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BATTAGLIA DI PONTE MILVIO

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La battaglia di Ponte Milvio, svoltasi il 28 ottobre 312 tra Costantino I e Massenzio, vinta da Costantino fu propedeutica al cristianesimo come religione di stato e alla fine del legionario romano in favore dei militi germanici e barbari in genere. La Battaglia di ponte Milvio pose fine al regno di Massenzio, che si era fatto nominare princeps il 28 ottobre del 306, assumendo il controllo dell'Italia e dell'Africa.

Il 25 luglio 306, Costanzo Cloro era morto presso Eburacum (York), dove l'esercito, guidato dal generale germanico Croco, proclamò Costantino nuovo Augusto d'Occidente, scavalcando il meccanismo della tetrarchia, ideato da Diocleziano proprio per porre termine all'uso ormai consolidato degli eserciti di proclamare di propria iniziativa gli imperatori. Pertanto Galerio, l'unico Augusto legittimo rimasto in carica, fu all'inizio recalcitrante sulll'investitura di Costantino, che alla fine accettò ma con il rango di Cesare, promuovendo invece come nuovo Augusto d'Occidente Flavio Severo.

Dopo soli tre giorni, il 28 ottobre del 306 Massenzio, figlio dell'Augusto emerito Massimiano,  depredato di qualsiasi potere, si fece acclamare imperatore a Roma con l'appoggio dei pretoriani, dell'aristocrazia senatoria e della plebe urbana, contestato però da Costantino in quanto in contrasto con il sistema tetrarchico, sistema però che lui stesso aveva violato.

Pertanto Costantino, personaggio discutibile (uccise suo figlio e sua moglie) ma valentissimo generale, invase l'Italia nella primavera del 312, vincendo Massenzio prima nella battaglia di Torino e poi nella battaglia di Verona. Quindi prese la via Flaminia verso Roma e si accampò a Malborghetto vicino a Prima Porta, sulla riva destra del Tevere a poca distanza dal ponte Milvio, che si trovava alle spalle delle truppe di Massenzio.

Sul luogo dell'accampamento fu edificato successivamente un imponente monumento in ricordo degli eventi, un arco quadrifronte, l'Arco di Malborghetto del quale tuttavia nei secoli era stato perduto il ricordo



FORZE IN CAMPO

Secondo Zosimo, Costantino aveva riunito un grande esercito perchè nutriva sospetti nei confronti di Massenzio, però fu Costantino che si spostò per andare a combattere Massenzio e non viceversa. Il suo esercito era formato anche da barbari catturati in guerra, oltre a Germani, Celti e Britanni, con cui mosse alla volta dell'Italia attraverso le Alpi, nel passo del Moncenisio.

Costantino poteva contare su 90.000 fanti e 8.000 cavalieri, Massenzio su ben 170.000 fanti e 18.000 cavalieri tra i quali 80.000 tra Romani, Italici, Tirreni e Siculi, ottimi combattenti, e 40.000 Africani, combattenti meno validi.

Secondo i Panegyrici latini Costantino disponeva invece di 40.000 armati e Massenzio di 100.000.

Massenzio, che secondo alcuni non brillava come generale, aveva erroneamente posizionato i propri armati con alle spalle il fiume.

Costantino, dopo aver condotto un lungo combattimento contro le ali dell'esercito di Massenzio, che furono travolte scoprendo i fianchi della fanteria, la caricò facendola ritirare, mentre i pretoriani, essendo in posizione sul fiume, avevano deciso di resistere fino all'ultimo.

Dopo un lungo e sanguinoso combattimento, che si sarebbe svolto a Saxa Rubra (Roccia rossa), le truppe di Massenzio vennero sbaragliate mentre l'imperatore, fuggendo attraverso il Tevere, finì per annegarvi per il crollo del ponte che i suoi ingegneri militari avevano costruito a fianco di Ponte Milvio. Il corpo di Massenzio venne ripescato e la sua testa su una picca fu portata in parata dalle truppe vittoriose di Costantino.

Costantino fu accolto trionfalmente a Roma e proclamato imperatore unico d'Occidente. Dedicò la sua vittoria al Dio dei cristiani, di cui fece cessare le persecuzioni come aveva fatto in Gallia e in Bretagna. Così il cristianesimo si sviluppò e il clero ottenne dei privilegi che i sacerdoti pagani non si sognarono mai di avere sia nel numero che nei costi economici. Con l'editto del 313 Costantino mise fine alla persecuzione dei cristiani. I suoi successori inizieranno poi la persecuzione sui pagani.

«Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità.»



HOC SIGNO VINCI

Costantino sostenne di avere avuto, la sera del 27 ottobre, mentre le truppe si preparavano alla battaglia, una visione, i cui dettagli differiscono però tra le fonti, tutte agiografiche.

Lattanzio afferma che la visione ordinò a Costantino di apporre un segno sugli scudi dei propri soldati, un segno "riferito a Cristo", uno staurogramma, cioè una croce latina con la parte superiore cerchiata come una P. 

Non risulta che Costantino abbia mai usato questo segno al posto del più conosciuto 'Chi-Rho' descritto da Eusebio che a sua volta porta un'altra versione, anzi due.

La prima, contenuta nella Storia ecclesiastica, afferma che il Dio cristiano aiutò Costantino, ma senza alcuna visione. Nella Vita di Costantino, Eusebio descrive una visione, narratagli dallo stesso imperatore. 

Dunque Costantino mentre marciava col suo esercito scorse verso il sole, una croce di luce e sotto di essa la frase greca "Εν Τουτω Νικα" (Con questo vinci), reso in latino come In hoc signo vinces, "Con questo segno vincerai". 

Costantino, incerto sul significato della visione sognò quella notte che Cristo gli avesse detto di usare il segno della croce contro i suoi nemici.
Dunque la comparsa in cielo di questa scritta accanto a una croce sarebbe uno dei segni prodigiosi che avrebbero preceduto la battaglia di Ponte Milvio. Infatti, sull'iscrizione sull'Arco di Costantino, si narra la vittoria fu ottenuta "instinctu divinitatis mentis magnitudine", cioè "per ispirazione divina (e) grandezza intellettuale (di Costantino)". Sull'arco, però, non compare il nome della divinità in causa e non c'è alcuna rappresentazione del chi-rho.

L'episodio è raccontato soltanto nella Vita di Costantino, un'opera del vescovo Eusebio di Cesarea, stretto collaboratore di Costantino dal 325, asserendo che l'imperatore stesso glielo aveva riferito sotto giuramento. Ora che Costantino il Grande, uomo di scrupolo quasi nullo, che per farsi credere da un suo sottoposto, effettui un sacro giuramento lascia un po' perplessi.

Secondo il racconto di Eusebio, scritto subito dopo la morte dell'imperatore (quindi poteva inventarsi ciò che voleva), Costantino si orientò verso il monoteismo quando ancora si accingeva a venire a Roma per combattere contro Massenzio, però con una certa propensione verso il Dio Sol Invictus. 

In realtà Costantino alla religione ci pensò seriamente dopo aver acquisito i pieni poteri. Per ora era fervente seguace del Dio Mitra, ovvero il Sol Invictus che festeggiò fino alla fine dei suoi giorni.
Sempre secondo Eusebio, nei giorni successivi Costantino avrebbe chiamato dei sacerdoti cristiani per essere istruito sul cristianesimo, religione il cui contenuto non gli era ancora noto.



IL CHI-RHO

Il monogramma di Cristo o Chi Rho (o CHRISMON) è una combinazione di lettere dell'alfabeto greco, che formano una abbreviazione del nome di Cristo. Esso è un simbolo del sole, a cui Costantino fu sempre devoto, spesso iscritto in un cerchio con più raggi che rammenta la ruota cosmica derivante degli emblemi solari d'Egitto, ma tradizionalmente usato come simbolo cristiano.

Poiché Eusebio non specifica il luogo in cui sarebbe avvenuto il fenomeno miracoloso, sono sorte varie leggende che lo hanno collocato in diverse parti d'Italia. Una di queste sarebbe al disopra del Monte Musinè, e nel 1901, sulla cima del monte venne eretta una gigantesca croce con la scritta:

«IN HOC SIGNO VINCES - A PERPETUO RICORDO DELLA VITTORIA DEL CRISTIANESIMO CONTRO IL PAGANESIMO RIPORTATA IN VIRTÙ DELLA CROCE NELLA VALLE SOTTOSTANTE IN PRINCIPIO DEL SECOLO IV SUA MAESTÀ IL RE VITTORIO EMANUELE III MARCH. MEDICI SEN. DEL REGNO CONT. CARLO E CONT. GIULIA CAYS DI CASELETTE

PONTE MILVIO

L'INTERPRETAZIONE PAGANA

Costantino avrebbe avuto una visione mentre visitava il tempio di Apollo-Grannus a Grand, sulla via da Treviri a Lione, dove avrebbe visto tre "X" o tre corone d'alloro, promessa di un trentennio di vittorie: "Vidisti enim, credo, Constantine, Apollinem tuum comitante Victoria coronas tibi laureas afferentem quae tricenum singulae ferunt omen annorum". 

Qui è Apollo che promette la vittoria e nel 309 Costantino aveva fatto coniare  effettivamente delle monete costantiniane dedicate al sole invitto. La precisione dell'enunciato (il regno di Costantino, mai sconfitto in battaglia, durò poco più di trent'anni) induce a sospettare che si tratti di una profezia postuma o almeno dell'ultimo periodo.

Alcuni hanno cercato di conciliare Eusebio e Lattanzio, dando origine alla versione tradizionale, più rappresentata nell'iconografia, che colloca la visione celeste nel giorno precedente la battaglia. Altri hanno ipotizzato che la Vita di Costantino non sia opera di Eusebio o comunque sia stata interpolata dalla tradizione ecclesiastica.

Secondo gli studiosi la leggenda del sogno di Costantino derivava dal fatto che in quel periodo nell'esercito romano era particolarmente devoto al dio orientale del sole Mitra. che compare spesso nei castra militari e pure nelle terme di Caracalla, identificato con il Sol Invictus che i militari dipingevano sullo scudo con una croce sovrapposta ad una X, con al centro un cerchio), simile al chi-rho.

Pertanto la leggenda della visione di Costantino sarebbe la trasformazione di una leggenda pagana, che attribuiva non a Gesù bensì al Sole Invitto, l'apparizione nel luogo più logico, il cielo, assicurando la vittoria a Costantino e chiedendogli che fosse fatto quanto i soldati spontaneamente già facevano, ovvero dipingere il proprio simbolo sugli scudi. 

Non a caso Eusebio di Cesarea specifica che il simbolo apparve a Costantino sovrimpresso al sole. Dopo la morte di Costantino, la cui conversione al Cristianesimo non è assolutamente provata, ma la leggenda sarebbe stata definitivamente cristianizzata.


BIBLIO 

- Lattanzio - De mortibus persecutorum - XLIV -
- Eusebio di Cesarea - Storia ecclesiastica IX  e Vita di Costantino - 
- Eberhard Horst - Costantino il Grande - Milano - 1987 -
- Carlo Carena, Arnaldo Marcone - Costantino il Grande - La Terza - 2013 -
- Timothy Barnes - Constantine and Eusebius - Cambridge - MA Harvard University Press - 1981 -
- Eberhard Horst - Costantino il Grande - Milano - 1987 -
- Andrè Piganol - L'Empereur Constantin - 1932 -


CULTO DI MANIA

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LA MANIA ETRUSCA

La Dea Mania è una divinità molteplice, e non facile da interpretare, perchè tra le altre cose personificava la Follia. Di derivazione etrusca, nella mitologia, insieme a Mantus, suo paredro, governava il mondo dei morti. Spesso viene assimilata alle Erinni: infatti, come loro, tormentava gli spiriti degli umanicolpevoli di gravi reati.

Nella mitologia etrusca (e pure romana), Mania (o Manea) veniva ritenuta la madre di fantasmi, dei non-morti, e di altri spiriti della notte, una dea oscura citata solo da Plinio e Plutarco, così come era ritenuta madre dei Lares e dei Manes. Il suo nome rimanda a Mana Genita, una Dea oscura citato solo da Plinio e Plutarco.



LA MANIA GRECA 

La Mania greca è spesso associata alla Dea greca Lissa, rappresentata da Euripide nell'"Eracle" come una Furia che per ordine di Era, Iride conduce al cospetto di Eracle perché se ne impossessi; così l'eroe, impazzito per furore, uccide moglie e figli.

Le Maniae (divinità, al singolare: Mania), nell'antica religione greca, erano un gruppo di spiriti personificanti la follia e la frenesia degli impulsi incontrollabili. Operavano in stretto contatto con Lissa, lo spirito di rabbia incontenibile. Nella mitologia greca, è la Dea della follia e
Pausania ci informa che le era dedicato un santuario in Arcadia, tra Megalopoli e Messene.



LA MANIA ROMANA

Nella mitologia romana Mania (Manea) è la Dea degli Spiriti e del caos. Varrone la identifica con la Madre dei Lari, Mater Larum, romana Dea ctonia identificata con Mania da Varrone, per cui le dà una connotazione più positiva. 

Venne identificata anche con Larunda, la ninfa a cui Giove fece tagliare la lingua per aver svelato a Giunone una sua infedeltà. Larunda somiglia pertanto a Tacita, anche lei muta, pertanto Dea che conserva i Sacri Misteri e i giuramenti, ma pure a Regina dell'oltretomba in quanto inviata nel mondo dei morti. A condurla è Mercurio che di lei si invaghisce e ne ottiene due figli.

MERCURIO RIEMERGE VITTORIOSO DALLA PORTA DELL'ADE

LA FOLLIA

Per gli antichi romani esistevano, come per i sogni, due sorgenti, una derivava dagli uomini e una derivava dagli Dei. Pertanto occorreva porgere attenzione a ciò che dicevano i folli, perchè per loro traite potevano parlare gli Dei Immortali.



SE NE DEDUCE CHE

- La Dea conserva un segreto,
- E' regina del mondo dei morti,
- Gestisce un grande segreto conosciuto da pochi,
- Su questo segreto sono improntati i Sacri Misteri,
- E' la Dea che si accoppia con Mercurio, colui che fa da tramite tra uomini e Dei, e che conduce, in qualità di psicopompo, le anime nell'Aldilà,
- E' la Dea che può procurare la follia, e ricorda Atteone che ha osato svelare la Diana Nuda.

Pertanto la Dea Mania è colei che può svelare il segreto della morte e del dopomorte, cosa che può donare l'intelligenza di Mercurio, la conoscenza del regno dei morti, oppure la follia di che non ne sopporta la visione.


BIBLIO

- Giovanni Colonna - "Sacred Architecture and the Religion of the Etruscans" - in The Religion of the Etruscans - University of Texas Press - 2006 -
- Lattanzio - Divinae institutiones - I -
- George Dumezil - La religione romana arcaica (La religion romaine archaïque, avec un'appendice sur la religion des Étrusques - Parigi - Payot - 1964) - Milano - Rizzoli - 1977 -
- Mary Beard, John North e Simon Price - Religions of Rome: A History - Cambridge University Press - 1998 -

CAENINA (Città scomparse)

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ANICHI DEI DEL LATIUM VETUS

Caenina fu una città del Latium vetus, una tra le più antiche e tra le prime scomparse. Secondo Dionigi di Alicarnasso era di origine greca, secondo altri venne fondata dagli Aborigeni (i più antichi abitanti dell'Italia Centrale). I suoi abitanti erano detti Caeninenses.

La sua distruzione è attribuita allo stesso Romolo (LiY, 1, 10, 4. Pint. Ro) e a questa leggenda si riferiscono dei monumenti epigrafici. Primariamente l'elogio scoperto a Pompei (C. I el. XXn p. 283 =X 809): "Romulus Martis filius urbem Romam
condidit et regnavit annos duodequadraginta.
Jusque primus dux duce hostium Acrone rege Caeninensium
interfecto spolia opimna lovi Feretrio consecravit
receptusque in deorum numerum Quirinufs appellatus est"

(cf. Liv. 4, 19. Propert. 1. c. Val. Max. 3, 2, 3. Fest. p. 189).

Inoltre,. un frammento di tavola trionfale scoperto nel 1872 nel foro Romano riportava (EE. 1 p. 157):
"Romulus Martis filius rex ann. , . , de Caeninemihus Kalendas Afar .... etc.

A questo trionfo di Romolo accenna Solino (1, 20 p. 9 Momm.) cf. Henzen, EE. 1. c. Non si sa quando avvenne la distruzione della città, ma i suoi culti ebbero la medesima sorte di quelli di altre città latine conquistate (cf. Albani, Cabenaes, Lanavini, Lanrentes Lavinates, Sncinfani, Tuscalani saoerdotes), furono cioè dichiarati culti pubblici o dello Stato (sacra publica populi Romani), costituendosi un collegio sacro per essi, composto di sacerdotes Caeninenses (C. V 4059. 5128.— X 3704. — XI 3108. — Xn 671; cf sacerdos Caeninensium C. XI 2699 ; sacerdotium Caeniniense C. VI 1598) o semplicemente Caeniaensis (C. IX 4885).

Oggi, dopo alcuni scavi effettuati, gli studiosi sono concordi nel situare la scomparsa Caenina sulla sponda sinistra del fiume Aniene, 10 km prima della sua foce nel Tevere.

Due lapidi greche (CIA. m 623. 624) ricordano un sacerdote di nome Quintus Trebellius Bufus.

Questi sacerdoti, come in genere quelli di altre città latine, nell'lmpero dovevano appartenere all'ordine equestre, ciò che è provato dalle lapidi citate, ed erano nominati dal pontefice massimo, alla cui vigilanza eran posti, donde l'indieazione per uno di essi (C. XI 3108): "a pontifex creatus", e, per un altro (C. VI 1598): "a divo Antonino equo publico et sacerdotio Caeniniensi .... exomatus" (Cf. Mommsen, Staatsr. 2» p. 26; 8 p. 567. 580).

Sia Plutarco che Dionigi di Alicarnasso, che attingono entrambi a Quinto Fabio Pittore, riportano due miti sulla città di Caenina.

POSIZIONE DI CAENINA

Il I MITO - o la storia -

In questo mito Romolo e Remo all'età di 18 anni si scontrarono coi pastori di Numitore per il controllo dei pascoli, riuscirono a difendersi ma poi Remo fu catturato in un'imboscata mentre Romolo si trovava a Caenina per celebrare un rito sacrificale.



IL II MITO - o la storia -

Dopo il quarto mese dalla fondazione di Roma, in agosto, Romolo trovò sottoterra nel Circo Massimo una statua del Dio Conso, lo considerò un dono divino e organizzò una festa per il Dio detta Consualia. Alla festa vennero invitati gli abitanti di Caenina, Antemnae, Crustumerium, e della Sabina. Durante la festa i romani inscenarono una rissa e profittando della mischia rapirono le donne straniere.

Per vendicarsi Caenina, Antemnae, Crustumerium e i Sabini si allearono contro i romani, ma il re di Caenina, Acrone ansioso di misurarsi, sfidò Romolo in duello e ne rimase ucciso. Dopodichè Romolo, conduce i Romani all'assalto di Caenina, che viene subito conquistata. Questo avvenne tra il 753 ed il 751 a.c..

IL TRIONFO DI ROMOLO

Quindi Romolo, in veste purpurea su una quadriga, portò in trionfo le spoglie di Acrone sul Campidoglio e le appese sulla quercia sacra di Giove Feretrius a cui dedicò un tempio. Da qui nacque il trionfo e il corteo trionfale. La dedicazione della spolia opima fu un onore concesso solo tre volte: a Romolo uccisore di Acrone, ad Aulo Cornelio Cosso vincitore dell'etrusco Tolumnio re di Veio e a Marco Claudio Marcello che uccise Viridomaro, re dei Galli Gesati.

Sconfitti anche gli altri nemici il Senato romano decretò che gli abitanti delle città vinte Antemnae e Caenina si trasferissero a Roma e le due città fossero trasformate in colonie.mentre per altri i romani vi stabilirono una colonia di 300 uomini, cui furono cedute terre dei Ceninesi estratte a sorte. Il resto del territorio venne annesso all'Ager Romanus e destinato alla tribù rustica Menenia. 

Abbandonare la propria città depredata deve essere tragico, e il dolore si carica di apparizioni e di spettri. Si tramanda che un sacerdote caeniniense, ovvero il suo fantasma, apparisse a Roma per molti anni dopo che la città era scomparsa.


BIBLIO

- Livio - Ab Urbe condita libri - I -
- Plinio il Vecchio - Naturalis historia - III -
- Plutarco - Vita di Romolo -
- Theodor Mommsen - Storia di Roma, Vol. I, Cap. IV - La città Palatina ed i Sette colli - Milano - Dall'Oglio - 1961 -

III GUERRA MACEDONICA ( 171-168 A.C.)

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I romani avevano a suo tempo tentato per via diplomatica di far desistere il re di Macedonia, Filippo V, dalla conquista delle coste della Tracia e di alcune zone della Grecia. Filippo obbedì e si concentrò sulla conquista delle zone interne della Tracia, coll'intenzione però di formare una coalizione con gli stati barbari onde abbattere la Repubblica romana.

Nel 179 a.c. - Filippo morì e il regno passò al figlio Perseo, ostile ai romani, anche se manteneva la pace, cercando intanto tutte le possibili alleanze anti-romane. Perseo si era sposato con Laodice, figlia di Seleuco IV d'Asia, aumentando così il suo potenziale militare, e aveva stretto alleanze con il regno dell'Epiro e con le tribù di Illiria e Tracia. Ora l'ambizioso Perseo voleva conquistare la Grecia,  annunciando che avrebbe potuto portare riforme in Grecia e restaurarne l'antica forza e bellezza.

- 172 a.c. - Viceversa il re di Pergamo Eumene era nemico di Perseo e alleato dei romani, e nel 172 a.c. andò a Roma per manifestare le sue preoccupazioni per la politica macedone in Grecia e in Tracia. I romani però, che non erano ancora pronti alla guerra, presero tempo, per ricostituire la flotta e le armi di attacco e di assedio, nonchè ricostituire ed allenare l'esercito.

Perseo non osò attaccare per primo, e quindi il conflitto venne rimandato al 171. Così in quell'anno i Romani, avvisati da Eumene II (221 a.c. – 160 a.c.) re di Pergamo degli attacchi di Perseo alle tribù balcaniche amiche o alleate di Roma, gli dichiararono guerra. Era iniziata la terza guerra macedonica.


I MACEDONI

LA III GUERRA MACEDONE (171 a.c. - 168 a.c.)

La Grecia comunque non si alleò con Perseo, un po' intimorita dalla potenza romana e non troppo convinta della forza della Macedonia. Gli Etoli si schierarono con Roma per contrastare le ambizioni del regno macedone e la lega Achea era già alleata coi romani, come Pergamo e Rodi. Così Perseo si trovò piuttosto isolato.

Le prime battaglie furono favorevoli a Perseo. I romani combattevano in modo disorganizzato, abbandonandosi alle violenze verso le popolazioni locali. Questo favorì un nuovo cambiamento negli umori dei greci, che sembrarono tornare dalla parte della Macedonia. In quello stesso anno Perseo sconfisse presso il villaggio di Kalliniko, vicino all'odierna città greca di Larissa, in Tessaglia, l'avanguardia romana (Battaglia di Callinicus). Tuttavia Perseo tendeva a non sfruttare il vantaggio delle vittorie, ma rimaneva fermo, ossessionato dalla possibilità di perdere ciò che aveva conquistato.

OPLITA MACEDONE
Nel 170 e nel 169, la Macedonia ebbe però importanti conferme dalle battaglie navali nell'Egeo. Il re Perseo offrì le condizioni di pace ai romani che le rifiutarono. Per diverso tempo i romani ebbero problemi a disciplinare le proprie truppe, e i loro comandanti non riuscirono a trovare la via per invadere con successo la Macedonia. 

Rodi, credendo che i romani non fossero in grado di concludere il conflitto, chiese loro di intavolare trattative di pace col nemico per salvaguardare gli interessi commerciali della sua flotta. Si mormorava che persino Eumene di Pergamo fosse in trattative segrete con Perseo.

Nel 169 a.c. il console Quinto Marcio Filippo arrivò a Brindisi con 5.000 uomini di rinforzi ed insieme al cugino Gaio Marcio Figulo, che era al comando della flotta, salparono per la Grecia. Giunsero a Corcira el poi ad Azio, nella regione della Acarnania. Il console sbarcò ad Ambracia e procedette via terra verso la Tessaglia, dove rilevò l'esercito e puntò sulla Macedonia. Giunse dopo dieci giorni tra i monti della Perrebia, al confine fra Macedonia e Tessaglia, occupando le città di Azorus e Doliche. Da qui passò per la zona montuosa dell'Olimpo.

Dopo alcuni giorni di arrampicata su un terreno ripido e accidentato, i soldati romani sul passo di Lapathus, trovano ad attenderli 12.000 soldati macedoni comandati dal generale macedone Hippias. I romani attaccarono per due giorni, ma il passo era molto stretto e facile da difendere. 

Marcio, considerando che i suoi uomini non potevano durare a lungo, cercò una strada diversa e dopo quattro giorni raggiunsero la costa fra Heracleum e Libethrum, in attesa del nuovo console. Nel frattempo, Perseo sconfisse un altro contingente romano in Illiria. Il re macedone provò a portare Eumene II e Antioco IV dalla sua parte, ma non vi riuscì.

TRIONFO DI EMILIO PAOLO

LUCIO EMILIO PAOLO

In realtà Roma non aveva ancora inviato i giusti generali, capaci di avere la stima dell'esercito e le giuste tattiche di guerra. Finalmente venne eletto console nel 168 a.c. Lucio Emilio Paolo che, valentissimo generale, prese il controllo delle operazioni, riportando immediatamente la disciplina nell'esercito. Egli riuscì con il suo esercito a confinare Perseo nelle vicinanze di Pidna, in Tessaglia.

La battaglia di Pidna, iniziata alle 15.00 circa terminò soltanto un'ora dopo. Da una parte l'antica falange macedone, dall'altra i nuovi manipoli romani, meno compatti ma molto più snelli e maneggevoli. La falange macedone iniziò la battaglia avanzando contro le prime file dei Romani formata da peligni e marrucini che coraggiosamente assalirono la falange in marcia, cercando di mozzare le lunghe sarisse (picche di 6-7 m.) macedoni con le spade e addirittura strappandole con le loro mani. Ma i Macedoni, rafforzando la presa sulle sarisse riuscirono a massacrare gli alleati italici.

Allora Emilio Paolo ordinò la ritirata sul monte Olocro, e Perseo esortò i propri uomini ad inseguirli, ma era quello che Emilio Paolo sperava. Le falangi, più pesanti dei manipoli, rincorsero sul terreno sempre più collinare, finchè si stancarono e si scompattarono. Allora Emilio Paolo ordinò ai più flessibili manipoli di raggrupparsi in vari punti fra le colline affinché attaccassero i Macedoni nei punti scoperti del loro schieramento. 

LE LEGIONI ROMANE

La falange quindi, penetrata soprattutto dalla destra romana che poi avanzò verso il centro dello schieramento nemico, venne distrutta nel corpo a corpo nel quale i Romani, muniti di maneggevoli gladi, risultarono molto avvantaggiati rispetto ai Macedoni, per i quali le sarisse divennero di intralcio. Più di 20.000 macedoni furono uccisi mentre 11.000 furono fatti prigionieri. Vista la disfatta della fanteria, la cavalleria macedone, che non aveva ancora combattuto, preferì ritirarsi piuttosto che combattere.

Perseo fuggì nella città di Samotracia con i suoi tesori, ma venne catturato, deposto, privato dei suoi privilegi regali e portato a Roma. La Macedonia venne divisa in quattro repubbliche, stati clientes della repubblica romana che non potevano intrattenere alcun rapporto tra loro. La Lega Achea fu costretta a consegnare 1000 persone di lealtà sospetta, tra cui il famoso storico Polibio. Queste repubbliche furono costrette a pagare tributi a Roma. I rapporti tra la Macedonia e la Grecia furono ridotti. 

Questa fu la definitiva fine della Macedonia ellenistica e della dinastia degli Antigonidi, cioè discendente dal generale di Alessandro Magno, Antigono I Monoftalmo. I Romani, in seguito, abbandonarono la linea di politica filo-orientale attuata dagli Scipioni per adottarne una molto più energica nei confronti dei popoli assoggettati.

La Macedonia fu divisa in quattro repubbliche, ognuna delle quali amministrate da un'assemblea composta dai rappresentanti di città e villaggi. I rapporti possibili tra queste quattro repubbliche furono inoltre fortemente limitati.

Secondo Polibio, Emilio Paolo dopo la fine di Perseo distrusse settanta città della Macedonia, la maggior parte delle quali apparteneva al popolo dei Molossi, e ridusse in schiavitù 150.000 persone. Secondo lo storico Plutarco, di ritorno dalla guerra Lucio Emilio Paolo portò a Roma l'intera biblioteca di Perseo.


BIBLIO

- Polibio - Storie - XXX - 15 -
- Plutarco - Vite Parallele, "Vita di Emilio Paolo" - 28 -
- John Thornton - Le guerre macedoniche - Carocci - Roma - 2014 -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - XXI-XXX -- Appiano di Alessandria - Historia Romana - Guerra Siriaca - 1 -
- Cornelio Nepote - De viris illustribus -
- Strabone - Geografia - V -

CAVUS CURIANUS - LA CASCATA DELLE MARMORE

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Con il nome di Marmore, si indica la parte occidentale della pianura di Rieti, ad oltre 160 metri sopra la sottostante valle, dove scorre il fiume Nera (Nar) su cui si riversa il fiume Velino (Mellino). Il nome marmore deriva da marmo, il nome che fin dall'età del bronzo venne dato alla pietra calcarea.

L'ammasso di concrezione calcarea che si innalza dai piedi della cascata fino al piano delle Marmore, costituisce una barriera naturale alla valle sottostante. Plinio il Vecchio scrive: « in exitu paludis reatinae ubi saxum crescit ». dove saxum è il nome che Plinio dà alla gigantesca concrezione di calcare formata dalle acque del Velino, ricche di bicarbonato di calcio e di altre sostanze solubili, provenienti dalle sorgenti di Terminillo, d’Antrodoco e Cutilia, tutte sostanze depositatesi a seguito dell'intensa attività vulcanica che si ebbe in quelle zone circa 2 milioni di anni fa.

In epoca romana, prima di unirsi al Nera, le acque del Velino formavano piccole cascate interrotte da pozzi, caverne e fosse, che ancora oggi, danno il nome a località vicine alla cascata. L'erosione naturale delle acque che poteva abbassare le concrezioni viene sovrastato dall'accumulo continuo di calcare, per cui il Velino non può sfociare liberamente nella valle del Nera, provocando l'impaludamento (lacus velinus) della valle reatina con danno alle attività agricole, nonchè malattie a umani e animali.

Il mito narra invece che la ninfa Nera si fosse innamorata del pastore Velino irritando Giunone, regina e madre di tutti gli dei dell'Olimpo che, per punizione, la trasformò nel fiume Nera che ancora oggi porta il suo nome. Velino, colto dalla disperazione, con un salto destinato a perpetuarsi per l'eternità, si gettò dalla rupe di Marmore, ricongiungendosi con un abbraccio mortale, alla donna amata.
Ma le cose andarono altrimenti e fu un valoroso e intelligente generale romano a creare la splendida cascata che ancora oggi ci godiamo.

L'INCORRUTTIBILE MANLIO CURIO DENTATO

MANLIO CURIO DENTATO

Uno dei più grandi romani del sec. III a.c.,
"Che non fu mai vinto nè dal ferro nè dall'oro."
"quem nemo ferro potuit superare nec auro"

(Ennio in Cic., De Rep., III, 6)

Manlio Curio Dentato combatté e vinse la Terza guerra sannitica contro i Sanniti e i loro alleati, ponendo fine ad una guerra che durava da ben 49 anni. Per questa importantissima vittoria gli venne concesso un grande trionfo. Di nuovo i Sanniti si ribellarono e di nuovo li sconfisse. Poichè il console suo collega venne ucciso dai Senoni, li affrontò e li sconfisse. 

Nel 275 venne eletto console per la seconda volta e sconfisse l'esercito di Pirro A Benevento. Eletto console per la terza volta sconfisse i Lucani e celebrò un ennesimo trionfo. Durante questo mandato, da uomo intelligente e attento com'era, si preoccupò dei terreni coltivabili che assicuravano il cibo alla gente.

Così iniziò la costruzione dell'acquedotto Anio Vetus, e nel 271 a.c. ordinò la costruzione di un canale (il Cavo Curiano) per far defluire le acque stagnanti del fiume Velino, che rendevano paludosa e malsana la Piana di Rieti. Da lì l'acqua precipitava direttamente nel fiume Nera, affluente del Tevere. Con questa costruzione rese coltivabili tutte le paludi che circondavano la città e aumentò la portata della caduta delle acque creando la magnifica Cascata delle Marmore, una delle più alte e più belle d'Europa, come si ammira a tutt'oggi.

Al termine dell'opera infatti, le acque del Velino diedero origine al meraviglioso spettacolo della grande cascata delle Marmore, e, potendo riversarsi nella valle sottostante più rapidamente, favorirono il prosciugamento delle pianure reatine e le attività agricole connesse.
    



IL SEGUITO

All'apertura del cavo Curiano, seguirono benefici alle popolazioni reatine, ma anche disagi agli abitanti della valle del Nera, soprattutto ternani e narnesi, i quali dovevano subire le inondazioni del fiume non in grado di defluire anche le acque del Velino, soprattutto nei periodi molto piovosi. Iniziarono così contrasti secolari tra i ternani che cercavano di occludere il cavo Curiano ed i reatini, che volevano impedirlo arrivando talvolta a vere e proprie operazioni di guerra.

Testimonianze dei dissensi tra Terni e Rieti, derivati dall'apertura del cavo Curiano, ci sono fornite da Cicerone, il quale sostenne le ragioni dei reatini contro quelle ternane. Sul giudizio, espresso da un consiglio di magistrati di Roma presieduto dal console Claudio Pulcro, non si hanno testimonianze ma la sentenza fu ritenuta soddisfacente da entrambi i contendenti, i quali esaltarono l'operato dei propri difensori.
 
Le inondazioni della valle reatina, Con la caduta dell'impero romano d'occidente (476 d.c.) cessò la manutenzione del canale e nel medioevo gli impaludamenti, oltre a ridurre le terre coltivabili erano causa per le popolazioni, di malattie e pestilenze. D'altronde con la caduta dell'Impero il mondo perse la magnifica civiltà romana.



BIBLIO

- William Smith - M. Curius Dentatus - Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology - 1870 -
- Plinio il Vecchio - Naturalis historia - VII, 16 -
- T. Livio - Ab Urbe condita libri -
- Cicerone - Epistulae ad Atticum -
- Luigi Pareti - Storia di Roma e del mondo Romano - Unione tipografico editrice torinese - 1952 -

RICETTE DELL'ANTICA ROMA

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PANE

- Pane Artolaganus - farina, olio evo, uva passa, mandorle spellate, miele, sapa (mosto cotto), pepe e sale. Impastare formando una pagnottina tonda, spennellarla con acqua e cuocerla.



