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AQUA TEPULA

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L'acquedotto venne costruito nel 125-6 ac., dai censori G. Servilio Cepione e L. Cassio Longino. (Plin. NH XXXVI.121 dice erroneamente che è stato riparato da Q. Marcius Rex, Frontino, de aquis I.4, 8, 9, 18, 19, II.67-69, 82, 125; Non app..; pol. Silv. 545, 546), e venne restaurato da Augusto nel 11- 4 ac.

Questo acquedotto venne introdotto al fine di rifornire il Campidoglio, con un percorso ad alto livello, simile a quello della Marcia.
In realtà entrò a Roma in cima alla Marcia ed è stato il più alto degli acquedotti, permettendo così di servire le regioni di maggiore elevazione.

PASSAGGI DI TEPULA, MARCIA E JULIA ALLA STAZIONE TERMINI
Come indicato dal suo nome l'acquedotto consegnato acqua 'tiepida' e quindi non era così apprezzato come gli altri acquedotti, in particolare l'Aqua Marcia.
La sua temperatura la rendeva sgradevole per cui venne utilizzata solo per scopi industriali.

La Tepula, passando per 14 'Castella', consegnava acqua a quattro regioni, Templum Pacis, Esquiliae, Alta Semita, e via Lata.

Tre quarti delle sue acque andavano ai cittadini privati, per fontane e canali ​​e il 15% fu assegnato a Publicis usibus. 
Il suo scopo fu dunque quello di integrare le altre linee, come la Marcia, che ha fornito l'acqua ai quartieri orientali della città.

Le sue sorgenti erano locate a "due miglia a destra del decimo miglio della via Latina", e doveva il suo nome ai 16-17 gradi dell'acqua alle sorgenti, quindi tiepida, situate nella zona vulcanica dei Colli Albani, al X miglio della via Latina, tra gli odierni comuni di Grottaferrata e Marino.

Queste acque sono probabilmente identificate con quelle note oggi col nome di “Pantanella” e ”Acqua Preziosa”.

AQUA TEPULA SU AQUA MARCIA
L'Acqua Preziosa, esiste ancora (PBS V.222), ma i resti del suo canale originale non sono mai stati rinvenuti. Frontino comunque non la riteneva idonea al consumo umano.

Il suo terminale originario sembra fosse vicino all'antica Porta Viminalis che si trovava nelle Mura Serviane, in realtà muro repubblicano, vicino ala stazione ferroviaria centrale di Roma moderna, chiamata appunto Termini da Terminus, il capolinea dell'acquedotto. In realtà nome di un antico Dio laziale.

Ci sono alcuni resti del canale, in particolare a Roma Vecchia e Tor Fiscale, dentro Roma, il canale può essere visto a Porta Maggiore e nell'arco augusteo sopra la Via Tiburtina, a Porta S. Lorenzo.

Fino all’epoca augustea l’acquedotto scorreva lungo un tragitto completamente sotterraneo, servendosi anche delle strutture dell’acquedotto dell'Aqua Marcia, del quale poi utilizzò in parte anche le arcuazioni esterne.

La lunghezza complessiva raggiungeva quasi le 12 miglia romane, circa 18 km, più della metà dei quali (9.580 m) in comune con la Marcia.

Nel 33 ac. Agrippa, per freddare le sue acque, le mescolò con quella dell'Aqua Iulia, e da quel momento in poi il suo canale entrò in città sugli archi dell'Aqua Marcia. 

Sovrapposta alla Marcia, la Tepula era il più alto acquedotto, e quindi in grado di fornire acqua sopra molte parti. Tuttavia, il costo della Marcia e la scarsa qualità delle acque non dettero un gran successo

L'acqua, miscelata in un bacino di compensazione, venne allora suddivisa in due linee separate all'altezza dell’attuale località Capannelle, dove si trovava una piscina limaria (bacino di decantazione). 

Correva, quindi, insieme all'Aqua Iulia, in un condotto distinto sopra gli archi dell’Aqua Marcia e giungeva in città Ad spem veterem, nei pressi di Porta Maggiore. 

Da qui in avanti il condotto sfruttava le mura aureliane fino a scavalcare la via Tiburtina su un arco che fu poi trasformato nella Porta Tiburtina. 

Il percorso superava la porta Viminale, dove oggi sorge la Stazione Termini, e terminava in prossimità della Porta Collina, dov'era il “castello” principale di distribuzione, nelle vicinanze dell’attuale via XX Settembre.

Dai tempi di Frontino il suo corso venne considerato a partire dal serbatoio dell'Aqua Iulia, dove riceveva 190 quinariae, quindi 2892 dalla Marcia, e 163 dalla Anio Novus agli horti Epaphroditiani, rendendo 445 quinariae in tutto, o 18.647 m3 in 24 ore, una quantità piuttosto scarsa per l'epoca.




SCAVI DI ANTICHITA' - Accademia dei Lincei 1880

"I piloni della Marcia-Tepula e Giulia posano sopra fondamento a sacco alto m. 2,30 sul piano della ferrovia, e solcato dalle impronte verticali degli sbadacci. 

Lo spiccato è di eccellente cortina, e misura m. 4,00 di larghezza, m. 4,70 di lunghezza, e m. 2 di altezza sino al piano di campagna moderno. 

E' probabile che la cortina ricopra e nasconda i vecchi piloni a bugna di sperone, e che appartenga ai noti restauri angustei dei quali parlano le epigrafi di porta s. Lorenzo. 
Il piano di campagna antico è inferiore al moderno di m. 2,30, e corrisponde al piano di risega del fondamento a sacco. 

Da un lato e dall'altro delle arenazioni si riconoscono traccie della zona di servitù, limitata dal muro reticolato. 

Fra questo muro ed i piloni il suolo è battuto ed imbrecciato con gli spurghi calcarei della Marcia, a modo di strada o di viottolo di campagna.

Questo viottolo doveva servire per uso esclusivo dei castellarii, degli aquarii e degli ingegneri addetti al servizio di manutenzione degli acquedotti.

Il taglio della ferrovia è venuto a cadere, per fortuna, sopra una coppia di cippi integrali di travertino. Essi misurano m. 1,44 di altezza, m. 0,50 di fronte, m. 0,25 di costa, e sono spianati di martellina nella parte emergente dal suolo, rustici e grezzi nel terzo inferiore. 
La iscrizione è rivolta dalla parte dei fornici

Lo spigolo posteriore dei cippi dista dallo spiccato dei piloni di m. 3,60 : lo spazio complessivo limitato dai cippi è dunque di m. 3,50 -[- 3,00 -f- 4,00 = 11,20, pari a piedi romani 38 ckca.
Presso il secondo cippo furon ritrovate sei monete di Augusto, una di Antonia (?) e una di Caligola." 

TROPAEUM TRAIANI (Romania)

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TROPAEUM RICOSTRUZIONE


IL CENOTAFIO

Per l'esercito dell'antica Roma, quando qualcuno moriva lontano da casa, sia stesse servendo nell'esercito che in mare, e non si poteva far tumulare il corpo riportandolo alla sua famiglia, veniva eretto un cenotafio come sede perpetua per la sua anima.

I suoi Lari venivano invocati tre volte invitandoli a entrare nel cenotafio.

Per esempio, quando Enea incontra l'amico deceduto Deiphobus negli Inferi, egli dice, “Poi io stesso sul Rhoetean eressi una cava tomba, e ad alta voce chiamai tre volte sul tuo spirito.   (Virgil, Aeneid6.505-506).”

Un impressionante cenotafio, alto circa 74 piedi, è il Tropaeum Traiani aa Adamclisi, in Romania.
Vi sono tre monumenti nel sito.

Il più antico è un santuario recanti i nomi di 3000 soldati che erano morti in battaglia, probabilmente la Legio XX Apollinaris che combattè nella campagna di M. Cornelius Nigrinus nell'86 dc.

I TROFEI SULL'APICE DEL MONUMENTO
Deve trattarsi di Marco Cornelio Nigrino Curiazio Materno (Marcus Cornelius Nigrinus Curiatius Maternus;  40 –  98) fu un valorosissimo pluridecorato legato e governatore dell'Impero romano, che si candidò alla successione dell'imperatore Nerva, ma al quale venne preferito Traiano.

Vicino vi è un tumulo funerario su cui giaceva una massa di soldati caduti.

Questi devono essere appartenuti ad un'altra unità, la Legio XXI Rapax, che fu sconfitta dai Dacians nel 92 dc.

Traiano vendicò la sconfitta nel 102 dc. nella battaglia di Tapae.

Quindi egli eresse un cenotafio che si pensa sia di Cornelius Fuscus, il comandante della Legione, di cui la tomba giace attualmente più a nord oltre il Danubio.

Traiano dedicò il Trofeum a Marte Ultore (vendicatore) e lo decorò con scene di battaglia ed immagini di Daci prigionieri.

54 metopes ornavano il trofeo, di cui 48 sono in un museo vicino, ed uno sta ad Istanbul.

 Di lato  vi è una ricostruzione del Tropaeum Traiani che venne eretto dal governo della Romania nel 1977.

Alle None (7 maggio) le tombe degli antenati venivano decorate con ghirlande di rose.

Con il loro rosso brillante, le rose offrivano alla morte come un gesto per farli rivivere, o almeno un ricordo di come erano stati quando erano vivi.

ADAMCLISI MUSEUM

Il nome al sito della città romana venne dato solo dopo la scoperta del monumento, e cioè Civitas Tropaenzium, perchè in realtà il nome della cittadina è sconosciuto, e di essa, almeno fino ad oggi, nulla è stato trovato o meglio reperito.

Di visibile infatti abbiamo solo le sue mura di pietra, si direbbe piuttosto imponenti.
Altrettanto avveniva per i caduti della legione, che come gli antenati, diventavano i protettori dei legionari.

Le rose rosse erano i fiori di Venere, ed erano un rimando ai Giardini di Venere dove gli spiriti della morte, le anime, venivano ospitate con i suoi piccoli, come piccoli Cupidi che vivevano nelle Isole Beate.

Così, offrendo rose ai Mani, si era sicuri di offrire un viaggio ai defunti nei Beati Giardini.
Non c'è dunque dubbio che le Rosalia avessero lo scopo di onorare i morti militari.

Gli stendardi venivano adornati con rose nello stesso modo come le tombe e i cenotafi.
Si suppone dunque che i romani portassero con sè i Lari della legione, che erano gli spiriti dei commilitoni morti in battaglia.

Questo spiegherebbe ulteriormente perché la perdita delle aquile veniva presa come una tragedia dai Romani.

TESTA DI MEDUSA
SUL CENOTAFIO
Infatti nel II sec. lo scrittore cristiano Tertulliano criticò molto questa venerazione delle insegne.
Le Rosalia comunque continuarono anche dopo che l'esercito romano si convertì al cristianesimo.

Qualcosa delle Rosalia rimane anche oggi nella parata dei colori degli eserciti moderni, dove vi sono decorazioni con nastri per commemorare la battaglia in cui una unità ha combattuto, così come per tutti gli uomini che hanno servito e sono morti con l'unità in passato.

La deposizione di una corona di rose sulla tomba del Milite Ignoto, il Memorial Day è un eco delle Rosalia svolte dalle legioni romane.

Il Memorial Day per ogni nazione e in ogni nazione è un'eco dei Rosalia un tempo festeggiate dalle legioni romane.

Fu infatti Roma la prima a dare un senso, un ordine, una scuola, una disciplina e una comunione di idee e di collaborazione alle unità dei combattenti.

Sopra tutto dette loro i valori della patria, delle fedeltà, dell'onore e del sacrificio per il bene superiore di Roma.



IL MONUMENTO

Il Tropaeum Traiani si trova nella Civitas Tropaensium (sito della moderna Adamclisi in Romania), costruito nel 109 nella Moesia Inferiore, per commemorare la vittoria dell'imperatore romano Traiano sui Daci, nel 102, nella Battaglia di Tapae.

Prima del monumento di Traiano, vi esisteva già un'ara, sulle cui pareti erano iscritti i nomi di 3000 legionari e ausiliari che erano morti "combattendo per la Repubblica".

Traiano per il suo monumento si ispirò al mausoleo di Augusto, e lo dedicò a Marte Ultorene  107/108.

Sul monumento vi sono 54 metope che illustrano le legioni romane mentre combattono contro i nemici. Sicuramente era un monito alle tribù confinanti con i territori conquistati.

Nel XX sec. il monumento era ridotto a un ammasso di pietre e mattoni, con un gran numero di bassorilievi originali che lo circondavano.

L'edificio odierno è stato ricostruito nel 1977. Il museo vicino contiene molti resti archeologici, incluse le parti originali del monumento romano.

Sul monumento fu posta una grande iscrizione dedicata a Mars Ultor (Marte il vendicatore, "Colui che dalla sconfitta risolleva"). 

L'iscrizione fu ricostituita dai frammenti reperiti da due siti:

MARTI ULTOR[I]
IM[P(erator)CAES]AR DIVI
NERVA[E] F(ILIUS) N[E]RVA
TRA]IANUS [AUG(USTUS) GERM(ANICUS)]
DAC]I[CU]S PONT(IFEX) MAX(IMUS)
TRIB(UNICIA) POTEST(ATE) XIII
IMP(ERATOR) VI CO(N)S(UL) V P(ater) P(atriae)
?VICTO EXERC]ITU D[ACORUM]
?---- ET SARMATA]RUM

Ed eccone la traduzione:

A MARTE ULTORE
CESARE L'IMPERATORE,
FIGLIO DEL DIVINO NERVA,
NERVA TRAIANO, AUGUSTO,
CHE SCONFISSE I GERMANI,
I DACI,
PONTEFICE MASSIMO,
PER LA XIII VOLTA TRIBUNO DELLA PLEBE,
PROCLAMATO IMPERATORE DALL'ESERCITO PER LA VI VOLTA,
ELETTO CONSOLE PER LA V VOLTA,
PADRE DELLA PATRIA,
DOPO AVER SCONFITTO GLI ESERCITI DACI E SARMATI."

Sul monumento c'è un fregio comprendente 54 metope.

Di queste metope abbiamo qui riportato solo alcune, anche perchè molte sono così rovinate da essere indecifrabili.

La maggior parte mostrano membri dell'esercito romano spesso in combattimento coi nemici.

Alcune si riferiscono ai barbari in battaglia ma pure alle loro famiglie, viste però con una certa bonomia.

Ci sono poi diverse metope di barbari fatti prigionieri e legati agli alberi.

48 metope sono alloggiate nel Adamclisi museum che sta nei pressi, e una metopa sta all'Istanbul Archaeology Museum, il resto è andato perduto.

Così riferisce lo storico Constantin Giurescu secondo la cui testimonianza due di esse caddero nel Danubio durante il trasporto a Bucarest. 











LE FESTE - II

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CERIMONIA SACRA

LUDI

Per i più antichi calendari romani che risalgono al tempo dei decemviri queste feste non sono incise a lettere maiuscole, ma in caratteri piccoli, quindi devono essere aggiunte fatte dopo il 449 ac.

Inoltre, nel 322 ac, i Ludi Romani sono menzionati come regolari feste annuali, quindi devono essere state stabilite tra queste date, e l'anno 367 ac, quando così tante modifiche sono state effettuate, e quando ci viene detto un giorno è stato aggiunto a questi giochi e  l'aediles curulis incaricato a sovrintenderle, sembra la data più ragionevole da supporre.

Eppure Livio e gli altri autori che identificano l'identità Ludi Magni coi Ludi Romani non sono del tutto in errore: per la disposizione dei due tipi di giochi che era simile.

Una prova incidentale di questo è che quando Gneo Pompeo Magno nel 70 ac, fece i ludi votivi essi durarono 15 giorni, come i ludi Romani, e troviamo somme simili, vale a dire. 200.000 assi, elargiti per entrambi Ludi Magni e Ludi Romani.

Gli attuali ludi Romani consistevano prima in una solenne processione, una cerimonia, poi una corsa di carri in cui ogni carro alla maniera omerica portava un autista e un guerriero, il quale al termine della gara saltava giù e correva a piedi.

Questa pratica era propria dei ludi Romani. Nella corsa, ogni guidatore aveva un secondo cavallo condotto per mano, come appare dai cavalieri romani che spesso utilizzavano nei primi tempi due cavalli in battaglia, come i Tarentini nella guerra greca. Questi auriga erano chiamati desultores.

Molto probabilmente, vi era in origine solo una gara di ogni genere, e solo due competidores in ogni concorso, dal momento che in tutti i periodi nelle gare dei carri gareggiavano tanti quanti erano le cosiddette fazioni, che origine erano solo due, la bianca e la rossa.

Questi pochi eventi autorizzarono alcune esibizioni minori, come pugili, ballerini, gare di equitazione giovanile (ludus Trojae). Ne conseguì che la corona vinta dal vincitore  (per lo stile greco questo era il premio della vittoria) doveva essere posta sulla sua bara del morto.

Inoltre, durante la festa il guerriero che aveva vinto in una guerra vera (al contrario di guerra immaginaria) portava il bottino che avevo vinto al nemico, e veniva incoronato con una corona.

Dopo l'introduzione del dramma nel 364, avvennero delle rappresentazioni nei Ludi Romani, e nel 214 ac sappiamo che dei ludi scenici occupavano quattro giorni della festa. Nel 161 ac la Phormio di Terence venne rappresentata in questi giochi.



LUDI SAECULARES

I Ludi saeculares, originariamente Ludi Terentini,  erano una celebrazione religiosa, nel quadro di sacrifici e spettacoli teatrali, tenuti a Roma per tre giorni e tre notti per segnare la fine di un saeculum e l'inizio del successivo.

Un saeculum, presumibilmente la più lunga durata possibile della vita umana, era considerato come 100 o 110 anni di lunghezza.

Secondo la mitologia romana, i Giochi secolari iniziarono quando un sabino di  Valesio pregò una cura per la malattia dei figli e in modo soprannaturale venne istruito a sacrificare nel Campo Marzio agli Dei Pater e Proserpina, divinità celtiche e greche dell'oltretomba.

Alcuni autori antichi tracciarono celebrazioni ufficiali dei Giochi nel lontano 509 ac, ma le uniche celebrazioni romane chiaramente attestate sotto la Repubblica ebbero luogo nel 249 e nel 140 a.c.

Essi fecero sacrifici agli Dei inferi per tre notti consecutive.

I giochi vennero fatti rivivere nel 17 a.c. dal primo imperatore di Roma Augusto, con sacrifici notturni sul Campo Marzio ora trasferiti alle Moire (i fati), le Ilythiae (dee del parto), e alla Terra Mater (la "madre terra").

I Giochi del 17 a.c. introdussero anche sacrifici diurni alle divinità romane sui colli Capitolino e Palatino. Ogni sacrificio veniva seguito da opere teatrali. Più tardi gli imperatori svolsero le celebrazioni nell'88 e nel 204 d.c., dopo intervalli di circa 110 anni.

Tuttavia vennero tenuti anche da Claudio nel 47 d.c. per celebrare il 800° anniversario della fondazione di Roma, che ha portato ad un secondo ciclo di giochi nel 148 e nel  248.

I Giochi sono stati abbandonati sotto i successivi imperatori cristiani per quell'avversione al divertimento e la propensione alla severità e all'espiazione caratteristica di tale religione.

Le celebrazioni dei Giochi sotto la Repubblica Romana sono scarsamente documentate.

Anche se alcuni antiquari romani li rintracciano nel lontano 509 ac., alcuni studiosi moderni ritengono che la prima celebrazione ben attestata abbia avuto luogo nel 249 ac., durante la II guerra punica.

Secondo Varrone, scrittore e studioso del I sec. ac., i Giochi sono stati introdotti dopo una serie di presagi portati a consultazione dei Libri Sibillini dai quindecimviri.

In conformità alle istruzioni contenute nei libri, i sacrifici vennero offerti a Taranto nel Campo Marzio per tre notti, alle divinità infere di Dis Pater e Proserpina.

Varrone conferma che fu fatto voto di ripetere i giochi ogni cento anni, e un'altra celebrazione ebbe effettivamente luogo nel 149 o 146 ac, all'epoca della III guerra punica. Tuttavia gli studiosi Beard, Nord e Price suggeriscono che i giochi del 249 e del 140 ac. si svolsero a causa delle pressioni della guerra, e che solo dopo il 140 ac. potevano considerarsi le regolari celebrazioni del centenario. Questa sequenza avrebbe portato ad una festa nel 49 ac, ma a quanto pare le guerre civili impedirono questo ad Augusto.

I giochi vennero fatti rivivere nel 17 ac da Augusto, I imperatore di Roma. La data venne giustificata da un oracolo sibillino che dettò per i Giochi una celebrazione ogni 110 anni e una nuova ricostruzione della storia dei Giochi la cui prima celebrazione repubblicana sarebbe avvenuta nel 456 ac.
Prima dei giochi, gli araldi fecero il giro della città invitando la gente a "uno spettacolo, che non avevano mai visto e che non avrebbero visto mai più".

Il quindecimviri sedettero sul Campidoglio e nel tempio di Apollo sul Palatino, e distribuirono gratuitamente ai cittadini torce di zolfo e di asfalto, per essere bruciato come mezzo di purificazione. (Questo potrebbe essere stato ricavato dai rituali purificatori del Parilia, per l'anniversario della fondazione di Roma.)

Fecero anche offerte di grano, orzo e fagioli. Il Senato decretò un'epigrafe incisa per i giochi a Taranto, che sopravvisse per informarci della loro procedura. I sacrifici notturni vennero fatti non alle divinità infere Dis Pater e Proserpina, ma alla Moire (destino), alle Ilythiae (dee del parto), e alla Terra Mater (la "Terra madre").

Queste erano divinità più benefiche, che tuttavia condividevano con Dis Pater e Proserpina le caratteristiche di essere greche e senza culto nello stato romano.

Questi i sacrifici notturni alle divinità greche sul Campo Marzio alternati con sacrifici diurni a divinità romane sui colli Capitolino e Palatino.





LUPERCALIA

Festa forse preromana e pastorale, celebrata il 15 febbraio per l'anniversario della fondazione del suo tempio, per allontanare gli spiriti malvagi e purificare la città, portando salute e fertilità.

I Lupercalia erano rivolti a Februa, un possibile rituale d'apertura e di purificazione nella stessa data, da cui prende nome il mese di febbraio.

Secondo alcuni la festività si svolgeva a metà febbraio perché questo era il mese più freddo in cui i lupi, affamati, si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi.

Lupercus in effetti era il Dio dei pastori. Però nel rito non c'è nulla che richiami nè i pastori, nè il gregge nè i lupi. Per giunta le pelli indossare dai sacerdoti sono di capra.

I Lupercalia si credevano avere un nesso con l'antica festa greca dell'Arcadian Lykaia (dal greco antico: lykos = lupus) e il culto di Lycaean Pan, equivalente greco di Faunus, istituito da Evandro.

Nella mitologia romana, Lupercus è un Dio identificato talvolta col Dio romano Faunus, equivalente del greco Pan.

Le origini della festa infatti, secondo Dionisio di Alicarnasso e Plutarco, erano stati istituiti da Evandro, che aveva recuperato un rito arcade.

Tale rito consisteva in una corsa a piedi degli abitanti del Palatino (allora chiamato Pallanzio, dalla città dell'Arcadia di Pallanteo), senza abiti e con le pudenda coperte dalle pelli degli animali sacrificati, tutto in onore di Pan Liceo ("dei lupi").

Secondo Plutarco erano riti di purificazione celebrati nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, Romolo e Remo sarebbero cresciuti allattati da una lupa.

Anche secondo Dionisio di Alicarnasso i Lupercalia ricordano l'allattamento di Romolo e Remo da parte di una lupa, però nel rito non c'è traccia di lupi nè di lupe.

L'apologeta cristiano Giustino scrive del " Dio Lycaean, che i Greci chiamano Pan e i Romani Lupercus " nudo salvo la cintura di pelle di capra, che si trovava nel Lupercale, evidentemente una statua. Lì, alle Idi di febbraio, una capra e un cane venivano sacrificati, e venivano bruciate dalle Vestali torte di farina salate.

Secondo la leggenda narrata da Ovidio, al tempo di Romolo vi sarebbe stato un lungo periodo di sterilità nelle donne. Donne e uomini si recarono perciò fino al bosco sacro di Giunone, ai piedi dell'Esquilino, e qui fecero la loro supplica.

Attraverso lo stormire delle fronde, la Dea rispose che le donne dovevano essere penetrate (inito, da Inuus, altro nome di Fauno) da un sacro caprone sgomentando le donne, ma un augure etrusco interpretò che sacrificando un capro e tagliando dalla sua pelle delle strisce colpì con queste la schiena delle donne e dopo dieci mesi lunari le donne partorirono.

La festa era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; soltanto intorno alle anche portavano una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale.


MATRONALIA

O Feriae Matronali, era una festa che celebrava la Dea del parto ("Juno che porta i bambini alla luce"). Una celebrazione della maternità (mater) e delle donne in generale.

Prima della riforma del calendario romano da Giulio Cesare, questo era il primo giorno del nuovo anno. Veniva condivisa anche con la prima giornata delle Feriae Marti.

La data della festa era associata alla dedica di un tempio a Giunone Lucina sull'Esquilino intorno al 268 ac., e forse anche in commemorazione della pace tra Romani e Sabini.

In quel giorno, le donne avrebbero partecipato ai rituali del tempio, anche se i dettagli non sono stati conservati, eccetto il fatto che portavano i capelli sciolti (quando il decoro romano li richiedeva raccolti sulla nuca), e non era permesso indossare cinture o nodi nel loro abbigliamento in qualsiasi luogo si trovassero.

A casa, le donne ricevevano regali dai loro mariti e dalle figlie, e i mariti romani dovevano offrire preghiere per le loro mogli. Le donne dovevano preparare i pasti per gli schiavi domestici (che non lavoravano in quel giorno), come si faceva nei Saturnalia.



MEDITRINALIA

Fu una festa piuttosto oscura celebrata l'11 ottobre in onore del nuovo anno, in cui si offrivano libagioni agli Dei per la prima volta nell'anno. La festa veniva così chiamata dal termine "medendo", poichè i romani poi iniziavano a bere il vino nuovo, che mischiavano con il vino vecchio e che serviva a migliorare il vino.

Varrone e Festo (uniche fonti, oltre ai calendari) ricordano che in tale occasione si beveva recitando i versi:

"vetus novum vinum bibo
veteri novo morbo medeor"

(bevo vino vecchio e nuovo
pongo rimedio ad un male vecchio e nuovo).

Il "nuovo" vino in ottobre è ancora mosto che viene preparato (ridotto per bollitura e aromatizzato) per essere utilizzato come bevanda dolce (come il moderno "vino cotto" marchigiano e abruzzese) o come rimedio ("medicamento") da mescolare a mosto debole al fine di migliorare la qualità del futuro vino.

Poche informazioni sulle Meditrinalia sopravvissero della primitiva religione romana, anche se la tradizione qualcosa tramandò.

Si sapeva che il culto era collegato a Giove e che era stata un'importante cerimonia agricola dell'antica Roma, ma oltre a questo, c'è solo speculazione.

Meditrina che era una Dea romana sembra essere stata una invenzione tardo romana per spiegare l'origine del Meditrinalia.

Secondo altri veiniva dal verbo mederi «medicare, curare»; ma per altri ancora Meditrina era Dea della guarigione.

Comunque già Varrone nel I sec. a.c. ne parla come di festa in disuso.
La prima idea di associare i Meditrinalia con una tale Dea fu nel II secolo del grammatico Sesto Pompeo Festo, sulla cui base le fonti moderne affermano essere stata la Dea romana della salute, la longevità e il vino, con significato etimologico di "guaritore "suggerito da alcuni.



MERCURALIA

Mercuralia è una celebrazione romana conosciuta anche come il "La festa di Mercurio", Dio dei mercanti e del commercio.

MERCURIO
Il 15 maggio i commercianti, usando rami di alloro, si cospargevano il capo il capo, le loro navi e le loro merci, e i luoghi dei loro affari con acqua prelevata dal pozzo di Porta Capena. 

Per altri si tratta di una fontana ma si sa che in zona c'era la Fonte di Mercurio, detta anche Aqua Mercurii Caperna, sacra anch'essa ai mercanti, con una statua del Dio e varie decorazioni purtroppo oggi ignorate.

