

      Loro non cedono e alla fine giunge in porto la nave dei due uomini, carichi di merci e di ricchezze. Assieme a loro c’è anche il servo Stico, che organizza grandi festeggiamenti. I due mariti si rappacificano con il vecchio suocero, soddisfatto del successo dei loro affari. Solo il parassita non riesce a farsi invitare da nessuno, e comicamente continua a restare deluso nella sua ormai annosa brama di cibo. "Stichus" deriverebbe dall’ "Adelphoe" di Menandro.



      TRINUMMUS  (Le tre monete)

      Mentre il vecchio Carmide è in viaggio d’affari, suo figlio, un ragazzo scialacquatore (Lesbonico) sperpera il patrimonio paterno e venderebbe anche la casa, ad un altro senex, Callicle, che per fortuna è un leale amico di Carmide, e decide di salvaguardare per il ritorno dell’amico un tesoro segreto sepolto nella casa dal padre del giovane. Nel frattempo un altro giovane, Lisitele, ama la sorella di Callicle, e chiede di poterla sposare pur senza dote: Lesbonico, che è in fondo un giovane di nobili costumi, non può accettare, e decide di affidare in dote alla sorella l’ultima cosa che gli è rimasta, un podere fuori città. Allora Callicle assolda un messo a cui, appunto per tre dracme (onde il titolo della commedia), dà l’incarico di giungere in città fingendo di portare per conto di Carmide una somma, che in realtà Callicle ha prelevato dal tesoro.

      Carmide è inaspettatamente tornato, ed è proprio lui a ricevere il finto messo. Gli equivoci e gli ingiusti sospetti sono dissipati dal commovente incontro fra i due vecchi. La commedia si conclude con due matrimoni: di Lisitele con la figlia di Carmide e di Lesbonico con quella di Callicle. L’originale di Filemone prendeva titolo dal "tesoro" nascosto in casa.



      TRUCULENTUS  (Lo zoticone)

      La commedia, molto lacunosa, prende titolo dal nome del rustico e brutale schiavo Truculento di Strabace, un giovane fattore che è vittima, insieme all’ateniese Diniarco e al soldato Stratofane, della sfrontata cupidigia della cortigiana Fronesio.la protagonista della commedia, che inganna tre amanti, dipinta da Plauto come prostituta rapace e insaziabile, capace però di rendersi conto, in un bellissimo monologo, delle miserie della sua vita. Secondo Cicerone (De senectute 50) Plauto si compiaceva molto, da vecchio, di questa sua commedia, che ricava il titolo da un personaggio secondario, il servo rude e zotico di Strabace, uno degli innamorati della cortigiana.
      L’intreccio si lascia intravedere appena. Fronesio vuol gabellare a Stratofane, come fosse suo figlio, un bambino abbandonato, ma si scopre che quello è invece figlio di Diniarco e di una libera cittadina ateniese.



      VIDULARIA  (La commedia del baule)

      i pochi frammenti della commedia (poco più di 100 versi) parlano di un baule (in latino vidulus), scomparso in mare durante un naufragio e poi ritrovato da un pescatore, che contiene oggetti atti a far riconoscere
      (agnitio) il giovane Nicodemo. Non mancano punti di contatto con la trama della Rudens.





      I PERSONAGGI CLASSICI


      L'ADULESCENS

      giovane innamorato languido e dolente ma incapace di superare gli ostacoli. Il suo linguaggio tocca molto spesso i registri "alti" e patetici della tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici,. Plauto non prende mai sul serio la sua storia né i suoi lamenti d’amore: lo guarda divertito, costringendolo spesso a subire i lazzi spiritosi del servus.



      IL SENEX

      Padre severo e perennemente beffato, che cerca inutilmente di impedire i costosi amori dei figli, (come nella "Mostellaria"); ma talvolta è anche un ridicolo e grottesco concorrente dei figli per la conquista della donna desiderata (come nell’ "Asinaria" o nella "Casina"). Nelle vesti dell’amico o del vicino, può essere alleato dei giovani (come nel "Miles gloriosus") oppure fornire un burlesco doppio del senex innamorato (come nel "Mercator").

      Sovente ha l’ossessione del denaro. Euclione, dopo aver trovato una pentola d’oro, è ossessionato dal timore di perderla, al punto che, quando Megadoro gli chiede la mano della figlia, egli crede che questi in realtà miri solo alla sua pentola d’oro. Rimanda molto all'Avaro di Moliere.



      LA MERETRIX

      di minore importanza i ruoli femminili, anche perché non è infrequente che la ragazza desiderata non compaia mai in scena (come nella "Casina") o svolga una particina marginale. Il ruolo femminile più importante è quello della "cortigiana", figura sconosciuta in Roma prima che nascesse la palliata (La commedia greca riedita alla romana), e che era invece consueta nel mondo greco. Nella "palliata" plautina possono essere sia libere che schiave, e allora appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che le mettono in vendita al miglior offerente. In questo caso il loro più grande desiderio è quello di essere riscattate dall’amante. Naturalmente, l’espediente dell’ "agnizione" può consentire loro il felice passaggio dalla condizione di amanti a quella di spose. Alcune di loro, poi, sono abilissime e sfrontate (come nel "Truculentus"), altre dolci e sensibili (ed è questo il caso più frequente).



      LA MATRONA

      accanto alla figura dell’etera, quella della matrona, madre dell’adulescens e sposa del senex, quasi sempre autoritaria e dispotica, soprattutto se provvista di dote. La donna quando accampa diritti è a dir poco noiosa. Accade che spesso il senex sia vittima delle sue ire furibonde (come nell’ "Asinaria"). Non manca qualche eccezione: la nobile figura di Alcmena nell’ "Amphitruo" o le due spose fedeli nello "Stichus".



      IL PARASITUS

      presente in ben nove commedie di P., il parassita è uno dei tipi più buffi e curiosi della "palliata", caratterizzato dalla fame insaziabile e dalla rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina economica per il disgraziato che ha deciso di mantenerlo a sue spese. Esuberante e vitale, il parassita non lesina lodi iperboliche e servizi di ogni genere nei confronti dei suoi benefattori, che naturalmente sono anche vittime delle sue sfavillanti battute, come accade nella famosa scena d’esordio del "Miles gloriosus".

      MONUMENTO ALLA COMMEDIA DI PLAUTO (Sarsina)
      Anche il parassita, come il miles, allude a una figura assai familiare al pubblico romano: il cliens, o cliente. In questo brano il parassita Gelasimo si incarica di spiegare il significato del suo nome: ridiculus homo, che rappresenta con precisione il suo carattere e lo scopo della sua vita: fare il buffone in cambio di cibo.

      Anche in questo brano si possono cogliere alcuni meccanismi tipici della parodia; uno di questi è l’iperbole: Gelasimo esagera a tal punto la fame da dichiarare di essere figlio della Fame in persona; nessuno d’altra parte potrà mai uguagliare il suo amore filiale, perché se è vero che una madre tiene nel proprio grembo il nascituro per dieci mesi, lui sono più di 10 anni che la porta nel suo ventre. Il brano inoltre offre un esempio di parodia tragica: allude a una situazione tipica della tragedia, in cui l’eroe, oppresso e perseguitato dal destino avverso, innalza un lamento accorato sulla propria sventura.

      Interessante è anche la metafora in cui Gelasimo afferma di essere in vendita con tutti i finimenti: come un cavallo addestrato a ubbidire agli ordini del cavaliere e nutrito per questo con abbondante foraggio.



      IL MILES GLORIOSUS

      come la cortigiana, anche il miles, soldato mercenario al servizio di chi lo paga meglio, era una figura consueta nei regni ellenistici ma sconosciuta in Roma, dove all’epoca di Plauto il servizio militare era dovere di ogni cittadino. Il miles si presenta quasi sempre nelle vesti del "gloriosus", cioè del millantatore, del fanfarone che si vanta di grandi imprese mai compiute, spacciandosi per giunta per gran seduttore: è insomma un conquistatore immaginario di nemici e di donne, prontamente smentito dagli avvenimenti. E’ probabile che i Romani, ridendo di questi milites ellenistici, si sentissero invece orgogliosi del proprio valore militare.



      IL LENO

      anche il lenone, commerciante di schiave e sfruttatore di prostitute, era una figura sconosciuta presso i Romani. Plauto ne fa la figura più odiosa, anche perché costituisce il maggior ostacolo ai desideri del giovane innamorato. Ma nel teatro plautino non esistono personaggi buoni o cattivi, perché non esiste una partecipazione e un coinvolgimento emotivo nelle vicende, già scontate fin dall’inizio: l’odiosità, come l’avidità, sono solo i caratteri fissi che definiscono la maschera del lenone, irrevocabilmente destinato alla sconfitta e alla beffa.

      Colpisce molto di più, invece, la sua formidabile vitalità, la sua capacità di esser superiore a ogni giudizio morale, come rivela la bellissima gara di insulti che adulescens e servus ingaggiano contro di lui dello "Pseudolus". Ma nonostante i personaggi plautini siano spesso aldifuori della morale, non lo sono gli spettatori, che nonostante le trame siano un deja vu, s'immedesimano nella commedia parteggiando e intervenendo.
      Faranno altrettanto, su questa falsariga, l'avanspettacolo italiano col suo colloquio col pubblico, dove si prendeva di tutto, dai fischi, alle parolacce, agli apprezzamenti a volte pesanti e ai fiori. E sulla falsariga ancor più farà la Sceneggiata napoletana, che soesso aleggia i personaggi e i colpi di scena plautini.



      IL SERVUS CALLIDUS

      la figura più grandiosa, il protagonista, personaggio sfrontato e geniale, spavaldo orditore di incredibili inganni a favore dell’adulescens e contro l’arcigna taccagneria dei senes o l’avidità dei formidabili lenoni. Senza di lui, non ci sarebbe storia; il deus ex machina in effetti è lui. Plauto lo definisce in vari luoghi come un "architetto" (Palestrione, nel "Miles Gloriosus"), un "poeta" (Pseudolo, nello "Pseudolus"), un "generale" (ancora in riferimento a Pseudolo e Palestrione), finendo palesemente per identificarsi nella sua figura. A noi ricorda un po' Arlecchino e Pulcinella, sempre spiantati ma con una lucida visione degli eventi e da un’ironia dissacrante, che non risparmia niente e nessuno, nemmeno l’amato padroncino per il quale il servo rischia ogni volta le ire del vecchio padrone.

      La sua forza è la giocosità creativa delle sue invenzioni, la gratuità un po’ folle e anarchica delle sue scommesse, naturalmente sempre vinte; su di lui incombe perennemente la minaccia delle sferze e delle catene, a cui il servo plautino risponde coi suoi geniali raggiri. Fiero e orgoglioso delle proprie mosse, si autoglorifica spesso, rivolgendosi al pubblico nella posa plateale di chi ambisce a un applauso.

      Plauto ce ne dà un ritratto fisico, una maschera: "rosso di pelo, panciuto, gambe grosse, pelle nerastra, una grande testa, occhi vivaci, rubicondo in faccia, piedi enormi" ("Pseudolus", 1218-1220). Brutto ma intelligente e atuto, di quell'intelligenza e astuzia che nasce dall'esigenza di dover dtrappare la vita brano a brano per sopravvivere, ma con uno spirito e un brio da eroe. Aristotele aveva scritto che gli schiavi sono più vicini agli animali che agli uomini. Il servo plautino, mostruoso nel corpo, dirompente nel linguaggio (spesso osceno e volgare), spudorato negli atteggiamenti, animalesco nei suoi istinti, dimostra di essere anche il più intelligente, e pure anche il più simpatico, quello per il quale il pubblico "tifa" fin dall’inizio.


      Questi due brani ci permettono di trarre alcune conseguenze:


      Pseudolo parla degli inganni che si prepara a macchinare paragonandoli alle menzogne della poesia; in particolare, per descrivere le difficoltà incontrate nella costruzione del’intrigo, usa espressioni che lo portano a identificarsi col poeta stesso.

      nel secondo monologo, il poeta chiarisce attraverso il personaggio la sua concezione del teatro, che si basa sul dinamismo scenico, ossia sullo svolgimento rapidissimo dell’azione, basata su colpi di scena e trovate fantastiche che sconfinano nell’assurdo e nel surreale.
      sempre attraverso il servo Plauto ci dice che alla base dell’intreccio delle sue commedie c’è un inganno;
      - che il servo è l’artefice principale della beffa;
      - che il servo è il rappresentante autorizzato del poeta (la figura che Plauto autorizza a rappresentarlo sulla scena), l’alter ego del poeta: come infatti il servo architetta l’inganno organizzandolo nei minimi dettagli e istruendo i suoi complici su di essi, così il poeta mette in scena la commedia, delineandone l’intreccio e istruendo gli attori.
      - la capacità vantata dal servo di trovare soluzioni a vicende ingarbugliate è metafora (traduzione scenica) della capacità inventiva del poeta.
      gli inserti meta teatrali hanno la funzione di chiarire al pubblico la sua concezione del teatro e della poesia: si tratta di una concezione non realistica ma fantastica.

      Il servo plautino – che è il vero deus ex machina dell’intreccio – è anche una figura sovversiva, perché i suoi stratagemmi determinano una sovversione di tutto ciò che è considerato normale: i servi infatti dominano sui padroni e i giovani sui vecchi genitori: esattamente tutto il contrario di ciò che accade nella realtà quotidiana, in cui:
      i figli scapoli corteggiano le donne
      i vecchi lasciano in pace le donne desiderate dai figli;
      i figli accettano l’autorità paterna senza drammi, per quanto severa essa sia.

      Un altro esempio di meditatio del servo, impegnato a escogitare una delle sue ennesime trovate, ce lo offre Palestrione nel Miles gloriosus. Nel brano seguente, egli appare alle prese con la necessità di far credere a Sceledro, servo di Pirgopolinice, di non aver visto ciò che invece è convinto di aver vsto: Filocomasio, la donna del soldato, abbracciata col padroncino Pleusicle. Nella figura di Palestrione, intento a scovare una trovata delle sue in un atteggiamento improntato alla massima concentrazione, è facile veder raffigurato il “travaglio dell’artista insoddisfatto della propria creazione”, quando è alla ricerca dell’ispirazione e questa tarda a venire.

      Ma come rappresentare sulla scena un atto mentale come quello della creazione artistica? Attraverso la mimica e la presenza di un personaggio – Periplectomeno – che senza esser visto dal servo, commenta per il pubblico la mimica del servo- poeta. Questi, infatti:

      si batte il petto con le dita, quasi a tirarsi fuori il cuore;
      ha la mano sinistra appoggiata sulla coscia sinistra e con la destra fa i conti con le dita;
      gli mancano le idee, è in affanno, quelle che ha appena escogitato le respinge e scuote il capo: è evidente che, qualunque sarà la sua trovata, la servirà ben cotta;
      assume l’atteggiamento che la tradizione attribuiva al poeta latino Nevio, incarcerato per aver criticato i potenti, con la mano a far da puntello (sostegno) al mento, mentre due soldati mantenevano la guardia ai suoi fianchi. Ma è questione di un attimo: al servo non è gradita la poesia politicamente impegnata, perché predilige … la commedia plautina: vistoso riferimento meta teatrale alla natura disimpegnata, indifferente alla politica e alla protesta sociale propria del teatro plautino.

      Infatti, destato dalle esortazioni del vecchio, il servo si convince ad assumere un atteggiamento non meditabondo ma combattivo: farà come un generale che non lascia tregua al nemico, cingendo d’assedio, tagliando i viveri e innalzando bastioni.

      Tuttavia, gli inserti meta teatrali in Plauto sono sempre limitati, occupano uno spazio esiguo e sono di breve durata: dopo aver parlato di poesia e di poeti, il servo si cala nuovamente nei panni del personaggio e l’illusione scenica viene ristabilita.




      IL DOPPIO

      Un espediente di cui spesso Plauto si serve per rendere meno monotona la trama delle sue commedie è l’equivoco, soprattutto quello legato allo scambio di persona. A questa tematica si ricollegano alcune commedie, come l’Amphitruo e il Miles.

      Nell’Amphitruo – l’unica commedia di soggetto mitologico – Zeus, essendosi innamorato di una donna mortale, Alcmena, moglie di Anfitrione re di Tebe, per realizzare il suo desiderio, prende le sembianze del marito di Alcmena, assente momentaneamente dalla città perché impegnato in una spedizione militare; Mercurio, intanto, per favorire gli amori di Zeus e Alcmena, si è travestito da Sosia, il servo di Anfitrione.

      A un certo punto, i veri Anfitrione e Sosia ritornano dalla guerra e in questo brano Sosia, mandato dal padrone come araldo ad annunciare il suo arrivo alla regina, giunto dinnanzi ala palazzo, non crede ai propri occhi, quando vede sulla porta del palazzo un individuo identico a se stesso. Sosia si avvicina, cerca di entrare, ma quello gli impedisce di accostarsi alla porta di casa.

      Quando sosia dice di essere Sosia, quello lo aggredisce e dice che il vero Sosia è lui, che sta facendo la guardia alla porta. Il vero Sosia osserva bene l’uomo che sostiene di essere Sosia e si rende conto che è in tutto uguale a lui. È come se vedesse allo specchio la sua immagine riflessa che lo guarda male e lo prende a pugni.

      Sosia comincia a dubitare del proprio essere e si chiede:
      - 1. chi è lui, lo schiavo arrivato dal porto alla casa di Anfitrione;
      - 2. dove sono morto? Questa domanda è giustificata dal fatto che i Romani ammettevano l’esistenza di simulacra, “fantasmi”, soprattutto dei defunti. L’incontro di Sosia con qualcuno che ha la sua stessa parvenza esteriore (aspetto) gli suggerisce il pensiero della sua morte: se costui ha la mia imago, significa forse che è il mio fantasma e che io sono morto?
      - 3. dove sono stato trasformato? (immutatus). Questa domanda si lega alla convinzione che esistessero delle persone capaci di prendere possesso dell’identità di un’altra persona, che vede così mutato il proprio aspetto senza essere più riconoscibile agli altri.

      Sosia dunque si trova ad affrontare un problema della massima importanza e assai inquietante, di natura psicologica:
      - non è più se stesso
      - gli altri non lo riconoscono più come Sosia
      - c’è un altro che ha preso il suo posto.

      Siamo però in una commedia e il pubblico si deve divertire, per cui Sosia approfitta del suo dramma esistenziale per trarne spunti di sapore comico:

      - ci sarà ancora un padrone che lo attende presso le navi?
      - forse no, ma se così, pazienza, anzi meglio: non essere più Sosia potrebbe voler dire non essere più uno schiavo.

      Sosia gioca anche sul doppio senso di imago:
      - 1. maschera cera;
      - 2. immagine portata da una persona somigliante al defunto.
      Egli ironizza dunque sulla controfigura che indossa la sua maschera immaginando che gli venga tributato da vivo un onore che nessuno gli renderà da morto, perché schiavo e non nobile.



      IL FATO O TICHE

      Come nell'opera omerica il fato o Ananke o Tiche o Fortuna, ha sempre l'ultima parola.
      Nel brano seguente, Pseudolus, riconoscendo il fallimento del suo progetto, si abbandona a una considerazione filosofica sul ruolo preponderante della Fortuna sulle vicende umane, con una serie di riflessione di sapore parodistico nei confronti del linguaggio filosofico.

      Vi si può riconoscere un’allusione alla sapientia greca, in particolare al motivo del contrasto fra sapere umano e sapere divino: l’uomo, finché il suo destino non si compie – ha una grande stima di sé e nutre vane speranze: il povero nella ricchezza, il malato è convinto di guarire, e tutti cercano… (v.d Solone)



      IL METATEATRO

      Caratteristica del teatro plautino è la cosiddetta rottura dell’illusione scenica, che si ha quando il pubblico che assiste a uno spettacolo cessa di immedesimarsi nella vicenda rappresentata, perché viene invitato dai personaggi stessi a prendere atto del carattere fittizio dello spettacolo. Ciò accade per esempio quando uno dei personaggi, nel bel mezzo della rappresentazione, si mette a dialogare con il pubblico.

      In genere, infatti, quando assistiamo a un film drammatico, lo spettatore è portato a lasciarsi coinvolgere dalla tensione e dalla forza drammatica della vicenda, a soffrire con i personaggi. Ciò non è altro che il risultato dell’illusione scenica. Per tutta la durata della rappresentazione accettiamo di credere alla veridicità della scena. Questa illusione è legata alla presenza di una quarta parete, cioè di una barriera invisibile che separa il palcoscenico dalla platea. Tutte le volte in cui questa illusione viene meno, come nell’esempio di prima, è come se la parete venisse abbattuta: il pubblico diviene un personaggio del dramma, anche se a un livello diverso da quello in cui si trovano gli altri personaggi: il pubblico è invitato dall’autore, attraverso uno o più dei personaggi del dramma, a riflettere su alcune questioni che non hanno nessuna relazione con la vicenda rappresentata.

      La commedia che più di ogni altra esalta la figura del servus e in cui maggiore è l’identificazione fra servo e poeta è Pseudolo, un nome parlante, che significa ingannatore, e che allude non solo alle sue ingegnose trovate ma anche alla finzione poetica, rendendo palese la sua identificazione con il poeta. In questo modo il poeta, rappresentando il servo, fornisce al pubblico una rappresentazione ideale di sé e chiarisce i principi fondamentale della sua poetica, svelando i meccanismi su cui si fonda la rappresentazione teatrale.

      In rapporto al metateatro sono soprattutto i seguenti elementi presenti nel testo:
       - il fatto che Pseudolo si rivolga direttamente agli spettatori;
       - il riferimento esplicito alla commedia e al suo svolgersi nel tempo;
       - il riferimento alla creatività e alle innovazioni necessarie sulla scena;
       - il riferimento all’incapacità o abilità di chi è in scena.

      Inoltre l’espressione novo modo novom aliquid inventum adferre può essere considerata la legge fondamentale della drammaturgia plautina, il segreto del suo ritmo scenico e verbale che non dà tregua allo spettatore e al lettore.
      L’attore recita due parti: una per il pubblico, come portavoce dell’autore, una per gli altri personaggi che sono sulla scena. A questa situazione viene dato il nome di metateatro.

      Elementi meta teatrali sono assai frequenti in Plauto. Frequenti cioè sono i casi in cui nella commedia, che è ambientata in Grecia, i personaggi fanno esplicito riferimento a elementi della cultura e della società romana: il personaggio parla da romano rivolgendosi a un pubblico romano. 
      Un clamoroso di metateatro nel senso che abbiamo appena indicato, cioè di teatro che medita su se stesso, ci viene offerto dallo Pseudolus.
      Pseudolus ha appena promesso a Calidoro di procurargli il denaro che gli è stato richiesto dal lenone Ballione per il riscatto dell’amata Fenicio. Egli, in realtà, non sa ancora come fare a mantenere la promessa e,rimasto solo, si abbandona a una riflessione che si sviluppa in due monologhi.
      Come il poeta, quando si pone di fronte al foglio bianco, cerca ciò che non esiste in nessun luogo eppure lo trova, trasformando la finzione in verità, così lui diventerà poeta e le 20 mine – che non esistono in nessun luogo al mondo – le farà balzar fuori.

      Ma su che cosa si basa la sua sicurezza? Egli sa solo che ciò che ha promesso accadrà: è infatti legge che il personaggio che si presenta sulla scena rechi in forma nuova una qualche invenzione: se non è capace di farlo, ceda il posto a chi possiede questa facoltà.

      “Ho il sospetto che ora voi sospettiate che io vi prometto simili imprese per divertirvi, fino a portare a termine questa commedia, e che non sia capace di fare quel che v’avevo promesso. Non mi ritratterò. Per altro, che io sappia, quanto al modo in cui io possa riuscirvi, non so ancor nulla di preciso; so soltanto che la cosa mi riuscirà. Chi si presenta sulla scena deve portare, in modo nuovo, qualche nuova trovata; se non ne è capace, lasci il posto a chi ne è capace”.

      Ricorda un po' i Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello, neanche lì l'autore sa cosa accadrà, non gli resta che seguire i suoi personaggi, perchè sarà il loro carattere a determinare gli eventi. Ma in realtà sarà il carattere e l'estro di Pirandello a determinarli sulla scena. Così ora Il servo che deve portare a termine l'opera senza sapere come è Plauto stesso, la cui inventiva escogita situazioni che portano a situazioni successive. Il servo Plauto svela così che alla base dell’intreccio delle sue commedie c’è un inganno, e che il servo è l’artefice principale della beffa; come infatti il servo architetta l’inganno organizzandolo nei minimi dettagli e istruendo i suoi complici su di essi, così il poeta mette in scena la commedia, delineandone l’intreccio e istruendo gli attori. E così la capacità vantata dal servo di trovare soluzioni a vicende ingarbugliate è metafora (traduzione scenica) della capacità inventiva del poeta.

      Un esempio clamoroso di metateatro nel senso che abbiamo appena indicato, cioè di teatro che medita su se stesso, ci viene offerto dallo Pseudolus.