ANTIPASTI

- Acetaria - i romani facevano confetture nell'aceto di erbe (gambi di sedano, zucchine, cardi, coste di bietole), di frutti (mele, melecotogne, melograni) e di radici (carote, rape, barbabietole, ravanelli), e deifsti delle orobanche, per stuzzicare l'appetito. Plinio cosi ne parla: stomachum in acetariis sumpta corroborat. (Luigi Rusconi 1859).

- Libum primum - Sciogli bene in un mortaio due libbre di formaggio. Quando lo avrai reso del tutto liscio impasta bene col formaggio una libbra di farina o, se lo vuoi più leggero, mezza libbra. Aggiungi un uovo e di nuovo impasta tutto attentamente. Forma la pagnotta, ponila sopra un letto di foglie e falla cuocere lentamente in un forno caldo. (Catone, De agricoltura)

- Libum secundum - Si prepara dell'alloro fresco sminuzzato in una tazzina d'olio d'oliva lasciandolo per almeno un'ora, poi si impasta la farina di frumento con acqua, uovo e poco sale e vi si mescola un po' di formaggio in scaglie, infine si aggiunge l'olio con l'alloro sminuzzato e si pongono sopra la focaccia foglie di alloro fresco. Si cuoce in forno.  (Catone, De agricoltura)

- Libum moretum (Virgilio) - unisci la ricotta al caciofiore sminuzzato, olio, aglio sbollentato, aceto rosso, coriandolo fresco, qualche foglia di sedano e di mentuccia.  

- Caciofiore (Columella) - Tosta una fetta di pane, spalmala con un velo di miele e poggiaci sopra una fettina di caciofiore (una specie di pecorino romano). Da consumare caldissimo.

Gustum de praecoquis (antipasto di albicocche) - scegli piccole albicocche dure primaticce, lavale, togli i noccioli e disponi in terrina con acqua. Pesta pepe, menta secca, aggiungi miele, passito, vino e aceto, copri di liquame e versa sulle albicocche, aggiungi olio e fai cuocere a fuoco lento. Quando avrà bollito, lega con amido. Spargi di pepe e servi.

- Frittelle di formaggio - albumi d’uovo montati a neve, mescolati poi con i tuorli, miele, formaggio caciofiore sminuzzato, pepe sale. Mescolare tutto e aiutandosi con un cucchiaio versate il composto in olio caldo fino a doratura (Catone).

- Formaggio alle erbe - (di Columella): Tritare insieme pecorino fresco e ricotta, aggiungere della santoreggia, un pò di ruta, coriandolo, cipolline fresche, qualche foglia di lattuga, timo e menta. Infine amalgamare con olio, aceto e pepe tritato.

- Insalata - di mollica di pane bruscato, cubetti di formaggio, con olio d'oliva e capperi.

- Tortino al formaggio - Impasta con una forchetta da 2 a 6 o più cucchiai di miele con 5 uova e 250 gr. di formaggio bianco. Diluisci gradualmente con 600 ml. di latte crudo; cola per eliminare grumi e, soprattutto, bolle d'aria. Cuoci al forno medio in una teglia unta di olio, coperta e sigillata finché è sodo. Rovescia su un piatto di portata quando è freddo; lascia riposare mezz'ora, scola via il latticello eventualmente separato e spolvera di pepe prima di servire.

- Torta da rovesciare: mescolare pinoli e delle noci tritate, tostarli e sminuzzarli con miele, pepe, garum, latte e uova. Unire un po' d'olio e passare al forno.

- Gustacium - Mettere in un piatto dei pistacchi con delle albicocche, delle noci, nocciole e datteri, uova, capperi e olive. Accompagnare i vari alimenti con dei pezzi di focaccia (libum) spalmati di moretum o epytrum o, per palati forti, di allec (la parte solida del garum).

Epityrum, pasticcio di olive “Olive da formaggio”, condite con erbe e spezie da mangiare con il formaggio di capra o di pecora.

- Focaccia al moretum - Preparare una focaccia, il moretum (crema di aglio e cacio) e una pasta di olive: pulire e togliare le lische alle acciughe e le frulliamo insieme a olio, aglio, olive e capperi. Per rendere più morbida la crema che si ottiene, usare l'olio.

Fette di focaccia salata - condite con il moretum, una sorta di crema di aglio e cacio.

- Savillum, un impasto di farina, ricotta, miele e papavero, accompagnato dal garum, (salsa ricavata dalla colatura delle alici e dalla salsa di soia), il tutto innaffiato da un bicchiere di mulsum, il famoso vino romano al miele. (Il garum può essere sostituito da pasta di acciughe).

Olive nere in agrodolce: Si prepara una marinata composta da 3 parti di miele ed una di aceto, nonché un pizzico di semi di finocchiella, il tutto sufficiente a coprire interamente le olive.

- Olive ripiene: tostare la farina di frumento in un pentolino, poi cuocere con un filo olio e un po' di sale della carne tritata e del pesce sminuzzato. Unire la farina con la carne, il pesce e un filo d'olio d'oliva, Inserire il composto in olive ascolane del Piceno e servire.

- Impastare insieme della ricotta di pecora fresca, farina, uovo, sale e pepe, facendone delle palline da porre su foglie d’alloro da passare in forno finché non saranno ben dorate.

-  Caseus -  Impastare formaggio di capra, pinoli, mentuccia, timo, santoreggia, origano, aceto, pepe, olio. Si può spalmare sul pane abbrustolito.

- Con le bacche di mirto,  i Romani aromatizzato un insaccato di carne di maiale aggiungendovi sale, aglio, pepe nero e si chiamava “myrtatum”, sicuramente il progenitore della mortadella. Veniva tagliato a fette sottili come antipasto.

LA CULINA

VERDURE

- Sufflé di asparagi di Apicio - (x4 persone): spezzettare 2 kg di asparagi e passarli; mescolare a parte pepe, garum, un bicchier di vino e 3 cucchiai d'olio e farli soffriggere. Aggiungere 6 uova e la crema di asparagi. Spalmare una casseruola con il composto e disporre 4 petti di pollo cosparsi di pepe abbondante. Far cuocere quanto serve.

- Funghi cotti in padella con con olio, sale e miele.

- Aliter Caroetas  Carote in salsa di cumino. Si lessano le carote e si ricoprono con salsa di cumino preparata in questo modo: si pestano insieme ½ porro, ½ cucchiaino di semi di cumino, un cucchiaio di farina, brodo vegetale quanto basta, olio di oliva, sale e pepe nero.

Erbe selvatiche usate all'epoca:
il pungitopo (Ruscus aculeatus), la borragine (Borrago) la vitalba (Clematis vitalba), la ferula (Ferula communis), il finocchio di mare (Chritmum marinum), il sonco (Sonchus oleraceus), il ramolaccio (Rumex sp.), il lapato (…), il tamno (Tamnus communis), la canna (Arundo donax),il macerone (Smirnium olusatrum), la scilla, identificata con il muscari (Muscari comosum), l’ enula o l’ elenio (Inula helenium), il blito (Amaranthus blitum), lattuga selvatica (lactuga semola), l’ atreplice (Atriplex sp.) il nasturzio (Nasturtium officinale) l’ erba porcellana (Portulaca oleracea).

Cardi in salsa d'uovo - lessare i cardi con poca acqua. Metti in un tegame la salsa di soia, la pasta d'acciughe (oppure il garum) e l'olio; mescola e porta ad ebollizione poi spegni. Disponi i cardi nella salsa, affetta le uova sopra i cardi, copri. Fai marinare a caldo, senza bollire.

- Procurarsi foglie di erbe prevalentemente selvatiche come lattuga scura, crescione, borragine, bieta selvatica, coriandolo, senape, papavero, cipolla, aglietto. Si prenda una tazza di latte cagliato, dove si aggiunga aceto, sale e pepe. Con la salsa realizzata si condiscano le erbette ben pulite e lavate. 

- Procurarsi foglie di erbe prevalentemente selvatiche come lattuga scura, crescione, borragine, bieta selvatica, tutte crude, e conditele con olio, garum e aceto.

- Procurarsi foglie di erbe prevalentemente selvatiche come lattuga scura, crescione, borragine, bieta selvatica, cuocetele in pentola con pepe, cumino e bacche di lentischio.

- Pulite e lavate della cicoria, scolatela e sminuzzatela. Aggiungetevi poche aggiughe, delle cipolle e delle uova sode tagliata a rondelle sottili. Condite con sale, aceto e olio d’oliva. 

- Castagne venivano lessate, sgusciate e poi ripassate in padella con finocchi olio e sale.

- Cuocete gli asparagi al vapore e fateli freddare. Amalgamate i tuorli d'uovo con ventresca di tonno, olio di oliva, capperi, succo di limone, sale e pepe, e aggiungete la crema ottenuta dagli albumi che avete montato a neve ben ferma. Con il composto ottenuto coprite gli asparagi.

- Lenticula - Lenticchie, porro, coriandolo, puleggio, laser (assafetida), menta, ruta, aceto, miele, garum, vino cotto, olio, pepe, amido di frumento. Si impasta il tutto e si fanno delle palline che si cuociono in forno.

- Insalata di fiori e foglie di Issopo.

- minestra di fiori di issopo, insaporita con sale, cipolla e lardo. 



PRIMI PIATTI - FERCULAE PRIMAE

- Polenta di farro - preparata in un contenitore di terracotta "pultarium" dove si aggiungeva acqua, sale, latte, lardo, oppure fave (puls fabata), o cavoli, o cipolle, o formaggio (puls caseata) ed anche pezzi di carne o pesce.

- Polenta di frumento (puls o pulmentus) - simile a quella di farro.

- Zuppa di sorgo - ceci ammollati a cuocere in una pentola con uno spicchio di aglio, qualche foglia di alloro e rametti di rosmarino. In una padella fai scaldare l’olio di oliva, aggiungi la cipolla, la zucca a cubetti, due carote e un pezzettino di sedano. Unisci il sorgo già ammollato e circa un litro di acqua leggermente salata. Poi aggiungi i ceci già cotti, aggiungi gli spinaci, cuoci in padella con olio, sale e un pizzico di peperoncino. Spegni la zuppa, aggiungi gli spinaci e mescola dolcemente.

 Zuppa di Varrone - barbabietola tagliata e cotta in un bicchiere di "mulsum" (vino bianco cotto, per con miele pepe e anice stellato), olio, sale e lessare in un litro d'acqua.

 Minestra di broccoli - Lessare i broccoli in acqua salata e sistemarli su un piatto bagnandoli col vino passito. Preparare un semolino poco denso aggiungendovi a metà cottura l'uva passa, i pinoli,il sale ed il pepe e poi versatelo sui broccoli.

- Minestra di sedano - con acqua, sale, lardo e coste e foglie di sedano, dove si intingeva pane di frumento essiccato o abbrustolito.

- Minestra di cipolle - con aglio, timo, alloro e rosmarino, dove si intingeva pane di frumento essiccato o abbrustolito.

Aphotermum - immergi il farro con molta acqua per almeno 12 ore. Aggiungi pinoli e  mandorle e lessa fino a che il farro è morbido. Aggiungi uva passa, vino passito, e mescola bene, infine aggiungi  pepe tritato. Servi freddo.

- Conchiglia commodiana - Cuoci i piselli. Quando avranno schiumato, pesta pepe, ligustico, aneto, cipolla secca, bagna con liquame, emulsiona con vino e liquame. Metti in tegame affinchè si imbeva. Poi sciogli 4 uova, metti i piselli, mescola, metti in pentola sul fuoco, affinchè si rapprenda, e servi.

- Brodetto di cavolo - con intinto un pane realizzato con acqua farina di frumento, uova e formaggio.

- Algida pisa et porra - crema di piselli e porri, con acqua e latte, consumata fredda.

- Concicla - purè di verdure, per lo più selvatiche. Si spalmava sul pane bruscato.

- Lagana - antica lasagna cotta al forno, con larghe strisce di pasta ottenute da farina di frumento, con strati di carne e spezie.

- Tortino di piselli - con cipolle e farro cotto.

- Terrina di bietole (Apicio) - Far cuocere le bietole pulite e spezzettate in una pentola di coccio con i bocconcini di pollo, sale e pepe, vino passito, cumino e semi di sesamo tostati.
- Carduos (cardi) - Lessa un cespo di cardi, rassoda le uova, aggiungi la salsa di soia, il liquamen (la pasta d'acciughe) e l'olio; mescola e porta all'ebollizione. Disponi i cardi nella salsa, affetta le uova sopra i cardi, copri. Fai marinare a caldo, senza bollire, e servi caldo.

- Farinata di ghianda - di quercia usata anche per minestre. 

- Puls - far bollire in acqua e latte un tritello di grano o farro, girando continuamente e inserendo cervella di maiale tritate. Aggiungere infine vino, pepe pestato e sale. Il puls ottenuto, può essere cosparso di garum.

- Zuppa digeribile - bollire delle bietole sminuzzate e dei porri conservati, poi mettere in una scodella con pepe, cumino, garum, e vino passito. Bollire finchè è cotto. 

- Antipasto di verdure e carne - condisci i bulbi con garum, olio e vino. Quando saranno cotti (aggiungi) fegato di maiale e di gallina, le zampe e le ali fatte a pezzi e fai cuocere tutto con i bulbi. Quando saranno cotti, macina pepe, ligustico, spargi un po' di garum, vino e vino passito per addolcire, annaffialo col suo sugo e versa sui bulbi. Quando tutto sarà ben cotto, al momento opportuno legalo con l'amido.
    GARUM

    CONDIMENTI SALSE

    - Salsa Garum - Ricetta di Gargilio Marziale: 2 cucchiai di pasta d'acciughe stemperate in succo d'uva ristretto, bollito fino a ridurlo a 1/10. Mescolate con un pizzico di origano. 

    Salsa Garum - Ricetta di Apicio, la più completa: “ Si prendono pesci grossi come salmoni, anguille, sardine: quindi a tali pesci si uniscono sale, erbe aromatiche secche come l’aneto, la menta, il levistico, il puleggio, il serpillo. Di queste erbe si deponga un primo strato sul fondo di un grande vaso. Si faccia quindi un altro strato di pesci interi se piccoli, a pezzi se grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione dei tre strati fino a quando il vaso sia colmo. Si chiuda il vaso e si lasci macerare per sette giorni. Poi per altri venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola”.
    Ma di solito erano interiora di pesce macerate nell’aceto con aglio.
    Per noi può essere sostituito con salsa di acciughe semplice o con salsa di acciughe macerata in aceto e aglio.

    - Sampsa - salsa di olive da spalmare sul pane, anche insieme al formaggio. Al foro se ne trovavano sulle bancarelle più di venti qualità diverse. Si trituravano le olive mescolandole a pepe ed aglio.

    - Moretum - crema con aglio, coriandolo, ruta e formaggio, tutto schiacciato e amalgamato con un po' di olio.

    - Conditum paradoxum - veniva cotto il vino con un'aggiunta di acqua di mare, aggiungendovi miele, datteri, alloro, zafferano, pepe.



    CARNI - FERCULAE CARNES

    - Arrosto di maiale - spalmato di miele, con intorno fettine di mele condite con curcuma e zenzero.

    - In ficato aenogarum (enogaro sul fegato grasso) - Taglia a fette il fegato grasso. Amalgama pepe, ligustico, timo (meglio fresco), salsa di soia, pasta d'acciughe (liquame), olio e versa sulle fette di fegato.

    - Mammelle di scrofa - cotte nell'olio e condite con salamoia di tonno.

    - Maialino lesso ripieno - Leva al maialino il ventriglio e fallo diventare sodo. Trita: pepe, lingusto e origano; tempera col garum e aggiungi quanto basta di cervella cotta e batti alla stessa maniera le uova. Lavora col garum il maialino lessato; poi riempilo e chiudilo con gli stecchi; sistemalo nel castello e immergilo nell'olla piena di acqua bollente. Quando è cotto, pulisci il maialino con una spugna e servilo senza pepe.

    - Porcellum oenococtum (Maiale in salsa di vino) - In una pentola carne di maiale con olio, garum, vino, acqua, una manciata di porri, di coriandolo; colora a metà cottura con vino. Metti in un mortaio pepe, ligustro, cumino, origano, seme di sedano, radice di silfio. Trita e versa il garum, il grasso colato dal maiale stesso, aggiungi il vino e il passito; amalgama con farina, metti il porcello ben preparato in una padella, cospargi il pepe.

    - Le scaloppine - di Apicio (per 4 persone): "lasciare a riposo una notte 200 g di pinoli e 200 g di noci sgusciate nel Garum; schiacciarli poi ammorbidendoli con altro garum. Aggiungere sale, pepe, timo, olio e aceto " In questo condimento cuocete le scaloppine  di carne.. 

    - Minutal - fricassea in padella di pesci e carne trita, cui si aggiunge un componente raro e raffinato: i testicoli di cappone.   

    - Ofellae - spezzatini di pollo infarinati e cotti nell'olio, insaporiti con curcuma.

    - Isicia - polpetta di carne con polpa di pane, uova, formaggio ed erbe selvatiche, con bacche di ginepro e garum.

    - Minutal Matianum - Arrosto di maiale con le mele.

    - Cinghiale - Lessare un piccolo di cinghiale  in acqua salata, con l’aggiunta di molte foglie di alloro. Quando la carne sarà cotta, si riduca in porzioni da condire con aceto senape e sale.

    - Struzzo lesso (di Apicio) - Metti a bollire in una pentola il pepe, la menta, il cumino abbrustolito, i semi di sedano, i datteri comuni o carioti, il miele, l'aceto, il passito, il garum e un po' d'olio. Fai addensare con l'amido, poi disponi in un piatto lo struzzo tagliato a pezzi, coprilo con la salsa ottenuta e cospargilo di pepe.

    - Pancetta e fave (di Apicio) - Far soffriggere la pancetta poi aggiungere i semi aromatici, il timo e le fave. Allungare con acqua e cuocere.

    - Gru o anatra lessata (di Apicio) - lessa insieme a pepe, ligustico, cumino, coriandolo, menta, origano, pinoli, carota, garum, olio, miele, senape, e vino.

    Esicia Amulata (di Apicio) - Mettere la coda vaccina a pezzi nell'acqua fredda con le erbe, la cipolla prima soffritta, lo zenzero grattugiato, miele, colatura e pepe. Far cuocere schiumando ogni tanto. Scaldare il burro, aggiungere mescolando la farina e lasciar riposare. Filtrare il brodo e farlo ancora bollire con la carne e salare.

    - Insalata di piedini di manzo al miele e senape.

    - Pesce salato senza pesce (di Apicio): Cuoci il fegato, di lepre o di capretto o di agnello o di pollo, poi pestalo unendoci pepe o garum o sale. Dagli la forma di un pesce e ponilo in uno stampo con olio sotto e sopra.

    - Pollo in salsa di datteri - Cotto al forno, con una salsa di datteri, miele, aceto, sale e pepe.

    - Pullus Vardanus (Pollo di Vardo) - pollo intero cotto al forno e condito con una salsa composta da: garum, olio, vino, porro, coriandolo, santoreggia, pepe, pinoli, latte e uova.

    - Ficatum di Apicio: fegato di maiale, aceto, pepe, sedano, bacche di alloro, sale, budelli di maiale.
    Tagliare a pezzetti del fegato e metterlo in una marinata composta di aceto, pepe macinato, sedano tritato e bacche di alloro. Ritirare i pezzi di fegato dalla marinata, salarli, peparli, e riempirci dei piccoli budelli, legandoli bene. Preparare una griglia unta e rovente ed arrostirci il ficatum.

    - Capretto alla partica - Lo metterai nel forno. Triterai pepe, ruta, cipolla, santoreggia, prugne di Damasco snocciolate, un po’ di vino, garum e olio. Ancora bollente si bagna sul piatto con l’aceto e si mangia.

    - Polpette di carne di Apicio - (x4 persone): amalgamare 5 etti di carne trita di maiale (o manzo) con 1,5 hg di mollica di pane ammorbidita nel vino. Unire con pepe, un cucchiao di garum e 500 g di pinoli. Cuocere le polpette in un bicchiere di vino.

    - Lingue di fenicottero cotte nel vino, poi salate e impepate.

    - Anatra lessata (o gru lessata) - con pinoli e datteri al suo interno e sopra  pepe, ligustico, cumino, coriandolo secco, menta, origano, pinoli, carota, garum, olio, miele, senape e vino.

    - Maialino arrosto - Trita pepe, ruta, santoreggia, cipolla, tuorli di uovo sodo, garum, vino, olio e condimento. Fai bollire. Versa il condimento sul maialino in un piatto da portata e servi in tavola.

    -  Ventriglium di maiale - cioè lo stomaco in cui si cuociono ritagli di carni e interiora miste al sangue rappreso. Lo stomaco essendo elastico ed impermeabile funge da pentola e permette di ottenere un ottimo "umido".

    - Tyrotarichum - uno sformato di ogni genere di alimenti, dalle carni al pesce che rispondeva appieno al loro gusto incline al salato/dolce, amaro/piccante.


      PESCE

      - Polpette di aragosta - sminuzzare l'aragosta lessata insieme a un po' di polpa di pane bianco bagnata nel vino bianco, e condirla con tuorlo d'uovo, limone, sale, pepe e origano.

      Murena fritta - con erbe selvatiche, sale, pepe, aceto, aneto, bacche di ruta.

      Esicia de cauda eius - (polpette di coda di gambero, di Apicio) code lessate e sgusciate, pepe macinato, uova, mollica di pane sbriciolata. Passarle nella farina e poi nel forno forno.

      - I crostacei si dividono in due e si pongono sulla gratella col guscio rivolto  alla brace. A parte si prepari del salmoriglio, ottenuto mescolando insieme olio, sale, pepe, aceto ed erbe aromatiche quali: origano, timo e rosmarino. Il composto va cosparso durante la cottura sulla polpa bianca dei crostacei.

      Salsa Blu: stufare il porro tagliato in padella, e poi soffriggetelo nell'olio. Unite al soffritto di porro il cavolo viola a listelli aggiungendo acqua bollente. Aggiungere sale e pepe e pestare il tutto fino ad ottenere una crema con cui condirete del pesce cotto al vapore o alla griglia.
      - Pulire dei naselli, ungere una pirofila con lardo, disponetevi il pesce salato, pepato e infarinato, bagnatelo con del vino bianco e un’uguale quantità d’acqua. Passate la pirofila coperta in forno ben caldo per dieci minuti. Sfornate e sistemati i pesci sul piatto, bagnateli con il liquido di cottura rimasto, con qualche goccia d’aceto, copriteli con scagliette di lardo e aneto tritato.

      Patellam Lucretianam - Pulisci le cipolle e tagliale in una terrina. Moderato liquame, olio e acqua. Mentre cuoce, disponi in mezzo pesce salato crudo. Ma quando sarà quasi cotto, spargi 1 cucchiaione di miele, poco di aceto e di mosto cotto. Assaggia. Se sarà sciocco, aggiungi liquame, se salato, miele moderato. E spargi di corona vaccina, e che bolla.

      - Terrina Tyrotaricha di pesce salato (di Apicio): Pulisci e cuoci in olio il pesce, poi uniscilo a cervella cotte, fegatini di pollo, uova sode, formaggio tenero, e scalda in terrina. Pesta pepe, ligustico, origano e una bacca di ruta unendoli a vino, mulso e olio cuocendo a fuoco lento. Poi unisci il tutto mescolando uova crude e spruzza con cumino.

      - Thynnus uvae (Tonno all'uva) - Mettete le fette di tonno e le cipolle tagliate sottili in una padella in olio caldo. Quando il tonno è leggermente dorato toglietelo lasciando le cipolle ed aggiungete la farina mescolando per ottenere una salsa. Aggiungete pepe, cumino, coriandolo, garum, uva, aceto, miele sempre mescolando e, quando saranno amalgamati, rimettete a cuocere il tonno per 15 minuti.
      Servite caldo.

      Patina de apua sine apua (terrina di acciughe senza acciughe) - Fai a pezzettini il pesce arrosto o lesso così abbondantemente, da poter riempire la terrina che vuoi. Pesta pepe e poco di ruta, copri di liquame quanto basta e d'olio moderato, e mescola nella terrina i pesci con uova, affinchè diventi un corpo solo. Sopra disponi leggermente ortiche marine, in modo che non si mescolino con le uova. Metti sul vapore, in modo che non possano andare con le uova e quando saranno secche, spargi sopra di pepe tritato e servi.

      - Locustas-scillas (Cavallette-gamberoni - di Apicio) - Mescolare pepe verde macinato, semi di sedano, ligustro, aceto, liquamen e tuorli d'uovo sodo. Versare sui gamberetti già lessati e servire. (il nome cavallette è solo per il colore verdolino che assumono i gamberi col condimento)

      - Terrina Tyrotaricha di pesce salato (di Apicio): Pulisci e cuoci in olio il pesce, poi uniscilo a cervella cotte, fegatini di pollo, uova sode, formaggio tenero, e scalda in terrina. Pesta pepe, ligustico, origano e una bacca di ruta unendoli a vino, mulso e olio cuocendo a fuoco lento. Poi unisci il tutto mescolando uova crude e spruzza con cumino.

      Pesci ai porri (di Apicio): Prendi i pesci lavali e sistemali in padella. Metti olio, garum, vino, un mazzetto di porri e coriandoli; fai cuocere. Polverizza pepe, origano, ligustico e il mazzetto allessato; tritura e tempera con salsa piccante. Lega; e quando sarà ben soda, servila con una spruzzata di pepe.

      Anguille - lessate con acqua, aceto e cipolle e coperte sul piatto da fette di uova sode. 


        UOVA

        - Lessare delle uova, tagliarle e rinforzarle con una salsa fatta di vino e garum. L’imposto acquisterà un sapore veramente particolare se gli aggiungerete miele e pepe.

        - Frittata - Prepara una miscela con uova, latte e sale. Versa un poco d’olio in un tegame, quando è ben caldo versaci la miscela. Quando l’omelette è cotta da un lato, girala su un piatto piano, spalmala di miele e condiscila col pepe.

        Frittata di ortiche (di Apicio) - "Prendi le ortiche, lavale, scolale, falle asciugare su una tavola e poi tagliale a pezzetti. Trita 10 scupoli di pepe, bagna con il liquamen e frega bene contro le pareti di mortaio il composto. Poi aggiungi 2 manciate di liquamen e sei once d’olio e fa bollire in pentola. Dopo che ha bollito mettila a raffreddare. Ungi d’olio una teglia, sbatti 8 uova e aggiungi le ortiche. Si sistema nella teglia e si pone con cenere calda sia sotto che sopra (il coperchio)."

        Tyropatina - poni il latte nel tegame, emulsiona il latte con miele come per fare lactantia, metti 5 uova per un sestario o 3 per 1 emina (sono misure di volume corrispondenti a 542 ml. e 271 ml). Sciogli nel latte in modo da fare un corpo unico, cola in (pentola) Cumana e cuoci a fuoco lento. Quando è rappresa spargi di pepe e servi.

        - Lessare separatamente dei filetti di sgombro e delle uova. Scolare il pesce, pulirlo e pestarlo con sedano, timo, origano, sale, pepe, ed i rossi d’uovo già lessati. Con questa salsa, riempire il bianco dell’uovo e condire con olio prima di servire.

        - Ova Elixa (Uovo sodo) - Uova, garum, olio, pepe, laser (assafetida).

        - Uova sode - Con salsa di liquamen, olio, puro o derivato da liquamen, pepe e silfio.

        - Patina (omelette), con uova, lattuga spezzettata, farina, formaggio sbriciolato, sale, pepe, origano e timo e vino cotto.


          DOLCI

          -  Dactyli farsiles (datteri farciti), Palmulae farti (datteri farciti) - datteri snocciolati e riempiti di pinoli e noci triturati, con aggiunta di pepe. I datteri si friggono poi nel miele.

          -  Dulcia simulae (paste di semolino) - si mescola il semolino già cotto con latte, miele, pinoli, uova, pepe.

          - Crustula (biscotti) - acqua farina, uova, sciroppo di barbabietola, sale e pepe.

          - Buccellae silinginae (bocconcini di segala). si cuoce al forno un composto di segale, farina, uovo, miele, uva essiccata, noci tritate e pezzetti di datteri.

          Mustacei - corrispondenti ai mustaccioli calabresi.

          Patina de piris - Torta di pere al cumino.

          - Dulcia domestica (di Apicio) Farcisci con un composto di noci, pinoli e pepe tritati i datteri snocciolati. Sala il tutto e scalda nel miele cotto.

          - Frittelle con miele e papavero.

          - Libum primum, un pane dolcissimo edulcorato con miele e uvetta.

          - Globus che era come le nostre bombe fritte

          - Luncunculus - ovvero una sorta di bigné.

          - Crocchette a formaggio e miele - Sbattere in un recipiente latte cagliato, miele e sale, aggiungendo un po’ di farina di grano fino ad ottenere un impasto. Farne piccole porzioni e friggerle nello strutto. Quando le frittelle saranno ben dorate in tutte le parti, si tolgano e si servano bollenti, addolcendole con altro miele.

          - Frittelle al latte - Sbattere in un recipiente latte cagliato, miele e sale, aggiungendo un po’ di farina di grano fino ad ottenere un impasto. Farne piccole porzioni e friggerle nello strutto. Quando le frittelle saranno ben dorate in tutte le parti, si tolgano e si servano bollenti, addolcendole con altro miele.

          - Paste di formaggio amalgamate con frutti e miele.

          - Dulcis ex nucibus pinea (Dolce ai pinoli) - Fare un impasto abbastanza liquido con latte il pepe verde, pinoli sgusciati, miele, succo di limone e vino; cuocere a fuoco basso, e quando comincia a rapprendersi unite le uova sbattute. Servire versandoci sopra il miele e spolverando di pepe.

          Palmulae farti (Datteri farciti) - datteri snocciolati e riempiti di pinoli e noci triturati, con aggiunta di pepe. I datteri si friggono poi nel miele.

          - Dulcia domestica (di Apicio) Farcisci con un composto di noci, pinoli e pepe tritati i datteri snocciolati. Sala il tutto e scalda nel miele cotto.

          - Aliter dulcia - unisci pepe, salsa di soia e pasta d'acciughe in infusione per una notte. Mischiaci poi pepe tritato e un po' di cotognata o fichi secchi con foglie di ruta sminuzzate. Impasta con pinoli,  noci tritate, e semola di grano tenero bollita. Forma delle pastine, e decorale con nocciole tostate e tritate.

          - Fichi secchi - farciti con pinoli e zucchero d'uva.

          - Encytus a forma di spirale - era pasta fritta e lievitata, per azione del formaggio contenuto, spalmato con abbondante miele e spruzzato con semi di papavero.

          - Torta cartaginensis (ricetta di Catone) - Mescolare la farina al latte, evitando i grumi. Incorporare il formaggio, aggiungere del miele fluido e le uova. Cuocere il tutto in una marmitta di terra, finchè non sarà consistente e un pò untuoso.

          - La granita - è un dolce freddo al cucchiaio, le cui origini vengono solitamente fatte risalire alla dominazione araba in Sicilia. nulla di più errato, la granita è di origine romana. Certamente non c'era la granita di caffè, ma di frutta ce n'erano diverse, dalle ciliege, al ribes, alle pere, e perfino all'ananas, che i romani conoscevano ampiamente come dimostrano vari mosaici. In quanto al ghiaccio ce n'era un servizio particolare, per cui dei commercianti salivano coi muli sui monti innevati e lo portavano a Roma dove veniva sotterrato in recipienti di metallo. Veniva poi tritato e associato a frutta varia.
            Per i vini vedi  LE PORTATE ROMANE


            BIBLIO

            - Luigi Rusconi - Dizionario universale archeologico-artistico-tecnologico - Tip. G. Favale e Comp. - 1859 -
            - M. P. Catone - L'agricoltura - a cura di Luca Canali e Emanuele Lelli - Milano - A. Mondadori - 2000 -
            - Opere di Caelius Apicius - PHI Latin Texts - Packard Humanities Institute -
            - Caelius Apiciu - De Coquinaria -
            - Scriptores rei rusticae - Venetiis, apud Nicolaum Ienson - 1472 - (De re rustica di Catone, Varrone, Columella e Rutilio Tauro Palladio) - Ed. Princeps -
            - Appendix Vergiliana. Priapea, Catalepton, Copa, Moretum - commento di Gaetano Curcio - Catania - Fratelli Battiato - 1905 -
            - G. Fiore - Lucio Giunio Moderato Columella e i suoi scritti - Avellino - Pergola - 1907 -
            - Palladio Rutilio Tauro Emiliano - Opus agriculturae - a cura di E. Di Lorenzo - S. Lanzaro, Salerno - 2006 -

            PHOINIKE - FENICE (Albania)

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            Fenice ovvero Phoinike in greco, è un sito archeologico dell'Albania meridionale che giace sulla sommità di una collina che si eleva di 283 metri s.l.m., al centro di un'ampia pianura solcata dai fiumi Caliassa e Bistrizamentre, confluendo nel lago di Vivari, sulle cui rive si trova Butrinto.

            Alla base della collina sorge il moderno villaggio di Finiq, che ne ha attinto il nome e tutto intorno è circondata da un arco montuoso impervio, della catena montuosa degli Acrocerauni. Polibio, che descrive Phoinike come il centro meglio fortificato e più potente dell'antico Epiro, di cui fu per un certo periodo la capitale, con un abitato più antico, greco ed ellenistico, posto sulla sommità di una collina, circondata da forti mura, ancor oggi ammirevoli per la loro monumentalità.

            La città si estende anche sulle pendici meridionali della collina, attraverso una serie regolare e scenografica di splendidi terrazzamenti, sistema caratteristico dell'urbanistica ellenica. Polibio narra la storia che portò alla presa della città da parte degli Illiri, e le continue incursioni dei pirati nei confronti dei mercanti italioti che frequentavano la zona.


            Racconta inoltre che, all'inizio della guerra contro Filippo V di Macedonia (238 a.c. – 179 a.c.), alcuni ambasciatori romani contattarono gli abitanti di Phoinike e che la pace tra Filippo V di Macedonia e i romani al termine della I guerra macedonica venne firmata proprio a Fenice nel 205 a.c.. 

            Sempre Polibio riferisce di Carope, uno dei re della Tracia che vessava i cittadini, e di un'ambasceria condotta a Roma nel 154 a.c. dai suoi cittadini per una richiesta di aiuto e sappiamo poi da Strabone, Livio e Tolomeo che Phoinike, sorgeva a poca distanza dal mare, a nord di Butrinto.

            Procopio di Cesarea invece narra un episodio avvenuto al tempo di Giustiniano (482 - 565), quando l'imperatore avrebbe trasferito la città dai piedi alla sommità della collina. La città sorgeva prima in pianura, circondata da acque che rendevano paludoso il terreno dove dovevano sorgere le nuove mura, per cui l'imperatore decise di trasferire i centro sulla sommità della collina, doppiamente protetta dalle mura.



