Quantcast
Channel: romanoimpero.com
Viewing all 2288 articles
Browse latest View live

SEPOLCRETO DI VIA STATILIA

$
0
0


VIA CAELIMONTANA

L'attuale via Statilia, in prossimità dell'incrocio con la via di S. Croce, corrispondeva all'antica via Caelimontana, una direttrice viaria che percorreva tutta la dorsale del Colle Celio in senso nord-ovest sud-est, lasciando la città presso la porta Caelimontana relativa alle mura più antiche, le Mura Serviane, dove oggi si conserva ancora l'Arco di Dolabella e Silano.

(INGRANDIBILE)
Da qui la Caelimontana si dirigeva verso Porta Maggiore, nel circuito delle mura Aureliane, con un percorso ricalcato oggi dalla Via di Santo Stefano Rotondo e dalla via Statilia. Lungo la strada si allineavano monumenti funerari come il nucleo di sepolcri in muratura messi in luce agli inizi del XX secolo in via Statilia del I secolo a.c. all'incrocio con Via Santa Croce in Gerusalemme.

Lungo il tratto finale della strada, prima di Porta Maggiore, si conservano le arcate pertinenti all’Acquedotto Neroniano, una diramazione dell’Aqua Claudia di Nerone che doveva servire lo stagno nella valle del Colosseo e il ninfeo della Domus Aurea sul Celio.

Su questa strada erano situati numerosi sepolcreti, tra cui un complesso di quattro sepolcri allineati scoperto all'inizio del secolo, sul lato destro della strada in direzione di Porta Maggiore, all'interno di un'area recintata.



I SEPOLCRI DI VIA STATILIA

Via Statilia ricorda l'antica "gens" romana che in questa zona ebbe molti possedimenti nella zona Est dell’Esquilino. Così il percorso della via, almeno nella parte compresa tra piazza di Porta Maggiore e l'incrocio con via di S.Croce in Gerusalemme, venne intitolata a questa gens romana.

Alcuni suoi membri erano seguaci di una setta neopitagorica dedita ai culti misterici per la cui celebrazione avevano anche costruito una basilica ipogea, ritrovata nel 1917 al di sotto di Porta Maggiore.

Ricalcando il percorso dell'antica "via Caelimontana", da qui la via Statilia si dirige verso la "Porta Caelimontana" dalla quale iniziava, piegava a sud attraversando il terreno dell'attuale Villa Wolkonsky.

GLI INTERNI
Proprio sul percorso di questa antica via, più esattamente all'incrocio tra via Statilia e via di S.Croce in Gerusalemme, nel 1916 fu rinvenuto, in occasione dell'allargamento della sede stradale, un gruppo di sepolcri repubblicani, oggi racchiusi in un recinto e coperti da una tettoia moderna.

Per alcuni archeologi si tratterebbe della tomba di Tito Statilio Tauro, luogotenente di Augusto e console nell’11 d.c.; per lo storico francese Jérôme Ernest Joseph Carcopino, il monumento apparteneva invece ad un omonimo membro della gens Statilia, il quale, citato in giudizio da Agrippina, madre di Nerone, con l’accusa di superstizione e pratiche magiche, nel 53 d.c. preferì darsi la morte.

I culti neopitagorici, essendo culti misterici erano segreti e destinati a pochi “eletti” e spesso venivano confusi con riti stregoneschi. All’importante gens apparteneva anche Statilia Messalina, moglie di Nerone.



SEPOLCRO DI PUBLIO QUINTIO

Il primo sepolcro a sinistra, probabilmente il più antico, era del liberto Publio Quinzio (faceva il libraio), della moglie e della concubina, come recita l'iscrizione relativa, del 100 a.c.

Il monumento è costituito da un prospetto in blocchi tufacei, nel quale si apre una piccola porta centrale e rettangolare, rinforzata con un restauro moderno in mattoni e inquadrata da due scudi scolpiti, di forma rotonda, ricavati dagli stessi blocchi della facciata. 

La porta immette in un piccolo vano in parte scavato nella roccia e ricoperta con una volta irregolare in opera cementizia. L'iscrizione ricorda che proprietari ne erano Publius Quinctius, liberto di Tito e libraio, la moglie Quinctia e la concubina Quinctia Agatea e che il sepolcro non sarebbe dovuto passare agli eredi ("Sepulcr(um) heredes ne sequatur"). 

La mancanza del cognome e l'aspetto ancora piuttosto antico del monumento permettono di datarlo intorno al 100 a.c., o poco prima.



SEPOLCRO DEI LIBERTI CLODII, MARCII A ANNII

Il secondo sepolcro, riferibile a sei diversi liberti della famiglia Clodia, Marcia e Annia, e databile all'inizio del 1 secolo a.c., è costituito da due celle, alle quali si accede mediante porticine che si aprono esternamente su un prospetto marcato da un basamento in tufo con i ritratti dei defunti scolpiti.

Il sepolcro viene denominato "Sepolcro Gemino", ossia doppio, in quanto è costituito da due vani, con celle ed ingressi distinti, ma con il prospetto e la parete divisoria in comune. La facciata è decorata con due gruppi di busti raffiguranti 5 defunti, una donna e due uomini a sinistra, due donne a destra, liberti delle famiglie Clodia, Marcia ed Annia.
Il fatto che l'iscrizione si presenti alquanto rimaneggiata, con caratteri in parte erasi e che riporti i nomi di 6 persone, fa ritenere che non sia quella primitiva: a parte il nome di Anneo Quincione, gli altri quattro furono probabilmente aggiunti in un secondo momento. La presenza del cognome fa propendere ad una data successiva rispetto al sepolcro precedente, probabilmente intorno all'inizio del I secolo a.c.



SEPOLCRO A COLOMBARIO

Il terzo sepolcro notevolmente rovinato è del tipo a colombario. Più o meno contemporaneo al primo sepolcro segue infatti un colombario, del quale rimangono però scarse tracce.



SEPOLCRO DEGLI AULI CAESONII E DI TELGENNIA

Il quarto monumento funerario è il più recente di tutti (metà del 1 secolo a.c.) ed ha la forma di un'ara. Era di proprietà di due Auli Caesonii e di una certa Telgennia e presenta anche un ampliamento molto probabilmente successivo. Venne ampliato in un secondo momento in opera reticolata e che l'iscrizione assegna a due "Auli Caesonii", probabilmente due fratelli, e ad una Telgennia.

Il sepolcro ha la forma di un antico altare in blocchi di tufo e peperino. Il graduale innalzamento del terreno seppellì, in seguito, i sepolcri, assicurandone la conservazione nel tempo.

Immediatamente di fronte ai sepolcri è l'ingresso a una piccola area sotteranea in cui è possibile vedere i resti di due antiche condutture d'acqua (già in origine sotterranee), costituite da blocchi di tufo scavati al centro e incastrati l'uno nell'altro.


GIULIA DRUSILLA - IULIA DRUSILLA

$
0
0
IULIA DRUSILLA

Nome: Julia Drusilla
Nascita: Coblenza 16 settembre 16
Morte: Roma 10 giugno 38
Padre: Giulio Cesare Germanico
Madre: Agrippina Maggiore
Marito: Lucio Cassio Longino, Marco Emilio Lepido


Giulia Drusilla è stata una aristocratica romana, seconda figlia di Germanico e di Agrippina maggiore, appartenente quindi alla dinastia giulio-claudia. lulia Drusilla, che fu sorella dell'imperatore Caligola, sembra sia nata nel 16 in Germania, basandosi su quel che riferisce riferisce l'altare innalzato " in Treveris vico Ambitarvio supra Confinentes " coll'epigrafe "ob Agrippinae puerperium" (Suet. Cal. 8 cf. Eckhel 6 p. 281).

Si dice che Caligola l'abbia molto amata ma sembra pure che egli l'abbia stuprata, mentre era ancora pretestato, e che anzi una volta sia stato sorpreso dalla nonna in intimo rapporto con lei.

Rimasta orfana di padre, Tiberio la destinò giovanissima in moglie a Lucius Cassins Longinus ma Caligula però, salito al trono, gliela tolse (secondo Dione Cass. 59, 11, a M. Lepidus) e visse con lei apertamente in unione incestuosa (et. Cal. 84); secondo Eutropio, (7, 12) ne ebbe anzi una figlia.

Secondo altre fonti ella rimase invece presto vedova, per cui salito al trono Caligola ella non aveva già più un consorte.

Comunque sotto Tiberio la madre Agrippina Maggiore ed i fratelli Nerone Cesare (6 - 31) e Druso Cesare (8 - 33), vennero esiliati da Tiberio, morendo in circostanze oscure nell'ambito delle manovre di Seiano (20 a.c. - 31 d.c.) per garantirsi la successione al principato.

Le notizie sono discordanti: Drusilla, nel 33, cioè a 17 anni (per i romani era pure un'età avanzata, di solito le fanciulle sposavano a 15 - 16 anni, e anche prima) avrebbe sposato Lucio Cassio Longino, che morì nel 41 ma da cui avrebbe divorziato per ordine dell'imperatore Tiberio nel 37 (secondo alcuni Longino l'avrebbe ripudiata ma sempre per ordine dell'imperatore), e come secondo marito avrebbe avuto Marco Emilio Lepido.

Nel novembre o dicembre dello stesso anno, cioè il 37, morì Tiberio e gli successe Caligola, fratello di Drusilla. In seguito, Caligola fece assassinare Cassio Longino insieme al fratello nel 41, poiché le divine Fortune di Anzio indicarono un uomo di nome Cassio come suo futuro assassino e non sbagliarono, perchè Caligola fu assassinato proprio da un appartenente alla gens Cassia, il tribuno della guarda pretoriana Cassio Cherea.

IULIA IN SEMBIANZR DIVINE
Iulia Drusilla per ordine del fratello ottenne gli onori delle Vestali (Dio Cass. 59, 3). Alla sua morte Caligola ordinò un pubblico lutto e diede in ismanie straordinarie. Fu consacrata sotto il nome di Panthea ed a lei furono attribuiti tatti gli onori decretati a Livia e pure molti altri onori.

Alcuni autori come Tacito (55 - 120) e Svetonio (69 - 122) riportano di rapporti incestuosi tra Drusilla ed il fratello. Tuttavia tali notizie, come altre riferite a Caligola, hanno sollevato numerosi dubbi sulla loro veridicità in quanto inquadrabili nello scontro di poteri tra Senato e principe, scontro che si sviluppa nei primi decenni dell'impero. Per non parlare delle storiografia cristiana che fece apparire più o meno tutti gli imperatori cristiani come crudeli, pazzi e deviati (a parte Augusto a cui però sarebbe apparsa la Madonna).

Ma ciò che più colpisce è che Drusilla morì nel 38, per cui sarebbe rimasta col fratello un solo anno, anno in cui per giunta avrebbe partorito il figlio di Caligola, ma non risulta che morì di parto, perchè si sa invece che morì di malattia.

Quando Caligola si ammalò e rischiò di morire, nel 37, dopo otto mesi di regno, non affidò la reggenza al successore designato, che poi farà uccidere, Tiberio Gemello (figlio di Druso minore e Claudia Livilla, e gemello di Germanico Gemello, che morì in tenera età) ma proprio a Drusilla che dopo la morte ebbe da Caligola il titolo di augusta. 

IL FRATELLO CALIGOLA
Caligola aveva comunque un innegabile affetto per la sorella, al punto che quando questa, nel 38, morì di malattia a soli 22 anni, l'imperatore ne decretò il culto, divinizzandola come "Diva Giulia".Il nome di Giulia Drusilla venne inoltre dato da Caligola alla figlia che ebbe dalla moglie Milonia Cesonia, proprio in memoria dell'amatissima sorella.
Non più tardi Caligola giurò nelle adunanze solo per Drusilla (Suet. Cal. 24. Dio Cass. 89) e sancì che anche il popolo facesse lo stesso.
Di iscrizioni dedicate divae Drusillae ne abbiamo diverse:
- C. XI 1168. 8595. XIV 8576. RA. 1879, 38 p. 372. Bh. Mas. 1890 p. 614;
- una sua flaminica C. Y 7345 (Caburrum);
- della sua esecratio parlano forse gli Atti degli Arvali C. VI 2028 e 12 segg. (cf. EE. 8 p. 821. O. Xn 1026).
- Anteriore però alla sua morte pare debba essere la lapide Dittenberger, SylL 279.


BIBLIO

- Svetonio - De Vita Caesarum - libri II-IV -
- Anthony A. Barrett - Caligola - L'ambiguità di un tiranno - Oscar Storia - Milano - Mondadori - 1993 -
- David Woods - Le conchiglie di Caligola - Greece and Rome - 2000 -
- Stephen Dando-Collins - Caligula: The Mad Emperor of Rome - Turner Publishing - Nashville - 2019 -
- Anthony A. Barrett - Caligula: The Corruption of Power - Yale University Press - 1998 -
- Aloys Winterling - Caligula: A Biography - trad. di Deborah L. Schneider, Glenn W. Most e Paul Psoinos - Berkeley e Los Angeles - University of California Press - 2011 -

TEMPLUM VICTORIAE (28 Agosto)

$
0
0
TEMPIO DELLA VITTORIA AL PALATINO

1918 (Prima Guerra Mondiale)

"A Roma l'evento più discusso dell'anno è la scoperta di una figura femminile mutilata, interpretata come una vittoria e salutata come un presagio di massimo successo per le armi degli alleati. La statua fu trovata all'inizio del febbraio 1918, negli scavi condotti dal Commendatore Boni sul Palatino, non lontano dall'Arco di Tito. È stato scoperto solo il busto dal collo alle ginocchia, di 85 centimetri in tutto, ma il frammento è molto ben conservato. 

Viene da una figura in rapido movimento, con drappeggi volanti elaborati in pieghe animate e profondamente tagliate. Sia la posa che il trattamento richiamano le cosiddette Nereidi di Xanthus, l'Iris del frontone orientale del Partenone e la Nike del frontone occidentale, tanto che la figura è considerata un originale greco del V secolo. Sebbene chiamato Vittoria, il nome si basa su poco tranne il pronunciamento del Signor Boni. Non ci sono tracce di ali e la somiglianza con la Nike del Partenone non fornisce un argomento forte, in vista delle analogie con l'Iris e le "Nereidi". 

Le rovine in cui è stata trovata sono di una torre medievale che poggiava su un'antica fondazione, apparentemente la base di un tempio. Per le antiche fondamenta, Boni suggerisce siano quelle dell'Aedes Victoriae, che gli archeologi hanno generalmente localizzato sul lato opposto del Palatino. Questo suggerimento, come l'identificazione della statua come una Vittoria, difficilmente sarà accettato senza ulteriori e migliori prove, ma in ogni caso il busto stesso è un'importante aggiunta alle nostre opere greche originali del V secolo."
LA DEA VITTORIA
Il tempio della Vittoria (aedes Victoriae) era un tempio edificato a Roma sul Palatino, dedicato alla Dea Vittoria, che personificava la vittoria in battaglia ed era associata alla romana Bellona ma pure alla greca Nike. La sua festa veniva celebrata il 28 agosto.

La tradizione narra che il tempio fosse stato costruito da Evandro, figlio del Dio Mercurio e della ninfa Carmenta, che guidò gli Arcadi fondando la città di Pallante sul Palatino (Dionigi di Alicarnasso I.32.5). A Evandro, alleato di Enea, venne anche dedicato un altare sotto l'Aventino, presso la Porta Trigemina. 

CORSE DEI CARRI
Sembra invece che il tempio fosse stato costruito  da Lucio Postumio Megello (Lucius Postumius Megellius),  con le multe che aveva comminato durante la sua edilità (Fasti Prenestini ad Kalendas, EE IX . N. 740; NS 1897, 421; Ant. ap. NS 1921, 104), e dedicato il I agosto 294 a.c., anno in cui fu console (Liv. X. 33,9). 

Ma nulla impedisce che Evandro sia realmente esistito, Dionigi di Alicarnasso, vissuto al tempo di Augusto, attesta la presenza presso i romani del culto di Evandro, chiamato anche Pallante. Pertanto Megellius potrebbe aver ricostituito il suo tempio sul rudere di quello più antico. 

Negli anni 204-191 a.c., mentre il tempio della Dea era in costruzione, ospitò il betilo (la pietra sacra) della Magna Mater. Nei pressi Marco Porcio Catone costruì il tempio di Victoria Virgo (Liv. XXIX .14.13). Non vi è alcuna traccia di alcun restauro di questo tempio ( AJA 1905, 438-440 ; Mem. Am. Acad. II .61), e secondo alcuni il suo sito esatto è ancora incerto.



L'ISOLA DELLA DEA

"A settanta stadi da Reate (Rieti) sorgeva Cutilia, una città famosa, accanto a una montagna. Non lontano da esso c'è un lago, di 400 piedi di diametro (il lago di Paterno), riempito da sorgenti naturali che fluiscono continuamente e, si dice, senza fondo.
Questo lago ha qualcosa di divino e gli abitanti del paese lo considerano sacro alla Vittoria; e circondandolo con una palizzata, in modo che nessuno possa avvicinarsi all'acqua, la mantengono inviolata; a parte il fatto che in determinati periodi di ogni anno coloro che hanno il sacro ufficio si recano sulla piccola isola nel lago ed eseguono i sacrifici richiesti dall'usanza.
Quest'isola ha un diametro di circa 50 piedi e sorge a non più di un piede sopra l'acqua; non è fisso e fluttua in qualsiasi direzione, secondo il vento che lo fa oscillare delicatamente da un luogo all'altro." 

In realtà si tratta della Dea Vacuna che però veniva identificata con la Dea Vittoria, colei che conduceva le cose a buon fine. Ma per i romani la cosa più importante da condurre a buon fine, e quindi alla vittoria, fu la guerra, perchè perderla poteva significare l'estinzione del popolo romano, mentre vincere dava, oltre all'esaltazione, sicurezza e ricchezza.

 

LA DEA DEI VINCITORI

Nella mitologia romana Vittoria è la Dea della vittoria in battaglia ed era associata a Bellona, Dea della guerra, ma venne identificata con la greca Nike, raffigurata come una giovane donna alata con in mano una corona di alloro, in attesa o in atto di incoronare il vincitore. 

Il culto della Vittoria, che inizialmente per i romani era uno dei tanti epiteti riferiti a Giove (Iuppiter Victor), già operante in territorio italico, crebbe a Roma verso la fine della Repubblica per l'influsso della cultura Greca, e la Victoria Augusti fu sotto l’impero la costante divinità titolare degli imperatori. 

Dopo la vittoria nella Battaglia di Porta Collina Silla istituì giochi speciali in onore della Dea, i Victoria Sullana, ed altrettanto fece Giulio Cesare con i giochi del 45 a.c., chiamati Victoria Caesaris, e pure Augusto, con i suoi giochi detti Victoria Augusti.

L'archeologo Chase afferma che Boni identificò questo tempio nelle fondamenta reperite vicino all'arco di Tito. Attraverso i resti di due iscrizioni dedicatorie (CIL VI .31049 = I, 805; 31060), che si trovano a circa 50 metri a ovest dell'attuale chiesa di S. Teodoro, si può indicare in effetti la sua posizione ( HJ 47-49; WR 139; Gilb. III.428-429; LR 126-127), posta sul Clivus Victoriae.



L'IMPORTANZA DELLA DEA

- L'altare della Vittoria si trovava nella curia romana, con accanto, 
a partire dall'anno 29 a.c., in onore della vittoria di Augusto su Marco Antoniodi una statua tutta in oro della Dea strappata ai Tarantini, raffigurata con le ali e recante una palma e una corona di lauro.

- Gli Scavi archeologici di Pompei hanno riportato alla luce la Schola Armaturarum, edificio di stampo militare dove i giovani venivano istruiti alla lotta e alle arti gladiatorie, e come deposito per le armi. La struttura presentava decorazioni in stile militare come rami di palma, vittorie alate e candelabri con aquile: tuttavia tutti gli ornamenti sono andati perduti a seguito di un crollo verificatosi il 6 novembre 2010 (sig!).

- Nel Foro dei Severi di Leptis Magna in Libia, sulla facciata, tra un arco e l'altro erano posti dei medaglioni, di cui si conservano 70 esemplari. Nella maggior parte dei casi si tratta di rappresentazioni simboliche della Dea romana Vittoria.

La Triade Capitolina dell'Inviolata, ritrovata a Guidonia Montecelio, raffigura le tre divinità principali romane, ciascuna coronata dalla Vittoria alata.
- Nel 382, l'imperatore cristiano Graziano decise di fare togliere l'altare dal Senato. Questo fatto suscitò scalpore e oppose in aspra polemica il pagano senatore Quinto Aurelio Simmaco contro il vescovo Ambrogio di Milano. 
La Nike divenne per i romani la difesa del paganesimo contro l'intransigenza del cristianesimo che non concedeva libertà di culto.

Quinto Aurelio Simmaco con la sua relatio in Senato tentò di convincere l’’imperatore almeno dell’utilità pubblica di quel simbolo, ma inutilmente perchè la statua venne fusa e quindi distrutta per sempre.
- Nel 393 l'usurpatore Flavio Eugenio mette in atto, pur essendo cristiano, una politica di tolleranza verso i pagani e permette la riapertura dei templi pagani, la restaurazione dell'altare della Vittoria nella curia romana (solo l'altare, perchè la statua non c'era più) e la celebrazione di feste religiose pagane.

DEA VICTORIA
- Nel sito di Villa San Silvestro di Cascia, presso Rieti, sono stati rinvenuti i resti di un santuario con una terracotta architettonica che decorava il sacello della Dea Victoria.
- Il tema della Vittoria compare sul fornice centrale dell'Arco di Costantino, in una insula di Ercolano o sull'Arco di Galerio a Tessalonica. In generale queste figure rappresentano lo spirito della vittoria,  continuarono ad apparire dopo la cristianizzazione dell'Impero e lentamente mutarono in angeli cristiani.

- Nel XII sec. ancora perdurava il suo culto:

In un erbario inglese del XII secolo conservato al British Museum e citato da Robert Graves, compare un'invocazione alla Dea Madre Terra, manifestazione neolitica della Dea Gravida Paleolitica:


"Terra, Dea divina, Madre Natura, 
che generi ogni cosa e sempre fai riapparire 
il sole di cui hai fatto dono alle genti; 
guardiana del cielo, del mare 
e di tutti gli Dèi e le potenze; 
per il tuo influsso tutta la natura 
si acquieta e sprofonda nel sonno. 
E di nuovo quando ti aggrada 
tu mandi innanzi la lieta luce del giorno 
e doni nutrimento alla vita 
con la tua eterna promessa; 
e quando lo spirito dell'uomo 
trapassa è a te che ritorna. 
A buon diritto invero tu sei detta 
Grande Madre degli Dèi; 
Vittoria è il tuo nome divino. 
Tu sei possente, Regina degli Dèi! 
O Dea io ti adoro come divina, 
io invoco il tuo nome, 
degnati di concedermi ciò che ti chiedo, 
in modo ch'io possa in cambio 
colmare di grazie la Tua divinità, 
con la fede che ti è dovuta.."



LA FESTA

Pur essendo stata dedicata il I di agosto, la festa del Templum Victoriae si svolgeva il 28 di agosto, ed era una festa molto sentita dai romani, tanto che vi partecipava lo stesso imperatore, e sovente era lui stesso a inaugurarla.

Dunque l'imperatore laureato, quindi cinto sul capo della corona d'alloro che la Dea Vittoria poneva sul capo dei vincitori, dava il via alla festa accendendo lui stesso i bracieri posti sui propilei del tempio e portando poi una ghirlanda nel tempio, mentre in terra venivano cosparsi rami di palme e di alloro.

Per l'occasione si poneva la corona aurea e la tunica palmata, la tunica decorata con foglie di palma e lo scipio eburneus (bastone d'avorio) alla statua di Giove nel tempio di Giove Capitolino

Ai piedi del tempio della Dea Vittoria invece i sacerdoti, guidati dall'imperatore in qualità di Pontefice Massimo, eseguivano il sacrificio di un toro bianco e si iniziavano i canti e le danze che si organizzavano in una processione che partiva dal tempio per passare attraverso il percorso della Via Trionfale dei generali e degli imperatori vittoriosi.

Per tutta la città si eseguivano banchetti e danze e mimi e musiche, e si accendevano fiaccole alle edicole stradali dei Lari pubblici, e la gente si copriva di ghirlande di fiori misti ad alloro. La festa si chiudeva al tramonto.

GUERRA ROMANO-SIRIACA ( 192 - 188 A.C.)

$
0
0
PARTI
«Non vi fu altra guerra più temibile per la sua fama, poiché i Romani pensavano ai Persiani ed all'Oriente, a Serse ed a Dario, ai giorni in cui si diceva che monti inaccessibili erano stati scavati e che il mare era stato coperto di vele
(Floro, Epitoma di storia romana, I, 24.2.)
La guerra romano-siriaca, chiamata anche guerra romano-seleucide o guerra contro Antioco III e lega etolica, fu uno scontro bellico che vide contrapposti i romani e i loro alleati contro l'impero seleucide e la Lega etolica, tra il 192 e il 188 a.c.

La vittoria arrise nettamente a Roma, che divenne sempre più padrona dell'Asia Minore. Ma la più notevole di questa guerra fu la battaglia delle Termopili che ebbe luogo nell'aprile del 191 a.c. tra l'esercito seleucide di Antioco III il Grande e quello romano comandato da Manio Acilio Glabrione.



LA SITUAZIONE

Le tre dinastie dei diadochi, i generali macedoni che alla morte di Alessandro Magno (323 a.c.) si erano contesi il controllo del suo impero nelle sei guerre dei diadochi. Nel 218 a.c. cinque grandi potenze si contendevano tra precari equilibri il primato dei commerci sul Mediterraneo:

TERRITORI ROMANI E SELEUCIDI NEL 200 A.C. (INGRANDIBILE)
- Quella seleucide (padrona dei territori che dall'Asia minore si estendevano fino alla Siria, Mesopotamia e Persia),
- quella tolemaica (sull'Egitto),
- quella antigonide (su Grecia e Macedonia),
- quella della città stato di Cartagine.
- quella della città stato di Roma.

Le cose però cambiarono con la II guerra punica tra Cartagine e Roma (218-201 a.c.), per la netta supremazia in Occidente dell'Urbe, mentre Cartagine passò a un ruolo marginale. Roma peraltro dovette combattere sul fronte orientale contro Filippo V, che aveva concluso un'alleanza con Cartagine nella I guerra macedonica (215-205 a.c.).



L'EGITTO SI ALLEA CON ROMA

Rodi intanto si era alleata con Attalo I (290 - 197 a.c.) di Pergamo, riuscendo a respingere gli attacchi macedoni, ma con gravissime perdite, per cui sia Attalo che i rodiesi si rivolgono a Roma, che, sebbene stremata dalla guerra contro Cartagine, decide di intervenire, in parte temendo l'alleanza seleucide-macedone (201 a.c.), in parte perchè non intervenendo teme che i suoi stati sudditi possano ribellarsi.

ATTALO I
Nel 203 a.c., quando Filippo stringe alleanza con Antioco III, ed insieme muovono guerra ai possedimenti Tolemaici del mar Egeo, per cui i Seleucidi ottengono tutti i possedimenti tolemaici in Asia minore (come la Caria, la Licia, o le città di Efeso in Lidia e Abido in Misia) e costringono l'Egitto ad allearsi con Roma per evitare il peggio.

Dopo la morte di Alessandro, tre dei suoi generali (Tolomeo, Seleuco e Antigono) si erano divisi l'impero: Rodi aveva stretto legami culturali e commerciali con i Tolomei di Alessandria formando la lega rodo-egiziana che controllò i traffici commerciali nell'Egeo per tutto il III secolo a.c..

Così nel 200 a.c. Roma invia a Filippo un ultimatum che cade nel vuoto. Allora la repubblica Romana si allea con i Rodiesi ed Attalo, dal 199 a.c. contro Etoli e dal 198 a.c. anche contro la Lega achea (280 a.c. - 146 a.c.) 

Rodi si impadronì della costa caria, con la quale costituì la Perea Rodia, territorio che raggiunse la massima estensione dopo il trattato di Apamea del 188 a.c., inglobando anche le città della Licia.