Commercianti di terra e di mare offrivano preghiere a Mercurio, che nei miti era stato un ladro, un eloquente, un ribelle delle leggi, un astuto ingannatore. 

Sembra ci fosse anche l'usanza di accendere un falò e di danzarvi attorno gettando nel fuoco i rami di alloro usati per la benedizione dei commerci.

Probabilmente la corporazione dei mercanti trascorreva la serata del Idi di maggio e festa insieme.



NEPTUNALIA

Le Neptunalia erano una festa oscura e arcaica di due giorni in onore di Nettuno Dio delle acque, celebrato a Roma nel calore e la siccità dell'estate, probabilmente 23 luglio (Varrone, De Lingua Latina VI.19).

Era uno dei giorni comitiales, quando commissioni di Cittadini potevano votare in materia civile o penale.

Nel calendario antico questo giorno è contrassegnato come Nept. ludi et Feriae, o Nept. ludi, per cui Leonhard Schmitz concluse che la festa veniva celebrata con i giochi.

Rispetto alle cerimonie di questa festa non si sa nulla, tranne che le persone usavano costruire capanne di rami e fogliame (umbrae, Secondo Festo), in cui probabilmente banchettavano, bevevano e si divertivano. (Orazio Carmina, Tertulliano De Spectaculis)



OPICONSIVIA

Il 25 agosto, l'Opiconsivia (o Opeconsiva o Opalia) festa romana in onore di Ops, di solito conosciuta come Opis, o come Opus.

E anche questo nome venne dato al 19 dicembre, il giorno in cui si celebravano le Opalia in suo onore (qualche accenno anche il 10 agosto e il 9 dicembre).

La parola consivia in latino (o consiva) deriva da conserere ("seminare"), quindi Opiconsivia è "la semina di colture", in quanto Ops viene da "colture", nel senso di "ricchezze, beni", da cui il termine italiano opulento.

Ops era legata a Consus, il suo consorte, "il seminatore", che proteggeva il grano raccolto.

Le furono dedicati due santuari, uno sul Campidoglio e l'altro nel Foro.

Opis è ritenuta una Dea ctonia, colei che fa crescere la vegetazione.

Dal momento che la sua dimora era dentro la terra, fu invocata dai suoi adoratori, seduti a terra, con le mani che toccavano il suolo, come narra Macrobio (Saturnalia, I: 10).

Consus sembra essere un alternativo di Saturno in aspetto ctonio come consorte, poichè Ops è la Madre Terra, ovvero la Grande Madre degli Dei, e la Grande Dea.

Come tale, Ops è una manifestazione di Rhea, Cibele, Demetra, Magalesia, Bona Dea, Magna Mater e così via, che personifica la terra come datrice di tutte le ricchezze.

Nella mitologia romana, il suo consorte, il Dio Conso, era il protettore di cereali e silos sotterranei (silos), e come tale venne rappresentato da un seme di grano.

Ma si confuse a volte con il Dio Consigliere a causa della somiglianza linguistica, ma che è completamente distinto dall'altro.

La festa di Consus, Consualia, veniva celebrata due volte l'anno: una volta il 21 agosto, dopo il raccolto, e una volta il 15 dicembre, dopo la semina delle colture era finita.

Le Consualia vennero istituite da Romolo, e per commemorate il rapimento (e inseminazione) delle Sabine da parte dei Romani.

Consus è stato identificato con Neptunus equester, il nome alternativo e la controparte di Poseidone Hippios.
Poseidone (Nettuno) era stata associato al cavallo fin dai tempi arcaici.

La festa Opiconsivia era controllata dalle Vestali e i flamines di Quirino, uno dei primi Dei sabini, assimilato a Romolo divinizzato, poi incluso nella prima e più antica Triade Capitolina, insieme a Marte, allora Dio dell'agricoltura, e Giove.

La Gran sacerdotessa indossava un velo bianco, caratteristico delle Vestali. Una corsa di carri veniva eseguita nel Circo Massimo, mentre cavalli e muli, dalle teste coronate di fiori, partecipavano alla celebrazione.



PARENTALIA

Parentalia era una festa romana per l'onore e il culto degli antenati divinizzati. Il primo giorno del festival, alle Idi di febbraio (il 13), una Vergine Vestale eseguiva i riti di apertura al pubblico per il collettivo dei parenti romani presso la "tomba della vestale Tarpea".

Secondo Barba e altri, il resto del Parentalia era essenzialmente domestico e familiare.

Ovidio descrive offerte sacre di fiori, ghirlande di frumento, sale, pane imbevuto di vino e violette alle "ombre dei morti" (i Mani in Festus, divinità buone) presso le tombe della famiglia della necropoli extra-murale, a rafforzare gli obblighi reciproci protettivi dei legami tra i vivi e i morti.

Questo era un dovere legale del paterfamilias (capo della famiglia).

I Parentalia terminavano il 22 febbraio nei riti notturni di Feralia, quando il paterfamilias affrontava gli aspetti malvagi e distruttivi degli Dei Manes.

I Feralia erano un placamento e un esorcismo: Ovidio lo presuppone una cerimonia più rustica, primitiva e antica degli stessi Parentalia.

Sembra funzionasse come rituale di purificazione per Caristia, il giorno successivo, quando la famiglia teneva un banchetto informale per festeggiare l'amicizia tra di loro e il loro benevolo morto ancestrale (i Lari).

L'enfasi sul culto collettivo dei Mani e degli antichi parenti, comporta un  l'aldilà vago e privo di individuazione.

Più tardi il culto rivestì qualità personali, e nel culto imperiale, acquistarono un numen diventando un Dio.

Da Parentalia a Caristia tutti i templi erano chiusi, i matrimoni erano proibiti, e "magistrati si mostravano senza insegne" (quindi niente di uggiciale poteva essere fatto). W. Warde Fowler descrivono il Parentalia come "Praticamente un rinnovo annuale del rito della sepoltura".



PARILIA

Festa annuale agricola del 21 aprile, per purificare pecore e pastori.. Veniva eseguita in riconoscimento alla divinità romana Pales, antica Dea poi divenuta Dio di pastori e pecore. Mentre la festa sembra aver avuto origine prima della fondazione di Roma nel 753 ac.

La maggior parte dei riferimenti fanno distinzioni tra le forme rurali e urbane, che illustra la combinazione della cerimonia con altri aspetti della religione romana nel contesto urbano.

Le Parilia sono descritte nei Fasti di Ovidio, un poema elegiaco sul calendario religioso delle cerimonie di Roma antica.

La sequenza della festa rurale era condotta dal pastore stesso.

Dopo che l'ovile era stato decorato con rami verdi e una corona sul cancello, il resto della cerimonia si svolgeva in modo sequenziale.

Al primo segno di luce del giorno, il pastore avrebbe purificato le pecore: dallo spazzare la stalla a fare un falò di paglia, rami di ulivo, alloro, e zolfo.

Dai rumori prodotti dalle fiamme si interpretavano i presagi favorevoli o meno.

Il pastore saltava attraverso la fiamma, trascinandolo trascinando le sue pecore. Offerte di miglio, torte, e il latte venivano poi presentati prima a Pales, che segna il secondo tratto della cerimonia. Dopo queste offerte, il pastore avrebbe bagnato le mani di rugiada, con la faccia ad est, e ripeteva una preghiera quattro volte.

Tali preghiere chiedevano assistenza a Pales per liberare il pastore e il gregge dai mali. Portato acerca dai misfatti accidentali (ad esempio, violazione accidentale di luoghi sacri e attingere acqua da una sorgente sacra).

La parte terminale della festa rurale prevedeva l'uso della bevanda burranica, una combinazione di latte e sapa (vino cotto). Dopo il consumo di questa bevanda, il pastore sarebbe saltato attraverso il fuoco per tre volte, portando e fine alla cerimonia.

La forma urbana della Parilia, d'altra parte, è mescolata con altre pratiche religiose romane e realizzate da un sacerdote. Ovidio personalmente partecipò a questa forma e descrisse le sue esperienze nei Fasti.

Alla cerimonia dei centri rurali, la forma urbana aggiungeva due ingredienti provenienti da altre feste religiose: la Fordicidia e il Cavallo ottobre. Nelle Fordicidia si sacrificava una mucca incinta a Tellus per promuovere il bestiame e la fertilità campo. Il vitello nascituro veniva quindi rimosso dal grembo materno e bruciato.

Il cavallo di ottobre è il cavallo di destra della squadra che ha corsa delle bighe vinta da proprietari il 15 ottobre dell'anno precedente. Insieme, le ceneri del vitello non nato e il sangue dalla testa del cavallo di ottobre sono mescolati dalle Vestali e venivano aggiunti al falò di paglia.

Va ricordato che l'attribuzione del sangue di cavallo all'Equus di ottobre è stato chiamato in causa da G. Dumézil: infatti fonti antiche dicono solo del sangue di un cavallo mutilato e sangue di cavallo, non specíficatamente riferendosi all'Equus di ottobre.

Properzio chiama in realtà l'uso di sangue di cavallo una novità. Malthus lo giudica frutto di pura speculazione, e improbabile per ragioni pratiche.



QUINQUATRIA

Quinquatria o Quinquatrus era una festa sacra a Minerva, celebrata il 19 marzo.

Era chiamata così secondo Varrone, perchè si teneva il quinto giorno dopo le Idi, nello stesso modo in cui i Tusculani chiamano una festa nel sesto giorno dopo le Idi Sexatrus o uno sulle settimo Septimatrus.

SACERDOTESSA MATRONA
Anche Festus afferma che i Falisci chiamavano una festa il decimo giorno dopo le Decimatrus Ides. Sia Varrone e Festo dicono che i Quinquatrus duravano un solo giorno, ma Ovidio dice invece che venissero celebrate per cinque giorni, ed erano per questo motivo chiamato con tal nome: che il primo giorno non si versava alcun sangue, ma che gli ultimi quattro c'erano gare di gladiatori.

Sembrerebbe che però è stato solo il primo giorno della festa propriamente detta, e che gli ultimi quattro erano forse un'aggiunta fatta nel tempo di Cesare per gratificare le persone, molto appassionate ai combattimenti di gladiatori.

Gli antichi calendari assegnavano infatti un solo giorno per la festa. Ovidio dice che questa festa è stata celebrata in commemorazione del compleanno di Minerva.

In base a Festo era sacra a Minerva perché il suo tempio sull'Aventino fu consacrato in quel giorno.

Il quinto giorno del festival, secondo Ovidio, le trombe utilizzate in riti sacri venivano purificate, ma questo sembra essere stato in origine una festa separata chiamata Tubilustrium, che veniva celebrata come sappiamo dagli antichi calendari il 23 marzo e sarebbe quando i Quinquatrus, esteso a cinque giorni, cadeva l'ultimo giorno della festa.

Essendo la festa sacro a Minerva, sembra che le donne erano abituate a consultare cartomanti e indovini in questo giorno. Lo causò Domiziano celebrando ogni anno nella sua villa Albani ai piedi dei colli Albani, e istituì un collegio di sovrintendere alla celebrazione, che consisteva di spettacoli di belve, la mostra di opere teatrali e di gare di oratori e poeti.

Alle Quinquatria nel 59, Nerone invitò la madre, Agrippina Minore, nella sua villa nei pressi di Baia, nel tentativo di assassinarla. Il suo vecchio precettore, Aniceto, che avevo sollevato da capitano della flotta di Miseno, si era impegnato a costruire una nave che potesse affondare senza dar sospetto.

Agrippina sbarcò a Bauli, tra Baia e Capo Miseno, e completò il suo viaggio in lettiga. Dopo il banchetto, quando era scesa la notte, venne indotta a tornare a Bauli nel vascello che era stato preparato per la sua distruzione. Ma il meccanismo non ha funzionò come previsto, e Agrippina riuscì a nuoto a raggiungere la riva, da cui tornò al suo villaggio sul lago Lucrino. Nerone però riuscì nel suo obiettivo, con un ulteriore aiuto di Aniceto.

Inoltre vi era un'altra festa di questo nome chiamata Quinquatrus Minusculae o Minores, celebrata alle Idi di giugno, in cui i tibicines traversavano la città in processione fino al tempio di Minerva.



QUIRINALIA

Quirino era in origine un Dio sabino della guerra. I Sabini avevano un insediamento non lontano da Roma, ed eressero un altare, al Quirino sul Colle Quirinale, uno dei sette colli di Roma.

Quando i Romani vi si stabilirono, assorbirono il culto di Quirino insieme alle credenze precedenti per influenza greca, e per la fine del I sec. ac.

Quirino era considerato Romolo divinizzato.
Questi divenne un importante Dio dello stato romano, essendo incluso nella prima Triade Capitolina, insieme a Marte (dio dell'agricoltura) e Giove.

Varrone osserva un culto iniziale di un Capitolium Vetus sul Quirinale, dedicato a Giove, Giunone e Minerva, tra i quali Marziale fa una distinzione tra il "vecchio Jupiter" e il "nuovo".

In tempi più recenti, però io, Quirino diventò meno importante, fino a perdere il suo posto nella triade capitolina.

Più tardi ancora, Romani cominciarono ad allontanarsi da questi culti di stato in nome di culti mistici più personali e mistici (Bacco, Cibele e Iside).

Alla fine, venne adorato solo dai suoi flamen, i Flamen Quirinales, tra cui rimase, però, uno dei patrizi flamines maiores, i "maggiori flamini" che ha preceduto il Pontifex Maximus.

Nell'arte romana, il Dio veniva raffigurato come un uomo barbuto con abiti religiosi e militari. Tuttavia, pochissimo fu rappresentato in seguito, e spesso associato con il mirto. La sua festa è stato il Quirinalia, tenutasi il 17 febbraio.



ROBIGALIA

Robiga (= verde o vita), insieme a suo fratello, Robigus, erano le divinità della fertilità dei Romani.

Sicuramente trattavasi di antiche divinità italiche preromane il cui culto rimase anche se in forma molto minore.

La sua festa è il Robigalia ed è il 25 aprile.

Le litanie maggiori ("Litania Maggiore", o "Romana) o maggiori Rogazioni, vennero introdotte in sostituzione cristiana delle Robigalia.

Robigus era il Dio della muffa rossa, o ruggine.

Un esempio di magia simpatica, le Robigalia venivano celebrate ogni anno il 25 aprile, in cui un cucciolo da latte (lacteus Catulo) veniva sacrificato vicino alla Porta Catularia per placare Sirio, la Stella del Cane in modo che la maturazione grano avvenisse senza essere attaccato dalla muffa.

La festa è menzionata da Columella.



SATURNALIA

Saturnalia era un'antica festa romana tenuta in onore del Dio Saturno diventando una delle feste più popolari. Era caratterizzata da buffonate e dall'inversione dei ruoli sociali, in cui schiavi e padroni si scambiavano le parti, con risultati divertenti.

I Saturnalia vennero introdotte intorno 217 ac per sollevare il morale dei cittadini, dopo una sconfitta militare schiacciante per mano dei Cartaginesi. Originariamente Celebrato per un giorno, il 17 dicembre, vide crescere la sua popolarità fino a diventare una settimana di spettacolo, che terminava il 23. Gli sforzi per abbreviare la celebrazione non ebbero successo.

Augusto cercò di ridurre a tre giorni, e Caligola a cinque. Questi tentativi causarono strepito e rivolte massicce tra i cittadini romani. I Saturnalia coinvolgevano i sacrifici tradizionali, un letto sacro (lectisternium) posto di fronte al tempio di Saturno e lo scioglimento delle funi che legavano la statua di Saturno durante tutto il resto dell'anno.

Veniva eletto un Principe dei Saturnalia come maestro di cerimonie per il procedimento. Oltre al rito pubblico c'erano una serie di feste celebrate privatamente.

Le celebrazioni hanno includevano la vacanza scolastica, la realizzazione e la donazione di piccoli regali (Saturnalia et sigillaricia) e un mercato speciale (Sigillaria).

Il gioco d'azzardo veniva permesso per tutti, anche agli schiavi, comunque, anche se ufficialmente condonato solo in questo periodo, avveniva pure durante il resto dell'anno.

Era un momento per mangiare, bere e divertirsi. Non veniva indossata la toga, ma vesti colorate da colorate, e il pileo (il cappello dei liberti) indossato da tutti. Gli schiavi erano esenti da punizioni e trattavano i loro padroni con poco rispetto. per giunta facevano un banchetto serviti dai loro padroni.

Il sovvertimento sociale comunque non era eccessivo, spesso infatti erano gli schiavi a preparare il banchetto, anche se servito dai padroni. E' anche logico che non si esagerasse poichè successivamente i padroni potevano vendicarsi.

Orazio nella sua satira utilizza un'impostazione dei Saturnali per un franco scambio tra uno schiavo e il suo padrone in cui la schiava critica il suo padrone per essere egli stesso asservito alle sue passioni.
"Epigrammi marziali" è una serie di poesie ciascuno basato su saturnalia, probabili regali, alcuni costosi, alcuni molto economici.
Per esempio: tavolette di scrittura, astragali, salvadanai, pettini, stuzzicadenti, un cappello, un coltello da caccia, una scure, diverse luci, palline, profumi, tubi, un maiale, una salsiccia, un pappagallo, tavoli, bicchieri, cucchiai , articoli di abbigliamento, statue, maschere, libri e animali domestici.

Plinio nelle Epistole (II sec dc) descrive una suite appartata di camere del suo villaggio Laurentina che usa come un rifugio: " Soprattutto durante i Saturnali quando il resto della casa è rumoroso con la licenza della vacanza e grida festose. In questo modo non ostacolo i giochi del mio popolo e non ostacolo il mio lavoro o studio ".

Macrobio nei Saturnali ha scritto:
"Intanto il capo dello schiavo domestico, la cui responsabilità era di offrire sacrifici per i Penati, di gestire le disposizioni e per indirizzare le attività dei collaboratori domestici, è venuto a raccontare al suo padrone che la famiglia aveva banchettato secondo l'usanza rituale annuale. Perchè in questa festa, in case che mantengono il corretto uso religioso, devono prima di tutto rispettare gli schiavi con una cena preparata come fosse per il padrone, e solo in seguito la tabella è di nuovo per il capo della famiglia.

Il consueto saluto per l'occasione è un "Io, Saturnalia!" - Io (pronunciato "eo") essendo una interiezione latina ("Ho, lode a Saturno").
Seneca il Giovane scrisse di Roma Durante Saturnalia circa 50 ac:
"Ora è il mese di dicembre, quando la maggior parte della città è in frenesia. Redini allentate per la dissipazione pubblica; ovunque puoi sentire il suono di grandi preparativi, come ci fosse una differenza reale tra le giornate dedicate a Saturno e quelli per le transazioni economiche ... Fossi stato qui, avrei volentieri conferito con te per quanto riguarda il piano della nostra condotta; se dobbiamo comportarci nel nostro solito modo, o, per singolarità, prendere una cena migliore e buttare via la toga".

Il poeta Catullo descrive i Saturnalia come i giorni migliori. Era tempo di celebrazioni, di visite agli amici, di regali, di candele, di figurione di terracotta (sigillaria). Per comprendere il significato della festa, è importante realizzare che lo stato degli schiavi nell'antico Impero era molto diverso da quello accordato agli schiavi d'Europa e del resto del mondo.

Gli schiavi domestici non avevano diritti legali per sé, ma avevano personali distinzioni accordate dal padrone che non furono concesse in seguito. Gli schiavi erano considerati membri essenziali di ogni famiglia e di una ricca donna romana (per esempio) che trascorreva molte ore a settimana intimamente interessata al loro benessere e alle loro difficoltà.



SEMENTIVAE

Le Sementivae, note anche come Sementivae Feriae o Dies Sementina (nel paese chiamato Paganalia), era una festa romana di semina.

Era un tipo di Feriae conceptivae [o conceptae].

Questi giorni liberi si svolgevano ogni anno, ma non su giorni fissi, bensì ogni anno venivano fissati dai magistrati o sacerdoti (quotannis a magistratibus concipiuntur sacerdotibus) in onore di Cerere (Dea dell'agricoltura) e Tellus (Madre Terra).


Paganalia

"Quando il seme è stato posto nella terra è produttivo. E i buoi, coronati di ghirlande,stanno in piedi davanti al truogolo pieno, Il tuo lavoro tornerà con il calore della primavera.

Lasciate che l'agricoltore appenda il faticoso aratro al suo posto: la terra invernale cura ogni sua ferita. Pastore, lascia il resto del terreno, quando è finita la semina, e lascia che gli uomini che hanno lavorato la terra riposino.
Lasciate che il paese riceva festeggiamenti: gli agricoltori, per purificare il villaggio, offrono i dolci annuali sui focolari del villaggio.

Propiziate Tellus e Cerere, le madri delle colture, con i propri semi, e le interiora di una scrofa incinta."
TELLUS
 P. Ovidius Naso, Fasti, 1662-674

La metà iniziale della manifestazione era una festa in onore di Tellus che si svolgeva dal 24 gennaio al 26 gennaio.
La festa in onore Ceres si verificava una settimana più tardi, a partire dal 2 febbraio.

Le Sementina si tenevano a Roma ai tempi della semina con lo scopo di pregare per un buon raccolto, duravano solo per un giorno,  fissato dai pontefici. Allo stesso tempo, i Paganalia venivano osservati nei paesi.



ROSALIA

Il 10 e il 31 maggio, le legioni romane a Duro Europa celebravano le Rosalia. Queste collegavano un rito di primavera con un rito di morte (come del resto fa il cristianesimo). 

STENDARDI
Solo per questa volta i rituali erano svolti da unità militari per i compagni caduti e dopo per i mebri della propria famiglia. 
Apprendiamo per la prima volta questa celebrazione da un calendario militare della Syria. 

Non sappiamo se le Rosalia venivano celebrate alle medesime date dalle altre legioni dell'Impero Romano, ma sappiamo da altre fonti che le Rosalia erano comuni per l'esercito romano.

Poichè i calendari militari differivano sa quelli romani, è possibile avessero date fisse per tutte le legioni.

Benchè ogni legione avesse le sue feste, comunque il mese di maggio era legato alla morte, con i Lemuria, per cui ragionevolmente tutte le legioni onoravano le Rosalia in questo stesso mese.

Al centro di ogni accampamento romano vi era un piccolo tempio, il saculum. Qui si tenevano gli stendardi militari; le aquile della legione e gli stendardi e i vessilli per manipoli e coorti. Di fronte al sacullum stava un altare. 
Nei Rosalia gli stendardi venivano posti intorno all'altare. Venivano adornati di corone di rose con preghiere o ringraziamenti. Purtroppo non conosciamo i dettagli del rituale. Per coronare la festa si facevano Ludi (giochi di gara) tra i legionari.



SEPTIMONTIUM

Il Septimontium ( o Sptimonzium) era la festa romana dei sette colli di Roma. Veniva celebrata a settembre (o, secondo i calendari in ritardo, l'11 dicembre), in genere poi venne celebrato dal 10 al 12 dicembre in memoria della inclusione dei sette colli nella cinta muraria.

Venivano sacrificati sette animali per sette volte in sette luoghi diversi all'interno delle mura della città, vicino i sette colli. I giochi includevano le corse dei cavalli e dei carri.

In quel giorno gli imperatori erano molto liberali col popolo.

Durante il Septimontium nel periodo repubblicano, i Romani evitavano di usare carrozze trainate da cavalli. Erano ammesse solo nei giochi.



TUBILUSTRIUM

Nella Roma antica il mese di marzo era il tradizionale inizio della stagione di campagne militari, e il Tubilustrium era una cerimonia per preparare l'esercito alla guerra. La cerimonia coinvolgeva le tubae, trombe sacre.

J. Quasten, però sostiene che il termine comune per le trombe di guerra, tubae, non è la stessa forma di tubi. Egli afferma che tubi venne utilizzato solo per le trombe dei sacrifici e questa cerimonia era una festa per pulire e purificare le trombe utilizzati nei sacrifici, un buon esempio,  sostiene, del legame speciale tra la musica e il culto nel rito romano.

La festa si teneva il 23 marzo, l'ultimo giorno della festa Quinquatria tenuto in omaggio al dio romano Marte e Nerine, Dea Sabina. L'evento aveva luogo una seconda volta il 23 maggio. La cerimonia si svolgeva a Roma, in un edificio chiamato la Sala dei Calzolai (atrio sutorium) e prevedeva il sacrificio di un agnello. I Romani che non partecipavano alla cerimonia si sarebbero ricordati della cosa vedendo il ballo dei Salii per le vie della città.



VENERALIA

I Veneralia (1 aprile) erano l'antica festa romana di Venere Verticordia ("Che cambia i cuori"), la Dea dell'amore e della bellezza. Il culto della dea Fortuna Virile era anche parte di questa festa. A Roma, le donne, rimossi i gioielli dalla statua della Dea, la lavavano, e poi la ornavano con fiori, e similmente a loro veniva bagnata nei bagni pubblici indossando corone di mirto sulle loro teste. Era generalmente un giorno per le donne dedicato a cercare aiuto divino nei loro rapporti con gli uomini.



VINALIA

I Vinalia erano feste romane in onore di Giove e Venere. La prima si teneva il 19 agosto, e la seconda il I di maggio.

I Vinalia del 19 agosto, in cui venivano dedicati a Venere i giardini e i giardinieri, probabilmente una corporazione, si prendevano una vacanza, sono stati chiamati Vinalia Rustica, e vennero istituiti in occasione della guerra dei Latini contro Mezentius, nel corso della cui guerra il popolo promise di libare a Giove tutto il vino della vendemmia successiva.

Lo stesso giorno, però, cadde la dedica del Tempio di Venere Obsequens, fondato da Q. Fabius Gurges nel 295 ac, il più antico tempio databile a Venere.
Le Vinalia urbana (o priora), e le Vinalia rustica (o altera) erano feste separate: le Vinalia urbane venivano celebrate il 23 aprile mentre lr Vinalia rustica venivano celebrate celebrate il 19 agosto.

Entrambe le celebrazioni avevano un rituale dedicato alla raccolta e per la buona natura dei semi. Per i Romani, i festeggiamenti Vinalia erano una delle tradizioni romani più importanti.

Giove veniva adorato alle Idi di ogni mese, e così le Vinalia. Anche se i festeggiamenti erano in origine finalizzati ad adorare Giove, nel tardo impero romano il festival incorporò Venere, come Dea del giardino e del vino. Ovidio fa un riferimento alla Dea del giardino e del vino (Venere) e alle Vinalia urbane.


Vinalia urbana
I Vinalia urbane venivano celebrate in onore delle vendemmia dell'anno precedente, fornendo così un'opportunità per banchettare e bere. Nei primi giorni della festa, i Romani offrivano una libagione a Giove, tuttavia, Venere venne ad essere associata con il Vinalia.

Il 23 aprile c'era il versamento rituale del vino in un tempio di Venere. Questo vino veniva però dedicato a Giove.


Vinalia Rustica
Il Vinalia rustica venivano celebrate il 19 agosto da tutti gli abitanti del Lazio, la regione del centro Italia dove si trova Roma. Questa festa era simile ai Vinalia urbana, perchè originariamente sacro a Giove e più tardi condotto presso i templi di Venere in suo onore.

In questa occasione, il sacerdote di Giove, Flamen Dialis, offriva agnelli preferito a Giove sull'altare, mentre schiacciava grappoli d'uva tra le sue mani. A causa del bere intenso e della possibile perdita di controllo, le donne delle classi superiori venivano controllate durante questa festa e si davano loro vini con più basso tenore di alcool.



VOLTURNALIA

Volturnalia era la festa romana del 27 agosto dedicata a Volturno, Dio delle acque e delle fontane. Il Fiume Volturno era un Dio tribale che fu più tardi identificato come Dio del fiume Tevere. Il fiume Volturno, nel sud Italia, è così chiamato per la divinità. Volturno è stato il padre della Dea Giuturna, che è stata identificata con un centro nel Lazio vicino al fiume Numicus e poi con una piscina vicino al Tempio di Vesta nel Foro di Roma. Entrambi venivano onorati in questa giornata con feste, bere vino, e giochi.