            GIUSTINIANO

            La città fiorì anche anche nell'età tardo antica, tra V e VI secolo, quando ottenne la sede vescovile bizantina, e quando l'imperatore Giustiniano fece spostare in alto la città a causa dei problemi di impaludamento della città bassa. Fenice venne citata nei due maggiori itinerari dell'antichità: l'Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana, dove la città è collocata sulla strada per Nikopoli.

            L'area su cui era sorta la città non ha restituito resti di età arcaica, pur essendo nella zona di influenza influenza di Corinto e Corcira, come dimostra il vicino emporion di Butrinto. Al contrario l'abitato di età romana, invece, pur continuando ad occupare diverse aree dell'acropoli, si sviluppò soprattutto nella parte bassa della collina, come era d'uso tra i romani conquistatori. Alla base del versante Sud è emersa una vasta area di necropoli, sfruttata sia in età ellenistica che in età romana.

            LE MURA CICLOPICHE

            LE MURA

            Sul colle sono ancora visibili le mura, appartenenti a tre cinte: quelle dell'acropoli, quelle dell'ampliamento dell'acropoli, e infine quelle della città fortificata. Sono costruite con grossi blocchi parallelepipedi, talora enormi o con blocchi quasi cubici o trapezoidali. Le mura si possono datare alla fine del IV e al principio del III sec. a.c. Nell'interno dell'acropoli si osservano resti di muri, sia greci che romani.

            Nel villaggio sono pochi resti di muri greci. Numerosi, invece, i muri romani, incorporati nelle case moderne. Alcuni di essi sono in opus reticulatum e mattoni, altri in opus incertum: discendono fino all'età tardoromana.

            PERISTILIO MAGGIORE

            GLI SCAVI

            Il sito archeologico di Phoinike era già noto ai viaggiatori dell'Ottocento, ad esempio a William Martin Leake, quando Luigi Maria Ugolini, instancabile perlustratore delle antichità dell'Albania, visita per la prima volta l'area: siamo nella primavera del 1924 e lo studioso italiano resta impressionato soprattutto dalla maestosità della cinta muraria, ancora conservata per ampi tratti a conferma delle parole di Polibio.

            Gli scavi vennero ridotti a due sole campagne, tra estate e autunno degli anni 1926 e 1927, condotte dalla Missione Archeologica Italiana d'Albania, diretta da L. M. Ugolini. I lavori, produssero una preziosa documentazione grazie all'ingegnere bolognese Dario Roversi Monaco, con una sensibilità stratigrafica non comune nel suo tempo.
             
            Le sue ricerche si svolsero principalmente  sulla sommità dell'acropoli dove scavò:
            - tre cisterne, 
            - un tempietto ellenistico (da lui definito thesauròs), 
            - una basilica cristiana 
            - alla base della collina individuò numerose tombe ellenistiche e romane.

            THESAURUS

            IL THESAUROS

            Il thesauros era una costruzione appoggiata per tre lati a un cocuzzolo del monte, di forma rettangolare (m 4,65 × 3,50), con muri conservati per un'altezza massima di m 1,50. L'ingresso aveva due ante, una delle quali manca, e in età bizantina è stata ricostruita con pietre piccole legate con calce. 
            La costruzione dell'edificio è in blocchi regolari, con specchiature, e spesso con bugne di presa; a quanto sembra, era ipetrale (scoperto al centro). Sul pavimento sono tracce di un lastricato, al centro è la colymbethra (fonte battesimale) a forma di croce greca (attualmente distrutta dagli abitanti dei dintorni), per la trasformazione, in età bizantina, dell'edificio in battistero cristiano. 
            A destra dell'ingresso è una lunga gradinata, della quale sono conservati tre gradini, il più alto dei quali, fornito di anathyrosis (piano di posa per un blocco superiore), mostra chiaramente di aver servito come base di un muro, quindi la gradinata stessa doveva essere usata come un sedile unito direttamente al tempio. Presso il thesauròs sono tracce di muri. 
            IL TEATRO
            - 2) Cisterna A; è una costruzione trapezoidale, quasi quadrata (m 17,60 × 18,20 × 18,92), dell'altezza conservata di 4 o 5 metri. La parte settentrionale si addossa al colle, a S il muro è rinforzato da quattro pilastri o lesene. La struttura è in opera a sacco, rivestita in opus incertum, e fasce di mattoni. All'interno i muri sono intonacati in coccio pesto. Età: II-III secolo d.c.

            - 3) Cisterna B; costruzione di forma quadrilatera un po' irregolare, ben conservata nella parte inferiore. I muri sono a blocchi trapezoidali o parallelepipedi di dimensioni medie e variabili. Il pavimento è in mattoni, con pilastri, pure in mattoni, che dovevano sostenere una copertura. La costruzione originaria risale alla fine del V sec. a.c.; in età romana fu restaurata, vi furono aggiunti il pavimento, i pilastri e l'intonaco interno in cocciopesto. 

            - 4) Cisterna C; posta al disotto di quella A. È costruita con blocchi quadrangolari, o a sei lati. Assai mal conservata: V-IV secolo a.c. 


            - 5) Scala; è addossata al muro O della Cisterna C. Sono conservati cinque gradini, dell'altezza di m 0,25 e della profondità di m 0,40, molto rozzi. Il più basso ha una larghezza di m 1,70, l'ultimo è largo m 1,40. Questa scala, probabilmente non è molto posteriore all'età della Cisterna C.

            - 6) Edifici minori. È stata scavata parte di un corridoio che immette in alcuni piccoli ambienti; inoltre sono stati rimessi in luce resti di vani in opera a sacco e opus incertum, alcuni muri, un basamento quadrato, e pochi resti di un acquedotto in mattoni. 

            - 7) Necropoli. Le tombe sono situate sulle falde meridionali e su quelle settentrionali del colle, in località Scarsela. Le sepolture sono a inumazione e a cremazione. Le prime comprendono tombe a cassa di lastre di forma regolare e levigate, tombe a cassa di rozze lastre, e tombe con protezione di tegoloni (a cappuccina). Quelle a cremazione comprendono tombe a cassa di tegoloni con urna fittile all'interno. Appartengono tutte all'età ellenistica. Le opere d'arte ritrovate a Ph. si riducono a un torsetto virile di tarda derivazione policletea e a una testa, pure maschile, dell'età degli Antonini.

            RICOSTRUZIONE DELLA VILLA DEI DUE PERISTILII

            Fine degli scavi

            Ugolini lasciò presto Phoinike, trasferendo i lavori della Missione Italiana nella vicina città di Butrinto, dove le aspettative erano di certo più attraenti. Ma anche dopo la morte di Ugolini, avvenuta nel 1936, i nuovi direttori della Missione Italiana, Pirro Marconi e Domenico Mustilli, non ritennero di riprendere più le ricerche archeologiche a Phoinike.

            Nel secondo dopoguerra, fra gli anni settanta e novanta, alcuni archeologi albanesi (Dhimosten Budina e Astrit Nanaj) hanno effettuato singoli interventi di ricerca nell'area della città, purtroppo sempre limitati anche a causa della presenza di una base militare sulla collina.

            Dal 2000 una nuova spedizione archeologica Italiana, finanziata dal Ministero degli Affari Esteri (Direzione Generale per la Promozione e la Cooperazione Culturale) e guidata dal Dipartimento di Archeologia dell'Università di Bologna, in collaborazione con l'Istituto Archeologico Albanese, sta operando in sito.

            Le attività di ricerca della nuova Missione Archeologica si sono concentrate su cinque distinti settori dell'area archeologica: 
            - la cosiddetta "Casa dei due peristili", 
            - l'area del thesauròs-basilica, 
            - il teatro, 
            - la necropoli e i siti del territorio.


            BIBLIO

            - Procopio, De Aedificiis -
            - Itinerarium Antonini, 324, 4 - Tabula Peutingeriana VI, 3 -
            - Luigi Maria Ugolini - L'acropoli di Fenice (Albania antica) - Roma-Milano - 1932 -
            - Sandro De Maria - Phoinike. La città e il suo territorio. (Percorsi di archeologia. 1), Bologna, 2001 -
            - L. M. Ugolini, Albania antica, II, L'acropoli di Fenice, Roma 1932 - 
            - F. Ch. Pouqueville - Voyage de la Grèce - II - Parigi - 1920 -
            - Sandro De Maria, Shpresa Gjongecaj - Phoinike V. - Rapporto preliminare sulle campagne di scavi e ricerche 2007-2010 - Bologna, 2011 -

            VILLA DI COTTANELLO (Lazio)

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            La villa romana di Cottanello è una delle numerose villae rusticae del territorio della Sabina (il Lazio reatino). Si trova in località Collesecco, una zona agricola a circa un chilometro dal centro storico di Cottanello, in provincia di Rieti. Venne edificata negli ultimi decenni del I secolo d.c. forse su una precedente villa di età repubblicana.

            Oggi è un sito archeologico affidato ad alcuni volontari della Pro Loco che agiscono in collaborazione con la Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio.

            Negli ultimi decenni del II° secolo d.c. si moltiplicano le ville romane in Sabina, importante provincia Romana soprattutto per l’allevamento del bestiame, che aveva per capoluogo “Forum Novum” attualmente Vescovio.

            A Cottanello, facente parte di questo distretto, si è rinvenuta una villa romana in località Collesecco. Un frammento di orlo di dolio recante il bollo di M. Cottae fa supporre che appartenesse alla famiglia degli AURELII COTTAE, famiglia dalla quale prese il nome Cottanello stesso.

            LA PIANTA

            GLI SCAVI IMPROVVISATI

            La zona venne gravemente danneggiata durante la seconda guerra mondiale e nel giugno 1944 i tedeschi in ritirata fecero saltare un enorme deposito di proiettili facendo emergere diversi frammenti di reperti archeologici che, qualche anno più tardi, vennero indagati da alcuni volontari.

            Gli "apprendisti archeologi" erano prevalentemente abitanti del posto che, animati da curiosità e voglia di valorizzare il proprio territorio, avevano avviato indagini partendo dai racconti degli anziani, dalle chiacchiere e dai ricordi di chi aveva vissuto e lavorato in zona.

            Erano con ciò venuti a conoscenza dell'esistenza di avvallamenti, di piccole costruzioni interrate, di anfore e doli emersi a seguito di scavi agricoli, di derrate alimentari nascoste durante la guerra in stanze e cunicoli sotterranei. Tutte le testimonianze confermavano l'esistenza di ruderi antichi sparsi in una vasta area.


            Per l'improvvisazione degli scavi non si sono rilevati o non sono mai pervenuti dei dati stratigrafici,il che rende difficile la corretta comprensione di tutte le strutture, inoltre gli scavi purtroppo hanno demolito alcune strutture allo scopo di mettere in risalto la principale fase abitativa o l’originale schema planimetrico.

            Gli appassionati cercarono a più riprese di interessare la Sovrintendenza ai beni archeologici del Lazio ma senza successo; cominciarono da soli a scavare in via ufficiosa nel settembre 1968.

            Il crollo della volta di una parte del criptoportico, ne aveva scoperto un braccio di alcuni metri, fu il punto di partenza: con pochi colpi di piccone affiorarono muri in pietra calcarea e un metro quadrato circa di pavimento in mosaico a tessere piccolissime.

            Fortunatamente uno dei volontari, il geometra Fabio Mastrodicasa Rinaldi, redasse una preziosa documentazione di questi primi scavi, e anche dei successivi, compilando un giornale di scavo corredato da puntuali rilievi grafici.




            GLI SCAVI PROFESSIONISTICI

            Soltanto dopo la costituzione dell'Associazione "Pro Loco" di Cottanello fu possibile ottenere il patrocinio della Soprintendenza e un piccolo finanziamento dall'Ente provinciale per il turismo di Rieti. Così nell'agosto del 1969 poterono iniziare ufficialmente gli scavi che si protrassero fino al 1973.

            Portarono alla luce un'area rettangolare di circa m. 37 x 45 composta da una trentina di vani, fra i quali erano riconoscibili un atrio ed un peristilio. Nello stesso periodo, alle pendici del Monte del Parro, venne individuato un grosso acquedotto interrato che dalla sorgente, in località Cola Fonte, portava l'acqua alla villa.

            Nel 1973 (e in seguito nel 1988) i pavimenti furono sezionati in pannelli, staccati, e poi riposizionati, integrati con cemento e malta; tale intervento compromise successivamente il riconoscimento di tracce utili alla comprensione della storia precedente l'edificazione; inoltre purtroppo sigillò l'antico sistema idrico e fognante.

            Successivamente un sistema di tettoie metalliche venne approntato per proteggere le murature e i mosaici dagli agenti atmosferici.




            DESCRIZIONE

            Secondo le prime indagini sembrò che la villa fosse più di uso che di rappresentanza, le varie strutture avevano tutte paramenti diversi con muri molto spessi realizzati in pietra locale. Tuttavia la villa non mancava di agi, avvalendosi anche di un complesso termale arricchito di bei mosaici.

            La villa romana venne edificata in tre fasi: la prima va dal III° al I° sec. a.c., la seconda dal I° sec. a.c. al II° d.c. e la terza fase che va dal II° d.c. fino all’abbandono. Essa era composta da un atrio tuscanico (19) ed è dotato di un impianto termale (25-26-27-30) che occupa il lato meridionale dell'edificio.


            Attualmente si accede alla villa da due ingressi posti a sud est e a sud ovest della villa.

            Lungo il lato nord si trovano il peristilio (10) ed il triclinio estivo (12) che comunica con un porticato collocato lungo il lato lungo (21), e con il tablinum (17) che presenta quattro cubicoli (13-16) disposti simmetricamente sui due lati lunghi dal quale si accede all'atrio fornito di impluvio e compluvio.

            L’accesso alla villa si ha tramite due ingressi, di cui quello dove anche oggi si entra, è a sud-est, costeggia una depressione per il cedimento di un “criptoportico”, oggi situato sotto il piano di calpestio, che sembra percorrere buona parte della villa, coperto da una volta a botte. Vi si accedeva da un piccolo corridoio e fungeva da magazzino.

            Passando dal piccolo corridoio si accedeva all’atrio, una grande sala con il pavimento a mosaico a crocette bianche su fondo nero. Probabilmente fu successivamente ristretto per l’inserimento delle terme. Dall’atrio quindi si passava alla zona termale, riscaldata in modo più economico dell'encausto, usando bracieri mobili.


            Il peristilio conserva i blocchi di calcare locale che formano due gradini, e sul gradino superiore poggiavano le colonne di mattoni ricoperte di intonaco, sicuramente con capitelli dorici.
            Per quanto riguarda la copertura, probabilmente era ad unico spiovente con displuvio direttamente sul giardino.

            Sempre dall'atrio seguono due stanze, un ambiente termale e alcuni vani abitativi e di rappresentanza. Ai lati di un’ampia sala, si dispongono quattro stanze; questo blocco è costeggiato da un altro corridoio che mette in comunicazione l’atrio con un grande ambiente di cui si ignora l'uso. Sul lato meridionale si trovano quattro camere, di cui tre integralmente conservate, e la più orientale conserva tre gradini che conducevano al piano superiore.
            La villa era decorata con intonaci vivaci, ma soprattutto con una magnifica pavimentazione ottimamente conservata e sottolineata dalle soglie in marmo rosso di Cottanello.
            Fu nella seconda fase che l’edificio venne ripavimentato con mosaici a tessere bianche e nere con alcuni intarsi di tessere policrome; i motivi sono geometrici, ma anche con elementi vegetali o la raffigurazione di una coppia di gallinacei che decorano una delle due soglie più belle.




            I RESTAURI

            Nel 1973 e nel 1988 vennero effettuati due restauri purtroppo poco documentati; i pavimenti furono sezionati in pannelli, staccati, collocati di nuovo in situ, integrati con cemento e malta ed infine protetti con tettoie metalliche.




            LE INDAGINI ARCHEOLOGICHE

            Non avendo seguito criteri stratigrafici, gli scavi non produssero documentazione comprensibile, solo con le indagini del 2010-2012 dall'Università La Sapienza di Roma e nel 2013-2014 dall'Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del CNR, hanno consentito di individuare stratigrafie ancora intatte.

            Si è potuto così analizzare le strutture murarie, studiare i mosaici e i materiali rinvenuti; al di sotto della pavimentazione di uno degli ambienti di tipo termale sono stati rinvenuti accumuli di materiali di risulta compatibili con un impianto di ipocausto distrutto.

            Non si conosce ancora la reale estensione della villa in quanto l'area è stata solo parzialmente indagata; attualmente (gennaio 2016), sono emersi circa 1660 metri quadrati; dalle ultime indagini effettuate si ritiene sia più o meno la metà della totale estensione; resta da espletare lo scavo della parte abitativa e di parte del criptoportico.


            BIBLIO

            - Giovanna Alvino - La villa di Cottanello - Forma Urbis - Editorial Service System - 1996 -
            - Plinio il Vecchio - Naturalis Historia III -
            - Michele Michaeli - Memorie storiche della città di Rieti e dei paesi circostanti dall'origine all'anno 1560 - Rieti - Tip. Trinchi - 1897 -
            - Patrizio Pensabene e Eleonora Gasparini - La villa romana di Cottanello (Rieti): nuove indagini della Sapienza, Università di Roma a quarant'anni dalla scoperta, in Lazio e Sabina - Roma - 2012 -
            - Marina De Franceschini - Ville dell'Agro romano - Roma - L'Erma di Bretschneider - 2005 -


            TESORO DI CASA DEL MENANDRO

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            LA VILLA

            La casa del Menandro è una grande domus urbana dell'antica Pompei di quasi 1800 m². Più che una casa è una enorme villa, quasi una reggia ovviamente piena di persone e di schiavi, di beni e di lussi. 
            La villa è stata scavata dal novembre 1926 e giugno del 1932 e prende il nome non dal proprietario della casa, ma dall'immagine del poeta greco Menandro (commediografo greco 342 - 291 a.c.), ritrovata in loco, evidentemente molto apprezzato dal proprietario.

            La villa è molto antica, sembra risalire al II sec. a.c., ma fu rielaborata e modernizzata: la parte più vecchia è di modeste dimensioni ma la nuova casa si sviluppa su due piani molto ampi. La cosa inusuale è che il corpo centrale sia stato costruito a un livello superiore rispetto a quello del cortile con il forno e i sotterranei e a quello dell'ergastulum, il quartiere riservato ai servi.


            Tutta la casa del resto è dominata, come si vede nell'atrio, dal rosso e dal giallo, ma non deve meravigliare perchè questi erano i normali colori dentro e fuori le case. Dopo il terremoto del 62 molti dei marmi pompeiani si frantumarono e gli ingegnosi pompeiani (e romani in genere) ne approfittarono per creare uno stucco che usufruendo dei vari marmi polverizzati, uniti a gesso o cemento, simulasse egregiamente l'autentico marmo, molto costoso.

            Data l'estensione della casa e dei possedimenti si presupporrebbe che il proprietario potesse permettersi anche i marmi autentici, ma riprodurre i marmi attraverso la pittura, in molti casi più che un risparmio fu una moda.

            La villa è infatti molto decorata: il pavimento  del peristilio è a mosaico a motivi geometrici con tessere bianche e nere. Sulle pareti compaiono medaglioni affrescati con testa di Zeus-Ammon (in IV stile) e quadretti con maschere tragiche. Sul lato Ovest dell'atrio si trova una terrazza con una grande esedra adibita a solarium.


            Si ritiene che la villa del Menandro sia appartenuta ai Poppaei, imparentati con Poppaea Sabina, seconda moglie di Nerone. La regione della Campania, dove si trova il maggior numero di Poppaei, era d'altronde associata ai Sanniti, un popolo di lingua osca che rivendicava anche la discendenza sabina.

            La famiglia sarebbe stata proprietaria anche della Casa degli Amorini nonchè di una fabbrica di tegole, pertanto gente agiata. Infatti nel periodo augusteo la domus fu totalmente rinnovata, cosa che avvenne per molte domus essendo aumentate le esigenze e soprattutto i guadagni per la prosperità dell'Impero.

            In primo luogo fu edificato un peristilio (il portico che cingeva il giardino o cortile interno posto al centro della casa), utilizzando lo spazio ricavato dall'abbattimento degli edifici residenziali adiacenti, e mentre nella parte orientale della casa venne ricavata la parte economica con cucina magazzini ecc., nella parte occidentale vennero ricavate delle terme. 


            Ma fino a poco prima dell'eruzione erano state eseguite in vari posti della casa ulteriori opere di ammodernamento. Vi si sono infatti rinvenuti della anfore riempite di stucco e un forno provvisorio.

            Sappiamo che il nome dell'ultimo abitante della casa era Quinto Poppeo, in quanto venne trovato questo nome in un sigillo di bronzo posto negli alloggi per la servitù. Solo il nome del proprietario poteva essere così importante da essere impresso su un sigillo con cui poter imprimere la sua proprietà sulle cose e il suo nome sui contratti. Quinto Poppeo era un ricco liberto, edile in carica intorno al 40 d.c.

            La casa è decorata con pitture del IV stile, detto anche dell'illusionismo prospettico, con una capacità prospettica tridimensionale che decadrà totalmente nel medioevo per resuscitare solo nel rinascimento.


            Il IV stile si affermò infatti in età neroniana e si distinse per le eleganti architetture fantastiche e fantasiose, insomma avevano inventato il Trompe l'oeil, che non è francese ma romano. L'inizio di questo stile è documentabile a Pompei subito dopo il 60 d.c., infatti gran parte delle ville pompeiane furono infatti decorate in questo stile dopo la ricostruzione della città a seguito del disastroso terremoto di Pompei del 62.

            Nell'ambiente a sinistra dell'ingresso vi sono 3 quadretti di 'IV stile' con scene della guerra di Troia.
            Nel IV stile infatti trionfarono le imitazioni dei rivestimenti marmorei, le finte architetture e i Trompe l'oeil caratteristici del II stile ma anche le cosiddette "Grottesche" che tanto piaceranno poi a Raffaello e al Rinascimento, ricche di ornamentazioni con candelabri, figure alate, tralci vegetali, caratteristici del terzo stile.




            Le Terme

            Il quartiere termale, in restauro al momento dell'eruzione (79 d.c.), presenta il cortile con 4 colonne, lo spogliatoio e il calidarium (sala dell'acqua calda). Nel calidarium si trova una grande mosaico con al centro un grande acanto circondato da pesci, delfini e altri animali marini, con figure negroidi e, all'ingresso, un servo che porge recipienti per unguenti.
            Sulla soglia dell'ingresso al calidarium, che presenta pitture in IV stile, un servo porta due
            recipienti, uno per l'olio l'altro per il profumo. Nel pavimento a mosaico (scene nilotiche) nuotano pesci, delfini, un granchio, un negro itifallico mentre un'altro caccia un mostro col tridente.



            Il quartiere servile

            Nel quartiere servile erano conservati un carro agricolo, un corredo di attrezzi agricoli, anfore di cui una conteneva miele del tipo chiamato "despumatum" (miele bianco depurato usato anche oggi in cosmetica e medicina), altre contenevano aceto, vino di Sorrento ed una possedeva una scritta che raccomandava la sua salsa di pesce di prima qualità.

            Attualmente nella stalla (equile) è esposta la riproduzione di un carro agricolo, i cui unici pezzi originali sono solo le parti in ferro e in bronzo.




            LE VITTIME DEL TERREMOTO

            Nella casa del Menandro sono state trovate delle vittime del terremoto, delle persone e pure un cane da guardia. Le loro immagini sono state ricavate in parte riempiendo di cemento i vuoti lasciati dai loro corpi, in parte ricomponendo le ossa ritrovate nei sotterranei.

            Una teca posta nelle villa stessa mostra i corpi delle vittime dell'eruzione da cui nessuno ebbe scampo, per i crolli, per il calore bruciante e per i gas tossici. Una documentazione cruda ma importantissima che permise all'umanità di capire la ricchezza e la bellezza del mondo antico romano, per altri versi totalmente cancellato dalla storia.



            IL TESORO

            In un corridoio sotto il piccolo atrio della casa, nel 1930, gli archeologi addetti agli scavi rinvennero uno dei tesori più ricchi rinvenuto in tutti i vari tempi. Si trattava di un tesoro straordinariamente ricco:
            - per l'epoca archeologica a cui i beni si riferiscono,
            - per i materiali di pregio con cui furono eseguiti, cioè oro e argento,
            - per la squisitissima fattura dei beni stessi,
            - per la documentazione delle capacità artistiche dei romani particolarmente in quel periodo.

            Il tesoro, oggi conservato al Museo Nazionale Archeologico di Napoli, uno dei musei più fornito e prezioso al mondo, consisteva in ben 118 vasi d'argento sbalzati e cesellati, per un totale di 84 kg, tra vasellame da tavola, per bere e da toeletta, oltre a gioielli e monete. 


            Gli oggetti erano stati tutti accuratamente avvolti in panni di lana, che erano stati sistemati in una cassa di legno posta nei sotterranei del cortile, sicuramente durante i lavori di restauro della casa. 

            Le argenterie sono state collocate in una apposita vetrina, mentre i gioielli e le monete sono nella sezione Numismatica.
            La cassa, istoriata con applicazioni e borchie di bronzo, conteneva, oltre all'argenteria, anche pregiati gioielli d'oro e monete, cioè 13 aurei e 33 denari d’argento, per un valore di 1432 sesterzi.

            Si trattava di diversi servizio d'argento per bere, ognuno per due persone, e per mangiare, in servizi da quattro persone.


            AD MALUM PUNICUM

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            AD MALUM PUNICUM NELLA FORMA URBIS

            "Ad Malum Punicum", località prestigiosa dell'antica Roma, si trova citato, nei Cataloghi regionari, nella VI regione augustea. I Cataloghi regionari erano due redazioni, leggermente diverse tra loro, pervenute da un originario catalogo delle 14 regioni di Roma augustea. Delle due versioni la prima ci è giunta con il titolo di Curiosum urbis Romae regionum XIIII, mentre la seconda, priva di titolo, è normalmente conosciuta come Notitia urbis Romae.

            Probabilmente il toponimo (la mela fenicia) identificava in origine un incrocio situato lungo l'Alta Semita, sulla sommità del Quirinale, lungo l'odierna Via del Quirinale/Via XX Settembre, nei pressi dell'incrocio con Via delle Quattro Fontane. L'Alta semita doveva corrispondere all'ingresso in Roma della Via Salaria e della Via Nomentana. L'antichità del percorso è suggerita anche dal termine semita, che indica un sentiero e che non è utilizzato per alcuna altra via urbana.

            IL QUARTIERE
            Rodolfo Lanciani riteneva invece che Ad Malum Punicum fosse una strada pressoché coincidente con l'odierna Via delle Quattro Fontane e collocava il tempio appena a sud dell'incrocio fra questa strada e l'Alta Semita.

            La zona attualmente compresa fra la via Nazionale e il Pincio per un verso, il Palazzo Reale e le mura di cinta della città per l'altro verso, era il quartiere "Ad malum punicum” (dove malum in latino significava "mela" e punicum significava punica ovvero fenicia.) una delle parti più aristocratiche e belle di Roma. "Ad malum punicum” nacque Domiziano (81-96) in una casa presso Santa Andrea del Quirinale che, proprietà di Vespasiano, divenne il mausoleo della gente Flavia. 

            È qui che Domiziano eresse il “Templum Gentis Flaviae” che rimase fino al IV secolo e dove  furono tumulati i tre imperatori, Giulia figlia di Tito ed altri della gente Flavia. Il tempio, per quanto fosse stato destinato a rimanere: "cum Sole et astris cumque luce romana”, scomparve per essere stato depredato dei suoi marmi preziosi e dei suoi blocchi di travertino, fino a scomparire, onde impreziosire il palazzotto di qualche cardinale.

            Il nome di Genere Punica deriva dal nome romano della regione geografica costiera della Tunisia, e della omonima popolazione, altrimenti chiamata cartaginese (popolazione di estrazione fenicia che colonizzò quel territorio nel VI a.c.). Il malum punicum era pertanto il melograno, tanto caro ai romani che lo posero molto volentieri, oltre che sulle tavole, sui capitelli delle colonne romane. 

            TEMPLUM GENTIS FLAVIAE

            I frutti del melograno furono così chiamati perché a Roma essi giunsero da quella regione. Ma c'è da aggiungere che i romani attribuivano un valore sacro al frutto punico, considerato simbolo della saggezza contenuta nei suoi semi, tanto è vero che Proserpina può abitare tanto il mondo dei vivi quanto quello dei morti perchè ha mangiato nell'Ade esattamente sette semi di melograno.

            Dai tempi più antichi il suo frutto, ricco di semi di un vivace colore rosso, è considerato simbolo di fertilità ed espressione dell'esuberanza della vita. Il frutto fu chiamato così da malum cioè mela e punicum, cioè cartaginese, perchè così lo chiamò il naturalista romano Plinio il Vecchio, ma solo perchè a Roma venivano importati dalla città di Cartagine, da cui venne prima importata e poi trapiantata sul suolo italico. La sua origine sembra però asiatica.


            BIBLIO

            - Samuel Ball Platner & Thomas Ashby - Ad Malum Punicum, A Topographical Dictionary of Ancient Rome - London - Oxford University Press - 1929 -
            - Svetonio - Domiziano - 1 -
            - Cataloghi regionari -
            - Teodoro Mommsen - Storia di Roma - Milano - Dall'Oglio - 1961 -
            - Lucos Cozza - Roma com'era e come è: ricostruzioni del centro monumentale di Roma antica (con R.A. Staccioli) - Roma - Vision -

            IL CAVALLO ROMANO

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            OMERO - ILIADE - (IX secolo a.c.) XVII libro:

            (Xanto e Balìo erano cavalli immortali donati da Poseidone a Peleo, padre di Achille, in occasione delle sue nozze con Teti)

            "Patroclo come videro ucciso, lui che era così valente,
            forte e giovane, cominciarono a piangere i cavalli d'Achille.
            La loro indole immortale indignazione provò
            per questo fatto di morte che di fronte ai loro occhi si mostrò.
            Scuotevano le teste, le lunghe criniere si muovevano,
            la terra battevano con gli zoccoli, e forte gemevano per Patroclo.
            Palese divenne che la sua vita era annientata,
            un vile pezzo di carne, l'anima sua volata via, indifeso,
             senza più respirare, diretto dalla vita verso il Nulla, un mare.
            Le lacrime degli immortali cavalli vide Poseidone e provò dolore:
            alle nozze di Pèleo davvero sconsiderato son stato! 
            Era meglio non regalare gli sventurati miei cavalli. 
            Cosa vi aspettavate dai disgraziati esseri umani, 
            burattini nelle mani della sorte! Voi, 
            che vecchiaia non coglie e morte, 
            d'effimera vita provate dolore. 
            La rete del male vi ha presi”.
            Intanto la sete di pianto perpetua non si esauriva
            e i nobili cavalli la sorte di morte feriva."

            (Omero - Il pianto dei cavalli di Achille )


            EQUORUM ORNAMENTA - COLONNA TRAIANA


            PRIMA DEI ROMANI

            In base ai dati archeologici  sin dall’inizio del II millennio a.c. il cavallo, ovvero l'"Equus ferus caballus", cioè il cavallo addomesticato, viene impiegato come cavalcatura e assume un particolare ruolo anche in battaglia, sia come animale da sella, sia come tiro di micidiali carri da combattimento. Nell'area del Gran Paradiso il cavallo domestico compare alla fine dell’età del Bronzo, usato dai proto-celti nell'XI – X secolo a.c.

            Dal I millennio a.c. il cavallo venne impiegato come cavalcatura presso le comunità stanziali delle Alpi Occidentali. Di cavalli disponevano con certezza i principi celti o proto-celti sepolti nelle grandi tombe a tumulo di Aosta e di Emarèse (AO) o in quello di Perosa Canavese (TO). Nel corso del I millennio a.c. si consolida l'uso del cavallo in guerra, tutti i nemici ne sono forniti.

            ORNAMENTA DI BRONZO


            EPOCA ROMANA

            Con l'occupazione di Roma da parte degli Etruschi, si narra che Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, riformò la classe dei cavalieri.

            Egli decise, infatti, di raddoppiare il numero delle tribù fino ad allora in numero di tre: Ramnes, Tities e Luceres e di aggiungerne altre tre, a cui diede un differente denominazione.
            Queste ultime furono chiamate posteriores o sex suffragia, ed erano costituite da ulteriori 600 cavalieri.

            La riforma successiva apportata da Servio Tullio, oltre a coinvolgere la fanteria, riguardò anche la cavalleria, dove dispose di reclutare gli equites oltre alle precedenti 6 centurie dal fiore dell'aristocrazia cittadina, altre 12 centurie: per un totale 18 centurie. Secondo Alfonso De Francisci, la cavalleria venne organizzata non più in centuriae, ma in turmae.

            Per l'acquisto dei cavalli l'erario stabilì, inoltre, lo stanziamento annuo di 10.000 assi a centuria, mentre sancì che fossero le donne non sposate a pagarne il mantenimento degli stessi con 2.000 assi annui a centuria. Tale costo fu più tardi trasferito alle classi più ricche.

            In sostanza l'esercito serviano contava ora di 1.800 cavalieri e 17.000 fanti potenzialmente atti alle armi (suddivisi in 5 classi ed in 170 centurie) oltre ad alcune unità speciali per un totale di 193 centurie. Si trattava di 2 compagini legionarie, una utilizzata per difendere la città e l'altra per compiere campagne militari esterne

            Infine i romani, tipicamente organizzati con un esercito di sola fanteria straordinariamente disciplinata ed efficiente (legioni), impiegavano il cavallo come cavalcatura degli ufficiali, i quali dovevano disporre di un'elevata mobilità lungo il fronte di battaglia.

            I necessari apporti della cavalleria da combattimento erano invece risolti dai romani con squadroni mercenari, che operavano al fianco delle truppe regolari sin dal II secolo a.c., e questo si protrasse per tutta la lunga storia dell’Impero.

            Tutte le grandi conquiste vennero associate al cavallo. La storia greca ci ha tramandato la vicenda di Bucefalo, il cavallo del più grande conquistatore dell'antichità: Alessandro Magno, ma sono noti i nomi dei cavalli di numerosi imperatori romani, come Asturcone, il cavallo di Giulio Cesare e come Incitatus, il cavallo di Caligola.



            IL CAVALLO ROMANO


            L'esercito romano, come al solito in ogni modo e in ogni campo dell'efficienza romana, era una fucina di sperimentazione. I cavalli che utilizzavano i romani e che nel I e II secolo d.c. percorrevano quotidianamente la strada delle Gallie attraverso la Valle d'Aosta erano ormai piuttosto simili a quelli che vediamo oggi.

            I romani utilizzavano i cavalli, oltre che nelle gare degli ippodromi (soprattutto gare di bighe che appassionavano per la velocità e la violenza dei contendenti), anche nelle venationes, ovvero nei combattimenti contro le fiere nei circhi. Fu durante l’età romana che venne a formarsi la classe sociale dei cavalieri, tratta dall’aristocrazia, non sempre italica e spesso di origine barbara, ma nobilitata dalla cittadinanza romana in base alla lex pompeia.