LA GUERRA MACEDONICA

Ne nasce la II guerra macedonica  (200 a.c.-197 a.c.che culminò nella battaglia di Cinocefale (Tessaglia) dove Filippo fu sconfitto pesantemente dai Romani del console Flaminino. A Filippo venne lasciata solo la Macedonia, ma nel 196 a.c. Flaminino proclamò la libertà della Grecia tra l'acclamazione generale.

Frattanto Antioco III passava in Europa ed occupava parte della Tracia, mettendovi al suo governo il figlio minore, Seleuco IV. Strinse poi relazioni amichevoli con Rodi, Bisanzio e con i Galati, e promise in moglie sua figlia Cleopatra a Tolomeo V d'Egitto.

ANTIOCO III

ANTIOCO CONTRO ROMA

Alla fine erano rimaste solo due grandi potenze: l'Impero seleucide in Oriente e Roma in Occidente. Così quando nel 196 a.c. Lampsaco, città della Troade, chiese aiuto a Roma, spaventata dall'avvento di Antioco I, Roma inviò il console Tito Quinzio Flaminino dal re seleucide perchè abbandonasse tutti i territori dell'Asia minore appartenuti in precedenza all'Egitto, lasciando libere le città di Lampsaco, Smirne e Alessandria Troade.

Antioco propose l'arbitrato di Rodi, ma la falsa notizia della morte di Tolomeo V, sospese i negoziati, e se ne tornò in Siria. I negoziati ripresero tre anni più tardi nel 193 a.c., ancora una volta infruttiferi: Antioco offriva la sua alleanza a Roma in cambio del riconoscimento delle sue conquiste, comprese
quelle in Tracia e nell'Ellesponto, ma la sua proposta fu ritenuta dai Romani una sfida.

«Se Antioco lascerà liberi ed indipendenti i Greci dell'Asia minore, e si manterrà fuori dai territori dell'Europa, egli potrà essere considerato un amico ed alleato del popolo romano, se lo desidera
(Appiano, Guerra siriaca, 6.)
Dalla parte dei Romani c'era poi il re di Pergamo, Eumene II, il cui fratello, Attalo II, si trovava a Roma in quel periodo. I nuovi negoziati che seguirono si svolsero ad Efeso, ma furono interrotti dalla morte del figlio di Antioco, che era stato associato dal padre, al trono fin dal 209 a.c.


CASUS BELLI

Alla Lega etolica non piacquero le pesanti concessioni territoriali che avevano dovuto fare ai romani, come contributo per il loro aiuto in guerra, per cui chiesero aiuto ad Antioco III il Grande a capo dell'impero seleucide per liberare la Grecia dall'oppressione romana, anche se il re seleucide all'inizio tentennò, ma poteva ora avvalersi dell'esperienza di Annibale, suo consigliere militare nel 196-195 a.c.

Nella primavera del 192 a.c., gli Etoli provarono a sovvertire i governi locali di quattro grandi città greche: Demetriade, Calcide, Corinto e Sparta. Narra Livio che Demetriade fu convinta a rimanere fedele alleata di Roma dall'intervento dello stesso Tito Quinzio Flaminino. Gli Etoli, sebbene avessero fallito nel loro tentativo di sedizione, erano ormai decisi a scatenare una guerra contro Roma, a fianco di Antioco del quale dicevano che:
« ...stava arrivando con un ingente esercito di fanti e cavalieri, dall'India erano stati fatti arrivare degli elefanti e soprattutto tanto oro da poter comprare gli stessi Romani.»

(Tito Livio, Ab urbe condita libri, XXXV, 32, 4.)
Demetriade cadde in mano agli Etoli. Poi Sparta, il cui tiranno, Nabide, fu ucciso con l'inganno; ma gli Spartani, si ribellarono e uccisero gli etoli vendendone molti come schiavi. Gli abitanti di Calcide invece si barricarono tra le mura cittadine prima dell'attacco e gli etoli desistettero.



ANTIOCO E IL SUO ESERCITO

Verso la fine del 192 a.c. Antioco attaccò la Grecia con circa 10.000 fanti, 500 cavalieri, sei elefanti ed una flotta composta da 100 navi da guerra e 200 da carico. Non era un grande esercito.

I TERRITORI NEL 192 A.C.
I Romani, che avevano reclutato ben 20.000 legionari romani e 40.000 tra gli alleati Italici, con la primavera riuscirono ad inviare ad Apollonia in Illiria, un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri avendo, inoltre, predisposto una flotta a Brundisium. Per prima cosa Roma inviò come ambasciatore agli Etoli, un certo Publio Villio Tappulo, che minacciasse un intervento romano in zona.

Antioco intanto aveva iniziato a invadere la Grecia, grazie anche ai consigli di Annibale, che avrebbe suggerito di attaccare Roma su due fronti, sul mar Egeo, e in Italia, con una flotta seleucide e 10.000 armati, per riconquistare il potere a Cartagine, ed invadere nuovamente l'Italia dall'Epiro (auspicando in un'alleanza con Filippo V di Macedonia), occupandone i punti strategici principali.

Annibale fu autorizzato dal re selucide ad inviare un messaggero a Cartagine per sobillarli, ma il messaggio fu scoperto e distrutto da chi temeva un nuovo scontro "suicida" di Cartagine contro Roma. Sembra che nel 192 a.c. Annibale e Scipione l'Africano, si incontrarono per la seconda ed ultima volta nella loro vita per trovare un accordo tra le parti. 

In verità si era creato ormai un forte legame tra il cartaginese ed il romano, l'unico ritenuto da Annibale alla sua altezza. Sembra che i due si stimassero molto per l'intelligenza nell'arte del comando e per l'onestà dell'animo dimostrate da entrambe le parti.



TEMPIO DI LAODICEA

Nel 1943 gli archeologi hanno scoperto un'antica iscrizione in greco che menzionava un tempio di Laodicea, costruito da Antioco III il Grande (223-187 a.c.), re seleucide che governava l'Asia minore, per sua moglie Laodicea.

I culti cittadini in onore di Antioco III e di Laodice riflettevano il prestigio personale della regina per la quale nel 213 a.c. la città di Sardi aveva decretato la costruzione di un recinto sacro, un altare, feste in suo onore con processione e sacrificio. Durante le festività in onore della regina, la popolazione era esentata dal pagamento delle tasse.

Il documento è un editto del 193 a.c. con il quale Antioco III introdusse nell'impero il culto ufficiale della regina Laodice, affiancandolo al culto degli antenati e al suo stesso culto.
L'editto dispone che in ogni satrapia, accanto ai gran sacerdoti degli antenati e di Antioco, siano istituite le grandi sacerdotesse della regina Laodice, che avrebbero portato una corona d'oro sacerdotale con l'immagine della sovrana, con cui dovevano avere un rapporto di parentela.



IL VALORE DI ANTIOCO

Antioco III fu il più illustre esponente della dinastia seleucide, conquistò la nazione dei Parti, nell'Iran nord-orientale, e la Battriana, nell'Asia centrale, combatté contro il faraone Tolomeo V e nel 198 a.c. conquistò la Palestina e il Libano. Più tardi si scontrò con i Romani, che però lo sconfissero alle Termopili nel 191 a.c. ed a Magnesia (oggi Manisa, in Turchia), nel 190 a.c.. La pace costò ad Antioco la cessione di tutti i suoi domini ad ovest del massiccio del Tauro.


- 192 a.c. - Antioco III, prima tentare di stipulare inutilmente accordi con i Romani (offrendo loro di lasciare liberi i Rodii, gli abitanti di Bisanzio e di Cizico, tutti i Greci anche dell'Asia Minore, a parte gli Etoli, gli Ionii ed i re barbari dell'Asia), sbarcò in Eubea con 10.000 armati, e proclamarsi protettore della libertà dei Greci. Il re seleucide confidava, inoltre, che alla sua alleanza si sarebbero uniti sia i Lacedemoni di Sparta che i Macedoni di Filippo V.

Antioco dapprima sbarcò ad Imbro, da lì passò a Sciato, a Pteleo, a Demetriade, e a Falara nel golfo Maliaco in Tessaglia, poi a Lamia, dove si concretizzava l'alleanza tra Seleucidi ed Etoli e si conferiva al sovrano seleucide il ruolo di sua guida.

CAVALLERIA SELEUCIDA


L'ECCIDIO DEI LEGIONARI

La Calcide però non volle allearsi, ma nemmeno i Beoti, e gli Achei ed il re Athamania di Amynandro. Anzi gli Achei si accordarono con i Romani. Antioco fece porre sotto assedio la città di Calcide, ma 500 legionari Romani furono inviati verso la città per difenderla. 

I Romani vennero intercettati lungo strada, uccisi e fatti prigionieri. I pochi Romani sopravvissuti allo scontro, si erano ritirati sull'Euripo. Roma è allibita, la sete di vendetta era alta, ma anche se in questa circostanza il re aveva ottenuto due nuovi relativi successi, la maggior parte delle città-stato della Grecia, non si allearono a lui.

- 191 a.c. - L'alleanza seleucide-etolica cominciò ad incrinarsi nell'inverno del 192/191 a.c., quando l'invasione della Tessaglia fece chiedere a Filippo V l'alleanza coi Romani, anche perchè gli Etoli ricordavano che dovevano la loro indipendenza a Roma. Antioco, con l'avvicinarsi dell'inverno, decise di far ritorno a Calcide, fece inviare la flotta in Asia Minore per recuperare approvvigionamenti per la campagna militare dell'anno successivo.



LE TERMOPILI

In primavera l'esercito consolare di Acilio Glabrione formato da: 
- due legioni romane 
- due di alleati italici, 
per un totale di 20.000 fanti, 2.000 cavalieri ed alcuni elefanti, 
sbarcato ad Apollonia in Illiria, si unì all'alleato macedone e, convergendo su Pelinna, l'espugnarono facendo fuggire re Amynandro ad Ambracia. 

Allora Acilio Glabrione assunse, col consenso del re macedone, il comando di tutto l'esercito e marciò verso il sud della Tessaglia, dove cacciò tutte le guarnigioni nemiche che presidiavano le città dell'Athamania, facendo 3.000 prigionieri tra le forze dei Seleucidi.

Antioco allora inviò messaggeri in Asia per sollecitare l'arrivo di Polissenida, mentre egli si attestava con:
LEGIONARI ROMANI EPOCA REPUBBLICANA
- 10.000 fanti, 
- 500 cavalieri, 
oltre agli alleati a guardia del passo delle Termopili, il luogo della famosa battaglia tra Greci e Persiani, per impedire al nemico di penetrare più a sud, e qui attendere l'arrivo dei rinforzi.
Inoltre fece costruire un doppio vallo su cui egli pose le macchine d'assedio, e ordinò a 1.000 Etoli di presidiare la cima delle montagne vicine e ad ad Eraclea Trachinia, per impedire possibili attacchi romani alle spalle.

Il Comandante romano Acilio Glabrione, che conosceva la storia greca, si ricordò dell'esistenza di un percorso diverso per superare il passo delle Termopili già utilizzato secoli prima dai Persiani per sorprendere i Greci.

Casualmente, un reparto romano condotto da Marco Porcio Catone (234 a.c. - 149 a.c.) incappò in un avamposto che Antioco aveva disposto per custodire il percorso. 

Riuscì a catturare uno dei greci e a scoprire la posizione della forza principale di Antioco e che la guarnigione posta a difesa del percorso ammontava a 600 armati Etoli che i Romani attaccarono e dispersero immediatamente. 

Intanto il grosso dell'esercito romano attaccò l'esercito principale di Antioco e, durante la battaglia, si videro gli Etoli in fuga da Catone e poi Catone stesso, così l'esercito di Antioco si intimorì, avendo sentito parlare del micidiale metodo di combattimento dei romani e, preso tra due fronti, subì una totale sconfitta mentre cercava di raggiungere il proprio accampamento, che venne invaso dai romani. 

Le perdite romane risultarono assai irrilevanti (circa 200 armati), mentre la maggior parte dell'esercito di Antioco fu annientato o ridotto in schiavitù, tanto che il re seleucide si imbarcò a Calcide e fuggì in Asia, ad Efeso, con soli 500 armati (maggio-giugno). Si racconta, infine, che Antioco stesso fu colpito alla bocca da una pietra e perse alcuni denti.

SOLDATI SELEUCIDI

LA RESA

Contemporaneamente a Roma la vittoria fu celebrata con grandi sacrifici e Filippo V di Macedonia fu ricompensato della sua alleanza, lasciando libero il figlio Demetrio, il quale era stato ostaggio della Repubblica romana.

A questo punto i romani ricevettero le suppliche dei Focesi e dei Calcidiesi, precedentemente alleati di Antioco. Allora Acilio Glabrione e Filippo V invasero l'Etolia, ponendo molte città sotto assedio e catturando Democrito, il generale degli Etoli. 

Questi inviarono al console romano ambasciatori per chiedere una tregua, che Acilio Glabrione alla fine accordò. I Romani avevano ormai conquistato Lamia ed Eraclea Trachinia, e Filippo V l'intera Tessaglia, mentre gli Achei si erano ripresi l'intero Peloponneso.

Intanto Antioco III, tornato in Asia Minore e venuto a conoscenza di questi accadimenti, rimase terrorizzato e comprese ciò che Annibale gli aveva predetto. Decise così di inviare messaggeri in Asia per sollecitare l'arrivo di Polissenida, mentre egli si attestava con 10.000 fanti, 500 cavalieri oltre agli alleati a guardia del passo delle Termopili (già noto per la famosa battaglia tra Greci e Persiani), per impedire al nemico di penetrare più a sud, e qui attendere l'arrivo dei rinforzi.un esule di Rodi.

Traversò di nuovo l'Ellesponto e riprese a fortificare le coste del Chersoneso tracico con Sestus e Abydus sulla sponda asiatica, dove sarebbero dovute passare le legioni romane per invadere l'Asia Minore.

LEGIONARI ROMANI

GAIO LIVIO SALINATORE

Alla fine dell'estate la flotta romana, sotto il comando di Gaio Livio Salinatore, di: 
- 81 quinqueremi e 24 di piccole dimensioni, 
con la flotta dell'alleato di Pergamo, Eumene II di: 
- 44 grandi navi e 26 di piccole dimensioni, 
vinse i seleucidi di Polissenida al comando di: 
- 200 navi, 70 delle quali di grosse dimensioni, 
presso capo Corycus. 

Allora Rodi decise di allearsi con Roma, partecipando con: 27 imbarcazioni,
mentre la flotta romana svernava presso il golfo di Smirne (Turchia). 
Intanto Antioco diede ordine ad Annibale di raccogliere una nuova flotta in Cilicia e Fenicia.



I FRATELLI SCIPIONI

Con i nuovi consoli Lucio Cornelio Scipione (238 a.c. – dopo 184 a.c.), successore di Acilio Glabrione, ottenne il nuovo comando, però affiancato dal fratello, Scipione l'Africano (236 a.c. - 183 a.c.), il vincitore di Annibale a Zama, e quindi il vero comandante in capo delle armate romane.

- 190 a.c. - L'anno successivo, la flotta di Rodi di: 
- 27 imbarcazioni, alleata dei Romani, 
sconfisse una flotta di navi seleucidi, condotta dallo stesso Annibale, non molto lontano da Side, presso le foci del fiume dell'Eurimedonte e fu l'ultima battaglia combattuta dal grande generale cartaginese.

Intanto il console Lucio Cornelio Scipione arrivò in Etolia, col fratello Scipione l'Africano, e sostituì nel comando il consolare Acilio Glabrione. Assediò con successo alcune città degli Etoli e proseguirono attraverso Macedonia e Tracia, fino all'Ellesponto, congiungendosi con Gaio Livio Salinatore, ancora comandante della flotta, il quale, dopo aver lasciato il navarco Pausimaco, a capo delle navi dei Rodii e di parte delle sue nell'Eolide, corse in aiuto dell'esercito romano di terra. Sestus, Rhoeteum e molte altre località si arresero a lui, meno Abydus che fu posta sotto assedio.
Alla fine l'esercito di terra riuscì ad attraversare lo stretto di mare nei pressi di Sestus e Abydus, entrambe già fortificate da Antioco III. Intanto i Romani strinsero alleanza con il re di Bitinia, Prusia I, promettendogli nuovi territori in caso di vittoria contro il re seleucide. 


LA VITTORIA SELEUCIDE SUI RODI
Poco dopo però, il navarco rodio Pausimaco, alleato dei romani, fu battuto abilmente dal navarco Polissenida in Eolide. Sette delle sue navi furono distrutte, venti catturate e trasferite ad Efeso.



LUCIO EMILIO REGILLO

Dopo la vittoria seleucide, i Focesi passarono di nuovo dalla parte di Antioco, mentre Livio Salinatore, tornato in Eolide, si univa ad Eumene con nuove venti navi inviategli dai Rodii. Il figlio di Antioco, Seleuco IV Filopatore (218 a.c. – 175 a.c.), assediò Pergamo, capitale del Regno di Eumene II che mosse con la flotta, insieme al nuovo comandante navale della Classis romana, Lucio Emilio Regillo, verso Elaea, il porto di Pergamo.
EUMENE SOTERE
Gli Achei avevano inviato all'alleato Eumene 1.000 fanti e 100 cavalieri, i quali durante l'assedio, notando che gli assedianti seleucidi bevevano oltre modo, compirono con successo una sortita fuori dalle mura.

I Romani ottennero una nuova vittoria navale nella battaglia di Myonessus dove la flotta romana e rodese, sotto Emilio Regillo, sconfissero i seleucidi, ottenendo così il controllo del mare evitando altre invasioni in Grecia.
- 190-189 - Lo scontro decisivo si svolse nei pressi della città di Magnesia ricordata infatti come la battaglia di Magnesia, dove l'esercito romano con:
- poco più di 60.000 soldati romani,
sconfisse l'esercito di Antioco III:
- di 70.000 effettivi (300.000 secondo Floro).

Antioco III, che aveva preso parte attivamente alla battaglia con la sua cavalleria, riuscì a ritirarsi con i superstiti, riparando a Sardi.

- 189 a.c. - Antioco chiese ai Romani una tregua, che gli fu concessa a fronte del pagamento di 500 talenti d'argento e 20 ostaggi. La guerra si era conclusa con la sconfitta di Magnesia ma ci volle più di un anno di negoziati, prima che venisse siglato un trattato di pace tra le parti.

I Romani combatterono ad occidente del mar Egeo contro gli Etoli, che, dopo la tregua concessa, tornarono a combattere, ma furono sottomessi; e in Asia Minore, dove i Galati furono battuti più volte dal console in carica, dietro istigazione dell'alleato di Pergamo, Eumene II (221 a.c. – 160 a.c.).



MARCO FULVIO NOBILIORE

Gli Etoli erano riusciti a respingere le armate macedoni di Filippo V, e a rimettere sul trono di Athamania, Amynandro, ma i Romani gli inviarono di 35.000 armati, sotto il comando di Marco Fulvio Nobiliore che assediò la capitale, Ambracia, e ottenne la resa definitiva degli Etoli.

Appoggiavano le richieste imploranti degli sconfitti Etoli, Attici e Rodii, che vennero perdonati dal console romano. Tuttavia la guerra continuò con le popolazioni vicine fino a quando Nobiliore non occupò con la flotta l'isola di Cefalonia e di Zacinto. Al ritorno a Roma gli fu concesso, ma non facilmente, il trionfo (187 a.c.), che egli celebrò con grande sfarzo, come narra Tito Livio.

MARCO FULVIO NOBILIORE

GNEO MANLIO VULSONE

In Asia minore, dopo l'arrivo del nuovo console, Gneo Manlio Vulsone, a Sardi dove risiedeva quartier generale romano, in sostituzione del comandante precedente, Scipione Asiatico, l'armata romana si trovò a combattere per conto dell'alleato Eumene II di Pergamo contro le popolazioni celtiche dei Galati.

Questi vennero sconfitti in due principali battaglie:
- la prima presso l'Olimpo (oggi Aladag) contro i Tolostobogi; la seconda contro i Volgi Tectosagi presso il monte Magaba. Il trionfo, però, fu negato al vincitore poiché non era stata approvata la causa scatenante della guerra (Iustum Bellum).



TRATTATO DI APAMEA (188 A.C.) 

- 189 a.c. - erano riprese le trattative di pace tra Roma ed Antioco, secondo quanto già discusso con Scipione l'Africano dopo la battaglia di Magnesia. Il re non prese parte alla conferenza di pace, inviando l'ex-viceré dell'Asia Minore a rappresentarlo. Presero invece parte Eumene II di Pergamo, gli ambasciatori di Rodi e delle città minori alleate dei Romani. Nella primavera del 188 a.c. si raggiunse infine un accordo che siglava la definitiva pace tra la Repubblica romana ed il regno seleucide.

Antioco dovette:
- rinunciare alla Tracia ed all'Asia Minore fino ai monti del Tauro, rimanendogli solo parte della Cilicia, estromettendolo così definitivamente dall'area egea;
- dovette cedere la sua flotta (a parte 10 navi) e tutti gli elefanti da guerra;
- pagare un'indennità di 15.000 talenti d'argento in 12 anni (1.000 annuali), avendone anticipati 3.000; - gli fu vietato l'utilizzo di mercenari Galati;
- fu obbligato ad inviare a Roma come ostaggio principale il figlio, il futuro Antioco IV;
- dovette estradare Annibale, che di lì a poco però fuggi in Bitinia;
- riaprì i mercati del regno di Siria a Rodi ed ai suoi alleati;

Roma invece acquisì, tramite gli stati "clienti" alleati:
- tutti i territori ad ovest del fiume Tauro: Misia, Lidia, Frigia, Pisidia, il nord della Caria,
- la città di Lysimachea ed il Chersoneso tracico furono affidate al regno ellenistico degli Attalidi di Pergamo;
- mentre Rodi acquisì la Caria a sud del Meandro e la Licia.

La guerra tra la Repubblica romana ed Antioco III portò a Roma la sottomissione delle grandi potenze del Mediterraneo: da Cartagine, al regno di Macedonia, e a quello dei Seleucidi.
Roma era inoltre riuscita ad ottenere l'alleanza greca senza doverla sottomettere, e altrettanto ottenne con altri stati, che tennero Roma in qualità di "arbitro", scoraggiando altri interventi nell'area egea, soprattutto del vicino regno di Macedonia. 


BIBLIO

- Appiano di Alessandria - Guerra siriaca -
- Aurelio Vittore - De Viris Illustribus - Roma -
- Rachel Feig Vishnia - State, Society and Popular Leaders in Mid-Republican Rome 241-167 b.c. - Routledge - 2012 -
- Francisco Pina Polo - The Consul at Rome: The Civil Functions of the Consuls in the Roman Republic - Cambridge University Press - 2011 -

FRASCATI (Lazio)

$
0
0
NINFEO VILLA ALDOBRANDINI
Frascati fa parte della città metropolitana di Roma Capitale, nell'area dei Castelli Romani, nel Lazio, e si erige sui Colli Albani a circa 320 m sul livello del mare, al di sotto del versante nord-ovest del Monte Tuscolo, incluso all'interno del perimetro del Parco regionale dei Castelli Romani, dove tutto è arte e antiche vestigia.

E' già sufficiente guardare, anzi ammirare gli splendidi ninfei delle ville, per capire, non solo quanto le ville dei secoli scorsi abbiano copiato dalle ville trovate in loco, ma quanto fossero belle le ville degli antichi romani, ville distrutte selvaggiamente e mai eguagliate in seguito. Persino queste ville che rieditano gli antichi horti romani sono rimaste oggi ineguagliate ricordo degli splendidi edifici romani.

Data la sua altitudine, in posizione dominante rispetto a Roma, offre una panoramica molto singolare, al di sotto del versante nord-ovest del monte Tuscolo, attraversato dalla Via Tuscolana, con un territorio compreso all'interno dei confini del Parco regionale dei Castelli Romani, tra Grottaferrata ad ovest e Monte Porzio Catone ad est.

I ritrovamenti archeologici più significativi risalgono all'epoca romana e appartengono alla villa patrizia di Lucullo (117 - 57 a.c.) e poi alla dinastia imperiale dei Flavi (69 - 96 d.c.). Ma le sue ville, edificate su antiche vestigia romane, richiamano molto nella struttura, ma particolarmente nei resti archologici, le antiche e splendide ville dei famosi "otii" romani (le ville dell'ozio), dove imperatori, generali e aristocratici romani andavano a ritemprarsi dalla vita convulsa dell'Urbe e dagli oneri del comando e delle guerre.

SCALINATA FRASCATANA RINASCIMENTALE OVVERO SU MODELLO ROMANO 
Qui ritroviamo gli splendidi marmi, spesso ricavati dalle ville sottostanti, vi si riconoscono infatti marmi di cave romane ormai estinte, vi ritroviamo gli splendidi trompe l'oeil che nonostante il nome non sono state inventate dai francesi ma dai romani, e gli splendidi giardini all'italiana che altri non sono che i giardini romani e che sono stati copiati dai francesi chiamandoli "giardini francesi" e così via, tutti inoltre caratterizzati dalla famosa "ars topiaria", cioè l'alte di dare una forma alle piante, che fu invenzione squisitamente romana.

Frascati è già un minuscolo insediamento urbano nel IX sec. Si suppone che il nome di Frascati derivi dal fatto che nella zona si raccoglieva la legna da ardere (frasche) da cui il nome delle trattorie: "fraschette" in quanto coperte da tettoie di di frasche (rami).

La cattedrale di "S. Maria in Vivario" venne innalzata sui resti del vivarium di una villa repubblicana (attribuita a Lucullo) che servì come cava alla chiesa. Anticamente la villa fu anche di proprietà di C.
Passieno Crispo, il secondo marito della potente Agrippina (già sposata a Domizio Aenobarbo) che l fece uccidere per sposare l'imperatore Claudio e assicurare il trono a suo figlio Nerone. La villa divenne poi di proprietà della gens Flavia fino a Domiziano, ma si mantenne ancora splendida fino all'imperatore Settimio Severo.

Sembra che la villa sorgesse su due terrazzamenti e su quello superiore sorse il primitivo insediamento di Frascati. La località, esattamente dove oggi sorge Piazza S. Pietro, era un importante nodo stradale dove si incrociavano la via Labicana e la via Albana.

Tusculum era stato fondato, secondo la tradizione, da Telegono, figlio di Ulisse e di Circe, in cima ai Colli Albani.Tusculum da Tusci, cioè Etruschi. Dopo la battaglia del Iago Regillo, Tusculum si uni con i Romani, divenne municipio e vide l'edificazione nelle sue vicinanze di splendide ville tra cui ricordiamo quella di Cicerone. A Tusculum nacque Catone il Censore.

IL CELEBRE VINO DI FRASCATI: EST EST EST

LANCIANI

Cronologicamente parlando, il primo grande lavoro intrapreso e compiuto in questi classici luoghi è la riedificazione di Frascati incominciata da Paolo III nel 1538, e compiuta nel 1546 sotto la direzione del factotum Iacopo Meleghino, e dell'architetto Bartolomeo Baronino. 

Questa opera importante comprese la fabbrica della rocca o castello, residenza ordinaria del «governatore della città di Tusculano» e residenza straordinaria dei pontefici nelle loro gite campestri. L'opera comprese pure le nuove mura castellane, l'apertura di due piazze, e il gettito delle « case che occupano le strade per dirizzarle». 

L'attuale centro storico della Città, che va da piazza del Mercato, via dell'Olmo, piazza Paolo III e piazza San Rocco, sorge sui resti della villa romana di Caio Passieno Crispo (secondo marito di Agrippina, la madre di Nerone).

VILLA FALCONIERI
I ritrovamenti archeologici di manufatti sia di questa villa che della grande villa suburbana di Lucullo, in prossimità di quella di Passieno, suggerisce che già in quell'epoca il sito fosse abitato, almeno per le case rurali di servitù alle ville romane di cui era disseminato tutto il colle tuscolano e che i possidenti romani edificarono fin dal I sec. a.c.

Nel quartiere di Cocciano si sono ritrovati da poco alcuni reperti archeologici, ed è stato costituito un Parco Archeologico.

"Cronologicamente parlando, il primo grande lavoro intrapreso e compiuto in questi classici luoghi è la riedificazione di Frascati incominciata da Paolo III nel 1538, e compiuta nel 1546 sotto la direzione del factotum Iacopo Meleghino, e dell'architetto Bartolomeo Baronino.

Questa opera importante comprese la fabbrica della rocca o castello, residenza ordinaria del «governatore della città di Tusculano" e straordinaria dei pontefici nelle loro gite campestri; quella delle nuove mura castellane, l'apertura di due piazze, e il gettito delle «case che occupano le strade per dirizzarle». 