      Pseudolus ha appena promesso a Calidoro di procurargli il denaro che gli è stato richiesto dal lenone Ballione per il riscatto dell’amata Fenicio. Egli, in realtà, non sa ancora come fare a mantenere la promessa e, rimasto solo, si abbandona a una riflessione che si sviluppa in due monologhi.

      Come il poeta, quando si pone di fronte al foglio bianco, cerca ciò che non esiste in nessun luogo eppure lo trova, trasformando la finzione in verità, così lui diventerà poeta e le 20 mine – che non esistono in nessun luogo al mondo – le farà balzar fuori.

      Ma su che cosa si basa la sua sicurezza? Egli sa solo che ciò che ha promesso accadrà: è infatti legge che il personaggio che si presenta sulla scena rechi in forma nuova una qualche invenzione: se non è capace di farlo, ceda il posto a chi possiede questa facoltà.

      “Ho il sospetto che ora voi sospettiate che io vi prometto simili imprese per divertirvi, fino a portare a termine questa commedia, e che non sia capace di fare quel che v’avevo promesso. Non mi ritratterò. Per altro, che io sappia, quanto al modo in cui io possa riuscirvi, non so ancor nulla di preciso; so soltanto che la cosa mi riuscirà. Chi si presenta sulla scena deve portare, in modo nuovo, qualche nuova trovata; se non ne è capace, lasci il posto a chi ne è capace”.

       Degni di nota in rapporto al tema del metateatro sono soprattutto i seguenti elementi presenti nel testo:
      il fatto che Pseudolo si rivolga direttamente agli spettatori;
      il riferimento esplicito alla commedia e al suo svolgersi nel tempo;
      il riferimento alla creatività e alle innovazioni necessarie sulla scena;
      il riferimento all’incapacità o abilità di chi è in scena.

      Inoltre l’espressione novo modo novom aliquid inventum adferre può essere considerata la legge fondamentale della drammaturgia plautina, il segreto del suo ritmo scenico e verbale che non dà tregua allo spettatore e al lettore.



      I DETTI DI PLAUTO

      - Una mente paziente è il migliore rimedio contro le avversità.
      - Dove sono gli amici, là sono le ricchezze.
      - (sulle donne) Pensa a quanto è saggio un topolino: non affida mai la sua vita a un solo buco.
      - La povertà insegna tutte le arti.
      - La merce buona trova facilmente un compratore.




      L'ISCRIZIONE SEPOLCRALE

      L’iscrizione sepolcrale, riportata da Gellio ( III, 3, 14 ), testimonia il vuoto lasciato dalla morte di Plauto sulla scena teatrale romana:
      "Postquam est mortem aptus Plautus, Comoedia luget,
      Scaena est deserta, dein Risus, Ludus Iocusque 
      et Numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt"
      "Dopo la morte di Plauto, la Commedia piange, la Scena è deserta, il Riso, lo Scherzo e il Divertimento, i Ritmi innumerevoli si sono messi tutti insieme a piangere”.
      A parte il rilievo dato alla gioiosità della commedia plautina, si sottolinea la straordinaria abilità in campo metrico (numeri innumeri) dell’arte plautina.


      ELOGIA ROMANI

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      ELOGIA COME NOTIZIE

      Gli elogia romani erano appunto elogi funebri di persone decedute, in quel tempo o in tempi precedenti, che venivano incisi sulle epigrafi poste sul monumento funerario o sulle statue dedicatorie.

      Gli elogia sono stati uno strumento di informazione e di propaganda per le aristocratiche familiae romane, ma anche una fonte di informazione per i posteri, cioè per noi. Infatti ci rivelano ad esempio, che Marcus Valerius Maximus (dict.494) (E9), Marcus Furius Camillus (dict.396) (EIO); Caius  Duilius (eo,.260) (EIS); Quintus Fabius Maximus (eo,.233) (El6); Lucius Aemilius Paullus (co,. 182) (E19); Caius Marius (E22); e Lucius Liciuius Lucullus (eos.74) (E26) celebrarono dei trionfi per le loro vittorie
      in guerra.



      IL FORO DI AUGUSTO

      Le fonti informano che Augustus volle il Foro a lui dedicato, il Foror Augusto, e per esso comprò a sue spese la terra dove sarebbero stati costruiti entrambi i templi di Marte U1tore, ed il Foro. I templi furono costruiti a spese dello Stato, ma la terra, la costosissima ed estesissima terra sul colle Palatino venne pagata da Augusto di tasca sua, cosa incredibile ai nostri tempi, o almeno con i nostri politici.

      Sia Svetonio che Diodoro asseriscono che Augusto decretò pure le cose che dovevano essere poste nella struttura, e lo storico suggerisce che Augusto avrebbe avuto un ruolo nella selezione di tutti coloro che dovevano essere onorati con statue poste nel Foro. Svetonio o no, l'imperatore decideva tutto ciò che voleva e uno attento alla propaganda come Augusto di certo non si faceva scappare l'occasione.

      Sicuramente Augusto si coinvolse nell'intero progetto, un po' perchè si interessava continuamente dell'abbellimento di Roma, un po' perchè voleva seguire le orme del venerato zio e come lui fare un Foro dedicato a se stesso, ma soprattutto perchè era molto attento alla propaganda, tristemente memore dell'assassinio di Cesare nonostante fosse molto amato dalla popolazione.
      Augusto sicuramente scelse il disegno architettonico del foro, la sistemazione delle statue del Forum, i templi e pure le iscrizioni e gli Elogia.



      AUGUSTO

      Tutto questo gli fu attribuito dagli storiografi o biografi dell'epoca, come Virgilio. Secondo altri due storici e biografi romani, Marcus Terentius Varro e Titus Pomponius Atticus, avrebbe se non diretto, influenzato la scelta della statuaria e delle iscrizioni del Foro.

      Nel 39 a.c., Varrone completò le sue Imagines, una collezione di 700 ritratti di uomini famosi, sia greci che romani. La collezione includeva ritratti di re e uomini di stato, generali. filosofi, storici, letterati, artisti e chiunque meritasse di passare ai posteri.

      Sotto ad ogni ritratto, Varrone fece scrivere le conquiste del personaggio in un breve epigramma, purtroppo non abbiamo la lista completa degli epigrammi, non essendo sopravvissuta la collezione, si sa solo che tra i personaggi romani vi erano gli Scipios e la famiglia dei Fabii, tutti con la propria statua nel Forum.

      Le biografie di Pomponius Atticus, a imitazione di quelle di Varrone, compilò un album con i ritratti e i relativi epigrammi di 4 o 5 righe ciascuno. Fu l'avvio per i grandi Elogia romani: dalla compilazione di Atticus derivarono tutti gli elogi futuri che presero spunto da quelli. Probabilmente Augusto si sarà ispirato o avrà imitato lo stile di Varro e di Atticus, per comporre gli altri elogi nel Foro.



      VIRGILIO

      Si sa che Augustus aveva letto l'Eneide e che Virgilio aveva letto diversi brani di sue opere all'imperatore, il quale potè rimanerne influenzato. Due passaggi dell'Eneide, uno sul VI libro e uno sul VII, contengono molte similarità con la disposizione del Foro, di modo che Virgilio può essere considerato una fonte per il disegno del complesso.

      Si crede che il disegno del Forum, volto ad onorare l'imperatore, ebbe inizio da una scena del libro VI dell'Eneide, quando si mostra Enea, discendente dal padre Anchise, coi suoi discendenti e o grandi romani del futuro. In questa "Parata di Eroi", Enea riconosce un numero di re albani, incluso Aeneas Silvius, e re Procas.
      Quindi scorge le figure di Romulus, i primi re di Roma, e gli eroi del periodo repubblicano. Tra questi le figure di M. Furius Camillus, L. Aemilius Paullus, i Gracchi, gli Scipios, C. Fabricius Luscinus, Q. Fabius Maximus, e il giovane M. Claudius Marcellus.



      OVIDIO

      Questo è l'ordine esatto che usa Ovidio per descrivere il Forum, visto attraverso gli occhi del Dio Marte che disceso dai cieli, vide Enea e i suoi discendenti, poi vide Romulus, e infine i summi viri con i loro Elogia.

      Ovidio basò la sua descrizione su Virgilio, ma più probabilmente sulle strutture del Foro, che fu aperto 6 o 7 anni prima che egli scrivesse i Fasti, ciò gli dette il tempo di frequentare assiduamente il Foro, con la collocazione delle statue e di quella di Marte sopra al tempio. Nella 'Parata degli Eroi,' Virgilio non cita tutti i nomi degli eroi, ma ne ricorda dei successi. Per esempio, Camillus è ricordato perchè concquistò 7 stendardi, Paullus perchè distrusse Argos e Fabius per le sue tattiche che salvarono lo stato.

      Quando Enea e il suo equipaggio raggiunsero il Lazio, re Latino li ricevette nel suo palazzo. La descrizione di Virgilio della reggia contiene numerosi paralleli col Foro. Nella reggia latina, riceveva i simboli delle sua autorità, incontrava il senato, si eseguivano le cerimonie religiose, e si partecipava ai banchetti sacri, un po' tutte le funzioni che Augusto decretò dovessero avvenire nel Foro. Anche se ci sono somiglianze tra le due strutture, è il disegno del palazzo di Latino e gli oggetti in esso contenuti, che richiamano il Foro di Augusto.

      Nel vestibolo del palazzo di re Latino poi Enea videù le statue degli antenati di Latino, e di altri che avevano combattuto per il suo regno, e c'erano nel cortile le spoglie dei nemici vinti. Questa descrizione ha molte analogie col Foro, dove figure ancestrali, insieme agli antichi re, venivano onorati con statue. Inoltre, entrambe le strutture fungevano da depositi per bottino dei successi militari.

      Si è pensato che Virgilio conoscesse il progetto del Forum, o la costruzione aveva già iniziato prima della morte di il poeta nel 19 ac., ma questa ipotesi è stata smentita dagli studiosi. Le tre fonti letterarie esaminati, Varrone, Atticus, e Virgilio, anteriore al Forum, rappresentano comunque impressionanti similitudini con il programma scultoreo della struttura augustea. Sembrerebbe quindi che Augusto potrebbe essere stato influenzato, direttamente o indirettamente, da questi lavori nel pianificare il modo in cui le statue e gli Elogia dovevano essere visualizzati nel suo Foro.



      GLI ANTENATI

      Polibio, scrivendo berso la metà del II sec. ac, narra che l'immagine di una persona deceduta veniva eseguita in cera dopo le cerimonie funebri, poi racchiusa in una teca di legno, e risposta nell'atrio. A un nuovo decesso in famiglia, le maschere, indossate da attori, facevano parte del corteo funebre.

      E ' evidente che le immages, nei i cortei funebri e nell'atrio con nomi ed imprese specificati, dovevano fornire esempi ai vivi, affinchè i giovani emulassero i loro gloriosi antenati. Lo stesso motivo per cui, afferma Svetonio, Augusto scelse di erigere le statue nel suo Forum, cioè per i posteri.

      L'atrio romano era come la Hall di un albergo, da cui si evince l'importanza di tutto il resto. Quindi il lignaggio e l'opulenza di una familia si esprimeva proprio nell'atrio, attraverso le immagina e i tituli, nonchè la ricchezza delle decorazioni.

      Il Forum di Augusto aveva lo stesso intento con le statue e gli Elogia raffiguranti la discendenza e le imprese degli antenati di Augusto, nonchè di altri individui gloriosi che dimostravano il grande destino di Roma. Insomma il Foro poteva essere il pubblico atrio della Gens Julia.



      GLI ELOGIA DEI CIMITERI

      Purtroppo non un solo titolo statuario è giunto fino a noi, ma dagli Elogia reperiti nei cimiteri repubblicani si è potuto ricostruire qualcosa, come ad esempio dalla tomba degli Scipioni. La maggior parte degli Elogia erano costituite in due parti, la prima forniva il nome e tutti gli incarichi pubblici che gli erano stati conferiti, la seconda tendeva a lodare il defunto, menzionando le conquiste o certe qualità particolari che l'avevano distinto in vita. Ma anche i tituli degli antenati mostrati nell'atrio tendevano un po' a questa celebrazione. Ciò è evidente nella tomba degli Scipioni.

      Gli Elogia trovati in questa tomba, nella forma e nel contenuto, sono stati i modelli su cui si basano gli elogia del Forum, ma è difficile dire se gli Elogia augustei si basavano sul tiluli, o se il tiluli erano basati su la struttura e i contenuti degli Elogia del sepolcro degli Scipioni.

      Augusto probabilmente ebbe un ruolo di supervisione, su la disposizione della statuaria, nella selezione degli individui da onorare, e nella composizione e contenuto degli elogia. A sua volta Augusto avrà avuto numerosi consiglieri, anche se Ottaviano non era tuttavia molto suggestionabile dai consigli altrui, se non in parte da quelli di Livia e Mecenate.

      Le opere di Varrone, Atticus, e Virgilio non solo hanno influenzato il modo in cui erano disposte le statue e Elogia nel Forum, ma anche per la selezione dei Summi viri, e per il contenuto delle iscrizioni. Il commento  di Plinio (vedi p.7 n. 32) suggerisce che Augusto ha scritto gli Elogia egli stesso. Gli augustei Elogia, con le statue erette nel Foro, commemoravano la vita e le realizzazioni dei Summi viri, con le cariche della sua carriera politica, e altri atti per i quali sono stati ricordati gli individui.



      TOMBA DEGLI SCIPIONI

      La tomba degli Scipioni fu costruita dopo il 312 ac., lungo la Via Appia, visto che in questa data venne costruita detta via da A. Claudius Caecus, fuori Porta Capena. Sembra che la struttura sia stata completata entro la vita di L. Scipione Cornelins Batbatus (cos. 298). Vedi Flower (1996), 160-161, e Coarelli nel corso dei secoli III e II, e conteneva i corpi di circa trenta membri della famiglia Scipione.

      Sui loro sarcofagi, gli elogia indicarono i nomi  e altre informazioni. Il nome della persona si presenta al nominativo, nella struttura tria nomina. Il prenome, che era abbreviato, era seguito dal gentilicum, almeno un patronimo, e infine il cognomen. In tre casi, cognomina supplementari sono stati inclusi anche nella nomenclatura. In un caso, un patronimo aggiuntivo che indica la discesa da un nonno. (1972), 43.

      Il luogo della tomba fu notato da Livio e Cicerone. Livio (38.56.4) la colloca extra Portam Capenam ('fuori Porta Capena'), e Cicerone (Tuse. I. 7.13) lo conferma: an tu egressus porta Capena cum Caiatini, Scipionum, Serviliorum, Afetellorum, sepulcra vides, miseros pufas illos (giungendo fuori Porta Capena, si vedono le tombe dei Calatinii, Scipiones, Servilii,  MeteIlii, riflettete su quegli uomini riprovevoli?')

      L'elogio di L. Cornelius Scipio Barbatus (lLS 1) ricorda che Taurasia Cisauna samnio cepit, subigit omne Loucanam opsidesque abdoucil ('egli catturò Tauarasia e Cisauna nel Samnium, conquistò tutta la Loucana e ne riportò molti ostaggi'); l'epitaffio di L. Cornelius Scipio Coarelli (1972), 60, stima che da 32 a 34 corpi erano seppelliti nella tomba. Ogni elogio della tomba di Scipione include l'indicazione di colui da cui discende e tre iscrizioni.

      L'elogio di L. Cornelius Scipio Barbatos (ILS 1) è il primo esempio dell'uso del cognome negli onomastici romani. (Vedi 1. Kajanto, The Latin Cognomina Helsinki, 1965), J 9. 27
      I cognomi vengono concessi per qualche virtù " e in due altri, cognomina aggettivali, indicanti sia un soprannome che un tratto personale, sono inclusi nella nomenclatura.'"

      In tre delle iscrizioni, le cariche ricoperte dai soggetti seguono immediatamente dopo il nome, ma non vi è alcuna regola certa nel modo in cui gli uffici sono elencati. Dopo il nome e le magistrature, le iscrizioni elogiavano il defunto per le virtù e i successi del defunto. In generale, la maggior parte del testo in ogni iscrizione è dedicata alla lode di qualità morali, ma soprattutto alle realizzazioni, come le vittorie in guerra e la costruzione dei templi, 12 sono anche raccontati.



      ELOGIA DEL FORO AUGUSTO

      Costruito sulla struttura e il contenuto suggeriti dagli Elogia Scipionis, le iscrizioni augustee contenevano quei dettagli che più efficacemente descrivessero i summi viri come modelli di grandezza.
      Tra queste, le magistrature, le vittorie militari, i programmi di costruzione, onori distintivi e altre realizzazioni che ritraevano gli individui come cittadini esemplari. Questi uomini erano exempla, pertanto cercati in tutte le possibili fonti di consultazione. Il risultato di questa ricerca è stato storicamente accurato e, a differenza di molte altre fonti, è sopravvissuto.. Gli augustea Elogia hanno cinque caratteristiche identificabili:

      1) nomenclatura;
      2) elenco delle magistrature possedute;
      3) conquiste militari;
      4) realizzazioni civili personale;
      5) la costruzione di programmi o altre informazioni.

      In genere ogni iscrizione comprende  primi: causa, nomo e Magistratura, le ultime 3 compaiono variamente. La nomenclatura nella sopravvivenza augustea Elogia segue la struttura trovata negli epitaffi Scipionici. I nomi sono riportati nel nominativo, i praenomina sono abbreviati, i gentilicia sono forniti, e la filiazione è indicata mediante l'utilizzo di patronymus.

      I cognomina erano inclusi, e in alcuni casi, vi erano cognomina aggiuntivi. Subito dopo il nome, la II sezione degli elogia gli uffici svolti in forma abbraviata. Se uno era stato console, o dittatore, o censore, questi uffici venivano listati per primi, senza tuttavia spiegare se avevano svolto la carica. Seguivano le liste degli interrex, 22  in ordine decrescente, sono quindi ricordati gli altri magistrati del cursus honorum. Venivano elencati pure i tribuni militari. gli auguri e i pontefici.

      Le magistrature elencati negli Elogia sopravvissuti, e quelli che possono essere determinati da altre fonti, rivelano che la maggior parte dei summi viri tennero le posizioni più importanti dello stato romano. Otto di loro furono dittatori, quindici Consoli, nove Censori, e quattro interrex. Alcuni di loro avevano svolto questi uffici più di una volta. Gli altri Magistrati del cursus honorum, pretore, edile, e questore, erano anch'essi annotati negli Elogia.

      Quando integrati da altre evidenze, questi tre uffici sembrano essere stati quasi equamente rappresentati nel Forum dai Summi viri. Tre altri uffici appaiono frequentemente nel Elogia. Il tribunato militare è stato tenuto da almeno undici degli individui, e cinque di loro ricoprirono la carica più di una volta.

      La frequenza con cui questo ufficio è stato ritrovato negli Elogia può essere correlata alle funzioni militari associate con, ed eseguite, per il Tempio di Marte Ultore e dentro i confini del Foro. E 'anche certo che otto dei summi viri avevano appartenuto al collegio di auguri, e tre nel record degli Elogia che pevedeva la posizione del pontefice. E' possibile che i sacerdoti siano stati inclusi negli Elogia, al fine di sottolineare l'importanza religiosa, e di funzioni religiose, del Forum.

      Si è suggerito pure che l'ufficio di augure sia stato incluso negli Elogia perché Romolo, la figura centrale di una esedra, si diceva aver iniziato la lettura degli auspici. Per la lista delle magistrature, la terza sezione degli Elogia si concentra sui successi militari dei summi viri. In questa sezione, vittorie militari, importanti battaglie, la cattura delle città, il sottomettere dei nemici di Roma, e la celebrazione dei trionfi sono i più citati.

      Questa sezione registra anche le azioni eseguite in un contesto militare, ma che non aderiscono di cui sopra. Questi tendono a illustrare qualche risultato specifico o particolare azione, che ha distinto l'individuo tra gli altri summi viri.

      La IV sezione degli elogia augustani presenta ciò che è stato considerato esempio di virtù. Questo esempio di virtù  è stato il motivo principale che aveva spinto Augusto a celebrarlo poichè voleva tali i futuri dirigenti di Roma. Anche se ogni esempio è unico, può rappresentare un'azione in cui l'individuo, in un periodo di crisi, ha salvato lo stato romano.

      L'ultima componente della Elogia non è comune a tutte le iscrizioni, ma da quelle che non comprendono questa parte, due temi sembrano essere comuni. Uno si occupa dei programmi sponsorizzati dai summi viri, e l'altro si concentra su particolari onori e posizioni di certi individui.

      In tre delle iscrizioni, che commemorano la costruzione dei templi, acquedotti e strade. In 3 degli elogi. le iscrizioni ricordano gli "Eccezionali Onori Dati a Uomini Morti nel Loro Servizio per Roma". Inoltre, i testi ricordano "Che a causa dei summi viri furono Ricordati  nel Forum con Una statua e un Elogio, chiamati ognuno princeps senatus".



      CAIO MARIO

      Un'ulteriore annotazione sull'elogio di C. Marius, che non sembra conforme a uno di questi temi. L'iscrizione Ricorda  "Mario Entrò in Senato in tenuta Trionfale", e Plutarco aggiunge "Che lo Fece Dopo la Celebrazione del Suo trionfo su Giugurta". Plutarco è incerto se Mario volle sfidare la sua buona fortuna o se l'avesse fatto inavvertitamente, ma ma una qualsiasi ragione delle due non sarebbe stata inclusa negli elogia.

      Livio suggerisce allora che Mario fosse garantito da un privilegio che gli accordava di entrare in senato con la veste di trionfatore, cosa mai concessa prima a Roma.

      Gaio Mario, console per sette volte, pretore, tribuno della plebe, questore, augure e tribuno militare. Come console, egli mosse guerra contro Giugurta, re di Numidia, lo catturò e mentre celebrava un trionfo nel suo II consolato, ordinò che Giugurta fosse condotto dietro al suo carro. Mentre era assente, fu eletto console per la III volta. Come console la IV volta distrusse l'esercito dei Teutoni. Come console la V volta vinse e trionfò su Cimbri e Teutoni. Come console la VI volta, ha protetto lo stato dalla insurrezione del tribuno della plebe e il pretore che avevano occupato il Campidoglio. Dopo 70 anni fu espulso dal paese dalla guerra civile, fu reintegrato e fatto console una VII volta. Come un vincitore, ha costruito un tempio per l'onore e Virtus delle spoglie del Cimbri e Teutoni.

      Questi, dunque, sono stati i precedenti che dovevano fornire il exempla su cui i Romani dovevano trarre a modello per la loro vita. Le informazioni della Elogia, e in particolare i registri di magistrature, ha svolto un ruolo importante nella ricostruzione delle carriere politiche e le realizzazioni dei summi viri. La ragione principale è che il Elogia contiene numerosi dettagli riguardanti le carriere dei politici repubblicani che non sono attestate altrove.



      VALERIO MASSIMO

      L'elogium di Marco Valerio Massimo (dict.494) (E9) conclude notando che era stato nominato princeps senatus. Valerio è anche accreditato, nell'iscrizione, di aver ristabilito l'accordo tra la plebe e il Senato nel 494 ac Vi è, tuttavia, un'altra tradizione:.. Sia Livio e Dionigi affermano che Valerio non era responsabile di aver posto fine alla secessione. Forse coloro che compongono gli Elogia dovevano scegliere una versione.



      APPIO CLAUDIO

      Molti dettagli della carriera politica di Appio Claudio Cieco (cos.307) (E13) sono conosciute solo dal suo elogium.

      La sua dittatura non è menzionata nelle fonti letterarie, né lo sono i suoi secondo e terzo incarichi interrex. Inoltre l'elogio è l'unica evidenza della sua carica di pretore, edile, questore e tribuno militare.
      Nota l'iscrizione che Cieco, come console nel 296 ac, sconfisse gli Etruschi e Sabini. Tuttavia, nessuna prova riporta la presenza dei Sabini nel conflitto, e quindi questo dettaglio dal elogium è stato respinto come errore storico. ·



      FABIO MASSIMO

      L'elogium di Q. Fabio Massimo (cos.233) (E16) è l'unica prova per i suoi due incarichi di interrex, la sua edilità, le sue cariche di questore, e i suoi due tribunati militari militare, l'edilità,  la questura e il tribunato del comando militare.



      SCIPIONE ASIATICO

      Cornelio Scipione Asiatico sono noti solo dal suo elogium, e l'iscrizione di L. Emilio Paolo, fornisce l'unica prova che è stato nominato interrex, fu questore, e ricopre la carica di tribuno militare tre volte.