VOLCANALIA

Le Volcanalia erano parte del ciclo delle quattro feste della II metà di agosto (Consualia il 21 agosto, Volcanalia il 23, il 25 e Opiconsivia Volturnalia su 27) relative alle attività agricole di quel mese e in rapporto simmetrico con quelli di la seconda metà di luglio (Lucaria il 19 luglio e il 21, il 23 e Furrinalia Neptunalia il 25).

Mentre le feste di luglio riguardavano la natura selvaggia (bosco) e acque (superficiali e acque sotterranee il Neptunalia le Furrinalia) in un momento di pericolo causato dalla loro penuria, le feste di agosto erano dedicate al raccolto (Consualia) e all'abbondanza (Opiconsivia), minacciati da due elementi: il fuoco (Volcanalia) e le piene (Volturnalia).

I Volcanalia erano una festa annuale che cadeva il 23 agosto in onore di Vulcano, quando in estate i granai e le riserve di grano rischiavano di bruciare. Varrone citando gli Annalex Maximi, rievoca il re sabino Tito Tazio che dedicò altari a varie divinità tra cui Vulcano

Il più antico santuario di Roma, chiamato vulcanale, risaliva ai tempi della monarchia e si trovava fuori le mura, poi ebbe un tempio nel Campo Marzio dal 214 ac.

Durante la festa si facevano dei falò in onore del Dio, in cui il pesce vivo o piccoli animali venivano gettati in sacrificio.

Si ricorda che durante i Vulcanalia i romani usavano appendere vestiti e manufatti al sole. Inoltre si doveva iniziare a lavorare alla luce di una candela, probabilmente per propiziare un uso benefico di fuoco dal Dio. Anche la seconda delle due cerimonie annuali dei Tubilustria, o purificazione delle trombe, era sacro a Vulcano.

Il Ludi Volcanalici, si tennero una sola volta il 23 agosto del 20 ac, entro il recinto del tempio di Vulcano, e venne usato da Augusto per celebrare il trattato con la Partia e per il ritorno degli stendardi legionari che erano stati persi durante la battaglia di Carre nel 53 ac.

Al culto del Dio era preposto un Flamen, uno dei flamines minores, chiamato Flamen Volcanalis, il quale officiava pure un sacrificio alla Dea Maia, da eseguirsi ogni anno alle calende di maggio.

Vulcano è stato tra gli Dei placati dopo il grande incendio di Roma nel 64 dc. In risposta al medesimo incendio, Domiziano (imperatore 81-96) stabilì un nuovo santuario di Vulcano sul Quirinale. Allo stesso tempo, un vitello e un cinghiale rosso vennero aggiunti ai sacrifici fatti sui Vulcanalia, almeno in quella zona della città

Il sacrificio in questa occasione era costituito da pesci che gettò il popolo nel fuoco (Varrone, Ling. Lat. VI.20). Inoltre era consuetudine in questo giorno di iniziare a lavorare a lume di candela, probabilmente considerato come un inizio di buon auspicio  per l'uso del fuoco, come il giorno era sacro al Dio di questo elemento (Plin. Epist. III.5). E 'stato il giorno di questa festa che il console Q. Fulvio Nobiliore ricevè una severa sconfitta dal Celtiberi, nel 153 a.c.. A conseguenza di ciò divenne un altro giorno di festa per placare il Dio. (Appia, Hisp. 45).

COLONNA ANTONINA

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COLVMNA DIVI MARCI

La colonna di Antonino Pio era un'antica colonna situata nel Campo Marzio, nella Roma Imperiale, eretta tra il 161 e il 162 in onore dell'imperatore Antonino Pio e di sua moglie Faustina maggiore da parte degli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero.
Oggi, a causa dell'incuria e di un incendio, ne resta solo la splendida base, che dà un'idea della sua bellezza, conservata nei Musei Vaticani.

La colonna sorgeva di fronte all'Ustrinum Antoninorum, dove era avvenuta la cremazione del corpo dell'imperatore ed era in granito rosso egiziano, il prezioso marmo utilizzato già al tempo dei faraoni per la costruzione degli obelischi. 

L'USTRINUM ANTONINORUM IN CUI E'
VISIBILE LA COLONNA ANTONINA
A differenza della precedente colonna di Traiano e della successiva colonna di Marco Aurelio, costruita pochi anni più tardi, questa colonna non possedeva decorazioni sulla superficie del fusto. Si sa che misurava 14.75 m in altezza e 1.90 in larghezza e che ospitava alla sua sommità una statua di Antonino Pio, come mostrato in una moneta con l'effigie dell'imperatore. Era inoltre recintata da uno steccato o da una cancellata.

Moneta in cui è raffigurata la colonna di Antonino Pio con la sua statua sulla sommità.

I resti della colonna vennero riportati alla luce nel 1703, quando alcuni edifici nella zona di Montecitorio vennero rasi al suolo, e dissotterrati nel 1705 da Francesco fontana, figlio di Carlo Fontana. 

La colonna era rotta in più punti. Secondo Giuseppe Vasi in una descrizione delle sue stampe nel Libro II - Le Piazze principali con obelischi, colonne ed altri ornamenti, Clemente XI voleva rialzarla ma l'idea venne abbandonata poiché alcune parti erano andate perdute. 

Di certo al papato non mancavano i mezzi per sostituire i pezzi mancanti nè le maestranze adatte, direi che ne aveva di eccezionali all'epoca, ma non se ne fece niente e i resti vennero accatastati vicino a palazzo Montecitorio. Essendo stato tuttavia Papa Clemente uno dei più illuminati in fatto di arte viene da pensare che le guerre d'Europa all'epoca dovettero preoccuparlo più dell'obelisco.

Viene anche da chiedersi che fine avesse fatto la statua dell'imperatore, dato che usava porle in bronzo dorato sopra le colonne, seppur rovinata doveva purtuttavia essere visibile, invece nessuno ne accenna.

ANTONINO PIO E FAUSTINA
Dal che deriva che o era già stata rinvenuta e fusa o venne fusa successivamente per sostituirla con la statua di S. Paolo.

Anche Benedetto XIV pensò di rialzare la colonna, tanto che nel 1741 ordinò all'architetto Ferdinando Fuga di posizionare il basamento, riccamente decorato e restaurato tra il 1706 e il 1708 subito dopo la sua scoperta, al centro di piazza Montecitorio. 

Però si limitò al basamento e su di esso fece erigere una statua. Ma il risultato raccolse molte critiche. Nel 1759, durante il pontificato di Clemente XIII, i frammenti della colonna, depositati in alcuni capannoni, vennero stranamente danneggiati da un incendio. Dico stranamente perchè il marmo si bruciava nelle calcinare, cioè nei forni, per cui un incendio di piccolo conto non poteva danneggiare granchè.
Risulta un ulteriore tentativo di restauro nel 1764, ma anche questo con pochi risultati.

Fu Pio VI che nel 1789 decise di utilizzare quanto rimaneva della colonna per restaurare l'obelisco di Montecitorio, ritrovato nel 1748. Questa scelta venne effettuata poiché il granito rosso esiste solo in Egitto e non vi erano possibilità di importarlo, perchè le cave erano praticamente esaurite e il poco che restava veniva venduto a caro prezzo.

Oggi ne rimangono solo la base (custodita nel cortile della Pinacoteca ai Musei Vaticani sin dal 1787 e soggetta già a forti restauri) e la terminazione, con la firma dell'architetto Eraclide e la data di estrazione dalla cava, del 106 d.c.




IL BASAMENTO

La base è composta da un grande dado, con quattro facce sulle quali si trovano tre rilievi e un'iscrzione dedicatoria con l'Apoteosi di Antonino Pio e Faustina.

Sul lato opposto è rappresentata infatti l'apoteosi di Antonino Pio e di sua moglie Faustina mentre ascendono verso gli Dei sorretti da un genio alato Aion, genio signore del tempo e dell'eternità. Il genio regge in mano i simboli del globo celeste e del serpente ed è affiancato da due aquile romane.

Ai due lati, in basso, proteggono l'apoteosi la Dea Roma, in abito amazzonico e seduta presso una catasta di armi, e la personificazione del Campo Marzio, rappresentato come un giovane che sorregge l'obelisco importato da Augusto da Eliopoli ed utilizzato per la monumentale meridiana del Campo Marzio.

L'impostazione del rilievo è tipica delle scene di apoteosi, come si nota nell'Apoteosi di Sabina in un rilievo dal cosiddetto arco di Portogallo, l'ingresso del Tempio del Sole.
Mentre le figure della parte inferiore sono statuarie e sedute o distese, la figura superiore al centro domina la scena, una figura alata e in movimento, che si innalza obliquamente recando in cielo i personaggi da deificare.

Le due figure imperiali, in alto, sembrano già appartenere a un mondo superiore, che ha però come base le due figure in basso, enormi e divine seppur terrene.

Nonostante alcune critiche sulla staticità delle figure in basso un po' troppo accademiche, il contrasto della figura alata dirompente e impetuosa, dona all'insieme una plasticità emotiva e vibrante come poche, con una squisita fattura che dà rilievo ai significativi particolari,  come lo scudo di Roma personificata e il delicato panneggio della figura sdraiata. 

Sugli altri due lati sono rappresentate due scene quasi identiche, riguardanti le due consacrazioni delle figure imperiali, una per Antonino e una per Faustina, al mondo del divino e della storia. Vi sono raffigurati i membri del rango equestre intenti a celebrare il decursio o decursius, ovvero la giostra a cavallo durante la cerimonia funebre, coi relativi vessilliferi, all'esterno, e un gruppo di pretoriani all'interno.

Questo rito, che doveva aver avuto luogo attorno all'ustrino dove si era svolta la cerimonia di cremazione, prevedeva due tempi: anzitutto la processione a piedi con i lari e i peneti, poi la giostra a cavallo. Nella raffigurazione le due cerimonie vengono invece necessariamente rappresentate insieme.

Il moto circolare della giostra, con i cavalieri posti su due piani principali, in file di due o tre, poggianti su sottili lembi di terreno ad altezze diverse, come visti di scorcio dall'alto già è in parte presente nella colonna Traiana ma qui arditamente sottolineato con un effetto di mobilità e movimento.

Il  contrasto tra sfondo levigato e l'animata scena accentua l'effetto plastico dell'insieme, accentuando illusoriamente il rilievo e il movimento delle figure.

LA DECURSIO


LANCIANI

Per ciò che spetta alla colonna del divo Marco, se ne trova frequente ricordo negli Atti del Consiglio comunale. Cosi nella seduta del 9 luglio 1573 Girolamo del Bufalo e Virgilio Crescenzi furono deputati ad esaminare lo stato del monumento, e riferire sulle opere necessarie al suo ristauro. Con diligenza, della quale ben pochi esempi si potrebbero trovare nell'archivio Capitolino, i deputati ebbero compiuto il lavoro in dodici giorni, dimandando al Consiglio la somma di 500 scudi, per far fronte alle spese, e questa somma fu loro concessa nella seduta del giorno 28. 

Ma non per questo fu riparata la colonna, che minacciava rovina a causa di uno squarcio ai due terzi dell'altezza, del quale si ha il ricordo nella vignetta 34 di Stefano du Perac « [Colonna mezza guasta dal fuoco al segno A] » . 

Infatti nella seduta dell'11 aprile 1578 torna di nuovo in discussione la proposta del 1573, e si vota che, tanto i travertini sopravvanzati alle fabbriche di Campidoglio, quanto i condotti di pietra, riconosciuti inutili per la distribuzione dell'acqua Vergine, si debbano vendere, e il prezzo ottenuto dall'asta « applicari debeat ad Coluranam antoninam conservandam».

Il prezzo deve essere stato stornato una seconda volta: poiché agli 11 di agosto del 1586 il Consiglio, nuovamente chiamato a deliberare « super columna Antonini reparanda» ricorre un'altra volta all'eròico mezzo di eleggere una Commissione « ne tam nobilis et honorata antiquitas ad nihilum redigatur » .

La Commissione riuscì composta del priore dei Caporioni, di Girolamo Altieri, e di Paulo e Battista del Bufalo, ma non concluse nulla, sapendosi da ognuno che la colonna sarebbe certamente crollata senza l'energico intervento di Sisto V. Ligorio, Torin, XV, e. 101' dice: «la spira qui sotto [di una base finamente intagliata] fu dell'ornamento di uno dell'edifitij dell'ordine corintio che fu già dove è la colonna historiata dell'Antonini, dove furono cavati molti marmi et sassi quadrati, ma quei pochi ornamenti che ivi erano, tutti sono stati consumati da Scarpellini ». 

Sullo stato e sull'aspetto della piazza Colonna verso la metà del cinquecento vedi il Ball. com. tomo XXX, a. 1902, p. 239 e seg. tav. X. Era circondata dalle case di Ambrogio Lilio, dei Sederini, degli Ubaldi, dei Simii, dei Bufalo - Cancellieri, e dei lacobacci, ognuna delle quali ricca di marmi di scavo. La prima, quella del Lilio o Gigli, conteneva scolture trovate, forse, nella vigna « a la radice del colle de gli Hortoli» descritta dall'Ai dovrandi a p. 198 della edizione Mauro.

Circa le case dei Bufalo de' Cancellieri, che formavano il cantone della piazza sul Corso (palazzo Ferraioli), estendendosi lungo tale via sino al cantone di via di Pietra, vedi Stoina, tomo I, p. 104, Adinoltì, Roma nell'età di messo, tomo II, p. 359-364, Archivio Soc. rom. Storia patria, tomo VI, p. 44.5.

Il cod. barb. vatic. XXX, 89 cosi ne parla: « Piazza Colonna: in facciata di quella casa alta in via Lata ch'era d'uno de Buffali et bora è di mr. Fabritio Lazzaro dottore celebre : Sedente Paulo III Pont. opt. Max. suadente urbis ornatu Iobapta Bubalus solo equavit instauravitq. anno D. 1548 ».

« Dentro nello scoperto è un pilastro appoggiato al muro con busti 2 di mezzo rilievo, a man dritta d'homo vecchio raso, et alla manca di donna attempata co spessi capelli e ricci (CIL. VI, 1924). Dentro questa casa di mr. Fabritio è ancora una rara statua nuda di Venere» e il titolo sepolcrale di « Fortis pedisequus domus palatin ». (ivi VP, 8658).

Gli lacobacci, alla lor volta, sono ricordati come raccoglitori di teste e busti, a preferenza di marmi di maggior mole. 

L'Aldovrandi ricorda, in fatti, di aver visto in casa di M. Giacomo lacovacci presso alla Dogana una sola figura « di donna vestita all'antica assai bella: il resto del museo era formato da « molte teste antiche» fra le quali una « di mezzo rilevo di pietra cotta. testa fittile votiva trovata nelle favisse di qualche santuario. A. ricorda pure una testa di Venere col petto cosi picciolo, che con tutta la sua base si tiene in pugno» . 



 Il 1. XX dei conti dell'architetto Domenico Fontana, intitolato « misura et spesa della colonna Antonina restaurata 1589 " contiene interessanti particolari intorno l'opera di Sisto V. « Misura et spesa del opera ch'à fatta fare il cavaliere Fontana in la colonna Antonina qual stava per ruinare... fatto acconciare dalli scarppellinì . . . perchè le pietre di marmi et travertini sonno di quelli del Settizonio, con ha- verli fatto fare il piedistallo di novo, con . . . peduccio di travertino sopra la colonna sotto alla statua, con la mettitura in opera della statua del s. Paolo . . . con haver fatto tirar dentro li pezzi che avanzavano fora in tre lochi, con il muro attorno a detta colonna sotto al piedistallo novo . . . mesurati per noi sottoscritti et re visti da Monsignor della Cernia » . 

Le seguenti partite sono di particolare interesse. 

« Per la manifattura di tre cerchi di ferro grossi delli ferri die havevano ser- vito alla guglia fatti per tener stretto e forte la colonna mentre se ci lavorava acciò non si aprisse in fora (scudi 21). Per la condottura della statua del s. Paulo tolta alla fondaria di palazzo et fatta condurre con 8 cavalli et gente appresso. 

Per haver fatto la capra in cima a detta colonna . . . perchè il capitello non patisse quando verrà addosso il peso della statua perchè era tutto crepato, la qual capra fu fatta 2 volte perche la statua fu posta la prima volta con la faccia voltata verso la strada che viene dal populo, e poi N. S. volse che si voltasse con la faccia verso s. Pietro (se. 350). 

Per la fattura del peduccio di travertino qual e delle ruine del Setizzonio (se. 88). Per la condottura di 4 colonne di marmo cipollino che sonno nelle 4 cantonate del piedistallo condutte dal Setizzonio (se. 20). 


Per haver lavorato tutti li marmi quali sonno entrati deverà la rottura grande di detta colonna abozzati di fuora dove si sonno intagliate le storie et la- vorate per di dentro dove fa il tondo et il vano della scala allumaca . . . qual pigliano li detti quadri l'altezza di tre giri del historie in detta colonna il primo giro longo palmi 7, altezza palmi 3, il secondo longo palmi 11, altezza palmi 6, il terzo giro longo palmi 14, alto palmi 7, (se. 323,50. — Totale scudi 5880,11)». 

Leonardo Sormani da Savona, l'autore della statua, non era alle prime prove quanto al modellare il tipo di s. Paolo. Al f. 107 del Registro dei mandati camerali del 1556 è segnata questa partita. 
« M.° Leonardo sculptori scuta 60 monete ad bonum computum statuam marmoream S. Pauli per ipsum faciendam ad ornatum portonis castri S.ti Angeli die 4 febbruarii 1556». 

Nei conti di Gian Pietro carreggiatore pontificio, per gli anni 1583-89, è registrata una notizia artistica di non comune interesse, anch'essa relativa al tipo del s. Paolo:  
« 1583 Per la portatura della statua di marmo del s.Paolo fatta dal Bresciano tolta nelle botteghe delli ss. Panzani a Termini et condotta (alla cappella del Presepe in S. M. maggiore) con 8 cavalli qual poi l'ha fornita M. Leonardo Sormanno, che il detto Bresciano la finì mai, qual era troppo grossa».


Quella collocata in cima alla « columna centenaria divi Marci» fu modellata in creta, in gesso, e in cera dal Sormanni e da Tommaso della Porta, insieme alla compagna da collocarsi sulla colonna Trajana: 

« quale sopradette statue sonno state fatte da M.° Leonardo Sormanno et M° Thomasso della Porta sopradetti et sonno state stimate da M.° Prospero Bresciano, et M.° Paolo Oliviero Romano, et non essendo stato d'accordo tra loro fu eletto per 3" M.° Feliciano folignate scultore il quale ha dichiarato et messo scudi 550 . . . » . 

Il san Paolo fu poi fuso da Bastiano Torrigiani e indorato da Tomaso Moneta, e pella fusione servi un pezzo di pilastro di metallo antico tolto al Pantheon. (Sig!)

Così afferma il Bertolotti, Artidi Subalpini p. 105, ma non saprei indicare la fonte dalla quale ha derivata tale informazione. Posso aggiungere ai documenti già riferiti il seguente tratto dai protocolli del notaio Nicolò Compagni (n. 781, e. 557), dal quale parmi risultare un fatto ignoto: che cioè altri artisti abbiano preso parte al concorso pel modello della statua, e abbiano preparati gli accordi col fonditore o traiettatore, nel caso la sorte avesse loro sorriso nella diffìcile prova. 

« Die XIX ianuarii 1586. Domini M. Andrea Orisco de Rocca Contrada e Joanni del danese de bicelle diocesis marsichane traiettatori di lor spontanea volunta promettono servire a ms. Costantino de servi fiorentino scultore presente etc. in traiettare la figura di san Paolo di mitallo di palmi vinti dì altezza che si ha da mettere su la collonna Antonina et fare tutto quel tanto che lì sarà commandato dal d.° m. Costantino e sera di bisogno per ridurre a perfettione la detta statua nel loco dove detta figura si fundera et promettono stantiare dormire et mangiare nel luoco istesso dove si fundera detta statua et che mentre la detta opera non sarà finita et ridutta a perfectione li suddetti m. Andrea et Johanni promettono non pigliare altra opera a fare ne et lavorare in proprio uso sino detta opera non habia la sua perfettione o vero da esso ra. Costantino non li sia data occasione di bavere a fare altro in detto luoco per servitio di detta statua habino d'attendere alla detta statua con ogni diligenza accortezza sufficienza sin tanto sera finita.
Et caso che per qualsivoglia diffetto o impedimento o disastro de la su detta statua di san paolo non venisse il getto in tal caso i su detti Andrea e Giovanni non siano tenuti a rebuttar tal statua» .


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VELIA (Campania)

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La Piana di Velia, nei pressi di Ascea Marina, sulla costa meridionale del Cilento, si estende il promontorio dove fu eretta la gloriosa città di Velia, già Elea, famosa per la scuola filosofica di Parmenide e Zenone.

I resti di questa città, sebbene scavati solo in parte, sono sorprendenti. I fondatori di Velia venivano da Focea (Asia Minore), da dove erano fuggiti, nel 545 a.c., per l'attacco militare persiano, finchè nel 540 a.c.si rifugiarono a Reggio.

Un oracolo li spinse verso la fonte Hyele, dove fondarono la città di Elea.  A difesa del territorio vennero create una serie di fortificazioni quali Punta della Carpinina (presso Licosa) a nord, Torricelli (presso Vallo Scalo) e Civitella (presso Moio) ad est e Castelluccio (presso Pisciotta) a sud.

Dell'antica città restano l'Area Portuale, Porta Marina, Porta Rosa, le Terme Ellenistiche e le Terme Romane, l'Agorà, l'Acropoli, il Quartiere Meridionale e il Quartiere Arcaico.

Tra i motivi che fanno di Velia un patrimonio dell'umanità va sicuramente menzionata la scuola eleatica. Infatti, pochi decenni dopo la fondazione, i suoi intellettuali più illustri, i filosofi Parmenide e Zenone, fondarono la scuola "eleatica" che ancora oggi influenza gran parte del pensiero del nostro tempo.

Una scuola filosofica che ha potuto vantare, fra i suoi esponenti, anche Melisso di Samo e Senofane di Colofone. Qui Zenone, che fu allievo di Parmenide, elaborò il metodo della dimostrazione indiretta di una tesi mediante la riduzione all’assurdo della tesi contraddittoria: per questo Aristotele gli riconobbe il titolo di “inventore della dialettica”. Possiamo affermare che il pensiero occidentale è nato qui.

Fu anche sede di una scuola di medicina e meta di infermi che accorrevano per le cure.
Elea dovette sostenere anche duri scontri con la vicina Poseidonia (Paestum) e con i Lucani. Come Paestum si schierò poi a favore dei Romani nelle guerre contro Annibale, e visti i meriti della flotta navale velina, i Romani riconobbero i privilegi e l'autonomia della città, quale quello di coniare moneta.

Lo sviluppo dei commerci della città è testimoniato dalle sue belle monete, che portano su una faccia la testa di Atena o quella della ninfa Velia, sull'altra, un leone, spesso in lotta con un cervo.

In età romana Elea, rinominata Velia, venne ricordata per la dolcezza del suo clima, l'ospitalità e l'alto tenore di vita degli abitanti, diventando meta di numerose personalità, tra le quali Cicerone, Paolo Emilio e Orazio. Bruto, dopo l'uccisione di Cesare, si rifugiò a Velia e Marcantonio, lo attese fuori senza entrare in città. 
Inoltre, la posizione geografica, su un promontorio che in antico si protendeva sul mare ne favorì la trasformazione in un centro di villeggiatura.

Un duro colpo all'economia della città venne dall'insabbiamento dei suoi porti che rese difficile l'attività marinara.

In tal modo Velia sopravvisse ancora per poco diventando sede vescovile, ma venendo abbandonata a seguito delle invasioni saracene (sec.VIII-IX). Dell’antica Velia si perse ogni ricordo.

Le rovine dell'antica città greca furono poste in luce da scavi moderni, nel sito del borgo medievale di Castellammare di Veglia o della Bruca.



IL PORTO

Verso gli inizi del IV sec. a.c. quest’area, invasa dal mare, funzionava come porto della città poi, per una grossa alluvione e il ritirarsi della linea di costa, si insabbiò finchè strappata al mare con la costruzione di mura ed urbanizzata.

Subito dopo l’ingresso sulla destra si notano le mura della città, costruite sulla diga dell’antico porto. Al termine del muro vi è una torre circolare fiancheggiata da un varco a doppio imbuto, originariamente un faro.

Da questa costruzione le mura rientrano verso l’interno sino ad una poderosa torre quadrata da cui iniziano le mura più arcaiche del VI sec. a.c. Segue un’ampia apertura che doveva servire a una darsena, successivamente occlusa.

Dopo un altro breve tratto di mura si incontra Porta Marina Sud, del V sec. ac. suddivisa in una porta pedonale e per le merci.

La strada che esce da Porta Marina Sud conduce verso il porto romano, più avanzato rispetto a quello greco. L’ubicazione esatta della struttura portuale romana non è ancora conosciuta.

Appena fuori della porta è una torre con due tecniche costruttive diverse: i filari più bassi risalgono ad un’età più antica, mentre quelli superiori, con blocchi posti tutti di testa, sono successivi all’interramento della zona.

Il muro che segue la torre è sempre di età arcaica a doppia cortina, di cui la cortina esterna è costituita di blocchi di arenaria squadrati, mentre quella interna è costituita di pietre naturali calcaree. Tra le due cortine è uno spazio con pietrame e terreno.

Il muro continua poi in direzione sud incontrando un’altra torre più piccola.

La struttura urbanistica dell’antica Velia risulta articolata in tre nuclei: il quartiere meridionale, il quartiere settentrionale e l’acropoli.



IL QUARTIERE MERIDIONALE 


Inoltrandosi dall’ingresso agli scavi verso il viottolo che scende verso il quartiere meridionale si incontrano due insulae del III sec. a.c.poi un tratto di mura arcaiche con due torri quadrate con una piccola porta che accede all’insula I.

Qui si trovano alcune abitazioni a cortile centrale con pozzo e, originariamente, con l’ara domestica. In una di esse si trova un pavimento a mosaico con rosetta centrale e contorno ad onda. I mattoni, in argilla locale, hanno due bolli, quello del fabbricante e quello dello stato.


L’insula II occupata da un vasto edificio costruito nel I sec. d.c. su abitazioni preesistenti. Si tratta di un criptoportico nel quale si sono rinvenuti numerosi ritratti di membri della famiglia di Augusto. Al di sopra del portico è una spianata con un altare.

Affianco è un colonnato su tre lati costruito su una piscina a sua volta costruita su un edificio preesistente in mattoni crudi del quale si ignora la funzione. Tutto il complesso potrebbe essere un caesareum (edificio di culto dell’imperatore) o un Collegio degli Augustali.

Tornati indietro sulla strada perpendicolare alla via di Porta Marina, si giunge ad un pozzo sacro, profondo circa 6 metri. In esso vennero trovate numerose offerte votive come balsamari, lucerne, vasi, statuette.



LE TERME ROMANE 

PISCINA DELLE TERME
Si imbocca la salita che conduce verso Porta Rosa, una strada greca che collega il quartiere meridionale con quello settentrionale. Essa è larga 5 metri ed è delimitata da una cordonatura di blocchi squadrati oltre i quali vi sono cunette per il deflusso delle acque piovane.

All’inizio si nota l’apertura di un canale che originariamente aveva una copertura a blocchi. A sinistra è un edificio termale romano risalente alla prima metà del II sec. d.c. Le mura esterne sono costruite con filari di pietra fra doppi corsi di mattoni.

All’interno sono visibili bei pavimenti mosaicati con scene marine. Superate le terme, la strada fiancheggia un grande ninfeo infossato con basi di colonne ioniche.



 L’AGORA’ 

Si giunge così all’ingresso di un complesso da molti identificato come agorà o come ginnasio. Si tratta di un’area pavimentata e porticata con tre lati delimitati da mura di terrazzamento alle quali erano appoggiate botteghe.

Il monumento, del III sec. a.c., è preceduto sulla fronte da una fontana, mentre sul muro di fondo è un monumento romano in mattoni con nicchia.

Alle spalle è un canale di pietra con copertura a doppio spiovente disposto a gradini che funge da collettore delle acque: probabilmente esso venne costruito a seguito degli eventi alluvionali.