IL VINO DEI CASTELLI OVVERO LE VIGNE
Se si richiama alla mente il fatto che l' intera città giace sopra le rovine di una sola antica villa imperiale, come ho descritto minutamente nel Bull. com. tomo XII, a. 1884, pp. 141, appare certo che gli architetti preposti al lavoro devono avere raccolto, per conto di casa Farnese, larga messe di antichità.

Ulisse Aldovrandi ricorda tra i marmi farnesiani - una spoglia o trofeo bellissimo con una Medusa . . . grifoni e teste di arpie e di leoni con un panno avvolto in spalla ... un trofeo spoglia armata all'antica di porfido ... un candeliere triangolare con vittorie alate ed una donna trionfante a lato, e arpie giù ai piedi » opere tutte ritrovate a Frascati. E qui giovi ripetere a illustrazione delle cose dette il passo del Cod. Tusc. 14, I, 11, e. 146: - 

La villa dove oggi è fondata la città di Frascati non dubito che fosse la più ampia e spaziosa del territorio Tusculano, e se ne vedono sino ad ora le vestigie sotto la porta Romana, e si stendeva sino al giardino e palazzo dei sigg. Cherubini che poi comprò il colonnello Guaina, e questo signore, nel cavare che fece, vi trovò alcune statue di molta considerazione che trasferì in Roma nel suo palazzo. 

Sotto il Castello o Rocca vi è il duomo vecchio, ed in questo luogo vi era, prima che lo fabbricassero, un altro vivaro ».

(Rodolfo Lanciani)

SANTA MARIA IN VIVARIO

SANTA MARIA IN VIVARIO

Santa Maria in Vivario, o, San Rocco, (il cui nome fa presupporre che in zona abbondassero i Vivaria romani, cioè luoghi di allevamento di animali selvatici e non, nonchè i "Pratoni del Vivaro", un altopiano dei Colli Albani sicuramente in antico adibito a detto allevamento, è la cattedrale del XVII secolo, il cui interno, a tre navate, è scandito da colonne in pietra con capitelli marmorei ionici di epoca tardo imperiale. 

All'interno alcuni sarcofagi e reperti romani, insomma abbonda dei reperti di una grandiosa villa romana con relativo territorio e ricco vivaio di pesci, un'antica villa romana già ricostruita nel XIII sec. e poi abbattuta nel XVII per edificarvi la cattedrale.
L'altare maggiore è ricavato da un sarcofago del V sec.. Un'antica colonna marmorea romana è stata riutilizzata per il pulpito sulla destra.

Nella parte sottostante una cripta recentemente restaurata, riprende la struttura rettangolare del vivario su cui poggia la chiesa.

VILLA TORLONIA

Le 12 Ville Tuscolane

Le Ville Tuscolane attinsero molto dai resti delle ville romane che lì giacevano abbandonati, ispirando i nuovi edifici e pure gli ampi giardini sia nell'architettura che nei giochi d'acqua con le relative fantasiose fontane. 

Frascati è famosa per le ville tuscolane: costruite dalla nobiltà papale fin dal XVI sec, per rappresentanza e soggiorno estivo della corte pontificia.

Le ville tuscolane, da iniziali "case di campagna" circondate da terre coltivate e da boschi, divennero ricchi palazzi adornati dai più valenti architetti ed artisti dei secoli XVI e XVII, che si rifecero tuttavia alla villa romana d'epoca imperiale come luogo di ritrovo e meditazione, insomma la villa dell'otium, con l'utilizzo del "ninfeo" come apparato decorativo del giardino, insomma tale e quale le ville degli antichi romani.

"Cronologicamente parlando, il primo grande lavoro intrapreso e compiuto in questi classici luoghi è la riedificazione di Frascati incominciata da Paolo III nel 1538, e compiuta nel 1546 sotto la direzione del factotum Iacopo Meleghino, e dell'architetto Bartolomeo Baronino. 

Questa opera importante comprese la fabbrica della rocca o castello, residenza ordinaria del «governatore della città di Tusculano e, straordinaria dei pontefici nelle loro gite campestri;, quella delle nuove mura castellane, l'apertura di due piazze, e il gettito delle « case che occupano le strade per dirizzarle». 
Se si richiama alla mente il fatto che l' intera città giace sopra le rovine di una sola antica villa imperiale, come ho descritto minutamente nel Bull. com. tomo XII, a. 1884, pp. 141, appare certo che gli architetti preposti al lavoro devono avere raccolto, per conto di casa Farnese, larga messe di antichità.

FRASCATI
Ulisse Aldovrandi ricorda tra i marmi farnesiani:
- una spoglia o trofeo bellissimo con una Medusa,
- grifoni,
-  teste di arpie,
- teste di leoni,
- un trofeo spoglia armata all'antica di porfido,
- un candeliere triangolare con vittorie alate,
- una donna trionfante a lato,
- arpie giù ai piedi.
opere tutte ritrovate a Frascati. 
Il panorama fu usurpato più tardi da Atanasio Kircher, il quale ne formò tre tavole per il suo Latium, intitolandole « schematismus villarum tusculanarum » e notando in esso i cambiamenti di proprietà avvenuti dal 1620 in poi. 
Di questi è necessario tenere stretto conto, per riconoscerne l'origine e il luogo di ritrovamento, di molte iscrizioni tusculane, e per restituire il nome a molti ruderi di ville, di piscine e di sepolcri. 
Paragonando questi due documenti grafici, del Greuter e del Kircher, con quelli contenuti nella "Raccolta delle principali fontane dell' inclitta città di Roma dessegnate et intagliate da Domenico Parasacchi", con la nova aggiunta disegnata da Girolamo Felice Romano et intagliata da Pietro Miotto Borghi,  edita da Giambattista de Rossi in Agone pel giubileo del 1650: nelle "Fontane delle ville di Frascati disegnate da Gio. Battista Falda " edite da Giangiacomo de Rossi al tempo di Alessandro VII, ecc., si può ricostituire il seguente latercolo cronologico: 
(Le dodici Ville Tuscolane, che ricadono nel territorio comunale di Frascati e nei territori dei confinanti Monte Porzio Catone e Grottaferrata):

VILLA ALDOBRANDINI

- Villa Aldobrandini -

Detta anche Villa Belvedere, sorge su un'altura panoramica che sovrasta l'ingresso alla cittadina, e fu costruita per il cardinale Pietro Aldobrandini, nipote del Papa Clemente VIII su di un edificio preesistente del 1550 appartenuto a monsignor Alessandro Rufini.

VILLA FALCONIERI

- Villa Falconieri -

"La fabbrica coi suoi giardini, con le terrazze e conserve di acqua, fu piantata sugli avanzi di una villa romana, " i quali si continuano a discoprire anche di presente per cura del chiaro ing. Ferdinando Gerardi."

VILLA TORLONIA

- Villa Torlonia - 

Nel 1563 Annibal Caro acquistò un terreno dall'abbazia di Grottaferrata presso Frascati su cui costruì una villa Caravilla, che nel 1579 passò alla famiglia Cenci, poi al cardinale Tolomeo Galli di Como,  al cardinale Scipione Borghese, al Duca di Gallese, Giovanni Angelo Altemps, al Cardinale Ludovico Ludovisi, e nel 1622 tutti i reperti antichi presenti nella villa, circa 50 pezzi, furono trasferiti alla Villa Ludovisi di Roma, poi divenuto museo romano.
Nel 1661 venne acquistata da Pompeo Colonna, passò alla famiglia Cesarini-Sforza e nel 1841 alla famiglia Torlonia. Tutti hanno profuso ricchezze per realizzarvi opere di straordinaria bellezza ancora oggi fruibili. Nel 1943 la villa subì un bombardamento tanto che fu completamente demolita (sig!) e venne ricostruito un edificio residenziale, mentre il parco divenne pubblico.

VILLA LANCELLOTTI

- Villa Lancellotti -

Edificata dai Padri Oratoriani nel 1582, acquistata poi dal banchiere Roberto Primo della famiglia Borghese. Dopo una serie di successioni, tra cui la famiglia Piccolomini, giunse nel 1866 ad Elisabetta Borghese Aldobrandini, moglie del Principe Filippo Massimo Lancellotti, della cui casata è ancora proprietà.
VILLA TUSCOLANA - DIONISO COMBATTE GLI INDIANI MOSAICO ROMANO

- Villa Tuscolana (o Rufinella) -

"et io, come curioso delle antichità, nel detto anno 1656 prima del contagio, con un altro religioso cappuccino cavammo vicino a dette nicchie ricoperte di terra, e scoprendo dette nicchie trovassimo attaccate al muro le conchiglie marine col tartaro, come si usa ora di accomodare le fontane.... e nel piedistallo dette nicchie erano lavorate di finissimo e bellissimo mosaico che il cardinal Sacchetti volse vendere."
E' evidente che la villa sorgeva su una romana con il suo ninfeo.

VILLA VECCHIA

- Villa Vecchia -

Il casino architettato dal Vignola è piantato sugli avanzi di una fabbrica romana, la più vasta del territorio, conosciuta oggi sotto il nome di Barco. Un antico ambulacro fu mutato in istalla capace di contenere cento cavalli, e altre stanze furono adattate per uso di alloggio di fittavoli. Presso il ca.sino di Villa Vecchia, sul lato destro del viale che ad esso discende da villa Taverna, si trovano gli avanzi ben conservati dell'antica piscina » (vedi Bull. com. tomo XII, a. 1884, p. 185).


VILLA SORA

- Villa Sora -

La villa, ubicata a Frascati in via Tuscolana, sorge su una superficie che un tempo faceva parte del “Tusculano” di Licio Licinio Lucullo (117-57 a.c.) e, in epoca successiva, della villa di Saverio Sulpicio Galba (Imperatore di Roma dal 68 al 69 d.c.). Sopra a queste vestigia venne costruita la villa come casale di campagna nella II metà del Cinquecento dalla famiglia Moroni. La villa, conosciuta con il nome di “Torricella”, nel 1600 venne venduta al Marchese di Sora Giacomo Boncompagni (figlio naturale di Gregorio XIII).

Nel 1893 Rodolfo Boncompagni Ludovisi, principe di Piombino, cedette la villa con tutti gli arredi al grande incisore di cammei Tommaso Saulini che la tenne fino al 1900, per poi cederla ai Salesiani, attuali proprietari.  Fu originariamente un palazzo quadrato a tre piani con cortile centrale e torre belvedere, come si osserva dalle riproduzioni del 1620 di Matteo Greuter. Esso era dotato di due torrette: una con vista su Roma, l’altra, più piccola, prospiciente la facciata principale.

VILLA SCIARRA

- Villa Sciarra -

Venne edificata a Frascati da Mons. Ottaviano Vestri da Barbiano, nel 1570 con la denominazione Villa Bel Poggio. Passò poi al Duca di Ceri, e  ai principi Pallavicini, nel 1919 fu ceduta a Maffeo Barberini Colonna di Sciarra, VIII principe di Carbognano, il quale nel 1929 la cedette a Leone Weinstein.

Nel 1932 la villa venne acquistata alle Suore dell'Opera Pia Casa della Provvidenza che vi istituirono un orfanotrofio fino alla sua completa distruzione durante gli eventi della II guerra mondiale.
Ne resta il parco - giardino con ruderi classici di età romana e la terrazza panoramica. Attualmente la Villa ricostruita ed il Parco sono adibiti a scuola pubblica.

VILLA MONDRAGONE

- Villa Mondragone

E' una delle dodici Ville Tuscolane realizzate dalla nobiltà papale nel XVI secolo in agro di Frascati, nei Castelli Romani. L'origine di questa « regina villarum » si fa risalire alla visita fatta da Gregorio XIII al card. Altemps il 21-23 ottobre del 1572, e al desiderio da lui manifestato di veder sorgere un casino di delizia sui ruderi di quello già appartenuto ai fratelli Quintilii, Condiano e Massimo, che domina tutto l'orizzonte romano da un ciglione di monte alto 416 m. sul mare.

Attualmente però appartiene al comune di Monte Porzio Catone, posta su di una collina a 416 msm, a circa 20 km a sud-est di Roma, vicino all'antica città di Tusculum. L'edificio, acquistato nel 1981 dall'Università degli studi di Roma "Tor Vergata", è divenuto un centro congressi.

VILLA PARISI (O BORGHESE)

- Villa Parisi o Borghese -

In origine villa molto modesta, del cardinale Ferdinando Taverna, acquistata nel 1614 dal cardinale Scipione Borghese. La sistemazione definitiva della villa si deve al cardinale Scipione che poté contare sull’appoggio dello zio Paolo V, che amò soggiornarvi più volte e che vi fece una strada che comunicasse direttamente con Roma. 

La costruzione è formata da più corpi uniti tra loro, di cui quello centrale, il maggiore, è il casino vero e proprio, che reca sulla facciata d’ingresso, al di sopra del portale, una terrazza balaustrata sul fronte e delimitata negli altri lati dai corpi del casino. 


VILLA GRAZIOLI

- Villa Grazioli -

La villa sorse in agro di Frascati, attualmente a Grottaferrata, edificata nel 1580 dal cardinal Antonio Carafa, passata poi a Ottavio Acquaviva d'Aragona, marchese di Atri, a cui si devono la decorazione di gran parte dei soffitti e delle volte al piano nobile.

Venne poi acquistata dal card. Scipione Borghese nel 1610 ma nel 1613 la cedeva al cardinal Taverna che a sua volta la vendette al principe Michele Peretti di Montalto, passando poi ai Savelli, i quali nel 1683 la cedono al duca Livio Odescalchi, che cura il consolidamento della struttura tra il 1696 e il 1698, sotto la direzione dell'architetto Giovanni Battista Fontana.

Nel 1833 la proprietà passa al Collegio di Propaganda Fide che la vende nel 1870 al duca Pio Grazioli, che fa compiere grandi restauri anche nel parco. Buona parte delle stanze della villa e della galleria al secondo piano, vantano affreschi seicenteschi e settecenteschi di Agostino Ciampelli, Giovanni Paolo Pannini e Antonio Carracci.

INGRESSO DI VILLA MUTI

- Villa Muti -

 Clemente VIII trasformò l'umile casino del Cerasoli in magnifico palazzo, circondato da parco e giardino, sopra suolo ricchissimo di antiche rovine, conforme ho dimostrato in Bull. com. tomo XII, a. 1884, p. 300 seg.

« vi era un'altra grandissima villa, nella quale altro non è restato in piedi che alcune grotte sotterranee, le quali avendo io con ogni diligenza misurato, ritrovai che la fabbrica fu quadra, di cento sessanta passi geometrici, circondata di muro, dentro la quale si vede un'altro ordine o loggia da passeggiare di longhezza quasi da seicento piedi et ha il lume estrinseco per alcuni archi.

Nel mezzo di questa fabbrica seguono sette ordini di camere segrete, et ogni camera è di longhezza cento ottantanove palmi (m. 42.14) e per larghezza trentadue palmi (m. 7.18) e per una si entra nell'altra per le porte, senza però lume alcuno o finestra... Sopra delle quali era fondato il palazzo, come mostrano sino ad oggi le rovine delle fabbriche... Vi erano anche nel medesimo luogo alcuni bagni, che dimostrano li canali per dove correva l'acqua. 

Lontano da questa fabbrica quasi quattrocento piedi vi è un luogo per la strada incavato in forma di anfiteatro, quasi di grandezza di quanto è il Pantheon . . . di novantasei piedi geometrici di diametro, dal quale spazioso argine o orlo si cala per alcuni scalini... Oggi altro non si vede se non li muri antichi. E questa piscina oggi è commutata in orto ».

RESTI DEL MAUSOLEO OGGI

MAUSOLEO DI LUCULLO

Alla decadenza dell'Impero Romano i patrizi si accorsero che non era più possibile arricchirsi diventando generali degli eserciti di legionari. Con l'avvento del cristianesimo i romani non combattevano perchè era peccato, ma siccome occorreva combattere si fece uso dei soldati stranieri mercenari per difendere la patria.

Purtroppo questi soldati non avevano assolutamente nè il valore nè l'abilità dei legionari romani per cui le invasioni straniere non poterono essere più bloccate. Il nuovo potere fu invece quello ecclesiastico per cui i vecchi patrizi fecero la scalata al vescovato, al cardinalato e pure al papato.

Così i nuovi palazzi e monumenti vennero edificati spogliando i bei monumenti romani delle loro bellezze: blocchi di marmo, architravi lavorati, colonne, capitelli, statue e bassorilievi. Tutto fu asportato senza un rimpianto, condannando all'oblio tanti bei monumenti. tra questi il Mausoleo di Lucullo a Frascati.

Il p. Mattei attribuisce all'anno 1598 la distruzione del cosiddetto mausoleo di Lucullo:
« massiccio in figura conica, vicino le mura della città di Frascati, nel Borgo, alla parte destra della Porta Nuova per la strada che conduce a' Cappuccini; e fu spogliato de suoi ornamenti circa l'anno 1598 de quali si servì la città nella fabrica della nuova catedrale; ma le cose migliori e più rare furono prese da diversi cavallieri Romani per adornarne le loro gallerie: ne si sa che vi fusse trovata alcuna iscrizzione . . . bensì nel farvi alcune cave ne tempi nostri, poco lungi si sono trovate molte tegole di terracotta, che servivano per coprire alcune ossa » .

(Memorie dell'antico Tusculo pp. 61-62)



CISTERNA ROMANA PRESSO LA VILLA DI GALBA


Sotto Frascati esiste ancora la cisterna romana per la raccolta delle acque che alimentava la villa dell’imperatore Galba, villa che doveva sorgere sotto Frascati in località Campitelli.

Essa venne riprodotta dall’abate Angelo Uggeri (Gersa 1754 - Roma 1837) in una delle 24 incisioni che compongono la parte dedicata a “Tusculum” del suo lavoro “Vues pittoresques des edifices de Rome antique et ses environs” realizzato tra il 1793 e il 1810 con il disegno che vediamo qua appresso.

Però se ne può scorgere solo la sommità, e non è facile distinguerla, nel tratto di Via Enrico Fermi antistante il cosiddetto “ospedale nuovo” con tracce della struttura esterna poco oltre l’ingresso al fabbricato dell'ospedale.

Si tratta di una cisterna quadrata di oltre 36 metri di lato, con un muro perimetrale di 60 centimetri di spessore con all’interno 25 pilastri di 1,20 metri di lato, disposti 5 X 5, che sorreggono un soffitto con volte a crociera, alto 5,5 metri dal pavimento.

L'interno della cisterna, scavato nel tufo, è rivestita di intonaco di coccio pesto.

Esso è composto da tre sale comunicanti con delle basse porte, la malta idraulica non essendoci più acqua si è essiccata scollandosi dalle pareti. 

Due pozzi, attualmente chiusi, sono stati usati come discarica del terreno soprastante, riempiendo parzialmente due locali della cisterna. 

Come al solito l'Italia non si cura delle meraviglie del suo passato, ritendone la cura una spesa eccessiva, ma un popolo non è nulla senza il suo passato, e in Italia il passato è Roma, la città che insegnò la civiltà al mondo.

La cisterna venne realizzata nel I secolo d.c. per il rifornimento della sottostante villa della famiglia dei Sulpici, alla quale appartenne l’imperatore Sergio (Servio) Sulpicio Galba.
Galba fu il sesto imperatore romano, dopo Cesare, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. Nacque a Terracina il 24 dicembre del 3 a.c., fu imperatore dal 9 giugno 68 al 15 gennaio 69, quando morì in battaglia contro Marco Salvio Otone che lo sconfisse presso il Lago Curzio e prese il suo posto nella guida dell’Impero.


BIBLIO

Antonio Nibby - Viaggio antiquario ne' contorni di Roma di Antonio Nibby membro ordinario dell'Accademia Romana di Archeologia - Roma - Vincenzo Poggioli stampatore camerale - 1819 -
Antonio Nibby - Delle vie degli antichi, aggiunta a Roma Antica di Famiano Nardini -
- Stefano Zen - Baronio storico. Controriforma e crisi del metodo umanistico («La Ricerca Umanistica», 2) - Napoli - Vivarium - 1994 -
- F. Borsi e G. Pampaloni - Monumenti d'Italia -Ville e giardini -  Ist. Geog. De Agostini - 1985 -
- Rodolfo Lanciani - La distruzione dell'antica Roma - Roma - A. Curcio - 1986 -

CASTRA POTAISSA (Limes Pannonico)

$
0
0

L'antica fortezza Castra Potaissa venne costruita dopo la conquista della Dacia ad opera di Traiano nel 106 d.c., eretta nell'area della moderna Turda, situata nel distretto di Cluj in Romania, alle spalle del settore strategico del Limes Porolissensis, ovvero il Limes germanico-retico, che è stato incluso dal 1987 nella lista dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO, insieme al Vallo di Adriano e il Vallo Antonino nel Regno Unito.

La fortezza restò in attività, soprattutto difensiva, come forte ausiliario dal 107 al 168 circa e come fortezza legionaria dal 168 circa al 256. Le dimensioni del castrum erano di metri 573 x 408, per una superficie pari a 23, 37 ha.


Il Limen Porolissensis aveva torri di avvistamento e fortificazioni di mura di cinta continue, che integravano i vari castra, contro le popolazioni dei: 

- Buri, antica popolazione germanica, di origine suebica.

- Vandali, popolazione germanica orientale migrata in Polonia sotto la spinta di altre tribù germaniche; si spostarono a sud e sottomisero la popolazione celtica dei Boi. Si stanziarono in Slesia e Boemia, creando una federazione di Burgundi, Rugi e Silingi, detta dei Lugi (compagni).

- Dei Daci liberi a ovest, popolazione indoeuropea stanziata a nord del basso corso del Danubio, corrispondente a Romania e Moldavia.

- Dei Bastarni a nord est, insieme di popolazioni di stirpe germanica e sarmata, una tra le più temibili armate mercenarie della storia, capaci di caricare con grande potenza e motivazione, soprattutto dai fianchi e da dietro, per scoraggiare, infondere paura e devastare.

- Dei Carpi, o liberi daci, già stanziati sui pendii orientali dei monti Carpazi, ma con molte influenze sarmate e romane. Dalla fine del II secolo si allearono con i Goti contro l'Impero Romano.

- Dei Costoboci, germani e daci, collocati sui pendii nord-orientali dei monti Carpazi, in Galizia. Sotto Marco Aurelio invasero le province occidentali della Dacia, Mesia e Tracia.

PLANIMETRIA DEL CASTRA

LE ORIGINI

Le origini di Potaissa risalgono ai Daci che una città chiamata Patreuissa da Tolomeo nella sua geografia, probabilmente fu una corruzione di Patavissa o Potaissa, quest'ultima essendo il nome più comune.

POTAISSA (INGRANDIBILE)
Quando venne conquistata dai romani, tra il 101 e il 106 d.c., durante il dominio di Traiano, insieme a parti della Dacia di Decebalo, i conquistatori mantennero alla città il nome di Potaissa. La sua identificazione topografica con l'attuale Turda si deve al Mommsen.

La località geto-dacica, anteriore alla conquista romana, ha lasciato scarse tracce archeologiche, dovute a scoperte casuali: resti ceramici (specialmente la tipica "tazza dacica") e monete d'imitazione da monete greche e specialmente macedoni, scoperte sulle alture Dealul Zînelor, Suia, Pordei, ci danno approssimativamente l'estensione di P. in epoca geto-dacica, quand'essa non era che un grosso centro rurale.

Occupata dai Romani nel 106, Potaissa è menzionata nel 107-108 come centro importante sulla strada che traversava la Dacia dal Danubio a Porolissum. Fu allora che venne costruito il tratto tra Turda e Cluj (a Potaissa Napocae, C.I.L., iii, 1627).

SARCOFAGO ROMANO

MILLIARUM DI AITON

Il nome Potaissa è stato registrato per la prima volta su un milliarium romano scoperto nel 1758 nel vicino comune di Aiton. Il Milliarium di Aiton è un'antica pietra miliare romana risalente al 108 d.c., poco dopo la conquista romana della Dacia, che mostra la costruzione della strada da Potaissa a Napoca, su richiesta dell'Imperatore Traiano.

Il milliarum indica inoltre la distanza tra Potaissa a Napoca che è di 3000 piedi  (P.M.X.) da Potaissa. Questo è il primo attestato epigrafico degli insediamenti di Potaissa e Napoca nella Dacia romana.

L'iscrizione completa è:

BOLLO DELLA LEGIO V MACEDONICA
"IMP(eratore) /
CESARE NERVA /
TRAIANUS AUG(ustus) /
GERM(anicus) DACICUS /
PONTIF(ex) MAXIM(us) /
(sic) POT(estate) XII CO(n)S(ul) V/
IMP(eratore) VI P(ater) P(atriae) FECIT /
PER COH(ortem) I FL(aviam) VLP (iam) /
HISP(anam) MIL(liariam) C(ivium) R(omanorum) EQ(uitatam) /
A POTAISSA NAPO /
CAM/
M(ilia) P(assuum) X "

È stato registrato nel Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. III, il 1627, Berlino, 1863.
Questo milliarium è un attestato della strada conosciuta per essere stata costruita dalla Cohors I Hispanorum miliaria. Il castrum stabilito fu chiamato anche Potaissa e divenne municipium, poi colonia.

MUSEO DI POTAISSA

GLI SCAVI

Occasionali ritrovamenti dovuti in generale a lavori agricoli e/o edilizi hanno messo in luce un ricco materiale ceramico, scultoreo ed epigrafico. Però solo nel 1958 l'Istituto di Storia antica di Cluj ha iniziato uno scavo sistematico, all'angolo sud-orientale del castro.



L'OCCUPAZIONE ROMANA

Nei primi anni dell'occupazione romana, Potaissa era una semplice statio, probabilmente con un castrum di unità ausiliari; si trasformò quindi in vicus, ma non ebbe molta importanza nella prima metà del sec. II. 

IL POZZO DEL CASTRUM
Fu con l'arrivo della legione V Macedonica intorno agli anni 166-167 d.c. che la città ebbe un rapido sviluppo, ottenendo sotto Settimio Severo dapprima il rango di municipium poi quello di colonia e divenendo, per estensione ed importanza, la terza città della Dacia romana dopo Apulum (Alba Iulia) e Sarmizegetusa Ulpia Traiana.
Potaissa fu il campo base della Legio V Macedonica dal 166 (secondo alcuni dal 168) al 274. sotto Marco Aurelio (121 - 180), durante il periodo delle guerre marcomanniche, che si protrassero fino al principato di Commodo (161 - 192). Vi sono anche delle iscrizioni della legio XIII Gemina che qui soggiornò sicuramente ma in un periodo imprecisato.

Dopo circa un intero ventennio di guerre, il limes venne pacificato fino al principio del III secolo, perchè sono state reperite alcune iscrizioni, attribuibili al 213, di un interprete dace, rinvenute a Brigetio (in Ungheria).

Le iscrizioni accennano a spedizioni punitive contro i Daci liberi del Banato (regione storico-geografica dell'Europa Centrale, oggi divisa tra Serbia, Romania e Ungheria), compresi tra la Pannonia inferiore ad occidente e la Dacia ad oriente.

LE TERME

Sempre nel 213 vi furono poi altre due incursioni in Dacia e in Pannonia inferiore, lungo il tratto danubiano attorno ad Aquincum, ad opera di Carpi e Vandali.
Nel 256 Le continue invasioni da parte delle genti barbare, durate oltre un quarantennio, costrinsero l'imperatore Gallieno (218 - 268) ad abbandonare l'intera area settentrionale della provincia delle Tre Dacie facendogli arretrare l'intero settore del limes porolissensis.