      GIULIO CESARE SENIOR

      Anche se il 52 elogium di Iulius Caesar (pr.ca.92), il padre del dittatore, è frammentaria, le abbreviazioni per gli uffici del questore e tribuno militare sono chiaramente visibili. Le fonti letterarie, tuttavia, non menzionano che Cesare tiene questi offices.
      L'ultima riga delle registrazioni elogium che Cesare era responsabile per la composizione coloni sull'isola di Cercina.  Questo non è registrata altrove, ma è stato suggerito che questa colonia è stata fondata, secondo la normativa Direttiva agraria.
      Questo non è registrata altrove, ma è stato suggerito che questa colonia fu fondata secondo la legislazione agraria di L.Appuleius Saturnino.
      Cesare fu apparentemente un membro della commissione (decemviri) che effettuò le leggi di Saturninus. Nominato anche per questa commissione era C. lulius Cesare Strabone (aed.cur. 90). Tutti i restauri di elogium di Strabone, anche se frammentarie, comprendono la sua appartenenza a questo decemvirato. L'iscrizione conferma che Strabone ha tenuto queste magistrature.



      LICINIO LUCULLO 

      L'elogio di L. Licinius Lucullus  fornisce anch'esso notizie non provenienti da altre fonti, che fu un tribuno militare e che fece parte di un collegio di auguri.

      Evidentemente fu tribuno militare sotto il comando di Sulla, durante la Guerra Sociale. Anche se l'annotazione è di Plutarco, alcuni sono scettisci sulla notizia, poichè non ha altre fonti.



      NERO CLAUDIUS DRUSUS 

      Il sacerdozio augurale di Nero Claudius Drusus è assente dalle fonti, inoltre fu tribuno militare in due occasioni.
      Sembra probabile che chi è stato responsabile delle iscrizioni abbia attinto da fonti non sopravvissute. Questi potrebbero essere opere di Varrone e Atticus, entrambi inclusi brevi descrizioni verbali riguardanti la vita e le realizzazioni degli individui raffigurati. È stato anche suggerito che una versione augustea degli Annales Maximi può aver fornito alcune delle informazioni che si trovano nel Elogia.



      ANNALES PONTIFICUM MAXIMORUM

      Gli Annales Maximi erano una cronaca mantenuta dal pontifex maximus che comteneva le liste annuali dei prodigi di cui erano stati testimoni, e anche registrato altri eventi storici. Questi elenchi annuali originarono nel periodo monarchico, quando Anco Marzio fece il pontifex per visualizzare una tabula di marmo bianco che conteneva una sintesi degli eventi che hanno avuto luogo nel corso dell'anno precedente. La tabula, come gli augustea Elogia, elencava le varie magistrature e i nomi delle persone che hanno tenuto gli uffici.

      Alla fine dell'anno, i contenuti della tabula venivano registrati in quello che è diventato noto come il Libri Annales Pontificum Maximorum. Questa pratica sembra aver continuato fino alla fine del II sec. RC., Quando il pontefice P. Muzio Scevola cessò di costituire la tabula annuale.
      Le liste dei magistrati negli Annales, e gli altri dettagli storici, può essere stata una fonte per gli storici antichi, ma non vi è alcuna indicazione di come fossero accessibili, o in che misura fossero consultati. Se le liste pontefici prima erano disponibili, avrebbero potuto essere consultati da colui cui era affidata la ricerca di pertinenza, e la composizione, della augustea Elogia
      Poiché sembra che gli Annales Maximi contenesse informazioni poi inclusi negli Elogia, questi elenchi possono fornire gran parte delle informazioni che non può essere trovata in altre fonti.



      LE RES GESTAE

      Svetonio afferma che Augusto decretò che le persone ritratte nel Foro erano destinate a fungere da esempio per i futuri leader di Roma, e, soprattutto, dovevano essere i modelli con cui Augusto, e i suoi, dovevano essere confrontati e da cui dovevano essere giudicati '. Questa dichiarazione è stata fatta da Augusto nel 2 dc, ma fu solo dopo la sua morte, il 19 agosto 14 dc, che il popolo romano venne fornito con il documento che ha fornito i dettagli del suo governo, e che ha consentito un confronto diretto con coloro che era stato ritenuti exempla.

      Il documento è le Res Gestae, rendiconto dell'imperatore del suo mandato come governatore del mondo romano. Questo capitolo esamina i vari collegamenti tra la Res Gestae, le statue, e il Elogia del Forum. Deve essere dimostrato che tutti e tre sono stati impiegati da Augusto per illustrare e annunciare, che era il leader di maggior successo, e distinto, nella storia di Roma.

      La Res Gestae e il Foro di Augusto, con la sua statuaria e Elogia, devono essere considerati come interdipendenti e complementari. Nel Forum, la preminenza di Augusto su quelli che lo avevano preceduto si rileva immediatamente da chi entra nel Forum. Situato direttamente di fronte al Tempio di Marte Ultore, e centrato tra le sale colonnate, era la statua di una quadriga con il titolo di pater patriae inscritto sulla sua base. Augusto conferma che la statua è stata istituita nel Foro a seguito di un decreto del Senato, e che il titolo di 'padre della patria' è stato dato a lui dal senato, i cavalieri, e il popolo di Roma.

      Non si sa se vi fosse sulla quadriga la statua dell'imperatore, ma in ogni caso i Romani avrebbero associato la statua con l'imperatore. L'iscrizione del pater patriae titolo sulla base della statua era in suo onore. Tutti i romani avevano apparentemente partecipato a conferire questo titolo su di Augusto, il 5 febbraio 2 dc: e pèeretanto chi entra nel forum avrebbe facilmente riconosciuto i successi, e l'importanza, del loro imperatore.

      Il carro trainato da quattro cavalli era, a partire intorno al 30 ac, impiegato nel linguaggio figurato trionfale che commemora i successi di Augusto. L'immagine della quadriga è inserita in una serie di archi, e su un certo numero di monete emesse dopo il 30 ac

      Diodoro conferma che gli archi sono stati costruiti nel 30 ac. per celebrare la vittoria di Azio, nel 27 ac., e conferma che il Senato decretò, nel 20 ac, che un arco doveva essere costruito per commemorare la vittoria di Augusto sui Parti. Un denaro emesso circa il 29 ac, rivela che uno degli archi costruiti in onore di Azio era sormontata da una statua di quattro cavalli essendo guidato da Augusto · L' immagine è stata inclusa anche su almeno uno degli archi eretto in onore delle riparazioni stradali della Flaminia che Augusto ha intrapreso nel 27 ac. Emesso circa 18 ac., un denaro commemora queste riparazioni raffigura un viadotto e un arco, su cui siede una quadriga.

      Dal momento che il titolo era stato assegnato solo a pochi eletti, Augusto, dal 2 ac, si distingue dalla maggior parte dei suoi predecessori, è evidente che la statuaria e Elogia sono stati impiegati da Augusto a ritrarre se stesso come il leader più illustri, e di successo, nella storia di Roma.

      Di conseguenza, Augusto istituì statue nel Foro che pubblicizzato la sua ascendenza. Nel centro del nord-ovest esedra, una statua di Enea era circondato dai re Albani, e altri membri della linea Julia. Di fronte ad Enea, al centro dell'esedra sud-est, era una statua di Romolo. Il nome di Augusto era inciso sull'architrave del Tempio di Marte Ultore,  e sembra che l'architrave fosse posizionato esattamente parallelo alle statue di Enea e di Romolo.

      L'effetto risultante era che Augusto sembrava collegato ad entrambi Enea e Romolo, e il legame tra gli Julii ed Enea e Romolo era stato precedentemente stabilito, ma Augusto lo rafforzò col forum. Augusto, scelse di includere nel foro gli antenati delle famiglie dominanti tradizionali di Roma, e ha sostenuto, come notato da Svetonio, che questi individui erano stati inclusi perché i loro successi, il valore, e il comportamento sono stati i modelli su cui aveva basato la propria vita, e su cui gli altri dovrebbero modellare la loro.
      Anche se gli eroi repubblicani possono essere stati scelti per le loro qualità esemplari, l'inserimento di questi uomini nel Foro ha inoltre permesso Augusto di associare se stesso, e la sua famiglia, con i grandi uomini del passato di Roma.

      La familia Julia non ebbe successo, almeno politicamente, durante la Repubblica, e nel tentativo di alleviare queste carenze, Augusto cercò di collegare la famiglia Iulia con le famiglie eminenti della Repubblica.  Circondando le statue della sua famiglia con quelli del summi viri, Augusto associò il destino di Roma, e tutti gli eventi della storia di Roma, con la gens Julia.

      Egli era responsabile della costruzione del Foro, in cui i suoi antenati giocavano come statue un ruolo preminente, e il suo nome adornava il tempio di Marte Ultore. Comunque fu il senato a chiedere una quadriga con Augusto e la Vittoria che dominasse tutto il foro, e fu il popolo a chiedere per lui il titolo di Padre della Patria inciso sotto la sua statua, lo stesso titolo che appartenne a Cesare, il suo padre adottivo.
       La quadriga significò la preminenza di Augusto su ogni leader romano e divenne il punto focale dell'intero complesso, punto di arrivo della progressione storica della gens Iulia, e dei summi viri, coll'intento anzitutto di definire il ruolo della sua gens nella storia, poi di fare gli Elogia di sè attraverso le epigrafi del Forum prima e delle Res Gestae poi.

      Un confronto tra la fraseologia impiegata sia nella Res Gestae e la elogia rivela che ci sono analogie compositive tra i due documenti. "Per esempio, l'elogio di Q. Fabio Massimo (cos.233) (E16) Ricorda che egli venne in aiuto dell'esercito quando era stato vinto dal nemico, nelle Res Gestae Augusto descrive la sua vittoria sull'esercito dei Daci.

      L 'elogium di C. Marius (E22) nota "che egli, durante il VI consolato, ha liberato lo Stato da un'insurrezione". Augusto usa Gli Stessi termini quando descrive la vittoria su Antonio.
       L'iscrizione di Mario Ricorda che "con il bottino di guerra costrui un tempio dell'Onore e Virtus". Così Augusto asseri di aver costruito il tempio di Marte Ultore e il Forum con i profitti delle guerre.

       Inoltre, Augusto sembra interessato a ritrarre se stesso come uno che supera le realizzazioni dei suoi predecessori. Ad esempio, elogium (E22) registra Marius che aveva portato re Giugurta dietro al suo carro in una processione trionfale. L'iscrizione che Mario fu console 7 Volte, comporta che Augusto  ha trascinato prigionieri regali dietro al suo carro a ben 9 processioni trionfali, per giunta era stato console di Stato 13 volte, e anche che era stato Principe del Senato per 40 Anni. Più di Q. Fabio Massimo, il cui record elogium che era princeps senatus due volte.

      E 'chiaro che le Res Gestae dovevano raffigurare Augusto come capo degli esempi. In tutti gli aspetti, siano essi realizzazioni, incarichi ricoperti, onori, Augusto superara i suoi predecessori. Sembra che le Res Gestae non solo sono state modellate sulle iscrizioni, ma è stato volutamente composto in modo che Augusto sia sempre di gran lunga maggiore rispetto a quelli del Forum.

      Svetonio afferma che la Res Gestae è uno dei tre documenti che Augusto ha affidato alla cura delle Vestali nel mese di aprile, il 13 dc. Svetonio afferma che Augusto aveva scritto un resoconto della sua vita nel 26 ac. ", e Augusto aveva enumerato i suoi successi in un manoscritto che lesse al Senato. Ciò suggerirebbe che Augusto si occupava di fornire la storia della sua vita per i posteri molto prima, fosse dall'inizio della sua carriera, continuamente aggiornato e modificato, fino a quando non è stato depositato presso le Vestali.

      Le somiglianze nel contenuto tra gli Elogia e le Res Gestae sembrano essere state intenzionali. Augusto con le Res Gestae voleva non solo a proclamare il suo contributo alla storia romana, ma voleva sancire che nelle sue realizzazioni Augusto aveva superato tutti quelli che lo avevano preceduto.




       LE VIRTU' DI AUGUSTO E GLI ELOGIA

      Nel 27 ac, il senato e il popolo di Roma onorarono Augusto con uno scudo d'oro, chiamato il virtutis Clupeus. Questo scudo, posto nella Curia Julia, venne dato ad Augusto a causa delle sue virtus: clementia, iustitia e pietas. "clupeus aureus in curia Julia positus, quem mih; senaturn populumque Romanum osare virtutis ciementiaeque et iustitiae et pielatis caussa testatum est per eius cIupei inscripiionem" ('uno scudo d'oro è stata collocata nella Curia Iulia, che, come la iscrizione di tale scudo testimoniato, è stato dato a me dal senato e popolo romano per premio di coraggio, clemenza, giustizia e pietà. Queste erano le virtù su cui Augusto scelse di basare la sua vita, e che continuamente si sforzò di dimostrare attraverso le sue azioni e il suo comportamento.

      La pratica di attribuire canoni delle virtù di una persona, sembra abbia avuto origine nel periodo tardo arcaico in Grecia. Platone, nella Repubblica, ha stabilito la dottrina della quattro virtù del quale uno Stato deve possedere, saggezza, giustizia, il coraggio, e la moderazione.  Altre virtù, tuttavia, come la pietà, potrebbero essere inclusi, se il contesto lo richiede.

      Gli Elogia dalla tomba degli Scipioni (ILS 1-10) rivela che le virtù sono state attribuite ai singoli nella Repubblica. Virtus è notata nelle iscrizioni, e sono incluse anche altre virtù, come honos e sapientia. Sembra probabile, tuttavia, che Augusto scelse questa virtù per emulare Cesare, che fu lodato e onorato soptattutto per la sua clementia.

      In Augusto 'Virtus è illustrata all'inizio della Res Gestae. Nel primo paragrafo, Augusto è ritratto come il giovane coraggioso che prende su di sé l'onere per difendere la res publica. È nel paragrafo seguente, le due vittorie contro Bruto e Cassio ancora definiscono Augusto come il generale eroico.'  Il tema di Augusto del coraggioso generale che affronts tutti i nemici per il bene di Roma è mantenuta in tutto il documento.

      La  Clemenza di Augusto è chiarita all'inizio della Res Gestae in quanto ha mostrato misericordia a entrambi cittadini romani e stranieri.  Justitia era, se applicato a un uomo di Stato, indicativo di uno che governa in modo giusto, e conduce se stesso secondo le tradizioni consolidate.
      Augusto applica il concetto di Iustitia belle legalità romane per condannare Bruto e Cassius. In entrambi i casi Augusto è ritratto come il solo statista che è conforme ai costumi romani, al fine di raggiungere il potere, e si affida sulla giustizia per realizzare i suoi obiettivi.

      Anche se Augusto include altri aspetti della sua Iustitia, è il rispetto delle leggi romane, e i costumi, che sono raffigurate più spesso in Res Gestae. La riverenza Augusto 'per la tradizione romana è chiaramente illustrato dal suo rifiuto di occupare qualsiasi posizione che era in contrasto con il mos maiorom.

      Richiamando l'attenzione sul fatto che tutti gli aspetti del suo governo erano stati autorizzati dallo Stato, Augusto ha sottolineato la validità della sua posizione, e afferma di non aver mai combattuta una guerra ingiusta, dal momento che la tradizione romana prescriveva solo guerre giuste,

      Quando una carenza di grano minacciò Roma, Augustus nota che ha intrapreso la posizione del curatore annonae e rapidamente ha alleviato il problema. L'ultima virtù attribuita ad Augusto sul Clupeus virtutis è pietas. Anche se questa virtù, per i romani, denota rispetto per gli Dei, e il senso del dovere, per la famiglia e la patria.  In questo caso, la pietas di Augusto è illustrata dal suo senso del dovere, che gli imponeva di vendicare la morte del padre.

      Uno dei sottoprodotti della sua campagna di successo è stato il Tempio di Marte Vltor che Augusto aveva, nel perseguire gli assassini di suo padre, promesso di costruire se il Dio gli permesse il suo atto di pietà, cioè la vendetta.
      Il Tempio di Marte Ultor, e la sua menzione nella Res Gestae, espone la pietas Augusta su due livelli. Da un lato, Augusto dimostra il rispetto per gli Dei costruendo il tempio, ma d'altra parte, la struttura serviva come testimonial di Augusto per la sua devozione al padre.

      Augusto, come è raffigurato nella Res Gestae, ha mostrato rispetto per gli Dei, e per la religione romana nel suo complesso. Augusto, come riferito dalle Res Gestae, restaurò ottantadue templi, altri ne costruì e occupò vari uffici religiosi onde perpetuare la pax deorum.
      La 'pace degli Dei "è stata mantenuta attraverso la corretta osservanza delle procedure religiose che avevano lo scopo di placare gli Dei. Augustus pietas verso gli Dei, dunque, sembra essere strettamente collegato alla sua pietas verso lo stato. Da un lato le azioni  di Augusto rivelano la sua devozione agli Dei, ma d'altra parte le sue offerte alle divinità, la sua partecipazione a cerimonie religiose, e le sue edificazioni religiose contribuirono al mantenimento della pax deorom che, ovviamente, ha beneficiato l'intero stato.

      Insomma Augusto, nella Res Gestae, chiaramente dimostra che le sue virtù di gran lunga hanno superato quelle dei suoi predecessori. Così il Foro venne costruito per snellire la congestione dei tribunali e quella dei fori, ma con la statuaria divenne un monumento ai successi di Augusto, e simbolicamente lo proclamò come apice della storia romana. Gli Elogia furono un mezzo importante della capacità Augusto di presentare un'ottima immagine di se stesso.

      Le statue e gli Elogia pertanto hanno consentito ad Augusto di collegarsi agli eroi del passato di Roma, e presentarsi come apice della storia. Inoltre gli Elogia, confrontando Augusto con i summi viri, ne esce come la massima gloria della storia romana.

      Svetonio afferma che Augusto aveva depositato presso le vestali, oltre le sue Res Gestae, anche le indicazioni per il suo funerale. In effetti nel suo corteo funebre, il suo corpo e tre sue immagini furono posti in prima linea nel corteo, seguiti dalle immagina degli antenati di Augusto, poi un'immagine di Romolo e le immagina di altri romani di spicco, tra cui quella di Pompeo Magno.  Tradizionalmente, le immagina degli antenati del defunto precedevano il corpo, e non si includevano immagini aldifuori dei parenti.



      LE STATUE DEL FORO DI AUGUSTO 


      AENEAS  ( ENEA)
       "Aen[e]a[s Venerisf(ilius)] Latin[orum rex]. Regnav[it annos III]."
      Enea divenne re dei latini dopo la morte di re Latino. (Dion. Hal. Livio). la durata del suo regno è confermata da Dion. Hal..

      Nel foro di Pompei c'è un altro elogio:

      "Aenea(s Ven]eris 1 et Anchisa[e j(ilius) Troia]nos
      qui capta Tr[oia bello s]uper
       [fiJe ]rant in It[a/iam adduxit.
      BellJum su[scepil- -I --]en[ - - 1 --]
      bu[ - - -]1 [oppidum Lavinium] cond[idit 1 
      et ibi regnavit an]nos tris. 
      In [bel]lo Lauren[ti subi]lo non eonl[pa]ruit appel[latus]
      q(ue) est Indigens I [palter et in deo[rum n]umero relatus."

      (Enea, figlio di Venere e di Anchise, scappò coi troiani, che erano sopravvissuti quando Trioa era caduta, in Italia. Egli affrontò una guerra.. fondò la città di Lavinio e qui regnò per tre anni. Nella guerra contro Laurento scomparì improvvisamente e fu chiamato Padre degli Indiges e considerato nel ruolo degli Dei.)


      SILVIUS AENAS  (SILVIO ENEA) 
      Silvius Aeneas 1 Aeneae et Lavilniae filius. (Silvio Enea, figlio di Enea e Lavinia - Lavino). 


      AENAS SILVIUS  (ENEA SILVIO)
      [Aeneas] Sil[vius I Iuli]j{ilius) I [Aeneae ne]po[s. I Regnavit a]nn(os) XXXI. 
      (Enea Silvio, figlio di Giulio, nipote di Enea. Regnò per 31 anni. - Foro Romano)


      ALBA SILVIUS  (ALBA SILVIO)
      [Al]ba [Silvius Latini J(ilius). Regnavit ann(os) XXXIX). 
      (Alba Silvio, figlio di Latino. Regnò 31 anni).


      SILVIUS  (SILVIO) 
      [- - - Si]lviij{ilius). I [RegnaviJt Albae ann(os) [- --}
      ( ... figlio di Silvio. [Regnò] su Alba per ..... anni. Foro augustano


      PROCA SILVIUS  (PROCA SILVIO)
      [Pr]oca [Silvius Aventini ftilius). Regnavit Albae ann(os) XXIII]. 
      (Proca Silvio, figlio di Aventino. Regnò su Alba per 33 anni. - Foro augustano)


      ROMULUS  (ROMOLO)
      Romulus Martis I [f]ilius. Urbem Romam I [condi]dit et regnavit annos j duodequadraginta. Isque I primus dux duce hostium I Acrone rege Caeninensium I interfecto spolia opi[ma] Jovi Feretrio consecra[vil] I receptusque in deoru[m] I numerum Quirinu[s] I appellatu[s est].
      (Romolo, figlio di Marte, fondò la città di Roma e regnò per 38 anni. Fu il primo capo che, dopo che il capo del nemico, Acron, re dei Caeninenses, venne distrutto, dedicò la spolia opima a Jupiter Feretrius.  Dopo essere stato accolto nel rango degli Dei,  fu chiamato Quirino. - Foro di Pompei )


      A. POSTUMIO REGILLENSIS  (A.POSTUMIO REGILLENSE)
      "Lalin[or]um exercitum [- - -] I cae [sis m]ulli[s milit]ibu[s- - -] I Supe[rhifJiliis et gen[tilihus- - -] I omn[- - - p]ernlmfp- - - ] I spem [ademit- - -] I aed[em Castoris- - -] I ex sfpoliis hostium vovit]" 
      (Un esercito dei Latini ..... [quando] molti [soldati erano stati uccisi]. .... con i figli e i parenti di Superbo ... [che era scappato] speranza .... [devolse] al tempio [di Castore] dalle [spoglie dei nemici - Foro augustano).

      "[Faenore gravi] I populum sen[atus] I hoc auctore /[iberavit]. I Sellae curnli[s locus] I ipsi posteri[ sque ad] I Murciae s[pectandi] I caussa pub [lice datus] I est. Prin[ ceps in senatum] I semell[ ectus est].
      Il senato [sollevò] il popolo [di debito oneroso] con lui come sponsor. Con una sedia curule, [a scopo di vegliare], era [fornito] a spese pubbliche per lui e per i suoi discendenti [vicino] al tempio di Murcia. [E stato nominato] come Princeps [al Senato] una volta.


      MARCUS VALERIUS MAXIMUS  (MARCO VALERIO MASSIMO)
      M (Anius) Valerius I Volusi.f (Ilius) I Maximus I dittatore ed augure. Primus quam ho Ullum magistratum gereret ho dittatore dictus est Triumphavit I de Sabini et Medullinis. Foro Romano
      Plebem I de sacro monte deduxit gratiam I cum patribus reconciliavit. hlelnore gravi populum senatus hoc I eius rei auctore liberavit. Sellae I curulis locus ipsi posterisque I ad Murciae spectandi caussa datus I est. Princeps in senatum semeillectus est. 

      (Manio Valerio Massimo, figlio di Volusus, dittatore ed augure. Prima di tenere qualsiasi magistratura, è stato dichiarato dittatore. Ha celebrato un trionfo sui Sabini e la Medullini. Ha guidato la plebe giù dal monte sacro quando ristabilito un rapporto di amicizia con i Padri.
      Il senato ha rilasciato la gente dal debito pesante con lui come lo sponsor di quel movimento. Un luogo con una sedia curule, con lo scopo di osservare, è stato fornito per lui e per i suoi discendenti vicino il tempio di Murcia. E 'stato nominato come Princeps al Senato una volta.)


      MARCUS FURIUS CAMILLIUS  (MARCO FURIO CAMILLO)
       "M. Furius Camillus. Veios post urbem I captam commigralri passus non est. I Etruscis ad Sutrium I [d]evictis Aequis et I [V1olscis subactis I tertium triumph[a]lvit. Quart(um) se[dato] I Velitern[orum hello et Gallis in Alhano agro caesis - - - ]"

      Non permise una migrazione a Veio dopo che la città era stata catturata. Dopo aver sottomesso gli Etruschi vicino Sutrium e dopo aver conquistato gli Equi e i Volsci, ha festeggiato il terzo trionfo. (Ha celebrato) un quarto [dopo che si era conclusa la guerra con l'] Velitemians [e dopo aver distrutto i Galli nel territorio Alban ... ].

      "[Cum Galli ab) siderent Capitoliurn I [virgines Ve] stales Caere deduxit I [ibi sacra at] que ritus sollemnes ne ho [intermitte] rentur curai sibi habuit I [urbe recup] Erata sacra et virgines I [Romam rev]"
       [Quando i Galli] assediato il Campidoglio, ha scortato la Vestale [vergini J di Caere. [In quel luogo] egli stesso esercitato cura in modo che i vasi sacri [] e le cerimonie religiose non possono [essere trascurate]. [Quando la città era stata ripresa portò] le vergini e dei vasi sacri [a Roma].