            CAVALLO DELLA MAREMMA LAZIALE

            Il cavallo caratteristico degli antichi romani, almeno all'inizio e per lungo tempo, fu quello della maremma laziale, tanto è vero che nel 2010 è stato inserito dal MiPAF nel "registro delle razze autoctone", come razza originaria della Maremma Laziale.

            Esso presenta un mantello baio in tutte le gradazioni, o morello, o sauro o grigio, ha la testa lunga con collo muscoloso e arcuato; criniera lunga e folta; coda bassa, folta e lunga, petto ampio, zampe muscolose e robuste; temperamento: docile e coraggioso.

            Nel mondo antico, e a roma in particolare, i cavalli rappresentavano una risorsa bellica fondamentale e spesso cruciale per la superiorità sui campi di battaglia. Se ne studiavano le razze, l'addestramento la bardatura e le decorazioni. I cavalli li avevano quelli che potevano permetterselo, ma in seguito i cavalieri vennero stipendiati e il loro cavallo era fornito dallo stato.

            I cavalieri romani, gli equites, provenivano da un ceto elevato della popolazione, un ceto che tenevano a mostrare mediante l'armatura e gli ornamenta del cavallo, ornamenta che potevano essere in bronzo.

            Mentre i muli erano fondamentali per il trasporto di carri, raramente per lo stesso scopo erano usati i cavalli, anche perchè l'equis romano viveva un po' in simbiosi col suo cavallo. Gli dava un nome, lo addestrava, ci parlava, lo accarezzava o lo rimproverava, gli forniva il cibo e le cure.

            Cesare fornì il suo esercito di medici e di veterinari, perchè costava meno pagare dei professionisti che rimetterci uomini e animali, ma soprattutto perchè il morale delle truppe era più alto se si sentiva rassicurato dalla possibilità delle cure, per se stessi e per i cavalli.

            Questa affezione verso questi animali si notava anche nella cura che i cavalieri ponevano nel bardare in modo elegante e prezioso il proprio cavallo. Non solo dava lustro al suo padrone ma spesso le bardature erano degli emblemi che il cavaliere ripeteva sulla propria armatura, come a formare un legame anche visivo tra lui e l'animale.


            I CAVALLI CELTICI 

            La grande strada delle Gallie che attraversa la Valle d'Aosta, sin dagli ultimi secoli a.c., viene frequenta da cavalli che recano in groppa di volta in volta guerrieri celti conquistatori della pianura del Po e ufficiali che conducono le temibili legioni romane alla conquista delle Gallie, magari con squadroni mercenari, oppure prefetti e alti funzionari dell’amministrazione romana che si muovono attraverso i valichi alpini per ragioni d’ufficio.

            La strada precorre il fondovalle e s'inerpica in direzione dei grandi valichi in "Summo Poenino" e in "Alpis Graia". Le cavalcature percorrono questo itinerario, ma difficilmente si addentrano nelle valli laterali, perché il cavallo rimane un animale tipico delle pianure, talora bizzarro e desideroso di correre, e i montanari non lo sanno né trattare, né gestire.

            Così dal cavallo, dalla specie primigenia del selvatico europeo, grazie a numerosi incroci con specie esotiche introdotte dalle popolazioni che nel corso dei secoli hanno invaso le terre del continente, gli allevatori dell'antichità hanno ottenuto animali più dotati grandi e veloci, oppure più forti, robusti e adatti al tiro.



            LE RAZZE DEI CAVALLI

            "Sappiamo che nella corsa il cavallo arabo è il primo del mondo. Di grandezza media, di forme leggere ed eleganti, valoroso, energico, coraggioso e  docile insieme. 

            I cavalli delle coste della Barberia (cioè i cavalli arabi) si distinguono per la forza e la velocità, ma sono rarissimi, per cui questa razza è ricercata principalmente per gli stalIoni. 

            I cavalli spagnoli vengono subito dopo, massime i cavalli dell' Andalusia, i quali sono robusti e tuttavia leggeri nella corsa, pieni di ardore, di fuoco, di agilitå; i più belli vengono dal regno di Cordova. I cavalli delle Asturie furono più forti ma meno belli."

            (Storia Naturale delle Manifatture - 1840)


            Per Sallustio l'uomo deve sforzarsi di emergere sugli animali:

            Tutti gli uomini che bramano ergersi sugli altri esseri muniti di anima devono sforzarsi con ogni mezzo per non trascorrere la propria vita nel silenzio, come gli armenti, che la natura ha fatto con il capo chinato verso la terra e schiavi del ventre”.

            Dare a un uomo dell'animale è un'offesa, eppure l'uomo è un animale.

            Sallustio dimenticava che l'uomo non è affatto più libero degli altri animali, perchè anche se non è schiavo del ventre, e talvolta lo è, si è fabbricato molte altre schiavitù che gli animali non hanno.

            Ovvero chi li rende schiavi non è il ventre ma l'uomo.



            LE VENATIONES

            Le venationes che si tenevano negli anfiteatri e nei circhi si basavano sul principio, molto umano e troppo umano, secondo cui gli animali, in quanto esseri privi di anima e di morale, si potevano uccidere o sacrificare.

            Diverso era invece il concetto nelle parate di animali previste nei trionfi, soprattutto dei cavalli che avendo partecipato alle battaglie, erano in parte artefici delle vittorie.

            I trionfi dell’antica Roma erano uno spettacolo molto suggestivo ma soprattutto molto emozionante. In questa splendida cerimonia piena di colori e metalli lucenti, si esibivano, al pari degli esseri umani, i cavalli dei vincitori e dall’altro gli animali degli sconfitti.

            I cavalli avevano naturalmente la posizione d’onore e rappresentavano l’élite militare che i Romani esibivano come segno della loro potenza. Trovavano posto in parata però anche asini e muli, gli altri equidi utilizzati in guerra insieme ai cavalli.

            Per i collegamenti strategici tra le fortificazioni venivano utilizzati equini dolicomorfi, ovvero razze leggere, in genere di origine orientale, perchè veloci ed agili. Negli scontri si utilizzavano invece cavalli mesomorfi, più pesanti e resistenti, perché i dolicomorfi, nonostante il continuo addestramento, facilmente si terrorizzavano durante le battaglie e poi, avendo ossa più fragili facilmente si procuravano fratture.

            Nonostante i limiti del loro impiego, comunque, erano l'arma principale delle cavallerie greche e romane, e per la loro cura era prevista, nelle file dell'esercito, la figura ad hoc del "mulomedicus", insomma il veterinario. I cavalli erano quindi molto ben curati e la loro carne non era consumata se non in casi di emergenza.

            I romani pensavano a tutto, o almeno pensavano sempre a tutto ciò  che poteva renderli più potenti in battaglia, per cui ogni cosa ed ogni animale venivano accuratamente vagliati. In più ebbero una particolarità spesso carente in altri popoli: pur sentendosi superiori rispetto ai popoli barbari, osservavano attentamente i loro avversari per carpirne qualsiasi comportamento o mezzo che potesse facilitarli in battaglia.

            I romani si sentivano superiori per la loro civiltà ed effettivamente lo erano, ma furono dei maestri nel copiare qualsiasi espediente nemico che potesse giovargli: dalle armi alle strategie, ai meccanismi, alle opere di ingegneria e agli animali. I romani usarono e addestrarono cavalli, muli, asini, elefanti, dromedari e cani, il tutto soprattutto per la guerra.

            EPONA LA DEA DEI CAVALLI


            AI TEMPI DI ROMOLO

            La cavalleria romana (composta da equites = cavalieri) era un corpo dell'esercito romano reclutato fin dai tempi di Romolo tra la cittadinanza romana (in seguito tra i socii latini e poi tra i provinciali, ovvero auxiliari), e fu Romolo, il I re di Roma a creare il primo esercito romano, cioè la legione romana.

            Questa era formato da 3.000 fanti (pedites) e 300 cavalieri (equites), che vennero arruolati dalle tre tribù che formavano la primitiva popolazione di Roma: i Tities (sabini), i Ramnes (latini) ed i Luceres (etruschi), tutti tra i 17 ed i 46 anni, e in grado di potersi permettere il costo dell'armamento.

            Sia le 80 centurie di fanteria (ognuna dai 60 ai 160 fanti) che i i cavalieri, dovevano disporre di un reddito superiore ai 100.000 assi, perchè lo stato non li pagava. Del resto combattere per la patria era un grande onore che dava lustro a sè, alla propria "familia" e alla propria "gens".
            Erano equipaggiati di:
            - un elmo,
            - uno scudo rotondo (clipeus) in bronzo,
            - una lancia leggera,
            - una spada,
            - nessuna armatura ma una semplice trabea (mantello rosso e corto), per cui era facile e comodo salire e scendere da cavallo (Polibio).

            La cavalleria era posta ai lati della fanteria legionaria, ed aveva capo un "tribunus celerum", al diretto comando del Rex. Quando però ai romani si unirono i sabini Romolo raddoppiò l'esercito con 6000 fanti e 600 cavalieri; inoltre costituì una guardia personale di altri trecento cavalieri chiamata Celeres (eliminata poi da Numa Pompilio).

            LA SELLA ROMANA


            IV SECOLO A.C.

            Attorno alla metà del IV secolo a.c., durante la guerra latina, l'esercito era diminuito, le legioni avevano un massimo di 5.000 fanti e sempre 300 cavalieri. Polibio nel VI libro delle "Storie" scrive che al principio della II guerra punica (218-202 a.c.) i cittadini romani erano diventati di leva, obbligati a prestare servizio militare, entro il quarantaseiesimo anno di età, per almeno 10 anni i cavalieri e 16 anni per i fanti (o anche 20 in caso di pericolo straordinario).
            La funzione della cavalleria legionaria di epoca regia e inizio Repubblica,  aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di scorta, nonché per sabotaggi o inseguimento al termine della battaglia, o per prestare soccorso a reparti di fanteria in difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma staffe e sella erano sconosciuti per cui non conoscevano le "cariche". 
            Tito Livio racconta che ancora nel 499 a.c., il dittatore Aulo Postumio Albo Regillense, ordinò ai cavalieri di scendere dai cavalli ed aiutarie la fanteria contro quella dei Latini in prima linea.« Essi obbedirono all'ordine; balzati da cavallo volarono nelle prime file e andarono a porre i loro piccoli scudi davanti ai portatori di insegne. Questo ridiede morale ai fanti, perché vedevano i giovani della nobiltà combattere come loro e condividere i pericoli. I Latini dovettero retrocedere e il loro schieramento dovette ripiegare. »
            (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 20.)
            Si trattava delle fasi conclusive della battaglia del lago Regillo del 496 a.c., quella dei famosi Dioscuri. I cavalieri romani risalirono, infine, sui loro destrieri e si diedero ad inseguire i nemici in fuga. La fanteria tenne dietro. Venne conquistato il campo latino.



            ETA' REPUBBLICANA (264-146 a.c.)

            Ogni legione era formata da 4.200 fanti (al massimo a 5.000) e da 300 cavalieri. Questi ultimi erano divisi in dieci squadroni, e a capo di ognuno c'erano tre comandanti. Il primo ufficiale comandava lo squadrone di trenta elementi, e gli altri due svolgevano la funzione di decadarchi (o decaduchi), cioè capi di dieci cavalieri, e tutti e tre si chiamavano decurioni. In assenza del più alto in grado, gli succedeva il secondo e poi il terzo.

            L'armatura dei cavalieri era simile alla greca, e lo scudo di pelle di bue fu sostituito dall'oplon greco, più solido e saldo, ottimo contro gli attacchi da lontano e da vicino. E pure la lancia, un tempo sottile che spesso si spezzava, fu sostituita con una di tipo greco, robusta e rigida, e con un puntale a ciascuna estremità.

            Le unità alleate di socii, cioè le Alae, poste appunto alle "ali" dello schieramento, erano costituite dallo stesso numero di fanti, ma dal triplo dei cavalieri (900 per unità). Polibio narra che ai cavalieri romani erano date razioni mensili per sette medimni di orzo e due di grano che venivano detratti dallo stipendium, mentre agli alleati (socii), anch'essi cavalieri, venivano dati gratuitamente un medimno ed un terzo di frumento e cinque di orzo al mese.

            LA VITTORIA DI ANNIBALE

            ANNIBALE E' ALLE PORTE

            Siamo alle Guerre Puniche. La grande capacità tattica di Annibale aveva messo in crisi l'esercito romano. Le sue manovre imprevedibili, fantasiose, repentine, affidate soprattutto alle ali di cavalleria cartaginese e numidica, avevano distrutto interi eserciti romani, pur superiori nel numero, come era avvenuto soprattutto nella battaglia di Canne del 216 a.c., dove perirono 50.000 Romani. Un disastro, per i costi, per i morti e per l'orgoglio dei romani, abituati a vincere con un esercito invece inferiore.

            Questo portò ad una rielaborazione della tattica legionaria, ma soprattutto all'impiego di contingenti di cavalleria di regni alleati, dato che tanti giovani romani e italici erano morti per cui mancavano i combattenti. Così avvenne con Scipione Africano nella battaglia di Zama del 202 a.c., dove l'esercito romano, con 4.000 cavalieri alleati numidi, comandati dal valoroso Massinissa, riuscì a sconfiggere per sempre l'esercito di Annibale.



            TARDA ETA' REPUBBLICANA (146-31 a.c.)

            Verso la fine del II secolo a.c. Roma dovette affrontare una guerra in Numidia dove nessuna recluta era disposta ad andare, perchè i Numidi non erano considerati significativi e il bottino era inesistente. Allora il grande Gaio Mario, console di quell'anno e zio di Giulio Cesare, decise di aprire le legioni a chiunque, tutto a spese dello stato, permettendo a tutti, compresi i nullatenenti, di arruolarsi. Potè così formare un esercito di professionisti pagati e superallenati, e la stessa cavalleria legionaria venne sostituita almeno in parte, con speciali corpi di truppe ausiliarie o alleate.



            GIULIO CESARE

            Anche Gaio Giulio Cesare, nel corso della conquista della Gallia, apportò alcune modifiche all'esercito. Egli introdusse un cursus honorum per il centurionato, basato sui meriti e non sul census del singolo individuo, si che per gesti di particolare eroismo, alcuni legionari venivano promossi fino al vertice della legione dove si trovava il primus pilus. 

            Ma poteva anche avvenire che un primus pilus venisse promosso a "tribunum militum". Il merito permetteva così, anche ai militari di umili origini, di poter accedere all'ordine Equestre. Scemò la discriminazione tra ufficiali e sottufficiali, e si rafforzò lo spirito di gruppo e la professionalità delle unità, dove tutti potevano aspirare a tutto secondo i meriti. Non dimentichiamo che Cesare, per quanto aristocratico, apparteneva al partito dei "populares".
            Il lungo contatto con il mondo dei Celti e dei Germani lo indusse a rivalutare il corpo della cavalleria, tanto che ne fece un impiego sempre più ampio, reintroducendo una unità di cavalleria permanente accanto alla fanteria delle legioni ed a quella ausiliaria. Reclutò tra le sue fila soprattutto Galli e Germani, ponendole sotto i decurioni romani, con grado pari a quello dei centurioni legionari.

            L'equipaggiamento dei cavalieri cambiò e furono equipaggiati con:
            - un sago, una cotta di maglia in ferro,
            - l'elmo,
            - uno scudo rotondo,
            - il gladio,
            - il pilum, o un'asta più pesante detta contus.
            La sella era di tipo gallico, con quattro pomi, ma senza staffe. I cavalli erano probabilmente ferrati secondo la tradizione gallica.
            Cesare introdusse inoltre le "coorti equitate", corpi di cavalleria misti a fanteria, sull'esempio di molte tribù germaniche, tra cui i Sigambri, e furono utilizzate da Cesare con continuità a partire dall'assedio finale di Alesia. In questa unità tattica, dove a ciascun cavaliere era abbinato un uomo a piedi, la difesa ma pure l'offesa, avveniva in modo molto più efficace.

            Dopo di lui il nome Cesare divenne sinonimo di imperatore romano. Anche per Asturcone, la fama di Cesare significò fama per sé. Come Bucefalo, riflesse la grandezza del proprio padrone, divenendo soggetto di aneddoti in bilico tra mito leggendario e realtà. 

            Morì prima di Cesare poiché fece in tempo a consacrargli una statua eretta dinanzi al tempio familiare di Venere Genitrice nell’omonimo Foro. E’ ancora lo storico Svetonio a dircelo nelle sue ‘Vite dei Cesari’: “Dopo la sua morte ne fece innalzare la statua davanti al tempio di Venere Genitrice’”. 

            CATAFRATTO ROMANO

            OTTAVIANO AUGUSTO (30 a.c.-14 d.c.)

            La cavalleria ausiliaria (formata da provinciali e alleati, i cosiddetti peregrini) della riforma augustea, insieme alla fanteria delle legioni (formate da cittadini romani), divenne il supremo strumento tattico e permanente dell'esercito romano. 

            Augusto volle distinguere prima di tutto le carriere superiori dalle inferiori. Egli dettò dei parametri d'avanzamento che comunque, in particolare per l'ordine equestre, videro la loro completa definizione a partire da Claudio, se non dai Flavi. In particolare per le carriere militari, Augusto riorganizzò il cursus honorum del: prefetto di coorte, tribuno angusticlavio di legione, compreso il triplo tribunato a Roma per il Prefetto dei vigili, il Prefetto urbano, il Prefetto del Pretorio e il prefetto d'ala.

            Narra Appiano di Alessandria che durante la guerra civile romana, poco prima di Filippi del 42 a.c., Marco Giunio Bruto disponeva di 4.000 cavalieri tra Galli e Lusitani, oltre a 2.000 traci, illirici, parti e tessali; mentre l'alleato Gaio Cassio Longino di altri 4.000 arcieri a cavallo tra Arabi, Medi e Parti.

            Si trattava di reparti di cavalleria:

            - cavalleria pesante
            come gli equites cataphractarii o equites clibanarii (di origine orientale o sarmata, a partire dai principati di Traiano e Adriano), con: 
            - una lunga e pesante lancia, chiamata contus (usata a due mani, poiché a volte raggiungeva i 3,65 metri di lunghezza), 
            - armatura di maglia di metallo, per cavaliere e cavallo, detta lorica squamata, se formata da "scaglie" di metallo; 
            - armatura di maglia di metallo, per cavaliere e cavallo, detta lorica hamata, fatta da anelli del diametro di 3-9 mm.

            - cavalleria leggera
            come quella numida o maura, con:
            - un piccolo scudo rotondo (clipeus), 
            - una spada più lunga del gladio, lunga fino a 90 cm,
            - una lancea più leggera (normalmente lunga 1,8 metri)
            - e in alcuni casi un'armatura (lorica hamata o squamata);

            - cavalleria asagittaria
            come gli arcieri orientali o quelli Traci a cavallo;
            - cavalleria mista
            (di cavalieri e fanti) come le coorti equitate. 
            Narra Vegezio che tutti i soldati romani, dai cavalieri ai legionari, erano comunque addestrati a montare a cavallo, cosa del resto introdotta a suo tempo da Giulio Cesare.

            Queste popolazioni vennero arruolate all'inizio lungo le frontiere perché conoscevano bene i luoghi, ed erano affidate al comando di un re o principe cliente nativo del posto (il praefectus equitum citato dallo stesso Cesare), poi, verso la seconda metà del I secolo, vennero poi sottoposte ad un praefectus alae o ad un praefectus cohortis equitatae dell'ordine equestre. Col tempo furono inviate ovunque lungo i confini.

            CATAFRATTO II SECOLO D.C.

            « Non soltanto alle reclute, ma anche ai soldati di professione è sempre stata richiesta la capacità di montare a cavallo.

            Cavalli di legno erano predisposti in inverno al coperto, d'estate nel castrum.

            I giovani dovevano montare inizialmente senza nessuna armatura, fino a quando non avevano sufficiente esperienza, in seguito armati.

            Ed è così grande la cura che ci mettono che questi non solo imparavano a salire e scendere da destra ma anche da sinistra, tenendo in mano persino le spade sguainate e le lance.

            Si dedicavano a questo esercizio in modo assiduo, poiché nel tumulto della battaglia potevano montare a cavallo senza indugio, visto che si erano esercitati tanto bene nei momenti di tregua. »

            (Vegezio, Epitoma rei militaris, I, 18.)

            La paga (stipendium) per un cavaliere di ala si aggirava attorno ai 250 denari, mentre per un cavaliere di coorte equitata attorno ai 150/200 denari.
            I soldati ausiliari prestavano servizio per 25 anni, al termine del quale ricevevano un diploma militare che ne attestava il congedo (honesta missio), oltre ad un premio (in denaro o un appezzamento di terra, quasi fosse una forma di pensione dei giorni nostri), la cittadinanza romana ed il diritto a contrarre matrimonio (conubium). 


            Alae quingenarie

            Le alae di cavalleria inizialmente furono solo quingenarie (composte cioè da 500 armati circa). Erano divise in 16 turmae da 32 uomini (comandate ciascuna da 16 decurioni), per un totale di 512 cavalieri. Fornivano alle legioni truppe di ricognizione e di inseguimento, oltre a costituire elemento d'urto sui fianchi dello schieramento nemico.


            Cohors equitatae quingenarie

            Le coorti equitatae erano anch'esse inizialmente solo quingenarie. Ne abbiamo notizia fin dal principato di Augusto, da un'iscrizione rinvenuta a Venafro nel Sannio. Si caratterizzavano dalle normali coorti ausiliarie per essere unità militari miste, formate da:
            - 6 centurie di 80 fanti ciascuna (secondo Giuseppe Flavio da 6 centurie di 100 fanti) 
            - 4 turmae di cavalleria di 32 cavalieri ciascuna, per un totale di 480 fanti e 120 cavalieri. 
            Furono prese a modello dal combattimento dei Germani, descritto da Cesare nel suo De bello Gallico.

            SCUDERIE ROMANE


            ALTO IMPERO - I E II SECOLO

            Dinastia dei Flavi (69 - 96)
            vennero introdotte le unità ausiliarie milliariae, composte da circa 1.000 armati, divise in:
            - cohortes peditatae,
            - cohortes equitatae
            - alae di cavalleria, compste da 24 turmae di 32 uomini per un totale di 768 cavalieri. Al comando venne posto un praefectus alae dell'ordine Equestre, che restava in carica 3 o 4 anni, potendo poi adire all'ordine senatoriale. La paga (stipendium) fu invece aumentata di un quarto, portando così il compenso annuo a 333 denari per un cavaliere d'ala e a 200/266 denari per un cavaliere di cohors equitata.

            Traiano (53 - 117)
            durante le guerre di conquista di Traiano, fu introdotto il "contus" (lunga lancia da "carica", fino a 3,65 m di lunghezza) per la cavalleria, oltre ad un primo reparto di cavalieri su dromedari ed un contingente di Daci.

            Adriano (117-138)
            istituì i "numeri", reparti ausiliari di vari numeri di fanti o di cavalieri, che conservavano le proprie caratteristiche etniche e spesso svolgevano compiti specifici. Creò anche un'ala di cavalieri catafrattari (muniti di contus, una pesante e lunga lancia; ricoperti da una pesante maglia di metallo, compresi i cavalli), l'Ala I Gallorum et Pannoniorum catafractaria, formata da cavalieri sarmati Roxolani vennero posti in Gallia e Pannonia dopo le guerre contro di loro nel 107-118.

            Marco Aurelio (121 - 180)
            Introdusse nuovi reparti di cavalleria sarmatica (degli Iazigi) durante le guerre marcomanniche (nel 175).

            Settimio Severo (193 - 211)
            Utilizzò frequentemente unità ausiliarie di arcieri e di cavalieri, soprattutto corazzati come i catafrattari (chiamati clibanarii a partire dal regno di Costanzo II), reclutati soprattutto in terre orientali.



            GLI EQUITES SINGULARES

            Gli Equites singulares Augusti erano la cavalleria personale dell'imperatore, un corpo militare all'inizio di 500 cavalieri, facenti parte della guardia pretoriana, che costituivano la scorta dell'imperatore e ne e garantivano la sua sicurezza durante le campagne militari. Istituiti al tempo della dinastia flavia e ampliati da Traiano, vennero sciolti da Costantino I dopo la battaglia di Ponte Milvio, in quanto gli Equites singulares si erano schierati al fianco di Massenzio.

            Erano organizzati in alae di cavalleria, con ciascuna ala divisa in 16 turmae da 32 uomini, 16 decurioni, un decurione princeps, e comandate da un praepositus consularis per un totale di 512 cavalieri. Il loro numero potrebbe essere stato raddoppiato a 1.000 uomini sotto Diocleziano.

            Per diventare equites singulares occorreva un'esperienza di almeno cinque anni nell'esercito, reclutati solitamente tra le alae ausiliarie, mentre l'etnia prevalente era prima germanica, poi a partire da Settimio Severo (146 - 211), in maggioranza fu composta da Pannoni, Daci e Traci. Il servizio durava venticinque anni.  Con il reclutamento i soldati ottenevano automaticamente la cittadinanza romana. 

            I CAVALLI NELL'ACCAMPAMENTO


            IL III SECOLO

            Massimino il Trace (173 - 238)
            aumentò ulteriormente l'importanza della cavalleria di origine germanica e catafratta di origine sarmata, arruolata dopo aver battuto queste popolazioni durante le guerre del 235-238.

            Gallieno (253 - 268)
            Non potendo proteggere contemporaneamente tutte le province dell'impero, creò, gli anni 264 - 268,, una riserva strategica di soldati ben addestrati pronti ad intervenire dove serviva nel minor tempo possibile. 
            Questa riserva strategica centrale (che sarà alla base della futura riforma dell'esercito di Diocleziano), formata prevalentemente da unità di cavalleria pesante dotate di armatura (i cosiddetti promoti, tra cui spiccavano gli equites Dalmatae, gli equites Mauri et Osroeni), poiché questi percorrevano distanze maggiori in minor tempo della fanteria legionaria o ausiliarie. 
            Ogni volta che i barbari sfondavano il limes e s'inoltravano nelle province interne, la "riserva strategica" interveniva veloce e massiccia. La base principale scelta da Gallieno fu posta a Milano, equidistante da Roma e dalle vicine frontiere settentrionali di Rezia e Norico. 
            I generali che comandavano questa forza, acquisirono un potere incredibile tanto che futuri augusti o usurpatori della porpora imperiale, come Aureolo o Aureliano, ricoprirono questo incarico prima di diventare imperatori. Il numero di cavalieri passò da 120 a 726 per legione dove la prima coorte era composta da 132 cavalieri, mentre le altre nove di 66 ciascuna. Questo incremento fu dovuto proprio alla necessità di avere un esercito sempre più "mobile".

            CAVALIERI CARAFRATTI


            IL TARDO IMPERO

            La riforma militare operata da Diocleziano (244 - 313) fu quella di nominare, come suo vice (in qualità prima di cesare e poi di co-augusto), un valente ufficiale di nome Marco Aurelio Valerio Massimiano (285-286), formando così una diarchia in cui i due imperatori si dividevano il governo dell'impero e la sua difesa.

            Per contenere le numerose rivolte all'interno dell'impero, nel 293 Diocleziano nominò come suo cesare per l'oriente Galerio e Massimiano fece lo stesso con Costanzo Cloro per l'occidente.

            Vexillationes di cavalleria
            Diocleziano trasformò la "riserva strategica mobile" introdotta da Gallieno (di sola cavalleria) in un vero e proprio "esercito mobile" detto "comitatus", costituito da due vexillationes di cavalleria (tra Promoti e Comites), e tre legiones (Herculiani, Ioviani e Lanciarii) e poi un "esercito di confine".

            Costantino completò la riforma militare di Diocleziano, suddividendo l'"esercito mobile" in "centrale" (unità palatinae) e "periferico" (unità comitatenses).



            LA DECADENZA DELLA CAVALLERIA

            La cavalleria cittadina romana cominciò a decadere come arma combattente già in epoca repubblicana.

            Molti degli equites prestavano servizio come magistrati o come ufficiali superiori e gli altri provavano una crescente riluttanza a servire nella truppa degli squadroni.

            Gli equites, fortemente rivalutati da Augusto, non a caso suo padre era un equis, si trasformarono così in una classe che, quando prestava servizio, esigeva di farlo nel grado di ufficiale.

            Il governo romano accettò la trasformazione della cavalleria cittadina, per cui ricorse sempre più agli alleati e agli ausiliari stranieri.

            Spesso i cavalieri orientali erano ottimi cavallerizzi ma lo spirito del soldato romano non era sostituibile con gli stranieri.



            GLI AUXILIA

            Gli auxilia a cavallo erano formati di numidi, che ebbero gran parte nella vittoria di Zama e più tardi nella guerra numantina, e vi si aggiunsero poi cavalieri spagnoli e, dopo Cesare, anche galli e germani.

            Formati per nazionalità e spesso comandati direttamente dai loro capi indigeni, conservavano di solito l'armamento nazionale anche se alcuni corpi vennero anche equipaggiati e disciplinati alla romana e organizzati in alae e turmae. L'ultimo tentativo di far rinascere la cavalleria cittadina fu fatto da Pompeo nella guerra contro Cesare che però non dette grande prova di sè nella guerra civile a Farsalo.

            Gli auxilia da allora in poi vennero assunti stabilmente per cui scomparve per sempre la cavalleria legionaria. La cavalleria romana repubblicana fu in complesso una mediocre cavalleria. In battaglia ebbe sempre una parte secondaria e le vittorie di Roma furono infatti essenzialmente di fanteria dove era il nerbo dell'esercito.



            LE STRATEGIE

            Secondo lo schema abituale, la cavalleria si schierava alle due ali dell'esercito, la cittadina a destra, l'alleata a sinistra, con lo scopo di spazzar via la cavalleria e attaccare quindi ai fianchi o alle spalle della fanteria nemica. Se le forze non le permettevano di raggiungere questo risultato, i cavalieri romani cercavano d'impegnare la cavalleria avversaria, trascinandola lontano dal campo di battaglia.

            L'attacco avveniva:
            - o in ordine chiuso, "confertis equis",
            - o in ordine rado, senza intervallo fra gli squadroni, "confertis turmis",
            - o con gli squadroni distanziati, "distractis turmis".
            - Per la carica si toglievano alle volte i morsi ai cavalli, "effrenatis equis".
            - L'attacco si risolveva in una lotta corpo a corpo, "stantibus equis",
            - o più spesso in un combattimento a stormi, con alternative di attacchi e di ritirate, "more equestris proelii sumptis tergis atque redditis".

            Sovente la cavalleria veniva appiedata una volta raggiunto il fronte per combattere a terra. Con lo sparire della cavalleria italica uniformemente armata e istruita, i reparti a cavallo degli eserciti romani, divennero auxilia con armamento e tattica nazionale, e quindi assai diversi da un contingente all'altro, non viene di regola usata più in massa sul campo di battaglia, ove la superiorità della fanteria era universalmente riconosciuta.

            Gli scopi della cavalleria diventarono quelli di molestare il nemico in marcia, rendergli difficile l'approvvigionamento, costringerlo a fermarsi e ad accettare battaglia e infine inseguirlo dopo la battaglia. In seguito alla riorganizzazione dell'esercito fatta da Augusto, la legione romana tornò ad avere un esiguo reparto di cavalleria sebbene il grosso della cavalleria dell'esercito imperiale continuò ad essere costituito dalle:
            - alae ausiliarie, quinquagenariae, formate da cinquecento cavalieri,
            - alae milliariae, costituite da mille cavalieri, reclutate nelle provincie.

            Le alae potevano essere aggregate alle varie legioni e acquartierate nei loro campi. Inoltre un certo numero di coorti ausiliarie di fanteria, dette equitatae, comprendevano normalmente un contingente di cavalleria.

            LA CAVALLERIA DELLA GUARDIA IMPERIALE

            Anche la guardia imperiale dei pretoriani aveva la sua cavalleria, una turma per ognuna delle sei centurie di una coorte pretoria, e anche i Batavi erano valenti cavalieri germanici del delta del Reno nonché "custodes corporis", guardia del corpo germanica degl'imperatori della casa Giulia.

            Tale guardia del corpo venne disciolta da Galba e sostituita poi all'epoca dei Flavî o di Adriano dallo squadrone degli "equites singulares", guardie del corpo imperiali reclutate fra gli abitanti delle provincie settentrionali e poi anche tra gli ottimati cittadini fino all’epoca di Costantino.

            Con l'imperatore Gallieno nel terzo secolo d.c., la cavalleria fu aumentata nelle quantità e le legioni furono private dei loro contingenti a cavallo, i quali vennero riuniti in grossi corpi, in modo che la cavalleria potesse essere adoperata a masse e come elemento tattico di prima importanza sul campo di battaglia.

            Pochi anni dopo, però, Diocleziano rese i reparti di cavalleria almeno a un certo numero di legioni: la legione dioclezianea di Vegezio contava più di seimila fanti e oltre settecento cavalieri.

            Da Costantino la forza armata dell'impero fu divisa in due categorie:
            - l'esercito di campagna o di manovra, formata in vexillationes di cinquecento cavalli
            - l'esercito presidiario ai confini, con formazione tradizionale in ali.



            IL PREDOMINIO DELLA CAVALLERIA SULLA FANTERIA

            A capo della cavalleria venne posto un "magister equitum praesentalis". Nel basso impero la cavalleria dovette essere aumentata per fronteggiare gli eserciti di cavalleria delle popolazioni asiatiche e dell'Europa nord-orientale.

            La fanteria invece perse la supremazia e quasi sparì dall'esercito bizantino, nel quale il vero guerriero era a cavallo, ma che sapeva combattere anche a piedi. Il contrario della fanteria di Cesare, che sapeva combattere anche a cavallo.

            Durante l'epoca bizantina si modificò la corazza dei cavalieri, prima di cuoio duro, che divenne una ampia corazza di metallo su cavaliere e cavalli, donde il nome di catafratti (cataphracti, cataphractarii o clibanarii). Parti metalliche proteggevano anche braccia e gambe, molto simile a quella dei cavalieri medievali.



            I GERMANI

            Sul campo di battaglia la cavalleria iniziò ad acquisire il predominio per fronteggiare gli invasori dall'Asia, provetti cavalieri, ma presso i germani la superiorità della cavalleria dipendeva in gran parte dall'incapacità di disciplina nella fanteria. Così germani furono essenzialmente cavalieri e celebrati come tali furono, sin dall'inizio del IV secolo d.c.: gli Alamanni, gli Ostrogoti, i Franchi e i Vandali.

            Dei Vandali fatti prigionieri si servì Giustiniano che arrivò a formare ben cinque reggimenti di cavalleria da inviare in Oriente. Con la fine dell’Impero Romano d’Occidente, si erano diffusi negli eserciti dell'Europa centrale e specie dell'Italia, corpi speciali di cavalleria levantina, quali schiavoni, stradiotti e argoletti con l'incarico di esplorare e fiancheggiare le pesanti compagnie delle genti d'arme.