LE TERME ELLENISTICHE 

Proseguendo a salire verso Porta Rosa, si incontra sulla destra una spianata nella quale è stato messo in luce un impianto termale ellenistico risalente al III sec. a.c., unico in Magna Grecia.

Il primo ambiente che si incontra era probabilmente l’apodyterium (spogliatoio) e presenta un pavimento in mattoni eleati su cui poggiano formelle esagonali di terracotta munite di fori rettangolari al centro.

Sulla sinistra è un ambiente quadrangolare all’esterno e circolare all’interno con vasche individuali in terracotta, appoggiate alle pareti, per il bagno in posizione seduta. Tale ambiente corrisponde al laconicum delle terme romane.

Segue un ambiente non identificato. Aldilà del primo ambiente è un vano di vaste dimensioni (calidarium) con pavimento in cocciopesto e mosaico, uno dei più antichi esempi in ambiente greco-occidentale. La parte centrale del pavimento, rettangolare, è contornata da un motivo ad onda interrotta agli angoli da motivi vegetali.

Al centro vi sono due quadrati inseriti obliquamente l’uno nell’altro con una rosetta centrale a 6 petali. In un angolo c'è un basso banco e resti di tegole del muro destinato, così, a contenere meglio il calore.

Nell’angolo a destra v’era una grande vasca con spalliera munita di riscaldamento sotto il pavimento.
Proseguendo verso sinistra è il praefurnium sovrastato da una cisterna.



PORTA ROSA 

Porta Rosa, databile alla metà del IV sec. a.c., è preceduta dai resti di una porta del sistema difensivo arcaico con ante di arenaria e tracce dei cardini e dei battenti. Porta Rosa consentiva il passaggio da una parte all'altra della gola, mettendo in comunicazione il quartiere meridionale con quello settentrionale (non ancora scavato) e di viadotto congiungente le due parti del colle.

Un muro di terrazzamento in opera isodoma contiene la sponda occidentale della gola. L’arco a tutto sesto è sostenuto da due piedritti in opera isodoma. Sul primo arco è un secondo archetto di epoca posteriore che doveva servire a creare un passaggio (a mo’ di ponte) tra le due parti del crinale separate dalla gola.
La datazione è quella data dallo scopritore Mario Napoli (che diede anche il nome della moglie, Rosa, alla porta), ossia la metà circa del IV sec. a.c.

La perfezione di Porta Rosa e l’armonia delle sue dimensioni è eccezionale: la luce dell’arco inscrive esattamente due circonferenze l’una sull’altra aventi per diametro la larghezza dell’arco (m. 2,68). Nel corso del III sec. a.c., la porta rimase sepolta da una frana e restò ostruita per sempre



LE CASE ARCAICHE 

Retrocedendo di pochi metri, si inizia la salita verso l'Acropoli. Poco prima di arrivare alla sommità, si notano i resti dell'insediamento abitativo più antico della città (540-535 a.c.): si tratta di abitazioni ad un solo vano con cortile antistante: la muratura è a blocchi di arenaria di forma poligonale, una tecnica importata dall’Asia Minore da dove provenivano i coloni.

Le abitazioni sono disposte a terrazza ed attraversate da una larga strada di terra battuta che conduce verso il porto. Intorno al 480 a.c. queste abitazioni vennero cancellate per far posto ad un grosso muro di terrazzamento in opera quadrata.

Il tutto nel più vasto progetto di ospitare gli edifici religiosi e pubblici sull’Acropoli e destinare la parte bassa alle abitazioni.



L’ACROPOLI 

TORRE DEL CASTELLO NORMANNO
EDIFICATA SOPRA I RESTI ROMANI
Appena giunti sull'Acropoli si notano subito i resti del piccolo teatro risalente al IV secolo a.c., che si appoggia con il muro portante sulla terrazza del tempio ionico, ancor'oggi scena di spettacoli teatrali. 

Sulla terrazza superiore è il tempio ionico (m. 32,50 x 19,35), in parte distrutto dalla grande torre del castello normanno.

Il tempio fu a sua volta costruito su strutture preesistenti come dimostra il rinvenimento di mura in opera poligonale ad un livello inferiore. Poco oltre si nota un portico ellenistico che creava una quinta verso il paesaggio marino. 

Poco oltre è un edificio a pianta rettangolare; era in effetti la stoà dell’Area Sacra. 

Sulla terrazza superiore è il tempio ionico in parte distrutto dalla grande torre del castello normanno. Qui troviamo l’area ove si svolgeva la vita pubblica e religiosa della città, ossia l’Acropoli.

Dall'Acropoli si può seguire un tratto delle mura, giungendo ad una prima terrazza dov'era un'area sacra a Poseidon. 

Proseguendo si giunge ad una seconda terrazza dov'era un'altra area sacra ove è conservato un altare monumentale (cosiddetto Santuario di Zeus). 

Più avanti è il Castelluccio punto culminante del sistema difensivo di Velia.
Poco oltre è un edificio a pianta rettangolare, forse destinato a contenere le offerte votive.



ANTIQUARIUM

All’altra estremità del promontorio è un piccolo antiquarium con lapidario ospitato in una chiesetta. Vi sono una serie di stele di arenaria con iscrizioni greche dedicatorie a varie divinità (Poseidon, Hera, Zeus, ecc.), nonché iscrizioni latine su marmi.

RESTI DI VELIA
Sotto la chiesetta è un tratto di strada lastricata che faceva parte della via di collegamento dal quartiere meridionale conduceva sull’acropoli. Dall'Acropoli si può seguire un tratto delle mura, giungendo ad una prima terrazza dov'era un'area sacra a Poseidon con un portico ad U.

Continuando si passa sopra Porta Rosa, dove è una torre quadrata che protegge il vallone. Proseguendo si giunge ad una seconda terrazza dov'era un'altra area sacra con un grande altare.

Le strutture architettoniche della città antica sono immerse in una vasta area di macchia mediterranea e di rigogliosi uliveti costituendo uno splendido connubio tra archeologia e natura. Per questo motivo, con la L. regionale n.5 del 8.02.05, è stato istituito il Parco Archeologico di Velia che ha potuto usufruire di cospicue risorse con fondi nazionali ed europei che hanno permesso la ripresa della ricerca archeologica affiancata dal restauro dei principali monumenti.



PIETRO EBNER

Da http://www.cilentocultura.it/cultura/ebner.htm

"Cominciai - dice Ebner - studiando la monetazione di Paestum e di Velia."
Con antiche monete tra le mani e la frequenza assidua a Velia durante gli scavi del periodo Maiuri e del periodo Napoli egli ha la possibilità di leggere la millenaria storia di quella città.

CAPPELLA PALATINA
I suoi primi studi su Velia risalgono agli anni '50. Comunica le sue scoperte su Riviste specializzate e di grande prestigio come Parola del Passato, Giornale di Metafisica, Rassegna Storica Salernitana, Apollo, Il Veltro, Rivista dei Musei Provinciali di Salerno e sulla rivista inglese The Illustrated London News.

 In questi studi egli non solo parla con la competenza dell'esperto, ma formula le sue prime ipotesi sulla vita, la cultura e l'attività di Velia. 

Dallo studio delle monete riesce a rilevare i rapporti culturali e commerciali tra le città della Grecia, in particolar modo, Atene e Velia. 

Viene subito annoverato tra i maggiori numismatici italiani. 
E arrivano i primi riconoscimenti.

Su designazione di Amedeo Maiuri viene nominato ispettore onorario degli scavi di Velia. E in occasione di visite agli scavi di personaggi illustri, come la visita del re-archeologo Gustavo di Svezia, viene designato dalla Soprintendenza a fare gli onori di casa.
Nessuno meglio di lui conosce quelle pietre che ha visto venire alla luce l'una dopo l'altra. Di Velia egli studia la topografia e le varie insulae dove individua templi ed edifici pubblici.

Parla con convinzione di un secondo porto a Velia posto a settentrione del promontorio che separava le due insenature. Un terzo porto lo colloca alla confluenza dei fiumi Alento e Palistro. 

Parla di antiche vie che portavano nel Vallo di Diano attraverso il passo "Alfa" e il passo "Beta" del Gelbison. 

Individua la Via del Sale che da Velia, attraverso il territorio di Ceraso, San Biase, Valle di Montescuro (passo Beta), raggiungeva il Girone di Rofrano e di lì il Vallo di Diano. 

Sono gli stessi Dei - dice - che hanno scelto Velia nel 540 a.c. Anche la Pizia era intervenuta per la colonizzazione di questa città dal clima meraviglioso, in tutto simile a quello della Grecia. 

Il gruppo dei Focei si fonde, in maniera pacifica col gruppo italiota preesistente in quella meravigliosa rada. Velia diventa la continuazione di Focea. Vegliano su Velia gli stessi Dei della madrepatria che sono stati imbarcati sulle grosse Pentecòntori unitamente alle loro masserizie.



Dallo studio appassionato delle monete osserva che l'officina monetaria di Velia sembra ispirarsi a quella di Atene. Compaiono, infatti, gli stessi simboli: l'ulivo, la civetta, il leone, il cervo, l'elmo di Athena. Lo stesso culto di Athena a Velia gli appare evidente dalle monete. 

Ne riceve conferma durante gli scavi del 1963/64 quando, con Amedeo Maiuri, individua l'Athenaion. E non esita ad affermare, in quella occasione, col prof. Iohannosky, che il culto di Athena a Velia era tra i più importanti.
Si domanda da cristiano, devoto alla Madonna, se il culto della Vergine a Velia, non sia una sovrapposizione al culto di questa divinità pagana molto radicato nella popolazione. Ebner lo lascia presupporre. 
E questo perchè a Velia il culto della Madonna è antichissimo. Si parla addirittura dei tempi di Traiano.

L'approfondimento dello studio delle monete e della storia della Magna Graecia lo portano a scoprire episodi salienti della vita di Velia e del mondo antico.
"Il volto fidiaco di Athena sul didramma ricorda certamente - afferma Ebner - il viaggio trionfale degli Eleàti ad Atene. Come il grifone è a ricordo dell'arrivo degli Ioni a Velia".

Questo uccello, infatti, era il simbolo della Ionia. Così pure nel V secolo, per il ripetersi di lotte fratricide tra fazioni nelle diverse pòleis italiote, nei didrammi appare il leone rappresentato nell'attimo che precede il balzo fatale sulla preda. "Lo indica - dice Ebner - la bocca semiaperta, l'erta criniera, gli arti posteriori semiflessi e gli anteriori rigidamente tesi".

Verso la fine del V secolo per rendere grazie alla Dea Athena protettrice della città per il ritorno della democrazia, sui didrammi compare una corona di rami d'ulivo sulla testa della Dea e sul retro della moneta la testa di Apollo. 

Rileva il culto della Ninfa Velia, personificazione delle acque termali di Velia, anche dalle monete dove la Ninfa appare coronata di canne palustri. 

Ma per Velia Ebner, nel 1965, fa uno scoop archeologico. Partendo da alcuni indizi, formula l'ipotesi dell'esistenza di una Scuola di Medicina nella città di Parmenide dalla quale poi sarebbe derivata la Scuola Medica Salernitana. 

Tutto ciò iniziò durante la campagna di scavi del 1958/60. Egli notò, nella parte meridionale della città, e precisamente nei pressi di Porta Marina un enorme edificio o meglio un complesso di edifici con circa centosettanta vani. 

Tra i ruderi di questo edificio tanto materiale prezioso: colonne, nicchie, volte, mosaici, statue acefale e monche. Una statua, in particolare attira la sua attenzione: rappresenta un personaggio avvolto in una toga, un anello al dito, un'iscrizione dedicatoria alla base: "uelìtes iatros ".

C'è poi nella iscrizione un'altra parola con un significato preciso. E' il termine phòlarcos  da phòleos e arcòs . Traduce subito. Vuol dire caposcuola. Cerca poi di capire l'altra parola oùlis , che accosta agli aggettivi oùlios , ouliàdes , che si attribuivano ad Apollo quando si voleva parlare di lui come un dio guaritore.
Una scuola di medicina? Quel complesso era la sede?
La sua, al momento è un'intuizione. C'è bisogno di altri indizi.

E quando riesce a dimostrare l'esistenza di una eterìa pitagorica a Velia (di cui aveva già parlato nel 1951), cioè un circolo di medici esistente a Velia ai tempi di Parmenide le tenebre si dileguano ulteriormente. Gli scavi continuano e la sua ipotesi è suffragata da nuove prove. 

Nella stessa zona, infatti, cioè la seconda insula, nel 1962, fu trovata una statua cultuale di Asclepio, frammenti di un altare sull'ampia scalinata di accesso al complesso e un pozzo che, per le sue caratteristiche, non era certamente una comune cisterna. 

Viene pure alla luce una statua di Parmenide. Nella scritta dedicatoria di questa statua appare il termine physicòs . Per lui non ci sono più dubbi.
Quel complesso era la sede di una Scuola di Medicina. La notizia rimbalza in Italia dall'Inghilterra. Ebner, infatti, aveva scritto un articolo in Illustrated London News . E quando legge le sue comunicazioni al Congresso internazionale di Siena sulla Storia della Medicina, tenutosi dal 22 al 28 settembre 1968, la sua ipotesi è applaudita.
Ebner si mostra certo dell'esistenza della Scuola di Medicina a Velia con annesso Collegio già dal IV secolo a.c. Indaga nella letteratura latina e nota che personaggi famosi furono a Velia dove si praticava la idroterapia fredda. 

Scopre che Cicerone nel De Officiis, nel De Divinatione, nelle Tusculanae Disputationes e nella VII lettera accenna alla medicina e ai medici di Velia.
Che poi i medici di Velia si siano trasferiti a Salerno è più che probabile. Egli si mostra convinto che la Schola Salerni potrebbe essere stata la continuazione-derivazione della Scuola di Velia, forse, distrutta da un improvviso e pauroso cataclisma abbattutosi sulla città. 

TEMPIO DI ATHENA
Studia con attenzione un'epigrafe rinvenuta nella necropoli romana di Salerno nella quale si parla di un medico, un certo Diogene, di origine greca. In un Codice del XII secolo, rinvenuto da Sergio Musitelli nel 1968, Ebner nota che si parla a lungo di Velia e degli Eleati.
"Che i medici di Velia - dice Ebner - si siano trasferiti a Salerno e a Napoli non meraviglia. Esodi nel primo secolo d.C. furono favoriti da Stertinio Senofonte, il quale con il fratello Cleonimo aveva realizzato non pochi guadagni con speculazioni edilizie".

Inoltre, studioso attento di numismatica, vede nel pentagono stellato lo stemma dell'eterìa pitagorica di Velia. "E' da presumere - scrive nel 1951 - che il simbolo fosse stato voluto da Gisulfo su quel follaro, proprio per ricordare l'ultima Scuola di Medicina a Salerno, che nelle tenebre del Medioevo costituì il più luminoso centro di cultura europea.

Certo è che Telesio chiama la Scuola di Medicina di Salerno erede della Scuola di Pitagora".
Il riferimento è all'eterìa pitagorica di Velia. A questo punto, mi domando, che significato ha l'intitolazione di un via a Velia a poca distanza dalle sede della Scuola Medica Salernitana? Sarebbe interessante conoscere le motivazioni che spinsero gli amministratori del tempo a dedicare una via a Velia nella città di Salerno.

Pietro Ebner, dunque, non è solo lo storico del Cilento che abbiamo apprezzato dallo studio dei suoi tanti volumi, ma è anche un profondo conoscitore del mondo antico. Peccato che questi suoi studi, tutti originali, non siano sufficientemente conosciuti, perchè pubblicati su Riviste specializzate che si trovano nelle mani di pochi. Interessante sarebbe la pubblicazione, oggi, di tutti questi articoli in un volume unico."

SCOPERTO NEL LAZIO NUOVO SITO ARCHEOLOGICO

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LAZIO NEWS 24 (4 settembre 2013)

Che il nostro paese sia pieno di tesori sommersi lo sanno in tanti, ma avere la conferma di trovarsene di fronte uno, e riuscire a preservarlo dai predoni è sicuramente una grande soddisfazione.

Quella che sicuramente hanno provato gli agenti della Guardia di Finanza di Roma che con il loro intervento hanno ha sventato il saccheggio, da parte dei tristemente noti “tombaroli”, di un intero sito archeologico totalmente sconosciuto alla Soprintendenza dei beni archeologici del Lazio nella zona di Lanuvio, ai Castelli Romani.

La vasta area portata alla luce, è collegata al vicino tempio di età romana dedicato al culto di Giunone Sospita .

Qui sono stati rinvenuti i non solo i resti di alcuni edifici, ma anche monete e 5 elementi architettonici in marmo e circa 24.000 frammenti di terracotta riconducibili al periodo romana “tardo repubblicano” ed “imperiale”.

Il posto era stato perfettamente attrezzato, con sofisticati componenti elettronici , quali metal detector e apparecchi ricetrasmittenti oltre che gli usuali attrezzi utilizzati per gli scavi.

L’intera area, un terreno agricolo di circa 17mila metri quadri, è stata sequestrata dalle Fiamme Gialle del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico del Nucleo Polizia Tributaria di Roma .

Sul sito sorgono diverse strutture murarie monumentali «in opus reticulatum ed incertum», riportate alla luce dai «tombaroli» durante gli scavi clandestini e subito messe in sicurezza dai militari. 

L’intera area è stata giudicata di grande interesse scientifico dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio non solo per l’importanza del sito in se e quanto già venuto alla luce ma anche per lo stato di conservazione e delle dimensioni e per la loro vicinanza all’importante tempio di Giunone Sospita.



TEMPIO GIUNONE SOSPITA

Alberto Galieti - Descrizione Artistica Archeologica - di Lanuvio.

“… Sull’alto del colle di S. Lorenzo, l’Arx della città antica, fu scoperto nel 1914, un tempio italico (n. 4 d. P.), di m. 24x20 in opera etrusca dai cui avanzi si nota che almeno tre ricostruzioni.

Era formato da una cella circondata da portico su tre lati, il in facciata aveva un a doppia fila di quattro colonne. 

Il tempio che dalla seconda metà del secolo VI a.c. restò aperto fino al IV d.c., come tutti i tempi del genere, mostrava, una estesa ed appariscente decorazione in terracotta policromata, i resti del quale sono in parte visibili nel locale museo. 

Non senza fondamento si è pensato ad identificarlo col tempio di Iuno Sispita, il quale nel I secolo dell’impero era ancora decorato delle pregevoli pitture murali dovute al liberto asiatico Marco Plauzio.”





LA REPUBBLICA (04 settembre 2013)

E' stata scoperta a Lanuvio, ai Castelli Romani, un'area archeologica fino ad ora sconosciuta alla Soprintendenza del Lazio. Accanto al tempio di età romana dedicato al culto di Giunone Sopita (la salvatrice) sono stati rinvenuti i resti di alcuni edifici, cinque elementi architettonici in marmo, più di 24mila frammenti di terracotta attribuibili all'età romana tardo-repubblicana e alcune monete.

E' stata la Guardia di finanza di Roma ad effettuare il ritrovamento, scoprendo accanto ai resti anche sofisticati componenti elettronici (metal detector, apparecchi ricetrasmittenti) ed utensili utilizzati per lo scavo clandestino e sventando così il saccheggio da parte dei cosiddetti tombaroli.

Nel corso dell'operazione - ribattezzata con il nome "Giunone"- le Fiamme Gialle del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico del Nucleo Polizia Tributaria di Roma hanno anche sequestrato il fondo agricolo interessato dallo scavo, dell'estensione di circa 17 mila metri quadrati, sul quale insistono diverse strutture murarie monumentali "in opus reticulatum ed incertum", riportate alla luce dai "tombaroli" in corso di scavo e subito messe in sicurezza dai militari. 

All'interessante scoperta si è giunti in seguito agli accertamenti svolti nel corso di quattro distinte operazioni - dirette e coordinate dalle Procure
della Repubblica di Roma e di Velletri - che, nei mesi scorsi, avevano portato al sequestro di oltre 500 opere ed alla denuncia di cinque persone, tutte italiane.

La Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio ha attribuito grande rilevanza scientifica al sito ed ai reperti sequestrati, sia per la loro importanza intrinseca, legata allo stato di conservazione ed alle dimensioni, sia per la loro vicinanza all'importante tempio di Giunone Sospita ed alla stipe votiva a questo collegata, rinvenuta dallo stesso Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico nel 2012.





CORRIERE DELLA SERA (4 settembre 2013)

LANUVIO, 24000 REPERTI ARCHEOLOGICI
SEQUESTRATI IN UNO SCAVO CLANDESTINO

I tombaroli, al «lavoro» con metal detector, avevano scoperto e iniziato a depredare una stazione votiva del II sec a.C. dedicata al culto di Giunone Sospita

ROMA - Scoperto a Lanuvio dalla Guardia di Finanza uno scavo archeologico clandestino, i tombaroli stavano per impossessarsi del ricco patrimonio di una «stazione votiva» con oltre 24 mila reperti di natura religiosa dedicati al culto di Giunone Sospita. 

L’area risalente al II secolo a.C. e attiva fino al II secolo dell’era volgare si trova all’interno di un terreno privato incolto, sequestrati 17 mila metri quadri comprendenti opere murarie romane, il materiale archeologico consistente in monete, oggetti di ceramica e piccole sculture in pietra e marmo destinato ad arricchire la dotazione del Museo delle Navi di Nemi diretto da Giuseppina Ghini.

IL VOLTO DI GIULIA, FIGLIA DI AUGUSTO

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FIUMICINO, TORNA ALLA LUCE IL VOLTO DI GIULIA, LA FIGLIA DELL'IMPERATORE AUGUSTO
Il volto è leggermente inclinato verso sinistra ad evocare una posa aristocratica, il profilo è delicato con la linea perfetta del naso. Gli occhi hanno le palpebre a rilievo e le orecchie mostrano ancora piccoli fori per gli orecchini in metallo, forse oro o argento. 

Ma è la raffinata acconciatura a confermare l'origine imperiale della testa (nella foto) ritratto in marmo, databile all'età augustea, rinvenuta pochi giorni fa a Fiumicino, in località Aranova, in una monumentale villa romana riaffiorata a dicembre durante i lavori di scavo preventivi per un progetto edilizio.

Potrebbe essere Giulia maggiore, figlia di Augusto, l'unica naturale avuta dalla prima moglie Scribonia.

Ne è quasi sicura la Soprintendente per l'Etruria meridionale, Alfonsina Russo Tagliente, che ora sta studiando nei laboratori di restauro del Museo Etrusco di Villa Giulia il reperto scoperto dalla sua equipe di archeologi diretta da Daniela Rizzo.

"Lo stile dell'acconciatura richiama modelli di personaggi illustri della famiglia Giulio Claudia - racconta la Russo Tagliente - Sulla fronte due ciocche scendono in grandi onde morbide lungo le tempie, mentre sulla nuca i capelli appaiono in bande lisce divise da una riga in mezzo e raccolte in fitte trecce racchiuse in una crocchia bassa. Inoltre, una tenia, ossia un nastro a doppio giro intrecciato ai capelli, si annoda sul capo con un effetto diadema".

La testa, a grandezza naturale, era nascosta in una zolla di terra, ritrovata in un grande ambiente della villa che fungeva da magazzino di conservazione per il cibo. Della villa, infatti, databile tra I sec. a.c. e II d.c., è stata individuata tutta la "pars rustica", ossia gli ambienti domestici e di servizio. 

"La villa, che si doveva articolare a terrazze sulla collina, era monumentale - racconta l'archeologa Daniela Rizzo - i muri d'età repubblica hanno, infatti, poderosi blocchi di opera quadrata. E' la prima testimonianza di una residenza imperiale sul litorale". 

La scoperta sarà presentata in anteprima domani, a Villa Giulia, nel corso della tavola rotonda "I traffici illeciti e il patrimonio ritrovato: risultati e prospettive" promossa dalla Soprintendenza a conclusione della mostra "I predatori dell'Arte".



FUORI LE MURA


Tutto è partito dai lavori di scavo per un progetto edilizio. Dapprima è affiorata una villa monumentale romana. Poi nei giorni scorsi è stata rinvenuta una testa marmorea di donna, a grandezza naturale, ritrovata in quello che fungeva da magazzino per la conservazione del cibo.

Siamo ad Aranova, vicino Fiumicino. La Soprintendente per l’Etruria meridionale, Alfonsina Russo Tagliente, ne è quasi certa: quella testa è il ritratto di Giulia, figlia maggiore dell’Imperatore Augusto.

Lo dimostra l’acconciatura sofisticata, tipica dei personaggi illustri della famiglia Giulio-Claudia.

Ma ci sono anche altri indizi a conferma di questa tesi: l’inclinazione del volto che ricorda una posa aristocratica e i lobi delle orecchie forati per accogliere orecchini in oro o argento.

Sepolta sotto una zolla di terra, la testa è stata portata nei laboratori di restauro del Museo Etrusco di Villa Giulia, per poterne studiare dettagliatamente l’origine.

Una duplice scoperta quindi. Inizialmente la villa, prima testimonianza di una residenza imperiale sul litorale romano, databile tra il I sec. a.c. e il II dc., articolata in terrazze affacciate sulla collina.

Ne è stata rinvenuta tutta la parte rustica, ovvero quella adibita agli ambienti domestici e di servizio.

In seguito il volto in marmo che, se le intuizioni degli esperti verranno confermate, sarebbe la raffigurazione di una delle prime donne emancipate della storia, come la definisce Lorenzo Braccesi nel libro Giulia, la figlia di Augusto (Laterza).


Un personaggio enigmatico, carismatico oltre che scandaloso

Nata nel 39 a.C. da Augusto e la sua seconda moglie Scribonia, fin dall’inizio Giulia non ebbe vita facile, in quanto il padre desiderava fortemente un maschio. Tuttavia, per volere paterno ricevette una’ottima educazione e per forza di cose fu fin da giovanissima coinvolta nella carriera politica del padre. 

Tanto è vero che furono le ragioni di Stato ad influenzare e dirottare le sue scelte di vita: quando aveva appena due anni, Ottaviano la fidanzò con Marco Antonio Antillo, di anni dieci, figlio del triumviro con cui si era riappacificato nella pace di Brindisi due anni prima. 

GIULIA A VENTOTENE
Il matrimonio non fu mai celebrato perché i due triumviri ripresero presto le ostilità, che sarebbero culminate con la battaglia di Azio nel 31 e la sconfitta definitiva di Antonio e Cleopatra. 

A quattordici anni Giulia andò in sposa a suo cugino Marco Claudio Marcello, figlio di zia Ottavia e del suo primo marito, che però morì poco dopo. 

Augusto non perse tempo e diede presto in sposa la figlia al suo generalissimo Marco Vipsanio Agrippa, il vincitore di Azio, maggiore di lei di venticinque anni. 

La giovane a quel punto cominciò a ribellarsi: frequentava circoli letterari alla moda, vestiva in modo audace, si circondava di uno stuolo di corteggiatori ammirati, si abbandonava a numerose relazioni extra-coniugali, dando alla luce, nel frattempo, ben quattro figli. 

Quando rimase incinta la quinta volta, Agrippa morì e subito dopo la nascita dell’ultimo figlio, Augusto adottò e dichiarò suoi eredi i nipoti Gaio e Lucio, che entrarono a far parte della gens Iulia, e promise in sposa Giulia al suo fratellastro, Tiberio.

Altra unione infelice, che si esaurì con il divorzio.

Irritato dal comportamento della figlia, Augusto scrisse una lettera al Senato per denunciare le sue reiterate violazioni della lex de adulteriis. 
Ma sotto c’era ben altro: insieme al suo amante di sempre Iullo Antonio, Giulia partecipò alla congiura che doveva uccidere Augusto proprio il giorno del trentennale della battaglia di Azio. 

Scoperti, i congiurati furono arrestati, messi a morte, esiliati. Iullo Antonio costretto a suicidarsi; Giulia esiliata sull’isola di Pandateria (moderna Ventotene). 

Dopo cinque anni fu trasferita sulla terra ferma a Reggio Calabria. Nel frattempo le mire dinastiche del padre iniziarono a frantumarsi. 