      Veio cadde ad opera dei Romani nel 396 (Livio 5.22.8) e, successivamente, nel 395, la plebe propose una migrazione verso questa regione, al fine di stabilire una colonia (Livio 5.24.4-7). Questa proposta fu vanificata da Camillo (Livio 5.25.4-8). Nel 390, quando Roma fu catturato dai Galli (Livio 5.41.4-43.1), Camillo liberò la città (Livio, Plut Cam;.. De vir ill..).

      In seguito, con la città distrutta, i tribuni della plebe avevano esortato a non ricostruire Roma, ma piuttosto di migrare a Veio (Livio). Camillo si oppose nuovamente impedendo la migrazione verso la città etrusca (Livio,.. De vir malato).
      Nel 389, Camillo sconfisse gli Etruschi e i Volsci.
      Nel 388, Camillo celebrato un trionfo a causa delle sue vittorie.
      Nel 367, Camillo sconfisse i Galli e concluse la rivolta a Velitrae, e successivamente celebrò un trionfo.


      QUINTUS FABIUS AMBUSTUS  (QUINTO FABIO AMBUSTO)
       "Bello Samnitium I cum auspicii repeltendi caussa Romam I redisset atque intelrim Q. Fabius Amb[ust(i).fi.ilius»)
      I Maximus mag[ister) I equitum iniu[ssu I eiuJs proelio c[ onflixisset- - -)".
      (Nella guerra sannitica, quando lui era tornato a Roma per bene ripetere gli auspici, nel frattempo il mastro cavaliere Quinto Fabio Massimo, figlio di Ambustus, in contrasto con i suoi ordini, si era impegnato in battaglia).

      Il Cursore fu nominato dittatore al fine di proseguire la guerra contro i Sanniti. Cursore partì da Roma, ma a causa di auspici poco chiare tornò a Roma per riprendere gli auspici. Livio conferma che il cursore ha ordinato al luogotenente (identificato come Quinto Fabio Massimo Rulliano da Tito Livio; Fabio Massimo Rulliano dalla Val Max) di non impegnare il nemico.


      APPIUS CLAUDIUS CAECUS  (APPIO CLAUDIO CECO)
      " [Comp/u]ra oppi[da de Samni]tib[us cepit. Sabinoru]m el Tus[corum exercil]um [ludi!. P]ac[em fie]ri culm Pyrrho rege prohibuil.] In ce[nsura viam Appiam stravit e]t aq[ uam in urbem adduxit. Aedem Bellon ]ae fer cit]."
      (Prese molte città dai Sanniti. Ha indirizzato l'esercito contro Sabini ed Etruschi. Vietò pace  con il re Pirro. Nella sua censura posò la via Appia e portò l'acqua nella città. Ha costruito il tempio di Bellona - Foro augustano)

       "Appius Claudius I C(aius)f(ilius) Caecus I censor co(n)s(ul) bis dict(ator) interrex (ter) I pr(aetor) (bis) aed(ilis) cur(ulis) (bis) q(uaestor) tr(ibunus) mil(itum) (ter). ComlfJlura oppida de Samnitibus cepit I Sabinorum et Tuscorum exerciltumfodit. Pacem fieri cum [p[yrrho I rege prohibuit. In censura viam I Appiam slravit et aquam in urbem adduxit. Aedem Bellonae I fecit."
      (Appio Claudio Cieco, figlio di Gaio, censore, due volte console, dittatore, tre volte interrex, due volte pretore, due volte aedile curule, questore, tribuno militare tre volte. Ha preso molte città dai Sanniti. Ha indirizzato l'esercito contro Sabini ed Etruschi. Egli proibì la pace con il re Pirro. Nella sua censura pose la via Appia e portò l'acqua nella città. Ha costruito il tempio di Bellona).


      CAIUS FABRICIUS LUSCINUS (CAIO FABRIZIO LUSCINO)
      Forum Romanum (Basilica Aemilia)
      "[C(aius) Fabricius C(aii).f(ilius) C(aii) n(epos) Luscinus] 1 [- - -] 1 [- - - Lucanos Bruttiosque 1 devicit] et ite[rum de eis triumphavit 1 aerari]o ex isdem [praedam intulit HS - - -I missus] ad Pyrrh[um regem ut captivos 1 redi]meret e.ffe[cit ut ei populo Romano 1 gratis redJderentu[r - - -]."
      (Gaius Fabricius Luscinus, figlio di Gaius, nipote di Gaius, ... sconfisse i Lucani e i Bruttii, e su di loro nuovamente celebrò un trionfo. Dal bottino preso in guerra, depositatò i sesterzi nel tesoro. .. fu mandato a re Pirro perché potesse riscattare i prigionieri e riportò quei prigionieri che vennero restituiti senza pagamento al popolo romano). Forum Romanum (Basilica Aemilia)

      Fabrizio Luscino fu console nel 282 e nel 278. Come console nel 282, Fabricius sconfisse i Samniti,i  Lucani, e i Brutti.  Dion. Hal. narra che celebrò un trionfo dopo le sue vittorie.
      L'ammontare dei tesori del bottino raccolto da Fabricius è calcolato da Dione 400 talenti. Come legato ambasciatore nel 280, Fabrizio negoziò con successo il rilascio dei romani presi prigionieri da Pirro.


      CAIUS DUILIUS  (CAIO DUILIO)
      2-3) Pri [mus --- triumphum n] ava / [em
      4) [s] tatua q [uoque] Dessau.

      Come console nel 260, C. Duilio M. f M. sconfisse le forze navali di Annibale al largo della costa della Sicilia. Le fonti narrano che questa fu la prima vittoria navale di Roma. Dopo aver celebrato il suo trionfo, Duilio, secondo le fonti, portò a casa dei tedofori e zampognari.  - Foro augusto
      A quell'uomo fu permesso di tornare a casa da un banchetto con un flautista e un dadoforo (portatore di torcia) e una statua con una colonna fu istituita per lui presso la corte di Vu1cano.
      Le fonti tacciono sulla statua di Duilio, comunque, la colonna onorifica (columna rostrata) è riferita da entrambe le fonti, di Sil. e Plinio.


      QUINTUS FABIUS MAXIMUS  (QUINTO FABIO MASSIMO)
      "[Q(uintus) Fabius Q(uinti)f(ilius)] Maxim[us I dictator bis co(n)s(ul) qui]nquien[s I censor interrex b]is aed(ilis) cu[r(ulis) q(uaestor) bis tr(ibunus) mil(itum) bis pontif(ex) aug(ur)]" 

      "[Quintus Fabius] Maximus, [son of Quintus, twice dictator, consul five times, censor,] twice [interrex,] curule aedile, [twice quaestor, twice military tribune, pontifex, and augur]"


      "[Q(uintus) Fabius] I Q(uinti)f(ilius) Maximus I dictator bis co(n)s(ul) (quinquiens) cenlsor interrex (bis) aed(ilis) cur(ulis) I q(uaestor) b(is) tr(ibunus) mil(itum) (bis) pontifex augur. I Primo consulatu Ligures subelgit ex iis triumphavit. Tertia et I quarto Hanllibalem complurilbus victoris ferocem subsequenldD coercuit. Dictator magistro I equitum Minucio quoius popullus imperium cum dictatoris I imperio aequaverat et exercitui I projliglito subwinit et eo nomilne ab exercitli Minuciano palter appel/alus est. Consul quinltum Tarentum cepit triumphalvit. Dux aetatis suae cautissilmus el re[i] militaris peritissimus I habitus est. Princeps in senatum I duobus iustris lectus est"

      ([Quintus Fabius] Maximus, figlio di Quintus, due volte dittatore, console per cinque volte, censore, due volte interrex, curule aedile, due volte al questore, tribuno militare due volte, pontifex, e augure. Nel suo I consolato, sottomise i Liguri e celebrò il trionfo su di loro. Nel suo III e IV consolati, tenne in scacco Annibale con diverse vittorie seguendolo in giro. Il dittatore è venuto in aiuto a Minucius, il luogotenente, il cui imperium era pari all'imperium del dittatore, ed è venuto in aiuto dell'esercito dopo che erano stati conquistati, e per questa ragione egli fu chiamato padre dall'esercito Minuciano. Come console per la V volta ha catturato Taranto, ha celebrato un trionfo.
      Era considerato il comandante più cauta della sua generazione e il più esperto in questioni militari. Venne nominato Princeps del Senato per due periodi di cinque anni).


      CORNELIUS CETHEGUS  (CORNELIO CETEGO)
      C. Cornelius L. f M. n. Cethegus fu console nel 197 .

      "Klio  [- - -] et Cenom[anos - - -1- - -dJucem eo [rum - --]. ... and the Cenomani .... their leader.. .."
      (Come console gli fu assegnato il compito di risolvere la rivolta dei Cenomani e degli Insubri nella Gallia Cisalpina. Cethegus sconfisse le tribù e celebrò un trionfo per la sua vittoria) (Basilica Aemilia)


      LUCIUS SCIPIO ASIATICUS  (LUCIO SCIPIONE ASIATICO)
       "[L(ucius) Comeli]us P(ublii)f(ilius) S[cipio 1 Asia]ticus 1 [co(n)s(ul) pr(aetor) aed(i/is) cu]r(ulis) q(uaestor) tr(ibunus) [mil(itum)- --]. [Lucius Cornelius] Scipio Asiaticus, son of Pub Ii us, [consul, praetor, curule aedile,] quaestor, [military] tribune ..."
      (L. Cornelius P. f. L. n. Scipio Asiaticus fu console nel 190, pretore nel  193, curule edile nel 195, e questore nel 196. Quando Scipio tornò dall'Asia nel 189, dopo aver sconfitto Antiochus, ricevette il nome di Asiaticus)


       AEMILIUS PAULLUS  (EMILIO PAOLO)
      "Priore consu[/atu de Liguribus - - - ] Iris triumfphavit a/tero consu/atu I de Macedonibus et rege Perse triu ]mphavit I [- - -] consu/al[tu - - -llanos. In his first consulship, he celebrated a triumph ... [over the Ligurians. In his second consulship] he celebrated a triumph [over the Macedonians and king Perseus]. .. in his consulship ..."

      "L(ucius) Aemilius I L(ucii)f(ilius) Paullus I co(n)s(ut) (bis) cens(or) interrex pr(aetor) aed(ilis) I cur(ulis) q(uaestor) tr{ibunus) mil(itum) tertio aug(ur). I Liguribus domitis priore I consu/atu triumphavit. Ilte17Jm co(n)s(ul) ut cum rege I [Per ]se bellum gereret a p[ olpuJo !Jactus est. Copias regis I [decem dieb Jus quibus Mac [ eldoniam atti]git delev[it I regem cum liberi]s cep[it].

      (Lucius Aemilius Paullus, figlio di Lucius, due volte console, censore, interrex, pretore, curule edile, questore, tre volte tribuno militare, e augure. Dopo aver sottomesso i Liguri nel suo primo consolato, egli celebrò un trionfo. Fu scelto come console dal popolo per la seconda volta cosicchè potè condurre la guerra contro re Perseus. Conquistò la Macedonia in 10 giorni Macedonia dopo aver vinto le forze del re. Lucius catturò il re e i suoi figli.)
      (Forum Romanum - Basilica Aemilia)


      TIBERIUS SEMPRONIUS GRACCHUS (TIBERIO SEMPRONIO GRACCO)
      "[Ti(iberius) SJempronius P(ublii)ft.ilius) I Graccus [- --]"
       (Tiberius] Sempronius Gracchus, figlio di Pub Ii us)


      QUINTUS CAECILIUS METELLUS NUMIDICUS  (QUINTO CECILIO METELLO NUMIDIO)
      "Q(uintus) Caec[ilius Q(uinti)j(ilius) Metellus I Numidicus I censor co(n)s(ul) pr(aetor)- --]"
      (Quintus CaeciJius Metellus Numidicus, figlio di Quintus, censore, console, pretore) 


      LUCIUS EQUITUS  (LUCIO EQUITO)
      "[- - -]statem[ - - I - ce ]nsor L. Eq[ uitium censu prohibuit- - I -]s[ - - -]. ... statem ... as censor [he excluded]"
      (Lucius Equitius.... escluse dalla lista dei cittadini..)
      (Foro augusto)


      GAIUS MARIUS  (GAIO MARIO)
      "[C(aius) Marius C(aii).f(ilius) I co(n)s(ul) (septies) pr(aetor) tr(ibunus) pl(ebis) q(uaestor) a]ugur tr(ibunus) mi/(itum). Extra I [sortem bellum cum I]ugurtha rege Numid(iae) '[co(n)s(ul) gessit eum cepit et] triumphans in' [secunda consulatu] ante currum suum I [duci iussit. Tertium co]nsul apsens creatus I [est. Quartum co(n)s(ul) Teut]onorum exercitum I [delevit. Quintum co(n)s(ul)] Cimbrosfugavit ex ieis ell [leutonis iterum triump ]havit. Rem p(ublicam) turbatam , [s]edit[ionibus Iribuni plebei et praetoris] I quei arm[ati Capifolium oceupaverant I sextum] eo(n)s(ul) vindi[cavit. Post LXX annum patriaperarma I eivilia ex pulsus armis restitutus septimum I co(n)s(ul)faetus est. De manubieis Cimbric(is) et Teuton(icis) I aedem Honori et Virtuti victor fecit. Veste I triumphali ca/ceis patriciis I"

      "[in senatum venit] . C(aius) Marius C(aii).f(i/ius) I co(n)s(ul) (septies) pr(aetor) tr(ibunus) pl(ebis) q(uaestor) augur tr(ibunus) militum.1 Extra sortem bellum cum Iugurta I rege Numidiae co(n)s(ul) gessit eum cepit let triumphans in secundo consulatu I ante currum suum duci iussit.1 Tertium co(n)s(ul) absens creatus est. I (Quartum) co(n)s(ul) Teutonorum exercitum I delevit. (Quintum) co(n)s(ul) Cimbrosfudit ex I iis et Teutonis iterum triumph[avit]. I Rem pub(licam) turbatam seditionibus tr(ibuni) pl(ebis)I et praetor(is) qui armati Capitolium I occupaverant (sextum) co(n)s(ul) vindicavit. I Post LXX annum putria per arma I civilia ex pulsus armis restitutus I (septimum) co(n)s(ul)factus est. De manubiis I Cimbric(is) et Teuton(icis) aedem Honori I et Virtuti victor fecit. Veste I triumphali calceis patriciis I"


      GAIUS IULIUS CAESAR  (GAIO GIULIO CESARE padre del dittatore)
      "[C(aius)/u]lius [C(aii).f(ilius) Caesar] l paterdi[vilulii] I [p)r(aetor) q(uaestor) tr(ibunus) [mil(itum)--]"
      (Gaius Iulius Caesar, filgio di Gaius, padre del deificato Giulio pretore, questore e tribuno militare)

      Egli condusse i coloni a Cercena.
      2) [Plater d[ivi Iulii pr(aetor)]
      - [PJater d[ivi Iulii proc(onsul) -
      3) [aed(ilis) cu)r(ulis) q(uaestor) tr(ibunus) [mil(itum)]
      - [p]r(aetor) q(uaestor) Ir(ibunus) [mil(itum) (decem)vir -
      4) Cerce[ios -
      - Cerce[inam -
      La pretura di C. Julius C. f III Caesar, venne concessa nel 92, secondo altri nell'anno 100, o ancora dopo ma prima del 92. La riga finale dell'iscrizione riferisce che il ruolo di Cesare come membro della commissione dovette eseguire la legislazione di L. Appuleius Saturninus.
      (Foro augusto)

      "C(aius) Iulius L(uci) j(ilius) Caesar I Strabo I aed(ilis) cur(ulis) q(uaestor) tr(ibunus) mil(itum) his (decem)vir I agr(is) dand(is) adtr(ihuendis) iud(icandis) pontij(ex)"
      (Gaius lulius Caesar Strabo, figlio di Lucius, curule aedile, quaestor, due volte tribuno militare, membro di una commissione di decemviri per garantire, attribuire, e determinare  territorie, e pontefice)


      LUCIUS CORNELIUS SULLA  (LUCIO CORNELIO SILLA)
      L. Cornelius L. f. P. n. Sulla Felix questore nel  107, fu pretore nel 93 e fu console nell'88, fu dittatore tra gli anni 82 e 79. Nell'82 si proclamò dittatore, e nell'81-80 trionfò su Mithridate, ed emise le sue riforme amministrative e constituzionali. Nel 79, Sulla lasciò la dittatura.
      Plutarco afferma che Sulla, nel 79, ordinò che fosse chiamto Felix ('Fortunato') per la buona fortuna che aveva accompagnato i suoi successi.

      "[L(ucius) Cornelius L(ucii) fiilius) Sulla] Felix [dict(ator)] co(n)[s(ul) bis pr(ae/or) q(uaestor)]" 
      (Lucius Cornelius Sulla Felix, figlio di Lucius, dittatore, due volte console, pretore e questore)


      LUCIUS LICINIUS LUCULLUS  (LUCIO LICINIO LUCULLO)
      "L(ucius) Licinius L(ucii)j{ilius) I Lucullus I
      co(n)s(ul) pr(aetor) aed(ilis) cur(ulis) q(uaestor)
      I tr(ibunus) militum aug(ur).
      I Triumphavit de rege Ponti Mithridate
      I et de rege Armeniae{ e} Tigrane magnis I
      utriusque regis copUs conp/uribus prolelis terra marique superatis.
      Conlelgam suum pu/sum a rege Milhridat[e II
       cum se is Calchadona contulisset I
      opsidione liberavit"
      (Lucius Licinius Lucullus, figlio di Lucius, console, pretore, curule edile, questore, tribuno militare, ed augure. Celebrò un trionfo su Mithridate, re del Ponto, e su Tigrane, re dell'Armenia dopo che ebbe sottomesso le forze di ogni re in diverse battaglie di terra e di mare. Quando quell'uomo raggiunse la Calcedonia, liberò il suo collega che era stato spinto indietro da un blocco armato per mano del re Mitridate)

      Lucullus fu console nel 74 ed ebbe la pretura nel 78, divenne edile con suo fratello nel 79 e fu questore nell'88. La data del suo tribunato è incerta. Le fonti tacciono su Lucullus augure . Lucullus, ottenuta la proroga del consolato, tornò a Roma nel 66, ma non celebrò il suo trionfo fino al 63. 

      Lucullus, come  proconsole in Asia, Cilicia, Bithynia, e Pontus tra gli anni 73 e 66, comandò con successo la guerra contro Mithridate. L'iscrizione riferisce a Lucullo numerose  vittorie in oriente. Queste includerebbero ad esempio, la distruzione dell'esercito di Mithridate vicino a Cyzicus nel 73, di Mithridates a Cabira nel 72, e gli eventi del 69 quando, nel perseguire Mithridates, Lucullus entrò in Armenia e sconfisse le armate di Tigrane and Mithridate. Nel 74, Lucullus, dopo che M. Aurelius Cotta fu sonfitto da Mithridate ed assediato a Chalcedon, corse in aiuto del suo collega consolare.


      MARCUS CLAUDIUS  (MARCO CLAUDIO)
      "[M(arcus) ClaudJius [C(aius)fi..i1ius) Marc]ellu[s aed(i1is) eur(ulis)J pont[ij(ex)]. [Marcus Claudius Marcellus, son of Gaius, curule aedile, and] pontifex.
      M. Claudius C. f. Marcellus fu curule aedile nel 23 e pontifex nel 24.


      LUCIO CORNELIO SCIPIONE BARBATO

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      TOMBA BARBATO


      Nome: Lucius Cornelius Scipio Barbatus
      Nascita: --
      Morte: 280 a.c.
      Consolato: 298 a.c.

      Fu uno dei due consoli del 298 e guidò l'esercito romano alla vittoria contro gli Etruschi presso Volterra. Fu padre di Lucius Cornelius Scipio e Gnaeus Cornelius Scipio Asina e nonno di Scipione l'Africano.

      Si mise in luce come ufficiale patrizio della repubblica durante la III Guerra Sannitica quando Roma si dovette difendere da una coalizione di stati confinanti: Etruschi, Umbri e Sanniti alleati dei Galli.



      BATTAGLIA DI VOLTERRA 298 ac

      Prima del 298 ac, la guerra era già scoppiata tra Roma e l'Etruria, quando gli Etruschi decisero di invadere Roma, con alcuni alleati Galli che avevano pagato. L'attacco previsto era una violazione di un precedente trattato con Roma. I Galli rinnegati e gli Etruschi si trovarono di fronte un esercito romano guidato dal console Tito Manlio, che però morì dopo una caduta da cavallo, sostituito dal console Marco Valerio Corvo. Marco fece irruzioni nel territorio degli Etruschi per provocarli a combattere, ma questi rifiutarono.

      CORNELIUS
      Nel 298 ac Appio Claudio e Publio Sulpicio divennero interreges per motivi sconosciuti. Nella Roma repubblicana l'interrex era un magistrato nominato dal Senato per convocare i comitia centuriata, le assemblee popolari della Res Publica Romana, onde eleggere i nuovi consoli o i nuovi tribuni consolari, quando i loro predecessori non avessero potuto provvedere durante il loro mandato. L'eletto riceveva l'imperium, che gli dava diritto di verificare se gli auspicia fossero favorevoli.

      Sulpicio indisse le elezioni che nominarono consoli Barbato e Gneo Fulvio Massimo Centumatus. I Lucani parlarono davanti al Senato dicendo che i Sanniti devastavano il loro paese e chiedendo la protezione di Roma in cambio di un trattato e ostaggi. Il Senato acconsentì e spedì araldi per intimare i Sanniti a ritirarsi, ma questi vennero uccisi, pertanto il Senato dichiarò guerra Sannio. 
      Barbatus prese il comando dell 'esercito in Etruria, mentre Centumatus intraprese la campagna iniziale nella III guerra sannitica.
      Gli etruschi attaccarono Volterra. La giornata di battaglia non potò, ma nella notte gli Etruschi si ritirarono nelle loro città fortificate che lasciano il loro accampamento e le attrezzature ai Romani. Accampato il suo esercito al confine etrusco Barbato ha portato una forza leggermente armato nella devastazione della campagna.



      BATTAGLIA DI TIFERNUM, 297 ac.

      L'anno dopo gli Etruschi chiesero la pace. I nuovi consoli del 297 ac, Quintus Fabius Maximus e Decius Mus portarono la guerra nel Sannio, mentre Barbatus divenne legatus sotto Maximus. 

      Per far avanzare i romani, i sanniti avevano nascosto il grosso dell'esercito nelle colline alle spalle per incinearli in un trabocchetto. Ma  Fabio fiutò l'inganno e pose il suo esercito in formazione quadrangolare prima del "nascondiglio" dei Sanniti, che allora scesero a combattere linea contro linea.

      Non potendo ottenere la vittoria, Fabius ritirò i lancieri della I Legione dalla linea e li inviò a Barbato furtivamente girando il fianco nemico nelle colline alle spalle, da cui quest'ultimo era già disceso. Venne ordinato di coordinare un attacco da dietro con una carica di cavalleria particolarmente vigorosa verso la parte anteriore della linea sannita. Il piano andò male: la carica era venuta troppo presto e fu respinta. Un contrattacco cominciava a rompere la linea romana quando degli 'uomini apparvero sulle colline e vennero scambiati per il secondo esercito romano sotto Mus, un disastro per i Sanniti." Erano invece gli uomini di Barbatus ma i Sanniti spaventati abbandonato il campo di gran fretta lasciando dietro di sé 23 insegne e 3400 uccisi, mentre 830 furono fatti prigionieri. Infatti Publio Decio Mure era lontano nel Sannio sud.





      CAMPAGNE SOTTO CLAUDIUS E FLAMMA, 296 a.c.

      Avendo inviato all'esercito sannita due consoli, si procedette alla riduzione sistematica del Sannio per un periodo di cinque mesi fino alle elezioni successive. Mus viaggiò operando con 45 campi in successione, mentre Massimo ne utilizzò 86. 

      Dopo le elezioni i nuovi consoli ordinò loro di continuare la guerra nel Sannio per sei mesi, ciascuno con il grado di proconsole. L'esercito sannita sotto Gellio Egnazio, non potendo rimanere nel Sannio, offrì i suoi servizi a Etruria, che sono stati accettati, sotto la guida di Egnazio  Degli Umbri erano stati arruolati  e mercenari galli erano stati assunti. Chiamati in riunione i capi dell'Etruria Egnazio ha dichiarato che la guerra per la libertà era meglio della pace con servitù ed annunciò la sua intenzione di attaccare Roma. Gli Etruschi concordarono.