«La provincia di Dacia, che Traiano aveva formato oltre il Danubio, è stata abbandonata, dopo che l'Illirico e la Mesia sono state spopolate, perché era impossibile mantenerla. I romani, spostati dalle città e terre di Dacia, si sono sistemati dall'interno della Mesia, che adesso chiamano Dacia, sulla sponda destra del Danubio fino al mare, rispetto a cui la Dacia si trovava prima sulla sinistra

(Eutropio - Breviarium)



BIBLIO

- National Archaeological Record of Romania (RAN) - ran.cimec.ro. 2012-09-27 - Archived from the original on 4 March 2016 -
- Cristian M. Vlădescu - Fortificațiile romane din Dacia Inferior - Ed. Scrisul Românesc - 1986 -
A. Thomas - Gardner Robert - The Via Traiana, in «Papers of the British School at Rome», n. 8 - 1916 -
Eutropio - Breviarium - libro IX -
- Traiano - Storia e Archeologia - L'Erma di Bretschneider - 2010 

FICANA (Città Romane scomparse)

$
0
0
I REPERTI DI FAICANA

LA GUERRA ROMA - FICANA: ECCO LE PROVE!

di MICHELE MATTEI - Guida Turistica - 2018 -

"Questo signore, nella foto sotto, si chiama Anco Marzio. Di origine sabina, fu il quarto re di Roma. Fu lui, tra il 640 e il 616 a.C. a conquistare Ficana, radendola al suolo, secondo Dionigi di Alicarnasso. Mmmh, ma se fu rasa al suolo, ci saranno tracce di questa distruzione o no?
Beh, rimettendo insieme i dati archeologici, ne ho personalmente individuate non poche.

Tutte corrispondenti a un periodo situato tra il 625 e 580 a.C. (coincidente con il regno di Anco Marcio) e in vari punti dell'abitato, per giunta (Seconda foto, cerchiati in rosso) Si tratta di tracce di incendi più o meno estesi, livellamenti di edifici e ricostruzioni, nuove opere difensive e possibili atti "rituali" di rifondazione.

Proporrò presto un articolo scientifico sulla questione ma sembra che la distruzione narrata ci sia davvero stata. Ficana tuttavia, continuerà a vivere. Troppo strategica per i Romani per perderla definitivamente e "spargerci il sale sopra".
ANCO MARZIO

PLINIO IL VECCHIO

L'elenco più ampio di città scomparse del Lazio arcaico che ci sia stato tramandato è quello di Plinio il Vecchio (23 - 79), il quale cita "LIII populi" di cui alla sua epoca (I secolo d.c.) non rimaneva traccia.

L'elenco è diviso in due parti: 
- prima cita, senza un ordine preciso, le città del Lazio con il loro nome,
- poi elenca in ordine alfabetico le popolazioni cittadine dell'area albana, citate con il nome degli abitanti, definiti nell'insieme "populi albenses".

PLINIO SECONDO - DETTO IL VECCHIO
I popoli albani erano una foederatio di trenta popolazioni dell'Italia preromana (i prisci Latini) stanziate nell'antico Latium vetus tra il X (età del bronzo finale) e VIII secolo a.c. (età del ferro avanzata). Il termine albenses derivava dalla cerimonia del banchetto sacrificale sul mons Albanus, nel santuario di Giove Laziale a cui questi popoli partecipavano unitamente.

«[68] In prima regione praeterea fuere in Latio clara oppida Satricum, Pometia, Scaptia, Politorium, Tellena, Tifata, Caenina, Ficana, Crustumeria, Ameriola, Medullum, Corniculum, Saturnia ubi nunc Roma est, Antipolis quod nunc Ianiculum in parte Romae, Antemnae, Camerium, Collatia, Amitinum, Norba, Sulmo,

[69] et cum iis carnem in monte Albano soliti accipere populi Albenses: Albani, Aesolani, Accienses, Abolani, Bubetani, Bolani, Cusuetani, Coriolani, Fidenates, Foreti, Hortenses, Latinienses, Longani, Manates, Macrales, Munienses, Numinienses, Olliculani, Octulani, Pedani, Poletaurini, Querquetulani, Sicani, Sisolenses, Tolerienses, Tutienses, Vimitellari, Velienses, Venetulani, Vitellenses.»

(Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III)

Nelle due liste si riscontrano evidenti discordanze: le città nominate realmente non sono cinquantatré, ma cinquanta, e anche inserendo le città scomparse di Apiolae e di Amyclae, citate a parte, sarebbero cinquantadue. 

Il numero cinquantatré potrebbe essere un errore di Plinio; oppure si potrebbe ipotizzare che all'epoca di Plinio fosse stato tramandato il numero ma non il nome di tutte le città scomparse. Solo di poche di queste città si è peraltro potuto individuare con una certezza il sito, e di pochissime esistono tracce sia pure poco importanti.

RESTI DI FICANA

FICANA ROMANA

Ficana era un abitato del Latium vetus, ricordato da Plinio il Vecchio nella lista delle cinquantatré città che « scomparvero senza lasciare traccia».  Ficana era collocata sulla sponda sinistra del fiume Tevere, sulle piccole alture di Monte Cugno, presso la località Dragona, Monti di San Paolo, ad Acilia, oggi ridotto a una collinetta, ma un tempo più scosceso, naturalmente difeso su tre lati, e posto a dominare strategicamente il Tevere fino alla foce.


Le origini latine

Eccezion fatta per un frammento ceramico riferibile alla fase finale della media età del bronzo, le prime testimonianze di un insediamento umano presso il sito risalgono al XII secolo a.c. circa. Questo si deduce dalla gran quantità di ceramica protovillanoviana e in parte subappenninica in giacitura secondaria presso alcune strutture forse connesse alla fortificazione della città.

Nonostante il mancato rinvenimento di tracce di abitazioni risalenti a quell'epoca, tali materiali provano l'esistenza certa di un abitato stabile nell'età del bronzo recente e finale. Un'altra evidenza dell'occupazione stabile del sito durante la prima fase laziale (Bronzo finale 3) proviene da un gruppo di tombe a pozzetto rinvenute su una piccola altura a sud del pianoro ove sorgeva l'abitato. Le tombe in questione, abbastanza sconvolte dalle arature, presentano scarso corredo e seguono il rito dell'incinerazione.

Sono in numero limitato (quindici), ma bastano a provare l'esistenza di un abitato risalente all'ultima fase dell'età del bronzo finale, che corrisponde alla prima fase della cultura laziale (Roma - Colli Albani I). Non vi è dubbio che la città ebbe un salto qualitativo per la sua identità con la costruzione dell'aggere difensivo, risalente alla metà dell'VIII secolo a.c. circa.

Questa struttura, costituita da un aggere in terra e tufo, largo ben 7 m e una fossa larga 10 m, difendeva tutto il lato occidentale della piccola collina, elevandosi a difesa di essa. La struttura, di cui si è rinvenuta buona parte, era lunga 150 m circa ed il suo stato di conservazione al momento dello scavo era discreto.

La città non aveva bisogno di un muro di cinta completo, in quanto ben protetta sugli altri tre lati da costoni molto ripidi, che facevano dell'abitato una sorta di acropoli dominante la valle del Tevere. Un'ipotesi di Alessandro Bedini propone di identificare con un primo apprestamento difensivo, riferibile già all'età del bronzo finale, in alcune strutture con andamento parallelo e perpendicolare all'aggere di VIII secolo a.c.

All'interno dell'abitato la costruzione caratteristica di quest'epoca (prima età del ferro) era la capanna. A Ficana esse erano di forma quadrata, rettangolare o ellittica, raramente ovale come a Roma o a Satrico, anche se la più antica presenta una pianta rotonda (tuttavia l'identificazione del contesto con una capanna è dubbia). Le tracce di esse, rinvenute soprattutto nel settore nord orientale del pianoro, testimoniano l'esistenza di questo tipo di costruzione.

Le capanne erano costruite piantando dei pali nel terreno, l'alzato era in opera a graticcio e il tetto un intreccio di rami in legno e paglia. Altre tracce di capanne sono state rinvenute in una zona quasi a ridosso dell'aggere difensivo, sul lato interno. L'insediamento, abitato dai"Prisci Latini", vive un vero momento cruciale con l'ascesa al trono di Roma di Anco Marzio 641 616 a.c.).

La storiografia, nonostante le varianti dei racconti, è quasi unanime nel raccontare la conquista di Ficana da parte del re intorno alla metà del VII secolo a.c. Secondo diversi autori, tra cui Dionigi di Alicarnasso, Plinio il Vecchio Tito Livio, la città sarebbe stata rasa al suolo e gli abitanti deportati sull'Aventino.

SCAVI DI FICANA

La conquista romana 

Diverse sono le interpretazioni relative alla fase successiva alla conquista romana.

I rinvenimenti testimoniano infatti un'occupazione del sito senza soluzione di continuità dal X al III secolo a.c.
Nulla lascia dunque pensare che l'insediamento sia stato annientato: forse Roma occupò il sito, ma invece di obliterarlo, lo annientò politicamente, annettendolo al suo regno.

Michele Mattei attraverso l'analisi dei dati archeologici pubblicati, ha individuato varie aree di scavo del sito (almeno cinque) che mostrano segni di distruzione violenta proprio alla fine dell'VII secolo a.c. coeve dunque al presunto arrivo di Anco Marzio, proponendo di vedere in quelle evidenze, i chiari segni del passaggio del re romano sul sito. Sito che sarebbe stato si distrutto, ma ricostruito subito dopo, non potendo Roma perdere l'occasione di possedere una città posta in un punto così strategico del territorio.

In effetti, Ficana non aveva solo il controllo sulla foce del Tevere: di grande importanza per i romani era il possesso delle saline, che si trovavano pochi km a ovest ed erano probabilmente sfruttate dai ficanesi stessi. Secondo la storiografia altre due città fecero le spese della spinta di conquista di Anco Marzio: Tellenae Politorium. la tesi dell'epigrafista Lucio Benedetti, secondo la quale la prima delle due coinciderebbe con Ficana, sempre secondo Mattei, non trova alcun riscontro né logico né linguistico.

Con l'avvento del controllo romano iniziano a sorgere edifici in pietra al di fuori dell'aggere. La superficie del sito passa da cinque a dieci ettari circa, forse anche di più. Sono stati rinvenuti tre di questi edifici a ovest del pianoro. L'aggere perde le sue funzioni difensive e una nuova fortificazione costituita da una fossa sembra prendere il suo posto a fine VII secolo a.c.

Circa due secoli e mezzo dopo, viene eretta una struttura in blocchi di tufo che sembra avere le caratteristiche di un nuovo muro di difesa riferibile al IV secolo a.c. e che sembra far parte di un sistema di cittadelle fortificate intorno a Roma in funzione difensiva. Come leggere questi dati archeologici è tuttora ampiamente dibattuto: si può infatti vedere nella perdita di uso dell'antico aggere un'espansione della città vera e propria ma anche la perdita dello status di città e la prosecuzione tutta romana dell'insediamento che avrebbe assunto un carattere prettamente agricolo.

Rasmus Brandt propone addirittura, basandosi sull'assenza o quasi di rinvenimenti a Ostia riferibili alla sua fase più antica (VII-V secolo a.c.), di riconoscere in Ficana stessa il sito della prima Ostia fondata da Anco Marzio. Man mano che Roma si espande la città di Ficana perde la sua importanza strategica e, tra il IV e III secolo a.c., inizia ad essere sicuramente abbandonata come insediamento urbano.

Sullo stesso territorio e intorno nascono però diverse ville rustiche; tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale. Indubitabile segno questo che l'area si trasformò più che altro in zona rurale. Durante la prima età imperiale la città era già solamente un ricordo di pochi eruditi.

RITROVAMENTI ARCHEOLOGICI ZONA FICANA

- Archeologia II -

Rinvenimento intorno al 1869 dell'XI miliario della via Ostiense, in località Malafede, di una dedica a Mars Ficanus nel 1955 e gli scavi effettuati in maniera estensiva tra il 1975 ed il 1983 hanno consentito di identificare con sicurezza il sito dell'antica città latina. L'ultima campagna di scavo, che ha avuto luogo nel 2007, ha messo in luce dodici sepolture orientalizzanti, tra cui spiccano una vera e propria tomba principesca e due sepolture infantili estremamente ricche.

Questi scavi hanno permesso di datare alla media età del bronzo (ca XIII - XII sec. a.c.) le prime frequentazioni umane, anche se prime occupazioni stabili, datano al IX-VIII a.c.. Gli scavi condotti a Monte Cugno hanno riportato alla luce un muro di cinta con delle abitazioni e una necropoli riferibile a un periodo che va dall'orientalizzante medio (circa metà VII secolo a.c. con una sola sepoltura databile alla fase antica del periodo) alla tarda età repubblicana e al primo impero.

Non sono attestate, come a Decima, sepolture riferibili all'VIII secolo a.c., sicuramente presenti ma ancora da indagare. Tra i materiali dei corredi funerari si trovano diverse anfore con alto collo, spalla pronunciata e ricca decorazione sia plastica sia incisa, di una tipologia largamente attestata nel Latium vetus nel corso del VII secolo a.c.

Questi oggetti sono chiara testimonianza di una grande ricchezza e di una cultura materiale raffinata che le ultime campagne di scavo nella necropoli si rivela completamente allineata ai centri di Decima e Laurentina Acqua Acetosa. Interessanti due sepolture aristocratiche infantili rinvenute nella necropoli orientalizzante, in contrasto con l'assai ben attestato uso latino di seppellire i bambini quasi esclusivamente nell'abitato.

Città antica del Lazio, sul Tevere, all'11° miglio della via Ostiense (oggi Dragoncello), ricordata soltanto durante la espansione di Roma verso la foce del fiume, secondo la tradizione, quando da Anco Marcio fu distrutta insieme con altre città del Lazio e i suoi abitanti furono trasportati sull'Aventino e nella valle del Circo Massimo.

Plinio la elenca tra i "clara oppida" del Lazio (III, 68). Era di poi Calpurnio Chio "ad Marte Ficanum Aug(ustum)" e riesce importantissimo quel Ficanus imperocchè secondo dottamente aveva avvisato il sommo Borghesi questo cognome proviene dalla distrutta città di Ficana situata una volta alla lapide undecima sulla via ostiense.


BIBLIO

- Massimo Pallottino - Origini e storia primitiva di Roma - Milano - 1993 -
- Oberdan Menghi - Ficana: una pietra miliare sulla strada per Ostia - 2003 -
- Rodolfo Lanciani - Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità - Editorial Leonello Malvezzi Campeggi - 2006 -
- Rodolfo Lanciani - Nuove storie dell'antica roma - Roma - Newton Compton - 2006 -
- Lorenzo Quilici - Roma primitiva e le origini della civiltà laziale - Roma - Newton Compton - 1979 -

STRABONE - STRABO

$
0
0
STRABO

Nome: Strabo
Nascita: 63 a.c., Amasya, (Turchia)
Morte: 23 d.c., Amasya, (Turchia)
Professione: Geografo, storico e filosofo


« La scienza della Geografia, che mi propongo ora di investigare è, a mio parere, tanto quanto le altre scienze, di competenza del filosofo »
(Strabone. Geografia. I)

Strabone, storico, filosofo e geografo, nacque nel 63 o 64 a.c., nella provincia romana di Amaseia, nel Ponto. Discendente di una nobile famiglia, anticamente legata al re Mitridate, la sua famiglia abitava ad Amasea, la capitale di Amaseia, una città del Ponto Eusino (allora in Cappadocia, oggi in Turchia). Un tempo era una famiglia illustre; il bisnonno materno di Strabone fu infatti uno degli ufficiali di Mitridate Evergete, Dorialo, alleato di Roma (r. 150 - 120 a.c.).

Ai tempi della giovinezza di Strabone la sua famiglia era ormai decaduta, ma ebbe ancora a disposizione un patrimonio notevole che gli diede la possibilità di ricevere un'ampia istruzione e di dedicarsi, per tutta la vita, ai viaggi e agli studi. La maggior parte delle notizie biografiche sono tratte dalla stessa Geografia.

Fu certamente amico di Atenodoro di Tarso (74 a.c. – 7 d.c.) e subì l'influenza del maestro di Atenodoro, lo stoico Posidonio, importante filosofo ma anche geografo, che Strabone enuncia tra le sue fonti.

Nel 44 a.c., anno della morte di Cesare, soggiornò per la prima volta a Roma (XII 6,2), dove fu allievo del celebre Tirannione (già Teofrasto), un grammatico greco, a sua volta originario del Ponto, portato a Roma come prigioniero di guerra verso il 70 a.c. (III guerra mitridatica) da Lucullo.

Poi liberato, Tirannione, oltre che grammatico grande esperto di 'Geografia', come ricorda lo stesso Cicerone (Lettere ad Attico, II 6), fu il maestro dei figli di Cicerone e acquistò ricchezza e celebrità per la sua vasta biblioteca a Roma.



L'ECLETTICA
 
A Roma, Strabone poté ricevere un'ampia istruzione filosofica eclettica, che mirava ad unire pensieri filosofici differenti. Ad esempio gli eclettici del II sec. a.c. tesero a conciliare le filosofia di Platone e Aristotele riportando a semplici differenze di termini le loro fondamentali diversità di pensiero.

Fu Filone di Larissa (159 – 84 a.c.), fondatore della Nuova Accademia platonica dell'88 a.c. che diffuse l'eclettismo nel mondo romano, che sosteneva la conciliabilità di diverse dottrine nel campo della morale e della politica furono seguite a Roma anche da Cicerone (106 a.c. - 43 a.c.) che ne divenne il più
illustre rappresentante nel mondo romano.

« Mi sembra, come ho già detto, che in una materia come la geografia sia prima di ogni cosa necessaria la geometria e l'astronomia... perché senza i loro metodi non è possibile determinare accuratamente configurazioni geometriche, fasce climatiche latitudinali, dimensioni, e altre questioni collegate; ma siccome queste scienze dimostrano, in altri trattati, tutto quello concerne alla misurazione della terra nel suo complesso, io potrò dare per assodato che l'universo è di forma sferica, che la superficie della terra è sferica e, soprattutto, dare per presupposto la legge che precede questi due principii, cioè che i corpi sono attratti verso il centro»
(Strabone. Geografia. I 1, 20)

STATUA DI STRABONE IN TURCHIA

LO STOICISMO

Inoltre Strabone fu allievo di Senarco di Seleucia, un altro filosofo peripatetico, che respinse però parte delle teorie di Aristotele, negando l'esistenza dell'etere con il trattato "Contro il quinto elemento".

Frequentò inoltre lo stoico Posidonio di Apamea, della scuola stoica, vissuto tra il 135 e il 50 a.c., considerato il più grande filosofo della sua epoca, tanto che, per l'ampiezza degli studi, fu soprannominato "Atleta", e fu la fonte di numerosi autori greci e latini, da Cicerone a Seneca, da Galeno ad Ateneo, Diogene Laerzio, fino a Simplicio e Stobeo, e allo stesso Strabone.

Quest'ultimo fu allievo pure del grammatico greco Aristodemo di Nisa il Vecchio, famoso filologo e scrittore greco e sesto bibliotecario della biblioteca di Alessandria, figlio di Menecrate (II – I secolo a.c.), nato in Caria, e discepolo del famoso grammatico Aristarco di Samotracia, (216 –144 a.c.).

Tra il 35 a.c. e il 7 d.c., sono documentati sempre nella Geografia, ulteriori soggiorni a Roma, e altri viaggi nelle provincie e le città del nuovo impero romano. Talvolta Strabone accompagnò anche personalità di rango della classe dirigente romana, ma più per il suo piacere che per raccogliere dati per la propria opera, compilata soprattutto attraverso le fonti scritte. Del resto non ricoprì mai ruoli di rilievo nell'amministrazione romana, preferendo una vita da studioso, e non partecipò alla trasformazione della 'repubblica' romana nell'impero augusteo.

Strabone non riteneva il sapere fine a se stesso, ma che dovesse servire alla società con un ruolo del tutto concreto. Anche la sua Geografia, pertanto, vuole essere utile al mondo romano e ai suoi governanti. Nell'opera, Strabone dispensa sinceri elogi ad Augusto, al mondo romano e ai suoi governanti, pur rimanendo nel profondo dell'anima un filosofo greco:

« Questi sono dunque i vantaggi che la natura ha offerto alla città, ma i Romani, da parte loro, ne hanno aggiunti altri che derivano dalla loro oculata amministrazione. Mentre infatti i Greci ritenevano di aver raggiunto il loro massimo scopo con la fondazione delle città, perché si erano preoccupati della loro bellezza, della sicurezza, dei porti e delle risorse naturali del paese, i Romani hanno pensato soprattutto a ciò che quelli avevano trascurato: a pavimentare vie, a incanalare acque, a costruire fogne che potessero evacuare nel Tevere tutti i rifiuti della città. 
Selciarono anche le vie che passano attraverso tutto il territorio, provvedendo a tagliare colline e a colmare cavità, cosicché i carri potessero accogliere i carichi delle imbarcazioni; le fogne, coperte con volte fatte di blocchi uniformi, talvolta lasciano il passaggio a vie percorribili da carri di fieno. Tanta è l'acqua condotta dagli acquedotti da far scorrere fiumi attraverso la città e attraverso i condotti sotterranei: quasi ogni casa ha cisterne e fontane abbondanti dovute per la maggior parte alla cura che se ne prese Marco Agrippa, che ha abbellito la città anche con molte altre costruzioni »
(Strabone. Geografia. V, 3, 8)


LE OPERE


LA GEOGRAFIA

« ...l'ampiezza del sapere, la sola in grado di render possibile l'intraprendere lo studio della geografia, è prerogativa di chi ha saputo speculare sulle cose sia umane che divine, la conoscenza delle quali si dice costituisca la filosofia... l'utilità della geografia, intendo dire, presuppone che il geografo sia egli stesso un filosofo, un uomo che impegna se stesso nella ricerca dell'arte di vivere, o detto in altro modo, della felicità.»

(Strabone. Geografia. I1, 1)

Scritta in lingua greca, e indicata anche, fino al V secolo, con il titolo di "Geographoúmena", l'opera fa seguito ai "Commentari Storici" in 47 libri oggi perduti - ne restano solo frammenti di tradizione indiretta - che proseguivano il corso della narrazione di Polibio, incentrata sul periodo 264-200 a.c..

Da notare che l'opera rinvia costantemente a un ambiente e una tradizione scientifico-letteraria di cultura greca. senza tenere in gran conto geografi e storici di cultura latina o di estrazione diversa dalla greca, limitandosi ad esempio a un solo accenno dei "Commentari" che Cesare redasse nel corso delle sue campagne galliche:

«Ma delle regioni barbare, remote, piccole e frammentate, di tutte queste le descrizioni non sono né precise né numerose: e tanto più sono distanti dai Greci tanto più aumenta l'ignoranza. Gli storici romani poi imitano quelli greci, ma non pienamente: infatti ciò che dicono lo derivano dai Greci, mentre ciò che di proprio aggiungono non testimonia di una gran sete di sapere, cosicché ogni qual volta occorre una lacuna tra i primi, non viene sufficientemente colmata da questi ultimi, se è vero che gli stessi nomi, quelli più illustri, sono per lo più greci
(Strabone. Geografia. III 4, 19.)

ORBIS TERRARUM DI STRABONE (INGRANDIBILE)
L'opera per certi aspetti aggiorna la geografia di Eratostene, basandosi soprattutto sugli scritti di Omero, da lui definito il padre della geografia, ma pure con prudenza:
« Ora, mentre è facile dare un giudizio su quel che hanno scritto gli altri, le notizie date da Omero hanno invece bisogno di una attenta indagine critica, dal momento che egli parla da poeta e, inoltre, non di argomenti attuali, ma molto antichi, che il tempo ha in gran parte offuscato »
(Strabone. Geografia. viii, 1, 1)

Ma si basa anche su filosofi, matematici e scienziati come: Anassimandro, Ecateo, Eraclito, Democrito, Eudosso, Dicearco, Eratostene, Ipparco, oltre a geografi e storici come Polibio, Posidonio, Artemidoro di Efeso, Eforo di Cuma, Apollodoro di Artemita e in parte su esperienze personali di Strabone che si descrive come uomo dai molti viaggi, come mai avrebbe fatto alcun altro cultore della materia:
« ...dall'Armenia verso occidente, fino alla Tirrenia di fronte alla Sardegna, e dal Ponto Eusino verso sud fino ai confini dell'Etiopia. Né può trovarsi altra persona, tra chi abbia scritto di geografia, che abbia viaggiato per distanze più lunghe di quanto io stesso non abbia fatto »
(Strabone. Geografia. II. 5,11)

Vari riferimenti e dati interni, in ogni caso, come per es. alcuni cenni all'impero di Tiberio (14-37 d.c.) e ad eventi riconducibili dal 21 o al 24 d.c. (cfr. XVII 3,7.9.25), fanno ipotizzare il periodo compreso tra il 17 e il 23 d.c. per la redazione dell'opera, dunque verso la fine della lunga vita di Strabone, probabilmente pubblicata solo dopo la sua morte, avvenuta intorno al 24 d.c.

La sua opera, in cui descrive le regioni del mondo abitato all'epoca conosciuto, è il trattato geografico più ampio dell'antichità, che riprende talvolta testi di diversi secoli più antichi del suo, e la sua conoscenza del diritto romano applicato nelle varie città ne fa una fonte essenziale per la conoscenza della romanizzazione in Gallia e nella Penisola iberica, che mostra, soprattutto nei libri III e IV, come a seguito dell'acculturazione graduale delle popolazioni, si stesse sviluppando in queste regioni una nuova cultura. 

A differenza della geografia tolemaica, con studio ed analisi più matematiche, la Geografia di Strabone ha un carattere più storico-antropologico, e per certi aspetti aggiorna la geografia di Eratostene (272 - 192 a.c.), basandosi soprattutto sugli scritti di Polibio (m. 47 d.c.), Artemidoro di Efeso, Posidonio e in parte su esperienze personali di viaggio di Strabone.

A volte il racconto indugia su eventi mitici o molto più antichi:
« Forse non dovrei esaminare così estesamente cose che sono passate, ma limitarmi semplicemente a parlare in dettaglio lo stato attuale delle cose, se non vi fossero su questi argomenti racconti che abbiamo appreso fin da bambini... E tuttavia chi si propone di trattare la geografia della terra deve esporre sia le cose come sono attualmente, sia, in qualche misura, anche come furono prima, soprattutto quando si tratta di cose illustri.»
(Strabone. Geografia. VI, 1, 2)

La Geografia consta di 17 libri, databile tra il 14 e il 23 d.c.
- inizia con un'introduzione, nei libri I e II, in cui Strabone vuole dimostrare che Eratostene (276 - 194 a.c.) ha avuto torto a invalidare l'opera di Omero dal punto di vista geografico.
- I libri dal III al X descrivono l'Europa, e soprattutto la Grecia antica (libri VIII-X),
- i libri dall'XI al XVI descrivono l'Asia Minore
- il libro XVII si occupa dell'Africa (Egitto e Libia).

L'EUROPA SECONDO STRABO

I DESTINATARI DELL'OPERA 

« In breve, questo mio libro dovrebbe essere di utilità generale - a beneficio sia del politico che del comune cittadino - come il mio lavoro sulla Storia. In questo, come in quell'altro lavoro, non intendo per politico la persona completamente illetterata ma qualcuno che abbia seguito il corso regolare degli studi che compete a un uomo libero e a uno studente di filosofia. 
E così, dopo aver scritto le mie Descrizioni storiche, che ritengo siano state utili per la filosofia politica e morale, mi sono deciso a scrivere anche questo trattato; perché questo lavoro è basato sullo stesso disegno, essendo indirizzato alla stessa classe di lettori, e particolarmente a persone di elevato status sociale. Inoltre, come nelle mie descrizioni storiche... così in questo lavoro io non mi soffermo su ciò che è insignificante e indegno di nota, ma rivolgo la mia attenzione su ciò che è nobile e grande, e a ciò che contiene qualcosa di utile, memorabile o divertente... 
Si tratta infatti di un'opera enorme, che si occupa di fatti relativi alle cose grandi, e nel loro aspetto generale, eccetto per qualche dettaglio minore, laddove può stimolare l'interesse dello studioso o della persona comune. Ho detto tutto questo per mostrare che questo è un lavoro serio, e ben degno dell'interesse di un filosofo. »
(Strabone. Geografia. i, 22-23)

In età imperiale l'opera di Strabone resta abbastanza ignorata mentre a partire dal VI secolo Strabone diventa l'archetipo del geografo.

Oggi, per la vastità dei materiali offerti al lettore, per i frequenti excursus storici, per la precisione dei riferimenti toponomastici, il testo di Strabone è opera fondamentale della storiografia greca e romana, strumento imprescindibile per lo studio di molti aspetti della civiltà e della storia del mondo antico mediterraneo.

Editio princeps della Geografia: 1516, Tipografia Aldina. 