            BIBLIO

            A. Frediani - Le grandi battaglie di Roma antica - Roma - 2009 -
            - Elwyn Hartley Edwards - La Nuova Enciclopedia Illustrata del Cavallo - Milano - Mondadori - 1995 - - Giovanni Brizzi - Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma - Roma-Bari - Laterza - 2007 -
            - Giovanni Brizzi- Studi militari romani, Bologna, CLUEB, 1983.
            - J. R. González - Historia de las legiones Romanas - Madrid - 2003 -
            - Edward N. Luttwak - La grande strategia dell’Impero romano -
            - Plutarco - Vita di Romolo -
            - Le Bohec - L’esercito romano: le armi imperiali da Augusto alla fine del III secolo - Parigi - 1989 -

            EGNAZIA - GNATIA (Puglia)

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            EGNAZIA

            Egnazia, locata in Puglia presso Savelletri di Fasano, in provincia di Brindisi, è un'antica città messapica confinante a nord con la Peucezia (abitata dai Peuceti, una delle tre tribù degli Iapigi, le altre due i Dauni e i Messapi), lungo la soglia messapica che divide la Murgia (Valle d'Itria) dal Salento (Alto Salento). Il suo nome era Gnathia, chiamata dai Romani Egnatia o Gnatia e dai Greci Egnatia o Gnàthia.

            Il porto di Egnatia veniva soprattutto utilizzato per raggiungere la Via Egnatia, o Ignazia, che congiungeva l'Adriatico con l'Egeo e il Mar Nero, la cui realizzazione fu ordinata nel 146 a.c. dal proconsole di Macedonia Gaio Ignazio, che dette il nome alla città e alla via.

            Oggi il centro d'Egnazia è uno dei più interessanti siti archeologici della Puglia, che ha dato il nome a un preciso tipo di ceramica del IV e III secolo a.c. lì rinvenuto, lo "stile di Gnatia"



            LA STORIA

            «Per chi naviga da Brindisi lungo la costa adriatica, la città di Egnazia costituisce lo scalo normale per raggiungere Bari, sia per mare che per terra.»

            (Strabone, fine I secolo a.c.)
            IL PARCO ARCHEOLOGICO (INGRANDIBILE)

            Citata da Plinio, Strabone ed Orazio, nel suo viaggio da Roma a Brindisi, la città fiorì grazie al porto e alla Via Traiana (che collegava Beneventum a Brundisium), che consentirono traffici e commerci.
            L'attività principale fu l'allevamento, soprattutto del maiale, del bue e degli ovicaprini. Erano coltivati grano ed orzo, oltre che raccolte olive e ghiande.



            DAI MESSAPI AI ROMANI

            I Messapi vi si insediarono nell'VIII secolo a.c. e vi restarono fino alla conquista romana del III secolo a.c., finchè Egnazia divenne civitas foederata, probabilmente dopo il 266 a.c., e municipium, dopo la guerra sociale (91-88 a.c.).
            Della fase messapica di Egnazia resteranno solo le poderose mura di difesa e le necropoli, ove oltre a tombe a fossa e a semicamera, si annotano monumentali tombe a camera decorate con squisiti affreschi. 

            In epoca romana, il porto ospita magazzini e strutture commerciali e pure delle fornaci, usate per la produzione di materiale ceramico di uso comune. Da notare è un salvadanaio, in argilla arancione e sovradipinto con pittura rossa a motivi geometrici. Tra le altre testimonianze, una lucerna in sigillata africana, che presenta un ictius, un pesce di simbologia cristiana.



            L'ETA' ROMANA

            Le tecniche edilizie romane presenti ad Egnazia sono:
            - opus incertum - con pietre di misura diseguale poste con le facce combacianti tra loro, formanti un disegno irregolare e casuale;

            - opus africanum - "a telaio", creazione di un "telaio" ottenuto con l'inserimento di pilastri di pietra e poi completato con un riempimento di pietre più piccole e di forma irregolare, a volte legate con della terra o malta). I pilastri, originariamente in verticale, in epoca romana furono disposti alternando verticale e orizzontale, rendendo il muro forte e resistente, ottimo anche per i muri portanti e le costruzioni monumentali;

            - opus reticulatum - a tufelli con base quadrata regolare e uniformi, disposti in file regolari e ortogonali. I lati dei tufelli avevano un leggero strato di malta. Realizzato il paramento sulle due facce del muro, veniva colato all'interno il cementizio. La forma piramidale dei tufelli o cubilia, con la punta rivolta all'interno, dava forte coesione. Infine risultava un reticolo regolare disposto in diagonale;

            - opus testaceum - o opera laterizia, in mattoni;

            - opus vittatum mixtum - o opera listata, filari di laterizi alternati a blocchetti di tufo poco più grandi dei mattoni nelle costruzioni della città di Roma e dintorni a partire dal IV secolo. Molto resistenti ai terremoti.
            Vi sono tre diversi periodi di sviluppo delle tecniche edilizie: 
            - impiego di blocchi e lastroni di carattere messapico;
            - utilizzo di schemi derivanti dall'influenza di Roma;
            - in epoca paleocristiana, reimpiego di blocchi e lastroni.
            Le fasi si susseguono per circa quattro secoli, dal II secolo a.c. al III sec. d.c. La fase del "ritorno all'antico"è conseguenza della decadenza di Roma e dell'impero, testimoniato dallo spostamento della capitale imperiale a Costantinopoli. Vi è una differenza tra i blocchi e i lastroni utilizzati nell'età messapica e nell'età paleocristiana: nel secondo caso, i lastroni sono materiali di reimpiego.



            PERIODO DI AGRIPPA

            Una prima fase, connessa a Marco Vipsanio Agrippa, fautore della monumentalizzazione dell'edilizia pubblica per accrescere il consenso dei cittadini a Ottaviano e per ripagare i cittadini dell'appoggio dato ad Ottaviano nella guerra civile.

            A questa fase risalgono il criptoportico, il porto, la basilica civile, la piazza trapezoidale, l'anfiteatro, un primo impianto delle terme pubbliche. Le tecniche edilizie impiegate in questa fase sono l'opus incertum, l'opus reticulatum e quello africanum.



            PERIODO DI TRAIANO

            Una seconda fase, su ordine di Traiano riguarda la pavimentazione della Via Traiana, il "sacello delle divinità orientali", un "ambiente con vasca" a nord del sacello e alcuni setti murari collocati a ovest della via Traiana.
            Le tecniche costruttive utilizzate in questo periodo sono l'opus testaceum e l'opus vittatum mixtum. 
            Al limite est si trovano tratti di mura in grossi blocchi di tufo (la cinta difensiva più antica), mentre all'interno di tutta la pianta romana sono state ritrovate molte cisterne per l'acqua piovana e tombe scavate nelle rocce.
            Dal punto di vista delle decorazioni è da notare come in questi due periodi, seppur distanti tra loro ben due secoli, non ci siano differenze e questo perché l'architettura romana in età traianea visse una specie di "revival augusteo", ritornando ai gusti decorativi propri della prima fase di monumentalizzazione della città.
            L'opera di edificazione più imponente è un'ampia area santuariale, alle pendici dell'acropoli, con vari edifici, quasi tutti di carattere religioso, dedicati al culto della dea Cibele e del Dio Attis. Con il Cristianesimo il tempio di Cibele sarà distrutto, il teatro sacro coperto nel settore orientale e il Campus Magnae Matris invaso da strutture di vario genere. Tra le strutture di rilievo, vi erano:

            L'ANFITEATRO
            L'ANFITEATRO

            Un ampio recinto ellissoidale (37 m X 25 m), con pareti in opus africanum con tracce di pittura e intonaco. All'esterno un camminamento lastricato percorribile per lunghi tratti. Verso N-E una tribunetta in pietra, a S-W i muri radiali hanno doppio ingresso: uno sul lato della via Traiana e l'altro sul lato opposto. 

            La parte più stretta presenta una fila di sedili litici, riservati ai ceti sociali più alti, poiché il resto degli spettatori era in piedi e separati dall'arena da una staccionata lignea. In onore della Dea Cibele si svolgevano i Megalenses o Ludi Megales, una settimana di spettacoli teatrali (pantomime che mettevano in scena la morte e resurrezione del Dio Attis, che avveniva in primavera, come quella di Cristo). Negli altri giorni delle commedie greche. All'interno del teatro sacro fu ritrovata nel 1963 una statuetta acefala in marmo riproducente l'effigie del Dio Attis.



            IL CAMPUS MAGNAE MATRIS

            L'aedes inerente al tempio.





            IL TEMPIETTO DI CIBELE

            La pianta è quadrangolare allungata, a blocchi di opus africanum. Il pavimento originario era a lastre di pietra o di marmo e di età giulio-claudia, mentre la forma del podio con basso plinto è di età tardo-repubblicana.

            Sono stati ritrovati frammenti litici di leoni (dell'iconografia di Cibele), il kernos (vaso tipico dei mysteria metroaci), la maschera votiva e un bassorilievo di marmo raffigurante la Magna Mater in trono. 

            Il tempio era in antis, ovvero con ante e colonnato di ordine dorico che sporgevano a destra e sinistra dell'entrata. I muri del tempietto erano decorati con affreschi in giallo, rosso, e verde (tipici dell'arte egnatina), l'iconografia non è deducibile. All'interno doveva esserci la statua della Dea, probabilmente distrutta dai cristiani.



            UN AMBIENTE CON VASCA  

            Rivestita in calce idraulica, per purificarsi prima di entrare nel tempio, o per allevare pesci sacri in onore della Deaa Syria; o per rievocare il bagno lustrale della statua della Dea Cibele al suo arrivo a Roma.

            RICOSTRUZIONE GRAFICA DELLE TERME (By https://www.katatexilux.com/)


              SACELLO DELLE DIVINITA' ORIENTALI

              È un'area rettangolare cui si accede tramite una soglia calcarea, in cui è presente basamento litico. Su tale basamento erano raffigurati strumenti musicali (due flauti, un timpano ed un cembalo), e sulla faccia principale una iscrizione a ricordare la sacerdotessa Flavia Cypare (sacerdotessa della Magna Mater et Syria Dea):
              FLaVia... /
              SACErdOS MATRIS /
              MAGnae eT SYRIAE DEAE /
              EX ImpeRIO FECIT /
              L(ocus) D(atus) /
              D(ecurionum) D(ecreto) 

              Accanto la testa marmorea del Dio Attis e un frammento fittile raffigurante Cibele. La decorazione dell'edificio rimanda al periodo augusteo; mentre di epoca adrianea sono la testa in marmo e la mano con syrinx (flauto) di Attis scoperta nel 1964. 

              Nelle feste delle Attideia di marzo, si suonava e si svolgevano danze frenetiche, insieme alla pratica di sciogliere i capelli roteando il capo, provocavano un delirio orgiastico, al termine del quale coloro che intendevano entrare nel sacerdozio dovevano assimilarsi al Dio Attis, evirandosi con un coccio o una pietra affilata, ma non con lame in metallo, ritenuto impuro.



              LA PIAZZA PORTICATA

              Di forma quadrangolare irregolare, collegata a ovest con l'anfiteatro con un largo ingresso, a nord-ovest con il tempio di Cibele e a sud-est con il porticato ad L. È stata a lungo confusa con il foro (che invece è di fronte alla basilica civile).

              Deriva dalla connessione delle due stoà rettilinee che vengono chiuse con due bracci (è un porticato di ordine dorico, di epoca Augustea) e lastricata in tufo (di epoca traianea). La pavimentazione traianea è in pietra derivante da cave poste al di fuori di Egnazia, molto più resistente. In realtà la via Traiana, ad Egnazia, (come viene ricordato da Strabone) viene costruita intorno al 110 d.c. sulla via Minucia.



              IL CRIPTOPORTICO

              Risalente al I sec.; si tratta un criptoportico a quattro bracci, parzialmente scavato nella roccia, e coperto a volta.

              I RESTI DELLA BASILICA PALEOCRISTIANA


              ETA' TARDO ANTICA

              La città è stravolta dall'abbattimento o la trasformazione degli edifici pagani per la nuova religione paleocristiana. E' del IV secolo d.c. una fornace per materiali fittili, con camera di combustione sottostante, piano forato, cupola semisferica in collegamento con due stretti imbocchi; realizzata sulla cavità della fossa della tomba della sacerdotessa messapic Tabara.

              Egnazia diventa città episcopale, acquisendo ricchezza tramite il potere religioso in contrasto con la decadenza dell'impero. Il palazzo episcopale presenta un pavimento a mosaico (tessellatum). I culti orientali vengono cancellati; l'anfiteatro viene trasformato in foro boario per la vendita di animali.

              RICOSTRUZIONE GRAFICA (By http://www.altairsrl.net/)


              LA BASILICA EPISCOPALE


              Con tre navate, transetto, abside e nartece, (già su un'altra basilica precedente, del IV-V secolo d.c.); arricchita con mosaici geometrici e fitomorfi, con tipica simbologia cristiana, come i vasi con i fori che sbocciano ecc. La distruzione risale probabilmente alla guerra greco-gotica tra Longobardi e Bizantini.

              RICOSTRUZIONE DELLA BASILICA PALEOCRISTIANA (By http://www.altairsrl.net/)


              BASILICA PALEOCRISTIANA

              Del VI-VII secolo d.c. a tre navate, e doveva sostituire quella episcopale perché incendiata. Più piccola della basilica episcopale, forse per la diminuita popolazione. L'abside invade la carreggiata della traversa centrale che si diparte dalla Via Traiana, probabilmente ormai via inutilizzabile.

              RICOSTRUZIONE DELLA BASILICA PALEOCRISTIANA (By http://www.altairsrl.net/)



              LA CALATA DEI BARBARI

              Si pensa che, come altre città, sia stata saccheggiata dai Goti di Totila durante la guerra greco-gotica (intorno al 545 d.c.) a cui seguì anche che la diffusione della malaria in epoca paleocristiana, tanto che la Chiesa Cattolica faticò molto a contenere i convertiti forzati che lamentavano l'abbandono degli Dei che avevano assicurato la prosperità all'impero, in cambio di questo Dio incapace di proteggerli.

              A causa poi delle scorrerie dei Saraceni lungo le coste, i pochi abitanti rimasti si rifugiarono nell'entroterra dando luogo a piccoli centri come Fasano.

              LE TERME

              GLI SCAVI ARCHEOLOGICI

              Come al solito i primi rinvenimenti furono finalizzati per lo più al saccheggio e alla vendita sommaria dei reperti pervenuti., soprattutto nel 1809 quando alcuni ufficiali francesi di stanza ad Egnazia, iniziarono ad ispezionare le rovine coperte di rovi, ricavandone reperti per poi rivenderli  clandestinamente.

              TESTA DI ATTIS

              A causa della carestia del 1846 e alla conseguente mancanza di lavoro, fasanesi e monopolitani si diedero al saccheggio sistematico di centinaia di tombe per fare incetta di vasi, bronzi, oggetti d'oro, monete, statuette di terracotta che rivendevano a Napoli e altrove. Se ne dolse molto Theodor Mommsen, anche per le modalità selvagge degli scavi, privando la zona di importanti dati per ricostruirne il corso.

              Infine venne affidata un'ispezione all'architetto Carlo Bonucci, che guarda caso ricevette in dono un caduceo in oro poi venduto ai musei di Berlino, si fermò a Bari, informando le autorità napoletane che non era il caso di scavare ad Egnazia per la "scarsa consistenza dei monumenti da indagare". Il traffico era alimentato da personaggi come il Bonucci, che non menziona la vendita del caduceo che fu poi venduto fuori dall'Italia.

              I primi scavi metodici furono effettuati nel 1912, per poi riprendere nel 1939, 1964 e nel 1978, anno in cui fu costruito l'attuale museo archeologico, e sono tuttora in corso. Dal 2001 l'Università degli Studi di Bari in collaborazione con il comune di Fasano porta avanti un progetto di scavo che ha portato tra l'altro al rinvenimento dell'altra metà della piazza porticata scoperta da Quintino Quagliati nel 1912.

              IL MUSEO DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI EGNAZIA

              BIBLIO

              - Le ricerche archeologiche nell'area del “Foro” di Egnazia - Scavi 2001-2003 - relazione preliminare - in "Epigrafia e territorio" - VII - 2004 -
              - Ricerche archeologiche ad Egnazia - Scavi 2004-2006 - relazione preliminare - in "Epigrafia e territorio" - VIII - 2007 -
              - Ludovico Pepe - Notizie storiche ed archeologiche dell'antica Gnathia - Ostuni 1882 -
              - Elena Lattanzi - Problemi topografici ed urbanistici dell'antica Egnazia - in "Cenacolo" - IV -1974 -
              - Stefano Diceglie - Il Porto di Egnazia in Osservatorio Geofisico di Fasano (BR) - Fasano - 1972 -
              - Raffaella Moreno Cassano - Architetture paleocristiane di Egnazia - in "Vetera christianorum" - III 1979 -
              - Il Parco archeologico di Egnazia - a cura di Giuseppe Andreassi, Angela Cinquepalmi, Assunta Cocchiaro, Antonio Maruca - Fasano - 2000 -
              - Tappeti di pietra: mosaici da Egnazia e da Taranto - a cura di Rosa Cannarile e Laura Masiello, Valenzano - 2001 -


              PORTA SATURNIA (Porte Serviane VI sec. a.c.)

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              LA PORTA SATURNIA RITRATTA NELL'ANAGLYPHA TRAIANI

              PORTE SERVIANE

              Nel VI secolo a.c. appare il primo vero e proprio recinto difensivo, le Mura Serviane, attribuito secondo la tradizione ai Re Etruschi: iniziate da Tarquinio Prisco e completate poi da Servio Tullio da cui derivano il nome. La cinta murario si estendeva intorno alla Città di Roma per circa 7 km, rimangono ancora visibili i resti sul colle Palatino, sul colle Quirinale, sul colle Campidoglio e sul colle Esquilino. Le porte all'epoca sono:

              - Porta Mugonia per il Palatino (già della Roma Quadrata)
              - Porta Saturnia (o Pandana) per il Campidoglio,
              - Porta Viminalis,
              - Porta Oppia, (monte o colle Oppio)
              - Porta Cespia (monte o colle Cispio)
              - Porta Querquetulana (Querquetulum era l'antico nome del colle Celio)
              - Porta Collina (per il collis Quirinalis)

              La porta Saturnia risale al tempo della costruzione delle mura Serviane, quando il muro difensivo del colle Campidoglio avrebbe perduto la sua funzione difensiva e vennero pertanto aperte delle porte per la comunicazione all'esterno. Essa si apriva sul lato rivolto al Foro romano. La Porta, che si trovava lungo il clivo Capitolino assicurava l’accesso più diretto al colle dall’area forense, derivando il suo nome dal fatto che restava sempre aperta.

              La porta ebbe più di un nome di cui la Saturnia fu quello più antico.
              - Fu detta Saturnia perchè era locata presso il tempio di Saturno; ma secondo Varrone perché da questo varco si poteva accedere al « colle di Saturno… o terra Saturnia», remote e mitiche denominazioni dell'antico Capitolium;
              - oppure venne detta Porta Capitolini, per la sua collocazione sul mons Capitolinus;
              - o porta Tarpeia, per la vicinanza con la Rupe Tarpea;
              - o ancora porta Pandana, ovvero "sempre aperta" per i Sabini in seguito all'accordo tra Romolo e Tito Tazio. Permetteva l'accesso dal clivus Capitolinus, la via seguita dai cortei dei trionfatori.

              Le fonti letterarie riferiscono tre notevoli porte di accesso al Campidoglio, la « fortificazione più inespugnabile » di Roma:
              - la porta Pandana, così chiamata dal vicino fanum Carmentae, situata sulle pendici meridionali del colle all’uscita del vicus Iugarius e rivolta dunque verso l’area sacra di S. Omobono,
              - il portus Tiberinus,
              - ed il Tevere.

              Si tratta, come è evidente, di ingressi/passaggi fondamentali nella topografia generale dell’Urbs, aperti in sostanza verso le due zone forse più importanti della città arcaica e repubblicana, e che con l’ausilio di uomini di guardia avrebbero dovuto svolgere e garantire, secondo le normali prassi difensive, un’attenta funzione di controllo e di selezione in entrata ed in uscita.

              - Una seconda porta, la Porta Catularia, si apriva però sul lato opposto della Porta Pandana, per un asse viario in salita (clivus) proveniente dal Campo Marzio.

              - Una terza porta, la porta Carmentalis posta verso sud-ovest, permetteva l'ingresso della scalinata dei Centum gradus, il cui nome evoca i cento gradini che scendevano dal Fornix Calpurnius sul lato della Rupe Tarpea, verso il teatro di Marcello.

              Secondo gli studi di D. Filippi (Filippi 1998, A. Carandini, Atlante di Roma antica.) la porta nelle forme acquisite in età imperiale, senza ormai funzioni difensive, è identificabile con l’arco visibile nei cosiddetti Anaglypha Traiani, tra i templi di Saturno e di Vespasiano, e potrebbe riconoscersi nei resti della fondazione di un arco individuati da A. M. Colini negli scavi effettuati in questo settore del clivo capitolino negli anni ‘40 del secolo scorso. 
              LE ORIGINI DI ROMA

              PORTA PANDANA
              Paolo Festo: « Pandana porta dicta est Romae, quod semper pateret »; il riferimento è nel verbo pando, che significa anche aprire e spalancare. Festo si rifa all’episodio del tradimento di Tarpea decisivo nella presa del colle da parte di Tito Tazio, riferendo una specifica richiesta dei Sabini nella stipula della pace, che avrebbero chiesto a Romolo che per loro una porta restasse sempre aperta:

              « Tarpeiae esse effigiem ita appellari putant quidam in aede Iovis Metellinae, eius videlicet in memoriam virginis, quae pacta a Sabinis hostibus ea, quae in sinistris manibus haberent, ut sibi darent, intro miserit eos cum rege Tatio; qui postea in pace facienda caverit a Romulo, ut ea Sabinis semper pateret »

              Anche Arnobio ricorda che venne concessa la facoltà a Tito Tazio di accedere all’acropoli di Roma: «et quod Tito Tatio, Capitolinum capiat ut collem viam pandere atque aperire permissum est, Dea Panda est appellata, vel Pantica » Qui si allude al nume tutelare della Porta, o della zona dove era la Porta, una Dea Panda o Pantica.

              Guarda caso in Polieno (Polyaen., 8, 25, 1) sono i Galli a chiedere ai Romani che una porta « della rupe inaccessibile » rimanesse sempre aperta : « Dopo che i Celti occuparono Roma, i Romani conclusero con loro il patto di pagare tributi, di lasciare sempre una porta aperta e terra coltivabile.
              I Celti perciò si accamparono e i Romani inviarono loro molti doni ospitali come ad amici e molto vino. Quando poi i barbari, molto amanti del bere, dopo aver attinto molto vino, giacquero addormentati in preda all'ubriachezza, i Romani li attaccarono e li massacrarono tutti. Per dare l’impressione di voler rispettare in tutto gli accordi, costruirono su una roccia inaccessibile

              una porta aperta » 



              « ...QUOD SEMPER PATERET».
              LA PORTA PANDANA, LA PORTA CARMENTALIS E L'ASYLUM

              Sembra però che sia la Porta Pandana (Porta Saturnia) che la Porta Carmentalis fossero le uniche porte di Roma sempre aperte, giorno e notte, per dare asilo nell'Asylum a chiunque volesse usufruirne, dai perseguitati e ricercati ingiustamente a quelli ricercati giustamente per crimini. Questo non si opporrebbe all'idea della chiusura di un fornice per l'uscita da Roma, in quanto serviva solo per l'entrata dall'esterno dell'Urbe.

              PORTA SATURNIA IN ANAGLYPHA TRAIANI (INGRANDIBILE)
              Pertanto la Porta Saturnia doveva essere abbastanza agguerrita, cioè dotata di un notevole corpo di guardia in gradi di allarmare altri soldati in modo rapido per due buoni motivi.

              Il primo è che spesso i fuggitivi venivano inseguiti e in tal caso i militi romani dovevano bloccare gli inseguitori, sia perchè erano entrati in territorio straniero e quindi obbedire alle leggi del territorio, sia perchè quella zona era l'Asylum, per cui si accoglievano solo coloro che desiderassero abbandonare la precedente cittadinanza e diventare romani.

              Ma c'era anche una seconda ragione ed è che nel Tempio di Saturno era conservato l'erario, cioè il tesoro di stato, pertanto la zona era continuamente guardata dai custodi militari del tesoro di Stato e di Roma contemporaneamente.

              Scrive Plutarco, che in questo luogo reso sacro e deputato all’hospitium « accoglievano tutti, non restituendo lo schiavo ai padroni, né il plebeo ai creditori, né l’omicida ai magistrati ». Tutti fruitori che, in età storica, se bloccati in corrispondenza di chiuse e sorvegliate porte, non avrebbero facilmente raggiunto la zona franca dell’Asylum (e la salvezza), laddove, per utilizzare un’espressione cara alle diplomazie contemporanee, vigevano le regole di un “diritto internazionale” (ius gentium) che evidentemente superava le norme dettate dagli ordinamenti legislativi interni.


              LUCUS ASYLI

              Appena fuori della Porta Saturnia si stendeva il Lucus Asyli: lo nominano, tra gli altri, Livio, Strabone e Dione Cassio, come bosco o talvolta come spazio tra i boschi, quindi come un bosco dotato di ampia radura, in cui era possibile ottenere il diritto d'asilo, da cui il nome.

              L'area sarebbe stata creata da Romolo per radunare un certo numero di schiavi fuggitivi, o cittadini esiliati per rivalità politiche o per crimini commessi, o briganti ricercati, o prigionieri di guerra fuggiti, o emigranti dalle città vicine. Il primo Re di Roma non guardava per il sottile, l'Urbe per sopravvivere aveva bisogno di combattenti, per cui doveva accrescere la popolazione della nuova città appena fondata accogliendo chicchessia.

              Proprio nel lucus avveniva una distribuzione di viveri tra gli ospiti che da lì, del resto, non potevano essere tratti fuori in maniera coatta. Scrive Plutarco, in riferimento addirittura ai tribuni della plebe: «La legge impediva loro di chiudere la porta della propria casa, che infatti restava aperta notte e giorno come porto e rifugio per i bisognosi » (Plut., quaest. Rom., 81)

              Pertanto l'accoglienza nel lucus aveva due aspetti, quello pratico di aumentare il numero degli abitanti, e fu molto seguito, tanto che erano ormai soli uomini e dovettero ricorrere al Ratto delle Sabine, e quello della sacralità dell'ospite secondo gli antichissimi costumi romani ma pure preromani.

              Non si sa con certezza a quale divinità fosse dedicato questo Lucus propinquo alla porta Saturnia; in epoca storica si legò a Veiove, ma Servio (Commentari all'Eneide, II, 760) cita l'annalista del I secolo a.e. Lucio Calpurnio Pisone, che chiama Lucoris la divinità di questo particolare lucus. Si tratta forse di un appellativo generico che indica semplicemente la divinità del bosco o una divinità legata alla luce, ma non lo sappiamo. .


              BIBLIO

              - Mauro Quercioli - Le porte di Roma - Newton & Compton - Roma - 1997 -
              - Mauro Quercioli - Le mura e le porte di Roma - Roma - Newton Compton Editori - 2007 -
              - Laura G. Cozzi - Le porte di Roma - F. Spinosi Ed. - Roma - 1968 -
              - Filippo Coarelli - Guida archeologica di Roma - A. Mondadori Ed. - 1984 -


              PONTE ROMANO PALAZZOLO SULL'OGLIO (Lombardia)

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              Il fiume Oglio fu per Pontevico un notevole porto militare e commerciale sin dalla preistoria, numerosi sono i ritrovamenti di piroghe conservate per secoli nel suo letto di sabbia. Con la “barbotta” (tipiche barche di fiume con la chiglia piatta) si trasportava fin da tempi lontanissimi la sabbia e la ghiaia che i cavatori estraevano dal fiume, ammucchiata sulla riva e poi venduta ai costruttori di fabbricati.

              Il ponte, in pietra, venne edificato in posizione strategica sul fiume Oglio, naturale confine con Cremona, esattamente a Palazzolo sull'Oglio, in Lombardia. Era situato lungo la via Gallica, strada romana che collegava i maggiori municipia della Pianura Padana e che iniziava a Gradum (Grado),  passando poi da Patavium (Padova), Vicetia (Vicenza), Verona (Verona), Brixia (Brescia), Bergomum (Bergamo), Mediolanum (Milano) e Augusta Taurinorum (Torino). 

              Il ponte, che è il più antico ponte di Palazzolo, datato all'incirca attorno al IV secolo, costituì poi uno snodo fondamentale per le vie di comunicazione verso Bergamo e soprattutto verso Milano, seguendo il tracciato detto poi della via "Francesca".

              Il ponte era dunque deputato soprattutto ai collegamenti di Brescia con Bergamo e Milano, su un tracciato stradale che correva ai piedi delle colline e lontano dalla zone paludose e boscose della pianura, le prime pericolose per le acque infide dove era difficile addentrarsi, e le seconde pericolose per le belve e i briganti.


              Il ponte fu edificato a in cui in tempo di magra affioravano diversi isolotti che agevolarono la posa delle fondamenta, originariamente era a ben cinque campate con quattro pilastri e cinque archi, ed era a schiena d’asino, ma le sue dimensioni subirono molte modifiche nel corso del tempo.

              Infatti il primo arco verso la piazza, ancora esistente ma ormai invisibile, venne chiuso e interrato quando si demolì il "torrazzo", cioè la fortificazione del ponte sul lato bresciano, e si ampliarono i fabbricati della piazza del Mercato, (oggi piazza Roma), con la costruzione di un edificio porticato che fosse ostello per i viandanti. 

              Il ponte venne comunque conservato in epoca medievale onde far pagare ai viandanti, a piedi o su carri e carrozze, un pedaggio, detto "pontatico", finchè, nel 1511 si procedette alla sostituzione di un arco danneggiato con una struttura di legno fornito dai Grumellesi. 

              Tale struttura però non resse a lungo, perchè l'are dei facitori di ponti, i pontifex, cioè gli ingegneri romani era ormai andata perduta. Infatti, nel 1533, l'arco danneggiato venne nuovamente sostituito da un arco in pietre di Sarnico. 

              Invece il 4 ottobre 1788, con nessun rispetto verso un così prezioso monumento, venne demolito sia l'antico portone che immetteva dal ponte alla città, sia il muraglione che fiancheggiava la salita, per aprire il passaggio all'odierna via Garibaldi. Durante la guerra del 1799 l'arco centrale, su cui mai si era proceduti ad opere di manutenzione crollò, ma. secondo alcuni autori, venne fatto cadere, per impedire il passaggio delle truppe. 


              Per almeno dieci anni il ponte rimase in legno e solo nel 1810 fu ricostruito in pietra di Sarnico in ogni parte mancante, per cui ha conservato grossomodo il suo aspetto originale, negli archi e nei suoi frangiflutti. La struttura del ponte si regge oggi su dei piloni di sostegno con base rotonda, in marmo bianco Botticino, di epoca tardo-romana. 

              Su queste fondamenta più antiche poggiano poi gli speroni in pietra di Sarnico (o Credaro) che servono a proteggere i piloni stessi e impedire che la corrente del fiume Oglio possa danneggiarli.
              La parte superiore del ponte è a schiena d’asino e nel tempo ad ogni rifacimento il ponte venne ampliato verso valle di almeno un metro e mezzo, assumendo così l’attuale larghezza.

              Agli inizi del '900 l’Amministrazione comunale, viste le continue inondazioni della Piazza e delle zone contigue, attribuendone forse la colpa all’ostacolo costituito dalle solide strutture dei piloni, per giunta totalmente insensibile al valore storico del monumento, fece predisporre un progetto di demolizione del ponte e la sua sostituzione con un nuovo manufatto ad una sola campata. Il progetto, probabilmente per mancanza di fondi, per fortuna non fu mai realizzato.



              BIBLIO

              - Marco Bonari, Carlo Bonari -Tesori palazzolesi - Roccafranca - La Compagnia della Stampa -Massetti Rodella Editori - 2010 -
              - Colin O'Connor - Roman Bridges - Cambridge University Press - 1993 -
              - Vittorio Galliazzo - I ponti romani - Catalogo generale - Vol. 2 - Treviso - Edizioni Canova - 1994 -

              HIERAPOLIS - IERAPOLI (Turchia)

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              Ierapoli (o Gerapoli o Hierapolis) è una città ellenico-romana della Frigia, regione storica dell'Anatolia centrale, abitata dai Frigi, che dominava la valle del fiume Lico sulla strada che collegava l'Anatolia al mar Mediterraneo.

              Ierapoli si trova nell'antica Anatolia (turchia) culla delle civiltà degli Ittiti, dei Frigi, dei Traci, dei Lidii, degli Armeni e degli Elleni (Greci), che venne incorporata negli Imperi persiano, macedone, romano e bizantino, che l'apprezzarono e la modificarono finchè non cadde nelle mani dei turchi del XI secolo che ne cancellarono l'esistenza.

              Ierapoli di Frigia non è da confondersi con Ierapoli Bambice, in Siria, o con Ierapoli Castabala, in Cilicia. Le rovine di Ieropoli si trovano invece nella odierna località di Pamukkale ("castello di cotone"), situata nella provincia di Denizli, in Turchia, e famosa per le sue sorgenti calde, che formano concrezioni calcaree.

              PAMUKKALE

              PAMUKKALE

              Pamukkale è un sito naturale provincia di Denizli, presso l'abitato omonimo. L'antica città di Hierapolis venne costruita sulla sommità di questo bianco castello che copre un'area di 2700 m di lunghezza, 600 di larghezza e 160 d'altezza.

              Può essere visto da grande distanza, perfino quando ci si trova sul lato opposto della vallata, a circa 20 km dalla città di Denizli, situata ad est del fiume Meandro. Pamukkale si trova infatti nella regione interna Egea, nella valle del fiume Meandro, che le fa omaggio di un clima temperato anche nelle stagioni più fredde.

              I movimenti tettonici hanno da un lato causato frequenti terremoti, ma hanno anche permesso la nascita di numerose fonti termali, usate a tutt'oggi, in cui l'acqua, satura di ioni di calcio e di anidride carbonica, si combina con con l'acqua creando acido carbonico.

              PAMUKKALE

              Poi man mano che emerge l'acqua perde gran parte dell'anidride carbonica, dando luogo carbonato di calcio che, anche a causa dell'abbassamento della temperatura, precipita dando luogo a fantastici paesaggi, con spessi strati bianchi di calcare e travertino lungo il pendio della montagna, rendendo l'area simile ad una fortezza di candido cotone o di cascate di ghiaccio opaco.

              Hierapolis continuò ad essere meta di viaggiatori e studiosi anche nel corso del XX secolo. Interessante è la testimonianza di Leo Weber che sostiene che il monumento non sia più visibile in quanto sepolto al di sotto dei depositi di travertino. L’autore riferisce tuttavia che gli abitanti del luogo continuavano a recarsi presso le acque termali per curarsi e che per tradizione usavano legare alle piante intorno alla sorgente strisce di stoffa come ex-voto.

              Pamukkale è oggi un importante centro turco per i turisti che si spostano dalle coste dell'Adalia e del Mar Egeo per vedere questo luogo che, insieme a Hierapolis, è diventato uno dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.