      Avuto notizia del pericolo il senato inviò in Etruriale legioni I e IV con 12,000 soldati di truppe alleate. Diverse scaramucce inconcludenti furono combattute. Il II console nel 296, Lucio Volumnio Flamma, assisteva i due proconsoli nella riduzione del Sannio quando i Lucani disertarono, influenzati da un appello dalla gente del Sannio. Flamma affermò di aver ricevuto una lettera da Claudio che chiedeva assistenza militare,  richiesta successivamente smentita da Claudio. 
      Maximus con Barbato venne inviato alla riduzione della Lucania partì per l'Etruria.

      Claudio voleva cacciarlo via ma tutti gli ufficiali del suo esercito insisterono perchè restasse. Il clamore richiamò i nemici alla battaglia.  I Romani attaccarono così ferocemente con Claudio in prima fila insieme con gli uomini e continuamente invocando la dea della guerra, Bellona, con le mani alzate al cielo, che i romani uccisero 7300 e presero 2.120 prigionieri.

      Nel frattempo le forze ridotte di Massimo e Mus non riuscirono a trattenere i Sanniti, che con un nuovo esercito invasero e saccheggiarono la Campania. Arrivando a marce forzate Flamma, apprese che l'esercito sannita era accampato al fiume Volturno. Nella battaglia di Volturno del 296 ac l'esercito di Flamma attesero per un agguato al di fuori dei cancelli del campo sannita. Flamma aveva inviato spie  la sera prima, da cui aveva appreso che i Sanniti avrebbe fatto marcia all'alba.

      Infine Flamma consentì a parte dell'esercito sannita di uscire, dividendo le loro forze, prima di lanciare un attacco dentro al campo nemico. 7400 prigionieri romani presi in precedenza dai Sanniti si liberarono e si unirono nei combattimenti. Alla fine della giornata i romani avevano ucciso 6000, preso 2.500 prigionieri, tra cui quattro tribuni militari e il comandante, Stazio Minacius, e catturato 30 stendardi. Ridistribuirono il bottino sannita ai richiedenti e regalò le proprietà non reclamate ai soldati. Alle speranze sannite del sud era stato inferto un colpo fatale.

      Tuttavia giunsero notizie a Roma che Gellio Egnazio aveva sollevato un altro esercito nel nord composto da Sanniti, Etruschi, Umbri e Galli. Il Senato si preparò a mobilitare l'ultima delle forze romane: tutti i maschi, inclusi gli adolescenti, gli anziani e i figli dei liberti. Per la prima volta si cominciò a discutere lo spopolamento permanente del Sannio, che fu effettuato solo in parte.

      INTERNO DELLA TOMBA


      LA SVOLTA 295 ac.

      Con le elezioni del 295 ac. Flamma fu richiamato a condurre i romani. Maximus e Mus furono eletti, con Appius Claudius con la carica di pretore. .
      Maximus insistè per il comando in Etruria finchè il Senato acconsentì alla sua richiesta. Claudio venne sollevato dall'incarico e mandato a casa perchè aveva permesso ai suoi uomini di stare in campo senza addestramento, senza marce per il pattugliamento e la formazione. Grazie a Claudio, Massimo fu presto richiamato a spiegare la sua condotta nella campagna etrusca e ricevere eventuali ulteriori ordini. Barbato compare improvvisamente perchè era stato sotto il comando di Massimo per tutto il tempo. Massimo assegna Barbato come propretore della II Legione di stanza temporaneamente a Chiusi. Si parte quindi per Roma.


      Censore Patrizio

      All'epoca della sua morte Barbatus fu censore patrizio nel 280 ac. Fu un censorato notevole perchè il primo che ricordiamo.


      Epitaffio

      Il suo sarcofago fu scoperto nella Tomba degli Scipioni, l'unica trovata intatta, scritta in latino antico, ed ora si trova nel Museo Vaticano. Versi Saturni: CORNELIVS·LVCIVS·SCIPIO·BARBATVS·GNAIVOD
      PATREPROGNATVS·FORTIS·VIR·SAPIENSQVE
      QVOIVS·FORMA·VIRTVTEI·PARISVMAFVIT
      CONSOL CENSOR·AIDILIS·QVEI·FVIT·APVD·VOS
      TAVRASIA·CISAVNASAMNIO·CEPIT
      SVBIGIT·OMNE·LOVCANA·OPSIDESQVE·ABDOVCIT

      MILETUS - MILETO ( Turchia )

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      INGRESSO DEL MERCATO, RICOSTRUZIONE (BERLINO)

      Mileto è una città costiera della regione Caria in Asia Minore, famosa nel mondo antico per la sua vita intellettuale, artistica, economica e politica.

      Posta in posizione strategica sulla costa sud-occidentale dell'Anatolia, su un promontorio prossimo alla foce del fiume Meandro, ospitava un'importante via carovaniera che collegava la Mesopotamia alle coste del mare Egeo e alle sue numerose e floride isole. Mileto commerciava infatti con decine di colonie poste sulle sponde del mare di Marmara e del mar Nero. 



      LA FONDAZIONE

      Le prime tracce della popolazione greca si riscontrano nei resti micenei risalenti a circa 1300 anni ac., emersi dalla collina di Kalabak-Tepè dove poi si sviluppò la città greca arcaica: altri però ritiengono che questi resti micenei appartengano a civiltà Pregreche. 

      Comunque sicuramente  prima del 1000 ac. gli Ioni erano già insediati in Mileto, come un po' in tutta la costa dell'Asia Minore, e se Omero dice che Mileto è abitata dai Carî, lo fa, secondo alcuni per tener fede a un mito.

      Questi Ioni venivano dalla Grecia centrale e più precisamente dalla Beozia e dall'Attica e portarono con sé il culto di Poseidone Eliconio, dal nome del monte Elicona in Beozia. Forse fu quello stesso Poseidone che ad Atene aveva già perso ai voti contro la protettrice della città Atena.

      Fondatore della città era ritenuto talvolta Anax, più spesso Neleo. In realtà l'uno e l'altro nome non erano in origine che un appellativo di Poseidone considerato come divinità infera. 

      Tanto Anax ( principe) quanto Neleo (senza pietà) sono nomi di attributi che seguono spesso il nome della divinità infere, a cui appartengono non solo i morti ma pure i semi maturati nel sottosuolo, e pertanto generatrici di vita, spesso indicati, come in genere accade, capostipite delle tribù e poi fondatore di città.
      Ma sappiamo pure che spesso i capi tribù più famosi venivano divinizzati e adorati dai posteri che ne dimenticavano le origini terrestri.

      Quando il Dio Neleo fu umanizzato e considerato re di Pilo nel Peloponneso si scrisse dell'origine pilia dei Milesî, ma in realtà la questione è controversa. 

      In Mileto venne adorato, oltre a Poseidone, anche l'altra divinità della stirpe ionica, Apollo, a cui era dedicato in un sobborgo (Didime) uno dei più celebri santuarî con oracolo del mondo antico. Non è da dimenticare inoltre un mito ancora più antico, quello di Diana Caria cui era sacro il noce e che fu detentrice, col suo santuario di sole sacerdotesse, dei Sacri Misteri.

      Non a caso nella Magna Grecia dei coloni recarono il culto della Dea presso quel di Maleventum (Benevento), coi riti che dettero origine all'esisenza delle streghe medievali tristamente poi condannate sui roghi.

      Secondo il MARMUM PARIUM, Mileto fu fondata tra il 1077 e il 1075. 
      Secondo il matematico, geografo e astronomo Erastotene fu invece fondata nel 1044.

      Il Marmor parium è un'iscrizione greca, metà III sec. a.c., incisa su una lastra di marmo di 2 m x 70 cm ritrovata in frammenti nell’isola di Paro.
      Di autore ignoto, essa riporta numerosi avvenimenti della storia greca, forse scritto tra il 264 ed il 245 a.c.

      Si tratterebbe di una compilazione ateniese della quale l’iscrizione era una copia ad uso dei cittadini di Paro, che iniziava col regno di Cecrope fino al 264 ac. per uno spazio di 1318 anni circa.



      LA STORIA

      Nell'Iliade Mileto è ancora una città Caria e i suoi abitanti combattono contro gli Achei, e non abbiamo a nostro avviso motivo di dubitarne, poi durante la prima colonizzazione greca, la città fu rifondata da colonizzatori Ioni che sottrassero il territorio ai Carii. 

      Rimase fino all'VIII sec. a.c. sotto il controllo della dinastia dei Nelidi, provenienti forse da Atene. 
      In seguito il governo fu esercitato dall'aristocrazia, che fece di Mileto un attivissimo centro di scambi commerciali.

      INTERNO DEL MERCATO
      Nel VII sec. a.c. fece parte della Lega Ionia, per resistere all'impero persiano. 

      Poi nel 590 a.c. per alcuni  dovette subire l'ingerenza di Creso re della Lidia, ma solo per pochi decenni. Successivamente si ebbe un governo di tipo teocratico sotto l'autorità dei sacerdoti di Apollo Delphinios, fino alla conquista dell'imperatore persiano Ciro.

      Un'insurrezione popolare (499 - 494 ac.) contro i Persiani fece si che la città fosse distrutta e saccheggiata dai Persiani, ma dopo la vittoria greca nel 479 a.c.sui persiani portò alla ricostruzione della città, che rimase sotto l'influenza ateniese fino al 412 a.c., quando Mileto abbandonò Atene e si alleò con Sparta.

      Nel 401 a.c. tornò sotto l'egemonia persiana di Ciro il Giovane, ma venne liberata nel 334 a.c. da Alessandro il Grande.

      Con l'età ellenistica Mileto tornò ad essere uno dei maggiori centri dell'Asia Minore e i re Seleucidi, colti e illuminati, per quasi tutto il sec. III la incorporano nel loro territorio, favorendo le arti e i commerci e accordando loro una relativa autonomia. 

      L'invasione dei Galati con il saccheggio del tempio di Didime nel 277-6 fu una breve parentesi che non portò alla dominazione dei Galati.

      Invece il nascente regno di Pergamo per attirare Mileto nella sua orbita ne accrebbe la prosperità e lo splendore con continui donativi.

      In effetti intorno al 190, quando iniziano pure le relazioni con i Romani, Mileto era inserita nel regno di Pergamo, naturalmente come città autonoma.

      Mileto entrò a far parte, come città libera, della provincia romana d'Asia nel 133 a.c..

      Il passaggio al dominio romano segna per la città un periodo di decadimento commerciale.
      Mileto si trasformava in una città di provincia e i cittadini si ribellarono appoggiando Mitridate contro Roma.

      Questo tuttavia peggiorò la situazione perchè Mileto perdette la libertà nel 78 a.c., proprio per l'appoggio dato a Mitridate nella guerra contro Roma.

      I Romani, ormai egemoni dell'Asia, imposero alla città un governo oligarchico, il governo dei 50 arconti. 

      Antonio, nel 38 ac., restituì l'autonomia alla città, dando inizio ad una nuova politica romana verso la provincia di Asia onde favorirne l'incremento, e per tutto il periodo imperiale Mileto godrà di grande prosperità, testimoniata dal suo patrimonio monumentale, le cui rovine sono in gran parte visibili percorrendone la Via Sacra.

      Nella Lega ionica rinnovata da Alessandro e poi da Augusto, Mileto avrà ora una posizione di preminenza anche per il crescente prestigio del santuario di Didime: essa sarà considerata e chiamata la metropoli della Ionia.

      Nel 263 dc. i Goti invadendo l'Asia procurando a Mileto il primo segno della decadenza, anche se, in pratica, essa rimase intatta nei suoi edifici, a causa della miracolosa protezione di Apollo sulla città, o almeno così si credette.

      A partire dal VI sec. iniziò la sua decadenza, fino al X sec., quando fu distrutta da un terremoto.

      TEATRO GRECO ROMANO



      DESCRIZIONE

      I resti della città di epoca arcaica si trovano sulla collina di Kalabaktepe: sono tracce di fortificazioni, di edifici d'abitazione e di un tempietto ionico in antis, della II metà del sec VI ac.

      In quell'epoca la larghezza massima dell'abitato andava da 800 a 1000 m.; la lunghezza massima era di m. 2500 circa.

      L'impianto urbano della città del sec. V a.c. si estendeva invece su tutto il promontorio ed era costituito da una serie di isolati regolari, disimpegnati da strade tra loro parallele e ortogonali.

      PARTICOLARE DEL TEATRO
      Il porto principale di Mileto, il porto dei Leoni così chiamato a causa delle sue grandi statue di leoni, era fronteggiato da una piazza su cui si ergeva il santuario del Dio patrono della città, Apollo Delphinios.

      Il grande recinto porticato (iniziato verso il 470 - 450 ac.),  un recinto rettangolare di m. 50 × 60, scoperto, con edificio rotondo centrale circondato da peristilio, e con grande altare sull'asse, fungeva anche da archivio di stato, contenendo inoltre numerose iscrizioni, rilievi votivi e statue onorarie. 

      Di seguito a sud c'erano le terme romane di Cneo Vergilio Capitone e un ginnasio o palestra di età ellenistica.


      Al centro della piazza svettava la grande fontana monumentale, o ninfeo, di età traianea, la cui fronte costituiva una scenografia grandiosa a tre ordini di nicchie adorne di statue e divise da colonne.

      Quindi un santuario di Asclepio. Dalla parte opposta della piazza, a nord ovest, sorgeva l'agorà settentrionale, con portico interno continuo.
      Dalla piazza del porto iniziava poi la grande strada che conduceva al santuario di Apollo a Didima.

      TEATRO
      Presso di essa si trovavano le piazze principali di Mileto, in mezzo a un complesso di edifici pubblici e privati.
      Il vero e proprio centro della città era la piazza in cui sorgeva il Buleuterio (175-164 ac.), contenente all'interno una gradinata semicircolare capace di ospitare ben 1200 persone.

      Il buleuterio (senato), consistente in un vano originariamente chiuso, occupato da una cavea semicircolare a gradini come quella di un teatro, con un cortile d'ingresso, che porta nel centro un tempietto sepolcrale (heroon). 

      Un'agorà molto più grande della prima, anzi la più grande che si conosca (m. 164 × 197), con portici e tabernae, chiudeva a sud questa zona monumentale, con la quale comunicava per mezzo di un ingresso di aspetto solenne, a tre fornici e due ordini di colonne, di età romana.

      Dalla piazza del Buleuterio si passava dunque a questa vastissima agorà attraverso una porta monumentale, di età antonina, i cui elementi sono stati pressoché interamente trasportati e ricomposti nel museo di Pergamo a Berlino.

      L'agorà era fiancheggiata da grandi porticati. 

      Presso il porto più interno sorgeva un grande complesso termale, donato da Faustina (probabilmente la moglie di Marco Aurelio), che conteneva numerose e preziose opere d'arte.

      Il teatro era uno dei più grandi dell'Asia Minore, con 140 m di diametro, iniziato alla fine del sec. IV ac.

      Trattavasi di un bellissimo teatro romano, ricostruito su quello ellenico antico, eretto sul fianco della collina dominante la sponda settentrionale del porto del teatro, riedificato su un teatro simile più antico.

      CAVEA DEI GLADIATORI
      La cavea del teatro, ancora oggi ben conservato, poteva contenere 25.000 spettatori.

      C'era poi lo stadio per le corse dei cavalli, rettangolare, lungo 194,5 m, capace di ospitare sulle gradinate circa 14.000 persone.

      La via processionale che partiva dalla piazza del porto dei Leoni, passava per il sobborgo occidentale di Panormos e raggiungeva dopo circa 16 km Didima, la sede del tempio di Apollo Pbílesios, uno dei più importanti santuari oracolari del mondo antico.

      All'angolo nord est dello stadio sorgeva invece il santuario di Iside e Serapide, il Serapeum e ad est delle terme.

      L'AGORA'
      Gli scavi hanno riportato alla luce i resti prepersiani (sec. VII ac.) degli edifici, e inoltre un cospicuo numero di statue virili sedute, disposte lungo la via sacra, risalenti al sec. VI ac.

      L'edificio del tempio, ricostruito integralmente in età ellenistica, era uno dei più imponenti e ammirati dell'antichità: un grandioso tempio ionico diptero, a cui si lavorava ancora sotto Caligola, e non fu mai portato a compimento a causa dell'eccessiva ampiezza.

      Il tempio ellenistico è di tipo ionico, dittero e decastilo, con 10 colonne su ciascuna fronte e 21 sui lati lunghi.
      Le sue dimensioni erano di m. 109 × 51, con colonne dell'altezza di m. 17,55 sopra uno stilobate di sette gradini.

      LE TERME DI FAUSTINA
      Le basi superstiti sono modellate e scolpite secondo disegni originali e svariati.
      Proporzionatamente ricchi, a protomi umane e animalesche, erano i capitelli. Il solo pronao risulta occupato da 12 colonne su tre file.

      Dalla grande porta si accedeva in una specie di anticamera, con scale e corridoi di accesso al piano superiore. 

      Segue quindi tuttora una scala in discesa di 22 gradini, larga m. 15,50, di raccordo con l'adyton, cioè con l'interno del santuario che era ipetrale, cioè completamente scoperto.

      Nel fondo dell'adyton sorgeva un tempietto, tetrastilo, pure di stile ionico, dove si venerava la celebre statua di Apollo Filesio, opera dello scultore Canaco.

      A sud della città, tra le mura di fortificazione e la collina di Kalabak-Tepè, già compresa nello stesso sistema fortificato, si stendeva la necropoli.

      Dalla Porta Sacra, sul tratto meridionale delle mura, partiva invece la Via Sacra la quale, dopo un percorso di 18 km., raggiungeva l'antico porto di Panormo (Porto Kovella); dove approdavano i pellegrini per recarsi a Didime.

      Poco più a sud ovest, si trovava santuario di Apollo Didimeo, dove si venerava l'oracolo che fece Mileto famosa e ricca.
      L'altra Via Sacra, di 5 km. circa, da Panormo al tempio, era fiancheggiata da monumenti sepolcrali varî.

      Quivi furono rinvenute le statue dette dei Branchidi (la famiglia sacerdotale che ebbe l'amministrazione del santuario fino all'invasione persiana), che T. Newton tolse di là nel 1858: - ben dieci statue sedute, più altre sculture che portò al British Museum, dove contano fra le opere più antiche e più notevoli della scultura ionica.

      Fu distrutto da un terremoto verso l'anno 1000. 











      GAIO SULPICIO GALLO

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      Nome: Caius Sulpicius Gallus
      Nascita: -
      Morte: -
      Interessi: Astronomia









      Gaio Sulpicio Gallo (... – ...) è stato un console romano, noto anche per i suoi interessi astronomici.

      Gaio Sulpicio Gallo lo troviamo nelle fonti per la prima volta nel 170 a.c., quando fu scelto dai delegati delle popolazioni iberiche presso il Senato romano come uno dei quattro patroni che avrebbero dovuto rappresentarli nel processo contro i magistrati romani accusati di prevaricazione nei loro confronti.

      Nel 222 a.c. i comandanti romani Marco Claudio Marcello e Gneo Cornelio Scipione avevano conquistato l'intera zona macedonica,  ma Gaio Sulpicio, nominato Pretore urbano nel 169 a.c., l’anno successivo, nel 168, nominato tribuno militare, partecipò alla battaglia di Pidna sotto il console Lucio Emilio Paolo, e, nominato console nel 166,  sconfisse definitivamente i Liguri consolidando definitivamente la conquista.

      Nello stesso anno del 166, per la vittoria sui Liguri gli venne decretato il trionfo. Nel 164 a.c. fu inviato dal Senato in Grecia, a Pergamo, insieme a Gaio Manio Sergio, con una delicata missione: dirimere una disputa sorta tra Megalopoli e Sparta per questioni territoriali e, soprattutto, indagare sul comportamento di Eumene II e Antioco IV, sospettati di preparare un attacco contro Roma.

      Le sue qualità morali sono lodate da Marco Tullio Cicerone nel "De amicitia". Tuttavia si sa che egli ripudiò la moglie solo per aver saputo che si era intrattenuto fuori casa a capo scoperto, visto che solo il marito doveva godere della bellezza di sua moglie, se ella si faceva guardare dagli altri il suo comportamento era sospetto. Ma certi maschilismi Cicerone li apprezzava non poco.



      L'ASTRONOMIA DI SULPICIO

      Sulpicio Gallo preannuncia l'imminente eclissi di luna:

      (Tacito - Tito Livio) "Caius Sulpicius Gallus, tribunus militum secundae legionis, qui praetor superiore anno fuerat, consulis permissu ad contionem militibus vocatis, ..."

      "Caio Sulpicio Gallo, tribuno dei soldati della II legione, che era stato l'anno prima pretore, con il permesso del console, chiamati i soldati a parlamento, annunciò loro che la notte seguente, perchà qualcuno non lo prendesse come un prodigio, dall'ora II fino alla IV la luna si sarebbe oscurata; questo poichè accadeva per l'ordine naturale ed in certi tempi definiti, lo si poteva sapere e predire in anticipo.
      E così, come ad esempio nessuno di meraviglia che la luna splenda ora con un disco pieno, ora invecchiando con un corno sottile, conoscendosi con certezza il sorgere e il tramontare del sole e della luna, così non dovevano ritenere un prodigio che essa si oscurasse immergendosi nell'ombra della terra.
      La botte che precedette le none di settembre, all'ora indicata, quando la luna si oscurò, parve ai romani quasi divina la scienza di Gaio Gallo, colpì invece i Macedoni, come tristo prodigio che indicava la caduta del regno e la rovina. Si ebbero grida ed urla nei campi dei Macedoni, fino a quando la lina non riprese il suo chiarore.

      Aopra ogni cosa Gaio Sulpicio venne ricordato dalle fonti per i suoi interessi astronomici.

      Si racconta che alla vigilia della battaglia di Pidna abbia predetto un’eclissi lunare, evitando che le truppe fossero intimorite dal fenomeno.

      Secondo la testimonianza di Plinio aveva anche scritto un libro sull’argomento delle eclissi e si era occupato delle dottrine astronomiche pitagoriche.

      RICOSTRUZIONE PLANETARIO ANTIKYTHERA



      IL PLANETARIO DI ARCHIMEDE

      Nel 166 a.c. ebbe l’occasione di esaminare il planetario di Archimede, mostratogli dal suo collega di consolato Marco Claudio Marcello.

      Questi, nipote del Marco Claudio Marcello conquistatore di Siracusa, lo aveva infatti ereditato dal nonno, che l’aveva portato a Roma come bottino di guerra.

      Informazioni su quest'oggetto sono fornite da Cicerone, il quale scrive che nell'anno 212 a.c., quando Siracusa fu saccheggiata dalle truppe romane, il console Marco Claudio Marcello portò a Roma un apparecchio costruito da Archimede che riproduceva la volta del cielo su una sfera e un altro che prediceva il moto apparente del sole, della luna e dei pianeti, equivalente quindi a un moderno planetario.

      Le notizie più attendibili sullo strumento progettato da Archimede le dobbiamo a questo console romano. Egli ne lasciò infatti una descrizione che è in parte riferita da Cicerone a proposito della Sapienza, nel De re publica:
      "tutta la cura che si porrà nello studio delle cose oneste e degne di essere apprese, sarà giustamente lodata. Così nell'astronomia fece Gaio Sulpicio, per quanto ho sentito dire, e nella geometria Sesto Pompeo, che io stesso conobbi, e molti nella dialettica e più ancora nel diritto civile; le quali arti tutte hanno di mira la ricerca del vero.."
      Del famoso planetario di Archimede si persero le tracce negli anni successivi.

      Cato Maior " De Senectute": "Vedevamo Gaio Gallo, amico di tuo padre, Scipione, struggersi nello sforzo di misurare quasi il cielo e la terra. Quante volte la luce del giorno lo sorprese a tracciare disegni iniziati di notte, quante volte la notte quando aveva iniziato al mattino! Come gli piaceva predirci con largo anticipo le eclissi di sole e di luna!"

      La sua dottrina astronomica fu poi tenuta in gran conto, soprattutto per misurare le distanze tra gli astri e la terra. E' attestata la familiarità di Gaio col padre di Scipione e probabilmente anche col figlio.

      Un ingranaggio probabilmente identificabile come appartenuto al planetario di Archimede è stato rinvenuto nel luglio del 2006 a Olbia. Secondo una ricostruzione il planetario, che sarebbe stato tramandato ai discendenti del conquistatore di Marcello, potrebbe essere andato perso nel sottosuolo cittadino di Olbia (probabile scalo del viaggio) prima del naufragio della nave che trasportava Marco Claudio Marcello (console 166 a.c.) in Numidia.

      Cicerone scrisse che già il filosofo Posidonio aveva realizzato un globo che mostrava i moti del Sole, delle stelle e dei pianeti come appaiono in cielo. E che pure Archimede aveva concepito un modello che imitava i movimenti dei corpi celesti.

      Una recente analisi, basata su scansioni ai raggi-X del meccanismo, fatta da Michael Wright, curatore dell Istituto di Ingegneria meccanica al Museo delle Scienza di Londra, ha portato all'individuazione dell'esatta posizione di ogni ingranaggio.