LA STORIA UNIVERSALE

Fu autore in gioventù dei: Commentari storici, ovvero l'elaborazione di una Storia universale. Dei 47 libri originari ci rimangono oggi solamente 19 frammenti, tra cui il frammento papiraceo tradotto dal grecista Achille Vogliano 46, conservato presso l'Università degli Studi di Milano, e per il resto conservati nelle Antichità Giudaiche di Flavio Giuseppe. Intento di Strabone era quello di proseguire la narrazione di Polibio (146 a.c.) almeno fino alla data epocale del 27 a.c., l'anno di inizio del Principato augusteo.



BIBLIO 

- Strabone - Geografia: L'Italia - a cura di Anna Maria Biraschi - Libri V, VI - BUR - 1988 -
- Strabone - Geografia: Il Peloponneso - a cura di Anna Maria Biraschi - Libro VIII - BUR - 1992 -
- Francesco Sbordone - L’impero di Tiberio e la redazione definitiva della «Geografia» di Strabone -  Nel CL annuale della fondazione (1807-08/1957-58) - Annuario celebrativo - Caserta - Tip. E. Farina - 1958 -
- Daniela Dueck - Strabo of Amasia: A Greek Man of Letters in Augustan Rome - London -Routledge - 2000 -
- Adalberto Magnelli, - Strabone di Amasea: dai "Commentarî storici" alla "Storia universale" - Lugano - Agorà e Co. - 2012 -
- Francesco Prontera e Gianfranco Maddoli (a cura di) - Strabone: contributi allo studio della personalità e dell'opera - 2 voll. - Perugia - Universita degli studi - 1984-86 -

VASO DA NOTTE ROMANO

$
0
0
FIG. 1 (by www.virtualrecostruction.com)

I vasi da notte sono stati utilizzati nell'antica Grecia a partire dal VI secolo a.c., non sappiamo se i romani ne importarono l'uso o se lo usarono in modo autoctono come in fondo tutti i paesi antichi. I Romani facevano ovviamente uso del vaso da notte e lo chiamavano "metella", "scaphium" e "lasanum".

Non tutte le case, infatti, erano fornite di servizi igienici, soprattutto quelle che si prendevano in affitto nei caseggiati. Nelle domus ovviamente c'era il bagno con l'acqua corrente ed era collegato con la fogna, nelle insule solo il primo piano godeva di questa prerogativa, negata in genere ai piani più alti dove la pressione bassa non permetteva all'acqua di salire più di tanto.
PITALE ROMANO

LE POSSIBILITA' E LE REGOLE

Le possibilità di svuotamento previste dalla legge contemplavano:

- Vuotare il contenuto dei vasi degli appartamenti in un contenitore urinatorio, di solito collocato nei sottoscala degli edifici. Qui veniva ogni giorno uno schiavo a prelevare sostituendo l'orinatoio con uno pulito, il servizio era gratuito, in quanto l'orina veniva filtrata e usata per la concia delle pelli.

- Orinare nei dolia posti in città in punti cruciali era ovviamente prerogativa maschile e anche qui uno schiavo provvedeva allo svuotamento, in seguito coi "vespasiani" l'orina veniva raccolta in grandi contenitori sotterranei e venduta alle fulloniche per la concia, tanto è vero che Vespasiano insieme ai bagni pubblici inventò la tassa sulla raccolta delle orine.
Rimase proverbiale la sua risposta al figlio Tito che sembrava scandalizzato dal porre una tassa su un prodotto tanto infimo e puzzolente. "Pecunia non olet" cioè l'orina puzza ma il denaro no.
E' Columella a ricordarci che le urine erano inoltre preziose per alcune terapie veterinarie, per migliorare la coltivazione del melograno, e per sbiancare le toghe nei cicli di lavaggio.

BOCCA DELLA VERITA' (FIG. 2)
- I vespasiani erano cessi pubblici per soli uomini, con parecchi posti a sedere dove i contenuti cadevano in una fossa che declinava verso uno scolo anch'esso inclinato dove fluiva acqua corrente continua che da un lato portava via gli escrementi e dall'altro serviva per detergersi bagnando e ribagnando una spugna (portata da casa), infilata  su un bastone; i romani vi sostavano volentieri e ne facevano dei salotti di incontro.

- C’era anche la possibilità vuotare il vaso da notte in una fossa, o in una latrina, ma soprattutto nei tombini, come mostra l'immagine su in alto (fig 1). Roma era ricca di fogne e di tombini, famosissimo quello della Bocca della verità che in realtà è un grosso tombino.  

Inutile dire che in una città così bella i tombini erano in travertino, scavati a mano o a disegno geometrico o a bassorilievo, creando dei veri e propri capolavori, talvolta dedicati anche a divinità fluviali o sotterranee.

IL METELLA

Fortemente proibito invece era gettare dalla finestra l’urina del vaso da notte. Se la ronda notturna scopriva in reato il suo autore pagava una multa molto salata. Ma i contravventori non mancavano. 

Roma era troppo grande per poterla controllare e Giovenale ironizza: 
"Non si può uscire di casa senza aver fatto testamento, perché ti minacciano tutte le finestre che si aprono. Prega e nutri nel tuo cuore il modesto desiderio che si accontentino del loro vaso da notte". 

Fortemente proibito anche urinare addosso ai muri delle case e delle botteghe. Ma non sempre ci si atteneva alle regole. A dimostrarlo è un graffito pompeiano: "Sporcaccione non pisciare sul muro! Spero ti acchiappino e ti facciano la multa!"

BAGNO PUBBLICO DI OSTIA

LO SGOMBERO DEI RIFIUTI

La pulizia delle città fu invece un problema che fu affrontato prima di tutti dai greci, che per primi sentirono il bisogno di un servizio pubblico di pulizia urbana. Nella “Costituzione degli ateniesi” Aristotele fissa i doveri di dieci sorveglianti della città incaricati di verificare il lavoro degli spazzini, per impedire loro di gettare le immondizie vicino alla città.

Questi netturbini erano sicuramente schiavi e si incaricavano di tutte le opere di manutenzione di una città, che al suo apice contava ben 250.000 abitanti. Ma Roma arrivò a contarne circa un milione e mezzo.

PITALE ROMANO
A Roma il problema dei rifiuti esisteva: il Mons Testaceus (Monte Testaccio), un monte artificiale, alto circa trenta metri, con una circonferenza di un chilometro e una superficie di circa 20.000 metri quadrati, formatosi con l'accumularsi dei cocci delle anfore sbarcate nel porto fluviale dell'Emporium e immagazzinate nei vicini horrea. Le anfore scaricate e vuotate del contenuto venivano poi quasi totalmente eliminate e ciò che restava veniva riusato nelle attività commerciali o nell'edilizia.

A Roma quindi mancava un'organizzazione per la raccolta pubblica dei rifiuti la cui pulizia era affidata ai privati che, per non essere multati dagli edili, dovevano provvedere a che le case fossero servite dagli aquarii (portatori d'acqua), come prescritto dai pompieri, e dai zetarii (spazzini), schiavi che costituivano una proprietà indivisa con lo stesso edificio.

A Roma, e nell'Impero Romano, si sviluppò pertanto un sistema particolare di sgombero dei rifiuti. I cosiddetti «addetti al letame», schiavi di stato preposti a tale lavoro, portavano fuori dalla città escrementi e rifiuti che venivano poi trattati dai contadini e trasformati in concime. Inoltre la lex Iulia Municipalis del 45 a.c. fa riferimento all’utilizzo di "carri per l’immondizia".

Si allestirono numerosi bagni pubblici, con sedili prima in legno poi in marmo; attorno al 300 d.c. se ne contavano 144, le cosiddette latrinae publicae. Anche il principale collettore fognario, la cloaca maxima, continuò a venire potenziato nel tempo.

LA PULIZIA DELLA LATRINA DOMESTICA

IN ALBERGO

Nelle camere d’albergo c’era lo "scaphium", cioè il pitale come quello che noi ricordiamo, ce ne informa anche un graffito rinvenuto a Pompei: "lo ammetto oste abbiamo pisciato nel letto, non è cosa elegante. Vuoi sapere perché? Non c’era il vaso da notte". Si trattò evidentemente di un'azione rivendicativa fatta al momento di alzarsi.

A differenza del "metella" un vaso un po' largo dotato di coperchio, e del lasanum, un vaso più stretto, a volte senza base come un'anfora da trasporto, che in realtà di infilava su un supporto che faceva da sedia nel bagno privato dei padroni, lo "scaphium" era un vero e proprio pitale che era senza coperchio e si riponeva in un mobiletto che impediva il diffondersi dei cattivi odori. Insomma un comodino dell'epoca.

Il vaso da notte era in genere d’argilla, ma pure di bronzo o in ferro. Dato il Luxum di certi romani arricchiti c’era anche chi possedeva in pitale in argento o addirittura in oro. Trimalcione, il celeberrimo protagonista del "Satyricon" di Petronio, lo pretendeva anche mentre giocava a palla. Del resto gli schiavi facevano "di tutto" ai loro padroni.



LA DECADENZA

Caduto l’Impero Romano le latrine, private del rifornimento idrico degli acquedotti, caddero in abbandono, si tornò a gettare l’urinale nei pozzi neri, o dalla finestra.

Per avere nuovamente il gabinetto in casa bisognerà attendere il ritorno dell’acqua nelle abitazioni, perchè bagni pubblici e latrine pubbliche erano inverecondi, col cristianesimo bisognava ignorare il corpo o meglio mortificarlo, i piaceri andavano evitati e il Dio del sacrificio supplicato e pregato per evitare il peggio.

Nel Medioevo le condizioni igieniche crollarono miseramente portando alla diffusione di molte malattie, tra cui alcune gravi come il tifo e l’epidemia di peste del 14° secolo. L’uso del "vaso" (di rame o terracotta) prese il sopravvento, mentre le latrine pubbliche scomparvero.



BIBLIO

- Rodolfo Lanciani - I Commentarii di Frontino intorno le acque e gli acquedotti, silloge epigrafica aquaria - Roma - Salviucci - 1880 -
- Sesto Giulio Frontino - R. H. Rodgers (translator) - De Aquaeductu Urbis Romae [On the water management of the city of Rome] - University of Vermont - 2003 -
- P. Fedeli - La natura violata. Ecologia e mondo romano - Palermo - 1990 -
- Jérôme Carcopino - La vita quotidiana a Roma - Editori Laterza -1971 -

I GUERRA MACEDONICA ( 214-205 A.C.)

$
0
0

Nel 215 a.c. Filippo V, re di Macedonia e padre di Alessandro Magno, grande condottiero e stratega, aveva attuato una profonda riorganizzazione dell'esercito e dello stato macedone, istituendo inoltre la famosa falange macedone, punta di diamante delle sue armate. Ora però il suo regno aveva bisogno di uno sbocco sul mar Adriatico per i commerci del suo paese e, incoraggiato dalla disfatta subita da Roma a Canne, stipulò un'alleanza con il generale cartaginese Annibale.

Si era nella II guerra punica, quando Roma era in grave difficoltà, visto che Annibale aveva operato molte conquiste sul territorio romano giungendo a minacciare la stessa Urbe. Il patto stretto tra Filippo ed Annibale si proponeva l'espulsione dei romani dal loro protettorato sulle coste orientali dell'Adriatico, onde consentire a Filippo di estendere i suoi possedimenti verso occidente; i romani tremarono, temendo che il re macedone potesse portare il suo esercito in Italia in aiuto di Annibale. 

Roma era stremata, per la scarsità di combattenti morti in gran numero  e per le poche risorse avendo affrontato per le guerre Puniche spese ingentissime, se Filippo fosse giunto fino a Roma insieme ad Annibale,  sarebbe stata la fine.

Secondo Polibio, la decisione di Filippo fu influenzata da Demetrio di Faro, pretendente al trono di Faro (isola di Lesina), che nel 229 a.c., al termine della I guerra illirica, con la disfatta degli Illiri guidati dalla regina Teuta che egli aveva tradito a favore dei romani, era stato posto dagli stessi a governatore del territorio costiero dell'Illiria. Alla conclusione del conflitto i Romani lo nominarono re di quello che rimaneva del regno illirico, ma con la presenza di numerose guarnigione romane, dato che non ne avevano piena fiducia.

Successivamente, Demetrio si alleò con il re macedone e lo aiutò nella guerra contro il re di Sparta, per  iniziando atti di pirateria nel mare Adriatico sulle città illiriche soggette ai Romani che gli inviarono il console Lucio Emilio Paolo con le sue truppe. Questi in brevissimo tempo occupò le principali roccaforti nemiche, costringendo Demetrio a rifugiarsi presso Filippo V nel 219 a.c., alla cui corte trascorse il resto della propria vita, diventandone uno dei consiglieri preferiti. 

Quando Filippo seppe la notizia della vittoria di Annibale sui Romani nella battaglia del Lago Trasimeno nel 217 a.c.. mostrò il messaggio a Demetrio, che vedendo la possibilità di riconquistare il regno perduto, gli consigliò di far pace con gli Etoli, e di rivolgere la sua attenzione verso l'Italia e l'Illiria. Secondo Polibio, Demetrio avrebbe detto:
«Dal momento che la Grecia è già completamente a te obbediente, e lo rimarrà in futuro: gli achei per affetto genuino e vero; gli Etoli per il terrore che i disastri nella presente guerra hanno instillato in loro. L'Italia, e la tua traversata verso di essa, è il primo passo verso l'acquisizione di un impero universale, al quale nessun altro ha un diritto maggiore del tuo. E adesso è il momento di agire, quando i Romani soffrono per un rovescio di fortuna

Filippo di Macedonia si convinse e firmò un accordo di pace con gli Etoli. Polibio riporta il discorso di Agelaus in favore del trattato di pace:

(INGRANDIBILE)
« La cosa migliore sarebbe che i greci non andassero in guerra l'uno contro l'altro, ma ringraziassero calorosamente gli Dei di parlare con una sola voce, e unendo le mani come persone che attraversano un corso d'acqua, potrebbero essere in grado di respingere gli attacchi dei barbari, e così salvare se stessi e le loro città. 
Ma se anche questo fosse del tutto impossibile, almeno nella attuale congiuntura, dovremmo essere unanimi e stare in guardia, quando vediamo gli imponenti armamenti e le vaste proporzioni assunte dalla guerra in occidente. 
Perché anche ora è evidente a chiunque segua con appena moderata attenzione agli affari pubblici, che se i Cartaginesi sconfiggessero i Romani, o Romani i Cartaginesi, sarà molto improbabile che i vincitori rimarranno soddisfatti di aver ottenuto l'imperio in Sicilia e in Italia. 
Essi andranno oltre: ed estenderanno le loro forze e i loro progetti più lontano di quanto noi si possa desiderare. Perciò, vi prego tutti di stare in guardia contro il pericolo della crisi, e soprattutto te, o re. E lo fari, se abbandonerai la politica di indebolimento dei Greci, per questo facile preda per l'invasore; e al contrario terrai conto del loro bene come si farebbe per la propria persona, e avrai cura di tutte le parti della Grecia allo stesso modo, come parte integrante dei tuoi domini. 
Se agirai con questo spirito, i greci saranno tuoi ferventi amici e fedeli alleati in tutte le tue imprese, mentre gli stranieri saranno meno pronti a fare progetti ai tuoi danni, vedendo con sgomento la ferma lealtà dei Greci. Se sei desideroso di azione, gira lo sguardo ad occidente, e lascia che i tuoi pensieri siano abitati dalla guerra in Italia. 
Aspetta con freddezza la piega degli eventi lì, e cogli l'opportunità di colpire per un dominio universale. Né la crisi attuale è sfavorevole per una tale speranza. Ma io ti chiedo con forza di rinviare le controversie e le guerre con i Greci ad un momento di maggiore tranquillità, e fare il tuo obiettivo la possibilità di trattare la pace o la guerra secondo la tua volontà. 
Perché una volta che si consentisse alle nuvole ora raccolta in Occidente di stabilirsi in Grecia, temo assai che il potere di fare la pace o di guerra, e in una parola, tutti questi giochi che stiamo giocando l'uno contro l'altro, saranno completamente fuori dalla portata dalle mani di noi tutti, e che potremmo pregare il cielo che ci conceda almeno il potere di fare la guerra o la pace l'un con l'altro secondo nostra volontà e piacere, e di risolvere le nostre dispute»

Filippo temeva l'espansione di Roma lungo le coste illiriche, cominciata con l'attacco alla regina Teuta e proseguita con la parziale conquista dell'Illiria, dove era dislocata una flotta romana, comandata prima da Marco Valerio Levino e poi da Publio Sulpicio Galba Massimo, anche per controllare proprio i movimenti del re macedone.

Così Filippo intervenne contro queste forze e scoppiò la I Guerra Macedonica: da una parte Filippo V con l'alleata lega achea, dall'altra la lega etolica con il supporto romano. Vennero coinvolte anche le diplomazie di Atene da una parte e di Rodi dall'altra.



LA LEGA ETOLICA

Nel 214 a.c. il console Marco Valerio Levino guidò un piccolo contingente militare romano sulla costa illirica e poi strinse un'alleanza con la lega etolica, una confederazione delle città della regione greca dell'Etolia, nata nel IV secolo a.c. per opporsi alla Macedonia e comandata da uno stratego, eletto annualmente dall'assemblea federale (composta da tutti i cittadini liberi sopra i 30 anni), che si riuniva in primavera e in autunno, e che era appunto ostile a Filippo di Macedonia.

ATTALO I

ATTALO I

Successivamente Marco Valerio strinse alleanza con Attalo I, chiamato poi Attalo Sotere (il Salvatore - 269 – 197 a.c.), chiamato poi Attalo I, re di Pergamo (una polis greca dell'Asia Minore, moderna Turchia) dal 241 a.c. alla morte, prima come signore della città e poi come re di Pergamo.
Attalo, generale coraggioso e capace, ottenne un'importante vittoria sui Galati, una popolazione celtica appena giunta in Asia Minore che aveva saccheggiato e imposto tributi nella regione senza trovare opposizione. Questa vittoria, che venne celebrata con un monumento trionfale eretto a Pergamo, decorato tra le altre con la famosa statua del Galata morente, si tradusse nella liberazione dal terrore gallico e guadagnò ad Attalo il nome di Soter ("Salvatore") e pure il titolo di re.
Fu un alleato leale della Repubblica romana, con cui combatté nella I e II Guerra Macedonica contro Filippo V che voleva espandere il proprio regno nel mar Egeo. Condusse numerose operazioni navali, ostacolando gli interessi macedoni in tutto il mar Egeo, ottenendo onori, accumulando spoglie e guadagnando al Regno di Pergamo l'isola greca di Egina, durante la I guerra, e Andros, durante la II; sfuggì per poco alla cattura da parte di Filippo per ben due volte.



ALLEANZA DI FILIPPO CON ANNIBALE 

Nel 215 a.c., come narra Polibio. Annibale e Filippo si promisero mutuo aiuto e difesa, e d'essere nemici dei nemici dell'altro, esclusi gli attuali alleati. Filippo garantiva il proprio sostegno contro Roma però se Annibale firmava la pace con Roma, avrebbe riguardato anche Filippo. Il trattato prevedeva infine che Roma fosse costretta a rinunciare alle città di Corcyra, Apollonia, Epidamnus (Durazzo), Pharos, Dimale, Parthini, e Atintania, e di restaurare il potere e le alleanze di Demetrio di Faro.

Ma sulla via del ritorno in Macedonia, sia gli inviati di Filippo che quelli di Annibale furono catturati da Publio Valerio Flacco, comandante della flotta romana lungo la costa pugliese e venne pure scoperta una lettera di Annibale a Filippo con i termini del loro accordo.

Roma temette che, posta sotto attacco da Annibale, cadesse il sistema di alleanze e di potere nel sud della penisola, per cui preparò con grande fatica (dovettero contribuire i privati perchè l'erario era agli sgoccioli) altre due dozzine di navi da guerra da raggiungere la flotta di Flacco, di stanza a Taranto, con l'ordine di tenere sotto controllo la costa italiana dell'Adriatico.

Filippo, nell'inverno 217 - 216 a.c., fece costruire una flotta di 100 navi da guerra, ma secondo Polibio, non aveva alcuna speranza di battere i Romani in mare, per mancanza di esperienza. I romani in effetti in pochi anni avevano studiato un addestramento minuzioso e una estrema capacità di costruire ottime navi.

Vennero pertanto scelte piccole e veloci navi da guerra, capaci di trasportare cinquanta soldati oltre agli uomini ai remi, con le quali potevano evitare la flotta romana, intenta a combattere le truppe di Annibale, e comunque lontana, nel porto di Marsala in Sicilia.

All'inizio dell'estate, la flotta e il sovrano lasciarono la Macedonia e saputo che la flotta romana era ancora alla base di Lilybaeum ( Marsala), in Sicilia, partirono per Apollonia. Ma a Filippo giunse voce che alcune galere romane avevano la loro stessa destinazione per cui effettuò una ritirata precipitosa, facendo una pessima figura, visto che i romani avevano in effetti solo 10 navi.

FALANGE MACEDONE

FILIPPO INVADE L'ILLIRIA

Nel 214 a.c., Filippo tentò una nuova invasione dell'Illiria via mare, con una flotta di 125 biremi. Egli assediò Apollonia e occupò Oricum, Allora il propretore Marco Valerio Levino partì con la flotta e l'esercito alla volta di Oricum, riconquistando la città.

Tito Livio racconta che Levino, alla notizia dell'assedio di Apollonia inviò 2.000 uomini, comandati da Quinto Nevio Crista che riuscì straordinariamente ad entrare in città di notte, inosservato; la notte successiva, prendendo l'armata macedone di sorpresa, fece strage del campo nemico. 

Lo stesso Filippo riuscì a sfuggire alla cattura, seminudo; quindi raggiunse i monti nell'entroterra e rientrò in Macedonia, dopo aver fatto bruciare la sua flotta e lasciando poco meno di 3.000 dei suoi uomini, tra catturati e uccisi, con tutti gli averi e le armi dell'esercito. Levino passò l'inverno con le truppe ad Oricum.

Allora Filippo nei due anni successivi (213 - 212 a.c.) cercò di avanzare in Illiria via terra, tenendosi lontano dalla costa e così prese le città di Atintania e Dimale, sottomettendo le tribù illiriche dei Dassareti, dei Parthini e degli Ardiei. Inoltre riuscì a conquistare un accesso all'Adriatico catturando la città di Lissus e la sua cittadella, ritenuta inespugnabile, al che i territori confinanti si arresero senza riserve. 

Per impedire ai macedoni di aiutare Cartagine, Roma si alleò con la Lega etolica fin dal 212 a.c.. Gli Etoli, stanchi della guerra, avevano firmato la pace di Naupatto con Filippo nel 217 a.c., ma dopo cinque anni la popolazione era di nuovo pronta ad armarsi contro di lui.

Nel 211 a.c., Marco Valerio Levino per partecipare all'assemblea etolica giunse con una intera flotta in assetto da guerra, colpendo notevolmente i partecipanti per far capire che Roma era ancora possente, anzi  fece notare le recenti occupazioni delle città di Siracusa e Capua come prova della crescente fortuna di Roma nella guerra contro Cartagine e concluse:
« ...fin dai tempi antichi, era stato tramandato ai Romani il costume di trattare con onore gli alleati; alcuni tra questi erano stati in seguito accolti nella cittadinanza con pari diritti ai Romani; altri, invece, avevano ricevuto condizioni talmente vantaggiose da preferire essere alleati che cittadini. »
(Livio, XXVI, 24.3)

Levino promise agli Etoli che avrebbe ricondotto in loro potere l'Acarnania ad essi sottratte e questi sottoscrissero le clausole del trattato, per cui gli Etoli divenivano "amici e alleati del popolo romano";  oltre a loro si univano, nello stesso trattato d'alleanza, Elei, Spartani, la Messenia, nonché Attalo re d'Asia, Pleurato di Tracia e Scerdiledo d'Illiria.

Affinché gli Etoli potessero iniziare immediatamente la guerra contro Filippo, i Romani gli inviarono non meno di 25 quinqueremi. Delle città conquistate, a partire dall'Etolia fino a Corcira, venne stabilito che:

« il suolo, le case e le mura, unitamente alle campagne, sarebbero andate in possesso agli Etoli; il restante bottino di guerra sarebbe toccato ai Romani, i quali avrebbero aiutato gli Etoli nella conquista dell'Acarnania. Nel caso poi gli Etoli avessero concluso una pace con Filippo, si impegnavano ad aggiungere come clausola del trattato di pace, che Filippo si astenesse da ogni ostilità contro i Romani e contro i loro alleati e sudditi; allo stesso modo, nel caso in cui il popolo romano avesse concluso un trattato di pace con il re [macedone], avrebbe posto come condizione di non dichiarare guerra né agli Etoli né ai loro alleati. Queste clausole del patto vennero scolpite su tavole due anni dopo ad Olimpia dagli Etoli e depositate dai Romani sul Campidoglio, affinché fossero riconosciute come documenti consacrati.»
(Livio, XXVI, 24.11-14.)

Il trattato siglato con gli Etoli nel 211 a.c., venne ratificato dal Senato romano solo nel 209 a.c..

FILIPPO V DI MACEDONIA

LA CAMPAGNA IN GRECIA

Gli Etoli mossero guerra a Filippo, e Levino si impadronì di Zacinto e di tre città dell'Acarania: Eniade, Nasos e Acarnano restituendole agli Etoli. Il re macedone, saputo dell'alleanza tra Etoli e Romani, dopo aver saccheggiato le zone più vicine dell'Illirico, si impadronì di Sintia e si mosse per raggiungere Tempe in Tessaglia, dove sperava di trovare alleati contro gli Etoli. 

Lasciati 4.000 armati alle gole della Tessaglia, mosse verso la Tracia e poi nel territorio dei Maedi, devastandone il territorio e assediando la capitale, Iamphorynna, prima di far ritorno in Macedonia.
Frattanto Scopa, stratego etolico, si preparò ad assediare l'Acarnania, dopo aver arruolato tutti i giovani etoli. 

Gli Acarnani, disperati ed inferiori numericamente, ma decisi a resistere, preferirono mandare al sicuro nel vicino Epiro le loro donne, gli anziani di oltre sessan'anni e i bambini. Gli uomini, dai quindici ai sessant'anni, giurarono tutti insieme che non sarebbero tornati se non vincitori. Chi fosse uscito vinto dalla battaglia:

« non doveva essere accolto da nessuno, né in città, né in casa, alla mensa, al focolare. Lanciarono pertanto una tremenda maledizione contro coloro che avessero ospitato eventuali superstiti vinti e pregarono i loro ospiti di non farlo, pregarono contemporaneamente gli Epiroti affinché seppellissero tutti insieme sotto uno stesso tumulo, quelli che fossero morti in battaglia, ponendo sulla tomba la scritta:
"Qui sono sepolti gli Acarnani che affrontarono la morte per la patria, con le armi in pugno contro la violenza e l'offesa degli Etoli"
»
(Livio, XXVI, 25.12-14.)


Quindi posero il campo ai confini dei loro territori, di fronte al nemico, avvertirono Filippo dell'avanzata etolica costringendolo a sospendere la guerra appena iniziata, sebbene avesse da poco ottenuto la resa di Lamforinna.

Intanto gli Etoli esitarono contro gli Arcanani e, alla notizia dell'avvicinamento di Filippo con le sue truppe, preferirono ritirarsi nella parte più interna del territorio. Filippo, giunto in prossimità di Dion a marce forzate, per impedire che gli Arcanani fossero sopraffatti, alla notizia che gli Etoli si erano ritirati, tornò a Pella per svernarvi.

Nel 210 a.c., Levino lasciò nuovamente Corcira con la sua flotta e giunse a Naupatto (Lepanto) all'imboccatura del golfo e annunciò a Scopa e agli Etoli che avrebbe mosso contro Anticira in Locride. Tre giorni dopo cominciò l'assalto alla città per mare e per terra e la città si arrese agli Etoli. Secondo i patti il bottino di guerra andò ai Romani. Fu proprio durante questo assedio che a Levino venne consegnata una lettera in cui gli si annunciava di essere stato fatto console e che stava per arrivare il suo successore Publio Sulpicio. 

Intanto alla coalizione romana si aggiunsero Pergamo, Elis, Messenia, e Sparta. La strategia romana di tenere impegnato Filippo in Grecia con una guerra tra greci ebbe successo, ed infatti, quando Levino tornò alla capitale per venire eletto console, dichiarò che la legione dispiegata contro il re macedone poteva essere ritirata senza problemi.