              GLI SCAVI

              Importante città ellenistico-romana della Frigia, Ierapoli dominava la valle del fiume Lykos, lungo un percorso che univa l'Anatolia interna al Mediterraneo. Nel sito archeologico opera dal 1957 la "Missione Archeologica Italiana di Hierapolis di Frigia" (MAIER), fondata da Paolo Verzone del Politecnico di Torino.
              Attualmente il direttore della missione è il Prof. Francesco D'Andria dell'Università del Salento. Hierapolis di Frigia è uno dei siti archeologici e naturalistici più frequentati del Mediterraneo, con circa 1,5 milioni di visitatori all'anno.

              CARTINA DI HIERAPOLIS (INGRANDIBILE)
              I recenti scavi hanno messo in luce l'impianto urbano di Ierapoli, sicuramente di età ellenistica, con un grande asse principale nord-sud, la cosiddetta plateia (strada principale).

              Lungo questo asse si sviluppava un reticolo stradale ortogonale che divideva la città in isolati regolari e allungati dove si disponevano gli edifici pubblici e le case private.

              Nella parte nord della città, lungo la strada che portava verso Tripoli, cominciarono a formarsi, tra il II e il I secolo a.c., i primi nuclei della necropoli, che si svilupperà in età imperiale, con tombe a fossa ed imponenti edifici funerari.

              L'assetto monumentale della città è quello che si creò in diversi periodi dopo il devastante terremoto del 60 d.c., nella laboriosa ricostruzione avvenuta tra la fine del I ed il III secolo.
              In questo periodo vengono eretti o trasformati, ad opera dei romani, molti splendidi monumenti quali l'agorà commerciale, la porta di Frontino, due grandi ninfei pubblici, e il grandioso teatro.

              La fioritura della città subì un brusco arresto nel corso del IV secolo per un ulteriore violento terremoto che distrusse molte aree tra cui quella dell'agorà commerciale. Ma anche qui seguì una paziente ricostruzione.

              IL TEATRO DI HIERAPOLIS

              Con l'edificazione delle mura di fortificazione bizantine, alla fine del IV secolo, la parte nord della città, compresa l'agorà commerciale, fu esclusa dal perimetro urbano ed utilizzata come cava di materiale da reimpiego per cancellare la monumentalità pagana in nome delle nuova affermazione cristiana anche nell'architettura.

              Ierapoli fu infatti un importante centro della cristianità e lungo l'asse viario principale vennero costruite, con le pietre di spolio della parte antica, una chiesa extraurbana (Terme-chiesa), la cattedrale con il battistero, la basilica a pilastri e, sulla collina orientale, il martyrion di San Filippo apostolo.

              Ma la città non venne protetta nè dagli Dei pagani nè da quelli cristiani perchè alla fine del VI secolo, un altro terremoto provocò il crollo della maggior parte degli edifici ierapolitani, comprese le mura bizantine.

              RICOSTRUZIONE DEL TEATRO

              IL TEATRO

              La costruzione del Teatro avvenne in età giulio-claudia, come evidenzia la raffinata decorazione architettonica conservata, sfruttando in parte le pendici della collina, in parte per mezzo di sostruzioni, secondo l'uso romano. Esso poteva contenere circa 10000 spettatori seduti.

              Oggi si estende non distante dal complesso del santuario di Apollo, e comunque rispecchia la tradizione ellenistica: con 26 file di gradini, i sedili della cavea, in travertino, scendevano sino ai limiti dell'orchestra sui quali erano collocati seggi di prima fila in marmo, collegati da un balteo (gradino più largo degli altri, che separava un ordine dall'altro).

              L'orchestra era, come da tradizione, circolare, definita dal muro del proscenio di cui si sono trovate le fondazioni in recenti scavi sotto l'attuale palcoscenico. 

              Le due parodoi oblique (cioè i due corridoi laterali, posti tra la scena e i sedili per il pubblico, attraverso i quali gli attori e il coro entravano nell'orchestra dall'esterno del teatro)  erano definite dal dai muri obliqui laterali del proscenio stesso.

              TEATRO

              La cavea era a due livelli, il più alto era il frontescena (frons scaena) che era decorato da tre ordini sovrapposti, articolati con nicchie e sporgenze, ed aveva cinque porte. 

              I podi su cui poggiavano gli ordini architettonici presentavano rilievi: al primo ordine erano rappresentate scene mitologiche del ciclo di Diana e di Apollo, e agli ordini superiori erano raffigurati eroti e ghirlande alternati ad altre scene figurate con Demetra, Persefone e Dioniso. 

              Il bellissimo marmo bianco utilizzato proviene probabilmente dalle cave locali di Thiountas e sono presenti fusti e rivestimenti in pregiato marmo pavonazzetto dalla vicina città di Docimium.

              In età severiana il teatro fu oggetto di una fastosa monumentalizzazione per cui l'edificio scenico venne ricostruito e ingrandito per sostenere l'imponente facciata del frontescena, ornato da una decorazione marmorea articolata in tre ordini sovrapposti, con statue e rilievi figurati sui diversi livelli, anche nei due aerei parasceni colonnati.

              PARTICOLARE

              Vennero anche sostituiti i sedili di travertino con nuovi sedili in marmo, sia nel meniano inferiore, sia in un cuneo del meniano superiore; inoltre, le file inferiori dei sedili in travertino verso l'orchestra vennero inglobate in un alto podio in marmo.

              Questo per permettere lo svolgimento di spettacoli con combattimenti di fiere e di gladiatori, molto diffusi in età imperiale, in modo che gli spettatori fossero adeguatamente protetti anche nei posti più bassi che erano poi i più ambiti. 

              Il podio impediva così il contatto diretto degli spettatori delle prime file, in genere occupati da magistrati, consentendo le attività venatorie, tanto care al popolo di ogni estrazione sociale.

              Il nuovo palcoscenico venne ricostruito più profondo, sfruttando lo spazio dei precedenti corridoi.
              La nuova struttura poggiava su archi che reimpiegavano i blocchi dei sedili in travertino provenienti dalla demolizione della vecchia cavea. 

              PORTA DI FRONTINO, IERI ED OGGI

              Il proscenio venne quindi riccamente decorato da una ricca facciata ipostile con nicchie e incrostazioni di marmi colorati.

              Nel IV secolo l'orchestra venne trasformata in una grande vasca d'acqua per potervi realizzare spettacoli acquatici, molto di moda nel IV sec. d.c. , ad opera di un certo Magnus di cui un'iscrizione recita: “rese la città un santuario delle ninfe”: per cui murò le porte dell'orchestra, e rivestì tutte le superfici con malta signina impermeabilizzante, di cui sono ancora conservati molti lacerti. 

              Alla metà dello stesso secolo, sotto l'imperatore Costanzo II, un'importante iscrizione incisa sull'architrave marmoreo del secondo ordine della scena fa riferimento a lavori di consolidamento e di restauro del Teatro, che si resero necessari a fronte di un terremoto che aveva portato a crolli di parti delle aeree strutture colonnate della frontescena.

              PORTA DI FRONTINO
              PORTA DI FRONTINO

              Nell'uso greco a cui era ispirata la città di Hierapolis non esistevano il cardo e il decumano massimi come nell'urbanistica romana ma un'unica via con due porte alle estremità del centro urbano, che si diramava nelle due direzioni. Un'iscrizione rivela la sua dedica a Domiziano nell'84 d.c.

              La via in entrata in genere passava per una zona piana dove si sviluppavano tante vie ortogonali alla via principale, intersecate ortogonalmente da tante altre vie minori che facevano asilo alle abitazioni e agli edifici pubblici nei loro riquadri.

              Passata la zona residenziale, l'astu, dove c'era la piazza principale, l'agorà, e dove si svolgevano la giustizia e i mercati, la via saliva sul colle formando l'acropoli, cioè l'insieme dei vari templi, o zona sacra in genere fortificata, anche se la città nel complesso poteva godere di una cinta di mura più ampia che comprendeva l'agorà e l'acropoli.

              TERME GRANDI
              La Porta di Frontino è l'ingresso monumentale della città di Hierapolis, fatto costruire dal romano Sesto Giulio Frontino, grande scrittore ed elaboratore di idraulica e di tecniche varie, celebre per il trattato sugli acquedotti, ma genio in svariati campi, incluso quello dell'architettura. 

              Il monumento è collocato ad un estremo della via principale della città (che misurava circa 13 m di larghezza) e costituisce uno dei due ingressi alla stessa, essendo l'altra porta all'estremità opposta.

              La porta era a tre fornici di cui uno in entrata e due in uscita, per la sicurezza cittadina.



              LE TERME

              Tra la via principale ed il museo, le terme che sono funzionali, richiudono la piscina arcaica di Pamukkale, che è stata dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità nel 1988.

              Grande il fascino del paesaggio naturale creato dall’acqua termale attraverso i suoi depositi di calcare candido nel corso dei secoli e alle rovine dell’antica città termale di Hierapolis. Le sorgenti termali sono state utilizzate come terme sin dal II secolo a.c.

              NINFEO DEI TRITONI, IERI ED OGGI

              I grandi bagni erano costruiti con enormi blocchi di pietra senza l'uso di cemento e consistevano in varie sezioni chiuse o aperte collegate tra loro. Ci sono profonde nicchie nella sezione interna, tra cui il bagno, la biblioteca e la palestra.

              Diciassette sono le sorgenti, con una temperatura che oscilla dai 35 fino ai 100 gradi centigradi, e innumerevoli le proprietà terapeutiche conosciute fin da tempi antichissimi.

              Data l’estrema delicatezza del sito, dopo il riconoscimento dell’Unesco sono state introdotte regole più rigide ai visitatori. I bagni sono ancora possibili, ma nei centri termali, non più nelle vasche naturali che sono patrimonio dell’Umanità.

              RICOSTRUZIONE DEL NINFEO DEI TRITONI


              NINFEO DEI TRITONI

              Dotato di una facciata marmorea, si affaccia sulla via di Frontino, dove il piano stradale era costituito da uno strato di terra frammista a calcare e ciottoli, lungo il marciapiede ovest, con varie parti sopravvissute: lacunari, basi di colonna, basi di lesena, basi di pilastro, pilastri cuoriformi e capitelli.

              Sull’architrave, con una parte di testo erasa, si nota una dedica all’imperatore Alessandro Severo che ne occupa due blocchi successivi. E' evidente la ricostruzione di età proto-bizantina, successiva al terremoto della metà del IV sec. d.c.

              La rimozione dei canali ha consentito di mettere in luce gli strati relativi alla distruzione del portichetto protobizantino, eretto lungo il marciapiede con basi, fusti e capitelli di reimpiego. 

              Al crollo del portichetto sono riferibili alcuni fusti di colonna ed estesi lembi del crollo delle tegole di copertura; lo strato ha inoltre restituito quantità considerevoli di ceramica proto-bizantina ed una lastra frammentaria a rilievo con scena di Amazzonomachia pertinente al basamento del secondo ordine del Ninfeo.

              STOA' BASILICA


              SANTUARIO DI DEMETRA E CORE

              Situato nella parte meridionale della penisola, sopra un terrazzamento, a metà costa, l’insieme di strutture noto come ‘Santuario di Demetra e Kore’ costituisce uno dei nuclei cultuali più rappresentativi della città in quanto da esso proviene una stipe votiva costituita pressoché esclusivamente da statuette fittili databili tra il VI sec. a.c. e l’età tardo ellenistica.

              Qui ha riavviato il lavoro Adriano Romualdi, prendendo le mosse da una capillare analisi delle murature (i precedenti scavi risalgono agli anni ‘60 del secolo scorso).

              Il controllo dei rilievi e delle planimetrie esistenti ha consentito infatti di verificare cosa rimane oggi dell’edificio (fondazioni di muri prevalentemente a secco appoggiate sulla roccia), il quale doveva essere dotato di più accessi, di un oikos (?), di uno spazio scoperto, tutti elementi questi che, nel tempo, hanno avuto forme di interrelazione piuttosto complesse. 

              Vi è stata anche una nuova e capillare campagna fotografica accompagnata dal rilevamento dei muri e dalle loro sezioni: in breve una raccolta dei dati per quanto possibile esaustiva per la verifica di fattibilità di alcuni interventi che articolino ulteriormente il quadro cronologico d’insieme, che chiariscano le pertinenze del complesso, che lo rendano raggiungibile e più comprensibile al visitatore.

              RICOSTRUZIONE DELLA STOA-BASILICA

              STOA' (BASILICA)

              "L'edificio si affacciava sul lato orientale dell'Agorà nord, ampia piazza recintata da portici a unico piano lungo i lati sud, ovest e nord, mentre tutta la lunghezza del lato est, di 280 metri, correva una gradinata alta 5 metri.

              Dalla sommità di questa si elevava il monumento: raggiungendo i 20 metri di altezza, essa costuiva una immensa quinta scenografica che nascondeva il pendio del monte costellato dai monumenti funebri della necropoli orientale.

              Tratti distintivi del prospetto erano la presenza di un propileo centrale di ordine corinzio ai lati del quale si sviluppavano due stoai ioniche simmetriche e la suddivisione in due piani, altro aspetto saliente doveva risultare il contrasto cromatico fra gli elementi del piano inferiore, in marmo bianco, e quelli della gallerie superiore, dove i pilastri e i plutei erano in breccia colorata.

              PARTICOLARE RICOSTRUITO DELLA STOA'

              L'idea progettuale appare quella di fondere la tradizionale stoà ionica con un organismo che costituisce l'asse della facciata; nelle stai che si sviluppavano a destra e a sinistra di questo, ciascuna di 28 colonne-pilastro, peculiare è la sostituzione del canonico ordine architravato con un sistema di arcature esteso a tutto lo sviluppo dei colonnati.

              Le colonne-pilastro reggevano capitelli ionici figurati con echino decorato con kyma ionico e pulvini che recano al centro una Blattmaske; sui capitelli appoggiavano dadi che riproducevano i canonici elementi della trabeazione e sui quali si impostavano gli archi.

              Il tratto di muratura sorretto dalle arcature era concluso da una cornice marcapiano sulla quale poggiavano gli elementi della galleria superiore."

              (Progetto architettonico e cicli figurativi nella stoà-basilica di Hierapolis di Frigia)
              di Furio Sacchi

              AREA DI ARTEMIS ASTIAS

              " A distanza di anni si è ripresa l’attività anche nella cosiddetta ‘Area di Artemis Astias’: trattasi del vasto spazio che si apre tra l’agora e il bouleuterion, scavato solo in parte, allo stato delle cose caratterizzato dal podio di un tempio ionico in antis databile al IV sec. a.c..

              L’intervento (di N. Masturzo e di F. Bianchi) ha provveduto al censimento e alla catalogazione sistematica degli elementi lapidei appartenenti al tempio, al rilievo di dettaglio del podio e di parti dell’alzato e alla catalogazione delle parti architettoniche (colonne, capitelli, basi, etc.) appartenenti ai porticati di ordine dorico che delimitavano il piazzale.
              GINNASIO
              Una pulizia generale ma concentratasi sul podio, sul breve tratto scavato della stoa orientale e sulle due trincee che furono aperte per verificarne a nord il raccordo del podio con ulteriori strutture e per accertare l’esistenza a sud di un altare, ha consentito di individuare e analizzare un’ottantina di blocchi.

              Nel campo delle ricerche sui materiali, e nel quadro di una indagine più ampia concernente le importazioni di ceramica attica alla quale attende un folto gruppo di studiosi, M. Landolfi si è occupato delle importazioni presenti nel ‘Santuario di Zeus Megistos’.

              Grazie al riconoscimento di nuovi frammenti, ha potuto ricostruire una buona parte di entrambi i lati dell’anfora panatenaica ritrovata nella stipe del naiskos e integrare un piccolo ma importantissimo gruppo di coppe e di skyphoi figurati di pieno VI sec. a.c. che hanno la medesima provenienza. 

              - D. Gandolfi ha avviato l’analisi del vasellame ritrovato nel pozzo del ginnasio (scavi 2004) individuando le forme attribuibili alle produzioni di Eastern Sigillata A, di Cnido e di Pergamo e sistematizzando le produzioni non verniciate, le quali, con forme sino ad ora poco o assai scarsamente attestate in loco, rappresentano la parte più consistente del deposito.

              - La dr.ssa Gandolfi si è avvalsa della ampia documentazione grafica predisposta da L. Ruffoni e da M. A. Spolverin, alle quali peraltro si deve anche il rilievo grafico di numerosi altri manufatti.

              - D. Baldoni ha provveduto - come sempre - alla documentazione fotografica dei materiali e delle strutture.

              - A. Türkmen ha avviato la catalogazione e lo studio delle monete presenti nel laboratorio della casa della Missione redigendo un primo catalogo di alcune centinaia di pezzi che si distribuiscono dal IV sec. a.c. fino al periodo bizantino: il contributo tende a colmare una lacuna nei dati archeologici ed è di indubbio rilievo poiché consentirà una più documentata e articolata conoscenza del circolante nella città. 
              - I lavori di restauro (M. Del Gaudio, G.B. Kiroğlu, M. Ekinci) si sono appuntati sul vasellame tratto nel 2004 dal pozzo del ginnasio della Porta Est ma non si sono trascurate alcune emergenze scaturite dagli scavi nella agora (ci si riferisce in particolare al trattamento degli oggetti di bronzo).

              - Né va passata sotto silenzio la ricollocazione sulla base del torso virile esposto nel museo del Balık Pazarı, torso del quale, durante l’inverno, era stato tentato il furto: la difficoltà di tagliare i perni di acciaio si era (per fortuna) rivelata insormontabile e la grande statua di marmo era rimasta rovesciata all’ingiù.

              L’ordinaria manutenzione ha comportato, com’è consuetudine, opere di diserbo, di pulizia e ripristini; si è usata ghiaia per ricoprire alcune delle trincee scavate. Per evitare il dilavamento o smottamenti, le più deboli tra le strutture murarie del complesso di Demetra e Kore sono state difese o rinforzate con assiti. 
              Non mi soffermo sugli interventi che normalmente consentono l’agibilità della casa della Missione per ricordare invece quanto si è fatto nella ‘Casa dei Mosaici’, dove si è riverniciata tutta la struttura di legno, si sono sostituite parti del coperto, si sono sistemati utili (si spera) deterrenti o dissuasori lungo parte del perimetro per frenare l’ingresso di animali, autori di molti dei danni che poi si riscontrano."
              PLUTONIUM, IERI ED OGGI

              IL PLUTONIUM

              Nel 2014 sempre a Ierapoli fu scoperta una grotta, da cui escono velenosissimi vapori sulfurei, che gli antichi consideravano l'ingresso degli Inferi, dimora del dio Plutone. Nel I secolo a.c. ne parla Strabone nella sua Geografia: "un'apertura di grandezza modesta in grado di contenere un uomo, ma molto profonda". Il Plutonio era sede di importanti sacrifici.
              Una missione archeologica italiana ha scoperto nell’antica Hierapolis di Frigia la storica porta di accesso agli Inferi di cui parlano diversi autori dell’Antichità, è stato annunciato questo pomeriggio a Istanbul. 
              La scoperta, fatta dalla missione diretta da Francesco D’Andria dell’Universita’ del Salento,responsabile degli scavi nella città ellenistico-romana, le cui rovine si trovano in Turchia vicino al Comune di Pamukkale, è stata annunciata dallo stesso D’Andria a un convegno sull’archeologia italiana. 

              La Porta degli Inferi, o di Plutone, il signore dell’Ade, Ploutonion in greco, Plutonium in latino, era il luogo da cui si aveva accesso secondo la mitologia e la tradizione ellenistica e romana all’inferno. 
              Del Plutonium di Hierapolis hanno scritto fra gli altri Cicerone e il grande geografo greco Strabone, che l’avevano visitato. Era una celebre meta di pellegrinaggio nell’Antichità. 
              Da quando sono iniziati gli scavi a Hierapolis, avviati nel 1957 già da una missione italiana diretta da Paolo Verzone del Politecnico di Torino, la localizzazione di Plutonium era al centro delle ricerche degli archeologi. D’Andria ha spiegato all’ANSA di averlo ritrovato ispirandosi all'abbondante letteratura dell’epoca e ricostruendo fino a una grotta il percorso di una sorgente termale, constatando che in quella zona si raccoglievano cadaveri di uccelli morti. 

              ENTRATA AGLI INFERI - PLUTONIUM
              Secondo i racconti dei viaggiatori dell’epoca, tori erano sacrificati a Plutone davanti ai pellegrini nel Plutonium. Gli animali erano condotti dai sacerdoti davanti all’ingresso di una grotta da dove usciva un fumo mefitico e lì morivano soffocati.

              L’annuncio della scoperta e’ stato fatto durante un convegno sugli scavi archeologici italiani nel Paese della Mezzaluna promosso dall’ambasciatore in Turchia Giampaolo Scarante.
              Diversi autori antichi hanno scritto della pratica di gettare, all’interno della grotta, degli uccelli per constatarne la morte a causa dei vapori velenosi (sig!).

              Ne danno testimonianza prima Strabone e poi Cassio Dione, nella prima metà del III sec. d.c.; dove quest'ultimo fornisce una descrizione delle strutture architettoniche del santuario.

              Narra dunque della presenza in prossimità dello stomion (fessura) di una specie di cisterna in cui erano contenuti i vapori e della presenza di un teatro, costruito al di sopra dell’apertura, dal quale si era affacciato per gettarvi il piccolo animale (Cass. Dio. 68, 27). 

              Una fonte più tarda sul Ploutonion di Hierapolis ci è fornita dal filosofo neoplatonico Damascio che nel suo viaggio in Asia, insieme al collega Doros, nella prima metà del VI sec. d.c. discese a sua volta con il suo amico nella cavità sotterranea fino alla parte più interna senza correre alcun rischio, in quanto iniziati al culto della Grande Madre. si sarebbe poi addormentato e avrebbe sognato di essere Attis e per ordine dalla Madre degli Dei, di aver celebrato la festa delle Ilarie, che doveva simboleggiare la loro salvezza dall’Ade. 

              Ritornato ad Aphrodisias, Damascio riferisce la sua impresa ed il sogno fatto al filosofo Asklepiodotos, il quale gli racconta la sua esperienza, di molti anni prima, all’interno della grotta: avvolgendosi più volte il mantello intorno alla testa per proteggersi dai gas aveva percorso la discesa, seguendo le sorgenti calde, fino al punto più basso in cui una stretta e profonda fenditura non gli permise di proseguire (Dam. Isid., in Phot. 131). 

              Quest’ultima testimonianza ricca di aspetti simbolici e di riferimenti misterici, trasferisce l’esclusività delle imprese degli eunuchi Galli, tramandateci dalle fonti precedenti, agli iniziati al culto di Cibele, i quali raggiungono la salvezza dall’Ade anche attraverso l’esperienza onirica del sogno." 

              LA LATRINA PUBBLICA LUNGO LA VIA DI FRONTINO

              Il geografo greco Strabone, nei racconti dei suoi viaggi in Asia Minore nel I secolo a.c., descrive le singolari proprietà del Ploutonion, “un’apertura di dimensioni sufficienti per farci passare un solo uomo, ma con una discesa che va in profondità… lo spazio è riempito da un vapore fitto e scuro, così denso che il fondo difficilmente può essere individuato… Gli animali che vi entrano… muoiono all’istante. Anche i tori, quando sono portati al suo interno, cadono a terra e ne escono morti. Noi stessi gettammo dentro dei passeri, e immediatamente caddero a terra senza vita”. 

              Strabone ne parla come uno dei più grandi santuari dell’Antichità, un luogo da cui riuscivano ad uscire vivi dall’anfratto mefitico solo gli eunuchi di Cibele, antica Dea della fertilità, probabilmente trattenendo il fiato o approfittando di sacche d’aria respirabile, mentre gli uccelli che si avvicinavano troppo alla cavità morivano avvelenati dai fumi.

              BASILICA DELL'AGORA'
              Il Plutonium o Casa di Ade, in cui era officiato il culto ad Ade e alla sua compagna, Persefone/Kore, attraverso il quale era possibile raggiungere gli Inferi tramite la porta d’ingresso ritrovata, dal punto di vista archeologico era stato in precedenza individuato nel Santuario di Apollo, protettore della città, per la presenza di un’apertura da cui fuoriuscivano esalazioni di gas. 

              Proseguendo gli scavi nella zona limitrofa al santuario e in un’area centrale della città antica, tra l’imponente teatro e l’agorà, si è evidenziato un complesso formato da una gradinata lunga 30 m, una grotta e una tholos con due vasche ai lati per i bagni terapeutici nelle acque termali. Il dislivello di 2 m tra il piano dove si apre la grotta e la gradinata consentiva ai fedeli di assistere ai sacrifici che venivano fatti in onore di Plutone e Kore. 

              Una caverna caratterizzata da una secrezione di vapori mortali che producevano allucinazioni, in una sorte di “effetto Oracolo di Delfi” dal momento che i pellegrini prendevano le acque in una piscina vicino al tempio, dormivano non troppo lontano dalla grotta e ricevevano profezie e visioni a causa delle esalazioni tossiche.



              COMMENTO

              Doveva trattarsi di un antichissimo tempio dedicato alle ninfe in età di religione animistica, poi trasformato in culto di Cibele, Grande Madre il cui culto è diffuso nel medio oriente, trasformato poi dai greci amanti dei culti egizi in tempio di Serapide, poi trasformato nel tempio di Demetra Plutone e Core con relativi Sacri Misteri e la divinazione relativa attraverso l'interpellazione dei morti.

              Successivamente, con l'invasione cosiddetta iperborea, il tempio venne trasformato in culto di Apollo e le sue sacerdotesse profetarono per lui, probabilmente sostituite poi con i sacerdoti e conseguente fine delle profezie. Si sa che nella divinazione i sacerdoti di Apollo fecero una figuraccia colossale, come riconosce anche Luciano.



              LA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALIANA

              Nel sito archeologico opera dal 1957 la Missione Archeologica Italiana di Hierapolis di Frigia (MAIER), fondata da Paolo Verzone del Politecnico di Torino. Attualmente il direttore della missione è il Prof. Francesco D'Andria dell'Università del Salento. Hierapolis di Frigia è uno dei siti archeologici e naturalistici più frequentati del Mediterraneo, con circa 1,5 milioni di visitatori all'anno. 

              "Siamo a Hierapolis, città dell’antica regione della Frigia, vicino all’odierna Pamukkale, in Turchia. E’ qui che una squadra di archeologi italiani, capitanata da Francesco D’Andria, docente di Archeologia classica all’Università del Salento, nonché responsabile degli scavi nella città ellenistico-romana di Hierapolis, ha fatto una sensazionale scoperta: due eccezionali statue marmoree, i “guardiani” della Porta di Plutone che, secondo la mitologia e la tradizione greco-romana, rappresentava la porta d’ingresso agli Inferi. 

              Una statua rappresenta Cerbero, il cane a tre teste che la mitologia greca aveva posto a guardia dell’ingresso dell’Ade, il Regno dei Morti; Cerbero, il mostro che solo Ercole era riuscito a sottomettere, facendogli mangiare una pagnotta con semi di papavero che lo aveva addormentato. 
              Accanto ad essa, è stata rinvenuta la statua di un enorme serpente, altro animale guardiano, per gli antichi Greci, dell’Oltretomba. 

              Il misterioso Cancello di Plutone, che gli archeologi cercavano da oltre mezzo secolo, è stato svelato anche grazie ai corpi senza vita di diversi uccelli che, avvicinatisi troppo ai fumi mefitici di anidride carbonica che fuoriescono dalla grotta, sono morti davanti agli occhi dei ricercatori che, seguendo le tracce contenute nell'abbondante letteratura dell’epoca, come ha rivelato lo stesso D’Andria a Discovery News, hanno trovato il Plutonio, ricostruendo il percorso di una sorgente termale. 

              Le sorgenti termali di Pamukkale, che producono le famose terrazze di travertino bianco, provengono proprio da questa grotta e una dedica a Plutone, incisa al di sopra dell’entrata, non fa altro che confermare l’identificazione del sito."

              IL TEMPIO DI APOLLO

              IL TEMPIO DI APOLLO

               "Le attività di ricerca della Missione Archeologica Italiana Nel 1957 con la fondazione della Missione Archeologica Italiana a Hierapolis (di seguito MAIER), per opera del prof. Paolo Verzone, iniziarono gli scavi e le ricerche sistematiche all’interno del tessuto urbano. Tra il 1962 e il 1964 si diede avvio alle indagini all’interno del Santuario ierapolitano, ubicato nell’area centrale dell’impianto urbano, che riproposero nuovamente l’identificazione del Ploutonion. 

              Queste prime indagini condotte sul campo da Gianfilippo Carettoni portarono al rinvenimento di un edificio templare su alto podio costruito al di sopra della faglia sismica, che allora venne identificato con il Tempio di Apollo in cui si riconobbero più fasi di monumentalizzazione fino al III sec. d.c.; nella parte retrostante alla cella invece fu portata alla luce una scalinata in marmo sulla quale era presente un grande deposito di blocchi, realizzato in età bizantina, che conteneva gli elementi architettonici di altri edifici del santuario. 

              Lo scavatore individuò altresì sul lato destro del podio l’accesso ad un ambiente ipogeico, strutturalmente collegato all’edificio templare, realizzato in corrispondenza di una stretta cavità naturale in cui ribolle l’acqua della sorgente e da cui si sprigiona anidride carbonica che satura l’aria. In questa apertura nella roccia, regolarizzata nella parte superiore da grandi blocchi di travertino, è ricavato un piccolo vano quadrangolare con l’ingresso sormontato da un catino a conchiglia che Carettoni definì "grotta sacra". 

              Egli infatti, richiamando il passo di Strabone relativo al Ploutonion e sulla scorta della testimonianza di Damascio che riferisce della presenza della grotta al di sotto del Tempio di Apollo, ὑπὸ δὲ τὸν ναὸν, lo accomuna al santuario descritto dalle fonti. L’identificazione del Ploutonion e del Tempio di Apollo fu essenzialmente accolta nei decenni seguenti e i due monumenti rientrarono nelle più note guide archeologiche della Turchia, come i principali luoghi da visitare all’interno degli itinerari turistici. 

              TEMPIO DI APOLLO

              Lo stesso prof. Verzone era pienamente d’accordo nel riconoscere nell’apertura al di sotto del tempio l’ultima sistemazione del Ploutonion, anche se notava una non piena aderenza tra le descrizioni delle fonti e quanto era emerso dagli scavi. Nello specifico riscontrava l’assenza dell’impianto stabile, il θέατρον descritto da Cassio Dione, che egli pensava di riconoscere nei sedili in marmo visibili davanti al Ninfeo del Santuario di Apollo, trasferiti qui in età tarda successivamente alla spoliazione del monumento dall’area prossima alla grotta.

              Nel corso degli anni Settanta il Santuario di Apollo fu oggetto a più riprese di indagini archeologiche e interventi di restauro che permisero di definire la superficie e gli accessi all’area sacra individuando il muro di temenos, e di ripristinare parte del colonnato delle stoai (portici) del peribolo (recinto sacro), sia a nord che a sud del Tempio. Queste ricerche avevano permesso anche di evidenziare, sul limite settentrionale dell’area, alcuni tratti della scalinata tra la terrazza inferiore e quella mediana ed elementi architettonici di un altro edificio templare che non venne tuttavia identificato. 

              Successivamente a questi interventi il Santuario di Apollo visse un periodo di pausa nella ricerca archeologica derivato da un progressivo aumento dei cantieri di scavo all’interno del tessuto urbano, alcuni dei quali richiedevano un considerevole apporto di mezzi e finanziamenti. Con l’avvicendarsi di Francesco D’Andria alla Direzione della MAIER, a partire dal 2000, si è avviato un nuovo programma di indagini sistematiche, attualmente in corso, che ha interessato tutto il settore centrale della città e in particolare il Santuario urbano, dove si sono riconosciuti gli altri edifici templari che definivano gli spazi del complesso monumentale. 

              Nelle campagne 2001-2007, le indagini condotte sul campo da Grazia Semeraro hanno permesso l’identificazione di altri due edifici (B e C), oltre a quello scavato negli anni Sessanta e interpretato come “Tempio” (A); relativamente a quest’ultimo, in cui si è ipotizzata la grotta artificiale sottostante come sede dell’oracolo di Apollo Kareios, si sono riconosciute tre principali fasi di vita. Queste recenti indagini hanno permesso di identificare nella zona centrale del Santuario le tracce del tempio dedicato ad Apollo (edificio B) di cui restano solo alcuni tratti delle fondazioni e i cavi di spoliazione delle strutture murarie. 

              LA VIA DI FRONTINO

              Sul limite settentrionale, inoltre, è stato messo in evidenza un terzo edificio (edificio C), con lo stesso orientamento del Tempio di Apollo, caratterizzato da massicce fondazioni in travertino che delimitano al centro un vano ipogeico con copertura a volta. Sulla base dei rapporti stratigrafici e degli elementi formali, la cronologia del monumento, proposta allo stato attuale delle ricerche, sembra orientarsi verso l’età giulio-claudia nel momento in cui il Santuario assume il suo aspetto definitivo con l’insieme dell’edificio di culto (Tempio di Apollo (Edificio B), dell’oracolo (Edificio A, fase II), delle scalinate che raccordano le quattro terrazze e il peribolo che racchiude l’area sacra.

              La principale ristrutturazione architettonica sembra collocarsi nel III sec. d.c., in età severiana: a tale fase si riferisce il rifacimento dell’Edificio A (III fase), realizzato con materiali di reimpiego, e la costruzione del Ninfeo del Santuario. La sistematica e radicale distruzione del Tempio maggiore e dell’Edificio C sono da collocarsi durante il V-VI sec. d.c., insieme allo smembramento progressivo degli impianti del Santuario, che sembra risparmiare, però, solo l’Edificio A. 

              All’interno di quest’ultimo, in cui il carattere ctonio appare strettamente legato alla faglia sismica e ai fenomeni geotermici che scaturiscono dalle viscere della terra, fu possibile rilevare la presenza, nella parte centrale del pavimento della cella, di un bothros: un foro che lo metteva in contatto con la sottostante fenditura e quindi con le divinità infere. 

              Del resto, il carattere ctonio dell’Apollo ierapolitano era già noto attraverso i due testi epigrafici dell’oracolo alfabetico rinvenuti, in contesto di reimpiego, nell’Edificio A e nel Martyrion di San Filippo; Apollo è qui chiamato con l’epiteto di Kareios, una divinità indigena legata al sottosuolo che appare dotata di poteri mantici e caratterizzata dalla bipenne, che si sovrappone, a seguito della fondazione della polis, all’originaria divinità locale del Santuario: Cibele.

              Nella campagna di scavo del 2008 l’avvio di una nuova analisi di dettaglio del monumento, coincisa con la riapertura dell’imboccatura del vano ipogeico, ha permesso di riconsiderare la tradizionale identificazione del Ploutonion attraverso un aggiornato rilievo architettonico delle strutture e sulla base dei nuovi dati acquisiti dalla ricerca archeologica. 

              Lo studio condotto sul campo da Tommaso Ismaelli ha permesso di riesaminare le caratteristiche del vano costruito sulla faglia sismica che è risultato infine strettamente collegato alle pratiche oracolari che si svolgevano nell’Edificio A e alla soprastante struttura ipostila del monopteros ( tempio costituito da un semplice colonnato circolare), luogo dove avveniva l’estrazione delle sortes nel rituale cleromantico (divinatorio).