      Wright ha trovato prove che il meccanismo di Antikythera sarebbe stato in grado di riprodurre accuratamente il moto del sole e della luna, usando un modello epiciclico elaborato da Ipparco, e dei pianeti Mercurio e Venere, usando un modello epiciclico elaborato da Apollonio di Perga. Ha inoltre dichiarato che il meccanismo deve essere stato costruito mediante l'ausilio di antichi attrezzi, anche se la realizzazione di una ruota metallica dentata implica l'utilizzo di lame sofisticate ed un altissima abilità.
      In suo onore un cratere lunare porta il suo nome.


      http://www.filosofiscienza.it/pdf/mathesis12.pdf

      Da Olbia un frammento del planetario di Archimede

      di GIOVANNI PASTORE

      "Nel luglio del 2006, durante uno scavo d’emergenza nella piazza del Mercato civico nell’abitato di Olbia, fu raccolto un frammento di una ruota dentata con denti che parvero allora di profilo triangolare. Dopo lunghi e approfonditi studi, sono emerse tre novità principali: il frammento risale alla fine del III o
      inizio del II secolo a.c.; il profilo dei piccoli denti è risultato curvo, non triangolare; il materiale di cui è composto non è bronzo ma ottone.

      PLANETARIO ANTIKYTHERA
      Poiché nello scavo sono stati trovati unicamente reperti che vanno dalla fine del III all’inizio del II secolo a.c., la cronologia del frammento è del tutto compatibile con la fine del III secolo a.c., e cioè con il culmine dell’attività di Archimede, che corrisponde proprio alla fase apicale della scienza ellenistica.

      Attualmente è il più antico ingranaggio della storia e non stupisce, quindi, che stia suscitando un grandissimo interesse nella comunità scientifica internazionale.

      Dopo il ritrovamento Calcolatore di Antikythera, avvenuto nel 1902, per cinquant’anni non si è capito cosa fosse. Nel 1951 Derek John De Solla Price (1922-1983) cominciò, per la prima volta, a studiare il meccanismo nei dettagli anche con radiografie ai raggi gamma e, dopo circa 20 anni di ricerche, riuscì a capire come funzionava definendolo un calcolatore astronomico, cioè un planetario meccanico, il più antico calcolatore analogico conosciuto della storia. Aveva la funzione di riprodurre le fasi lunari e il moto del Sole e della Luna fra le costellazioni dello zodiaco.

      Probabilmente poteva rappresentare anche il moto attorno al Sole dei pianeti visibili ad occhio nudo (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno). Poteva servire sia come strumento per la navigazione sia come strumento per indagini astronomiche. Gli ingranaggi di bronzo sono stati realizzati con la tecnologia all’epoca disponibile, comunque insufficiente per la precisione che si poteva ottenere.


      Il Calcolatore di Antikythera è ad oggi l’unico planetario giunto fino a noi, ma le fonti classiche ne citano un altro ben più antico, costruito da Archimede nel III sec. a.c., anch’esso presumibilmente con meccanismi ad ingranaggi.

      Infatti Cicerone (106-43 a.c., contemporaneo quindi all’affondamento del Calcolatore di Antikythera) riferisce (De Re Publica, I, 14, ed inoltre anche 21 e 22; Tusculanae disputationes, I, 63) che, dopo la conquista di Siracusa nel 212 a.c., il console romano Marcello aveva portato a Roma un globo celeste e un planetario costruiti da Archimede (287-212 a.c.).

      Questo planetario è menzionato anche da Ovidio (I sec. a.c.) nei Fasti (VI, 263-283), da Lattanzio (IV sec. d.c.) nelle Divinae institutiones (II, 5, 18) e in un epigramma di Claudiano (IV sec. dc.)
      intitolato In sphaeram Archimedis.

      In particolare, Claudiano aggiunge che lo strumento era racchiuso in una sfera stellata di vetro.

      I planetari meccanici ad ingranaggi, come quello di Antikythera o di Archimede, funzionavano come un calcolatore portatile a programma fisso nel senso che si inserivano i dati, i giri della manovella corrispondenti ai giorni, e la macchina, che era già “programmata nell’hardware” per quegli algoritmi di calcolo, dava direttamente le informazioni attinenti, cioè le posizioni del Sole e della Luna rispetto alle costellazioni (e forse anche le posizioni degli altri pianeti).

      I planetari ad ingranaggi, come pure le calcolatrici meccaniche, sono sistemi a logica fissa dove cioè il software, e quindi gli algoritmi di calcolo, è insito nella macchina stessa (hardware). Per modificare tali algoritmi bisogna sostituire le leve e gli ingranaggi. Invece, nei sistemi a logica programmabile, come i moderni planetari elettronici o gli attuali computer, è possibile modificare gli algoritmi di calcolo utilizzati per la simulazione del moto dei corpi celesti modificando solo il software, pur restando inalterato l’hardware.

      Nel planetario di Antikythera il moto del Sole e della Luna è rappresentato da due lancette che ruotano a differenti velocità sul quadrante anteriore su cui sono riportate le costellazioni dello zodiaco. Purtroppo non è rimasta alcuna descrizione dettagliata dei meccanismi che animavano il planetario di Archimede in
      quanto la sua opera Sulla costruzione della Sfera, in cui descriveva i principi seguiti nella costruzione, è andata perduta. Notizie dell’esistenza di quest’opera ci pervengono da Pappo.

      RICOSTRUZIONE DEL PLANETARIO ( MUSEO DI SIRACUSA)
      I denti dell’ingranaggio di Olbia, prima del restauro, apparivano a forma triangolare, come quelli del reperto di Antikythera e come quelli di tutti gli altri ingranaggi realizzati nei secoli successivi, perfino come quelli disegnati da Leonardo da Vinci per le sue macchine. Con grande stupore, invece, dal restauro è emersa una evidenza inaspettata e ben più importante: il profilo dei denti dell’ingranaggio non è risultato triangolare, ma curvo, e per di più straordinariamente simile, nella forma e nelle dimensioni, a quello dei denti degli ingranaggi moderni.

      La perfezione dell’ingranamento, senza giochi eccessivi e interferenze, si raggiunge negli ingranaggi moderni il cui profilo coniugato è il risultato di studi matematici accurati e profondi.
      I denti triangolari degli ingranaggi come quelli del Calcolatore di Antikythera. e dell’astrolabio bizantino, invece, permettono ugualmente l’ingranamento, ma in modo molto grossolano per l’eccessivo gioco fra i denti in presa e per problemi di interferenza, che provocano impuntamenti nella rotazione.

      Al computer è stato ricostruito il profilo della corona dentata del reperto e a questo sono stati sovrapposti, comparativamente, sia il profilo triangolare di una identica ruota e sia il profilo moderno di una analoga ruota dentata avente gli stessi elementi caratteristici (modulo, numero dei denti, diametro primitivo).

      Dalle misurazioni comparate sui profili risulta una impressionante coincidenza del profilo dei denti di Olbia con quelli degli ingranaggi moderni, mentre sono molto marcate le differenze dimensionali con gli ingranaggi a profilo triangolare.

      Il reperto di Olbia presenta anche un dente rotto con inizio rottura a metà altezza, proprio dove comincia ad essere rilevante la sollecitazione di flessione, prova inconfutabile che l’ingranaggio faceva parte di un meccanismo che ha lavorato.

      Recentemente è stata eseguita l’analisi chimica spettrografica del materiale ed è emersa un’altra sorpresa inattesa.

      Il frammento metallico che si pensava fosse bronzo, una lega di rame e stagno molto diffusa e utilizzata nell’antichità, così come quello degli ingranaggi di Antikythera o degli altri meccanismi antichi, è risultato invece ottone, una lega di rame e zinco.

      L’ottone era molto più prezioso del bronzo, ma più appropriato per la costruzione di organi molto sollecitati come le ruote dentate, per le sue migliori proprietà meccaniche e tecnologiche, così come infatti è avvenuto per la costruzione della maggior parte degli strumenti scientifici fin dal tardo Medioevo.

      Il reperto evidenzia anche una straordinaria precisione costruttiva, nonostante sia stato realizzato manualmente in un mondo in cui la tecnologia meccanica era di livello molto basso rispetto a quello attuale, e comunque insufficiente per un meccanismo così complesso cinematicamente, per la mancanza all’epoca di speciali attrezzature, macchine utensili e strumenti di misura, elementi indispensabili per eseguire una corretta lavorazione metalmeccanica.

      A questo punto è sorto spontaneo il sospetto che a costruire questo ingranaggio, compreso tutto il meccanismo di cui faceva parte, sia stata una mente geniale, il cui pensiero scientifico, dall’astronomia alla matematica e alla scienza dei materiali, era avanti di secoli, se non addirittura di millenni, rispetto al suo tempo. Dalle fonti al momento disponibili, un uomo che corrispondeva a questa descrizione era Archimede di Siracusa, il matematico e inventore più stimato del suo tempo. Data la pregevole fattura del reperto, le piccole dimensioni e tutte le conoscenze scientifiche che la sua realizzazione presuppone, è ovvio pensare che fosse un frammento del tanto celebrato planetario di Archimede, anche perché il
      meccanismo o parte di esso non è mai stato ritrovato.

      Dal momento che la pertinenza di questi congegni doveva essere fortemente elitaria e che dopo la conquista della Sardegna nel 238 a.c. Roma vi invia merci, milizie e la migliore aristocrazia con funzioni di governo, è facile intuire che gli esponenti in sede locale erano intenti a dispiegare il maggiore apparato
      possibile di esibizione del rango in termini di mezzi, uomini e beni di prestigio.

      In questo quadro è del tutto plausibile individuare in uno di questi aristocratici provenienti da Roma e residente ad Olbia, o anche solo di passaggio da o per le province occidentali, il possessore del dispositivo esibito in loco sfruttandone le capacità previsionali di fenomeni celesti come segno di conoscenza superiore
      del cosmo, se non proprio di rapporto privilegiato con esso o, se del caso, per prevenire momenti di sbigottimento del popolo per fenomeni astrali ritenuti segno di sciagura.
      In un mondo in cui dominava la superstizione e con conoscenze scientifiche molto limitate e solo patrimonio di pochi, per qualunque individuo del mondo antico un congegno del genere avrebbe avuto un valore incalcolabile.

      ARCHIMEDE
      Capire il movimento del Sole e della Luna nel cielo equivaleva ad entrare nella mente degli Dei. Per i sacerdoti e gli astrologi dell’epoca, questa macchina straordinaria doveva essere una finestra sugli Dei. Non pare plausibile immaginare che la presenza a Olbia del meccanismo sia dovuta a fattori accidentali quali un saccheggio, un furto o simili, perchè il valore dell’oggetto poteva essere compreso solo da chi ne fosse esperto.

      Nella stessa direzione va la constatazione che esso fu dismesso in seguito alla cessata funzionalità dovuta all’uso prolungato, e ciò non sarebbe avvenuto se, a Olbia o altrove, da ultimo fosse stato detenuto da chi non lo sapeva usare.
      Va perciò presupposto il possesso e l’uso da parte di esperti della materia che, come detto sopra, sono personaggi del vertice della società o studiosi ad essi legati.

      Da approfondite ricerche storiche e comparando i dati con le scarse fonti letterarie disponibili risulta che proprio Marco Claudio Marcello, nipote dell’omonimo generale romano conquistatore di Siracusa, è stato l’ultimo possessore conosciuto del Planetario di Archimede.

      L’esibizione in Roma di questo straordinario strumento astronomico pervenuto col console Marcello nel 212 a.c., subito dopo l’occupazione e la distruzione di Siracusa, deve avere avuto un grande impatto sull’aristocrazia romana.

      Mostrato con orgoglio dal possessore e motivo di vanto tale che la famiglia, nella figura dell’omonimo nipote di Marcello, lo detiene ancora funzionante nel 166 a.c., secondo quanto scritto da Cicerone che fa riferimento all’opera, ora perduta, di Gaio Sulpicio Gallo che aveva potuto osservarlo grazie alla cortesia del suo collega di consolato.

      È noto che Marco Claudio Marcello, nipote dell’omonimo generale, è stato inviato da Roma in Spagna nel 152 ac. e in Numidia nel 148 a.c., dove, nel viaggio di andata, naufragò.

      È evidente che in tali occasioni sicuramente avrà fatto scalo ad Olbia, e non avrebbe potuto non portare con sé il Planetario di Archimede da ostentare quale status symbol del potere personale oltre che familiare e, più in generale, dell’intera Roma.

      Il planetario sicuramente poteva essere utilizzato anche per prevedere le eclissi e così impressionare e intimorire i nemici, o per rassicurare i soldati romani che gli eventi imminenti non erano nefasti, come fece per esempio Gaio Sulpicio Galloche previde un’eclissi lunare alla vigilia della battaglia di Pidna, ed evitò che le truppe romane fossero intimorite dal fenomeno.

      A questo proposito, visto che il console Gaio Sulpicio Gallo è proprio l’autore dell’opera citata da Cicerone, è quanto meno molto probabile che la sua previsione di eclisse fosse basata sui dati ottenuti direttamente tramite il planetario in possesso di Marcello.

      Alla luce dello scenario ipotizzato e considerata la perfetta concordanza tra le evidenze scientifiche e le risultanze storiche, letterarie e archeologiche, non sembra per nulla azzardato concludere che quel frammento che sinora abbiamo affermato far parte di un ipotetico Calcolatore di Olbia fosse invece parte integrante del Planetario di Archimede.

      Evidentemente il Planetario, in occasione di uno scalo ad Olbia, forse durante una esibizione in onore delle autorità locali, ha subito danni irreparabili ed è finito così, in tutto o in parte, nel sottosuolo cittadino.

      Tale evento ha dato un notevole contributo alla conoscenza del genio di quello che possiamo considerare il più grande scienziato del periodo ellenistico. Ci permette, inoltre, di comprendere ancor più il motivo che avrebbe indotto Marcello, comandante dell’esercito romano durante l’assedio di Siracusa, ad ordinare ai suoi soldati di salvare la vita dell’illustre scienziato siracusano, probabilmente
      affinché anche Roma potesse usufruire dei servizi di cotanto genio. Con la sua morte gran parte della sua sapienza è andata perduta per sempre.

      I Pitagorici, infatti, tranne alcuni (come proprio Archimede, anche se molte delle sue opere sono andate perdute), tramandavano solo oralmente le loro conoscenze e solo a pochi iniziati e ciò ha portato alla perdita di gran parte del loro sapere.

      CICERO SCOPRE LA TOMBA DI ARCHIMEDE

      Queste conclusioni servono poi a suffragare quanto da più scrittori sostenuto nelle loro opere letterarie, a partire da Cicerone, circa l’esistenza del Planetario di Archimede e della fama di tale dispositivo ancora dopo molti secoli dalla sua scomparsa, a testimonianza del valore che il mondo romano assegnava alle
      meraviglie scientifiche prodotte dagli scienziati di origine greca.

      Infine, i tanti riferimenti esistenti nella letteratura latina, suffragati dalle risultanze delle nostre ricerche, ci permettono di raccogliere una maggiore evidenza delle forme di esibizione del rango che le élites di Roma adottavano per l’acquisizione di prestigio agli occhi sia dei Romani stessi che dei popoli di recente annessione al nascente impero.

      Anche se di piccole dimensioni, il reperto di Olbia è di notevole valore archeologico e scientifico in quanto va a retrodatare di più di un secolo le conoscenze tecnico-scientifico-astronomiche che il Calcolatore astronomico di Antikythera già presupponeva.

      Il fatto, poi, che l’Ingranaggio di Olbia risulta essere, come già detto, ancora più evoluto rispetto a quello di Antikythera, apre una luce nuova e inattesa. In particolare si evidenzia la grande levatura scientifica dello scienziato siracusano. La rivoluzione iniziata da Archimede in matematica e geometria indubbiamente è stata necessaria per quelli che, successivamente, hanno inventato il Calcolatore di Antikythera. La sua morte segnò l’inizio di un rapido declino delle grandi invenzioni e della scienza d’età ellenistica.

      Probabilmente altre apparecchiature del genere sono state prodotte e sono andate, forse definitivamente, perdute, in particolare nell’incendio della Biblioteca di Alessandria (e non solo), o sono ancora nascoste nel sottosuolo o in fondo al mare oppure, cosa ancora più frustrante, giacciono in qualche deposito museale perché non riconosciute.

      Se un gruppo di pescatori di spugne non si fosse imbattuto nel relitto della nave di Antikythera circa un secolo fa, quel calcolatore sarebbe ancora in fondo al mare a disintegrarsi lentamente per la corrosione, ma, una volta ripescato, se il meccanismo non avesse “trovato” un archeologo che era anche un fisico, quale il De Solla Price, tacerebbe ancora anonimo in un deposito del museo di Atene.

      Così pure se un avveduto archeologo, come Rubens D’Oriano, non avesse dato la giusta importanza ad un apparentemente insignificante e ossidato frammento metallico, non avremmo potuto conoscere quanto questo studio ci ha rivelato.

      Fonti: Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XLIII, 2, 5; XLVI (epitome). Polibio, Storie, XXXI, 1, 6-8. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, II, 9, 19, 83. Cicerone, De amicitia, 9, 21, 101. Cicerone, De re publica, I, 21-22.

      PONTE SUBLICIO

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      ECCO COME DOVEVA APPARIRE IN EPOCA IMPERIALE

      Ponte Sublicio, noto anche come ponte Aventino o ponte Marmoreo, è un ponte che collega piazza dell'Emporio a piazza di Porta Portese, a Roma, nei rioni Ripa, Trastevere e Testaccio e nel quartiere Portuense. Il più antico ponte di Roma, il primo di cui si abbia notizia, oltrepassava il fiume Tevere poco a valle dell'Isola Tiberina, dopo il ponte Emilio, in corrispondenza dell'antico guado che rappresentava una tappa obbligata del percorso nord-sud in epoca protostorica, ai piedi dell'Aventino.

      La sua costruzione è attribuita al re Anco Marzio (642 - 617 a.c.) da Tito Livio e da Dionigi di Alicarnasso. Un'altra versione narra che venne eretto da popolazioni abitanti la sponda destra del Tevere molti anni prima della presunta nascita di Roma, restaurato una prima volta da Ercole in persona ed una seconda nel 614 a.c. sotto il regno di Anco Marzio.

      Il nome deriva dal termine sublica, di lingua volsca, che signofica "tavole di legno". Il ponte era infatti costruito originariamente interamente in legno, con piloni formati da fasci di travi affondati nel letto del fiume e con le altre parti assemblate con sistemi ad incastro, con traversine di legno duro, senza nè ferro nè bronzo e vi è legato il mitico episodio di Orazio Coclite, nei primi anni della Repubblica romana.

      Si narra che nel 508 a.c., nei primi anni della Repubblica romana, Orazio Coclite riuscì ad arrestare l'avanzata degli Etruschi mentre i compagni demolivano il ponte Sublicio per impedire che i nemici passassero il Tevere. Quando rimase da abbattere soltanto una piccola parte del ponte, Orazio ordinò ai compagni di mettersi in salvo, rimanendo a combattere da solo. Al termine della demolizione si gettò nel Tevere con tutta l’armatura e secondo Polibio affogò. Secondo Tito Livio, invece, riuscì a traversare il fiume nuotando e a raggiungere Roma. Il popolo di Roma gli dimostrò la sua gratitudine dedicandogli una statua e donandogli un appezzamento di terreno pari a quanto ne poteva arare in un intero giorno.

      Caio Gracco, il tribuno della plebe, per sfuggire alla morsa degli optimates che volevano ucciderlo, corse verso il ponte Sublicio per dirigersi verso il Gianicolo. Inseguito fin lì, piuttosto che finire nelle mani dei suoi nemici, raggiunto il bosco della dea Furrina (l'attuale villa Sciarra), si lasciò uccidere dal servo Filocrate, che subito dopo si tolse la vita. L'antico ponte, dunque, stava all'altezza della porta Trigemina, tra l'ospizio di S. Michele e l'Aventino. 

      RICOSTRUZIONE DELLA PRIMA VERSIONE


      IL CERIMONIALE  

      La tradizione religiosa, nata dalla necessità di poterlo smontare facilmente per difesa, prescriveva che non fosse utilizzato altro materiale che il legno. Il ponte era considerato sacro (da pons deriva il termine "pontefice" o pontifex, facitore di ponti) e vi si svolgevano cerimonie arcaiche, tra cui quella del lancio nel fiume degli Argei, o pupazzi di paglia (forse in sostituzione di più antichi sacrifici umani), durante il cerimoniale dei Lemuria.

      NELLA SUA PRIMA VERSIONE
      DOVEVA APPARIRE COSI'
      Il cerimoniale del 15 maggio prevedeva una lunga processione di vergini romane che seguivano la vestale Flaminia, sacerdotessa di giove, il pontefice massimo, il pretore e i sacerdoti lungo le strade della città. Al ponte Sublicio il corteo si arrestava e Flaminia, con le sue vesti discinte per mimare il dolore, dopo aver legato mani e piedi a 24 fantocci in vimini portati fin li, li gettava nelle acque del fiume uno dopo l'altro.

      Il ponte subì frequenti restauri e ricostruzioni (60, 32, 23 a.c., 5 d.c., 69 d.c.), sotto Antonino Pio e forse sotto gli imperatori Traiano, Marco Aurelio e Settimio Severo, con la ricostruzione dei piloni in muratura e rivestimenti in travertino. Sulle monete di epoca imperiale compaiono alle estremità del ponte anche archi con statue.



      LA DISTRUZIONE

      La rovina del ponte si lega con il tramonto della religione pagana e con il cessare dei rituali che avevano per oggetto questa reliquia della città, tanto che non fu più ricostruito, ma nel medioevo ancora si vedevano i resti nei periodi di magra, fino a che nel 1484, più di quattrocento blocchi di travertino furono asportati dal ponte per fabbricare palle di cannone. Infatti i resti del ponte furono demoliti del tutto sotto Sisto IV, il grande demolitore di Roma antica che "Il 23 luglio 1484" come riferisce il diario dell'Infessura, "Papa Sisto mandò.... 400 grandi palle di cannone di travertino, fatte dei resti di un ponte di Marmorata, chiamato il ponte di Orazio Coclite". Così il ponte glorioso finì cristianamente in palle di cannone.
      Le pochissime tracce del ponte visibili nell'acqua del Tevere fino al 1890 circa, furono completamente demolite per la risistemazione degli argini del fiume.



      IL PONTE NUOVO

      IL PONTE SUBLICIO OGGI
      Dello scomparso ponte romano porta la stessa denominazione il ponte, costruito nel 1918 su progetto del valido architetto Marcello Piacentini (quello che edificò il Colosseo Quadrato), che congiunge le due rive del Tevere all'altezza di Piazza di Porta Portese con Piazza dell'Emporio. Il ponte, che inizialmente, secondo il progetto del 1914, si sarebbe dovuto chiamare ponte Aventino per la vicinanza al mitico colle, è in muratura ed ha tre arcate, misura 105 m in lunghezza e 20 in larghezza.

      Dell'antico ponte non resta oggi alcuna traccia, ma la sua ubicazione era all'altezza dell'odierna via del Porto, all'estremità settentrionale del complesso del San Michele.


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      VILLA JOVIS (Capri)

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      RICOSTRUZIONE DI VILLA JOVIS

      Tiberio nacque a Roma nel 42 a.c. da Tiberio Claudio Nerone, cesariano, e da Livia Drusilla, di trent'anni più giovane di lui. Ambedue i genitori appartenevano alla gens Claudia, un'antica famiglia patrizia romana.

      TIBERIO
      Nel 39 a.c. Ottaviano divorziò da sua moglie Scribonia, per prendere in sposa la madre del piccolo Tiberio, Livia Drusilla, che sposò l 17 gennaio del 38 a.c., dunque, Ottaviano sposò Livia, la quale dopo tre mesi partorì un figlio a cui fu imposto il nome di Druso.

      Mentre Druso fu allevato dalla madre nella casa di Ottaviano, Tiberio rimase presso l'anziano padre fino all'età di nove anni, cioè fino alla morte del padre nel 33 a.c..
      Tiberio si trasferì nella casa di Ottaviano assieme alla madre e al fratello, e nel 29 a.c.

      Ebbe indubbie capacità di comandante e stratega rimanendo imbattuto in tutte le sue lunghe e frequenti campagne, tanto da divenire, nel corso degli anni, uno dei migliori luogotenenti di Augusto.

      Data la mancanza di vere e proprie scuole militari che permettessero di fare esperienza, nel 25 a.c. Augusto decise di inviare in Spagna i sedicenni Tiberio e Marcello, in qualità di tribuni militari.

      Suo fratello Druso, mentre si trovava sulle rive dell'Elba a combattere contro le popolazioni germaniche, era caduto da cavallo fratturandosi il femore.
      L'incidente sembrò di poco conto e fu dunque trascurato.

      RICOSTRUZIONE ESTERNI DELLA VILLA

      Le condizioni di Druso, tuttavia, peggiorarono e Tiberio lo raggiunse a Mogontiacum percorrendo, in un giorno solo, oltre duecento miglia.
      Druso, alla notizia dell'arrivo del fratello, ordinò che le legioni lo accogliessero degnamente, e spirò più tardi le sue braccia.