Filippo prese Echinus e Phalara, la città-porto di Lamia. Nel frattempo Egina, un'isola nel golfo Saronico, fu venduta dagli Etoli al re di Pergamo Attalo, per 30 talenti, in modo che lui la potesse usare come base per le sue operazioni contro la Macedonia nel mare Egeo.

Nel 209, Filippo ricevette una richiesta d'aiuto dai suoi alleati della lega achea nel Peloponneso, sottoposti all'attacco di Sparta e degli Etoli. Filippo quindi partì verso il sud della Grecia. Filippo riuscì a vincere due battaglie a Lamia, e gli Etoli e i loro alleati furono costretti a ritirarsi all'interno della città, dove rimasero, evitando di dare battaglia in campo aperto.

MARCO VALERIO LEVINO

TENTATIVI DI PACE

Filippo incontrò i rappresentanti degli stati neutrali di Rodi, Egitto, Atene e Chio che cercavano di far finire la guerra, che li danneggiava nei commerci. Livio narra fossero preoccupati "non tanto per gli Etoli, più amanti dei combattimenti di quanto non fossero gli altri greci, quanto per la libertà della Grecia, che sarebbe stata seriamente in pericolo se Filippo e il suo regno avessero preso una parte attiva nella politica della stessa Grecia".
Venne firmata una tregua di 30 giorni e organizzata una conferenza di pace.

I rappresentanti etoli chiesero come che Filippo restituisse Pylos ai messeni, Atintania a Roma, e le popolazioni Ardiaei ai rispettivi sovrani. Filippo abbandonò i negoziati dicendo che "potevano essergli testimoni di quanto lui stesse cercando una base per la pace, mentre gli altri stavano solo cercando un pretesto per fare la guerra".

Dopo diverse battaglie inconcludenti Attalo e Sulpicio presero parte ad un incontro ad Heraclea Trachinia con gli Etoli, nuovamente in presenza di rappresentanti egiziani e di Rodi, che ancora perseguivano il raggiungimento della pace tra i contendenti. 

Filippo, venuto a conoscenza dell'incontro e della presenza di Attalo, si mosse per catturare i capi della coalizione nemica, arrivando troppo tardi. Ormai circondato da nemici, Filippo distribuì i suoi comandanti e le sue forze sul territorio, adottando un sistema di falò per segnalazione posti sulle alture, onde comunicare i movimenti del nemico.

Sulpicio e Attalo, attaccarono Oreus e Opus; mentre Attalo saccheggiava Opus, Sulpicio tornò ad Oreus, per raccogliervi la sua parte di bottino. A questo punto, Filippo, allertato dai segnali di fuoco, attaccò con successo Opus, lasciando ad Attalo appena il tempo di rifugiarsi su una delle sue navi.

Attalo fu obbligato a fare ritorno a Pergamo, sapendo che il re di Bitinia Prusia I, imparentato per matrimonio con il re macedone, si stava muovendo verso la sua città. Sulpicio tornò ad Egina, lasciando Filippo libero dalla flotta romana e di Pergamo, in grado di ricominciare le azioni offensive contro gli Etoli. 

Egli infatti riuscì a sorprendere le Termopili (208 a.c.), a distruggere Thermos, a catturare Thronium,  Tithronium e Drymaea a nord del fiume Cephissus, riprendendo il controllo di Oreus. Frattanto i suoi alleati Achei, posti sotto il comando di Filopemene, sconfissero e uccisero Macanida di Sparta (207 a.c.).



LA PACE SEPARATA

Dopo altri incontri, la guerra proseguiva comunque a favore di Filippo, ma gli Etoli, seppur abbandonati sia da Pergamo che da Roma, non erano disponibili ad accettare le condizioni di pace richieste da Filippo. Infine, dopo un'altra stagione di combattimenti, nel 206 a.c., gli appartenenti alla Lega etolica si arresero e, senza il consenso di Roma, firmarono una pace separata alle condizioni imposte loro da Filippo.

Nella successiva primavera, i Romani inviarono il censore e console Publio Sempronio Tuditano con un seguito di 35 navi e circa 11 000 uomini a Dyrrachium in Illiria, per incitare i Parthini alla rivolta e gli Etoli alla rottura del trattato firmato con il macedone, ma non ebbe successo.



ASDRUBALE

Asdrubale Barca ( 245 – 207 a.c.) era figlio di Amilcare Barca e fratello minore di Annibale. Quando il fratello Annibale partì per la guerra in Italia, gli lasciò il comando della provincia e il comando dell'armata spagnola con reparti africani costituiti da:

ASDRUBALE
- 11.850 fanti,
- 300 Liguri,
- 500 soldati delle Baleari,
- cavalieri libifenici (stirpe mista di Cartaginesi e Africani),
- 450 Numidi,
- 800 Mauri,
- una piccola schiera di Ilergeti,
- 300 cavalieri spagnoli,
- 21 elefanti.

Inoltre gli diede anche una flotta composta da:
- 50 quinqueremi,
- 5 triremi
- 2 quadriremi,
anche se quelle in pieno assetto da guerra, complete quindi di rematori, erano solo 32 quinqueremi e le 5 triremi.

Senza più alleati in tutta la Grecia, e con tale presenza in Spagna, ma avendo sventato il possibile aiuto di Filippo ad Annibale, i Romani firmarono la pace a Fenice, nel 205 a.c., ponendo in questo modo fine alla I Guerra Macedonica.

Questo trattato menzionava tra gli alleati di Roma: Pergamo, Pleurato di Tracia, gli Elei e i Messeni, a cui vanno aggiunte secondo gli annalisti romani anche Sparta, Atene e Ilio. Filippo conservava in Illiria solo l'Atintania. Alla fine del 205, un'ambasceria romana giunta a Pergamo, ottenne in dono un idolo, simbolo della Grande Madre, che legava così Roma a Pergamo attraverso la leggenda delle origini troiane.


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - XXI-XXX -
- Appiano di Alessandria - Historia Romana - VII e VIII -
- Cornelio Nepote - De viris illustribus -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita - III -
- Polibio - Storie - VII -
- Strabone, Geografia, V.
- Howard H.Scullard, - Storia del mondo romano. Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine - vol.I - Milano - BUR - 1992 -
- F. W. Walbank - Philip V of Macedon - 1940 -

PONTE ROMANO DI CAPUA

$
0
0
IL PONTE ROMANO

Si tratta di un ponte romano di età imperiale, dell'epoca di Adriano (76 - 138) che immetteva l'ingresso nella città di Casilinum per chi veniva da nord, superando il fiume Volturno con 5 arcate, ponte che purtroppo è andato distrutto con i bombardamenti del 1943, durante la II Guerra Mondiale.

RESTI  ROMANI
Quello che si vede oggi è una fedelissima ricostruzione effettuata da parte degli americani cui bisogna almeno dare il merito che, resisi conto di aver abbattuto un'opera d'arte, non solo l'hanno ricostruito ma hanno rifatto l'originale, o almeno l'hanno rifatto identico nel progetto e nelle forme.

Infatti il ponte è stato realizzato con struttura in cemento armato a cui è stato applicato un rivestimento in travertino che però mantiene le forme originali. 

Inoltre l'accesso dalla via Appia è preceduto dai maestosi basamenti ottagonali di quella che una volta era la porta trionfale di accesso voluta da Federico II. 

Il ponte, per quanto non abbia una grande manutenzione, come si vede dalle erbacce e i cespugli che lo pervadono, si mantiene piuttosto integro, in ogni caso molto più resistente di quello nuovo adiacente.

Il nuovo non durerà ancora molto, infatti presenta molte crepe e lesioni, se non ci faranno urgenti lavori di restauro e manutenzione cadrà a pezzi.


Il vecchio ponte Romano, seppur rifatto, che conserva comunque alcune pietre originali, ma soprattutto con una struttura di modello romano, invece è ancora integro nonostante il continuo passaggio di auto autobus e autocarri. Per una visione d'insieme della struttura del ponte, un buon punto di osservazione è via Conte Landone, dopo attraversato il ponte a sinistra.

NANIGLIO DI GIOIOSA IONICA (Reggio Calabria)

$
0
0
LA CISTERNA

La Villa romana del Naniglio è locata  in contrada Annunziata, dell’ex feudo di Santa Maria delle Grazie, aldifuori della cittadina di Gioiosa Jonica, in provincia di Reggio Calabria, ed è stata edificata verso la fine del I sec. a.c. Probabilmente si trattava di un podere di grandi dimensioni come ne esistevano nel resto del Bruzio legati alla proprietà terriera.

PLANIMETRIA DELLA VILLA ROMANA
(INGRANDIBILE)
Nel territorio di Gioiosa è nota la presenza di insediamenti di diverse età incluso il periodo romano che conferma la frequentazione della Vallata del torrente, essenziale snodo per il traffico dallo Jonio al Tirreno.

Ma nel podere si elevava una villa imponente e di grande prestigio, ubicata sul declivio nord orientale della valle del fiume Torbido, a breve distanza dal mare ed in una parte del costone al riparo da eventuali esondazioni del fiume.

Sembra che la villa raggiunse il massimo splendore intorno al III sec. d.c., per poi subire un lento e progressivo abbandono nei secoli successivi. Essa sta sotto la strada 281 che collega Gioiosa con il paese di Mammola.

La pianta presenta un corpo principale di forma allungata, con annessi alle estremità due corpi più piccoli. Gli scavi archeologici, condotti tra il 1981 e il 1986 da Alfonso de Franciscis, hanno messo in luce solo il settore inferiore della villa a cui si accede  mediante una scaletta elicoidale a spirale.


Tuttavia alle due estremità di questo settore residenziale si trovano alcuni ambienti, con pavimenti a mosaico policromo a motivi geometrici e intonaco dipinto sulle pareti e nel 2010 sono stati condotti degli scavi, ancora inediti, che hanno messo in luce un’ampia sala ottagona e diverse canalizzazioni, una delle quali si collegava probabilmente alla cisterna sottostante.

Nella zona a Sud della villa si trova inoltre un complesso di ruderi non ancora scavato, che corrisponde al quartiere termale e che comprende una monumentale cisterna di età Romana (I-V sec. d. c.), a tre navate scandite.

La cisterna ipogea è un capolavoro di ingegneria, alla quale si accedeva in antico dal livello superiore per mezzo di una scala a chiocciola.

Questa giace sotto il manto stradale della SS. 281, è coperta da una serie di volte a crociera, e presenta un lucernario centrale.

ESTERNO DELLA CISTERNA
Le volte sono sorrette da otto poderosi pilastri quadrangolari, disposti su doppia fila e su di esse, era impostato il pavimento su cui erano impostati i vani vani della villa.

L'interno la cisterna misura una lunghezza di m. 17,47 ed una larghezza di 10,27. Nella parte centrale del grande ambiente è collocato un pozzo per la decantazione delle acque. La scala di accesso ai locali interrati è visibile all'esterno ed è coperta da una specie di cappelletto in muratura ordinaria.

Degli altri due vani minori, il primo è sormontato da una volta a botte, munita di lucernario circolare centrale; il secondo con due lucernari circolari di grandezza diversa. In questa stanza è situata un’edicola in cotto che presenta i residui di un elegante frontone, si trattava di un Ninfeo, cioè di un luogo dove si andava a godere del fresco e della penombra, e dove scorreva naturalmente dell’acqua.

L'ambiente maggiore, cioè la sala principale, è stato costruito con materiale prevalentemente laterizio, rivestito da intonaco e tre delle pareti presentano alla sommità tre orifizi tubolari, con abbondanti incrostazioni calcaree.


Spettacolare la scala costruita in laterizi, formata da 24 gradini, dalla forma elicoidale che si sviluppa intorno ad un pilastro circolare in una torre cilindrica che doveva condurre ad un terrazzo posto in alto. Presumibilmente la torre dove si sviluppava la scala era sormontata da una cupola.

La costruzione è spettacolare e risulta interessante notare come nel corso dei secoli, nonostante le manomissioni, le strutture si siano mantenute integre, mostrando l'ingegno dei progettisti e la perizia dei costruttori.

L'edificio viene datato dagli studiosi tra il II ed il III sec. d.c. ed è stato interpretato come una grande cisterna per l'approvvigionamento idrico all'epoca di costruzione, per essere utilizzata poi come ninfeo in un secondo tempo.

I MOSAICI

IL TEMPIO DEL SOLE

Altri studiosi sostengono però che il Naniglio fosse un tempio del sole poichè:
- la voce toponomastica “Naniglio”, viene fatta derivare da un etimo Naòn-Helìon, tempio del sole.
- il ritrovamento nel Castello dei Pellicano a Gioiosa Jonica di un busto marmoreo, raffigurante un Genio Mitriaco, e presumibilmente proveniente dal Naniglio sito anch’esso nella tenuta agrario dei Pellicano.
- il ritrovamento nelle vicinanze del Naniglio di una moneta bronzea dell’imperatore Giuliano l’Apostata strenuo propugnatore del culto solare. La notevole diffusione nel Bruzio, del culto Mitriaco.
- una certa rispondenza di particolari con il Mitreo delle terme di Caracalla a Roma, ipogeo anch’esso e associato all’edificio termale, nonché dotato anch’esso di ara, di lucernari alle volte, e di scaletta a chiocciola di accesso.

IL NINFEO

IL NINFEO

Il ninfeo era un ambiente dove si poteva godere del fresco nei periodi più caldi; la tesi è avvalorata dalla presenza della scala in primis ma anche dai vani accessori in uno dei quali si trova una bella edicola in cotto.

Nell'area Nord orientale del Naniglio, sono venuti alla luce tre ambienti contigui decorati da altrettanti pavimenti musivi. Di questi, due si presentano completi mentre un terzo, in seguito al crollo di alcune strutture, è stato danneggiato.

La posizione dei frammenti che provenivano dall'area soprastante hanno dimostrato che è stato un evento di origine naturale, molto violento, a causare la distruzione del mosaico. Nella stessa area del complesso sono venuti alla luce frammenti riconducibili ad una pavimentazione in opus spicatum.



GLI AMBIENTI SUPERIORI

Della villa sono stati individuati tre ambienti, nominati con le lettere A-B-C che presentano pavimenti mosaicati. Il pavimento dell'ambiente A è venuto alla luce nell'ottobre del 1981 ed è costituito da due parti distinte e separate: la prima a cassettoni in bianco e nero, ed una seconda con un singolarissimo rosone prospettico anch'esso in bianco e nero ma con al centro bellissime tessere colorate. 

IL ROSONE
Lo spazio vuoto tra il rosone ed il rettangolo che lo contiene, è riempito da motivi vegetali ripresi da quelli di epoca ellenistica. Il rosone della villa di Gioiosa, pur rientrando nella categoria dei clipei geometrici, si differenzia dagli altri per la presenza dei triangoli che forano corone circolari.

Ma c'è di più, perchè, per la sua realizzazione, sono state usate tessere in pasta vitrea dai colori brillanti: una pratica considerata piuttosto rara per un mosaico a terra, più usuale per quelli parietali. Infatti le pastre vitree erano di notevole costo e notevole valore, tanto che con esse si facevano monili o si sostituivano le pietre mancanti in un collier o in un bracciale di pietre preziose.

Il tappeto musivo si compone di una fascia di raccordo di tessellatum bianco ad ordito orizzontale seguita da un bordo esterno di due fasce nere di quattro file di tessere ciascuna divise da uno spazio bianco di sei file di tessere.

Lo schema del mosaico è condizionato dai due tipi di decorazione che devono separare gli spazi di diversa destinazione: probabilmente si trattava di un cubiculum dove i cassettoni indicavano la zona occupata dal letto, ed il rosone, usato spesso tipo emblemata nel I sec. d.c. designava invece, un'area libera. Il rosone si trova spesso in pavimenti musivi di I sec. d.c.. 

Il mosaico relativo all'ambiente B è in opus tesselatum, di forma rettangolare e copre interamente la superficie del vano. Quest'ultimo conserva le pareti in alzato per un'altezza di 50 cm circa e risulta decorato da intonaco nero. Il mosaico misura complessivamente m 6,60 X 3,50. Le tessere, in bianco e nero, sono in calcare e basalto. 


La decorazione vera e propria è costituita da rosette a sei petali, da un quadrato curvilineo, stella a quattro punte, coppia di losanghe, coppia di pelte, svastica, scacchiera e triangoli.Tutti i motivi decorativi trovano confronto con altri mosaici rinvenuti a Pompei, ad Oplontis, ad Ostia ma anche a Cartagine. 

Lo smottamento del ciglio della scarpata, ha compromesso invece la conservazione del pavimento musivo del vano C, dove erano state impiegate, anche in questo caso, tessere bianche e nere rispettivamente in calcare e basalto. Si tratta di un tessellatum bianco ad ordito orizzontale sia all'interno che all'esterno. Sulla base degli studi effettuati dagli archeologi è stato constatato che doveva trattarsi di un ambiente molto grande poiché la fascia di raccordo presenta una larghezza proporzionale alle dimensioni del tappeto musivo.

Gli archeologi, sulla base degli scavi, hanno ipotizzato inoltre che i tre ambienti mosaicati appena descritti fossero in comunicazione tra di loro tramite due aperture poste sui lati meridionali di ogni ambiente. I mosaici che abbellivano gli ambienti A e B presumibilmente sono inquadrabili nell'ultima fase di vita dell'edificio che gli studiosi collocano tra il II ed il III sec. d.c.



BIBLIO

- AA. VV. - La villa romana del Naniglio di Gioiosa Jonica a cura di Alfonso De Franciscis - Ed. Bibliopolis - Napoli - 1988 -
- E. Barillaro  -  Gioiosa Jonica – Lineamenti di storia municipale - Ed. Frama Sud - Chiaravalle Centrale - 1992 -
- Claudio De Palma - La Magna Grecia. Storia e civiltà dell'Italia meridionale dalle origini alla conquista romana - Roma - Newton Compton Editori, 1990 -
- R. Agostino, E. Grillo - I Pavimenti musivi del complesso del Naniglio di Gioiosa Jonica, in Atti del XVIII Colloquio AISCOM - Cremona, 14-17 marzo 2012 - Edizioni Scripta Manent - Tivoli - 2013 -
- P. Larizza - La Magna Grecia - Reggio Calabria - Istar Editrice - 1993 -

LA VIA DELLE GALLIE - ALPIS GRAIA

$
0
0
VIA DELLE GALLIE

GIULIO CESARE

Nel 45 a.c., i Romani costruirono, su ordine di Giulio Cesare, una strada che congiungeva Milano a Vienne. È questa la via, chiamata Alpis Graia, che sarà utilizzata fino al 1858, quando verrà rimpiazzata dalle attuali strade statali SS26 e RN90. Sembra che in precedenza lo stesso passo sia stato utilizzato nel 218 a.c. dall'armata di Annibale per attraversare le Alpi con i suoi elefanti.

Su questa strada i Romani costruirono anche una mansio, destinata ad ospitare i viaggiatori e a fornire un servizio di posta con cavalli freschi. Le sue fondamenta sono ancora visibili sul versante italiano del passo. Sulla cima vi venne anche edificato un tempio dedicato a Giove, simile a quello del colle del Gran San Bernardo. Questo tempio sarebbe stato ornato da una statua del Dio posta sulla sommità di una colonna, la Columna Jovis, localmente in francese Colonne de Joux. Il sistema viario veniva più comunemente chiamato Via delle Gallie.

IN ROSSO LA VIA DELLE GALLIE

OTTAVIANO AUGUSTO

Ottaviano Augusto aveva una autentica venerazione per lo zio tragicamente assassinato, per cui tentò di compire o di proseguire tutte le opere che Cesare aveva intrapreso, convinto che se suo zio la riteneva una buona opera, così doveva essere. 

Pertanto Augusto fece prolungare la via delle Gallie (via Publica o strata Publica), da lui voluta in qualità di console a partire dall'Alpis Graia cesariana, sulla traccia di sentieri preesistenti per facilitare l'espansione militare e politica romana verso le Alpi collegando la Pianura Padana con la Gallia, da cui il nome della strada, e fu la prima opera pubblica realizzata dai Romani in Valle d'Aosta, e attraversava in parte le moderne Italia, Francia e la Svizzera.

PONTE ROMANO DI S. VINCENT - VALLE D'AOSTA SUL TORRENTE CILLIAN

DA MEDIOLANUM AD AUGUSTA EPOREGIA

La via delle Gallie iniziava da Mediolanum (la moderna Milano) e passava per Augusta Eporedia (Ivrea) biforcandosi in due rami all'altezza di Augusta Praetoria (Aosta), ed era conosciuta all'epoca come "via Publica" o come "strata Publica".


I RAMO

Esso andava da Augusta Praetoria e si dirigeva verso il passo del colle del Piccolo San Bernardo (Columna Iovis) fino a Lugdunum (Lione), città fondata nel 43 a.c., dal luogotenente di Giulio Cesare. Lucio Munazio Planco, incaricato dal Senato romano, che ne tracciò i confini con un aratro, sulla collina di Fourvière (Forum Vetus).
Fu Munazio a darle il nome di Lugdunum, "fortezza del dio Lug", la suprema divinità dei Galli, per il sacro rispetto che avevano i romani per le altri divinità, che consideravano degne di esistere quanto le loro. La città venne eretta probabilmente su di un precedente accampamento militare di base alla spedizione gallica di Cesare. L'evento fu commemorato con il conio di una moneta.


II RAMO

L'altra diramazione giungeva al passo del colle del Gran San Bernardo (lat. Mons Iovis) dove sul colle venne edificato il tempio dedicato a Giove Pennino, per poi condurre verso Octodurus (Martigny, già menzionato da Giulio Cesare nel corso della conquista della Gallia come capitale del popolo dei Veragri), nel moderno Canton Vallese, in Svizzera. Nell'area intorno al tempio romano sono stati scoperti degli edifici risalenti alla stessa epoca. Questi potrebbero essere le mutationes lungo la via che conduceva oltre le Alpi.

In epoca medievale vi si sovrapporrà il tracciato della via Francigena, mentre nel XX secolo, per lunghi tratti, coinciderà con la strada statale 26 della Valle d'Aosta e la strada statale 27 del Gran San Bernardo.



LE MULATTIERE

Un tempo le vie della Valle d'Aosta avevano un tracciato obbligato lungo il crinale dei monti per evitare gli straripamenti della Dora Baltea a valle, percorribile solo a dorso di mulo. All'epoca dei Salassi, popolazione di origine celtica, esistevano infatti varie mulattiere che collegavano tra loro i centri abitati situati a mezza costa o lungo le pendici dei monti. 

Un tratto di mulattiera preromana, costituito da un corridoio di dieci gradini scalpellati a mano tra strette rocce, venne ritrovato anche nei pressi di Avise (lat. Avisio), nella zona di Pierre Taillée
Nell'Ottocento Pierre-Louis Vescoz individuò i resti di un'antica strada preromana tra Pont-Saint-Martin (Pons Heliae) e Donnas (Donasium), detta chemin des Salasses, oggi ancora visibili a tratti, sebbene estremamente ridotti:

«Si incontrano ancora ai giorni nostri, sparsi qua e là, cinque o sei pezzi visibili di questa antica strada, tracciata in parte sulla roccia e in parte sul terreno, e la cui larghezza in genere è di due metri e trenta centimetri.»

Le sostruzioni ciclopiche nel tratto tra Bard (Castrum Bardum) e Donnas (Donasium) sono datate non molto prima della nascita di Augusta Praetoria, ovvero della città romana corrispondente alla moderna Aosta, che fu fondata nel 25 a.c. La Valle d'Aosta era, fin dall'antichità, una naturale via di transito di uomini e merci. Strabone così descriveva le vie di comunicazione valdostane negli anni precedenti alla conquista romana delle terre salasse:

«Per il viaggiatore che valica la catena delle montagne venendo dall'Italia, la strada segue dapprima questa valle. In seguito, essa si divide in due tronchi, uno dei quali passa per quello che è detto il Pennino, impraticabile ai carri verso la cresta delle Alpi, l'altro che passa più a ovest, per il territorio dei Ceutroni... l'uno è praticabile ai carri sulla maggior parte del percorso, l'altro, per il Pennino, stretto e ripido, ma corto.»

PONTE ROMANO DI CHATILLON (CASTELLUM AUGUSTENSIUM PRAETORIANORUM) -
VALLE D'AOSTA - SUL TORRENTE MARMORE

Ipotesi sull'epoca della costruzione

- Secondo l'ipotesi dell'archeologo Carlo Promis, che cita un passo di Polibio, esisteva in Valle d'Aosta, già in epoca repubblicana, quindi prima della conquista romana, che è avvenuta durante il principato di Augusto, primo imperatore romano, una strada di fondovalle regolare, quindi più che un sentiero, la cui costruzione si sarebbe conclusa tra il 121 a.c. e il 120 a.c."

- Ma Pietro Barocelli, archeologo e soprintendente di Piemonte e Liguria, ha messo in dubbio le conclusioni di Carlo Promis: «esse appaiono troppo assolute anche solo se si pensa alla grandiosità dei lavori e allo stato di guerra durante i quali sarebbero stati fatti, inframmezzato da malfide paci».

- Almeno parte della strada, in particolare il tratto che da Augusta Praetoria si diramava verso le Alpi Pennine, deve essere stato contemporaneo, oppure posteriore, alla fondazione della città. Alcuni storici svizzeri concordano che il tratto del colle del Gran San Bernardo (Mons Iovis) risalga all'epoca dell'imperatore Claudio (41-54), al quale sono dedicati alcune pietre miliari: Claudio elevò infatti l'antico oppidum celtico di Octodurus (oggi Martigny) a municipium, essendo uno dei punti terminali della via delle Gallie.

- La strada, secondo Andrè Zanotto, sarebbe stata quindi costruita prima dai militari romani coadiuvati dalla popolazione locale, mentre dopo la sottomissione dei Salassi la forza lavoro degli schiavi sarebbe divenuta preponderante.

- Secondo Letizia Gianni, autrice di numerose guide sulla successiva e medievale via Francigena,la via delle Gallie fu fatta costruire intorno al 12 a.c., e quindi lastricata durante il principato dell'imperatore Augusto nel 47 d.c.."

TRATTO DELLA VIA DELLE GALLIE A BARD (CASTRUM BARDUM) - VALLE D'AOSTA

LA VIA DELLE GALLIE SUL SITO DELLA REGIONE AUTONOMA VALLE D'AOSTA
(Fonte)

Da Eporedia ad Augusta Prætoria

- La via delle Gallie procedeva da Eporedia (Ivrea) alla Bassa Valle verso Augusta Prætoria (Aosta) con una sede stradale, larga fra i 3,5 ed i 5 m, realizzata ad un livello più alto del corso della Dora, onde evitare i danni delle tracimazioni. Il percorso non aveva curve ma procedeva per segmenti rettilinei come tutte le strade romane. Nel tratto fra Donnas e Bard si riconoscono sostruzioni, tagli nella roccia, archi e ponti.

A Donnas la strada è tagliata nella roccia per un tratto di 221 m, con una parete alta fino a 12 m; vi si scorge un arco, volto a impedire lo sfaldamento della roccia, e la colonna miliare con l'indicazione di XXXVI miglia da Augusta Prætoria. poi il ponte sul torrente Lys a Pont-Saint-Martin, i resti della strada a Montjovet, le sostruzioni ciclopiche a Bard e i resti dei ponti di Saint-Vincent e Châtillon.

PONT SAINT MARTIN

Pont-Saint-Martin

A Pont-Saint-Martin vi è l’imponente arcata del ponte gettato sul torrente Lys, nel centro storico del paese, uno dei ponti romani più grandiosi e meglio conservati di tutto il nord-Italia, utilizzato ininterrottamente fino al 1836, quando venne sostituito dal ponte moderno.

In connessione con il tratto di sostruzioni in grossi blocchi poligonali, conservate sulla sponda sinistra, il ponte è costituito da un solo arco a sesto ribassato di ben 31,55 m di luce. L’arcata, composta da 87 cunei radiali, è formata da 5 anelli di cunei paralleli e indipendenti, distanti tra loro 32 cm, il cui intervallo è riempito con opera a sacco (schegge di pietra e malta). Le spalle sono  in grossi blocchi di pietra senza malta.

La carreggiata soprastante, larga 5 m esclusi i parapetti, si presenta per lo più in ciottoli, ma nella parte sinistra si conservano ancora alcune lastre poligonali, con incisioni orizzontali per evitare lo scivolamento degli zoccoli degli animali.