              L’edificio circolare è infatti posto in asse con l’imboccatura della cavità naturale da cui sgorga la sorgente termale che deve essere interpretata, nell’ambito delle azioni del manteion, come il pozzo rituale da cui il mantis attingeva e beveva l’acqua prima della consultazione dell’oracolo. 

              A seguito di questa nuova lettura interpretativa dello hieron l’autore rilevava le oggettive differenze architettoniche del vano ipogeico, posto al di sotto del tempio, con le descrizioni del Ploutonion contenute nei resoconti degli autori antichi, rigettando infine la tradizionale identificazione con questo monumento. Contestualmente alle ricerche nell’Edificio A, nella terrazza inferiore, davanti al monumentale Ninfeo del Santuario, iniziava l’esplorazione di una struttura teatrale con gradini in marmo. 

              SECONDA PORTA DELLA STRADA DI FRONTINO

              Secondo Ismaelli questa struttura poteva corrispondere con il luogo indicato come Ploutonion dalle fonti letterarie e si riallacciava a quanto ipotizzava già Verzone, anche sulla scorta delle testimonianze di Damascio che ubicava il Ploutonion a valle del naos di Apollo e di Cassio Dione che riferisce della presenza di un teatro posto al di sopra della grotta sacra. Lo scavo sistematico dell’area tra il Ninfeo del Santuario e la Via di Frontino nelle campagne 2008- 2011, con il coordinamento di Grazia Semeraro, portò alla luce un ampio segmento dell’edificio teatrale con alla base un piano pavimentale in lastre di marmo, parzialmente spoliato. 

              La parte inferiore dell’edificio risultava pesantemente inglobata negli spessi depositi calcarei, formatisi dallo scorrere dell’acqua ricca di carbonato di calcio; l’acqua, fluendo, diede vita ad un canale in travertino in corrispondenza del primo filare dei sedili, che resero necessario l’uso dei martelli pneumatici per liberare gli elementi in marmo. 

              L’approfondimento dello scavo sul margine inferiore della struttura teatrale ha permesso poi di portare alla luce una delle fratture della faglia sismica, con orientamento nord-sud, dalla quale fuoriusciva l’acqua sorgiva insieme alle emissioni di anidride carbonica; la presenza di questi elementi del sottosuolo consentì di verificare per questo settore dell’impianto urbano un generale innalzamento della falda idrica rispetto all’età romana, come è avvenuto nell’area dell’Agorà Civile oggi invasa dall’acqua. 

              L’analisi di questo monumento, all’interno del più vasto complesso del Santuario di Apollo, ha permesso a Francesco D’Andria di suggerire recentemente una proposta interpretativa con la ricostruzione di un articolato percorso rituale che prende avvio proprio da questo edificio posto davanti al Ninfeo: da qui i fedeli che giungevano dalla Via di Frontino, seduti sui sedili in marmo, assistevano alle rappresentazioni rituali degli episodi mitici legati ad Apollo e alla recitazione degli inni in suo onore. 

              I temi di queste azioni teatrali dovevano probabilmente fare riferimento ad episodi dei cicli mitologici di Apollo e di Artemide che erano visivamente ricordati nelle rappresentazioni dei busti all’interno dei timpani della facciata monumentale del Ninfeo del Santuario e sugli altari in marmo con rilievi figurati rappresentanti la triade apollinea e le divinità ctonie. 

              Al termine del rito fedeli e visitatori attingevano l’acqua dal bacino del Ninfeo per compiere abluzioni e purificarsi prima di continuare il percorso rituale, all’interno del secondo terrazzo, dove eseguivano libagioni e sacrifici ad Apollo ed infine consultavano l’oracolo. 

              Secondo D’Andria questo sistema rituale costituisce la parte centrale di un percorso processionale più vasto che partendo dalla Porta di Frontino doveva raggiungere il Teatro in cui il filo conduttore è rappresentato dalle immagini delle divinità e delle scene di Amazzonomachia riprodotte nei principali monumenti lungo l’itinerario.

              Lo scopo di questa manifestazione era quello di drammatizzare l’identità storica della città, come avveniva nella celebre processione efesina di Caius Vibius Salutaris in onore di Artemide, basandosi su una sintesi creata dall'interazione di statue, immagini, edifici e percorsi. 

              IL MUSEO DI HIERAPOLIS

              L’identificazione del Ploutonium 

              Nella campagna del 2008 iniziava l’esplorazione di un altro complesso architettonico ubicato alle estreme propaggini occidentali della collina del teatro, a circa 50 m a sud del peribolo meridionale del Santuario di Apollo. 

              L’area indagata è inquadrata tra lo stenopos (asse viario orientato nord sud) F e la plateia (la via principale), che corrono in senso nord-ovest/sud-est, e sul prolungamento degli stenopoi 19 e 21 ed è caratterizzata da un articolato sistema di cavità naturali che si aprono lungo la linea di faglia, da cui sgorga alla temperatura di 35°C la sorgente di acqua termale.

              Questo monumento pressoché inedito fu oggetto, verso la metà degli anni ’70, di alcuni saggi di scavo da parte della Missione Archeologica Italiana. Di queste ricerche preliminari, era stata incisa una lunga iscrizione in greco, riferibile a due lettere dell’imperatore Antonino Pio e un decreto del Koinòn dei greci d’Asia, in onore di un eminente cittadino di Hierapolis, Titus Flavius Meniskos Philadelphos. 

              Nel settore centrale, di fronte al grande muro si rilevarono inoltre le fondazioni di un edificio a pianta circolare, del diametro di 7,50 m, che a seguito della pulizia risultarono relative ad una tholos (edificio circolare). Con la ripresa nella campagna del 2009 si continuarono le indagini nel settore meridionale del grande muro, identificando una sorgente termale e una struttura voltata in conci di travertino posta al di sopra. 

              La sorgente, canalizzata in anni recenti, alimenta attualmente il laghetto all’interno del Pamukkale Termal, una delle maggiori attrazioni turistiche, posto a circa 50 m a ovest, nell’area dell’Agorà Civile. Nella parte anteriore del grande muro, ai lati della tholos, vennero individuate due vasche di forma quadrangolare di circa 30 mq di superficie (vasche B e C), pavimentate con tavelle fittili e rivestite sui lati di malta idraulica, databili ad età protobizantina. Le vasche, profonde circa 0,70 m, sono interessate da profonde lesioni causate dagli eventi sismici da cui è possibile vedere la sorgente termale sottostante. 

              Le caratteristiche architettoniche del monumento, la presenza della sorgente termale, dei fenomeni geotermici e dei gas sprigionati dal sottosuolo suggerirono di attribuire il complesso al culto delle ninfe indicandolo come "Santuario delle Sorgenti". In questa stessa campagna si eseguì la pulizia e il rilievo di un esteso crollo, posto ad est del grande muro e riferibile all’alzato di esso; sul margine esterno del crollo fu rinvenuta una statua di una divinità maschile di dimensioni colossali, che più tardi venne riconosciuta con la rappresentazione di Hades-Sarapide, trovando confronto con l’esemplare, di ridotte dimensioni, posto originariamente all’interno della frontescena del Teatro.

              Nella campagna 2010 le attività di ricerca si concentrarono principalmente nella parte alta del Santuario lungo il margine orientale del muro A: prima con la rimozione dell’esteso crollo di blocchi e successivamente con lo scavo degli spessi scarichi bizantini posti al di sotto; l’approfondimento dello scavo portò alla luce un segmento di un monumento caratterizzato da una serie di sedili in travertino, e nella parte inferiore, un arco in conci di marmo. 

              Al di sopra della fila di sedili più alta invece si evidenziarono strutture murarie riferibili ad un ambiente (vano F) e un muro di terrazzamento (muro G), realizzato con materiali di spoglio, tra cui i due frammenti della statua colossale, databile per la ceramica a "vetrina pesante" ad età mediobizantina. 

              L’anno seguente (2011) l’ampliamento dello scavo su tutta la superficie rese possibile il riconoscimento di un piccolo edificio teatrale rettilineo, per una lunghezza di 25 m, conservato per le prime quattro file. 

              I sedili, tuttavia, erano stati in gran parte rilavorati per eliminare la modanatura superiore aggettante ed ottenere dei blocchi parallelepipedi e molti di essi erano stati reimpiegati nel muro A. Al di sotto della prima fila di sedili venne evidenziata una grotta naturale regolarizzata all’esterno con un arco in marmo, largo 1,60 m, inquadrato lateralmente da una facciata in blocchi di travertino su cui aggettano semicolonne sormontate da capitelli ionici e su cui corre un architrave. Con la campagna di scavo del 2012 si è potuto definire la superficie completa del theatron, identificandone i limiti a nord e a sud. 

              Sul lato settentrionale sono emerse altre file di sedili disposti ad angolo retto rispetto alla struttura principale, orientata nord-sud, anch’essi rilavorati in corrispondenza della modanatura superiore. Davanti alla facciata di ingresso alla grotta invece, a partire dalla prima fila di sedili, è stato identificato un riempimento di terra e grandi blocchi architettonici, databile tra il V e il VI sec. d.c., scaricato con lo scopo di obliterare l’ingresso e l’intero prospetto. 

              La rimozione stratigrafica dell’interro ha fatto emergere un dato di estrema importanza per la comprensione del complesso monumentale: sull’architrave in marmo della facciata, posto al di sopra dell’arco d’ingresso davanti alla grotta, è stata evidenziata un’iscrizione in greco che ha consentito di sciogliere una questione aperta da decenni. L’iscrizione, che riporta il testo: Πλούτωνι καὶ Κόρῃ τὴν ψαλ, si riferisce chiaramente alla dedica dell’arco a Plutone e a Kore-Persefone, e permette di determinare in maniera definitiva l’identificazione del Ploutonion di Hierapolis. 

              Con la scoperta del Ploutonion si chiudeva la lunga discussione iniziata con gli scavi del Santuario di Apollo alla metà degli anni Sessanta; restava da definire, tuttavia, l’articolazione degli spazi del santuario di Hades, non ancora completamente individuati. Nella campagna di scavo 2013 si è ampliata l’esplorazione su tutta la superficie del santuario: a monte del theatron, sul margine settentrionale e davanti alla grotta sacra. Lungo il lato nord, lo scavo degli scarichi di età protobizantina ha permesso di mettere in evidenza un passaggio posto al di sotto dei sedili in travertino con orientamento est-ovest funzionale all’ingresso nell’area antistante la grotta.

              Sempre su questo lato, alle spalle di questo corridoio, è emerso un portico di ordine dorico di cui si conservano complessivamente sette colonne, due con i rispettivi capitelli e parte della trabeazione. A monte del theatron la rimozione degli scarichi superficiali ha portato alla luce una serie di ambienti collegati tra loro, realizzati con materiale di riutilizzo, relativi ad un quartiere abitativo di epoca mediobizantina. 

              Questi vani sfruttano sul lato orientale un grande muro, orientato sull’asse nord-sud, realizzato con blocchi squadrati in travertino con raffinata fattura esecutiva; tale struttura, emersa per circa 47 m, è risultata essere il muro di temenos del Santuario di Plutone e Kore, che doveva proseguire, con un segmento perpendicolare, sul margine meridionale dell’area dove sono emerse le tracce. Nel corso della stessa campagna di scavo è stata indagata anche la parte davanti alla grotta, al di sotto del theatron, dove è proseguita la rimozione degli scarichi di obliterazione (cancellazione) di epoca bizantina. 

              Lo scavo che ha raggiunto il livello della sorgente termale, ha messo completamente in luce la facciata monumentale di cui si conservano sei semicolonne sormontate da capitelli ionici e, nella parte centrale, è stato maggiormente evidenziato l’arco d’ingresso alla grotta. Dal grande scarico di blocchi, sul lato meridionale dell’ingresso alla grotta, è stata recuperata la statua in marmo di Cerbero che in base alle dimensioni doveva probabilmente far parte del gruppo scultoreo con Hades-Sarapide seduto in trono già rinvenuto nella campagna del 2009. 

              ANTICHE TOMBE

              La ricerca nella campagna 2014 ha interessato l’indagine all’interno dei vani N e O, posti nel settore settentrionale: la rimozione degli scarichi che obliteravano i piani pavimentali degli ambienti ha permesso di evidenziare strutture connesse ai rituali che si svolgevano nel santuario e la faglia sismica, che orientata sul prolungamento della facciata della grotta, prosegue verso nord in direzione del Santuario di Apollo. Nella porzione centrale della cavea del theatron l’approfondimento dello scavo ha permesso di definire il vano F, come la struttura in cui era custodita la statua di culto. 

              Nel settore meridionale si è definito il limite del santuario, con l’individuazione del muro di temenos, e del segmento meridionale del theatron che completa l’edificio su questo lato. Nel corso della campagna sono stati indagati due contesti legati ad attività cultuali di particolare rilevanza, i quali hanno permesso di arricchire le conoscenze sulle modalità dei rituali che si svolgevano nel santuario, e di recuperare importanti elementi cronologici utili alla ricostruzione delle fasi di vita. 

              Il primo contesto si riferisce ad una serie di escharai (altare su cui si celebravano sacrifici in onore di divinità infere), di forma circolare, rinvenute in corrispondenza dell’ingresso al temenos, all’interno di un vano (vano I) delimitato da due setti murari in cui si apre uno stretto passaggio. Gli altari, stratificati a partire dalla roccia di base, sono realizzati praticando un taglio all’interno di uno strato di argilla, che costituisce il piano inferiore, e delimitati da un bordo di pietre e laterizi. All’interno dei circoli sono state documentate le tracce di ripetute attività pirotecniche, attestate dai residui di cenere e ossa animali combuste. 

              Lo studio preliminare dei materiali ceramici rinvenuti permette di suggerire una cronologia compresa tra la seconda metà del I sec. a.c. e la metà del I sec. d.c. Il secondo contesto indagato è rappresentato da un deposito votivo rinvenuto all’esterno del corridoio presente al di sotto del theatron sul lato settentrionale. Il deposito, sistemato al di sopra di uno strato di argilla a contatto con il banco di roccia in prossimità della faglia sismica, è composto da un repertorio di oggetti connessi alla sfera cultuale. Si sono rinvenuti strumenti metallici, materiale ceramico di importazione e statuette fittili deposti all’interno di uno strato di carboni, cenere e ossa animali. 

              Da una prima analisi del contesto è stata proposta una datazione all’interno del II sec. a.c., probabilmente nella fase in cui il santuario viene delimitato dal recinto sacro. A seguito di questa disamina risulta evidente come la scoperta dell’iscrizione dedicatoria a Plutone e Kore posta all’ingresso della grotta sacra, la presenza della statua di culto di Hades e la stretta corrispondenza tra le fonti letterarie e i dati archeologici, permettano di confermare la sicura identificazione del Ploutonion di Hierapolis. 

              Sulla base dei dati acquisiti dall’indagine sistematica di quest’area posta tra il Santuario di Apollo e il Ploutonion, si evince una ricerca scenografica nella concezione dei vari edifici che dovevano apparire organicamente collegati e percepiti come un complesso unitario in cui si manifestavano attività religiose differenti. Il Ploutonion trova inoltre un chiaro riferimento nel complesso programma iconografico della frontescena del Teatro, in cui trovano posto le raffigurazioni delle divinità tradizionali connesse con miti legati al culto locale: le immagini legate al Santuario trovano riscontro non solo con la statua di Hades-Sarapide ma anche nei rilievi posti alla base del secondo ordine della frontescena, con il fregio a rilievo del ratto di Proserpina da parte di Hades e dalla scena dell’inseguimento di Demetra sul carro guidato dai serpenti alati. 

              Il rinvenimento, nella parte posteriore dell’Edificio A, della statua colossale attribuita alla figura di Adriano con barbaro inginocchiato ai suoi piedi, permette di riferire che anche il culto imperiale era praticato all’interno del Santuario di Apollo.

              IL MARTYRION IERI ED OGGI


              IL MARTYRION - LA TOMBA DELL'APOSTOLO FILIPPO 

              Un sigillo in bronzo del VI secolo conservato al Virginia Museum of Fine Arts di Richmond (USA) rappresenta l'apostolo Filippo e il suo Martyrion, ma anche una chiesa totalmente sconosciuta sino al 2011 e delle scalinate che salgono la collina. Gli scavi hanno successivamente condotto alla scoperta di scalinate processionali nei pressi del Martyrion, una chiesa scomparsa nel V secolo e al centro della chiesa una tomba a sacello di epoca romana. Nei pressi fontane, vasche termali e alloggi per i pellegrini.

              I RESTI

              Confermato, è la tomba di S.Filippo

              BRINDISIREPORT - ISTANBUL

              "Dopo la notizia diffusa a metà della scorsa estate, la missione archeologica di Unisalento guidata dal professore Francesco D’Andria conferma: quella trovata a Hierapolis in Turchia è certamente la tomba dell’apostolo Filippo. Da quasi duemila anni, una antica tradizione diceva che la tomba di San Filippo, uno dei 12 apostoli, si trovava nella città turca di Hierapolis, dove il santo subì il martirio nell'80 dopo Cristo. Oggi in una conferenza stampa a Istanbul, proprio D'Andria ha raccontato come gli scavi in corso a Hierapolis l'anno scorso abbiano portato ad individuare la tomba nel sito dove la tradizione voleva si trovasse, senza che però l'archeologia avesse finora dato qualche conferma.

              I risultati della campagna di scavo dell'anno scorso a Hierapolis, località dell'est della Turchia, a 250 km dalla costa Egea e da Smirne, sono stati illustrati dal professore nell'ambito di una presentazione delle attività di scavo italiane in Turchia organizzata dall'ambasciatore d'Italia Gianpaolo Scarante. “La scoperta di quest'anno è quella della tomba di San Filippo, uno dei 12 apostoli di Gesù, che a Hierapolis avrebbe subito il martirio”, ha sintetizzato l'ordinario di Archeologia classica dell’Università del Salento, ricordando che le fonti letterarie “già nel 190 dopo Cristo dicono che a Hierapolis si mostra la tomba di San Filippo”.

              D'Andria ha aggiunto che “la ricerca e l'identificazione di questa tomba è stato uno degli obiettivi della missione” salentina. I lavori all'inizio si erano concentrati su una chiesa già nota e che si riteneva essere stata costruita sulla tomba. “Abbiamo utilizzato anche sistemi geofisici per identificare eventuali cavità in questa chiesa, ma non hanno mai dato alcun risultato, finché abbiamo investito della ricerca una zona accanto alla chiesa ed è venuto fuori un elemento straordinario: una seconda chiesa che era costruita attorno ad una tomba romana del I secolo”.

              RICOSTRUZIONE GRAFICA DEL MARTYRION

              Tutta una serie di elementi ci ha permesso di identificare questa chiesa a tre navate – ha proseguito D’Andria - come quella costruita attorno alla tomba romana in cui la tradizione attribuisce la presenza di San Filippo”

              La novità è dunque la nuova chiesa costruita attorno alla tomba. La scoperta ha risolto un giallo dell'archeologia. In America, nel museo di Richmond, ha ricordato l'archeologo, si conserva “un sigillo per il pane dei pellegrini” in cui è rappresentato San Filippo: “Su un lato c'è la chiesa che abbiamo trovato quest'anno e sulla quale i bizantini di sono interrogati per tanti anni”, cercando di capire cosa rappresentasse.
              Accanto alla tombaci sono anche vasche per immersione, a conferma che si trattava di un “santuario di guarigione” nell'ambito di un “grande complesso di pellegrinaggio che i Bizantini hanno costruito nel V secolo d.c. intorno alla tomba di San Filippo”, in maniera simile a quello di Asclepio a Pergamo. Sempre l'anno scorso è stato anche identificato l'altare, “costruito sopra una cripta dove erano conservate le ossa del santo”.

              AGHIASMA  - LA FONTANA SACRA
              Gli scavi sono condotti da una missione internazionale composta, oltre che da italiani (65 sono stati gli specialisti arrivati a Hierapolis da tutta Italia), anche da tedeschi, francesi, norvegesi. Scavato in particolare dalla missione italiana a partire dagli anni '50 è anche il martyrion, cioè la chiesa costruita sul luogo dove fu martirizzato l'apostolo. Da italiani è stato restaurato il teatro, ancora capace di contenere 8000 spettatori: il progetto di restauro continua, ha detto D'Andria mostrando una ricostruzione virtuale realizzata ad uso del milione e mezzo di turisti che ogni anno visitano Hierapolis, “e stanno aumentando”.

              Per incrementare il turismo sta per essere realizzato un ponte, rimovibile, per salire alla sommità della collina e vengono condotti restauri, ha detto ancora l'archeologo citando il ginnasio, “un portico dorico in marmo, meraviglioso
              ”.
              L’Aghiasma è situata nella parte Nord-Occidentale di un piccolo piano posto sulla sommità della gradinata che sale dal Ponte di San Filippo, subito ad Est dell’ampia scalinata che permette l’ascesa al soprastante Martyrion.

              Si tratta di una fontana sacra lungo il percorso processionale, costituita da un pilastro in travertino, in cui l’acqua doveva giungere da una diramazione di uno degli acquedotti di Hierapolis. Sicuramente l'acqua sacra era pertinente ad un antico culto delle ninfe, già riscontrato in zona, poi trasformato in culto cristiano probabilmente relativo al santo Filippo.


              BIBLIO

              - Pierre Gros - Le province orientali. Realtà e ideologia dell'urbanistica romana - in Pierre Gros, Mario Torelli - Storia dell'urbanistica. Il mondo romano - Roma-Bari - Laterza - 2007 -
              - Tullia Ritti - Hierapolis: scavi e ricerche I - Fonti letterarie ed epigrafiche - Roma - Giorgio Bretschneider - Collana Archaeologica -
              - Francesco D'Andria, Tullia Ritti - Hierapolis: scavi e ricerche II - Le sculture del teatro. I rilievi con i cicli di Apollo e Artemide - Roma - Giorgio Bretschneider - Collana Archaeologica -
              - Augusto Camera, Renato Fabietti - Elementi di storia antica volume 2 - 1999 -





              VOLCI (i nemici di Roma)

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              GUERRIERO SCORDISCIO

              «E ci fu prima un tempo in cui i Galli superavano i Germani in virtù, portando guerre oltre i confini, e mandavano le colonie al di là del Reno a causa dal gran numero di uomini e della povertà dei campi. Pertanto quei territori della Germania che sono i più fertili attorno alla Selva Ercina, che so che era nota per fama ad Eratostene e ad altri Greci che la chiamavano Orcinia, sono stati occupati dai Volci Tectosagi che vi si stabilirono; questo popolo fino a questa epoca si mantiene in queste sedi ed ha una grandissima fama per la giustizia e per il valore militare. 
              Ora poiché i Germani permangono nella stessa povertà, bisogno, rassegnazione, godono dello stesso tenore di vita, mentre invece ai Galli la vicinanza delle province e la conoscenza delle cose d’oltremare offre larga possibilità di disporre di molte cose per le loro esigenza e per l'abbondanza, abituatisi a poco a poco ad essere superati e dopo essere stati vinti in molte battaglie, essi stessi (i Galli) non si paragonano più con quelli (i Germani) in valore

              (Giulio Cesare, De bello gallico, VI, 24.)

              I Volci (latino: Volcae) erano un popolo celtico originario della valle del Danubio in una zona compresa fra la Franconia e la Boemia, il cui nome venne utilizzato poi dai germani come sinonimo di popolo non-germanico e straniero. Probabilmente si formarono durante l'espansione militare celtica all'inizio del III secolo a.c., proseguendo poi nel II e I secolo, insieme ai Boii a ovest ed i Cotini ad est, caratterizzati da grande abilità nella lavorazione del ferro.

              Il momento migliore di questa fioritura fu tra la metà del II secolo e la metà del I secolo a.c. finchè vennero travolti dai Germani dal nord e dei Daci da est. Insieme ai Boii parteciparono alla spedizione celtica nei Balcani, nel 280 a.c.

              TOLOMEO SOTERE

              SPEDIZIONI NEI BALCANI

              Le spedizioni celtiche in Grecia e nella penisola balcanica furono gli spostamenti di massa di popoli celti, attestati da fonti greche e ritrovamenti archeologici, che tra il IV e i primi del III secolo a.c., penetrarono nella Penisola balcanica, fino al recinto sacro di Apollo a Delfi.

              Mentre sul territorio italiano emergeva la potenza di Roma, più vulnerabile era il mondo ellenico, frammentato dalla successione al regno di Alessandro Magno. Le incursioni nella penisola balcanica non rovesciarono a lungo gli equilibri esistenti, a parte i Galati che si stanziarono negli altopiani dell'Anatolia centrale. Nel Mediterraneo invece provocarono la Cultura di La Tène insieme ad elementi del mondo ellenistico e cartaginese. Si diffuse la moneta, e cambiò l'organizzazione amministrativa e urbana. 
              «....Annibale, dopo aver pacificato tutti gli altri popoli ricorrendo alla paura o al denaro, era giunto nel territorio del forte popolo dei Volci. Essi vivono su entrambe le rive del Rodano e nelle regioni circostanti; essi dubitavano di poter tenere i Cartaginesi lontano dalla riva destra del fiume e allora, per usare il fiume come difesa, portarono al di là del Rodano ogni loro cosa e occuparono in armi l'altra riva del fiume

              (Tito Livio - Ab Urbe Condita libri)


              ESPANSIONE DANUBIANA

              EFFIGE DI VERCINGETORIGE - APOLLO
              52 A.C.
              Nel IV secolo a.c. la pressione dei Celti verso i Balcani dovette arrestarsi di fronte ad Alessandro Magno. Anzi nel 335 a.c., nel corso delle sue vittoriose campagne militari, alcuni emissari celti dalla Pannonia o dall'Italia incontrano Alessandro per uno scambio di doni di ospitalità. 
              Qui si tramanda un aneddoto, riferito dal generale Tolomeo Sotere, e riportato da varie fonti: mentre si intrattenevano bevendo e conversando il sovrano macedone avrebbe chiesto ai suoi interlocutori quale fosse la cosa più temuta dai Celti, e la risposta fu: 
              «Nulla, se non che il cielo ci cada sulla testa» a cui però aggiunsero che tenevano in conto, più di ogni cosa, l'amicizia di Alessandro. Questi sorrise alla spavalderia della risposta ma, una volta congedati gli ospiti, la definì una millanteria.


              I SENONI 
               
              I Senoni avevano stipulato, intorno al 332-331 a.c., un trentennale trattato di pace con l'emergente potenza di Roma, pertanto dirottarono verso i balcani, nel 310 a.c. e poi nel 298 a.c., mentre una terza ondata fallì ad opera del re macedone Cassandro sul monte Emo. Ma dopo il 281 a.c., con la morte di Lisimaco (361 - 281 a.c.), diadoco di Tracia, nella battaglia di Curupedio, si ebbe la più massiccia e aggressiva incursione di popoli celtici, ricordata come la Grande spedizione.
              Nel 280 a.c., infatti, grandi armate celtiche si spinsero in tre tronconi nella penisola balcanica, fin dentro la Grecia centrale:
              - La prima, guidata da Keretrio, sommerse ad est i Triballi e la Tracia. 
              - La seconda, comandata da Bolgio, invase il Regno di Macedonia e ne catturò il giovane re Tolomeo Cerauno che venne decapitato, ma nel 279 a.c., già fece ritorno nelle pianure pannoniche.
              - Una terza armata di ottantacinquemila guerrieri, sotto il comando dei condottieri Akichorio e Brenno, puntò alla Grecia centrale. Ventimila ripiegarono in Tracia ma 65.000 traversarono la Tessaglia e giunsero alle Termopili, da qui alla volta di Delfi, attratti dai tesori del santuario.



              ASSEDIO DI DELFI

              Brenno però, giunto presso il tempio di Apollo, ebbe timore di profanarlo, poi i Celti, ancora ebbri del vino bevuto nella notte, si gettarono nella battaglia ma subito dopo, allarmati da terremoti, frane e portentosi tuoni e fulmini, oltre ad un'epidemia, attribuiti alla collera di Apollo, non riuscirono ad espugnare Delfi. 

              LE MIGRAZIONI DEI VOLCI TECTOSAGI (INGRANDIBILE)
              «E verrà un giorno una battaglia, per noi tutti insieme,
              quando poi contro l'Ellade la spada barbara leveranno
              e imploreranno il dio celtico della guerra
              ultimi Titani nella tempesta dell'estremo Occidente
              accorreranno come fiocchi di neve, innumerevoli,
              come le stelle che affollano le praterie celesti.
              [...] Presso il mio tempio si scorgeranno le falangi nemiche
              e già accanto ai miei tripodi, le spade e i cinturoni
              le armi impudenti, e gli scudi odiosi
              che per i Galati, razza delirante, 
              segneranno il cammino di un destino crudele»

              (Callimaco, Inno a Delo)

              Brenno dovette ripiegare: una parte dell'armata tornò alle pianure danubiane nella confederazione celto-illirica degli Scordisci mentre gli altri puntarono verso la Tracia. Brenno che era rimasto ferito: giunto ad Eraclea, si suicidò per le grandi sofferenze.

              Così, nel 278 a.c., si ricongiunsero le forze della Grande Spedizione, composte da diecimila combattenti (accompagnati da altri diecimila fra donne, bambini e schiavi) e divisi in tre tribù (Trocmi, Tectosagi e Tolistobogii) con alla guida dei generali Leonnorio e Lutario. si ricongiunsero e mossero verso l'Asia Minore, su espresso di Mitridate II e di Nicomede di Bitinia per utilizzarli come mercenari.



              REGNO DI TYLLIS

              GALATA SUICIDA
              Nel 277 a.c. la retroguardia celtica rimasta in Tracia subì presso Lisimachia, nel Chersoneso Tracico, una pesante sconfitta ad opera del nipote di Alessandro magno. Tornati nel regno tracico di Lisimaco, nell'odierna Bulgaria orientale, e guidati da Comontorio, vi fondarono il regno di Tylis, non ancora individuata archeologicamente ma con evidenti segni indiretti di adozione di armi celtiche dalle popolazioni circostanti.

              L'insediamento impose pesanti tributi alla vicina Bisanzio, ma pochi decenni dopo, abolito il potere monarchico dell'ultimo regnante, il re Cavaro, il regno fu definitivamente destabilizzato dai Traci, nel 212 a.c. I Galati mossero in Asia Minore, in cerca di un territorio da abitare. A Mileto, rapirono le partecipanti alle Tesmoforie liberandole poi dietro riscatto. Vennero poi fermati da Antioco I nella Battaglia degli elefanti; stabilendosi poi nell'Anatolia centrale.

              Le forme di oligarchia militare celtica, ai margini del popolamento urbano, conobbero una sorte analoga a quella descritta da Cesare per la Gallia del I secolo a.c., e cioè un forte indebolimento a causa delle lotte intestine per l'affermazione di ogni capo tribù.



              I MERCENARI

              - Essi vennero ingaggiati dai Cartaginesi nella I guerra punica e in Sardegna. 
              - Tremila di loro, al comando di Autarito, vennero coinvolti nella famosa rivolta mercenaria di Cartagine del 241 a.c.,
              - Antigono Gonata assolderà nel suo esercito i superstiti della battaglia di Lisimacheia; 
              - quattromila Celti, intorno al 277-276 a.c. moriranno poi su un'isola del Nilo, dopo esservi stati confinati da Tolomeo Filadelfo che, avutili al suo servizio, voleva impedirne la ribellione.
              - Lo stesso Attalo, nel 218 a.c., ne farà rifluire in gran numero dalla Tracia in Asia Minore. Questo nucleo di Celti, gli Aigosagi, saranno da lui insediati presso l'Ellesponto, ma l'anno dopo vennero sconfitti da Prusia di Bitinia.

              «Ingaggiati all'ovest come all'est, i mercenari celti versarono il loro sangue su tutti i campi di battaglia del mediterraneo. Accompagnati da mogli e figli che ne moltiplicavano il numero, i militari vivevano a contatto diretto e quotidiano con l'universo delle città mediterranee, interamente nuovo e stupefacente per gente venuta da villaggi del centr'Europa. Alcuni ritornavano in seguito ai loro paesi d'origine con le esperienze e i beni accumulati

              (Kruta 2004b, p. 51)



              CIVITATES GALLICHE

              Nel I e nel II secolo a.c. la trasformazione dell'organizzazione amministrativa produce quelle civitates galliche che Cesare descriverà nei Commentari della sua campagna transalpina, un reticolo di fortezze a carattere urbano, poste lungo le vie di comunicazione terrestri e fluviali, chiamate oppida dai romani. Questi nuclei sono quasi sempre fortificati con il murus gallicus, una muratura a secco ben descritta da Cesare nei Commentarii.

              In questo schema urbano si riconoscono, lungo le vie maestre, quartieri specializzati, con edifici dedicati alle attività artigianali, alle riunioni e ai culti. Importante è la religione e i sacerdoti druidici. Sappiamo da Cesare che nemmeno l'espressione del potere attraverso magistrature elettive poteva fare a meno del benestare druidico.



              I GALATI

              Successivamente a questa spedizione, un ramo di Volci Tectosagi, insieme ai Tolistobogi e ai Trocmi, conosciuti insieme come come Galati, si spostarono in Anatolia, in una zona della moderna Turchia centrale, che prese il nome di Galazia e che darà poi il nome all'omonima provincia romana. 

              Un secondo gruppo si diresse tra il 270 e il 260 a.c. nella Gallia Narbonense ove i Volci Tectosagi si insediarono nella parte a ovest con loro capitale Tolosa, mentre il gruppo dei Volci Arecomici si insediò nella zona del Rodano con capitale Nemausus (Nîmes); il fiume Arauris (Hérault) costituiva il confine tra le due tribù. Vennero sconfitti da Annibale durante il suo passaggio, quando decise di valicare le Alpi e portare la guerra contro i Romani in Italia.

              Numerose sono le citazioni suoi Volci da parte degli storici e politici romani; fra questi Giulio Cesare nel De bello Gallico, Cicerone nella sua orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Fonteio, e Tito Livio nel Ab Urbe Condita.


              BIBLIO

              - Tito Livio - Ab Urbe condita - XXXVIII -
              - Strabone - Geografia - XII - La Galatie -.
              - Strabone - Periochae - XXI -
              - Venceslas Kruta - Celts: History and Civilization - Londra - Hachette Illustrated - 2005 -
              - Marco Tullio Cicerone - Pro Marco Fonteio - 26 -
              - John Haywood - London Thames & Hudson Ltd. - 2001 -

                AECUUM TUTICUM (Città scomparse)

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                I POCHI RESTI DI AECUUM TUTICUM

                "L’Itinerarium Antonini, così come la Tabula Peutingeriana, parla direttamente della località di Equo Tutico calcolando da qui l’imbarco di Otranto per un totale di km 347,5415 («Item ab Equo Tutico Hydrunto ad Traiectum m.p. CCXXXV», Cuntz 1929), mentre l’Itinerarium Burdigalense sive Hierosolymitanum, pur non menzionandola direttamente, accenna ai confini con la Puglia dopo la mutatio Aquilonis («mutatio Aquilonis milia X; Finis Apiliæ et Campaniæ»). 