      Tiberio nel 12 a.c. era stato costretto da Augusto a divorziare dalla prima moglie, Vipsania Agrippina, figlia di Marco Vipsanio Agrippa, da cui aveva avuto un figlio, Druso minore.

      L'anno successivo sposò dunque Giulia maggiore, figlia dello stesso Augusto e quindi sua sorellastra, vedova di Agrippa.

      Tiberio era sinceramente innamorato della prima moglie Vipsania e se ne allontanò con rammarico, tanto più poi che il matrimonio con Giulia si guastò ben presto dopo la morte del figlio nato loro ad Aquileia.

      Lucio e Gaio Cesare morirono, rispettivamente nel 2 e nel 4, non senza che si sospettasse che Livia Drusilla avesse avuto qualche ruolo nella loro morte.

      Il primo si era misteriosamente ammalato, mentre il secondo era stato colpito a tradimento in Armenia, mentre discuteva con i nemici una proposta di pace.

      Tiberio, che al suo ritorno aveva lasciato la sua vecchia casa per trasferirsi nei giardini di Mecenate, fu adottato da Augusto.

      Questi non aveva ormai altri eredi, costringendolo però però ad adottare a sua volta il nipote Germanico, figlio del fratello Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse già un figlio, concepito dalla prima moglie, Vipsania, di nome Druso minore e più giovane di un anno soltanto.

      RICOSTRUZIONE DEGLI INTERNI DELLA VILLA
      Nel 14, Augusto, ormai prossimo alla morte, chiamò con sé Tiberio sull'isola di Capri: l'erede, che non ci era mai stato, ne rimase profondamente affascinato.

      Tiberio annunciò dunque la morte di Augusto, mentre sopraggiungeva anche la notizia del misterioso assassinio di Agrippa Postumo da parte del centurione addetto alla sua custodia. Temendo inoltre eventuali attentati alla sua persona.

      Tiberio si attribuì una scorta militare, e convocò il senato per le onoranze funebri ad Augusto e il testamento che lasciava come eredi del suo patrimonio Tiberio e Livia, con numerosi donativi anche al popolo di Roma e ai legionari che militavano negli eserciti.

      I senatori chiesero a Tiberio di assumere il ruolo e il titolo che era stato di suo padre, a guida dello stato romano.

      Alla fine Tiberio accettò l'offerta dei senatori, e divenne il successore di Augusto.

      RICOSTRUZIONE DI C. WUEICHARDT


      L'UNICO EREDE

      La gelosia di Tiberio verso il figlio di suo fratello, Druso maggiore, che egli stesso aveva adottato per ordine di Augusto, cresceva alla pari col il plauso dei romani che lo adoravano.

      Così Tiberio affidò al figlio adottivo uno speciale compito in Oriente, in modo da allontanarlo da Roma affiancandogli un uomo di sua fiducia: Gneo Calpurnio Pisone.

      I RESTI DELLA VILLA
      Germanico, tornato in Siria dall'Egitto, entrò in conflitto con Pisone, che aveva annullato tutti i provvedimenti che egli aveva preso.

      Pisone irritato decise allora di lasciare la provincia per fare ritorno a Roma.

      Però, poco dopo la partenza di Pisone, Germanico cadde malato ad Antiochia e morì dopo lunghe sofferenze; prima di spirare, lo stesso Germanico confessando alla moglie Agrippina il sospetto di essere stato avvelenato da Pisone.

      A Roma grandissimo era il compianto di tutto il popolo per il defunto, ma Tiberio non partecipò neppure alla cerimonia funebre.
      Pisone venne accusato di veneficio e si suicidò, ma il popolo sospettò che il mandante fosse Tiberio.

      Tacito scrisse così di Germanico:
      « ...giovane, aveva sentimenti liberali ed una straordinaria affabilità, che contrastava con il linguaggio e l'atteggiamento di Tiberio, sempre arroganti e misteriosi... » (Tacito, Annales, I, 33)

      La morte di Germanico aprì la strada per la successione all'unico figlio naturale di Tiberio, Druso.
      Intanto, Lucio Elio Seiano, nominato prefetto del Pretorio nel 16, riuscì presto a conquistarsi la fiducia di Tiberio.

      Accanto a Druso, dunque, favorito per la successione, comparve Seiano, che ambiva lui stesso a divenire il successore di Tiberio. 
      Tra Druso e Seiano si venne quindi a creare una situazione di aperta rivalità; il prefetto, allora, pensò di assassinare Druso e gli altri possibili successori di Tiberio, e sedusse la moglie dello stesso Druso, Claudia Livilla. 

      Nel 23, lo stesso Druso morì avvelenato; l'opinione pubblica arrivò a sospettare, pur senza alcun fondamento, che potesse essere stato Tiberio.

      Tiberio, dunque, si trovò ancora una volta, all'età di 64 anni, privo di un erede, perché i gemelli di Druso, nati nel 19, erano troppo giovani, ed uno di loro era morto poco dopo il padre.

      Scelse allora di proporre come suoi successori i giovani figli di Germanico, che erano stati adottati da Druso e che Tiberio pose sotto la tutela dei senatori.

      Seiano ebbe, allora, un potere sempre maggiore, tanto da poter sperare di divenire imperatore egli stesso dopo la morte di Tiberio, e iniziò una serie di persecuzioni prima contro i figli e la moglie di Germanico, Agrippina, poi verso gli amici dello stesso Germanico.

      Molti di loro furono infatti costretti all'esilio, o scelsero di darsi la morte per evitare una condanna.
      Tiberio, addolorato per la morte del figlio ed esasperato per l'ostilità del popolo di Roma, nel 26 decise di ritirarsi prima in Campania e l'anno successivo a Capri su consiglio dello stesso Seiano, per non fare mai più ritorno nell'Urbe.

      Non poteva più sopportare di vedere intorno a sé gente che gli ricordava Druso, senza dimenticare che la vicinanza della madre Livia era divenuta per lui insopportabile.

      Una malattia che gli sfigurava il viso ne aveva, infine, aumentato la suscettibilità e l'ombrosità del carattere.

      Ma il suo ritiro fu un errore molto grave, sebbene Tiberio non avesse diminuito la cura con cui affrontava i problemi dell'Impero dalla villa di Capri.

      Seiano era riuscito, inoltre, a convincere il princeps a concentrare tutte le nove coorti pretorie, in precedenza distribuite tra Roma ed altre città italiche, nell'Urbe (presso il Castro Pretorio) a sua totale disposizione, ora che Tiberio aveva lasciato Roma.


      L'allontanamento di Tiberio da Roma portò, comunque, a una progressiva esautorazione del senato, a tutto vantaggio dell'imperatore stesso e di Seiano.
      Il prefetto del pretorio, infatti, iniziò a perseguitare i propri oppositori accusandoli di lesa maestà ed eliminandoli, dunque, dalla scena politica; grande credito acquisirono i delatori, ovvero coloro che fungevano da accusatori, e permettevano la condanna dell'imputato.

      Nel 29, quando Livia Drusilla, madre di Tiberio, che con il suo carattere autoritario aveva sempre influenzato il governo, morì all'età di ottantasei anni, il figlio si rifiutò di far ritorno a Roma per le esequie e proibì la sua divinizzazione.

      Seiano, allora, poté procedere contro Agrippina maggiore e suo figlio Nerone: contro il giovane furono riversate numerose accuse infamanti, tra cui quella di tentata sovversione, ed egli fu dunque condannato al confino sull'isola di Ponza, dove morì nel 30 patendo la fame. Agrippina, invece, accusata di adulterio, fu deportata nell'isola Pandataria dove morì nel 33.

      Tuttavia la vedova di Druso maggiore, Antonia minore, facendosi portavoce dei sentimenti di gran parte della classe senatoriale, comunicò in una lettera a Tiberio tutti gli intrighi e i fatti di sangue di cui Seiano, che stava ordendo una cospirazione ai danni dello stesso imperatore, era responsabile.

      Tiberio capì ma per non destare sospetti, l'imperatore nominò Seiano pontefice, promettendo di conferirgli al più presto la tribunicia potestas.

      Quando Seiano giunse in Senato, venne informato da Macrone dell'arrivo di una lettera di Tiberio annunciante il conferimento della potestà tribunizia.

      Così, mentre questi prendeva giubilante il proprio posto tra i senatori, Macrone, rimasto fuori dal tempio, allontanò i pretoriani di guardia facendoli sostiuire dai vigili di Lacone.

      Poi, consegnata la lettera di Tiberio al console perché la leggesse al Senato, raggiunse i castra praetoria per annunciare la propria nomina a prefetto del pretorio.

      Nella lettera, Tiberio accusava il prefetto di tradimento, ordinandone la destituzione e l'arresto.
      Seiano, venne condannato a morte e alla damnatio memoriae.

      Il Senato dichiarò il 18 ottobre festa pubblica, ordinando l'innalzamento di una statua alla Libertà con la seguente dedica:


      « Alla salute del perpetuo Augusto e alla Libertà del popolo romano, per la Provvidenza di Tiberio Cesare, figlio di Augusto, per l'eternità della gloria di Roma, eliminato il pericolosissimo nemico. »

      (Dedica del Senato a Tiberio.)

      Tiberio trascorse l'ultima parte del suo regno sull'isola di Capri, circondato da uomini di studio, giuristi, letterati ed anche astrologi.
      Lì fece costruire dodici ville, per poi risiedere in quella che preferiva, la Villa Jovis.

      Tacito e Svetonio raccontano che a Capri Tiberio poté lasciare libero sfogo ai suoi inenarrabili vizi, abbandonandosi alla gola e alla sfrenata libidine; sembra tuttavia più verosimile che Tiberio abbia mantenuto la sua consueta riservatezza, evitando gli eccessi come aveva sempre fatto, non trascurando i propri doveri nei confronti dello Stato e continuando a lavorare nel suo interesse.

      Dopo la caduta del crudele Seiano, che doveva succedere a Tiberio. si riaprì la questione della successione, e nel 33 anche Druso Cesare, il maggiore dei figli di Germanico rimasti in vita, morì di inedia dopo essere stato condannato al confino nel 30 con l'accusa di aver cospirato contro Tiberio.

      Quando Tiberio, nel 35, depositò il suo testamento, potendo scegliere tra tre possibili eredi, incluse nel testamento il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e il nipote collaterale Gaio, figlio di Germanico.

      Il favorito nella successione doveva essere il giovane Gaio di venticinque anni, cioè Caligola, poiché Tiberio Gemello, peraltro sospettato di essere in realtà figlio di Seiano, aveva dieci anni di meno.

      Restò dunque escluso dal testamento il fratello dello stesso Germanico, Claudio, inadatto al ruolo di princeps, debole di corpo e di dubbia sanità mentale.

      Nel 37, Tiberio lasciò Capri, come aveva già fatto in precedenza, forse con l'idea di rientrare finalmente in Roma per trascorrervi i suoi ultimi giorni; intimorito però dalle reazioni del popolo romano, abituato a dire la sua pure agli imperatori, si fermò a sette miglia dall'Urbe, e tornò indietro verso la Campania.

      Qui fu colto da malore, e trasportato nella villa di Lucullo a Miseno.
      Dopo un iniziale miglioramento, il 16 marzo cadde in uno stato di delirio e fu creduto morto.

      Mentre molti già si apprestavano a festeggiare l'ascesa di Caligola, Tiberio si riprese ancora una volta, suscitando scompiglio tra coloro che avevano già acclamato il nuovo imperatore.
      Il prefetto Macrone, che simpatizzava per Caligola, ordinò che Tiberio fosse soffocato tra le coperte. Il vecchio imperatore, debole e incapace di reagire, spirò all'età di settantasette anni.

      Il popolo romano reagì con grande gioia alla notizia della morte di Tiberio, festeggiandone la scomparsa.
      Molti monumenti che celebravano le imprese dell'imperatore furono distrutti, così come numerose statue che lo raffiguravano.

      In molti tentarono di far cremare il corpo di Tiberio a Miseno, ma fu comunque possibile trasportarlo a Roma, dove fu cremato nel Campo Marzio e sepolto, tra le ingiurie, nel Mausoleo di Augusto il 4 aprile, presidiato dai pretoriani.

      Mentre l'imperatore defunto riceveva queste modeste onoranze funebri il 29 marzo, Caligola era già stato acclamato princeps dal senato.


      RICOSTRUZIONE


      VILLA JOVIS

      Villa Jovis, o Villa di Giove, è collocata sulla vetta del monte Tiberio, nella parte orientale dell'isola di Capri. Da qui l'imperatore Tiberio Claudio Nerone governò l'impero per oltre undici anni.

      Durante il suo soggiorno sull'isola di Capri, nonostante il suo precario stato di salute, Tiberio ordinò la costruzione di altri undici palazzi intorno ad essa.

      Nella stagione estiva si trasferiva sulla costa, tra le costruzioni oggi note come "bagni di Tiberio" o "palazzo a mare", dove l'imperatore amava fare il bagno. Gli architetti che progettarono la sua villa per rendere il soggiorno dell'imperatore confortevole, si trovarono di fronte al problema dell'approvvigionamento idrico.

      L'acqua, se abbondava nei bassi rilievi dell'isola, scarseggiava nei livelli superiori. 

      COME DOVEVA APPARIRE I EPOCA IMPERIALE

      Così con un ardito e geniale ingegneria vennero costruite due o più cisterne di enorme portata disposte nelle fondamenta della Villa stessa. 

      Con la raccolta di acqua piovana nelle cisterne della villa, fu resa possibile l'erogazione di acqua pura e potabile anche nei secoli successivi fino all'attuale centro storico.

      Questa reggia fu un po' a metà tra una ricca domus e una fortezza romana. 
      Al centro si trovavano le cisterne per la raccolta delle acque piovane, risorsa fondamentale su un'isola priva di sorgenti, usate sia come acqua potabile che come riserva destinata alle terme.

      Sul versante ovest della villa trovava posto il quartiere servile e a nord l'alloggio dell'imperatore e dei suoi collaboratori più fidati, come l'astrologo Trasillo. 
      Il versante est, invece, era occupato dalla sala del trono.

      L'antico faro utilizzato per le segnalazioni con la terraferma e le osservazioni astronomiche è crollato a causa di un terremoto pochi giorni dopo la morte di Tiberio.

      LA CHIESETTA CHE SI ERGE SULLE ROVINE
      DELLA VILLA
      Scoperta nel XVIII secolo durante il dominio di Carlo di Borbone, Villa Jovis è ben conservata anche se numerosi reperti sono andati persi. 

      Altri, invece, sono conservati nelle sale del Museo Archeologico di Napoli e nella Chiesa di Santo Stefano a Capri. 

      Alcuni elementi delle paste vitree di colore rosso ed azzurro sono state utilizzate per la mitria e la collana di San Costanzo, il patrono dell'Isola di Capri.

      Solo nel 1932 fu messo in atto un lavoro di recupero capace di valorizzare realmente le rovine di Villa Jovis. 

      L'opera di restauro fu diretta dall'archeologo Amadeo Maiuri, all'epoca Soprintendente alle Antichità della Campania e Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e permisero di liberare il sito dalle macerie che si erano accumulate nel corso degli anni. 

      Oggi l'ultimo tratto di strada che permette di raggiungere Villa Jovis è dedicato proprio all'archeologo napoletano che ha permesso di riportare alla luce una delle principali dimore di Tiberio a Capri.

      Tuttavia si è creduto bene di appiccicarvi sopra una chiesa cattolica e una statua della Madonna, nonchè un convento, per quel brutto vizio dei cattolici di cancellare ogni traccia della storia antecedente al Cristo.

      LUCIO ACCIO

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      Nome: Accius Lucius
      Nascita: Pesaro 170 a.c.
      Morte: Roma 84 a.c.
      Professione: Poeta tragico


      LE ORIGINI

      Nacque durante la repubblica da genitori liberti, e passò la vita a Roma, rispettato e onorato, fino a tarda vecchiaia. Era di piccola statura, ma arguto, fiero e superbo, ben cosciente del valore della sua arte.
      Suo amico e protettore fu D. Giunio Bruto Callaico, la cui stirpe Accio celebrè nella praetexta Brutus, e, quando il generale dopo le vittorie in Spagna dedicò il tempio di Marte nel Campo Marzio (Plin., Nat. hist., xxxvi, 26), Accio ne compose l'iscrizione dedicatoria in versi saturnî (Schol. Bob. in Cic., Arch., xxvii, p. 359).
      L'unica immagine che conosciamo è raffigurata nel rovescio di alcuni contorniati del tardo impero, nel cui dritto appare il busto di Orazio (v. vol. v, pag. 708); in essa Accio è seduto e ammantato, nello schema del filosofo e letterato greco, però con volto giovanile sbarbato, caratteristica romana e non greca. 
      Visse agiato e onorato, apprezzato ancora di più dai posteri. Forse per questo con l'avvento del cristianesimo le sue opere vennero in gran parte distrutte.


      LE OPERE
      Fu soprattutto poeta tragico e scrisse almeno quarantacinque tragedie, di cui restano solo settecento versi. e 45 titoli. Esse ci sono state tramandate per lo più da Nonio, da Cicerone, da Varrone, oltre che da grammatici e da scoliasti.
      Tutti i grandi cicli leggendari vi sono rappresentati. 
      ciclo troiano:
      - Achilles, Myrmidones, Antenoridae, Deiphobus, Armorum iudicium, Astyanax, Epinausimache, Eurysaces, Neoptolemus, Troades, Hecuba,Nyctegresia, Philocteta, Telephus;
      ciclo dei Pelopidi: 
      - Aegisthus,Clutemestra, Agamemnonidae, Erigona, Atreus, Chrysippus, Oenomaus,Pelopidae
      ciclo tebano: 
      - Alcmeo, Alphesiboea, Antigona, Epigoni,Phoenissae, Thebais; 
      ciclo tessalo:
      - Athamas, Hellenes; 
      ciclo Argonauti:
      - Medea e Phinidae; 
      ciclo di Meleagro: 
      - Diomedes, Melanippus, Meleager; 
      Da altre leggende:
      - Minos sive Minotaurus, Prometheus, Alcestis, Stasiastae vel Tropaeum Liberi, Amphitruo, Persidae, Tereus, Eriphyla, Bacchae, Andromeda. 
      Pragmatica: 
      in settenarî trocaici, che trattavano di poesia e di rappresentazione drammatica; 
      Didascalica:
      - una storia della poesia greca e romana con particolare riferimento alla drammatica, in almeno nove libri, scritta con mescolanza di prosa e di versi;
      I Pretesta:
      Brutus e Decius (seu Aeneadae), in cui si tratta di quel D. Giunio Bruto che fu console l'anno 138 e trionfò dei Galleci e dei Lusitani. Il Brutus rappresentava la cacciata di Tarquinio il Superbo e la fondazione della repubblica: i due frammenti più lunghi narrano un sogno del re e l'interpretazione datane dagl'indovini. 
      II Prestesta: 
      Aeneadae sive Decius, dove si celebrava P. Decio Mure, che nella battaglia presso Sentinum dell'anno 295 si sacrificò per la patria. Di queste due tragedie ci son rimasti circa quaranta versi.I frammenti rimasti sono poco estesi: il più lungo, di dodici versi, descrive la meraviglia d'un pastore che dalla vetta di un monte scorge la prima nave, quella degli Argonauti.
      Sotadica:
      forse di contenuto erotico; 
      Annales:
      un'operetta in metro sotadeo, in pratica in esametri, delle feste dell'anno, in almeno ventisette libri; 
      Parega

      Parerga: Detto anche Praxidica, forse un carme georgico in senarî giambici. 
      Di queste opere ci restano scarsi frammenti. 



      LO STILE

      Egli aveva uno stile chiaro, incisivo e sonoro, abile nella retorica in cui faceva largo uso di allitterazione (adlitterare, "allineare le lettere"), ripetizione di una lettera, o sillaba o suono in parole successive, per lo più ad inizio di parola.
      Fece uso anche della paronomasia, accostamento di due o più parole con suono molto simile e significato diverso, nonchè dell'antitesi e del parallelismo, per colpire l'idito e la fantasia degli spettatori. Alcune frasi hanno straordinario vigore, come "oderint dum metuant" (Che odino, purché temano, usata poi da Caligola) o "virtuti sis par, dispar fortunis patris" (Sii pari al valore dei padri, ma diverso nella fortuna).
      Coniò felicemente nuovi termini romani e con lui la tragedia romana raggiunse il suo acme. 
      Circa la metà delle tragedie di Accio deriva, quasi in egual misura, da Sofocle e da Euripide; ma anche Eschilo fu da lui imitato, come pure i poeti minori o dell'età ellenistica. 
      Accio trattò con molta libertà i suoi esemplari, come dimostra il confronto dei frammenti delle Bacchae e delle Phoenissae con i modelli euripidei. 
      Talvolta nella composizione d'una sola tragedia attinse da più poeti, contaminandoli alla maniera dei comici. Si occupò anche di questioni ortografiche, ad esempio scriveva due volte la vocale lunga,
      fuorché la i che indicava col dittongo ei, non accettava le lettere greche y e z, sostituiva nel corpo delle parole gg a ng, gc a nc(quindi aggulus non angulus, agceps non anceps): tutte innovazioni che non ebbero fortuna.



      DISSERO DI LUI

      - Cicerone lo chiamò gravis, ingeniosus, summus,
      - Orazio lo definì altus,
      - Ovidio animosi oris.
      - Vitruvio, Persio, Columella lo ricordano con molto onore.
      - Quintiliano diede a lui e a Pacuvio la palma della tragedia,
      - Velleio Patercolo scrisse:" in Accio circaque eum romana tragoedia est".
      - Lucilio: quare pro facie, pro statura Acciu' status (Libro xx).
      - Plinio (Nat. hist., xxxiv, 19) gli dedicò addirittura una statua nell'aedes delle Camene, forse dono votivo per una vittoria in un concorso per una tragedia.



      CAMPUS ESQUILINUS

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      Il Campo Esquilino era una zona locata sul Colle Esquilino, dove sorgevano belle e stravaganti domus insiema a terme e giardini, ma fu anche luogo di esecuzioni e le sepolture, anche se alla fine venne trasformato in un parco da Augusto.

      Trattavasi di una zona di terreno pianeggiante fuori le Mura Serviane e il doppio bastione dell'Agger, tra la Porta Querquetulana e la porta Collina.
      Quest'area è riferita in particolare alla parte del colle Esquilino che si trovava al di fuori del porta Esquilina durante la fine della Repubblica e l'ascesa dell'Impero.

      Anche se la sua posizione esatta non è nota, si sa però che il Campus Esquilinus era nei pressi di via Labicana, e comprendeva oggi Piazza Vittorio Emanuele e la zona a nord di esso.

      La parte del colle Esquilino, che conteneva il Campus Esquilinus era molto decorativa.

      La collina si era coperto di molti giardini eleganti, tra cui gli Horti Pallantiani, gli Horti Maecenatis e gli Horti Lamiani. 

      Durante il grande incendio romana del 64 dc, la residenza imperiale sul Palatino, la Domus Transitoria, andò a fuoco.

      L'imperatore Nerone, che non vi aveva neppure soggiornato, colse l'occasione per costruire la Domus Aurea, che completò nel 68 dc e che si estendeva dal Palatino al colle Esquilino.

      A causa della popolarità del colle Esquilino, il Flavi ha deciso di costruire le Terme di Tito a destra per la Domus Aurea.

      Più tardi, 104-109 dc, le Terme ancora più elaborate di Traiano furono costruite dall'architetto Apollodoro in cima alla collina.

      Questi bagni pubblici non sono stati utilizzati solo come luogo per fare il bagno, ma anche come luogo di aggregazione sociale.
      I bagni contenevano gran parte della Domus Aurea, e insieme sono stati i più grandi strutture romane costruite all'epoca.

      L'uso principale del Campus Esquilinus era stato quello di luogo di sepoltura. Editto di un pretore vietava la cremazione dei corpi e lo scarico di letame o di carcasse all'interno dell'area del Campus Esquilinus.

      Le carcasse di cui l'editto erano molto probabilmente da animali utilizzati per i carri, giochi vari romani, o bestie semplicemente selvatici. A causa di queste regole, il Campus Esquilinus divenne un luogo per le sepolture umane.

      Il Campus Esquilinus conteneva parte della necropoli di anticipo Roma, che era principalmente un luogo di sepoltura per i poveri, ma è stato un luogo di sepoltura anche per i romani più ricchi pure.
      Vi si compivano pure le esecuzioni, finchè l'imperatore Augusto prese il controllo del Campus e ne fece un parco.

      Facevano parte del Campus Esquilinus:



      L'ARA DI MERCURIO

      La sua locazione corrisponde ora alle cantine del palazzo al civico 8 di via di S. Martino ai Monti, un'ara di marmo su un alto podio sistemato su una piattaforma di blocchi di tufo.