ARCO DI DONNAS

Donnas

A Donnas, nella parte ovest del borgo, a monte della SS 26 e della ferrovia, venne effettuata una tagliata di roccia per il passaggio della strada in un tratto di 222 m e un’altezza fino ai 13 m. Sempre nella roccia vennero ricavati il fondo stradale, la colonna miliare che indica i XXXVI milia passuum da Aosta (circa 53,29 Km) e un passaggio archivoltato.

Il piano stradale, largo 4,75 m, presenta solchi di carri e i resti del parapetto, alti 1,20 m. Colpisce la precisione assoluta delle tagliate che sembrano addirittura levigate anzichè spicconate.

PONTE DI BARD
Bard

A Bard vi sono diversi tratti di basolato e partendo da nord verso Donnas si incontra, lungo la SS 26, un'imponente tagliata di roccia sulla sponda destra di un piccolo torrente, cavalcato da un arco in blocchi lapidei appartenente a un ponte romano.

Verso il promontorio del Forte si incontrano altre tagliate di roccia per il passaggio della via romana, sostruiti a valle da strutture murarie. Sopra il parcheggio interrato del Forte: enormi blocchi di pietra squadrati, perfettamente sagomati e accostati gli uni agli altri, sorreggono la strada per un’altezza di 16 m e una lunghezza di 58 m.

Nel tratto tra il Municipio di Bard e Donnas, infine, la strada attuale presenta tratti di roccia tagliata a monte e imponenti muraglioni di sostegno in grossi massi poligonali a valle.


Montjovet

Vi sono ancora dei tratti visibili di basolato della Via delle Gallie nel comune di Montjovet, di cui due in buono stato di conservazione. Il primo si trova tra Balmes e Toffo, lungo un agevole sentiero che corre a mezza costa sulla collina, a monte della SS 26.

Sono perfettamente riconoscibili diversi tratti di sede stradale romana, con un fondo in roccia scalpellata, in cui sono visibili i solchi lasciati dai carri, e da una banchina laterale ai piedi della roccia verticale perfettamente scalpellata. La sede viaria in questo punto è larga più di 4,5 m, il che consentiva l’incrocio di due carri.


Vervaz

L’altro tratto conservato si trova al margine meridionale del comune, in località Vervaz, a monte della SS 26, alle spalle di una grande cascina: si riconosce un lungo tratto di sostruzioni della sede viaria, realizzate in opera cementizia (pietre e malta di calce) con facciavista regolarizzata. Sulla sede stradale, purtroppo mal conservata, si notano ancora i solchi carrai.


Saint-Vincent

Del ponte romano sul torrente Cillian, crollato, forse in seguito a un terremoto, l’8 giugno 1839, restano visibili un cospicuo tratto di strada e la spalla sinistra e una piccola porzione di quella destra.
Il ponte constava di tre parti, lungo oltre 49 m. 

La prima era costituita da un’ampia arcata a tutto sesto, di 9,71 m di luce, sostenuta da possenti spalle, in grossi blocchi squadrati, fondate direttamente sulla roccia; le due parti laterali e simmetriche si saldavano al tracciato della strada formando un angolo ottuso e presentavano, sulla fronte a valle, un’arcatella cieca. L’arcata centrale e le arcatelle minori erano inquadrate da robusti contrafforti.

I muri superiori alternano nel paramento lastre di pietra a fasce di schegge lapidee di prevalente colore verde, ravvivando la fronte del monumento. Le murature sono in opera a sacco, con schegge di pietra legate da malta di calce. La parte superiore del ponte comprendeva originariamente la sede stradale, larga 4,64 m, protetta da alti parapetti.


Châtillon

Il ponte romano di Châtillon cavalcava il torrente Marmore, con un’unica arcata a tutto sesto di circa 15 m di luce, sostenuta da robuste spalle che, ancora utilizzate dal ponte moderno, poggiano solidamente sulle alte sponde rocciose del corso d’acqua. 

Il ponte era formato, nello spessore, da nove archi, che si saldavano gli uni con gli altri: i cinque composti da cunei di pietra si alternavano ai quattro realizzati in muratura “a sacco”, ovvero con schegge di pietra unite da una malta di calce assai tenace.Nella parte superiore del ponte, che non si è conservata, la sede stradale doveva avere una larghezza di 4,60 m.


BIBLIO

- Carlo Promis - Le antichità di Aosta - 1864 -
Antonio Nibby - Delle vie degli antichi, aggiunta a Roma Antica di Famiano Nardini -
- Silvano Pirotta - "Le vie romane nella provincia di Milano: dagli antichi miliari stradali ai toponimi numerali delle località moderne", in "Storia in Martesana" -
- Le strade dell'Italia romana - DEA Store - Milano - 2004 -

TEMPIO DI MINERVA AVENTINA

$
0
0
IL TEMPIO DI MINERVA AVENTINA EVIDENZIATO DALLA FRECCIA
"Iam sex et totidem luces de mense supersunt, huic unum numero tu tamen adde diem sol abit a Geminis, et Cancri signa rubescunt: coepit Aventina Pallas in arce coli". 
(Mancano ormai solo sei giorni del mese ma addiziona a questo numero solo un altro giorno il sole si allontana dai Gemelli e rosseggia la costellazione del Cancro sul colle Aventino iniziano le celebrazioni di Minerva)
(Ovidio, I Fasti lib. VI)


MINERVA
L'Aventino,( Aventinus Mons) (RegioXIII) uno dei sette colli di Roma, era solo una piccola altura. Costituito in realtà di due cime separate da una piccola valle. Il re Servio Tullio vi fece costruire un tempio di Diana che diventò il santuario federale dei Latini, e accanto a questo tempio, alla destra del tempio di Diana ma con orientamento diverso, venne edificato, sempre in era arcaica, il Tempio di Minerva, che però oggi è completamente scomparso. 

Ne abbiamo un'unica traccia sulla Forma Urbis Severiana che ci descrive il suo aspetto in pianta. Era un tempio con sei colonne sulla fronte, probabilmente in stile dorico come i templi molto arcaIci, ma con un orientamento diverso da quello di Diana.

Dai rilevamenti archeologici risulta all'interno di via Balestra, dove sorge oggi il Giardino degli Aranci, dove è situata un'antica vasca romana con due medaglioni a rilievo. Non è da escludere che la Chiesa di Santa Sabina sia stata edificata sopra al tempio di Minerva, visto che ospita grandi colonne romane antiche al suo interno, retaggio di un tempio più antico. 

Presso il tempio si riuniva il centro delle corporazioni di mestiere, in particolare, dalla fine del III secolo a.c., e cioè durante la seconda guerra punica, quella degli scrittori e degli attori. Nel 207 una gilda di poeti e attori, tra cui Livio Andronico, grande poeta, drammaturgo e attore, si incaricò delle offerte votive alla Minerva dell'Aventino.

Il tempio rimase un importante centro culturale per gli artisti per la maggior parte della Repubblica Romana. Nel 123 a.c. cercarono rifugio in questo tempio Gaio Sempronio Gracco e i suoi sostenitori, durante la fuga da Roma, ma vennero assassinati pur commettendo sacrilegio i suoi assalitori.


Riguardo all'immagine, nell’arte etrusco-italica Minerva appare come una rielaborazione del tipo greco di Atena, con qualche modifica di elementi secondari del costume (diadema, calzari ecc.) e lo sviluppo di qualche aspetto particolare: come la Minerva (Menrva) alata degli specchi etruschi, la Minerva Kurotròphos talvolta unita a Ercole e la Minerva Tritonia di Lavinio. 

Anche la Minerva romana si riallaccia ai modelli greci di Atena, e come protettrice delle arti, della tessitura e della filatura appare nel fregio scolpito che orna il recinto del tempio a lei consacrato nel Foro Transitorio in Roma. Era inoltre Dea della guerra ma in relazione alle tattiche che richiedevano appunto intelligenza, per cui era la Dea dei generali dell'esercito romano. Comunque Minerva era considerata soprattutto la Dea della sapienza, simbolo dell’ingegno e dell’intelligenza.

IL TEMPIO NELLA FORMA URBIS
Venne considerata la divinità vergine della sapienza, della tessitura, della poesia, del commercio e delle arti, nonché inventrice della musica e protettrice degli artigiani. Ecco come la descrive Graves: "Atena inventò il flauto, la tromba, il vaso di terracotta, l'aratro, il rastrello, il giogo per i buoi, la briglia per i cavalli, il cocchio, la nave. Fu la prima ad insegnare la scienza dei numeri e di tutte le arti femminili, come il cucinare, il filare e il tessere.

Benché dea della guerra, essa non gode delle sanguinose battaglie, come invece accade ad Ares e a Eris, ma preferisce appianare le dispute e far rispettare la legge con mezzi pacifici.
Non porta armi in tempo di pace e qualora ne abbia bisogno le chiede in prestito a Zeus.
La sua misericordia è grande. Se nei processi che si svolgono all'Aeropago i voti dei giudici sono pari, essa di solito aggiunge il proprio per ottenere l'assoluzione dell'accusato.

Ma se si trova in tempo di guerra non perde mai una battaglia, sia pure contro lo stesso Ares, perché più esperta di lui nell'arte strategica; i capitani accorti si rivolgono sempre a lei per avere consiglio.
"

In seguito alla riforma religiosa della monarchia etrusca venne assunta a formare con Giove e Giunone una triade divina rappresentativa del nuovo Stato, sostituendo la più arcaica triade Giove-Marte-Quirino. Per questo fu allocata nella cella a destra di Giove sul famoso tempio di Giove capitolino, o Giove Optimus Maximus. Faceva parte della triade Capitolina, la Sacra trinità.

MINERVA
Il 19 di Giugno,  il quinto giorno dopo le idi di marzo, si celebrava la dedica del tempio di Minerva sull'Aventino. Una processione partiva dal tempio e giungeva fino al Tevere, con suoni e canti, e poi si davano spettacoli nel circo, fra cui lotte tra gladiatori. Era la festa dei Quinquatries, ben cinque giorni di festa della Dea – numero amato da Minerva – ed era festa per gli alunni che offrivano agli insegnanti il loro Minervale munus, ma era pure la festa degli insegnanti che ricevevano le loro onorificenze economiche. 

Un altro giorno di festa si aggiunse col nome di "Quinquatrus minusculae" il 13 giugno, nel quale i tibicines, i flautisti addetti al culto pubblico, celebravano con un banchetto nel tempio di Giove Capitolino la festa della loro associazione, con una mascherata per le vie della città, e con una riunione nel tempio di Minerva sull'Aventino.


BIBLIO

- Filli Rossi - Il santuario di Minerva, un luogo di culto a Breno tra protostoria ed età romana, Carpenedolo -Edizioni ET - 2010 -
- Famiano Nardini - Roma antica - Roma - 1771 -
- Filippo Coarelli - Guida archeologica di Roma - Verona - Arnoldo Mondadori Editore - 1984 -
- Ranuccio Bianchi Bandinelli - L'Arte Etrusca - Editori Riuniti - 2005 -

CULTO DELLA DEA APRUS

$
0
0
DEA DELLA PRIMAVERA

Molte divinità furono connesse all'avvento della stagione primaverile, che tra l'altro anticamente rappresentava l'inizio dell'anno, in quanto si vedevano spuntare le nuove piante che avrebbero poi fiorito e fruttificato.



LA PRIMAVERA IN GRECIA

Per l’antica Grecia invece l’arrivo della primavera era connesso al mito del ritorno di Persephone dal regno notturno, dove era regina. La Dea era caratterizzata da due aspetti: era Kore, la fanciulla, la figlia quasi indistinta dalla madre, ed era Persephone, Regina degli Inferi, sapiente Guida dell’aspetto oscuro delle cose.

"Io sono Kore: la giovinezza, l’innocenza, la leggerezza.
Sono la Dea del Fiore, una stagione nella natura e nella vita di ogni donna.
Io ho conosciuto l’oscurità dell’Ade, ho assaggiato i chicchi della melagrana
ritrovando così il mio nome: Persefone, la Terribile,
Silenziosa Signora del Regno dei Morti.
Solo dopo aver varcato la soglia del buio,
traversato il mondo delle ombre, posso risalire alla luce
tenendo fra le mani la sacra melagrana,
simbolo dell’eterno ritorno"

(Omero).

Nel mondo ellenico era molto seguita la celebrazione delle cosiddette Adonìe, ovvero la festa della resurrezione di Adone. Il bellissimo giovane, molto amato dalla Dea Afrodite, venne ucciso da un cinghiale, secondo alcuni Ares ingelosito. In suo onore, nei "giardini di Adone" (che erano vasi) si seminavano cereali e ortaggi che germogliavano rapidamente al sole primaverile e venivano poi gettati in mare o nelle sorgenti per propiziare il rinnovamento della Natura.

Tale usanza è sopravvissuta nelle celebrazioni della Pasqua cristiana dove Gesù muore e resuscita in primavera e ancora oggi in molte località d'Italia si prepara nello stesso modo il cosiddetto "grano del sepolcro".

LA DEA DEI FIORI

LA PRIMAVERA A ROMA


FLORA

FLORA
A Roma c'era invece la Dea, Flora, divinità della natura, della nascita e della primavera.
Questa antichissima Dea romana incarnava il fiorire della natura in tutte le sue forme, vegetale, animale e umana.

Essendo Dea dell'accoppiamento che riproduce i nuovi esseri, e non essendo i romani sessuofobi, Flora aveva anche il ruolo di protettrice delle prostitute, coloro che tengono desta la sessualità dei maschi.

Durante le feste in suo onore, le Floralia, le prostitute giravano mezze nude in onore della bellezza della Dea. Flora era la regina di tutte le piante, del bosco, dei campi e degli orti, ma veniva anche invocata per proteggere i bambini e per avere raccolti e
fioriture rigogliose.

Secondo Ovidio, Flora corrisponde alla figura di Clori o Cloride. Un giorno di primavera, mentre la fanciulla passeggia per i campi, Zefiro la vede e se ne innamora perdutamente. Dunque la rapisce e si unisce con lei in matrimonio. Come dimostrazione d’amore, concede a Flora di regnare sui fiori dei giardini e dei campi. Dal canto suo, la Dea offre agli uomini una innumerevole varietà di fiori e il miele.


FERONIA

Altra Dea della Primavera era Feronia, Dea delle fiere, dei fiori primaverili e dei boschi, e Maia, altra antica dea romana della fecondità e del risveglio di natura.


ANNA PERENNA

Era associata alla primavera pure Anna Parenna, antichissima divinità femminile di oscura origine che veniva festeggiata alle Idi di Marzo nel bosco sacro a lei dedicato, poco fuori le mura di Roma, dove si svolgevano riti e cerimonie pubbliche molto seguite dai romani.

DEA BARBERINI

LA DEA APRU

Aprus era la Dea romana dei giardini, che aveva il compito di procurare e di vegliare l'apertura delle corolle dei fiori. Secondo il linguista tedesco Jacob Grimm da questa Dea avrebbe preso nome il mese di Aprile, secondo altre interpretazioni Aprus sarebbe un altro nome con cui era nota Afrodite.
Afrodite verrebbe da Aphrodite, da cui Aphro e da cui Apru.

In fondo avevano ragione entrambi, perchè Aprus dette il nome al mese di Aprile, e pure alla città di Aprilia nel Lazio, ma Aprilia era anche uno degli appellativi di cui venne fregiata la Dea Venere.
Altri sostengono che il nome del mese di Aprile provenga dal latino "aperire" (aprire) per indicare il mese in cui si "schiudono" piante e fiori. Ma Aprus poteva ben derivare da "aperire".

Non è da confondere con la Dea italica e romana Flora, la Dea della fioritura delle piante per la produzione di alimenti, in particolare cereali e alberi da frutto. Tuttavia anche Aprus si occupava di fioritura essendo in effetti la Dea della Primavera.

Poichè la Dea provocava al suo passaggio l'apertura delle corolle si iniziò una serie di rappresentazioni della bellissima Dea, ornata di nastri e veli leggiadri che faceva aprire i fiori al suo solo passaggio a piedi nudi sulla terra.

Qualcuno la suggerisce anche come divinità di provenienza etrusca ma di certo era una divinità italica adottata dai romani che la onorarono con culti non di stato ma di pagus. La Dea etrusca della primavera, corrispondeva alla Dea latina Aprilia, a cui è stato intitolato un comune nel Lazio.

Nei villaggi si ornavano le porte delle case con ghirlande su cui venivano infilati fiori multicolori, ma se ne ornavano pure i templi e le fontane pubbliche. Le si offrivano coppe di acqua profumata e incensi, soprattutto nei piccoli santuari sparsi nei boschi.

A Nova Siri, prov. di Matera, in Basilicata, è stato rinvenuto uno specialissimo reperto nel corredo funebre della tomba numero 73 della Dea Aprilia, nella necropoli jonica.
Si tratta di una bottiglia di vino, recante la scritta in latino: “Questa bottiglia ha versato vino in quantità ad Aprilla, bevi e vivi

Evidentemente la bottiglia di prezioso vetro era appartenuta alla defunta di nome Aprilla, diminutivo di Aprilia. All'epoca si davano ai figli i nomi di divinità come noi oggi diamo Maria o Giuseppe.


 .
BIBLIO

- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -
- Marija Gimbutas - Il linguaggio della dea - Roma - Venexia - 2008 -
- Robert Turcan - The Gods of Ancient Rome - Routledge - 1998, 2001 -
- Giacomo Boni - Flora Palatina - Roma - Tipografia Roma - 1912 -
- Claudio Claudiano - Il rapimento di Proserpina. La guerra dei Goti - Introduzione, traduzione e note di Franco Serpa - Collana Poesia - BUR - Milano, I ed. - 1981-1994 -


SCALINATE DI ROMA ANTICA

$
0
0

GRADUS AURELII - pertinente ad un certo TRIBUNAL AURELIUM.

Si trattava di un tribunale, o di un palco, evidentemente intitolato ad un certo Aurelius, che era posto nel Foro, e che è menzionato più volte da Cicerone in relazione a un prelievo di schiavi nel 58 a.c.:
- Cicero pro Sestio 34,
- Cicero in Pisonem 11:
- Cicero in pro tribunali Aurelii;
- Cicero pro domo sua 54,
- Cicero post reditum ad quirites.

Cicerone parla ancora del Gradus Aurelii, una volta in relazione al processo di C. Iunius nel 74 a.c.:
- Cicerone pro Cluemtio 93:

TRIBUNAL 
"gradus illi Aurelii tum novi quasi pro theatro illi iudicio aedificati videbantur; quos ubi accusator concitatis hominibus complerat, non modo dicendi ab reo, sed ne surgendi quidem potestas erat"
- e  nel 59 a.c. in Cicero pro Flacco 66: " hoc nimirum est illud quod non longe a gradibus Aurelii haec causa dicitur"

Questi gradini, citati come nuovi (novi), furono probabilmente ordinati da Marco Aurelius Cotta, console in quell'anno (74 a.c.), e poiché furono occupati da coloro che erano presenti ai processi della giuria, probabilmente il Gradus faceva parte del tribunale.

Questi tribunali erano generalmente strutture temporanee di legno, ma questo gradus era di pietra per cui è logico pensare che anche il tribunale fosse di pietra, non si costruisce una scala di pietra per un locale di legno.

Non si hanno indicazioni sul suo sito, ma poiché non è menzionato dopo di Cicerone, si presume sia stato rimosso durante le modifiche apportate da Cesare e poi  da Augusto per la costruzione dei nuovi Fori.


CENTUS GRADUS  - SCALE GEMONIAE 🔎


TEMPLUM HELIOGABALI

GRADUS HELIOGABALI

menzionate due volte in documenti medievali (Acta S. Sebastiani AA. SS. Ian. 20, Mirab. 10), e probabilmente poste sull'area nord-est del Palatino, inerenti sicuramente al Templum Elagabali.



GRADUS MONETAE

Era detta Gradus Monetae la scalinata che saliva dalla Via Sacra Via, tra il Carcere Mamertino e il Tempio della Concordia Augusta, e che giungeva fino al Tempio di Iuno Moneta sulla sommità dell'Arx.

Nella loro interezza, questi gradini sono conosciuti come Gradus di Moneta sulla base di Ovidio, che menziona i gradini che salgono fino al Tempio in connessione col 16 gennaio e il Tempio della Concordia Augusta, ridedicato da Tiberio in quella data dell'anno 10 d.c. "qua fert sublimes alta Moneta gradus"

Gradus Monetae è menzionato in Ovidio (Fast. I.638), e  conduce all'arx dal tempio della Concordia. Non è certo se questi passaggi siano indipendenti dalla scalae Gemoniae, o se debbano essere identificati con essi (Gilb. I.327), o se fossero un prolungamento di essi (Rodocanachi, Le Capitole 17).

Ora i Centum Gradus era il nome dei gradini, cioè della scalinata che conduceva al Saxum Tarpeium: "qua Tarpeia rupes Centum gradibus aditur". Probabilmente il Centum gradus era un nome alternativo per la parte più bassa del Gradus Monetae, come sostiene il Corelli.



SCALAE ANULARIAE

Erano una scalinata conosciuta solo da un passaggio (Svet. Aug. 72), che afferma che Augusto viveva in una casa di Licinio Calvo " iuxta Romanorum forum supra scalas anularias ", e successivamente a " Palatio ". Questi gradini, quindi, probabilmente conducevano sul lato del Palatino, ma non così lontano che una casa sopra di essi potesse essere chiamata in Palatio. Il loro nome derivava evidentemente dai negozi adiacenti di anularii, o fabbricanti di anelli.



SCALAE CACI 🔎



SCALAE CANINIAEBusta Gallica.

Erano le scale che introducevano alla Busta Gallica: un luogo "media in urbe" (Liv. XXII.14), dove, secondo Varrone le ossa dei Galli furono bruciate dopo che la città era stata riconquistata da Camillo. Secondo Tito Livio invece gli stessi Galli bruciarono qui i corpi del loro che morirono durante l'assedio.

Non sappiamo dove fossero collocate, ma in un'iscrizione del periodo sullano si parla di una scalinata, le Scalae [?Ca]niniae: "In scalis . . ninieis ab cleivo infimo busteis Gallicis versus ad summum cleivom".



SCALAE CASSII

Corrispondeva a una scalinata nella Regione XIII, che portava probabilmente alla sommità dell'Aventino dalla riva del fiume, o più a sud dell'horrea.  Tuttavia era forse da identificare con la scala " usque in Aventinum " dell'VIII secolo (Eins. 9.6) presso S. Sabina.



SCALAE GRAECAE

Lo studio, iniziato dalla Soprintendenza alle Antichita di Roma, fornisce una ricognizione dettagliata delle mura in elevato e della pianta della scalinata che dalla Nova Via conduceva al cosiddetto Clivus Victoriae nell'angolo nord-ovest del colle Palatino.

SCALAE GRAECAE
Questa superficie fu per la prima volta esposta nel 1880 e fu vista da Lanciani come parte di una via cha andava dal tempio di Vesta al sito della Porta Romanula; piu recentemente questa è stata identificata con le Scalae Graecae note dai testi antichi. 

L'attuale gradinata si data all'epoca adrianea e da accesso agli ambienti situati lungo il suo lato orientate, incluso un probabile mulino ad acqua alimentato dall'acqua proveniente da un canale della Domus Tiberiana. Quasi certamente esso non fornisce un collegamento alia parte superiore del colle Palatino. 

Sono stati rinvenuti anche resti precedenti di epoca imperiale, probabilmente risalenti al periodo augusteo, insieme con una massiccia struttura probabilmente spoliata al livello della Nova Via, che potrebbe costituire un resto della Porta Romanula.


SCALAE DEUM PENATIUM - Aedes Penates Dei

Il Penates Dei, Aedes era un tempio sulla Velia, sul sito anticamente occupato dalla casa di Tullo Ostilio, non lontano dal foro, su una breve strada che porta alle Carinae, dalla cui strada il tempio era probabilmente raggiunto dalle scalae deum Penatium citate da Varrone.

Non vi è traccia della sua costruzione, ma è menzionato per la prima volta nella lista degli Argei (Varrone V.54: Veliense sexticeps in Velia apud aedem deum Penatium) della seconda metà del III secolo a.c.. Le cita anche Dionisio e probabilmente vennero edificate un po' prima della prima guerra punica.

Nel 167 a.c. l'Aedes fu colpita da un fulmine (Liv. XLV.16.5), e nel 165 l'apertura spontanea delle sue porte di notte fu annoverata tra i prodigi (Obseq. 13). Fu restaurata da Augusto (Mon. Anc. IV.7; cfr. VI.33).

In esso si trovavano le arcaiche statue dei Dioscuri nonchè dei Penates. Le confermano delle monete di M'. Fonteius, circa nel 104 a.c. (Babele, Monaie I.503, n.8), e di C. Sulpicius, circa 94 (ib. II.471, n.1), e C. Antius Restio 49-45 (I.155, n.2). 

Un tempio dei Penati sembra essere rappresentato anche su uno dei rilievi dell'ara Pacis Augustae tempio che si pensa sia stato rimosso da Vespasiano quando costruì il foro della Pace. Ma, secondo la teoria più recente, l'edificio rettangolare che costituisce la parte principale della chiesa dei SS. Cosma e Damiano è il muro di cinta del tempio dei Penati restaurato da Augusto, nascosto sotto la chiesa.
Il muro di mattoni sul retro, che supportava la forma Urbis, è più tardo di Settimio Severo: mentre la rotonda appartiene al tempo di Massenzio (vedi Urbis Fanum).

SCALAE GEMONIAE

SCALA MEDIANA

Una scalinata conosciuta solo da un'iscrizione (CIL VI.9683: negotiatrix frumentaria et leguminaria ab scala mediana). Si presuppone avesse un qualche legame con il portico Fabaria (Reg. XIII) e che conducesse fino all'Aventino, o fino al Campidoglio dal foro Holitorium, ma non ci sono prove a conferma.



SCALAE TARQUITIAE

Sono menzionate una sola volta in Sesto Pompeo Festo: " Tarquitias scalas quas Tarquinius Superbus fecerit, abominandi eius nominis gratia ita appellatas esse ait (i.e. Verrius) volgo existimari " e comunque restano sconosciute, anche se il suggerimento che si trattasse di gradini verso il Campidoglio è abbastanza plausibile, come suggerisce Ettore Pais in Antiche Leggende, 111).



BIBLIO

- Lucos Cozza - A guide to the monumental centre of ancient Rome with reconstructions of the monuments (con R.A. Staccioli, traduzione di J.B. Ward Perkins) - Roma - Vision - 1966 -
- Lucos Cozza - Su una pianta dell'area archeologica centrale di Roma (1870 ca.) - BSR 53 - 1985 -
- Ridolfino Venuti Cortonese - Accurata, e succinta descrizione topografica delle antichità di Roma - 1763 -
- Flaminio Vacca - Memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi della città di Roma - 1594 -
- Filippo Coarelli - Storia dell'arte romana. Le origini di Roma - Milano - ed. Jaca Book -

II GUERRA MACEDONICA ( 220-197 A.C.)

$
0
0
ROMANI VS MACEDONI

La II Guerra Macedonica (200 -197 a.c.) si svolse tra Roma, alleatasi con Attalo I re di Pergamo e Rodi, e Filippo V di Macedonia alleato al re di Bitinia, Prusia I. Roma vinse e Filippo dovette abbandonare i possedimenti macedoni in Grecia. Intelligentemente i romani alla fine della guerra concessero la libertà alla Grecia, con una mossa molto astuta, in quanto non erano costretti a lasciare lì un contingente ma solo dei gruppi militari di riferimento.

Inoltre da allora in caso di guerra con l'oriente avrebbero avuto molti greci dalla loro, visto che da Roma potevano aspettarsi libertà e indipendenza, cosa che nessun altro popolo gli avrebbe concesso. In questo modo i romani ebbero la Grecia come amica tanto che infine, per salvarsi dalla conquista dei persiani chiesero l'occupazione dei romani, in qualche modo sentiti fratelli come ancora avviene oggi tra italiani e greci.



TOLOMEO V EPIFANE

Nel 205 a.c. era morto il faraone d'Egitto Tolomeo IV, lasciando sul trono il figlio Tolomeo V Epifane di appena sei anni. Così Filippo V di Macedonia e Antioco III (241- 187 a.c.) re dell'Impero seleucide stipularono un patto segreto che attribuiva al re macedone l'egemonia nell'Egeo e ad Antioco quella sulla Celesiria (Libano), la Cilicia (Turchia), la Fenicia (libano e Siria) e la Palestina.