Tiberio salì al potere e le confiscò tutto il suo patrimonio, costringendola a vivere in un solo ambiente angusto, dove alla fine morì nella miseria e nello squallore. Un tragico epilogo per una donna indomita che, contestando il padre, rifiutava contemporaneamente un intero sistema di valori. 

Eppure, malgrado questa triste fine, Giulia maggiore non fu mai dimenticata dal popolo che continuò a chiedere per lei, fino all’ultimo, la clemenza.

Grazie alla scoperta dei giorni passati, la storia contorta, quasi da romanzo, di questa brillante e anticonvenzionale giovane aristocratica, potrebbe acquisire un nuovo volto, aggiungendo un tassello ulteriore alla sua iconografia. Una ritrovamento che rappresenta anche un’importante testimonianza dell’immenso patrimonio culturale e artistico, sconosciuto ai più, conservato nel Comune di Fiumicino.

Di questo rinvenimento e di quello della villa romana dove la testa è stata recuperata se ne è parlato anche giovedì 24 gennaio nella Sala della Fortuna del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, dove si è svolta la tavola rotonda su “I traffici illeciti e il patrimonio ritrovato: risultati e prospettive”. Una conclusione riflessiva sulla mostra conclusasi il 15 dicembre scorso, dal nome “I predatori dell’Arte e il Patrimonio ritrovato. Le Storie del recupero”, inaugurata in occasione delle Giornate Europee del patrimonio 2012.

FORSE IL VOLTO DI AGRIPPINA MINORE

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http://www.piacenza24.eu/Cronaca/44445-
Reperto+dell'antica+Roma+scovato+da+un+restauratore+piacentino.+Due+denunce.html

"PEZZO DI VALORE INESTIMABILE". FORSE IL VOLTO DI AGRIPPINA MINORE, FIGLIA DI NERONE. L'HANNO RECUPERATO I CARABINIERI DI PIACENZA. OLTRE AL PIACENTINO È INDAGATO UN DENTISTA DI PARMA. IL GRAZIE DELLA SOPRINTENDENZA"

Piacenza - Un ritrovamento sensazionale quello operato dai carabinieri del nucleo investigativo: una testa di donna in terracotta, in ottimo stato risalente presumibilmente tra la seconda metà del II sec.. e la prima metà del I sec. a.c., scovata nell’abitazione di un 36enne restauratore piacentino di mobili antichi che è stato denunciato per ricettazione. 

Con lui è finito nel registro degli indagati con la stessa accusa anche il 62enne dentista parmigiano che, secondo gli inquirenti, deteneva il prezioso reperto da decenni prima di cederlo al restauratore per farlo piazzare sul mercato illegale. 

 “Con estrema soddisfazione riconsegniamo questa opera d’arte alla Sovrintendenza alle Belle arti” ha detto il comandante provinciale dei carabinieri Paolo Rota Gelpi. Pochi i dettagli riferiti circa l’inchiesta. Il capitano Rocco Papaleo ha spiegato che sono risaliti al restauratore grazie a una serie di informazioni raccolte nei mesi precedenti scoprendo che la “testa” sarebbe stata piazzata sul mercato illegale. 

Impossibile per ora stimare il valore del bene, ma il capitano Ciro Imperato del Nucleo carabinieri tutela beni patrimonio artistico di Bologna ha spiegato che sul mercato parallelo può essere venduta anche per “centinaia di migliaia di euro, anche milioni”.

Era stata occultata abilmente dal restauratore” ha aggiunto Papaleo. Presente alla conferenza stampa anche Roberta Conversi, funzionaria-archeologa della Sovrintendenza alle Belle Arti di Parma, che ha ringraziato i carabinieri per “aver permesso che questo bene potesse tornare nelle disponibilità del patrimonio dello Stato e quindi dei cittadini”.

E’ un reperto archeologico che prendiamo in consegna e che dovremo esaminare– ha spiegato Conversi - Da una prima visione, abbiamo appurato che si tratta di una testa femminile in terracotta, una statua votiva dell’epoca tardo repubblicana. Raffigura una figura giovanile con capo velato, quindi un’offerente. Non abbiamo elementi per poter dire la provenienza, però come tipo di produzione è inquadrabile nella statuaria di ambito laziale campano, ma per ora non abbiamo elementi per dire che proviene da Pompei. Per statua votiva si intende statue intere o piccole teste che gli offerenti dedicavano a una divinità nei santuari. Il recupero ha un grande valore per il patrimonio dello Stato. Non è sicuramente un’opera del territorio piacentino. Come prassi rimarrà presso i musei civici piacentini. Se riuscissimo a stabilire la provenienza sarebbe logico che tornasse nel suo territorio”. 
La “testa” verrà studiata nei laboratori della Sovrintendenza di Parma.

Questo ritrovamento conferma come l’Emilia Romagna sia un territorio ricco di beni culturali – ha aggiunto il capitano Imperato – se non fossimo intervenuti sarebbe entrato nel mercato clandestino in una filiera di ricettatori che cercano di trovare il collezionista appassionato o ossessionato di opere d’arti non certo per amore dell’opera. Impossibile stimarne il valore, ma nei mercati un oggetto del genere può anche arrivare a milioni di euro”.

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=rDh8VNWiduM

I carabinieri del Comando Provinciale di Piacenza, retto dal Colonnello Paolo Rota Gelpi, a conclusione di complessa indagine negli ambienti dei mercanti d'arte, hanno recuperato una testimonianza archeologica di inestimabile valore trafugata 25-30 anni fa in zona archeologica Ercolano-Pompei e trovata in possesso di un professionista. Si tratta della testa di una statua funeraria riconducibile al periodo tra l’anno 100 a.c. e l’anno 50 d.c. Due le persone denunciate.

La rara testimonianza del nostro patrimonio storico, esaminata dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Archeologici di Parma, ha destato enorme interesse nell’ambiente culturale e archeologico e probabilmente raffigura il volto di Agrippina Minore, ovvero Giulia Agrippina Augusta, madre dell’imperatore Nerone.

Il prezioso manufatto è stato custodito per tanti anni dal professionista in questione il quale ha tentato di venderlo, ma per il suo valore storico il pezzo antico "scottava" troppo per trovare un mercato.


PETRA PERTUSA MAGGIORE (Marche)

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Detta oggi Galleria del Furlo, trattasi di una galleria lunga 38,3 mt che gli antichi chiamaromo “Petra Pertusa” o “forulus” da cui il nome di galleria del Furlo.

Questa fu fatta scavare nel suo punto più stretto da Vespasiano nel 77 d.c per consentire l’attraversamento degli Appennini dal versante tirrenico a quello adriatico. Vicino a questa, un’altra lunga solo 8 mt, forse scavata dagli Umbri o dagli Etruschi. 

Quest'ultima, essendo di percorso più breve, risultava minore rispetto a quella romana che fu denominata pertanto Petra Pertusa Maggiore, mente probabilmente la minore fu chiamata appunto Petra Pertusa Minore.

Il passaggio faceva parte della via Flaminia ed è praticabile tutt'ora, fornendo un paesaggio di una bellezza unica, sia in entrata che in uscita.

Lasciata Acqualagna, la Flaminia proseguiva in direzione della Gola anche nella Tabula Peutingeriana, dove la stazione di tappa del Furlo è semplicemente chiamata Ad Intercisa e la sua distanza da Forum Sempronii è indicata in 12 miglia.

Il toponimo Intercisa, che si conserva negli itinerari più tardi (Geografo Ravennate, Guido) nella forma Intercissa, deriva dal sostantivo saxa (sasso o roccia) e pertanto letteralmente “rocce tagliate” alludendo ai tagli praticati sul fianco del Pietralata, per ricavare un terrazzo artificiale su cui fare passare la strada.

La grotta fa parte del Parco Naturale del Furlo.

Questo capolavoro ha degli antecedenti. Si sa che il tracciato della via Flaminia fu potenziato e dotato di nuove infrastrutture da Augusto, con numerosi ponti e gran parte delle sostruzioni di sostegno al piano stradale.

A fine Ottocento lungo i 3 km della forra, accanto a m 184 di tagliate nel fianco roccioso del Pietralata, sono stati misurati m 930 di sostruzioni, di cui ben m 506 di muri antichi a secco in pietra locale alti in media m 8-10.

La tecnica costruttiva è soprattutto l’opera quadrata con uso di contrafforti, il tutto da collocarsi in età augustea e prima età imperiale.

Durante l’età augustea però il transito nella gola avveniva senza passaggi in galleria.

Per la zona dove verrà aperto il traforo di Vespasiano la documentazione d’archivio settecentesca studiata da Mario Luni consente di ricostruire la sequenza degli interventi realizzati dai Romani.

In origine la consolare seguiva un tracciato a picco sul Candigliano, ricavato tagliando all’esterno il versante roccioso.

Fenomeni franosi avvenuti in più punti hanno portato allo scavo di una prima galleria, lunga circa m 8 e larga in media m 3,30, che consentisse un passaggio più interno, e quindi meno esposto, alla strada.

Cronologicamente questo intervento si pone fra quelli promossi da Augusto e il periodo di Vespasiano e non, come spesso sostenuto, in età preromana.

Ma anche questi lavori non dettero il frutto sperato perchè nel 76 o 77 d.c. venne inaugurato un secondo traforo ben più lungo e più largo (m 5,47 al centro) e in posizione più interna.

I lavori dovettero durare diversi anni, incluso, a est del tunnel, anche lo scavo di un tratto in trincea di 15 m circa.

In origine l’altezza massima della volta era di circa m 6 dal piano stradale che si presentava in salita da est a ovest, con un dislivello di circa m 4, fortemente attenuato nell’Ottocento, abbassando la via  verso l’uscita occidentale e interrando la parte orientale per circa 2 m.

Incisa sulla roccia, sopra l’ingresso orientale, si conserva l’iscrizione che ricorda la realizzazione della galleria per volere di Vespasiano; un’altra epigrafe analoga probabilmente si trovava anche sull’altro accesso.

Questa poderosa opera si è rivelata talmente efficace che ancora oggi è usata turisticamente ed è il vanto del Furlo.

Infatti negli anni ottanta del novecento, per il traffico veloce, il Passo del Furlo è stato bypassato dalla superstrada con due nuove gallerie lunghe ben 3391 m, restituendo la gola alla gioia dei suoi estimatori che ne fanno una passeggiata in un paesaggio da mozzafiato.

SCOPERTI NUOVI MAUSOLEO E DOMUS OSTIA ANTICA

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OSTIA ANTICA: SOTTO LA DISCARICA SCOPERTI UN MAUSOLEO E UNA DOMUS
LUGLIO 27, 2013

La storia della Roma Imperiale svelata dalla «suburbia» Ostia Antica.

È ancora una volta il sito archeologico alle porte della Capitale a raccontare i segreti del passato nascosti nella terra. 

L’ultima straordinaria scoperta l’ha compiuta un team di giovani ricercatori, venti studenti provenienti da 14 università americane e canadesi, sotto la direzione di Paola Germoni.

E' lei la responsabile della Soprintendenza Speciale archeologica di Roma-Ostia, con la collaborazione del direttore dell’American Institute for Roman Culture, Darius Arya.

In un’area di 12 mila metri quadrati sotto il Parco dei Ravennati a Ostia Antica, a due passi dal Castello di Giulio II, sono emerse una «domus» del IV secolo d.c. e un mausoleo di duemila anni fa.

Particolare «raffinato e prestigioso» della casa romana è, secondo gli esperti, il pavimento in marmo
policromo in opus sectile, dai colori unici come le forme geometriche.

Tesori incredibili sommersi fino a pochi mesi fa da una discarica di
lattine e sacchetti di immondizia.

Nel mausoleo circolare invece, sono stati rinvenuti diversi sepolcri che, spiega Michele Raddi, direttore scientifico dello scavo, accoglievano le salme di alcuni bambini. 

Armata di spazzolini e pazienza, l’équipe internazionale ha effettuato lo scavo tra settembre e dicembre 2012. 

«Per un archeologo Ostia Antica è uno dei posti migliori – sottolinea il professor Arya – È un grande piacere avere la possibilità di contribuire alla storia di questo luogo».



IL RISPETTO PER L'ARCHEOLOGIA

In Italia il rispetto per l'archeologia è spesso più sentito dagli stranieri che dagli italiani stessi. 

Questo perchè non viene insegnata ai giovani pur trovandosi nella nazione che ha più siti archeologici al mondo, e per giunta condensatissimi in un ristretto territorio quale è l'Italia.

Ostia Antica è un sito studiato da archeologi di fama internazionale e considerato uno dei più importanti al mondo, un po' come Pompei, in quanto le vicende geologiche l'hanno seppellita come i siti coperti dalle eruzioni vulcaniche.

Qui si tratta dei sedimenti del fiume ma l'effetto è simile, perchè il seppellimento del sito ha impedito in larga parte quella demolizione barbarica operata dal cristianesimo intransigente e quello spolio che ebbe luogo in tutto l'impero e che solo in parte andò ad ornare i ricchi palazzi dei prelati italiani.

In gran parte infatti venne venduto all'estero per soldi o regalato dai papi in cambio di favori.

Ne sa qualcosa il Louvre di cui si dice che se si togliessero tutte le opere italiane il museo chiuderebbe, ma anche molti musei non solo d'Europa ma di ogni parte del mondo.

Ma quel che è più grave è che questa deprivazione del nostro patrimonio archeologico prosegue indisturbata senza che qualcuno ne impedisca l'esodo illegale.

Di tutte le opere trafugate dai musei, è evidente che soprattutto le statue non si nascondano in una cartella, non si è mai udito nè una denuncia dai giornali nè una condanna per i responsabili, a cominciare dai direttori dei musei.

Molto interessante anche lo straordinario pavimento in opus sectile, con marmi rari e variegati

Ritrovamenti eccezionali secondo Paola Germoni:

«La struttura archeologica più importante è il sepolcro, – spiega – che conteneva i piccoli ornamenti in osso lavorato, che abbiamo rinvenuto nei livelli sconvolti delle deposizioni e che probabilmente si riferiscono a guarnizioni 
di lettighe funerarie.

Con il lavoro degli studenti, siamo riusciti a recuperare quello che è rimasto dopo che altri hanno già scavato nel corso del tempo».
Non smette di regalare gioielli unici la terra di Ostia Antica, un sito studiato da archeologi di fama internazionale e considerato da sempre uno dei più importanti al mondo, perché in grado di raccontare l’antica Roma nel momento di massima espansione dell’Impero.

Solo le scoperte degli ultimi anni vanno dalla necropoli romana del I secolo, che venne alla luce sempre nel Parco dei Ravennati nell’aprile 2010, alle recenti Terme del Sileno, una specie di antica «spa» romana dedicata al benessere.

Corriere della Sera

GENS SOSIA

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SARCOFAGO GENS SOSIA


La gens Sosia era una gens di cui poco sappiamo, se non che fu nota soprattutto nell'epoca della Guerra civile e dell'Impero Romano, all'interno della quale si registrano alcuni personaggi di rilievo, specialmente politici:

Gaio Sosio, console nel 32 a.c. e alleato di Marco Antonio;
Quinto Sosio Senecione, console nel 99 e nel 107;
Quinto Pompeio Sosio Prisco, console nel 149;
Quinto Pompeio Senecione Sosio Prisco, console nel 169;
Quinto Pompeio Sosio Falcone, console nel 193.

All'epoca dell'Imperatore Augusto a Roma alcuni Sosii erano noti come fra i maggiori librai della città, titolari di un'officina di produzione e di vendita libri, spesso citati da autori come Orazio.

Inoltre a Roma, presso il teatro di Marcello, si trovano le rovine del Tempio di Apollo Sosiano, che deve il suo nome a Gaio Sosio, che ne curò il restauro per celebrare un suo trionfo nel 34 a.c.



UOMINI ILLUSTRI

- Gaio Sosio -
(lat. C. Sosius) Uomo politico romano (sec. 1º a.c.). Console designato (38), seguì Antonio in Asia; governatore (38) della Siria, combatté gli Ebrei e conquistò Gerusalemme (37), celebrando il trionfo (34). Console (32), combatté contro Ottaviano anche nella battaglia di Azio; fu poi fatto prigioniero, ma venne generosamente graziato da Augusto, di cui divenne poi fedele seguace. Infatti ricostruì a Roma, a sue spese, presso il teatro di Marcello, il tempio di Apollo detto perciò dal suo nome Sosiano.


- Pompeius Sosius Priscus -
Sotto via Giulio Cesare gli scavi hanno riesumato quello che poteva essere un portico, la cui estremità era dominata da un ambiente per riunioni, forse un collegio di Augustali (sacerdozio del culto imperiale). A sud, all'angolo della piazza, è un'esedra, una gradinata e un'altra piazza su cui si affaccia una costruzione preceduta da un portico e pavimentata a mosaico. Un complesso di piazze porticate e di edifici pubblici che si aprivano sul panorama dell\'Etna.
     Da questo complesso edilizio proviene un grande ciclo statuario, con i familiari di Pompeius Sosius Priscus, console nel 149, probabilmente il personaggio che ha finanziato il monumento, in una Centuripe che doveva essere la terra natia della sua famiglia. Non si tratta di una famiglia senatoria genericamente importante: Pompeius Sosius Priscus è figlio di Quintus Pompeius Falco, che apparteneva alla cerchia degli stretti collaboratori dell'imperatore Adriano. Tra II e III sec. la famiglia è presente, con vasti possedimenti, in Sicilia e in nord-Africa; è probabile che fosse originaria di Centuripe.


- Quintus Sosius Senecio -
Quintus Sosius Senecio, cognato del famoso scrittore di arte militare Sesto Giulio Frontino, fu un uomo politico del I sec. d.c., quaestor in Achaea mell'80 d.c.e poi tribuno e pretore nel 90. Ebbe pure la carica di legato in Germania diventando consul ordinarius nel 99.
Durante le Guerre Daciche, Senecio ottenne un comando in Moesia Superiore e da lì un secondo consolato nel 107 insieme a Licio Licinio Sura e pure una statua a spese dello stato.
Senecio è probabilmente la stessa persona che fu amico di Plinio il Giovane, ed a cui Plutarco si rivolse in diverse occasioni nelle sue Vite. (Theseus, 1, Demosth. 1, Brut. 1). Egli è anche quello cui Plutarco indirizzò le Quaestiones conviviales e De profectibus, e forse pure nel De primo frigido, dpve Plutarco parla della spedizione di traiano sul danubio durante la II Guerra Dacica.


- Quinto Pompeio Sosio Falcone -
(lat. Q. Sosius Falco). - Console romano (193 d.c.); senatore dell'Impero Romano, ragguardevole per lignaggio e ricchezze. Falcone era originario della Sicilia: suo padre, Quinto Pompeo Senecione Sosio Prisco, fu console nel 169. Assieme alla moglie Sulpicia Agrippina, Falcone ebbe un figlio, Quinto Pompeo Falcone Sosio Prisco, candidato alla questura sotto Caracalla o Eliogabalo.
Nello stesso anno fu coinvolto in una cospirazione contro l'imperatore Pertinace, che era assente da Roma, volta a metterlo sul trono (non è ben chiaro se a sua insaputa o meno). La cospirazione venne scoperta e Falcone venne dichiarato nemico pubblico dal Senato e condannato a morte, ma Pertinace lo perdonò.



LA COMMEDIA DI PLAUTO

Amphitruo (Anfitrione)
la storia narra le vicende di Anfitrione e del suo servo Sosia che partono da Tebe in guerra. Nel frattempo Giove, innamorato della moglie di Anfitrione, Alcmena, prende le sembianze di suo marito per giacere con lei, ed ordina al dio Mercurio di prendere le sembianze di Sosia. Tornato Anfitrione, egli manda il servo Sosia per annunciare il suo arrivo, ma Mercurio, a lui identico lo confonde fino a una crisi d'identità, convincendolo di non essere Sosia. Anfitrione, dopo aver ascoltato il discorso di Sosia tornato a riferire, torna dalla moglie e si crea ulteriore confusione. La vicenda si conclude con Giove che scende dal cielo e spiega la situazione, spiacevole per Anfitrione ma anche onorevole perchè da Alcmena nasceranno due figli gemelli, dei quali uno figlio di Anfitrione e uno figlio di Giove, quindi semidio, il futuro Ercole.

Da allora il nome Sosia, derivante dalla gens Sosia, diverrà un sostantivo significante la perfetta somiglianza di una persona ad un'altra.

PIETRABBONDANTE: NUOVI REPERTI OSCI E ROMANI

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Reperti risalenti agli osci e resti di una domus romana sono stati riportati alla luce a Pietrabbondante (Isernia), nell’area archeologica del teatro e del tempio sannita in localita’ Calcatello.

Ritrovamenti che suscitano l'interesse del mondo culturale e storico.

ECCO COME DOVEVA APPARIRE ORIGINARIAMENTE
Adriano La Regina, si pronuncia sull'argomento: “Gli scavi hanno fornito informazioni importanti sull'estensione del complesso monumentale di Pietrabbondante, nel quale il teatro occupa una posizione centrale”. 

Quali gli ultimi ritrovamenti? 

Su una terrazza estesa per 112 metri a sudovest del teatro e del grande tempio è stata riportata alla luce una casa ad atrio, con impluvio, di grandi dimensioni, collegata ad un retrostante porticato a due navate, con un fronte di nove colonne e con una fila interna di altre cinque. 

Nell'intero complesso possiamo quindi identificare la domus pubblica del santuario ed il portico destinato ai culti connessi con il mondo agrario e pastorale. 

Vi era praticato il culto di una divinità che può essere accostata a Consu il dio della produzione e della conservazione dei grano ed a Ops Consiva la dea dell'opulenza e dell'abbondanza. 

Testimonianze che collocano Pietrabbondante in posizione decisiva nel mondo dei Sanniti Pentri. 

Collegato al culto dell'abbondanza, potrebbe essere anche il nome della cittadina. 

Ma - conclude La Regina - a proposito di questa e di altre questioni rimaste aperte è ragionevole sperare di ottenere nuove informazioni dal progresso degli studi

Sono i risultati, presentanti in conferenza stampa, della campagna di scavo diretta da Adriano La Regina, direttore dell’Inasa, e finanziata con delibera Cipe dalla Regione e dal Comune.

E’ osco, e dunque pre-sannitico, il basamento di un altare con teste di leone.

La certezza – ha spiegato il sindaco Giovanni Tesone – arriva da una lastra con iscrizioni osche trovata poco distante. 

Per noi e’ la conferma che a Calcatello c’e’ una miniera di reperti che possono contribuire a riscrivere molte pagine di storia”.

Lo scavo e’ stato condotto da studenti italiani e stranieri.

E’ l’ultima campagna delle tre finanziate per un valore complessivo di 750 mila euro.

”La ricchezza dell’area archeologica di Pietrabbondante – ha detto il sindaco – ci spinge a chiedere, con forza, un ulteriore aiuto alla Regione Molise e all’Inasa. 

Solo un terzo dell’area e’ stata esplorata.

"Non possiamo trascurare un bene cosi’ prezioso in grado di rilanciare l’economia della regione intera"

Il sito, che ha ricevuto lo ‘Scudo Blu’, viene visitato ogni anno da 25 mila persone.

Il dato– commenta Tesone – e’ parziale perche’ esclude il numero di visitatori non paganti, quindi con meno di 18 anni e piu’ di 65 anni.

Solo ad agosto di quest’anno abbiamo ricevuto 5.000 turisti.

Purtroppo la visita si limita all’area sannitica perche’ non abbiamo infrastrutture per il soggiorno dei turisti. 
Una carenza– si augura Tesone – che con l’aiuto delle altre istituzioni dobbiamo colmare”.

APPIO CLAUDIO CIECO ( 307 - 280 )

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Nome: Appio Claudio Cieco
Nascita: 350 a.c.
Morte: Roma 271 a.c.
Professione: Politico e Letterato

"Fabrum esse suae quemque fortunae"
"Ciascuno è artefice del proprio destino"






LE ORIGINI

Appio Claudio, (350  – 271 a.c.), nacque da famiglia patrizia della antica gens Claudia, Appio Claudio Cieco  è stato un politico e letterato romano. Secondo la leggenda, la sua cecità, da cui gli derivò il soprannome di Cieco, fu dovuta all'ira degli Dei per la sua idea di unificare il pantheon grecoromano con quello celtico e quello germanico, sicuramente una leggenda inventata dai conservatori scandalizzati.

Di antico ceppo sabino,  dedito all'attività letteraria e alla filosofia, pur ambedue disprezzate dalla tradizione romana arcaica che riconosceva solo il valore militare e la fedeltà alla patria, fu un personaggio notevole, intelligente e liberale, con marcata sensibilità verso la società greca, che lo portò ad integrarne la cultura e l'arte nel mondo romano con grande arricchimento per Roma. La letteratura e la filosofia, nella tradizione romana arcaica, erano considerate attività poco mascoline ed indegne di un vero cittadino romano. I fatti poi dimostreranno il contrario, perchè grandi generali furono letterati notevoli, a cominciare da Giulio Cesare. Fu dunque un aristocratico illuminato e progressista che si adoperò a favore della plebe, in quanto non voleva lui stesso sottostare al patriziato retrivo e tradizionalista.



L'UOMO NUOVO

Fu un grande politico e una grande mente, dotato di una cultura superiore al suo tempo e al suo ambiente. Da buon politico fu inoltre un grande mediatore, cercando di conciliare gli interessi dei patrizi intransigenti con quelli dei plebei proletari.

Percorse un brillante cursus honorum, in quanto rivestì quasi tutte le più importanti cariche pubbliche e militari. Fu censore nel 312 a.c., console nel 307 e nel 296 a.c., sempre con Lucio Volumnio Flamma Violente come collega; fu inoltre dittatore nel 292 e nel 285 a.c.
Ebbe un ruolo rilevante nelle guerre contro Etruschi, Latini, Sabini e Sanniti, che sconfisse in battaglia nel 296 a.c.

Pur essendo un patrizio dell'alta aristocrazia romana, aprì in qualità di censore il senato ai cittadini di bassa estrazione sociale e ai figli di liberti. Nel 312 infatti introdusse uomini nuovi in Senato, persino figli di liberti. Combattendo le istanze più conservatrici della società romana, decise anche di ripartire i cittadini tra le classi previste dall'ordinamento centuriato tenendo in considerazione i beni mobili oltre che le proprietà terriere. Permise, inoltre, agli abitanti humiles di Roma di iscriversi alle tribù rustiche, che erano precedentemente controllate dai membri dell'aristocrazia terriera.



LE OPERE PUBBLICHE

A lui si deve la costruzione del tempio di Bellona, a Roma nel 296 in Campo Marzio, di fianco al Tempio di Apollo Medicus, con cui svolgeva funzioni complementari: senaculum come sede del senato per ricevere i magistrati cum imperio e per la concessione dei trionfi, davanti stava la columna bellica da cui venivano fatte le dichiarazioni di guerra per i popoli non limitrofi. Forse conteneva le imagines clipeate della gens claudia poste da Appio (o più probabilmente da Claudio Marcello nel I sec.).

Fece quindi costruire il primo acquedotto, dell'Aqua Appia (o Aqua Claudia)  che prende acqua dalla Rustica sulle via Collatina e finisce sull’Aventino, con una portata di 75.000 m3.

Poi ordinò la costruzione della via Appia, da lui prese nome, la regina viarum, la prima grande strada militare che conduceva a Capua, il che dimostra chiaramente l'interesse di Appio Claudio per l'espansione romana verso la Magna Grecia. Fu nel 312 a.c. infatti che Appio convocò il Senato dicendo che occorreva costruire una strada degna del popolo di Roma, dopo la vittoria  sui Sanniti e la conquista della capitale Capua: il Senato approvò e nacque l'attuale Appia Antica.

Si deve ancora a lui la costruzione del Ponte Leproso a Benevento.

APPIO CLAUDIO CIECO ACCOMPAGNATO AL PARLAMENTO


LA CARRIERA

Fece una rapida carriera sia militare che politica ottenendo due volte il ruolo di edile curule, e tre volte di pretore e di interrege.
Per far fronte agli attacchi delle coalizioni di popoli italici, Roma doveva disporre di un numero sempre maggiore di uomini e di mezzi e, per averli, bisognava legare allo Stato coloro che si erano arricchiti nel commercio e nell'industria con la concessione di diritti politici che comportassero doveri patriottici.