      Dall'iscrizione sappiamo che l'ara, (in origine sosteneva una statua) era stata eretta nel 10 a.c. in corrispondenza di un incrocio stradale, tradizione diffusa a Roma fin dall'epoca regia e collegata con una festività annuale di origine agricola, durante la quale si facevano sacrifici in onore delle divinità (Lari) che sorvegliavano i confini dei poderi.

      In città tali feste si svolgevano principalmente davanti alle are poste agli incroci delle strade che dividevano i quartieri (vici).

      La festività, soppressa più volte, venne ripresa da Augusto, al quale si deve la costruzione dì questo altare.

      L'ara è dedicata a Mercurio, divinità che presiedeva alle attività commerciali in generale.



      L'ARCO DI GALLIENO

      Posto tra la chiesa di S. Vito e un palazzo moderno posto sul lato opposto della strada, costruito presso l'antica Porta Esquilina del recinto delle mura repubblicane del IV secolo ac., dalla quale usciva il clivo Suburano, strada che traversava la parte orientale della città.

      Costruito all'epoca di Augusto, l'arco venne costruito in sostituzione dell'antica porta poichè le mura repubblicane non servivano più. In origine era a tre fornici divisi da paraste, che terminavano con capitelli corinzi e poggiavano su basi sagomate.

      Il fornice centrale era più alto e più ampio dei laterali ed era sormontato da un attico che terminava con un cornicione. Dall'iscrizione ancora leggibile sull'epistilio, si è a conoscenza che nel III secolo l'arco fu restaurato e dedicato all'imperatore Gallieno (253-268 d.c).



      GLI HORTI DI MECENATE

      Orazio ci informa che il Campus Esquilino prima della bonifica fatta da Mecenate era zona di sepolture e trasformata dallo stesso Mecenate in una villa tra il 42 e il 35 a.c.: la necropoli venne in parte eliminata interrando alcune zone e dando il via al la trasformazione dell'Esquilino in un pianeggiante altopiano, utilizzato come luogo di residenza, mentre le aree sepolcrali verranno confinate ai margini delle grandi strade che lo attraversavano.

      Tutta quest'area era ricca di verde poichè dall'Esquilino passavano la maggior parte degli acquedotti che entravano a Roma, mettendo così a disposizione una notevole quantità d'acqua per il mantenimento dei giardini.

      Negli horti, lasciati alla sua morte da Mecenate in eredità ad Augusto, si andò a ritirare Tiberio al ritorno dal suo esilio di Rodi.

      Grazie a Filone di Alessandria, venuto a Roma nel 38 d.c. alla guida di un'ambasceria ebraica presso Caligola, ci ha lasciato una precisa descrizione dei giardini imperiali sull'Esquilino: gli horti di Mecenate e quelli Lamiani erano limitrofi, vicini alla città, ed erano ambedue di proprietà dell'imperatore, provvisti di sale a due piani, finestre schermate con lastre di marmi preziosi e di ogni altro lusso.

      Gli horti di Mecenate passarono poi in proprietà del retore Frontone alla metà del II secolo.



      AUDITORIUM DI MECENATE

      L'Auditorio di Mecenate è quanto resta oggi di un grande complesso residenziale, demolito poco dopo la scoperta del secolo XIX, datato al seconda metà del 1 secolo a.c.

      Il ritrovamento di un tratto di conduttura con impresso il nome di M. Cornelio Frontone, che dalle fonti si è a conoscenza che doveva abitare vicino Mecenate e la tecnica edilizia utilizzata per la costruzione dell'edificio (opera reticolata di tufo di epoca tardo-repubblicana) vanno a confermare questa ipotesi.

      L'aula absidata (metri 10,5 per 24,5 circa), venne incassata per alcuni metri entro la pendice collinare, a cavallo dell'antico percorso delle mura urbane, in blocchi squadrati di tufo, ancora oggi visibili all'interno dell'ambiente.

      Il dislivello tra l'esterno e il pavimento dell'aula sono raccordati mediante la rampa inclinata attualmente percorribile.

      L'interno visibile oggi è il risultato di diverse fasi edilizie e decorative che hanno in parte cancellato l'originaria forma dell'ambiente.

      L'abside è in parte occupata da una gradinata rivestita in marmo, che sembra connessa a un sottostante sistema di canalizzazioni mediante una serie di fori ancora oggi visibili.
      La destinazione dell'ambiente sembra fosse per banchetti in occasione dei quali c'erano spettacoli; era dunque un triclinio legato alla ricca residenza.

      Le pareti appaiono rivestite in marmo fino ad una certa altezza, oltre la quale il rivestimento è di intonaco dipinto di rosso e sono presenti delle nicchie.



      TROFEI DI MARIO

      Situata all'estremità settentrionale di piazza Vittorio, in laterizio, è la parte rimanente di una grande fontana, fatta costruire da Alessandro Severo (222-235 d.c.) e alimentata da un ramo dell'acqua Claudia.

      Dalle parti superstiti e dalle rappresentazioni in alcune monete del 226 d.c., è stato possibile ricostruire la struttura, che si elevava per tre piani e terminava con un attico dove erano una quadriga e alcune statue mentre gli ambienti e le canalizzazioni per la raccolta e la distribuzione dell'acqua erano posti nella parte centrale.

       Nella parte bassa della fontana c'erano una serie di nicchie rettangolari e semicircolari contenenti varie statue e una grande vasca, nella quale veniva raccolta l'acqua proveniente da alcune aperture poste nella parte superiore della fontana, mentre all'interno di due archi, vi erano i cosiddetti «Trofei di Mario», monumentali trofei marmorei, poi collocati nel 1590 sulla balaustra del Campidoglio.

      I «Trofei di Mario», che durante il Medioevo erano creduti dell'epoca di Mario, sono in realtà di età domizianea e si riferiscono alle vittorie di Domiziano avvenute nell'89 d.c. sui Catti e sui Daci.



      TEMPIO DI MINERVA MEDICA

      Situati in via Giolitti presso i binari della ferrovia, sono i resti di un complesso più ampio, composto da un'aula coperta a cupola, a pianta dodecagonale, con ampie nicchie semicircolari sui lati.

      Sulle pareti sono presenti dieci grandi finestre, che già in antico hanno costretto a realizzare alcuni pilastri esterni per sostenere la struttura.

       Sul lato settentrionale dell'aula era situato l'ingresso, preceduto da un atrio, mentre altri ambienti di forma semicircolare (di cui rimane ben poco) erano addossati all'esterno dell'aula, contenendo le spinte delle alte pareti.

       Il monumentale edificio, databile al IV secolo d.c., viene generalmente identificato con un ninfeo degli Horti Liciniani, la grande villa che si estendeva in questa parte dell'Esquilino e che prendeva nome da Licinio Gallieno (260-268 d.c.).

       Si trattava di una proprietà di grandi dimensioni, in grado di accogliere l'intera corte quando l'imperatore si trasferiva nella villa.
      Negli scavi effettuati, sono state scoperte numerose sculture, tra cui due statue di magistrati conservate nei Musei Capitolini, e una di Minerva, che ha dato poi il nome all'edificio.



      IPOGEO DEGLI AURELI

      Situato tra viale Manzoni e via Luzzatti, è un complesso funerario del III secolo d.c.; un ipogeo, rinvenuto nel 1919, composto da un ambiente superiore e da due stanze sotterranee. Attraverso la porta antica si entra in un vestibolo e per mezzo di una scala si accede all'ipogeo.

      Il settore superiore è costituito da una sala con fosse per inumazione nel pavimento. Le pareti sono affrescate con scene tratte dal Vecchio Testamento e con figure di filosofi.

      La parte sotterranea è formata da due camere scavate nel tufo; nella prima, situata a sinistra della scala d'accesso, è visibile un pavimento a mosaico con i nomi delle persone che furono sepolti nell'ipogeo.

      Le pareti sono affrescate con le figure dei dodici apostoli, con scene di banchetto simbolico e di trionfo, con rappresentazioni di città, ecc.

      Il soffitto, diviso in riquadri, è decorato con figure di uomini togati e animali mitologici, mentre nel pannello centrale è raffigurato il Buon Pastore.

       Nella seconda stanza la decorazione delle pareti è costituita da riquadri contenenti figure isolate che recano tra le mani un'asta e un rotolo.

      Nel tondo della volta si può notare la figura di un vecchio in atto di compiere esorcismi nei confronti di una donna, pratica decisamente cristiana.



      SEPOLCRETO DI VIA STATILIA

      L'attuale via Statilia, in prossimità dell'incrocio con la via di S. Croce, corrispondeva all'antica via Caelimontana.

      Su questa strada erano situati numerosi sepolcreti, tra cui un complesso di quattro sepolcri allineati scoperto all'inizio del secolo, sul lato destro della strada in direzione di Porta Maggiore, all'interno di un'area recintata.

      Il primo era del liberto Publio Quinzio (faceva il libraio), della moglie e della concubina, come recita l'iscrizione relativa, del 100 a.c.

      Il monumento è costituito da un prospetto in blocchi tufacei, nel quale si apre una piccola porta inquadrata da due scudi scolpiti, di forma rotonda, che immette in un piccolo vano in parte scavato nella roccia.

      Il secondo sepolcro, riferibile a sei diversi liberti della famiglia Clodia, Marcia e Annia, e databile all'inizio del 1 secolo a.c., è costituito da due celle, alle quali si accede mediante porticine che si aprono esternamente su un prospetto marcato da un basamento in tufo con i ritratti dei defunti scolpiti.

       Il terzo sepolcro notevolmente rovinato è del tipo a colombario. Il quarto monumento funerario è il più recente di tutti (metà del 1 secolo a.c.) e presenta una forma ad ara.

      Era di proprietà di due Auli Caesonii e di una certa Telgennia e presenta anche un ampliamento molto probabilmente successivo.

      CULTO DELLA MALA FORTUNA

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      Seneca:
      "Ecce spectaculum dignum, ad quod respiciat intentus operi suo Deus. Ecce par Deo dignum, vir fortis cum mala fortuna compositus"
      (Ecco uno spettacolo degno, che rispecchia l'opera del suo Dio. Ecco una cosa degna di un Dio, un uomo coraggioso con mala fortuna)

      DEA FEBRUIS
      Si attribuisce l'introduzione del culto della Dea Fortuna ad Anco Marzio e più specialmente a Servio Tullio che, salito al trono grazie a lei, avrebbe consacrato ad essa in Roma una ventina tra templi e sacelli, con nomi e forme diverse, ma tutte derivanti dalla Fortuna Primigenia, quella da cui scaturiva ogni cosa divina e umana, determinando a ciascuno il suo destino fin dalla nascita. Insomma una Ananche o Fatum.

      Non di rado la Dea venne assimilata alla Dea Februis, quella che dette il nome al mese di febbraio, in quanto Dea della Febbre poteva scacciare la febbre come la Dea della Mala Fortuna poteva scacciare la sfortuna.

      Il Tempio della Mala Fortuna fu eretto sull'Esquilino,
      "non perchè ella giovasse, ma perchè ella non nuocesse, alla statua della quale si poneva in una mano il corno della dovitia, e nell'altra un timone doppio. 
      Alcuni la dipingevano a guisa di femina simigliante a una infuriata, e matta, e cieca, sopra uno sasso volubile, perciocchè senza elettione alcuna concede la prosperità, le ricchezze a tristi, a coloro che non le meritano.
      Altri la dipingevano senza piedi, solamente con le mani, e con l'ale.
      Dimandato Apelle perchè egli a sedere avesse dipinta la Fortuna rispose: ella non ha ancora imparato a stare in piedi.


      MOGGIO ROMANO
      Esistente nell'attuale recinto di Villa Massimo all'Esquilino. Si sa che quando Sisto V vi edificò la sua villa, esisteva in loco un tempio e delle antiche terme di cui un nicchione venne incorporato nella villa, mentre il resto, e quindi il tempio, venne distrutto, forse prelevandone marmi e colonne quant'altro.

      Cicerone testimonia che il tempio della Mala Fortuna Stesse sull'Esquilino in "De Natura Deos".
      "Aram Malae Fortunae in Exquilie videmus" e pure " Ara vetus stat in Palatio et altera Exquilie Malae Fortuna deiteitetaeque (?).

      CHIESA DI SANTA MARIA MAGGIORE - in questo sito li antiquari posero il Tempio della Mala Fortuna verso quella parte dell'Esquilie che confina col Viminale.

      Qualcuno la chiama anche Fortuna Averrunca, ovvero colei che allontana le sciagure, ma altri le considerano due diverse divinità.

      Gli attributi di Fortuna furono: il timone, il globo terrestre (molti pensavano all'epoca che la terra fosse tonda in base alle scoperte greche), la ruota, la cornucopia, il modius (cioè il moggio romano per misurare il grano), la prua di nave e talvolta anche il caduceo.

      Il che la riferisce alla Dea Natura, alla Dea del mare, delle messi (il moggio) e alla salute (il caduceo).

      FORTUNA
      Sembra che la Mala Fortuna, la Dea che doveva essere scongiurata, avesse più spesso la cornucopia (ma vuota il che la ricollega alla Luna Nera), il timone, perchè è lei che guida il destino di ognuno (il che non conferma il destino segnato alla nascita, anche perchè sarebbe stato inutile scongiurarla), e talvolta anche una lancia, il che la riporta a Dea della Guerra e della Morte.

      Il fatto che fosse un'antica Dea italica poi assorbita in varie forme, denuncia una primitiva triplice Dea, colei che dà la Nascita, la Crescita e la Morte.

      Mentre è evidente che la Dea della Natura corrisponde a queste c'è pure una Dea Fatale che rispecchia le tre in qualità di Dea Fortuna, non dimenticando che esisteva una Fors Fortuna, venerata in un sacello sulla riva destra del Tevere, simbolo di Forza verginale.

      Non per nulla di una donna forte si dice Virago, derivante dalla parola Vir, forza, ma Virgo deriva dalla stessa parola. La virgo non era una debole femminuccia, ai tempi in cui le donne erano forti e libere.

      SCOPERTA NAVE ROMANA

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      Purtroppo se non c'è una spiata o se non ci si arriva per caso in Italia non si scopre nulla, nel senso che le ricerche sul territorio non si fanno.

      Anzi quando si deve fare una strada, non parliamo poi di fondazioni, ma anche delle semplici rotaie, alle ditte appaltate prende un colpo: "Vuoi vedere che scopriamo una costruzione romana?"

      Per i palazzinari poi è un vero incubo, e non si sa quanti palazzi edificati a Roma nascondono edifici o mosaici romani prontamente abbattuti e coperti per il terrore che un intervento delle belle arti possa interrompere i lavori.

      All'estero ne sarebbero contentissimi, in Italia è una disgrazia, ormai i posti scavati e ricoperti sono tantissimi, meta solo di tombaroli che scavano per rivendere all'estero i beni della nostra bella Italia.

      E non solo il suolo ma pure il fondo marino, perchè con tanti secoli di traffico marino (e pure fluviale) il fondo pullula di imbarcazioni affondate. Nessuno si propone di dare un'occhiata se non l'attrezzatissimo stuolo di "tombaroli" marini. E c'è di più, la notizia del ritrovamento di una nave romana non fa nemmeno notizia. Oggi è stata ritrovata, i giornalisti sono accorsi ma il tele giornale l'hanno ignorata totalmente.

      E' perchè di patrimonio antico ne abbiamo tanto, come dicono tanti inconsapevoli? No, è perchè la scuola e la cultura nel nostro bellissimo paese stanno morendo.



      CORRIERETV
      10 agosto 2013



      SCOPERTA NAVE ROMANA SUI FONDALI DI IMPERIA

      Relitto individuato dai carabinieri del centro subacqueo
      sulle tracce di un gruppo di «tombaroli del mare».

      Il relitto di una nave romana del II sec. a.c. è stato individuato dai carabinieri del centro subacqueo della Liguria al largo di Imperia, a 50 m di profondità. 

      Alla scoperta gli investigatori di Alassio sono arrivati seguendo le tracce di un'organizzazione di «tombaroli del mare» che fra Albenga e Imperia hanno trafugato negli anni anfore e reperti archeologici.

      Una squadra di dieci subacquei ha effettuato diverse immersioni con l'aiuto dell'eco-sonar prima di individuare il punto esatto del relitto che è apparso subito di grande interesse.

      Almeno una cinquantina di anfore in buono stato sono visibili nella parte in superficie della nave oneraria destinata al trasporto di vino o olio, solo uno scavo marino potrà portare alla luce quello che è rimasto custodito nel ventre dell'imbarcazione per oltre duemila anni.

      Il ritrovamento è giudicato dalla Sovrintendenza ai Beni Archeologici uno dei più importanti mai avvenuti in Liguria. 

      L'area marina è stata interdetta all'ancoraggio, alla pesca e all'immersione dalla Capitaneria del porto, come prima forma di tutela. Il relitto si trova a una cinquantina di metri di profondità, su fondo sabbioso.

      DIRIBITORIUM

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      L'USO

      Il Diribitorium era uno spazio rettangolare porticato costruito in Campo Marzio, dove venivano contati i voti lasciati nell'adiacente Saepta Iulia, ma veniva anche usato per distribuire soldi o grano, o olio, o comunque provviste al popolo, in occasioni di grandi cerimonie come la salita al trono di un imperatore, o in casi di carestia, ma pure per consegnare la paga ai soldati, o per arruolarli e così via. (Plinio: quae diribitorio superfuerat).

      M. Agrippa iniziò l'edificazione del Diribitorium probabilmente nel 20 a.c. quando ordinò tutte le altre costruzioni nel Campo Marzio, ma venne completato da Augusto nel 7 a.c., come narra Diodoro Cassio. Il nome dell'edificio deriva da quello delle elezioni ufficiali, le diribitores, il che ne rileva l'uso primario.

      Ovilia era lo spazio chiuso entro il Diribitorium, originariamente diviso da barriere di legno, in corridoi e sezioni, corrispondenti al numero di curie, tribù o centurie delle differenti assemblee, e attraverso queste passava il popolo per depositare i voti su un ponticello o piattaforma rialzata collocati di lato. Si votava lasciando cadere in una cista delle piccole tavolette coperte di cera col nome che si desiderava eleggere inciso da uno stilo.



      LA COLLOCAZIONE

      Unito al portico sud della Sæpta Iulia, il Diribitorium si presentava come un portico rettangolare di cui, grazie alla pianta severiana, le posizioni delle pareti est ed ovest possono essere oggi ricostruite a tavolino.

      Parti delle pareti sud del Diribitorium furono scoperte nel XIX sec.durante gli scavi sotto Corso Vittorio Emanuele II, vicino a Piazza del Gesù; le pareti in opus quadratum risalgono all'era di Augusto e vennero rintracciati lastricati in travertino. Tracce simili furono rinvenute sulla parete nord sotto la chiesa delle SS. Stimmate di S. Francesco.

      Secondo altri studiosi, sarebbe difficile trovare una locazione, accanto alla Septa, grande come descritta, se non a sud est, sotto la Chiesa del Gesù, dove comunque non sono mai state rinvenute tracce di antichi edifici.

      Per questo, nonostante Cassio Diodoro le menzioni insieme, Hülsen ha sviluppato una teoria per cui il Diribitorium era il piano superiore della Septa. In effetti, le mura erano straordinariamente massicce per una struttura ad un solo piano. Però, aggiungiamo noi, Cassius Dio sostiene che l'edificio restò senza tetto, perchè il magnifico tetto precedente non potè più essere ricostruito. Se fosse stato il piano superiore della Septa avrebbe dovuto essere ricostruito in ogni caso, perchè la Septa, in qualità di piano inferiore avrebbe avuto come soffitto un solaio e non un tetto.



      DESCRIZIONE

      Il Diribitorium era la più larga costruzione a tetto unico nella Roma augustana, con travi in legno di larice lunghi 100 piedi romani (quasi 30 m) e un piede e mezzo di spessore (quasi mezzo metro); queste capriate erano una tale meraviglia che un trave di esso che non era servito, veniva conservato nella Saepta e mostrato come una come una curiosità ( Cassio Dio. e Plinio).

      PIANTA DEL DIRIBITORIUM
      Il Diribitorium confinava a nord e a ovest con la Saepta, era molto più estesa ad est, e rastremata verso l'angolo di nord est (Torelli). L'entrata doveva essere nella facciata ovest, che, almeno nel periodo severiano, era ornata da una fila di larghe colonne che conducevano all'Hecatostylum. A nord dove il Diribitorium confinava con la Saepta, si snodava un lungo corridoio; le due costruzioni comunicavano sicuramente, ma la forma delle entrate nella piazza dei Saepta resta incerta.
      Caligola fece collocare delle panche nel Diribitorium usandolo al posto del teatro quando faceva molto caldo (Cass. Dio)

      Fu da questo tetto che Claudio scorse un grande fuoco sull'Aemiliana (Svetonio).
      Il tetto subì gravi danni nell'80 d.c., quando scoppiò l'incendio che devastò Roma (Diodoro Cassio) e da allora il Diribitorium rimase per lungo tempo a cielo aperto, finchè venne ricostruito da Tito Vespasiano.

       
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      PORTA NAEVIA

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      LA FRECCIA IDENTIFICA LA POSIZIONE DELLA PORTA NAEVIA
      ALL'ANGOLO DELLE TERME DI CARACALLA

      La Porta Naevia era una delle porte nelle Mura repubblicane di Roma. Le notizie che la riguardano sono scarse. Ora scomparsa, si trovava sul cosiddetto Piccolo Aventino, alle spalle delle Terme di Caracalla, all'incirca a metà del percorso delle mura tra la porta Capena e la porta Raudusculana, probabilmente in corrispondenza dell'attuale largo Fioritto, sebbene non siano stati rinvenuti resti archeologici che possano confermarlo.

      Dalla Porta Naevia si dipartiva la strada per Ardea, l'Ardeatina. lunga 28 km, corrispondenti a 25 miglia romane. Il suo nome, sicuramente connesso a quello della gens Naevia, è citato da Livio nel 508 a.c., e deve quindi appartenere alla cinta muraria più antica, cioè la Serviana.

      DENARIO RAFFIGURANTE LA GENS NAEVIA
      Secondo Festo, il prenome Gneo originariamente si riferiva ad una voglia, che era naevus in latino classico. Questa etimologia è generalmente accettata dagli studiosi moderni. Nel suo trattato "Origin of Roman praenomina", Chase cita le Gnaivos come termine arcaico antecedente a Naevius. Tuttavia, come con altri praenomina, Gneo era diventato un nome di famiglia, indipendentemente dagli angiomi dei bimbi. Dalla parola Naevus o Gnaeus deriva il termine italiano neo.

      Sembra che i Naevii Balbi fossero di origine fenicia stabilitisi nei tempi antichi in Spagna a Gades, dove erano diventati famosi per la loro ricchezza. Non essendo romani erano plebei, e non vengono menzionati fino alla II Guerra Punica, (218 - 202 a.c.), quando uno dei suoi membri, Q. Naevius Matho, fu nominato pretore ma nessuno dei suoi membri ottenne il consolato durante la repubblica, fino al 30 d.c., quando L. Naevius Surdinus, ordinato console, fece rifiorire la fama e l'onore della sua gens. I principali nomi sotto la repubblica furono Balbus e Matho, con i cognomi Crista, Pollio, Turpio, Balbus, Capella, Surdinus. (Eckhel, vol. v. p. 259.) C. Nevio Balbo, del monetario per il 80 a.c., era un sostenitore di Silla.

      Della porta Naevia si trova una sola citazione in Livio, II 11, una in Varrone, LL V.163 , che ne fa derivare il nome dalla sua posizione ai margini o all'interno dei "boschi Nevii", o "Nemora Nevii", il che fa nuovamente pensare al nome dei Nevii che evidentemente avevano vasti possedimenti in zona, e una terza nei Cataloghi delle Regiones in cui Augusto aveva suddiviso la città, nei quali si precisa come la porta fosse raggiungibile dal vicus portae Naeviae, per proseguire poi in quello che doveva essere l'antico tracciato iniziale della via Ardeatina.

      Dalla base dei vicomagistri è possibile ricostruire parte della viabilità interna. In direzione delle porte sono attestati, un vicus portae Naeviae, ad andamento rettilineo, e un vicus portae Raudusculanae, entrambi si distaccano dal vicus Piscinae Publicae che attraversa la valle tra Aventino Maggiore e Minore. Il vicus Altus è localizzato a seguito di scavi, a nord dell’attuale via di Santa Sabina il cui percorso ricalcherebbe quello del vicus Armilustri o, secondo un’ipotesi recente, del clivus Publicius, altrimenti ritenuto corrispondente all’attuale via di Santa Prisca.

      Il punto dove l'antica strada sembra traversare il confine delle fortificazioni serviane è a est delle pendici dell'Aventino, tra S. Saba e S. Balbina, un poco più a sud della chiesa di S. Balbina (Jord. I.1.233; HJ 185; Merlin 119‑121; Mitt. 1894, 327; BC 1914, 81‑82).

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