Tolomeo morirà all'età di trent'anni, dopo un governo disastroso, ucciso dai suoi generali che lo ritenevano troppo debole e lasciando, come suo padre prima di lui, un erede ancora bambino, Tolomeo Filometore, la cui reggenza fu affidata alla madre Cleopatra.

TOLOMEO V EPIFANE

FILIPPO V

Roma ha appena vinto la II guerra punica contro i Cartaginesi condotti da Annibale, e si è appena ripresa dalle pesanti perdite della guerra. Rimpinguato il suo erario col bottino di Cartagine deve riassestare il suo esercito e i suoi possedimenti, per cui non cerca, almeno per il momento, nè guerre nè nuove province.

SOLDATO MACEDONE
Antioco III chiamato erroneamente il Grande, confondendo il titolo Grande Re che veniva dato a tutti i monarchi seleucidi, fu un grande condottiero e vinse molte battaglie ma ebbe un lungo scontro con la Repubblica Romana da cui uscì infine confitto.

Filippo mirò anzitutto alle città stato greche della Tracia e dei Dardanelli, per cui avanzò nell'area col suo esercito, conquistando Cio (Prusia Al Mare, in Bitinia) con grande preoccupazione di Rodi e Pergamo, che tra l'altro avevano interessi in quell'area.

Ma non basta, perchè nel 201, Filippo portò il suo esercito in Asia Minore, assediando l'isola greca di Samo, conquistando Mileto, devastando i territori di Pergamo e invadendo la Caria, che però venne difesa da Rodi e Pergamo, che bloccarono la flotta di Filippo nel porto di Bargilia, costringendolo a svernarvi.

Il pericolo però era grande e a primavera Filippo avrebbe scatenato la sua flotta e il suo esercito. Allora, per quanto Rodi e Pergamo fossero per ora vincitori, decisero di chiedere aiuto alla più grande potenza del mar Mediterraneo, grande nelle sue forze militari ma pure nella sua civiltà, molto simile a quella greca, a cui peraltro molto si erano ispirati.

Fino a quel momento Roma non aveva mai prestato attenzione al Mediterraneo orientale. La prima guerra macedonica contro Filippo V, si era conclusa, senza grandi battaglie, con la Pace di Fenice nel 205 a.c.. 
Roma, ormai arbitro tra i popoli, non appariva tuttavia interessata nè alla Tracia nè all'Asia Minore, ciononostante il Senato romano ascoltò con grande interesse gli ambasciatori di Rodi e Pergamo, e infine decise di inviare tre ambasciatori in oriente, per avere testimoni imparziali di ciò che accadeva in quelle zone.

TOLOMEO FILOMETORE

Gli ambasciatori romani giunsero fino ad Atene, dove si incontrarono con re Attalo I di Pergamo ed alcuni diplomatici di Rodi. Atene aveva dichiarato in quel momento guerra alla Macedonia e Filippo V aveva iniziato l'invasione dell'Attica. 

Allora gli ambasciatori romani si incontrarono con i generali macedoni e gli chiesero di non attaccare le città greche e di intavolare trattative con Pergamo e Rodi per discutere dei danni di guerra. I generali abbandonarono i territori ateniesi e portarono a Filippo le richieste dei romani.

Ma Filippo, che era riuscito ad eludere il blocco navale e a tornare in Macedonia, respinse l'ultimatum romano, e proseguì il suo attacco ad Atene, oltre ad iniziare un'altra campagna militare nella zona dei Dardanelli dove conquistò l'importante centro di Abido, dove gli abitanti assediati si suicidarono tutti.

Roma non si è ancora decisa e nell'autunno del 200 a.c., invia un ambasciatore romano a Filippo V per dargli un secondo ultimatum, che non attaccasse alcuna città della Grecia e nessun territorio di Tolomeo V, e di accettare inoltre un arbitrato con Rodi e Pergamo. 

Ma i romani contemporaneamente sbarcarono sbarcavano dei contingenti romani in Illiria. Filippo rifiutò l'ultimatum sostenendo che non stava violando la pace di Fenice. Roma non era abituata ai rifiuti, ma era abituata alla guerra, e guerra fu.

Dopo la I Guerra Macedonica in cui i Romani avevano trattato molto male le popolazioni locali, Roma non era ben vista, ma nemmeno Filippo, per cui entrambe le parti ebbero difficoltà a reperire alleati. 

Il primo anno di campagna militare fu affidato a Publio Sulpicio Galba Massimo, che eletto console per la seconda volta ed ottenuta la Macedonia come provincia, condusse con grande vigore ed abilità la guerra contro la Lega achea e contro Filippo V di Macedonia. 

Il suo successore, il console Publio Villio Tappulo, non fu impegnato in nessuna battaglia di rilievo.
Nel 198 a.c. Tappulo lasciò finalmente il comando dell'esercito a Tito Quinzio Flaminino, che dimostrò di essere un intelligente e valoroso generale.

Flaminino, che non era ancora trentenne e si proclamava filoellenista, cambiò cambiò le richieste a Filippo da quella di "pace in Grecia", ovvero della sospensione degli attacchi macedoni alle città greche, a quella della "libertà per i Greci", ovvero del ritiro delle truppe macedoni da tutte le città greche fino ad allora occupate, ed il rientro entro i confini della Macedonia.

Si era nel 198 a.c., Flaminino iniziò una brillante campagna bellica contro Filippo, costringendolo a ritirarsi in Tessaglia. Molte città della Lega achea, da sempre favorevoli alla Macedonia, erano ora troppo occupate dalla campagna contro Sparta per poter partecipare alla guerra, ma visto il successo romano abbandonarono l'atteggiamento a favore della macedonia; solo poche città, come Argo, rimasero leali a Filippo.

AI re di Macedonia cominciò a vacillare e chiese di trattare la pace con i romani, ma Flaminino, seppur desideroso di terminare la guerra, non era certo che, dopo le nuove elezioni a Roma, gli sarebbe stato confermato il comando in Grecia. Per cui iniziò i negoziati, mentre aspettava i risultati delle elezioni; se gli fosse stato ritirato il comando, avrebbe trattato per una rapida pace con Filippo, altrimenti avrebbe rotto i negoziati per riprendere la guerra.

Siamo nel 198 a.c. i due comandanti si incontrarono nella Locride, ma Flaminino, per prender tempo, chiese che tutti i suoi alleati fossero presenti al negoziato. Flaminino chiese a Filippo di ritirare tutte le sue forze dalla Grecia, condizione che Filippo non poteva accettare, potendo arrivare ad abbandonare solo le recenti conquiste in Tracia e Asia Minore.

CAVALLERIA MACEDONE
Flaminino infine convinse Filippo che la posizione romana era dettata dalle città greche alleate, e che questa potesse essere superata solo da un'ambasciata macedone a Roma. 

Filippo seguì il consiglio di Flaminino, che però, non appena seppe che gli era stato rinnovato il commando per l'anno successivo, fece in modo che i negoziati a Roma fallissero, così da poter riprendere la campagna militare contro i macedoni.

Dopo la rottura dei negoziati Filippo fu abbandonato da molte città alleate, con l'eccezione di Acarnania, tanto da dover assoldare un esercito di 25.000 mercenari. I Romani sconfissero i macedoni una prima volta nella battaglia di Aous ed una seconda volta nella successiva battaglia di Cinocefale, combattuta nel giugno del 197 a.c., dove i legionari romani letteralmente sbaragliarono la falange macedone. Filippo V chiese la pace con Roma.



IL TRATTATO DI PACE

Fu dichiarato un armistizio per trattare la pace nella valle di Tempe. Filippo dovette ritirare le truppe macedoni dalle città appena conquistate in Tracia ed Asia Minore, e ad abbandonare tutta la Grecia; anche gli alleati romani della lega etolica, confederazione delle città della regione greca dell'Etolia, nata nel IV secolo a.c. per opporsi alla Macedonia, fecero le loro richieste, che però furono rifiutate dal re macedone. Il trattato fu inviato a Roma, perché fosse ratificato dal Senato.

Il Senato aggiunse al trattato di pace; il pagamento di una indennità di guerra, e la consegna ai romani della flotta macedone. Prendere o lasciare: al Senato romano non c'era appello, Filippo firmò. Il trattato fu siglato solo nel 196 a.c. e durante i giochi istmici di quell'anno Flaminino si alzò a parlare nello stadio annunciando al popolo greco il regalo più insperato: Roma rendeva alla Grecia la sua libertà. Fu un tripudio generale.

In ogni caso il rientro delle legioni in Italia venne completato solo nel 194 a.c. e comunque i romani mantennero alcune guarnigioni, col consenso greco, in alcune città di importanza strategica, prima occupate dai macedoni, come Corinto, Calcide e Demetriade.

La II Guerra Macedonica era terminata, i romani come al solito avevano vinto i loro nemici, ma la pace non fu per sempre.


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - XXI-XXX -
- Appiano di Alessandria - Historia Romana - Guerra Siriaca - 1 -
- Cornelio Nepote - De viris illustribus -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita - III -
- Polibio - Storie - VII -
- Strabone, Geografia, V.
- Howard H.Scullard, - Storia del mondo romano. Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine - vol.I - Milano - BUR - 1992 -
- F. W. Walbank - Philip V of Macedon - 1940 -

MEDIOLANUM SANTONUM - SAINTES (Francia)

$
0
0
L'ANFITEATRO
Saintes, ovvero Mediolanum Santonum, è una cittadina del dipartimento della Charente Marittima nella regione di Nuova Aquitania, in Francia. Vi si trovano delle rovine romane (tra cui l'arco di Germanico e l'anfiteatro), e alcuni musei di storia locale nei quali sono esposti numerosi reperti di età romana rinvenuti nella zona.

I monumenti più antichi della città furono eretti durante l'Alto Impero romano, durante il quale la città divenne capitale politica della provincia della Gallia Aquitania.

L'ARCO DI GERMANICO - RICOSTRUZIONE (by G.C.Golvin )


L'ARCO DI GERMANICO

L'arco fu eretto nell'anno 18 o 19 in onore dell'imperatore Tiberio, di suo figlio Druso minore e di suo nipote e figlio adottivo Germanico Giulio Cesare (15 a.c. - 19 d.c.). La costruzione fu finanziata da un privato cittadino, Caio Giulio Rufo.

In età romana si trovava all'ingresso del ponte, ma nel corso del Medioevo si trovò al centro di esso in seguito all'allungamento del ponte. L'iscrizione di dedica sull'attico, danneggiata dove menziona Tiberio e Druso e meglio conservata dove menziona Germanico, spiega il nome con cui l'arco è normalmente conosciuto.

Era collocato all'ingresso in città della via romana che conduceva a Saintes da Lione (Lugdunum, via Agrippa), sul ponte romano sul fiume Charente, ma venne smontato e ricostruito a partire dal 1843 a circa 15 m di distanza dalla riva, per permettere i lavori sugli argini del fiume che comportarono la distruzione del ponte e fu restaurato nel 1851.

L'ARCO DI GERMANICO

L'arco era alto quasi 15 m e largo 15,90 m, a due fornici (alti 10 m), dove si circolava nei due sensi. I tre piloni sono decorati agli angoli da lesene su alti piedistalli, con fusti scanalati e capitelli corinzi. Le lesene sorreggono una trabeazione che gira sui quattro lati del pilone e svolge la funzione di imposta degli archi dei fornici. 

Sopra questa, agli spigoli dell'arco, delle colonne inserite nella muratura, sempre con fusti scanalati, ma con capitelli compositi, sorreggono la trabeazione principale. Al di sopra è un basso attico con un coronamento.

L'iscrizione dell'arco riporta sull'attico la dedica "A Germanico Cesare, figlio di Tiberio Augusto, nipote del divo Augusto, pronipote del divo Giulio, augure, flamine augustale, console per la seconda volta, acclamato imperatore per la seconda volta", "A Tiberio Cesare Augusto, figlio del divo Augusto, nipote del divo Giulio, Pontefice massimo, console per la terza volta, acclamato imperatore per l'ottava volta, rivestito della potestà tribunizia per la ventunesima volta"
"A Druso Cesare, figlio di Tiberio Augusto, nipote del divo Augusto, pronipote del divo Giulio, pontefice augure"

MEDIOLANUM SANTONUM (by G.C.Golvin )

Sul fregio della trabeazione principale il dedicante si presenta come:
"Caio Giulio Rufo, figlio di Caio Giulio Catuaneunio, nipote di Caio Giulio Agedomopate, pronipote di Epotsorovide, della tribù Voltinia, sacerdote di Roma e di Augusto presso l'altare che è ad Confluentem, praefectus fabrum"
(L'altare di Roma e Augusto ad Confluentem si trovava a Lione).

L'arco di Germanico fu eretto verso gli anni 18 o 19, sotto il principato di Tiberio, da un notabile di nome Caio Giulio Rufo. Questo arco votivo deve il suo nome alla dedica scritta sul fregio della trabeazione, che onora la famiglia imperiale: Tiberio, il figlio Druso ed il figlio adottivo Germanico.

L'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

Altro importante e superbo resto dell'epoca romana è l'anfiteatro, realizzato all'inizio del regno dell'imperatore Claudio. Era situato nella città di Mediolanum Santonum, capitale della civitas santonum (città dei Santoni, una suddivisione del territorio) e della provincia della Gallia Aquitania.

I Santoni erano una popolazione della Gallia Aquitanica stanziata nella regione francese che dal loro nome fu detta Saintonge, presso l'Oceano Atlantico, a nord dell'estuario della Garonna. La loro capitale era Mediolanum Santonum, attraversata dalla Charente, oggi Saintes.

L'anfiteatro venne cominciato durante il regno dell'imperatore Tiberio e terminato sotto Claudio, verso l'anno 40 d.c.. 

Esso misura 126 metri per 102 ed è riconoscibile per la sua struttura particolare, con la cavea appoggiata su due versanti del Vallon des Arènes e su un terrapieno. Animali selvaggi e gladiatori accedevano all'arena attraverso due vomitorium, posti alle estremità est ed ovest. Poteva accogliere da 12000 ai 15000 spettatori.

L'ANFITEATRO, OGGI E IERI

La struttura è un po' alla greca e un po' alla romana, poiché parte della cavea, ove si alzano le gradinate, è per il lato est appoggiata su una collina, che venne scavata in modo da ottenere una forma corretta, mentre il lato ovest è sorretta da costruzioni.

L'arena dell'anfiteatro, dove avvenivano i combattimenti o le venationes,  misurava 66,5 metri in lunghezza e 39 metri in larghezza, ed era divisa dagli spalti da un muro anch'esso ellittico alto 2 metri.  

Venne abbandonato dopo il IV secolo ed utilizzato come cava di materiale durante il Medioevo. I primi restauri dell'edificio si ebbero solo nel XX secolo, quando gran parte dell'anfiteatro era già stato distrutto. Restano attualmente alcuni resti delle sostruzioni e della cavea, oltre che lo spiazzo dell'arena.

LE TERME


LE TERME

Le Terme di Saint-Saloine sono posteriori ai due monumenti precedenti e pare che risalgano alla seconda metà del primo secolo. Dopo uno spoglio durato secoli, e dopo un'insediamento religioso sulle belle rovine, delle terme è rimasto solo il calidario, posto all'interno delle rovine di una chiesa paleocristiana che ha dato il suo nome al monumento. Esse erano alimentate dall'acquedotto romano, alcuni tronconi del quale sono ancora oggi visibili a nord della città e che sono oggetto di scavi archeologici dal 2003.




IL MUSEO

Il Museo archeologico di Saintes ospita la ricostruzione di un colonnato da un monumento pubblico del I secolo, i cui blocchi sono stati rinvenuti in reimpiego nelle mura del III secolo, insieme ad altri elementi e sculture di diversi monumenti, ugualmente rinvenuti dopo essere stati reimpiegati nelle mura cittadine.



BIBLIO

- Prosper Mérimée - Notes d'un voyage archéologique dans le sud-ouest de la France. I. Saintes -Bibliothèque de l'École des Chartes, II,3 - 1846 -
- Gaio Giulio Cesare - De bello gallico -
- Ernest Desjardins - Géographie historique et administrative de la Gaule romaine - Paris - 1876 -
- Louis Marin - Inscriptions latines d'Aquitaine (ILA). Saintons - Bordeaux - 1994 -


ARCO DI GRAZIANO, VALENTINIANO E TEODOSIO

$
0
0
ARCO DI GRAZIANO, VALENTINIANO E TEODOSIO


ARCVS GRATIANI VALENTINIANI ET THEDOSII 

L'Arco di Graziano, Valentiniano e Teodosio era un arco trionfale presente a Roma e dedicato agli imperatori romani: Graziano figlio di Valentiniano I (359 – 383), Valentiniano I ( 321 – 375) e Teodosio I (347 – 395). 

Pur non essendo più esistente, esso era situato in Campo Marzio: la sua epigrafe è stata rinvenuta, insieme ad alcuni resti dell'arco, nei pressi della Chiesa dei Santi Celso e Giuliano, situata in via del Banco di Santo Spirito.



GRAZIANO

Flavio Graziano, figlio di Valentiniano I che lo nominò augusto a soli otto anni, nel 367, ma alla morte di suo padre a soli 44 anni, nel 375, le truppe di stanza in Pannonia proclamarono imperatore d'occidente il suo fratellastro, Valentiniano II. Fu uomo gentile e collaborativo, senza sete di potere, rifiutò la veste di porpora pur accettando la nomina, rifiutando anche il titolo di Pontifex Maximus, data la sua fede. 

Secondo altri fu facilmente influenzabile e schivo dai compiti dello stato preferendo le sfide e i circhi dove si esibiva abbondantemente. Probabilmente sono attendibili ambedue le ipotesi. dell'assenza di sete di potere e di scarsa audacia.

IN ROSSO LA SELEZIONE DELL'ARCO


VALENTINIANO I

Flavio Valentiniano (321 – 375) affidò le regioni orientali al fratello minore Valente, e poco dopo associò al trono anche il figlio Graziano. Valentiniano e Valente erano cristiani e dunque abbandonarono la politica di Giuliano in campo religioso.

Valentiniano rafforzò con battaglie vittoriose il confine del Reno e dell'alto Danubio. Alla sua morte nel 375, dovuta a cause naturali, dopo 11 anni di regno, le truppe acclamarono Augusto anche l'altro figlio, Valentiniano II.



TEODOSIO IL GRANDE

Flavius Theodosius Augustus (347 – 395), profondamente cristiano e fortemente intollerante nel 380 con l'editto di Tessalonica fece del Cristianesimo la religione unica e obbligatoria dell'Impero; non solo tolse qualsiasi prebenda agli altri culti dandone abbondantemente ai sacerdoti del culto cristiano, non solo proibì i sacrifici e il culto pagano, ma condannò alla confisca dei beni e all'esilio le famiglie dei pagani, e alla morte i pagani stessi.

Per tale ragione fu chiamato Teodosio I il Grande dagli scrittori cristiani e le Chiese orientali lo venerano come santo. Ciò dette un fiero colpo alla salute dell'impero perchè la sete di potere e di gloria che prima spingeva gli aristocratici romani a diventare generali dell'esercito e a combattere per l'impero ora li spinse a diventare prelati.
 
RESTI DEL PORTICO E DELL'ARCO REINSERITI NEL '400


LA DEMOLIZIONE

I lavori per la realizzazione della Piazza del ponte S. Angelo causarono la scomparsa di alcune case e, soprattutto, dei resti dell'Arco di Graziano, Valentiniano e Teodosio, risalente al IV secolo d.c. Si ritiene si trattasse di un arco di trionfo, posto al termine della "Porticus Maximae", un lungo rettifilo costituito da un complesso di porticati, tra loro comunicanti, costruito sulla "via Tecta" (in latino "tecta" significa "coperta"), che collegava il Teatro di Marcello con il "ponte Elio".

I percorso corrispondeva grosso modo alle odierne vie del Portico di Ottavia, di S.Maria del Pianto, dei Giubbonari, dei Cappellari, dei Banchi Vecchi e del Banco di S.Spirito: l'Anonimo Gaddiano ne attribuiva la costruzione in occasione del ritorno e del trionfo di Giulio Cesare, conquistatore della Gallia.

L'Anonimo Gaddiano, o Magliabechiano, è un manoscritto della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Cod. Magliab. XVII, 17).Già appartenuto alla famiglia Gaddi, entrò nella collezione di Antonio Magliabechi, da cui i nomi, rappresenta il nucleo centrale della biblioteca fiorentina. Databile più o meno al 1540, è fonte preziosa per la storia dell'arte italiana, costituendo la trattazione più completa prima delle "Le Vite" di Vasari nell'edizione del 1550, da cui lo stesso Vasari dovette attingere molte informazioni.


BIBLIO

- Giuliano Malizia - Gli archi di Roma - Newton Compton Ed. - Roma - 2005 -
- Silvio De Maria - Gli archi onorari di Roma e dell'Italia romana - L'Erma di Bretschneider - Roma 1988 -
- Filippo Coarelli - Guida archeologica di Roma - Verona - Arnoldo Mondadori Editore - 1984 -
- Auguste A. Beugnot - Histoire de la Destruction du Paganisme en Occidente - 1832 -
Orosio - Historiarum adversus paganos libri septem -

VILLA LE MUSE - LAS MUSAS (Arellano, Spagna)

$
0
0

La villa romana di "Las musas" ("Le muse") è una situata nel comune spagnolo di Arellano, nella comunità autonoma della Navarra. Basandosi sui mosaici di Piazza Armerina (Italia), il pavimento è datato nella prima metà del IV secolo d.c., datazione confermata dalla stratigrafia documentata nell'area scavata del comune di Arellano. Lo studio di questo mosaico ci permette di sapere com'era una villa o una casa rurale romana.

Tra il I e il III secolo la villa fu adibita alla produzione di vino, mentre tra il IV e il V secolo fu ricostruita dopo un incendio come residenza ornata di mosaici, collegata ad un santuario dedicato a Cibele ed Attis, con taurobolio.


RICOSTRUZIONE DELLA VILLA

Il taurobolium era il sacrificio di un toro, nel culto orientale di Cibele o di Mitra (più tardivo a Roma). Narra Prudenzio che il sacerdote, vestito con una toga e una corona in testa, si reca in un sotterraneo sovrastato da un piano perforato, su cui sta il toro che viene ucciso irrorando di sangue il sacerdote sul viso, sulla lingua e in bocca.

Si sa però che Prudenzio era cristiano e ostile al paganesimo per cui aveva esagerato. Comunque il 24 marzo si festeggiava il Dies Sanguinis in onore di di Cibele e Attis con un rito di rigenerazione che durava venti anni per chi lo faceva.

SALA DEL BANCHETTO

IL MOSAICO
Nel 1882 fu scoperto casualmente,  in occasione dell'adattamento del terreno alla coltura di un vigneto, il mosaico ottagonale con la raffigurazione delle Muse, portato al Museo archeologico nazionale di Madrid. L'attuale pavimentazione della villa è una riproduzione dell'originale esposto a Madrid.
MOSAICO DELLE MUSE  (INGRANDIBILE)
Gli scavi del 1942 da parte dell'archeologo Blas de Taracena, portarono alla luce una villa romana e gli scavi sistematici che ne rimisero in luce i resti furono realizzati dal 1985 al 1998. La villa aveva pianta rettangolare e fu dotata di un muro di contenimento e di recinzione sul lato occidentale, con una porta di accesso a cui si saliva per una 
scala.

L'impianto per la produzione del vino della prima fase si disponeva sui lati nord ed ovest e comprendeva piattaforme coperte per la spremitura meccanica dell'uva, sopraelevate per facilitare il deflusso del mosto e rivestite di intonaco impermeabile, collegate ad una vasca, ugualmente impermeabilizzata, per la raccolta del mosto.

C'era poi un ambiente destinato alla cottura del mosto, probabilmente utilizzato anche come cucina domestica quando non era tempo di vendemmia. L'invecchiamento del vino veniva accelerato nel fumarium, attraverso fumo e calore.

Il vino prodotto era immagazzinato in una cella vinaria, un grande ambiente situato ad un livello inferiore, con dolii che poteva raccogliere tra i 45.000 e i 50.000 litri di vino e che ospitava un larario. Al di sopra della cella vinaria erano presenti ambienti di abitazione, con pavimenti in signino (cocciopesto) e pareti dipinte. 
MOSAICO DELLE MUSE

NEL IV SECOLO
Nella fase di IV secolo l'accesso agli ambienti residenziali avveniva dal lato sud, con un ingresso marcato da pilastri in pietra; da qui un corridoio conduceva al peristilio su cui si aprivano le stanze. Sul lato est si trovano gli ambienti decorati a mosaico.
PIANTA DELLA VILLA (INGRANDIBILE)
La stanza di rappresentanza era preceduta da un ampio vestibolo eretto sopra la cisterna scavata nella roccia della prima fase dell'edificio, ed era costituita da un vasto ambiente quadrangolare, con mosaico ad emblema centrale raffigurante la Partenza di Adone per la caccia e da un ambiente semicircolare, utilizzato come triclinio con mosaico raffigurante le Nozze di Attis.

Una piccola stanza ottagonale, accessibile ancora da un ampio vestibolo ospitava il mosaico con le Muse rinvenuto nell'Ottocento ed ipotizzato come luogo dedicato allo studio e alle attività intellettuali. 

Questo mosaico, anch'esso a pianta ottagonale, occupa l'intera stanza e si adatta alla sua pianta ed è decorato con piastrelle multicolori (bianco, azzurro e scuro, ocra, castagna, grigio, nero e verde). È incorniciato da un'ampia striscia intrecciata, che lascia all'interno nove scomparti i cui motivi decorativi sono figurativi.


Questi scomparti sono articolati attorno a un medaglione centrale. In ognuna è rappresentata una musa con il suo rispettivo insegnante, le scene sono accompagnate da uno sfondo architettonico, in cui appaiono diversi edifici fiancheggiati da alberi. La composizione delle scene segue uno schema di base che si ripete in tutte. Il medaglione centrale è quasi scomparso.
In ciascuno degli scomparti, appare come sfondo la rappresentazione di una città, con diversi esempi di vegetazione che fungono da cornice per le diverse muse accompagnate dal "maestro".


Tra queste c'è Calliope, musa dell'oratoria,  accompagnata da Omero; Terpsichore con una lira, musa della danza, accompagnata da un giovane; Melpómene, in atteggiamento declamatorio, musa della tragedia; Talía, musa della commedia accompagnata da Menandro, rappresentante della nuova commedia; Euterpe, musa della canzone e della danza; Clío, musa della storia, accompagnata dallo storico Cadmo; Urania, musa dell'astronomia, lasciando un compartimento non identificato dato il suo scarso stato di conservazione.

Dopo aver analizzato il tema dei rimanenti mosaici, si è concluso che questa scena doveva anche essere collegata al mito di Cibele e Attis. Si pensa che io possa rappresentare una figura femminile, che porta gli attributi di una delle nove Muse, in piedi accanto a un personaggio maschile, identificato con uno dei più importanti maestri d'arte che la Musa protegge. Dietro di loro, sullo sfondo, un edificio, che potrebbe essere una villa. Il culto di Cibele, già stabilito in Grecia, fu introdotto a Roma alla fine del III secolo a.c. Fu più tardi, al tempo dell'imperatore Claudio, che l'atto di Attis fu integrato nel calendario romano.


Successivamente, il festival in onore di Cibeles e Attis è stato istituito nel mese di marzo. Infine cubicolo (stanza da letto), conserva un mosaico raffigurante la Nascita di Attis.

Sul lato sud, di lato all'ingresso, una scala portava a un grande ambiente supposto all'accoglienza degli ospiti del santuario. Staccato dal corpo principale su questo stesso lato è presente un vasto ambiente rettangolare, probabilmente una stalla. Sempre staccato dal corpo principale, sul lato est si trovava il santuario dedicato a Cibele con un recinto con portico interno a pilastri che al suo ospitava una struttura ad U, con altari taurobolici decorati da teste di toro.



BIBLIO


- B. Taracena Aguirre - Carta arqueológica de España - Soria - 1941 -
- B. Taracena Aguirre - Excavaciones en Navarra -1 edition - first published in 1947 -
- Appiano di Alessandria - Guerre spagnole -
- Paolo Rovati, La Via de la Plata nella Penisola Iberica- Fano - 2010 -

Viewing all 2288 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>