Nominato censore nel 312, nell'operare il censimento tenne conto della ricchezza mobiliare e non più soltanto di quella fondiaria, quindi includendo schiavi, mobili, carrozze, statue, gioielli ecc; per la stessa ragione introdusse nell'ordine senatorio uomini di bassi natali, tra cui alcuni figli di liberti, e distribuì i liberti stessi nelle tribù rustiche col permesso di iscriversi in tutte le classi dell'ordinamento centuriato, che erano precedentemente controllate dai membri dell'aristocrazia terriera. Permise, inoltre, agli abitanti humiles di Roma di iscriversi alle tribù rustiche.

Riportò allo stato la cura del culto dell’Ara Maxima di Ercole nel foro Boario, prima gestito dalla famiglia Potitia e poi Pinaria

Nel 310 fu riconfermato censore e nel 307 divenne console. Grazie alle sue riforme la ricchezza mobiliare fu in grado di opporre i suoi interessi a quelli dei contadini e dei proprietari fondiari. La nobiltà reagì violentemente, ma non poté impedire che le nuove leggi democratiche venissero approvate.

Nel 292 e nel 285 a.c. fu per due volte nominato dittatore per fronteggiare la III guerra sannitica, la conquista dell'Etruria e la guerra contro i terribili Galli Senoni.

Morì a Roma nel 271 a.c. alla rispettabile età di 79 anni, notevoli per l'epoca.



IL DIRITTO ROMANO

Per sua iniziativa nel 304 a.c. fu pubblicato a cura del suo segretario Gneo Flavio il civile ius, il testo delle formule di procedura civile (legis actiones), chiamato Ius Flavianum, un elenco di procedure civili che consentivano al cittadino di ricorrere alla legge, e il calendario in cui erano distinti i dies fasti e dies nefasti. Fu  la prima opera latina di procedura giudiziaria.


Gneo Flavio

Secondo Pomponio il segretario di Appio Claudio era figlio di un liberto e costituì una tappa negli annali della giurisprudenza romana per aver divulgato il testo delle formule procedurali, sino ad allora privilegio dei patrizi, la cui raccolta fu detta Ius Flavianum e costituì il primo nucleo del Diritto romano. La divulgazione avvenne grazie alla volontà e al sostenimento economico e politico di Appio Claudio.

Successivamente, sempre col patrocinio di Appio, pubblicò il calendario dei fasti, ovvero dei giorni in cui era consentito stare in giudizio, ad evitare che il popolo fosse costretto ad interpellare i sacerdoti per conoscerli. Assunse la carica di edile curule ed alla sua opera, nel 304 a.c., venne dedicato un tempio alla Concordia, costruito nell'area Volcani.

Nel 296 a.c., sempre con Lucio Volumnio Flamma Violente come collega, fu nuovamente nominato console  e combattè come valente generale nelle guerre contro Etruschi, Latini, Sabini e Sanniti, che sconfisse in battaglia nello stesso anno.



L'ORATORIA

VIA APPIA
L'eloquenza ebbe in Roma una lunga tradizione, che nacque almeno da Appio Claudio Cieco e che con la storiografia era l'unica attività intellettuale degna di un aristocratico, necessaria per fare carriera nella vita politica, a parte  l'attività fisica, cioè bellica, indispensabile per l'excursus.

Di Appio si ricorda la grande abilità oratoria: fu una sua orazione del 280 a.c., in senato, ormai settantenne e cieco, come indica il soprannome, a dissuadere i Romani dall'accettare le proposte di pace di Pirro, re dell'Epiro, pronunciando (280) un famoso discorso cui Cicerone alludeva come al primo discorso ufficiale mai pubblicato a Roma..
Il senato respinse così le proposte di pace di Pirro se prima non avesse lasciato l'Italia; e l'orazione venne pubblicata circolando almeno sino all'età di Cicerone.

Plutarco su questo episodio scrive che dopo la sua coinvolgente orazione tutti i senatori si "sentirono invadere da un ardente desiderio di combattere, e Cinea fu rimandato al re con questa risposta; Pirro doveva uscire dall'Italia, solo allora, se lo desideraca, i Romani avrebbero discusso di amicizia e alleanza; ma finchè era presente in armi, i Romani l'avrebbero combattuto con tutte le forze".



LETTERATURA

Si sa che scrisse un trattato a carattere giuridico “De usurpationibus”, non pervenuto, invece ci è pervenuta una raccolta di Sententiae, il Carmen de moribus, raccolta di massime in versi saturni, a carattere educativo e filosofico molto apprezzate dal filosofo greco Panezio, nel II sec. a.c. Secondo Cicerone, Appio Claudio avrebbe risentito della dottrina pitagorica, mentre oggi si pensa più probabile risenta dei versi sentenziosi della contemporanea commedia nuova greca. A parere di altri, che condividiamo, le sue sentenze appaiono piuttosto equilibrate e accorte, tutt'altro che moralistiche o auliche.

PONTE LEPROSO DA APPIO CLAUDIO FATTO ERIGERE
Nell'opera, di cui ci sono giunti solo tre frammenti, Appio Claudio si occupava di vari argomenti a carattere sapienziale; inoltre si interessò dell'ortografia latina, come l'applicazione del rotacismo, trasformazione della "s" intervocalica in "r", e l'abolizione della "z" per indicare la "s" sonora.

Risulta probabile che l'intera opera fosse scritta in versi saturni, cioè versi suddivisi in due unità ritmiche contrapposte, come in questi due dei tre frammenti tramandati:

Nell'opera, di cui ci sono giunti esclusivamente tre frammenti, Appio Claudio sviluppava argomenti vari di carattere sapienziale; vi propose inoltre la soluzione di alcuni problemi dell'ortografia latina, quali l'applicazione del rotacismo, cioè la trasformazione della "s" intervocalica in "r", e l'abolizione dell'uso della "z" per indicare la "s" sonora.
Risulta probabile che l'intera opera fosse scritta in versi saturni, come due dei tre frammenti di cui disponiamo:
« aequi animi compotem esse ne quid fraudis stuprique ferocia pariat. »
« possedere un animo equilibrato, affinché l'incontinenza non provochi danno e disonore. »
(Frammento 1 Morel; trad. di G. Pontiggia.)
« Amicum cum vides obliviscere miserias; inimicus si es commentus, nec libens aeque. »
« Quando vedi un amico, dimentichi gli affanni: ma se pensi che ti sia nemico, non li dimentichi facilmente. » (Frammento 2 Morel; trad. di G. Pontiggia.)
Il terzo frammento ci è giunto per tradizione indiretta tramite lo Pseudo Sallustio, forse alterato rispetto alla forma originale:

« fabrum esse suae quemque fortunae. »
« Ciascuno è artefice del proprio destino. » (Frammento 3 Morel; trad. di G. Pontiggia.)


Versi saturni

Il saturnio, l'unico verso della poesia latina arcaica, prende il nome da Saturno, rifugiato nel Lazio dopo la cacciata dal cielo. Il poeta Ennio scrive che gli antichi canti erano in saturni e che vi ricorrevano i vati e i fauni, nella tradizione religiosa e agreste. Ha un ritmo quantitativo, una precisa successione di sillabe lunghe e brevi, oppure accentuativo, con alternanza di sillabe toniche e atone, oppure quantitativo e accentuativo insieme. È probabile che nei primi secoli il verso avesse un ritmo accentuativo di origine indoeuropea, e successivamente diventasse quantitativo, più adatto alla lingua latina.

SCOPERTE SOTTO VILLA ADRIANA

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Sotto la Roma che conosciamo c'è un altro mondo, molto più denso e sconosciuto, quello dei servi e degli schiavi. insomma il mondo di servizio, per genti e merci.

Ne sanno qualcosa gli archeologi che stanno scavando sotto al Circo Massimo, dove hanno ritrovato stanze per abitazioni degli schiavi o servi, o per i magazzini dei teli per l'arena, o per gli asciugamani, o per lavare i sedili, o per i montacarichi da sopra a sotto e viceversa, o per la sabbia, o per e biade per i muli che dovevano transitare da sotto a fuori, o per i meccanismi utili per l'arena.

Ne hanno saputo qualcosa anche gli archeologi che hanno iniziato a scavare sotto le Terme di Caracalla, anche lì una serie interminabile di celle e di cunicoli, di cui è stato sistemato solo un breve tratto, perchè il percorso sotterraneo rivelato per ora dalle sonde è di ben un chilometro e mezzo.

Ma si sa, l'Italia è ricchissima di reperti ma povera di politici che li apprezzino per cui si scava quando non se ne può fare a meno e talvolta anche la manutenzione va a farsi benedire, come si è tristemente visto nella Doumus Aurea e a Pompei dove si sono verificati i vergognosi crolli del nostro patrimonio unico al mondo.

Ma se tutta Roma, periferia compresa, è tutta sotterranea, con a sua volta i sotterranei dell'epoca, nelle altre città romane la cosa doveva ripetersi, così come si è ripetuta in un altro famoso sito archeologico.

Esiste infatti poco lontano da Tivoli una villa imperiale che è una città, e sotto di essa alberga una città sotterranea.

I ricercatori hanno scoperto sotto la Villa dell'imperatore Adriano un sistema di tunnel e cunicoli impressionante. 

In parte era già conosciuto, ma molto in parte. 

Infatti si era scoperta una via carrabile che percorreva il sottosuolo, destinata all'uso dei carichi per i carichi, le vettovaglie e quanto altro, dalla legna ai materiali per l'edificazione e ai manufatti, che dal sottosuolo portava alla superficie per raggiungere infine Roma.

Ma ora le cose sono cambiate, non si tratta di una strada ma di chilometri di cunicoli che percorrono tutto il sottosuolo del vastissimo complesso della villa imperiale di Adriano.

Evidentemente, come al suo solito, Adriano si divertiva a eseguire personalmente il progetto delle sue stupende edificazioni, spesso con invenzioni architetturali inedite.

Naturalmente molti passaggi sono occlusi dalla terra di due millenni che occorre ogni volta svuotare e portare in superficie. 

In parte sono state già svuotate in parte sono da svuotare con un lavoro piuttosto faticoso perchè non circola molta aria, soprattutto proprio perchè i tunnel sono per lo più bloccati. 

Spesso questi passaggi evitavano il transito della servitù in superficie, una specie di entrata di servizio, solo che qui anzichè un'entrata era un mondo sotterraneo.

A volte oltre ai passaggi c'erano feritoie per eventuali allagamenti come quello qua sotto dove si sta
infiltrando l'archeologo:

Anche questo er stato previsto, perchè ogni ambiente doveva avere più di un passaggio, un pò per l'aria, affinchè non ristagnasse  e un po' per eventuali allagamenti dovuti alle piogge.

In caso di eventuali infiltrazioni al suolo infatti l'acqua si sarebbe sparsa nei cunicoli disperdendosi parecchio. ma soprattutto per l'aria, creando dei riscontri che favorivano l'ossigenazione del luogo.

A volte i passaggi erano così ampi da consentire il passaggio di asini e muli col carretto, e sotto la Villa Adriana di Tivoli ce n'erano diversi.

Come si può vedere alcuni di questi passaggi erano fatti di mattoni stuccati, con volte sempre a mattone, oppure scavate nella roccia sempre con i soffitti a volta.




IL MESSAGGERO 8 settembre 2013

LA CITTA' SOTTO VILLA ADRIANA: SPUNTA A TIVOLI UN IPOGEO SCONOSCIUTO

C’erano passati milioni di volte. Fino a che un indizio non ha cambiato le sorti dell’esplorazione. 

Una fessura nel terreno, coperta da rovi. Con le mani hanno pulito via le erbacce fino a schiudere un piccolo varco. L’archeologia ha fatto il resto, regalando lo scorcio di un grande ambiente che s’infilava nel sottosuolo.

«L’impressione immediata era di una ampia galleria, perché aveva la forma di una volta a botte. Un dettaglio che ci ha fatto subito pensare ad una strada carrabile», racconta l’archeologa Vittoria Fresi.

Un’emozione comprensibile, perché quello che avevano sotto i loro piedi era un nuovo ipogeo del tutto sconosciuto di Villa Adriana a Tivoli. 

La sconfinata, geniale «città» dell’imperatore Publio Elio Adriano (76-138 d.c.) che, oltre agli scenari mozzafiato in superficie, nasconde ancora meraviglie sotterranee: il sistema viario della «strada carrabile». 

«Tutta la maestosità della villa si riflette nel sottosuolo - spiega la Fresi - Una autentica villa che sfila parallela al di sotto, ideata da Adriano, che serviva per rendere i suoi monumenti ancora più spettacolari». 

L’eccezionalità della Villa di Adriano si comprende se si conoscono i sotterranei. 
I giochi d’acqua erano alimentati da una rete idraulica capillare, e i palazzi serviti dal «traffico» sotterraneo.




IL PROGETTO

Non altro che un paradiso per gli speleologi. 

È qui infatti che il Centro ricerche archeo speleologiche Sotterranei di Roma, presieduto da Marco Placidi, sta portando avanti un nuovo progetto di studio e documentazione della «strada carrabile» in collaborazione con la Soprintendenza ai beni archeologici del Lazio, guidata da Elena Calandra, sotto la supervisione scientifica della direttrice di Villa Adriana, Benedetta Adembri. 

Un innovativo lavoro che sarà coronato dal traguardo dell’apertura dei sotterranei. 

«La cosa più divertente è che il mondo sotterraneo aiuta a capire le strutture in superficie», sottolinea Vittoria Fresi coordinatrice dell’attività di ricerca.

È dal 2008 che il Centro sta studiando i sotterranei, impresa non da poco visto che Villa Adriana custodisce tutte le tipologie di ipogei del mondo romano. 

Condotti idraulici, cisterne, tunnel pedonali e per i carri. 

« Un mondo che restituisce oggi un’immagine fotografica della villa all’epoca di Adriano perché rimasto quasi intatto rispetto ad altre realtà urbane», evidenzia la Fresi. 

La Villa verrà infatti abbandonata subito dopo la caduta dell’impero, scivolando in un lento disuso. 

Punto di partenza per le nuove indagini è stata la documentazione storica degli archivi della Soprintendenza. Un sistema che attraversa per oltre un chilometro tutta la villa partendo dalla terrazza della Venere di Cnido. 

«Abbiamo capito che esisteva una strada intervallata ogni 15 metri da pozzi che nei secoli l’hanno occlusa da accumuli di detriti - avverte la Fresi - Noi ci siamo addentrati e abbiamo aperto un varco. Le mappe antiche dicevamo che la strada terminava nel cosiddetto grande trapezio, un ipogeo formato da 4 tunnel alti e larghi 5 metri, che era lo svincolo per i carri».



LA NUOVA STRADA

Quasi una meta leggendaria, il grande trapezio: si conosceva e se ne aveva traccia, ma solo ora si è riusciti a setacciarlo in tutta la sua complessità. 

Ed è stato durante l’ispezione di un pozzo che l’équipe di speleologi s’è ritrovata nel grande trapezio. 

«Eravamo nell’ultimo pozzo della strada che ci ha immesso in questo enorme tunnel scavato nel tufo», ricorda la Fresi. 

Ma ad emozionare ancora di più le indagini è la scoperta di quella che sembra un nuova strada carrabile, sull’estremità della terrazza di Tempe. 

«Dalle prime ispezioni appare più ampia di quella nota, con oltre 3 metri di larghezza. Abbiamo rintracciato l’ingresso colmo di terra fino alla volta, ma col robottino filoguidato abbiamo verificato che prosegue per metri in modo rettilineo». 

Il nuovo accesso cambierebbe l’organizzazione sotterranea della villa. 

«Si pensava che un’unica strada partisse dalla terrazza della Venere di Cnido fino al trapezio. Questo nuovo ingresso potrebbe svelare un altro percorso alternativo».

Ed è qui che si stanno concentrando le ricerche. 
Ma le esplorazioni hanno regalato anche curiosità.
Come l’impronta di bambino su una lastra di rivestimento di un canale. 
O la conchiglia del Mar Rosso rinvenuta nei canali sotto il Serapeo. 

Probabilmente decorava i piatti serviti all’imperatore. E ci racconta quanto era facile per Adriano avere souvenir dai luoghi più esotici.

CENTUM GRADUS E SCALAE GEMONIAE

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LA RUPE TARPEA

Il colle del Campidoglio era distinto in due sommità: il Capitolium propriamente detto a sud est (versante del giardino di via del Tempio di Giove), e l’Arx a nord ovest (versante della chiesa di S. Maria in Aracoeli), divise da una piccola vallata l’Asylum (corrispondente all’odierna piazza del Campidoglio).

All'Asylum giungeva una strada che proveniva dal Campo Marzio, mentre dal Foro Boario salivano le scale dette Centum gradus, identificate con certezza nella parte occidentale del colle da un frammento della Forma Urbis, la pianta marmorea di Roma di età severiana.

Dalle fonti letterarie si conoscono i nomi di altre scale: le Gemoniae, site presso il Carcere Tullianum, famose per i gemiti dei prigionieri e perché vi si esponevano i corpi dei condannati, i Gradus Monetae, la prosecuzione delle Gemoniae che permettevano l'accesso all'Arx. Sembra che l'unica via carrozzabile, percorsa dai carri dei generali vittoriosi a conclusione del loro ingresso trionfante nella città, fosse il Clivo Capitolino. La strada, che andava dal Foro Romano al Campidoglio, forse tracciata già all'epoca dei re Tarquini, venne lastricata in pietra dai censori Q. Fulvio Flacco e A. Postumio Albino nel 174 a.c., come prosecuzione della Sacra Via, per raggiungere il tempio di Giove Capitolino.

CENTUM GRADUS (CENTO GRADINI)
Secondo la tradizione il Campidoglio sarebbe stato conquistato dai Sabini a causa del tradimento della romana Tarpea, che avrebbe aperto le porte della cittadella agli invasori in cambio di tutto ciò che i soldati portavano sul braccio sinistro, probabilmente anelli e bracciali d’oro. I Sabini in tutta risposta dell’aiuto loro offerto dalla traditrice, la sommersero con i loro scudi, che impugnavano con il braccio sinistro, uccidendola.

Molto probabilmente Tarpea non era altro che una divinità tutelare della collina : Mons Tarpeium è infatti il nome più antico della collina del Campidoglio. La statua di questa divinità rappresentata come eretta su una catasta di armi, potrebbe aver dato origine alla leggenda della traditrice Tarpea. Certo per tutta l’antichità un precipizio della collina fu conosciuto con il nome di saxum Tarpeium, cioè rupe Tarpea, e da esso venivano precipitati i rei di tradimento.



IL TEMPIO DI GIUNONE MONETA

Il 18 luglio del 390 a.c., da allora giorno infausto dal calendario romano, l'esercito inviato a fermare i Galli fu sbaragliato presso il fiume Allia. Tre giorni dopo gli invasori giunsero nella città indifesa e la saccheggiarono fatta eccezione per il Campidoglio che si salvò dal sacco e resistette per qualche mese.

In relazione a questo assedio si narra dell’attacco notturno dei Galli, sventato dagli starnazzi delle oche sacre che diedero l’allarme alla guarnigione. Cosa non impossibile perchè le oche fungono spesso da sentinelle agli intrusi che a volte giungono ad attaccare fisicamente. Infine i Galli decisero di ritirarsi convinti dall’offerta di un congruo riscatto in oro.

Probabilmente nel 343 a.c. fu costruito, sull’Arx, per ringraziamento alla dea cui erano dedicate le oche, il tempio di Giunone Moneta (cioè “ammonitrice”), anche se il suo culto, come è testimoniato dai ritrovamenti archeologici, è molto più antico. Esso sarebbe stato costruito, secondo la tradizione, dal figlio di Camillo a seguito di una vittoria sugli Aurunci. Presso questo edificio vi era la Zecca di Roma : proprio da questa vicinanza al tempio il denaro coniato, finì con l’essere indicato con il termine “moneta”.



LA SCALINATA DI IUNO MONETA

Era detta Gradus Monetae la scalinata che saliva dalla Via Sacra Via, tra il Carcere Mamertino e il Tempio della Concordia Augusta, e che giungeva fino al Tempio di Iuno Moneta sulla sommità dell'Arx. Nella loro interezza, questi gradini sono conosciuti come Gradus di Moneta sulla base di Ovidio, che menziona i gradini che salgono fino al Tempio in connessione col 16 gennaio e il Tempio della Concordia Augusta, ridedicato da Tiberio in quella data dell'anno 10 d.c. "qua fert sublimes alta Moneta gradus"

SCALAE GEMONIAE
Il nome di scale Gemoniae è attestato dai tempi di Tiberio per i gradini che dal Carcere, dove era la parte più bassa dei gradini, o Gradus, di Moneta, che nel periodo augustano era usato al posto del termine gradini. Centum Gradus era il nome dei gradini, cioà della scalinata che conduceva al Saxum Tarpeium: qua Tarpeia rupes Centum gradibus aditur. probabilmente il Centum gradus era un nome alternativo per la parte più bassa del Gradus Monetae, come sostiene il Corelli.

Rodríguez Almeida identifica Centum gradus con due rampe a gradini che salgono nell'angolo sud dell'Area Capitolina conosciuta sulla tavola severiana, ma questa teoria non regge, poichè il Saxum Tarpeium, o Rupe Tarpea, stava sull'Arx. Insomma il Gradus Monetae andava dalla Via Sacra al Tempio di Iuno Moneta; dalla Via Sacra al Saxum Tarpeium la scalinata prendeva il nome di Centum gradus, e più tardi fu conosciuta col nome di Scalae Gemoniae.

Le Scalae Gemoniae, che salivano all' Arx in corrispondenza forse della scalinata attuale, passando tra il Carcere e il tempio della Concordia costituivano un secondo accesso al Foro Romano; sopra di esse si esponevano i cadaveri dei giustiziatidella vicina prigione per il delitto di lesa maestà sotto l'imperatore Tiberio prima che fossero gettati nel Tevere: l’usanza perdurò in età imperiale..

RICOSTRUZIONE GRAFICA DELLA SCALAE GEMONIAE
I gradus Monetae, scalinata diretta al tempio di Giunone Moneta, erano probabilmente un prolungamento delle Scalae Gemoniae nel punto più alto della cittadella.

Le Scalae Gemoniae giungevano sulla cima dell’Arx e corrispondevano approssimativamente alla scalinata moderna che parte alle spalle del Carcere Tulliano. Probabilmente il suo prolungamento era rappresentato dai Gradus Monetae, che portavano al tempio di Giunone Moneta e terminavano presso la rupe Tarpea che non si trovava quindi in corrispondenza del Capitolium, ma dell’Arx e si affacciava sul foro probabilmente in corrispondenza del carcere Tulliano. I Centum Gradus invece non dovevano corrispondere ad un altro percorso, ma si devono identificare con i Gradus Monetae di cui indicavano la lunghezza di cento gradini.



MINI COLOSSEO SCOPERTO A GENZANO

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Mini Colosseo dell'imperatore Commodo
ritrovato a Genzano
di Laura Larcan

Che l’imperatore Commodo, il controverso figlio di Marco Aurelio, avesse una passione per i giochi gladiatori e i combattimenti contro le bestie, era noto.

Non a caso le fonti storiche raccontavano che l’erede dell’imperatore filosofo avesse un anfiteatro privato nella sua natia Lanuvio dove amava sfidare il destino, scendendo nell’arena e uccidendo vestito da gladiatore le belve feroci.
Ma quello che finora sembrava solo un retroscena riportato dalla biografia della «Historia Augusta», ha ora le sue prove archeologiche. La conferma che Commodo avesse davvero il suo personale tempio dei ludi gladiatori, ribattezzato già dagli studiosi «il piccolo Colosseo».



 L’ARENA 

L'arena di oltre 35 metri per 24, una struttura esterna di oltre 50 metri per 40, una superficie della cavea di oltre 9mila metri quadrati, e una capienza di oltre 1300 posti, senza contare l’intero palco imperiale. Un monumento databile alla metà del II secolo d.C.

Ma a colpire la suggestione sono i marmi decorativi provenienti da tutto il Mediterraneo. L’eccezionale scoperta è avvenuta a Genzano nel complesso archeologico della cosiddetta Villa degli Antonini, l’originaria residenza imperiale che si estendeva in età romana nell’«Ager Lanuvinus», l’antica Lanuvio, luogo di nascita di Marco Aurelio e, appunto, di Commodo.



I MARMI 

È qui che dal 2010 l’équipe del Center for Heritage and Archaeological Studies della Montclair State University sta portando avanti il progetto di scavo didattico sulla Villa degli Antonini sotto la direzione scientifica di Deborah Chatr Aryamontri e Timothy Renner, grazie ad una convenzione rilasciata dal Ministero per i beni culturali in accordo con la Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio, e in collaborazione col Comune di Genzano.

Le campagne di scavo estive avevano finora indagato le strutture del vasto impianto termale degli Antonini, ma soprattutto avevano individuato una piccola porzione di strutture murarie curvilinee:
«Ci sembrarono subito anomale perché apparivano disposte secondo una planimetria ellittica - racconta la Chatr Aryamontri - e oggi siamo ad una svolta. Le indagini col georadar hanno verificato l’intera disposizione planimetrica delle mura di fondazioni e gli scavi hanno riportato alla luce una nuova porzione di strutture curvilinee speculari».

Blocchi di roccia vulcanica alternati a laterizio, rivestiti di marmi pregiati. «Il repertorio dei marmi è eccezionale, il giallo antico, il pavonazzetto, il greco scritto, il granito rosa e il serpentino - avverte la Aryamontri - Pregevoli anche i rivestimenti pavimentali tra tessere di mosaico bianco-nero, pasta vitrea, incluso tessere di vetro trasparente ricoperte con foglia d’oro.

Una produzione di qualità rivolta ad una committenza ricca». Tutto intorno all’arena corre un canale sotterraneo, largo oltre 50 centimetri: «L’ipotesi è che servisse anche per gli spettacoli di battaglie navali», azzarda la studiosa.
Sempre sotto l’arena, spicca una scala elicoidale che scende per quasi tre metri. Forse anche il «piccolo Colosseo» di Commodo aveva i suoi ipogei per le macchine sceniche funzionali allo spettacolo. Privato, ma grandioso.

HORTI VETTIANI

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GLI HORTI

Gli Horti Tauriani erano degli splendidi ed enormi giardini situati sul colle Esquilino che in età augustea erano parte della Regio V (Esquiliae) e occupavano la zona compresa tra la via Labicana antica, l'agger serviano e le Mura aureliane per un'estensione di circa 36 ettari.

ARTEMIDE RITROVATA NEGLI HORTI VETTIANI
I giardini prendevano il nome dal proprietario Tito Statilio Tauro, console nel 44 d.c., che nel 53 fu accusato di magia e costretto al suicidio da Agrippina minore, che visitati gli splendidi giardini, li volle per sè a tutti i costi. All'inizio dell'impero, infatti, la gens Statilia era proprietaria dell'ampia area compresa tra la via Tiburtina e Labicana-Praenestina, in cui si trovavano anche i suoi monumenti funerari e quelli della gens Arruntia.

Successivamente, al tempo di Claudio e Nerone, i giardini furono divisi in Horti Pallantiani e Horti Epaphroditiani, in favore dei liberti imperiali Epafrodito e Pallante. In parte furono riunificati da Gallieno (253-268 d.c.), accorpati agli Horti Liciniani di proprietà imperiale.

Vennero di nuovo suddivisi così che alla fine del IV sec. d.c. il praefectus Urbi Vettio Agorio Pretestato ne possedeva una parte enorme, gli Horti Vettiani, che si estendevano nella zona dell'attuale Palazzo Brancaccio. I resti della domus appartenuta a Pretestato e a sua moglie Aconia Fabia Paulina sono stati identificati attraverso i nomi iscritti sulle fistulae aquariae trovate all'interno dell'edificio. Una struttura muraria realizzata con materiali di recupero ha restituito, come in tanti altri casi sull’Esquilino, una straordinaria quantità di resti e frammenti sculturei.

Pretestato e Paulina avevano una splendida domus negli horti, anzi un palatium, all'angolo tra via Merulana e via delle Sette Sale, a Roma, dove ora si erge Palazzo Brancaccio. Il giardino che circondava il palazzo, gli Horti Vettiani, si estendeva fino all'attuale stazione ferroviaria di Termini. I ritrovamenti archeologici effettuati in questa area hanno riportato alla luce diversi monumenti riconducibili alla famiglia di Pretestato, nonchè frammenti marmorei di statue, pavimenti e mosaici, ma il più è ancora da scavare.

Dall'area degli Horti Tauriani, nonchè Vettiani, provengono molte statue sicuramente poste nei viali dei giardini, come la statua di mucca facente parte di un gruppo pastorale, copia dell'originale in bronzo di Mirone creato per l'acropoli di Atene, un bassorilievo con un paesaggio sacro e un santuario circondato da alte mura, un rilievo frammentario di fattura neoattica con le quadrighe affrontate di Helios (il Sole) e Selene (la Luna), due grandi crateri marmorei, tre splendidi ritratti imperiali di Adriano, Sabina e Matidia,la statua più grande del vero rappresentante Igea, la parte superiore della statua di Artemide e la statua, anch'essa maggiore del vero, della Dea Roma trasformata in Roma Cristiana alla fine dell'Ottocento per decorare la Torre Capitolina. Le tre ultime sculture sembra ornassero tre nicchioni di un interno del palatio.

Un altro importante complesso di sculture fu scoperto tra il 1872 e il 1873 ad est di piazza Manfredo Fanti, durante la demolizione di un muraglione di fondazione annesso ad un edificio con diverse fasi edilizie dal II al IV sec. Nelle murature dell'edificio fu trovata una serie di fistulae con i nomi di Vettio Agorio Pretestato, praefectus Urbi del 367-368, e di sua moglie Aconia Fabia Paulina, evidentemente della villa di loro proprietà. Qui vennero rinvenuti i ritratti di Adriano e di sua moglie Sabina, un cratere marmoreo con le nozze di Elena e Paride e un altro con un corteggio dionisiaco ed inoltre una testa colossale di Baccante. Inoltre l'eccezionale Auriga dell'Esquilino, recentemente ricongiunto alla statua del cavallo, rinvenuta a qualche centinaio di metri in un altro muro, a formare un notevole gruppo scultoreo.

Tra le altre vi è la base di una statua recante la dedica a Celia Concordia, una delle ultime sacerdotesse di Vesta, che aveva innalzato una statua a Pretestato dopo la sua morte. Questa statua fu oggetto di opposizione da parte Simmaco, che scrisse una lettera a Flaviano dicendo di essere contrario alla sua erezione da parte delle Vestali, in quanto queste non avevano mai eretto un monumento ad un uomo, benché pontifex maximus.



LE OPERE D'ARTE BLASFEME

TESTA DI AMAZZONE h.vettiani
Nel volume dedicato all'innalzamento dell'Obelisco Vaticano, l'architetto Domenico Fontana, tra i fatti più significativi del pontificato di papa Sisto V, riporta che il pontefice fece radere al suolo tutti gli antichi monumenti che ingombravano la sua villa esquilina per regolarizzare con le macerie l'andamento del suolo.

Il che dimostra la tremenda decadenza dei costumi che faceva abbattere opere d'arte in quanto appartenenti ad un periodo di diversa religione che andava cancellato, tra l'altro un lungo periodo di splendore artistico sia greco che romano nella statuaria, un miracolo di architettura che investiva ogni angolo di Roma.

Per cancellarla i papi ce la misero tutta, calcificando, demolendo ed esportando tutto ciò che non riuscivano e riutilizzare, cancellando una produzione artistica irripetibile, non solo perchè i tempi e le sue forme figurative cambiano, ma anche perchè oggi non si sarebbe in grado, con detta decadenza, non solo di creare certe statue ma nemmeno di riprodurle.



ACONIA FABIA PAULINA - Storia d'amore

Fu una patrizia romana e un'importante esponente del Paganesimo in un'epoca in cui l'Impero romano si stava convertendo al Cristianesimo. Figlia di Fabio Aconio Catullino Filomazio, praefectus urbi nel 342-344 e console nel 349, Paulina sposò nel 344 Vettio Agorio Pretestato, un importante funzionario imperiale e membro di diversi collegi pagani.

Il matrimonio cambiò la sua esistenza, sia interiore che esteriore. Vettio, infatti, non era soltanto membro di un’illustre casata senatoria nonché uomo di governo, ma unì allo svolgimento degli incarichi politici un elevato livello di impegno culturale e un’intensa opera a favore della conservazione in Roma della religione tradizionale, contro l’affermazione del Cristianesimo. Vettio fu sacerdote di numerosi culti, tra cui quelli di Vesta e dei Misteri eleusini, e coltivò significativi legami con uomini di cultura del tempo, facendosi promotore della diffusione in latino di testi antichi, come l’opera aristotelica “Analitici”.

ACONIA PAULINA
Numerose furono le iniziative, anche in campo architettonico, da lui promosse per la tutela della religiosità romana e la sua influenza fu tale che Macrobio lo fece protagonista dei “Saturnalia”, dedicata alla celebrazione della rifioritura pagana in atto in quegli anni.

Fabio, padre di Paulina, all’atto della promulgazione del Codex Teodosianus, che dichiarava il cristianesimo quale unica religione ammessa, riuscì a permettere che nei templi romani si potesse continuare la celebrazione dei consueti sacrifici alle divinità pagane.

Pertanto Aconia Paulina condivise col marito tali stessi ideali di religiosità pagana, ad esempio attraverso la nomina negli stessi sodalizi sacerdotali di cui Vettio era membro, ma soprattutto facendosi iniziare ai misteri eleusini, ai misteri lernici di Dioniso e Demetra, oltre che al culto di Cerere, Ecate, di cui era ierofante, Magna Mater, come tauroboliata, e di Isis.

Così i due coniugi condividevano aspirazioni simili, si dedicavano ai riti e coltivavano molte amicizie e relazioni sociali. Ma soprattutto li unì un grandissimo amore, un sodalizio che durò per ben 40 anni, alla fine dei quali il marito muore e la moglie molto si rammarica che gli Dei non le abbiano concesso il dono di morire per prima, evitandole un così devastante sofferenza.

Pretestato e Paulina avevano un palazzo all'angolo tra via Merulana e via delle Sette Sale, a Roma, dove ora si erge Palazzo Brancaccio. Il giardino che circondava il palazzo, gli Horti Vettiani, si estendeva fino all'attuale stazione ferroviaria di Roma Termini. I ritrovamenti archeologici effettuati in questa area hanno riportato alla luce diversi monumenti riconducibili alla famiglia di Pretestato, tra cui la base di una statua con dedica a Celia Concordia, ultima o penultima sacerdotessa di Vesta, che aveva innalzato una statua a Pretestato dopo la sua morte (384):

"Fabia Aconia Paulina erige questa statua di Celia Concordia,
badessa delle Vestali, non solo a testimonianza delle sue virtù,
della sua castità e della sua devozione agli dèi,
ma anche come segno di ringraziamento
per l'onore concesso dalle Vestali a suo marito Pretestato,
al quale hanno dedicato una statua nel loro collegio."




TOMBA DI VETTIO

Eraclito: "Morte è quanto vediamo da svegli; sogno, quanto vediamo dormendo."

Sulla base di un monumento funebre dedicato a Pretestato, sono incise il cursus honorum del marito di Paulina, due dediche di Pretestato alla moglie e un poema di Paulina dedicato al marito e al loro amore coniugale, forse una derivazione dell'orazione funebre declamata da Paulina per il funerale del marito.
Paulina morì poco tempo dopo il marito.

SALONINA MATIDIA
Sulla tomba del marito Aconia fece incidere:

"Agli Dei Mani. Vettius Agorius Praetextatus, augure, sacerdote di Vesta, sacerdote del Sole, quindecemvir, curiale di Hercules, iniziato a Liber ed agli Eleusini, hierophante, neocorus, tauroboliatus, padre dei padri. Nel pubblico ufficio questore imperiale, pretore di Roma, governatore della Tuscia e dell'Umbria, governatore di Lusitania, proconsole di Achaia, prefetto di Roma, legato senatoriale in sette missioni, prefetto della guardia pretoriana sia in Italia che in Illyrica, console ordinario eletto, e Aconia Fabia Paulina, iniziata di Cerere e degli Eleusini, iniziata di Hecate ad Aegina, tauroboliata, hierophante. Vissero insieme per 40 anni."


Sul lato destro dei versi di Vettio per Aconia:

"Vettius Agorius Praetextatus a sua moglie Paulina.
Paulina, conscia di verità e castità,
devota ai templi e amica delle divinità,
che pose suo marito prima di se stessa,
e Roma prima di suo marito, appropriata, fedele,
pura nella mente e nel corpo, gentile con tutti,
di grande aiuto alla sua familia di Dei…"



Sul lato sinistro:

"Vettius Agorius Praetextatus a sua moglie Paulina.
Paulina, la compagnia del nostro cuore è l'origine della nostra proprietà; è il compito di castità e puro amore nato nei cieli. A questa compagna rivelai i segreti nascosti della mia anima; esso fu un dono degli Dei, che cementò il nostro matrimonio con amore e castità insieme. Con la devozione di una madre, con il fascino di una moglie, con l'impegno di una sorella, con la modestia di una figlia; con la grande complicità con cui fummo uniti ai nostri amici, dall'esperienza della nostra vita insieme, dall'alleanza del nostro matrimonio, in pura, piacevole, semplice concordia; tu aiutasti tuo marito, lo amasti, lo onorasti, ti prendesti cura di lui."



Sul retro del monumento i versi di Paulina:

"La distinzione dei miei genitori non fece nulla di più grande per me
tale che io potessi sentirmi adatta a mio marito.
Ma tutta la gloria e l'onore è nel nome di mio marito, Agorius.
Tu, disceso da nobile seme, hai contemporaneamente
glorificato il tuo paese, il senato, e la moglie,
col giudizio della tua mente, con il tuo carattere e la tua capacità,
con cui hai raggiunto il più alto pinnacolo dell'eccellenza.

Per quanto siano stati prodotti in ogni linguaggio
dalle abilità dei saggi a cui si aprono i cancelli del paradiso,
per quanto cantori e poeti composero o scrissero in prosa,
questi tu facesti meglio di quelli che prendevi da leggere.
Ma queste sono piccole cose; tu come un pio iniziato conservi
nel segreto della tua mente ciò che fu rivelato nei sacri misteri,
e con la conoscenza dei culti fai da collegamento con la divinità degli Dei;
tu gentilmente hai incluso come collega nei riti tua moglie,
che è fedele e rispettosa di uomini e dei.

Perchè parlare dei tuoi onori, poteri e gioie
cercate nelle preghiere degli uomini?
Questi tu li giudichi sempre transitori e insignificanti,
dal tuo titolo di eminenza dipendono le insegne del tuo sacerdozio.
Marito mio, attraverso il dono dell'apprendimento
mi hai mantenuta pura e casta dal destino di morte;
mi hai introdotto nei templi e devotamente

mi hai tenuta come una degli Dei. 

VIBIA SABINA
Con te come mio testimone mi introducesti a tutti i misteri;
tu, mio pio consorte, mi hai onorato come sacerdotessa
di Dindymene e Attis con riti sacrificali del taurobolium;
mi hai istruita come ministro di Hecate nel triplo segreto
e mi hai reso edotta dei riti della greca Cerere.
Per tuo merito tutti mi lodano come pia e benedetta,
perchè tu stesso mi hai proclamato buona in mezzo al mondo;
da sconosciuta sono diventata conosciuta a tutti.

Con un marito come te come non avrei potuto essere felice? 

Le madri romane cercano esempio in me,
e pensano se i loro figli sono belli come i tuoi.
Ora gli uomini, ora le donne, vogliono approvare
le insegne che mi hai dato come insegnante.
Ora che tutto questo à stato portato via,
tua moglie è devastata dal dolore;
Io sarei stata felice se gli Dei mi avessero concesso
che mio marito mi sopravvivesse, ma sono ancora felice
perchè io sono tua, sono stata tua
e sarò di nuovo tua dopo la mia morte."


Un'altra iscrizione

"A Fabia Aconia Paulina, figlia di Aco Catullinus formalmente prefetto e console, moglie di Vettius Praetextatus eletto prefetto e console, iniziata ad Eleusi agli Dei Iacco, Cerere e Core, iniziata a Lerna agli Dei Libero e Cerere e Core, iniziata ad Aegina alle due Dee, tauroboliata, sacerdotessa di Iside, ierofante della Dea Ecate, e iniziata ai riti della greca Cerere."



VETTIO AGORIO PRETESTATO - storia d'amore

Cioè Vettius Agorius Praetextatus; (320 circa – 384) è stato un politico romano di nobile famiglia senatoria, uno degli ultimi esponenti di rilievo della religione romana, che cercò di proteggere e custodire dall'avanzata del Cristianesimo; fu sacerdote e iniziato di molti culti, oltre che studioso di letteratura e filosofia.

La sua vita è citata da Quinto Aurelio Simmaco, Ammiano Marcellino e da fonti epigrafiche, considerato un ottimo magistrato e un uomo virtuoso.mOltre all'epigrafe sull'ara funeraria di Pretestato di sua moglie Aconia Fabia Paulina; altre informazioni sono fornite da alcune leggi che gli furono indirizzate in qualità di praefectus urbi e di prefetto del pretorio e conservate nel Codice teodosiano, alcune lettere indirizzategli dall'imperatore Valentiniano II e riguardanti una disputa religiosa e conservatesi nella Collectio Avellana.

Sofronio EusebioGirolamo (347-420), teologo e polemista cristiano, stupito del grande dolore di tutti per la morte di Pretestato, scrisse con rabbia che Pretestato era sicuramente nel Tartaro, cioò all'inferno, in quanto pagano. Macrobio invece fece di Pretestato il protagonista dei Saturnalia, rappresentazione della rinascita pagana di quel periodo.

All'interno delle alleanze tra le famiglie di rango senatoriale nacque il matrimonio d'amore, anzi di grande ed eccezionale amore tra Pretestato e Aconia Fabia Paulina, avvenuto intorno al 344. I due ebbero almeno un figlio, citato nel poema funebre e che fece incidere una iscrizione in onore del padre, poco dopo la sua morte, nella loro casa sull'Aventino. Anche se gli storici lo identificano con un figlio maschio, potrebbe essere anche una figlia, forse identificabile con la Pretestata citata da Girolamo.

L'ara funeraria di Pretestato e di sua moglie Aconia Fabia Paulina, ora ai Musei Capitolini, riporta il cursus di Pretestato. In campo religioso ricoprì le cariche di pontefice di Vesta e del Sole, augure, tauroboliatus, curiale di Ercole, neocoro, ierofante, sacerdote di Libero e dei Misteri eleusini.

In campo politico fu questore, corrector Tusciae et Umbriae, consularis (governatore) della Lusitania, proconsole di Acaia, praefectus urbi (367-368); nel 384 fu Prefetto del pretorio d'Italia e Illirico, nonché console eletto per il 385, carica che non ricoprì mai in quanto morì nel tardo 384.

Durante il suo mandato di praefectus urbi restituì al vescovo di Roma Damaso la basilica di Sicinino e fece espellere l'altro vescovo Ursino da Roma, riportandovi la pace, sebbene garantisse un'amnistia ai suoi seguaci. La sua amministrazione della giustizia fu molto lodata; fece rimuovere le strutture private costruite sui templi pagani (balconi, colonnati, piani rialzati, nel loro complesso detti maeniana) e diffuse in tutta la città pesi e misure controllate e uniformi. Restaurò il Portico degli Dei Consenti nel Foro nel 367 riorganizzandone anche il culto. Dopo la sua morte l'imperatore chiese al Senato romano una copia di tutti i suoi discorsi, mentre le Vestali proposero all'imperatore di erigergli delle statue.

Pretestato fu uno degli ultimi difensori della religione romana durante la tarda antichità. Come proconsole di Acaia si appellò contro l'editto di Valentiniano I che proibiva i sacrifici notturni durante i Misteri, affermando che avrebbe reso impossibile la vita ai pagani: Valentiniano allora ritirò il provvedimento.

Come praefectus urbi curò il rifacimento del portico degli Dei Consenti nel Foro Romano, l'ultimo grande monumento dedicato a Roma al culto pagano; sebbene si trattasse di un semplice restauro delle strutture danneggiate e di un rinnovamento dei culti, la scelta era altamente simbolica, in quanto gli Dei Consenti erano i protettori celesti della classe senatoriale, e in quanto tale furono forse intesi come contraltare alla figura dell'imperatore. In qualità di Prefettodel pretorio diede inizio ad indagini su casi di demolizione di templi in Italia per mano di cristiani. Era devoto del culto di Vesta, come pure lo era la moglie.
Una volta Pretestato ebbe a dire ironicamente a papa Damaso I che prometteva ricompense alle persone di rango che si convertissero al cristianesimo: "Eleggetemi vescovo di Roma, e mi farò cristiano".


L'amore e la bellezza

Da tanta religiosità legata all'amore, alla cultura, alla filosofia e alla bellezza non potevano legarsi che a degli horti bellissimi, ricchi di statue antiche greche che il raffinato Vettio sapeva apprezzare, anche se personaggi di religioni diverse, ricchi di decorazioni, fontane, balaustre, ninfei, viali, alberi, siepi, vasi, boschetti, tempietti e balconate. Quegli splendidi giardini che il rinascimento tentò di riprodurre in chiave minore nei cosiddetti giardini all'italiana, copiati poi dai giardini alla francese e all'inglese, con un'orchestrazione un po' troppo geometrica che toglieva il gusto delle sorprese caratteristico delle "tranquille dimore degli Dei".


VEDI  GENS  VETTIA



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SCOPERTO TEMPIO EPOCA DI SERVIO TULLIO

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AREA SACRA DI SANT'OMOBONO


22 Luglio 2013

Situata all'angolo tra via del Teatro di Marcello e il Vico Iugario, è visibile un'area di scavi che prende il nome di Area Sacra di San Omobono dalla chiesa che vi è sopra.

Durante gli scavi sono stati rimessi in luce i resti del santuario di Fortuna e Mater Matuta fondato da Servio Tullio. 

Per volontà di Servio Tullio sorse dunque l'importante santuario emporico dedicato alle dee Fortuna e Mater Matuta, divinità di antichissima origine protettrice delle nascite e della luce. 

Della dea Fortuna Servio Tullio fece la propria divinità tutelare ponendo sotto i suoi auspici il proprio operato, tanto che le fonti attribuiscono alla sua figura la fondazione di numerosi santuari sui colli di Roma dedicati alla Dea.

Ma Roma è ancora ricca di sorprese archeologiche e solo ieri è stato scoperto, in pieno centro storico, un altro importante pezzo di storia antica della città: un tempio del VI secolo a.c. a via Petroselli

Il basamento del tempio che risale niente meno che all'età regia di Servio, durante la ripulitura degli scavi nell'Area Sacra, in via Petroselli, riaffiorano con i resti del muro in pietra del tempio.

L'assessore capitolino alla Cultura, Flavia Barca:

"Un pezzo importantissimo dell'opera di conservazione e valorizzazione della Roma antica"

Gli archeologi della sovrintendenza capitolina dei Beni Culturali, in cooperazione con i colleghi delle università del Michigan e del dipartimento Studi umanistici dell'ateneo della Calabria, durante un'operazione di ripulitura degli scavi hanno riportato alla luce i resti del muro in pietra di un tempio arcaico del VI secolo a.c., dell'età regia di Servio Tullio.

Si tratta, spiega l'archeologo Paolo Brocato, insieme al tempio di Giove capitolino, i cui resti si trovano sotto il Campidoglio:

"del più antico tempio in pietra trovato a Roma, realizzato con blocchi squadrati in stile etrusco-italico. Sono stati recuperati anche frammenti delle decorazioni. Il nuovo tempio è stato individuato dopo 4 anni di lavoro, nel centro dell'area sacra, vicino ai templi di Mater Matuta e della Fortuna".

La scoperta è stata mostrata alla stampa alla presenza dell'assessore capitolino alla Cultura, Flavia Barca.

"Si tratta di un ritrovamento bellissimo - sono state le sue parole - che mostra il patrimonio eccezionale della città ma anche il valore del lavoro prezioso degli archeologi che spesso, purtroppo, non viene valorizzato.
Invece sono un pezzo importantissimo dell'opera di conservazione e valorizzazione della Roma antica".

Il team italo-americano ha portato in luce, nel sito archeologico, i resti imponenti del muro del tempio di stile etrusco italico, recuperando ingenti quantità di reperti riferibili agli ex voto donati dai fedeli, fra cui ceramiche di importazione greca, pendenti in ambra, terrecotte architettoniche e ossa lavorate.

«Sono testimonianze eccezionali del rapporto fra Roma e la Grecia durante il regno di Servio Tullio, quando il livello della produzione artistica crebbe notevolmente per il contributo di artisti greci» spiega Claudio Parisi Presicce, sovrintendente ad interim. 

Che aggiunge: «Sapevamo che il tempio era lì, ma lo scavo era complicato perché nel sottosuolo c'è una falda acquifera e abbiamo dovuto utilizzare tecnologie speciali». 

La storia della scoperta del santuario di Fortuna e Mater Matuta risale agli anni Trenta: da allora le indagini e i sondaggi eseguiti hanno permesso di ricostruire il quadro delle sequenze edilizie avvicendatesi in questa zona prima dell'età Repubblicana.

In un primo tempo doveva sorgervi un tempio etrusco di tipo "tuscanico", inteso secondo la definizione di Varrone, provvisto sul lato posteriore di tre celle o di una cella inquadrata da due spazi laterali definiti da muri (alae).
Tale edificio conobbe almeno due fasi edilizie e fu decorato con un programma architettonico di lastre fittili.
La prima costruzione del tempio sarebbe da porsi intorno al 580 a.c., come peraltro indicano anche le fonti storiche. 

Uno solo è infatti l'edificio sinora documentato e si ritiene che esso fosse quello titolato a Mater Matuta. 

La continuità del doppio culto appare confermata anche in età Repubblicana con la presenza di due edifici affiancati intervallati da uno spazio lasciato vuoto. 
Circa un cinquantennio dopo la costruzione dell'edificio si provvide a rinnovare la decorazione architettonica, nell'ambito della quale trovò posto uno splendido gruppo scultoreo in terracotta che rappresentava Ercole e Minerva, con l'eroe effigiato nel momento in cui viene introdotto dalla dea nell'Olimpo. 

Il gruppo statuario di Eracle e Athena, è oggi esposto ai Musei Capitolini. 

Alcuni studiosi ritengono invece trattarsi non di un gruppo acroteriale, da porsi cioè sul culmine del tetto, bensì di un donario, con chiari riferimenti al mondo greco-orientale. 

La costruzione del secondo santuario, che le fonti porrebbero in concomitanza con la caduta di Veio, avvenne forse su un grande riporto di terreno che obliterò la distruzione del primo tempio.
Diversamente è stato anche ipotizzato che unica fu la fase di costruzione, intorno al 530 a.c.

Certo è che l'area sacra ebbe a subire, a partire dalla metà del VII secolo sino alla metà del V, una serie di pavimentazioni e ripavimentazioni, mentre la costruzione del tempio munito di scalinata che consentiva l'ascesa del podio sul quale l'edificio, secondo il modello tuscanico era impostato, sarebbe da porsi nella seconda metà del VI secolo a.c.

Ai decenni intorno al 530 a.c. o poco dopo dovrebbero riferirsi alcuni interventi di ristrutturazione, mentre alla prima metà del V secolo potrebbe ascriversi la distruzione della sacra struttura.

In generale non è forse un caso che Roma proprio nel VI secolo a.c. presenti questi forti tratti etruschi sul piano politico e culturale ed è a tal proposito molto significativa la coincidenza fra la data convenzionalmente assegnata all'inizio dell'arte arcaica in Etruria (580 a.c. circa) e l'esordio della regalità di Servio Tullio.

RICOSTRUZIONE TEMPIO TUSCANICO

DESCRIZIONE

Collocato in posizione dominante sul porto fluviale del Foro Boario, e in connessione con il guado sul Tevere, il tempio accoglieva mercanti e visitatori della città di epoca regia.

Il santuario era costituito da un podio in pietra su cui si ergeva un edificio ornato da rilievi policromi con la caratteristica forma tuscanica. 

Successivamente, il complesso fu rialzato e quindi munito di ulteriore gradinata con la realizzazione di due templi gemelli dedicati alla Fortuna e a Mater Matuta che continuarono a caratterizzare l' area fino a tutta l' età imperiale.

Come tutti i templi tuscanici aveva una pianta di larghezza poco inferiore alla lunghezza, con la metà anteriore occupata dal portico colonnato e la metà posteriore costituita da una cella fiancheggiata da due alae o ambulacri aperti”. Il tempio era accessibile solo attraverso una scalinata frontale.

QUINTO SERTORIO

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Nome: Quintus Sertorius
Nascita: Nursia 122 a.c.
Morte: Osca 72 a.c.
Professione: Generale e Politico




I pareri su Quinto Sertorio sono piuttosto discordi:

Mommsen, considerato il più grande classicista del XIX secolo. Il suo studio della storia romana è ancora di importanza fondamentale nella ricerca contemporanea:
"…uno dei più grandi uomini, se non il più grande, che Roma avesse sino ad allora prodotto"

Giannelli, docente universitario di Antichità classiche, consigliere comunale della Dc di Firenze:
 "…l'esempio classico dell'uomo di parte, capace di erigere il trionfo del partito sulle rovine della patria"

Definito dalla storiografia postuma “uomo di grandissimo ma pernicioso valore”.

Per quel che ci riguarda abbiamo grandissima stima del Mommsen e parecchio di meno del Giannelli, ma comunque cercheremo di farci noi stessi un'idea attraverso la storia della sua vita.




LE ORIGINI

Ce ne parlano: Plutarco nelle Vite di  Sertorius e Pompeus; Appiano nella Guerra civile e Hispanica, Sallustio in alcuni frammenti, e Diodoro Cassio (XXXVI). Sia Plutarco che Sallustio hanno del personaggio una sconfinata ammirazione.

Gli storici aristocratici romani lo presentarono invece come un interessato avventuriero, un uomo violento, traditore ed avido di potere.

Di certo Plutarco fu un po' il Mommsen dell'epoca, indagatore, amante del vero, mai caricato nelle asserzioni e profondamente sincero.

Di Sertorio sappiamo che nacque a Nursia, nel territorio sabino, nel 126 a.c. dalla antica gens Sertoria che vi risiedeva da diverse generazioni. Per quanto di famiglia umile era nobile, parente di Gaio Mario in quanto figlio della cugina di questi. Si può ben comprendere quanto le gesta di Mario, uno dei migliori condottieri di tutti i tempi, che tanto infiammarono Giulio Cesare, potettero influire anche sul giovane Sertorio.

Della sua infanzia sappiamo solo che rimase presto orfano di padre e fu allevato dalla madre Rea, il cui gentilizio denota una origine secondo alcuni etrusca, secondo altri sabina, non usando tra le donne romane che un solo nomen, quello della loro gens. Comunque Rea è un nome di origine greca diffusosi poi nel Mediterraneo.



LA CARRIERA

Infatti si trasferì a Roma ancora giovanissimo, evidentemente deciso a sfruttare le proprie qualità, visto che all'epoca Roma era come l'America, il paese delle possibilità.

Qui si fece una reputazione distinguendosi sia come giurista che come oratore. Passò quindi velocemente alla carriera militare, e la prima battaglia in cui si distinse fu quella di Arausio del 105 a.c. nell'odierna città francese di Orange, in Provenza, contro le tribù nomadi del Cimbri, in cui dimostrò un coraggio eccezionale.

Infatti nel corso della tragica ritirata romana il giovane sabino, ferito e senza cavallo, attraversò il Rodano completo di tutta l'armatura, destando ammirazione per la determinazione, la resistenza fisica e l'estrema dignità.

L'essere riuscito a conservare armi e armatura che certamente appesantivano notevolmente il giovane ferito ed esausto fu di grande prestigio, per un romano perdere l'equipaggiamento era come per la legione perdere le insegne.

L'esercito romano era comandato dal console Gneo Mallio Massimo, un homo novus, e dal proconsole per la Gallia Quinto Servilio Cepione, aristocratico ed ex console.

Questa differenza di status aveva sollevato dei contrasti che portarono il caos fino alla sconfitta dei Romani, che persero quasi tutti gli uomini sul campo.

Il che aprì le porte della Gallia Narbonense e dell'Italia ai Teutoni e ai Cimbri, con grande timore del popolo romano. Tornava a far tremare gli animi il Metus Gallicus, memori del Sacco di Roma (ben due).

Proprio per vendicare questa sconfitta Sertorio si arruolò nelle fila di Gaio Mario e presto al suo fianco si distinse nella battaglia del 102 a.c., la celebre battaglia di Aquae Sextiae ( Aix-en-Provence, Francia) in cui i Teutoni furono sconfitti definitivamente dai romani.

Qui Sertorio riuscì a spiare con grande coraggio e iniziativa le tribù germaniche che si aggiravano nel territorio, le stesse che avevano sconfitto i romani, su un suolo per lui sconosciuto, ma con grande intuito e senso di orientamento. Mario ebbe modo di apprezzare il suo coraggio, la sua abilità e la sua intelligenza, affidandogli missioni rischiose ma delicatissime che Sertorio seppe sempre portare a compimento con molto successo.

In una missione addirittura Sertorio si travestì da guerriero celtico dopo averne imparato i costumi e la lingua ed aver passato alcuni mesi in territorio nemico per ottenere informazioni sull'entità e la dislocazione dell'esercito celtico.

L'organizzazione stavolta fu infatti perfetta e circa 90.000 Teutoni furono uccisi e 20.000 furono catturati, tra cui il loro re Teutobod. Nemmeno le donne e i bambini si salvarono, con un suicidio di massa per non cadere nelle mani dei nemici.

In realtà sappiamo in quale conto quei popoli tenessero sia donne che bambini per cui sicuramente vi vennero costretti. La situazione delle donne in quelle terre era infatti identica, se non peggiore, di quelle delle schiave dei romani.



LA CORONA GRAMINACEA


Nel 97 a.c. Sertorio combattè in Hispania come tribuno militare sotto Titus Didius, e qui si conquistò la corona d'erba (o graminacea), il massimo simbolo di valore militare che spettava al comandante che avesse salvato un esercito assediato o a colui che avesse, con il proprio intervento, salvato un esercito dalla sicura distruzione.
Per capire il valore di questa rara onoreficenza leggiamo la lista di coloro che l'ottennero secondo Plinio il Vecchio:

Lucio Siccio Dentato
Publio Decio Mure
Fabio Massimo
Marco Calpurnio Flamma
Scipione Emiliano
Gneo Petreio di Atina (un centurione primus pilus durante la Guerra Cimbrica)
Lucio Cornelio Silla
Quinto Sertorio
Augusto (a cui però venne data dal Senato come omaggio politico)

In quella occasione Sertorio mise in mostra tutte le sue doti di grande condottiero, rapido nelle decisioni, coraggioso ed astuto. La rivolta antiromana degli abitanti di Castulo e dei loro alleati celtiberi fu stroncata nel sangue nel corso di una sola nottata. La sua abilità di guerriero ottenne il rispetto anche delle popolazioni indigene.



IL QUESTORE DELLA GALLIA

Nel 91 venne nominato questore della Gallia Cisalpina, dove ebbe l'incarico di arruolare, armare di tutto punto e addestrare le legioni occorrenti per la Guerra Sociale. Eseguì il compito con tale velocità ed
efficienza da battere tutti i magistrati incaricati dello stesso compito. Nel corso della guerra ebbe diversi comandi come Legato esponendosi sempre insieme ai soldati, tanto che egli venne ferito ad un occhio da una freccia che ne compromise la vista.

L'essere orbo da un occhio non ostacolò comunque la sua carriera, nè si dimostrò mai addolorato della menomazione, di cui si dice invece fosse molto fiero, esibendola come segno tangibile del suo servizio per la patria. Fin qui non ci sono dubbi sulla sua grande abilità e intelligenza, ma questo lo riconoscono tutti, meno riconosciuta è la sua moralità.

Infatti tornato a Roma concorse per la carica di tribiuno, ma incontrò l'opposizione di Silla e molti studiosi si chiedono perchè, ma la risposta è semplice, Silla non era un ingenuo, sapeva benissimo della parentela di Sertorio con Mario, in più sapeva riconoscere il valore degli uomini, come seppe infatti riconoscere quello di Cesare che definì equivalente a 20 Marii. 

C'era per giunta un'altra questione, Silla era un aristocratico mentre Sertorio era dalla parte dei populares, come Mario e come poi Cesare. Ce n'era abbastanza per temerlo, per odiarlo e per ostacolarlo. Silla era un uomo molto astuto ma anche meschino, crudele e avido, se avesse supposto un ungual animo in Sertorio se lo sarebbe fatto amico. Ma Sertorio era un po' come Scipione, fiero, ribelle, con un grande senso dell'onore ma un po' sprezzante degli animi bassi..

Dopo che Silla ebbe costretto Mario all'esilio e che anch'egli se ne fu andato via da Roma per combattere Mitridate, scoppiò un'inaudita violenza  tra gli optimates, guidati dai Octavius ​​Vice Console, e i populares, guidati dal console Lucio Cornelio Cinna, dalla cui parte si schierò Sertorio.

Qui le opinioni si dividono. Alcuni affermano che l'inaudita ferocia delle proscrizioni di ambedue le fazioni lasciassero indifferenti Sertorio. Per altri invece la ferocia delle due parti gli riuscì molto sgradita si che ebbe a fare rimproveri a Mario e invitò anche Cinna alla moderazione.

Sertorio fu in realtà l'unico esponente del partito popolare a non macchiarsi di proscrizioni, furti ed uccisioni. La storiografia ottimate riuscì solo ad imputargli lo sterminio di 4000 schiavi mariani (quindi nemmeno sillani) che, si erano dati agli stupri, ai saccheggi e alla violenza.
Dopo che Ottaviano Roma con la fazione degli optimates si arrese alle forze di Mario, Cinna e Sertorio nell'87, Sertorio si astenne dalle proscrizioni politiche nei confronti dei suoi nemici, mostrando invece una notevole generosità.



LA SPAGNA

Al ritorno di Silla dall'est nell'83, il partito dei populares collassò, pertanto Sertorio andò in Spagna, dove rappresentò il partito Mariano, secondo alcuni senza aver ricevuto alcun incarico definito, in realtà con la carica di proconsole conferitagli da Cinna, per governare la Spagna citeriore.

La Spagna era un paese che conosceva bene e dove era molto stimato. Con la sua diplomazia e la sua gentilezza seppe ingraziarsi le popolazioni locali provvedendo a procurar loro giustizia, collaborazione e benessere.

Gli ufficiali romani al seguito degli Optimates in Spagna non vollero riconoscere la sua autorità e nell'81 a.c. Silla inviò in Spagna Valerio Flacco ed Annio Lusco con l'ordine di destituire Sertorio.

Sertorio fortificò allora i passi dei Pirenei con un forte e ben addestrato contingente di 6000 fanti al comando di Livio Salinatore, un valente ufficiale.
Gli ottimati, non potendo sfondare le forti difese, ricorsero alla corruzione e si comprarono l'assassinio a tradimento di Salinatore (da parte di un certo Calpurnio Lanario) e l'arruolamento di circa 20000 iberici (tra cui molti dei 6000 di Salinatore).

Sertorio, rimasto con soli 3000 uomini, non poteva resistere e, direttosi a Cartagena, si imbarcò per la Mauritania. Plutarco paragonò Sertorio a un novello Ulisse dovendo egli affrontare situazioni drammatiche, avventurose e piene di pericoli.

In Mauritania, sconfisse uno dei generali di Silla e catturò Tingis (Tangeri), cosa che lo rese molto gradito alle popolazioni ispaniche, specialmente alle tribù della Lusitania, nell'ovest (Portogallo), che i generali ed i governatori romani del partito di Silla avevano saccheggiato e straziato.

La dominazione di Silla era particolarmente odiosa e pesante per cui i Lusitani decisero di rivolgersi all'unico comandante capace a loro avviso di opporsi alle legioni romane sia per la sua abilità che per la sua avversione a Silla. Così avevano inviato messaggeri in Mauritania alla ricerca di Sertorio.

Quinto ne fu ben contento ed alla testa di un esercito di quasi 3000 uomini (di cui 2000 romani e 700 mauritani) si preparò al ritorno nella penisola iberica, ma sul posto raccolse presto rinforzi importanti (4.000 fanti e 700 cavalieri). I Lusitani, colpiti dal suo coraggio, dalla sua generosità e dalla sua eloquenza ribattezzarono Sertorio il "nuovo Annibale". La sua fama di grande generale era ormai ovunque e tutti sapevano che con la sua abilità aveva spesso sconfitto eserciti molto più grandi e armati del suo.

Subito si unirono al suo esercito numerosi contingenti di lusitani e si unirono a lui anche i pirati cilici, cosa giudicata molto riprovevole dai commentatori avversi a Sertorio. Ma il generale si giocava il tutto per tutto e non poteva guardare per il sottile, così in poco tempo sconfisse il Propretore Cotta ed il Pretore Tufidio in due rapide battaglie a sud di Siviglia.

Molti profughi romani e disertori hispanici si unirono a lui, e con questi riuscì a sconfiggere molti dei generali di Silla, tra cui Fufidius, Domizio Calvinusand e indirettamente Thoranius. In quanto a  Quinto Cecilio Metello Pio, che era stato appositamente mandato contro di lui da Roma, venne respinto fin fuori della Lusitania,.



IL RITORNO IN SPAGNA

Sertorio volle costruire un governo stabile ed equo in Hispania con il consenso e la cooperazione del popolo, che egli ha voluto civilizzare al modello romano ma con il rispetto dei loro costumi. Egli stesso vi si adattò, imparando le loro usanze e la loro lingua, riuscendo a conquistarsi la loro fiducia per il grande rispetto che lui stesso aveva dato a questa gente.

Instaurò in Hispanoa un senato di 300 membri, tutti emigrati romani  mantenendo la guardia del corpo Hispanianca. Per i bambini delle principali famiglie indigene istituì una scuola a Osca (Huesca), dove ricevevano una formazione romana, seguendo la prassi romana di prendere ostaggi.

Sembra che per una rivolta dei nativi Sertorio avesse ucciso molti dei bambini di Osca, e venduto altri in schiavitù. Però sia la rivolta che l'uccisione dei bambini non concordano con l'enorme seguito che Sertorio ebbe ccon gli Hispanici e i Lusitani in particolare.

Risulta che invece avesse un dono particolare per farsi amiche le tribù indigene, tra l'altro addomesticò un cervo bianco che allevò da cucciolo. Ai nativi raccontò che era stata la Dea Diana a farglielo incontrare, e che per mezzo del cervo egli a volte percepiva la voce della Dea. Tanto era ammirato dai locali che divenne così l'uomo del "cerbiatto bianco", simbolo ma pure oracolo di Diana che gli avrebbe ispirato la saggezza.

In realtà a Diana era sacra particolarmente la cerva bianca, cioè albina, che come tutti gli animali albini era rarissima e pertanto sacra, e Sertore, già per il fatto di esserne riuscito a trovarne una aveva la predilezione della Dea. Questo non implica necessariamente una mala fede, perchè Sertore in qualità di romano adorava la Dea, nè si deve parlare di superstizioni, altrimenti anche S. Eustachio che incontrò il Cristo sotto forma di cervo sarebbe superstizione.

Sertorio passò poi tutto l'anno 80 a.c. ad addestrare ed armare il nuovo esercito per il quale fece costruire una strada carreggiabile di 200 km da Guadiana a Gredos. Nei primi mesi del 79 a.c. arrivò il nuovo Governatore della Spagna ulteriore, Quinto Cecilio Metello, l'uomo di Silla che, unendo le sue truppe a quelle del Governatore della citeriore, formò un esercito di 40000 legionari e migliaia di ausiliari iberici. 

Sertorio invece aveva poco più di 9000 uomini, con armature leggere e viveri scarsi, ma era un condottiero geniale, per cui abbandonò il campo e passò alla guerriglia. 
Le legioni romane, invincibili in campo aperto, non erano a loro agio tra colli e boschi.

Plutarco narra che "Metello aveva esperienza di battaglie combattute dalle legioni regolari,
mirabilmente addestrate per affrontare e sopraffare un nemico in un combattimento corpo a corpo, ma
completamente impreparate a percorrere terreni collinosi e ad affrontare incessantemente rapidi attacchi eritirate di piccoli gruppi di montanari, a sopportare fame e sete ed a vivere esposti al vento ed alle intemperie senza fuochi e coperte
…".


IL DISCORSO DELLE DUE CODE DI CAVALLO

I Lusitano pressavano Sertorio per affrontare i romani in campo aperto, ma l'esperienza del generale gli suggeriva un modo più prudente di affontare lo scontro, cioè la guerriglia. Allora, poichè conosceva l'animo delle tribù e sapeva rapportarsi con esse portò ad esempio l'episodio delle code di cavallo.
Fece portare al suo cospetto due cavalli, uno gracile e uno poderoso, e contemporaneamente due militari tra quelli che reclamavano la guerra aperta.

Comandò all'uomo più forte di strappare la coda al cavallo più debole , l'uomo tentò strenuamente ma non riuscì. Allora comandò all'uomo più debole di strappare uno ad uno i peli della coda del cavallo forte e l'operazione riuscì (sig!). Allora Sertorio disse ai Lusitani che l'esercito romano era il cavallo forte, e quindi invincibile se attaccato in massa, ma che se fosse stato attaccato poco alla volta, cioè col sistema della guerriglia, l'esercito avrebbe alla lunga ceduto. I Lusitani compresero.


LA GUERRIGLIA

Metello, inoltre, commise l'errore di dividere le sue forze tra due dei suoi Legati, Domizio e Torio Balbo, per cui furono duramente sconfitti da Sertorio e dal suo luogotenente Irtuleio, abilissimi nel concentrare rapidamente i propri eserciti.

Per circa tre anni la guerriglia di Sertorio non diede tregua ai Romani, tormentandoli e respingendoli un po' ovunque, ed alla fine del 77 a.c. a Metello, sconfitto sulle rive del Guadalquivir, non rimaneva che Cartagena e la Betica. 

Nel frattempo, si erano uniti a Sertorio un gran numero di esuli mariani, nonché i resti non trascurabili (20000 fanti e 1500 cavalieri) dell'esercito di Lepido, guidati sin lì, dalla Sardegna, da Marcus Perperna Vento, con un seguito di nobili romani e di un consistente esercito romano (53 coorti).

Nello stesso anno, Roma, seguendo i timori di Silla, inviò Pompeo  in aiuto a Metello per conquistare l'Hispania e cacciare Sertorio che chiamò ironicamente Pompeo "il pupillo di Silla", e più volte fece tremare i suoi avversari.

Sertorio allora dovette dividere il suo esercito in tre Corpi: uno comandato da Perperna (20000 fanti e 1000 cavalieri) nella valle dell'Ebro, uno guidato da Irtuleio in Lusitania (15000 fanti e 200 cavalieri) ed uno, guidato da lui personalmente, di riserva agli altri due (circa 20000 fanti e 500 cavalieri).

Attorno alla città di Lauron si affrontarono i due grandi condottieri, sulle colline la tattica di Sertorio, cauta di giorno ed audace di notte, ebbe la meglio su quella lenta di Pompeo, che in pochi giorni perse quasi 20000 uomini e tutte le sue salmerie e fu costretto ad abbandonare Lauron alla mercé dei sertoriani.

Sertorio rase al suolo Lauron, una città alleata di Roma, dopo una battaglia in cui i militari di Pompeo, caduti in un'imboscata erano stati sconfitti e per un pelo non era stato catturato Pompeo nella battaglia di Sucro.

Pompeo voleva sconfiggere Sertorio senza attendere Metello Pio, ma venne sconfitto a Sagunto. Allora Pompeo scrisse a Roma per i rinforzi, senza i quali, scrisse, lui e Metello Pio sarebbero stati cacciati dall'Hispania. Tuttavia Metello, battuto Irtuleio, luogotenente di Sertorio, riuscì a congiungersi con Pompeo.

Intanto Irtuleio tentava inutilmente di attirare fuori da Cordoba Metello, ma così facendo perdeva tempo ed energie preziose e, nell'agosto del 76 a.C., una rapida sortita del Governatore della ulteriore gli procurava gravi perdite e lo costringeva a ripiegare sotto una opprimente calura.

Dal 75 Pompeo riprese forza e con Metello cominciò a riconquistare le città. Sebbene fosse ancora in grado di vincere, Sertorio stava perdendo la guerra e l'autorità sui suoi uomini. 
Sertorio fu sconfitto più dalla tattica temporeggiatrice di Metello che da quella avventata e spregiudicata di Gneo Pompeo Magno, all'epoca ancora molto distante dal grande generale che sarebbe diventato.

Si disse che Sertorio fosse in lega con i pirati del Mar Mediterraneo. Questa alleanza gli permise di ricevere aiuti via mare e di tenere in scacco le varie flotte romane ma Marco Antonio Cretico vinse poi e sgominò i pirati si che tutta la costa spagnola levantina cadde in mano ai sillani. Sertorio si ritirò nel triangolo compreso tra le città di Osca, Lerida e Calahorra, non rinunciando però ad audaci incursioni.

Si disse che stesse negoziando con Mitridate, e che era in comunicazione con gli schiavi della Rivolta di Spartaco. Ma a causa delle gelosie fra gli ufficiali romani e gli ispanici di rango più elevato, non poté mantenere la sua posizione e la sua influenza sopra le tribù, benché abbia vinto sempre fino alla fine.

Si dice pure che per consolidare maggiormente il suo fronte interno, Sertorio iniziò a favorire la maggiore (per numero) popolazione spagnola, i Celtiberi, scontentando, però, allo stesso tempo i Baschi che di quelli erano antichi avversari.





LA MORTE

Sertorio non morì in battaglia come ci si sarebbe aspettato, ma nel 72 a.c. fu assassinato in un banchetto, in un complotto guidato da Marco Perperna Vento dopo che Quinto Cecilio Metello Pio e Gneo Pompeo Magno ebbero messo una grossa taglia sulla sua testa. Vento, uomo meschino e avido cercò di sostituire Sertorio, ma benché potesse contare sulle stesse truppe, non disponeva della stessa intelligenza e delle stesse qualità umane di Sertorio, per cui fallì miseramente.

Appiano osserva che ea una costante di Silla eliminare i comandanti nemici per mezzo del tradimento e si dice che, giusto prima della sua morte, stava per stabilire con successo una repubblica romana indipendente in Hispania, dopo aver debellato con un nuovo assalto Pompeo e Metello.



LE CONCLUSIONI

Sertorio fu un grande generale, uno stratega abilissimo, un politico brillante e convincente, ma pure un abilissimo comandante guerrigliero, e una quotatissima spia alla 007. Fu uomo coraggiosissimo e pure temerario, grande oratore e trascinatore di animi.
Riuscì infatti per la prima volta a servirsi del plauso e della collaborazione dei nativi per rinnovarli politicamente ed incitarli a combattere con lui. Seppe accattivarsi le elite locali, che gli assicurarono aiuti
militari ed economici. In quanto alla sua moralità non dimentichiamo che Sertorio non pensò mai di tradire la repubblica romana.

Non dimentichiamo che Mario.ebbe poteri e vittorie come pochi e mai tentò di sedersi sul trono di Roma. Silla fu invece quello che divenne dittatore a vita, cosa che fece poi Giulio Cesare, il nipote di Mario, ma con un valore, una clemenza e un senso di giustizia che pochi uomini ebbero. Silla fu l'esatto contrario di tutto ciò, e governò solo con l'astuzia e la violenza.

Gli va riconosciuto il merito di aver accelerato il processo di civilizzazione della Spagna, che da allora fu il paese non solo più vicino a Roma, ma romano quanto i romani, retaggio che conserva tutt'oggi nell'amore per tutto ciò che riguarda il suo passato romano.
Fu contemporaneamente un uomo gentile e rispettoso delle genti locali, dotato di un eloquenza straordinaria, tanto che era stato soprannominato dalla milizia locale, da lui creata, “nuovo Annibale”.

Molto rigoroso, non tollerava la mancanza di disciplina e di onore tra le truppe, mentre i generali romani del tempo concedevano razzie e saccheggi per ingraziarseli.

Si deve poi aggiungere che in Spagna Sertorio viene considerato una sorta di eroe nazionale su cui
fioriscono studi storici, libri, convegni e siti internet, mentre in Italia, sua paese natale, di lui si scriva pochissimo ed è ignorato dai più. 

Sertorio fu uno dei grandi condottieri della storia di Roma, che solo la carriera da generale fuorilegge condannò all’oblio della storia ufficiale. Ma non dimentichiamo che la Roma ufficiale di Silla non fu un bel periodo, e soprattutto che furono i populares come Mario, Sertorio e Ceasre a rendere Roma la vera caput mundi.

Purtroppo questo si verifica un po' per tutta la cultura romana, spesso più studiata all'estero che in Italia, per quell'ignorante pregiudizio per cui certi nomi e simboli se utilizzati successivamente da dittatori, squalificherebbero duemila anni di storia.

La storia romana ispirò tanto Mussolini quanto Hitler e Napoleone, insieme a tanti altri, alcuni migliori altri nefasti, ma la storia non si cancella solo perchè qualche dittatore ne ruba alcune immagini.

BAIA SOMMERSA ( Campania )

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RICOSTRUZIONE DELLE TERME DI PUNTA DELL'EPITAFFIO

PORTUS IULIUS 

Nessun alto luogo al mondo è più splendente del golfo di Baia...".
Orazio: "

Il Portus Iulius oggi costituisce un sito archeologico di straordinario interesse scoperto nel 1956 dal comandante Raimondo Bucher. Sono ancora visibili i resti dell'antica città romana di Baia, sprofondata in mare a causa del bradisismo.

Siamo in una delle più importanti zone di immersione della intera area flegrea. Zona e non punto di immersione vista la grande estensione dei resti monumentali giacenti sott'acqua.

Qui sono visibili splendidi mosaici, pavimenti ancora integri, basamenti di mura di splendide ville, file di colonne, pareti, decori, vasche e statue.

La costruzione del Portus Iulius, intestato alla gloriosa gens Iulia, fu voluta nella zona tra l’Averno e il Lucrino dal collaboratore di Ottaviano M. Vipsiano Agrippa, nel 37 a.c., nella preparazione dello scontro navale e campale contro Sesto Pompeo che aveva in assoluto il dominio dei mari.

I lavori della realizzazione e le relative infrastrutture furono affidati all’architetto Cocceio.
Da questa battaglia doveva uscire un solo vincitore che avrebbe cambiato i destini del mondo.

Il porto funzionò dal 37 a.c. fino al IV sec, un suburbio portuale della città romana di Puteoli (Pozzuoli), realizzato sulla costa napoletana presso il lago di Lucrino. Un complesso portuale enorme e attrezzatissimo esteso fino al lago d'Averno.


Risparmiato dalle distruzioni cristiane e rinascimentali dell'eruzione del Monte Nuovo, vulcano che nel 1538 gli si è formato a ridosso verso settentrione, attualmente gli impianti risultano sommersi per effetto del bradisismo flegreo.


Nell’antichità il porto era difeso da una stretta e lunga diga, giacente sulla spiaggia, che partiva dalla Punta dell’Epitaffio e si congiungeva alla punta Caruso, sulla quale passava la Via Herculanea.

Nella diga si apriva un canale che permetteva l’entrata delle navi nel bacino del Lucrino e da qui, con un’altro canale scavato nella roccia, nel lago d’Averno.
Però la vita militare di questo porto fu breve, a causa dell’insabbiamento, poiché già nel 12 a.c., la flotta militare fu spostata nel vicino bacino naturale di Miseno e il porto venne riconvertito a scopo civile.

La zona, dopo la parentesi militare, ritornò ad essere un luogo sacro delle divinità infernali, dato la sacralità dei luoghi comunicanti col sottosuolo rovente e alle cure termali, perchè i romani amavano sempre unire la sacralità al business e al confort, nonché un luogo ricco di lussuose residenze.

Le infrastrutture portuali, nei secoli successivi sono legate al destino del bradisismo.

Cassiodoro ci informa, che alla fine del V secolo, la diga del porto fu distrutta dagli agenti marini, per poi scomparire totalmente nei secoli successivi con tutte le strutture antiche, tanto che il Lucrino si unificò con il mare.
Nel X sec. i Campi Flegrei subirono la massima sommersione, attestata a Pozzuoli dal Serapeo dove le parti delle colonne sommerse dal mare ma non sepolte da detriti vennero attaccate dai litodomi fino a 6,30 m. 
Nel XI sec. il movimento bradisismico si invertì con una progressiva emersione dell'area flegrea.
Nel XV sec. Pozzuoli subì altri terremoti che la rasero al suolo.
Nel XVI sec. il bradisisma ascendente diventava visibile si che due editti regi assegnarono al demanio di Pozzuoli le terre emerse.

Dopo il 1511 si ebbero nuovi terremoti finchè nel 1538 si scatenarono ininterrotti giorno e notte.

Del Portus Iulius si iniziò a riparlarne alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, grazie alla fotografia aerea e alle prime foto effettuate dal pilota, nonché subacqueo, R. BUCHER, le quali mettevano in risalto la topografia del grande complesso portuale che si estende su una superficie di circa dieci ettari.
La fotografia aerea ha avuto il merito di sensibilizzare studiosi e Soprintendenza, quest'ultima, in seguito alle immagini aeree, ha emesso i primi provvedimenti di tutela avviando alcune campagne subacquee finalizzate sia al rilievo diretto sia allo studio del grande complesso portuale.

Il rilievo e lo studio diretto delle strutture, per il momento, ha interessato solo la parte Est del complesso e più precisamente la parte antistante il “Lido Augusto” che consistono in edifici adibiti a magazzini con muratura in opera reticolata che si elevano da pochi centimetri fino ad un metro circa, con affaccio su una corte centrale; casa padronale con peristilio di colonne in laterizi, posta nel lato Ovest dei magazzini.

La stragrande maggioranza del complesso, purtroppo, non è stato ancora oggetto di rilievo, tutte le elaborazioni grafiche sono state ricavate da foto-interpretazioni. La scarsezza dei mezzi finanziari della Soprintendenza, il limitato numero di archeologi subacquei, il disinteresse delle autorità locali, non ha permesso fino ad oggi la continuazione dei rilievi diretti.

Certo, il lavoro è enorme, ma la competenza e le capacità dei nuovi archeologi subacquei, riuscirà a dare quella spinta necessaria e a trovare quelle risorse che permetteranno di completare, in pochi anni, lo studio diretto e il lavoro grafico-topografico del Portus Julius.

Oggi è possibile vedere ad una profondità che va da 3 m a 5 m i resti della struttura portuale, di cui si conservano bene il molo d’ingresso presso Secca Caruso e numerosi Magazzini (horrea). Si incontrano alzati di mura in opera reticolata, molto ben conservati, impianti idraulici e numerosi pavimenti a mosaico di ville costruite dopo l’inabbissamento del porto a causa del bradisismo.

Materiale tratto in parte da www.ulixes.it

 


COMMENTO

Riteniamo che Baia sia un monumento unico al mondo, non solo per le bellezze ma come documento storico dell'impero di Roma e della sua architettura. Non riusciamo però a comprendere come si possa lasciare sommersa tanta parte di un patrimonio così prezioso che dovrebbe essere a nostro avviso recuperato quanto più è possibile, riportandolo sulla terra ferma e ricostruendolo magari in parte per far visitare a chi non è sommozzatore un così alto tesoro artistico. Purtroppo in italia i beni archeologici non hanno la valutazione che meritano, qualcuno dice dipenda dal fatto che abbiamo troppe cose, ma l'archeologia non è mai troppa è solo curata o abbandonata a se stessa, tenendo conto in oltre che essa offre anche sviluppi economici di ritorno con il turismo.

Una parziale ricostruzione di Baia sommersa sulla terra ferma che preveda una parte moderna insieme all'antica per evidenziare la villa romana, richiamerebbe turismo da ogni parte del mondo perchè è cosa totalmente inedita.


 

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