                Si tratta, quindi, di uno snodo stradale importante per l’Antichità in quanto qui si trovano diverse confluenze di strade riconosciute anche in epoca storica (Volpe 2007, pp. 266-303). Nel tratto irpino, infatti, si riconoscono diversi tratturelli e bracci di collegamento tra cui il Camporeale-Foggia, che si diramava dal comune di Ariano Irpino e che, attraversando il territorio di Greci, giungeva poi a Foggia. 

                Da Greci (Av) passava anche il Tratturo Volturara-Castelfranco in Miscano che si collegava al braccio che metteva in relazione Montecalvo Irpino e la valle dell’Ufita. Da qui, passando per Grottaminarda, giungeva dunque ad Aeclanum".

                (Atti – 35° Convegno Nazionale sulla Preistoria, Protostoria, Storia della Daunia. San Severo 2014)

                Sullo spartiacque appenninico, in località Sant’Eleuterio di Ariano Irpino, esistono ancora i pochi resti dell’antico centro di Aequum Tuticum, nodo viario, da cui si irradiavano numerose strade che collegavano da nord a sud il Sannio con la Campania, e da est ad ovest il versante tirrenico con quello adriatico.

                Aequum Tuticum fu un vicus romano ubicato appunto sul pianoro di Sant'Eleuterio, nel settore settentrionale del territorio comunale di Ariano Irpino, a un'altitudine di 575 m s.l.m., in posizione rilevata rispetto alla circostante valle del Miscano. Oggi appartiene al comune di Ariano Irpino.

                SCAVI DI AECUUM TUTICUM

                Il vicus si sviluppò contemporaneamente a due antiche strade consolari, la via Aemilia, con direttrice sud-nord e la via Minucia, con direttrice ovest-est. Il primo tracciato è indicato da due cippi miliari del II secolo a.c., rinvenuti presso Manna-Torre Amando e Camporeale-Santa Lucia, con l'iscrizione Marcus Æmilius Lepidus.

                Il secondo è attestato da autori classici del I secolo a.c. e doveva essere parallelo alla via Appia, rispetto a cui era più disagevole ma più diretto. Aequum Tuticum, posta all'incrocio fra la via Traiana e la via Herculea, è citata per la prima volta da Cicerone in una lettera indirizzata a Pomponio Attico nel 50 a.c., in cui la descrisse come un punto di sosta verso l'Apulia.

                In epoca adrianea, quando era in possesso della gens Seppia di Beneventum, Aequum Tuticum divenne un importante snodo stradale, definito "cardo viarum" da Theodor Mommsen, in quanto il vicus divenne anche il punto d'incrocio fra la via Traiana, sovrappostasi molto probabilmente alla primitiva via Minucia, ma senza passare dalla valle del Cervaro, e la via Herculea, percorrente l'Appennino in senso longitudinale con direttrice nordovest-sudest.

                Nelle immediate vicinanze del sito antico sono state individuate due aree sepolcrali oltre a un tratto della via Traiana.

                La fotografia aerea ha permesso poi di scoprire il tracciato della via Herculea in uscita da Aequum Tuticum con direzione sud-est, mentre i cippi miliari della stessa strada, presso le masserie Intonti Ariano e San Cesareo Zungoli, indicano l'avvenuta latinizzazione del toponimo, che nel tardo impero era ormai denominato Aequum Magnum o semplicemente Aequum.

                "La tradizione vuole che il luogo, una delle più importanti città del Sannio antico, esistesse già in epoca antica. Pochi ricordano che non distante da esso si trova uno dei più grandi e importanti siti archeologici. Mi riferisco a quello di La Starza, posto sulla collina di Monte Gesso, dove sono state rinvenute significative tracce di insediamenti preistorici tra cui un villaggio di capanne risalenti al Neolitico inferiore (Trump 1957; Trump 1961; Trump 1963; Albore Livadie 1992). 

                La testimonianza dell’importanza che l’area rappresentasse sin da epoca antichissima uno dei principali valichi di collegamento attraversati da numerose vie di transito tra il versante tirrenico e l’Adriatico ha fornito le basi per una ricognizione sistematica del territorio ai confini con la Puglia, partiti nel corso del 2013 e ancora persistenti. 

                Numerose contrade, infatti, testimoniano la successione delle culture nel territorio con continuità dalla protostoria fino alle soglie dell’età del Ferro sino a giungere alla piena epoca sannitica (VI-V sec. a.c.), come confermano numerose concentrazioni di reperti mobili, sino a giungere alla ultima e più intensa frequentazione in epoca Tardoantica. "

                (Archeoclub di San Severo sulla Preistoria - Protostoria - Storia della Daunia - San Severo 15 - 16 novembre 2014 - Convegno Nazionale a cura di Armando Gravina)

                IL LAPIDARIO DI AECUUM

                GLI SCAVI

                Gli scavi, compiuti fra il 1990 e il 2000, hanno riportato in superficie, oltre alle murature, ceramiche, iscrizioni, steli funerarie e monete. Il complesso più antico rimasto del periodo romano è una struttura termale del I secolo, con il frigidarium mosaicato a tessere bianche e nere. Annessi una serie di ambienti disposti a schiera del II secolo, forse magazzini o botteghe.

                L'insediamento subì i danni di un terremoto nella seconda metà del IV secolo, ma, subito dopo, una magnifica villa, con un ambiente decorato da un vasto mosaico policromo, venne insediata al di sopra degli edifici più antichi. Ma deve trattarsi di una villa di campagna, magari padronale, ma senza un contesto cittadino.

                Il sito, citato nella Tavola Peutingeriana e nell'Itinerario Antonino, fu comunque abbandonato definitivamente entro il VI secolo, presumibilmente a causa delle invasioni barbariche. Le fonti alto-medievali citano la località (probabilmente già disabitata) dapprima come Casalis Ianensis e poi come Sant'Eleuterio, denominazione di origine greco-bizantina.

                Una collezione di reperti provenienti da Aequum Tuticum è custodita nel museo archeologico di Ariano Irpino, mentre diverse decine di iscrizioni ed elementi architettonici sono raccolti in un lapidario all'interno della villa comunale di Ariano.


                BIBLIO

                - Giuliano Volpe - La Daunia nell'età della romanizzazione: paesaggio agrario, produzione, scambi -Edipuglia - 1990 -
                - Cicerone - VI, 1, 1 - in Epistulae ad Atticum -
                - Theodor Mommsen - Corpus Inscriptionum Latinarum - IX -
                - AA.VV. - I Dauni - Irpini, la mia gente - la mia terra - Napoli - Generoso Procaccini - 1990 -
                - Un segmento della via Traiana poco conosciuto: il percorso Aequum Tuticum-Troia - 35º convegno nazionale sulla preistoria - protostoria e storia della Daunia - San Severo 2015,
                - Giuseppe Ceraudo e Veronica Ferrari - Un nuovo miliario dei Tetrarchi per la ricostruzione del tracciato della via Herculia in Hirpinia (a sud di Aequum Tuticum) - 2016 -

                IV GUERRA MACEDONICA ( 150-148 a.c.)

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                La IV guerra macedonica fu l'ultima delle quattro guerre intraprese da Roma contro la Macedonia per estendere il suo dominio su tutta la Grecia. Furono gli stessi macedoni a dargliene occasione (iustum bellum) rivoltandosi contro Roma sotto Andrisco, un preteso figlio del re Perseo, sconfitto poi da Lucio Emilio Paolo.

                Le città del Peloponneso si coalizzarono nella filomacedone Lega achea per espandersi nel Peloponneso attaccando i dominii di Sparta, ma i romani sconfissero a tappeto tutto il Peloponneso, radendo al suolo Corinto nel 146 a.c.. Il territorio venne così a formare le due province di Macedonia e Acaia. Quest'ultima comprendeva tutta la parte sud della Grecia continentale, un territorio più vasto di quello controllato dalla lega achea.



                FILIPPO VI DI MACEDONIA

                Filippo VI di Macedonia, detto Andrisco, ma anche Pseudofilippo, (greco Andrìskos, latino: Andriscus; Misia, 185 a.c. – Roma, 146 a.c.), fu un generale greco che si oppose all'occupazione romana avvenuta a seguito della battaglia di Pidna (168 a.c.), sotto il regno di Perseo di Macedonia (179 a.c. - 168 a.c.). La conseguenza di tale opposizione fu la IV Guerra Macedonica.

                UFFICIALE MACEDONE
                Questi nacque in Asia Minore, forse figlio di un conciatore di Adramyttium, città portuale della Misia nell'Eolide. e prestò servizio come mercenario, ma verso il 160 a.c.-155 a.c. dichiarò di essere Filippo, figlio del re macedone Perseo e di Laodice III, principessa della Siria e figlia di Seleuco IV, re della dinastia seleucide. Il vero Filippo era morto a 18 anni in Italia, portato dai romani secondo l'usanza di educare i principi di famiglia reale alla civiltà romana e farne alleati ma pure per evitare rivendicazioni dinastiche. 

                Il primo tentativo di rivolta di Andrisco fallì in quanto poco conosciuto tra la popolazione macedone. Allora nel 150 a.c. andò in Siria a cercare appoggi e venne ricevuto alla corte del sovrano seleucide Demetrio I Sotere, presentandosi come nipote in quanto figlio di suo cognato Perseo e di sua sorella Laodice III. 

                Il re capì di trovarsi di fronte a un impostore, così lo fece arrestare e lo consegnò ai romani. Non si sa se i romani lo rilasciassero giudicandolo un pazzo innocuo, come riportano alcune fonti o se, secondo altre, riuscì a fuggire dalla sua prigione, ipotesi più attendibile, sia perchè i romani poco si fidavano dei barbari, sia perchè Andrisco doveva pur essere avventuriero intelligente e capace per essere riuscito a convincere un popolo intero.



                I PRIMI SUCCESSI

                Nel 149 a.c. Andrisco dunque fuggì a Mileto e da lì si diresse in Tracia, dove si diede con successo al brigantaggio nella zona di confine tra Macedonia e Tessaglia. Qui, grazie alla sua forte personalità riuscì a convincere due principi traci, Tere e Barsada, e pure il popolo macedone, di essere figlio di Perseo ed essendosi arricchito col brigantaggio poté assoldare i loro militari Traci per invadere la Macedonia. 

                ROMANI
                Essendo anche buon oratore e personalità carismatica seppe infiammare i suoi uomini presentandosi come liberatore dall'oppressione romana, un carisma che venne poi accolto da tutte le popolazioni balcaniche che erano indipendentiste per tradizione. 

                Il Senato Romano, come sua abitudine, cercò di risolvere la situazione inviando, secondo alcuni il suo legato Publio Cornelio Scipione Nasica Corculo per risolvere la situazione, ma la fonte deve essere inesatta perchè Scipione, che non era affatto facile da sconfiggere in quanto formidabile generale, era stato eletto dal 150 fino alla sua morte nel 141 Pontefice Massimo, il che escludeva la possibilità di allontanarsi da Roma secondo le regole della massima carica pontificia. 

                Sembra invece che Roma avesse inviato il pretore Publio Iuventio per trattare o combattere. Deriso e maltrattato il pretore attaccò l'esercito di Andrisco ma morì in combattimento nella sua prima battaglia. Forte della vittoria Andrisco pretese il diritto al trono e l'ottenne, divenendo Filippo VI re di Macedonia.

                Il nuovo re Iniziò una politica riformista a favore del popolo e stipulò un'alleanza strategica con Cartagine, che stava combattendo in quegli anni la III guerra punica contro Roma. Dopodichè Andrisco invase anche la Tessaglia, ricreando un Regno di Macedonia piuttosto temibile.



                LA FINE

                Nell'anno successivo però, il 148 a.c., Andrisco aveva già perso una parte dei favori del popolo a causa delle sue estorsioni e crudeltà e Roma inviò in Macedonia un grosso esercito comandato da Quinto Cecilio Metello che lo sconfisse nella II battaglia di Pidna; decise quindi di ritirarsi in Tracia, in uno dei domini dei suoi principi traci alleati, per riorganizzare le sue forze. Andrisco, per quanto buon generale, non poteva competere nè con i generali romani come Cecilio Metello, nè con i preparatissimi e precisissimi legionari romani, nè con le armi da guerra romana. Il suo destino era scritto dall'inizio.

                Ma Metello lo inseguì, pur sconfinando in Tracia, lo battè di nuovo, lo catturò e lo condusse a Roma dove venne condannato a morte. Metello, come Lucio Emilio Paolo prima di lui, acquisì il cognomen di Macedonico proprio grazie a questa vittoria che segnò la fine dell'indipendenza della Macedonia, che dal 147 a.c. divenne provincia romana, accorpata all'Illiria e all'Epiro.


                BIBLIO

                - John Thornton - Le guerre macedoniche - Carocci - Roma - 2014 -
                - Velleio Patercolo - Historia romana - Antuerpiae, Ex Officina Plantiniana, apud Ioannem Moretum -1600 -
                - Publio Annio Floro - Bellorum omnium annorum DCC - II -
                Tito Livio - Storia di Roma dalla Sua Fondazione - edizioni BUR - 13 volumi - 2003 -
                - Diodoeo Siculo - Bibblioteca historica - 40 libri - XXXII -

                AEDES SERAPIDIS

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                RICOSTRUZIONE DELL'AEDES SERAPIDIS (By http://atlasofancientrome.com )

                Il Santuario o Tempio di Serapide, che sorgeva sul colle del Quirinale a Roma, era il più grande e sontuoso Tempio del Colle, i cui resti sono tuttora visibili presso l’Università Gregoriana. Fu fatto costruire dall'imperatore Caracalla che ne fece uno dei più grandi e sontuosi di Roma.

                In epoca ellenistico-romana infatti il culto di Serapide, strettamente connesso a quello di Iside, assunse una forte connotazione misterica e incontrò una grande fortuna. Templi dedicati alla divinità egizia furono costruiti a partire dal I secolo a.c. a Roma e poi in varie parti dell'Impero Romano.

                Da una grandiosa scalinata si raggiungeva l'edificio al di sopra del dislivello naturale. Le colonne erano alte 21,17 m., per un diametro ciascuna di 2 m. Ne rimangono diversi resti, tra cui un enorme frammento di trabeazione, di circa 100 tonnellate di peso e di oltre 34 m, il più grande esistente a Roma.

                RICOSTRUZIONE GRAFICA (By https://www.katatexilux.com/)

                SERAPIDE

                Serapide o Sarapide è un Dio greco-egizio, il cui culto fu introdotto ad Alessandria d'Egitto da Tolomeo I, che vi fece costruire il Serapeo. Serapis, come era chiamato dai romani, era una divinità derivante dal Dio tardo egizio Osorapi (Osiride-Api) con vari attributi greci di Zeus, Esculapio e Dioniso. Secondo alcuni le sue origini sarebbero sinopitico-babilonesi.

                Il faraone Tolomeo I (304-284 a.c.) accolse benevolmente nella nuova capitale d'Egitto, Alessandria, il culto di Serapide, forse perchè sperava di poter unire maggiormente Egiziani e Greci.

                RICOSTRUZIONE GRAFICA (By https://www.katatexilux.com/)

                Plutarco nel De Iside et Osiride racconta che un sogno profetico indusse Tolomeo a trasferire in un nuovo tempio del quartiere di Alessandria (Rakotis) una statua di Zeus custodita a Sinope, in Asia Minore, intitolandola al nuovo Dio.

                Serapide veniva raffigurato barbuto come Zeus e Ade, con un moggio di grano in testa, seduto sul trono, con uno scettro in una mano, spesso con l'altra su Cerbero, come definire il suo dominio sull'animale degli Inferi. L'animale a lui sacro comunque è il toro Api.

                RICOSTRUZIONE GRAFICA (By https://www.katatexilux.com/)

                Il Dio tolemaico fu identificato con molti Dei greci, quali Zeus, in quanto Signore dell'Universo, Ade, come Dio dell'oltretomba, Dioniso, in quanto Dio della fecondità, Asclepio, come Dio guaritore, ed Helios, nell'aspetto solare. Il culto di Serapide si confuse anche col cristianesimo come testimonia lo stesso imperatore Adriano tramite una sua lettera che scrisse a suo cognato il tre volte console Urso:

                «Adriano Augusto saluta il console Urso Serviano. Mio carissimo Serviano, dall’ Egitto, di cui ero abituato a lodare la luminosità e l’alternanza delle stagioni, vagando ti scrivo. Tutti coloro che qui, adorano Serapide, sono cristiani, e persino quelli che vengono chiamati vescovi sono legati al culto di Serapide. 
                Non v’è capo rabbino, samaritano, sacerdote dei cristiani, matematico, indovino, bagnino, che non adori Serapide. Lo stesso patriarca degli ebrei adora indifferentemente Serapide e il Cristo. Questa gente non ha altro dio che Serapide: è il dio dei cristiani, degli ebrei e di tutti i popoli»

                PALAZZO COLONNA CON I RESTI DEL SERAPEO

                Il culto di Serapide, dall'Egitto passò sull'isola di Delo e da qui in Italia ed ebbe come attributi: il moggio di grano, il toro, lo scettro, Cerbero, la corona, il serpente. Spesso i suoi seguaci romani lo osannarono, insieme a Iside, come unici Dei da seguire, piuttosto simili a Cristo e la Madonna, per questo il culto fu spesso avversato. 

                RESTI DEL SERAPEO A VILLA COLONNA
                Il senato non vedeva di buon occhio quello che per loro era fanatismo. Il culto venne pertanto spesso eseguito in privato, con affiliati segreti, e spesso accogliendo i Misteri Isiaci, di cui però nulla sappiamo.

                Il santuario, detto Aedes Serapis, di sviluppava su un'area di 135 m per 100 m, per cui su un'area di ben 13.500 mq.

                Era articolato in due parti: un lungo cortile colonnato, decorato con due file di statue (probabilmente sfingi) e obelischi, dava adito al santuario vero e proprio, anch'esso col le sue colonne e le sue statue.

                Per molti il culto di Serapide, con canti, luci, campane, processioni, rappresentava una trasformazione finale del salvatore Osiride in una figura monoteistica, virtualmente identica al Dio Cristiano.

                VILLA COLONNA CON I REPERTI DEL SERAPEO

                Come Cristo era un agnello sacrificale, così Serapide era un toro sacrificale e anche un Dio in forma umana. Egli veniva sacrificato annualmente a riparazione dei peccati degli uomini.

                Ma non dimentichiamo che fin dai Sumeri e dai Babilonesi già esisteva ovunque la Dea Madre vergine che partoriva senza contributo maschile un figlio che lei allevava, con cui poi si accoppiava, che poi faceva morire e quindi risorgere. Pertanto anche Serapide era la vegetazione annuale della natura.

                IL BELLISSIMO SERAPIDE

                L’abbandono dei culti pagani, a causa dei poco cristiani Decreti di Teodosio, fece di questo sito una gigantesca cava di marmi preziosi, provocando al distruzione di un monumento che doveva restare immortale nei secoli, sia per la sua straordinaria stabilità, sia per la sua incredibile bellezza.

                Oggi l'imponente tempio del Serapeo del colle Quirinale è quasi scomparso, ma esistono ancora consistenti resti delle due scale gemelle in mattoni e del vano scala che scende sul colle.  Purtroppo si trovano nei giardini di palazzo Colonna, che non è accessibile al pubblico, e dall'altro lato c'è l'Università Gregoriana, anch'essa invalicabile.

                Comunque, l'Università Gregoriana fu costruita all'inizio degli anni Trenta ed esiste una antica foto che mostra il sito in costruzione.  Dietro di essa, chiaramente visibile, è la grande carcassa quadrata della tromba delle scale, e le scale gemelle su entrambi i lati.
                FOTOGRAFIA DEL 1930 CHE RITRAE I RESTI DELLA VILLA COLONNA ED I RESTI ROMANI
                DEL SERAPEO, DURANTE LA COSTRUZIONE DELLA PONTIFICIA UNIVERSITA' GREGORIANA

                Da un punto di vista strutturale, sia il corpo intermedio che l'area sacra a Serapide facevano parte di una enorme sostruzione appoggiata al muro di fondo del tempio di Ercole e Dioniso, delle cui rovine abbiamo varie raffigurazioni del '500 e del '600, tra le quali una informa anche sulla disposizione dei due livelli di finestre relativi ai due percorsi delle rampe.

                Ma permangono anche resti archeologici ora locati nel giardino Colonna e nella Università Gregoriana, di cui ora esiste il rilievo di E. Gallocchio, che molto ci ha aiutato a migliorare planimetrie e alzati. 

                EVIDENZIATI IN ROSSO I RESTI DEL SERAPEO

                Veduta da nord-ovest di Villa Colonna edificata sulla conchiglia delle scalinate romane. Foto presa nel 1930 durante la costruzione della pontificia Università Gregoriana. Vale la pena ripetere uno dei disegni rinascimentali della stessa area (di Giovanolli).  

                E' incredibile pensare che questo esista ancora!L'immagine è stata stampata da Rabun Taylor nel suo bell'articolo dove sostiene con ottimi argomenti che il tempio è stato fatto costruire da Adriano, mentre la tromba delle scale risalirebbe a Settimio Severo:

                L'opera aveva previsto un taglio verticale del collis Mucialis, dal livello del vicus laci Fundani fino a raggiungere quello del vicus Caprarius. La sostruzione, esclusi gli edifici sovrastanti la zona più bassa, era alla quota del vicus Caprarius.

                RESTI DEL SERAPEO

                La sostruzione, esclusi gli edifici sovrastanti per i quali era stata costruita, era alta m 25,31, per cui era di poco più elevata rispetto a quella che sosteneva la Silva Apollinis nella casa-santuario di Augusto, alta m 25 e 16, mentre più alta ancora (m 29,91) era quella di età adrianea antistante i templi di Victoria e Magna Mater.

                Non avrebbe senso un'opera tanto colossale solo per albergare una rampa di accesso al Quirinale dalla bassura del Campo Marzio, sul genere di quella che univa la grande aula di ricevimento domizianea e i "penetralia" di Minerva alla domus Tiberiana (Atlas, av. 48).

                Questa doppia rampa, superando m 25,47 di dislivello, occupava solo mq 347, 7 mentre la sostruzione Severiana occupava mq 4486, 3, quindi tredici volte maggiore! Doveva quindi albergare ben altro.


                Nel complesso severiano, che è perfettamente simmetrico, le rampe sono due, ciascuna entro due spazi lunghi e stretti, uno esterno, percorso due volte, e uno interno, percorso una volta sola. Queste due doppie rampe affiancavano e includevano uno spazio molto più ampio, libero e al centro, Ia cui planimetria sembra prevedere al di sopra una grande aula circondata da un porticato.

                E questo I'unico luogo dove è immaginabile e perfettamente ricostruibile il complesso di Scrapide, fatto di porticus e di aedes, e che tanti indizi riconducono proprio in questo luogo.

                II frontone principale del tempio di Ercole e Dioniso poteva essere ornato dai Dioscuri ora in piazza del Quirinale, i mitici gemelli potevano rimandare a Geta e Caracalla, posti forse ai lati di una statua del padre Giove, Dio che doveva rimandare a Settimio Severo.

                STATUA DEL DIO TEVERE OGGI AL CAMPIDOGLIO

                Si pensa che unna statua di Roma seduta potesse ornare il centro del frontone o essere posta come acroterio sul tetto.   Le estremità del frontone occidentale del tempio di Serapide potevano
                essere decorate dalle statue del Nilo e del Tevere, rinvenute nelle vicine terme di Costantino (Atlas, tav. 196), trasferite nel 1517 in Campidoglio.

                Queste vennero infatti trasferite nel 1517 in Campidoglio e poste ai lati della doppia scalinata d'accesso del Palazzo Senatorio realizzata da Michelangelo, dove si trovano ancora oggi. La presenza delle due divinità fluviali, una romana ed una egizia testimoniavano il legame romano egiziano. 

                STATUA DEL DIO NILO OGGI AL CAMPIDOGLIO

                Insomma, il complesso severiano del Quirinale era un angolo esotico di Roma, per una parte libico e per l'altra egizio, un angolo africano che riportava a Leptis Magna e ai suoi divini patroni e ad Alessandria e al suo Serapeo, santuario eretto dai Tolomei, probabilmente da Tolomeo III (246- 
                221 a.c.). 

                Venne poi ricostruito in etå imperiale (m 185 x 92), cui si accedeva tramite una scalinata di 100 gradini e che comprendeva il tempio di Serapide con annessa biblioteca, i culti di Arpocrate e di Iside, la necropoli sotterranea degli animali sacri e sacelli per le altre divinità egizie; per la salute 
                dell'imperatore Adriano, vi è stata dedicata una grande scultura del toro Api. 

                (Coarelli 2014)


                BIBLIO

                - Filippo Coarelli - Guida archeologica di Roma - Arnoldo Mondadori Editore - Verona - 1984 -
                - J. Scheid - La religione a Roma - Laterza - Roma-Bari - 2001 -
                - Jorg Rupke - La religione dei Romani - Torino - Einaudi - 2004 -
                - Michael Lipka - Roman Gods: A Conceptual Approach - Brill - 2009 -




                VINDOLANDA (Limes Britannicus)

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                RICOSTRUZIONE DI VINDOLANDA

                VINDOLANDA (di Agricola)

                Vindilanda o Vindolandia era un forte di truppe ausiliarie costruito dai romani in Britannia per ordine di Gneo Giulio Agricola nel 79 dopo la conquista della Britannia del nord. Si trova a quasi due Km dalla parte meglio conservata del Vallo di Adriano (che segnava il confine tra la provincia romana della Britannia e la terribile Caledonia, corrispondente all'odierna Scozia) in Northumbria, appunto al confine con la Scozia.

                Di fatto serviva a vigilare sulla Stanegate, strada che andava dal Tyne al Solway Firth. Dagli scavi archeologici risulta che il forte fu ricostruito molte volte.

                Il forte, inizialmente fu costruito in legno e i resti delle fasi delle sue cinque edificazioni in legno si sono conservati eccezionalmente bene grazie all'umidità del clima.

                RICOSTRUZIONE DI VINDOLANDA

                Successivamente venne occupato, prima del 90 d.c., dalla cohors I Tungrorum; in seguito venne rioccupato dalla cohors VIII Batavorum fra il 95 e il 105 d.c. 

                Alla metà del II sec. risale invece la fase di ricostruzione in pietra, anch'esso soggetto a varie manutenzioni, restauri e ampliamenti; dall'inizio del III sec. in poi, il forte divenne la base della cohors IV Gallorum.

                VINDOLANDA
                Da questo forte provengono delle tavolette scritte in antico corsivo romano da cui emergono molti interessanti dettagli sulla vita delle guarnigioni delle zone di frontiera. Di questi, sebbene finora sia stato esaminato solo l'8% dei resti più antichi, tuttavia sono già stati scoperti mille testi relativi al periodo di occupazione compreso fra il 90 e il 120 d.c.

                Le dimensioni dei documenti sono di varie dimensioni e vanno da piccoli frammenti contenenti solo poche lettere, ad altri casi in cui un singolo documento può anche essere lungo quattro pagine con 45 linee di testo scritto.

                Si tratta soprattutto di corrispondenza, sia ufficiale che privata, fra ufficiali, mogli e soldati, più alcune lettere redatte dal prefetto. Vi sono inoltre i rapporti giornalieri degli ufficiali al prefetto, un "pridianum" ovvero il rapporto ufficiale della cohors I Tungrorum, una serie di liste di provviste varie consegnate ai diversi membri della guarnigione, schede di incombenze giornaliere per i soldati, vari conti e ricevute e, infine, una gran varietà di documenti miscellanei.



                Rapporto ufficiale della cohors I Tungrorum, "pridianum":

                PLANIMETRIA DEL CASTRUM
                "I quattro documenti di tipo pridiana o pridianum esistenti non sono uniformi; il grado di dettaglio varia. CbLA 501 non è conveniente per il confronto, poiché sopravvive solo il blocco superiore (affermando il pridianum detulit, forse un rapporto intermedio). In RMR63, sebbene i dettagli fattuali sulle cause di perdite e assenze siano estesi, ai nomes degli individui vengono dati solo numeri, al di sotto del rango del comandante ufficiale. In RMR 64 ufficiali, nuove reclute (tirones probati) e trasferimenti, sono elencati per nome e secolo, ma la sezione che elenca le perdite e le assenze non è scontata. P. Brooklyn 24 conserva i dettagli delle cause di accessioni e perdite, ma i nomi degli individui non sono indicati."

                Questa raccolta di documenti è preziosissima anche perchè rappresenta il più antico archivio letterario della Gran Bretagna e ci informa sul linguaggio e sul livello culturale dell'esercito romano alla fine del I sec. d.c.

                Particolarmente interessante sotto questo profilo la tavoletta N. 291, contenente un invito alla sua festa di compleanno da parte di Claudia Severa, moglie di uno dei comandanti, destinato all’amica Sulpicia Lepidina; le tavolette, inoltre, sono scritte prevalentemente in corsivo, e rivelano come i Romani utilizzassero altri supporti oltre al papiro e al legno unito alla cera.

                SCOPERTE CENTINAIA DI SCARPE ROMANE NEL FORTE

                GLI SCAVI

                Gli scavi archeologici in questo sito iniziarono negli anni Trenta del XX secolo. Vi fu successivamente un susseguirsi di scavi, finchè gli archeologi non fecero una delle loro scoperte più importanti dal 1992: 25 nuove tavolette di legno, scritte direttamente dai soldati verso la fine del I sec. d.c. Le tavolette da scrittura a Vindolanda (circa 2.000) sono le prime registrazioni scritte di vita militare e di tutti i giorni nella Britannia romana. Tavolette simili, tagliate solo da legno di quercia, furono scoperte nella Dacia romana.

                A Vindolanda, su una tavoletta, fu decifrata la riga 473 del libro IX dell'Eneide di Virgilio; in Dacia, un'altra linea di Eneide è stata trovata su una tavoletta per scrivere. Dimostra che in Dacia, i prefetti ausiliari si sarebbero presi cura di assicurare che i loro figli non trascurassero la loro istruzione, e che l'insegnamento potesse essere stato nelle mani di abili schiavi domestici.

                I documenti sono grandi quanto una cartolina e contengono lettere, liste e corrispondenza personale. In una lettera ricompare il nome di un uomo chiamato Masclus, già noto grazie ad altre tavolette scoperte in precedenza.

                LE SCARPE DEI LEGIONARI

                MASCLUS (Fonte)

                Nel 1992, Robin Birley fece una delle scoperte più importanti dell’archeologica britannica: un enorme raccolta di lettere dei soldati nel forte romano di Vindolanda, vicino al Vallo di Adriano. Tra i numerosi resoconti della vita legionaria ai confini dell’impero, gli studiosi si erano anche imbattuti su un tale Masclus, e in particolare sulle sue richieste di maggiori forniture di birra per il suo avamposto.

                Adesso, 25 anni dopo, il figlio di Robin Birley, Andrew Birley, ha annunciato la scoperta di altre lettere che sembrano includere ancora delle richieste dello stesso ufficiale romano di cavalleria – solo che questa volta chiede un "commeatus", un congedo o una licenza.

                Le nuove 25 lettere sono state trovate lo scorso 22 giugno nel livello più profondo del forte, e ora sono nel processo di conservazione prima delle scansioni con le luci a infrarossi. Ciò dovrebbe rendere leggibili i segni d’inchiostro ormai appena visibili, ma gli esperti credono di aver già scoperto una richiesta scritta di Masclus, il quale chiede una licenza. 


                La maggior parte delle missive sono, come quelle scoperte nel ’92, scritte su sottili fogli di legno di betulla. 
                Tuttavia gli esperti sono particolarmente emozionati da una tavoletta doppia in legno di quercia, che indica una corrispondenza importante.

                «Questa è la scoperta che aspettavo da tutta la mia vita», ha detto Andrew Birley, che era un adolescente quando suo padre fece la scoperta principale, mentre ora è CEO del Vindolanda Trust e dirige gli scavi. 

                ALTARE DI GIOVE DOLICHENO

                «Nel 1992 ebbi la fortuna di essere coinvolto quando mio padre scavò le tavolette e speravo, ma non me lo aspettavo veramente, di scoprire un’altra collezione di documenti un giorno. Adesso mio padre sta un po’ male di salute, ma quando sono tornato a casa aveva aperto una bottiglia di champagne».

                La maggior parte delle centinaia di lettere già trovate a Vindolanda sono custodite nel British Museum, mentre altre sono in prestito presso il forte. Sono considerati tra i documenti più conosciuti del mondo romano, importanti per i loro contenuti altamente personali e i resoconti della vita dell’esercito, con tutti i pregi e i difetti. Le nuove lettere, ritenute del I sec. d.c., sono state trovate in una trincea nel livello più profondo del complesso, il quale fu ripetutamente ricostruito negli anni.

                Birley ha spiegato: «Le tavolette erano distanziate a intervalli regolari lungo una linea, sotto a uno strato di fondamenta pieno di detriti. Ci siamo chiesti se qualcuno le stesse portando in una borsa magari bucata, o se qualcuno le avesse buttate una ad una mentre le stava leggendo camminando. Non c’è niente di più emozionante che leggere questi messaggi personali dal passato lontano. Non sono semplici note da Post-it. Venivano scritti quando qualcuno aveva qualcosa di importante da comunicare».


                Il documento in legno di quercia è attualmente illeggibile e l’inchiostro è scomparso, ma si spera che la scrittura sarà decifrata con l’uso degli infrarossi.

                Lungo il Vallo di Adriano, presso il forte di Vindolanda, nella contea di Northumberland, è stato scoperto un santuario romano consacrato a Giove di Doliche. Il direttore degli scavi, Andrew Birley, racconta che il santuario era sepolto sotto una sorta di montagnola. Esso contiene un altare molto ben conservato, dedicato da un prefetto della Quarta Coorte dei Galli.

                L'altare è alto circa 110 centimetri e mostra il dio che cavalca un toro con l'ascia ed il fulmine in mano. Il centro del culto di Giove di Doliche era l'attuale Turchia meridionale.

                E' una scoperta estremamente rara e, per questo, ancora più preziosa, in quanto è assai difficile ritrovare santuari all'interno di forti romani. Accanto al santuario sono state anche ritrovate tracce di sacrifici animali. Gli scavi hanno anche riportato alla luce un secondo altare, dedicato, questo, da un prefetto della Seconda Coorte dei Nervi.

                UNA DELLE DUE SPADE RITROVATE A VINDOLANDA (FOTO: VINDOLANDA TRUST)

                15 settembre 2017 (Fonte)

                Due spade romane e due spade giocattolo in legno, simili, queste ultime, a quelle comunemente vendute nei negozi di souvenir, risalenti a 2000 anni fa, sono stati scoperti a Vindolanda, in Gran Bretagna. Sia le spade che i giocattoli sono stati rinvenuti durante lo scavo di una caserma di cavalleria romana a Vindolanda, vicino al Vallo di Adriano.

                Un delle due spade aveva la punta ricurva ed era quel che oggi sarebbe un fucile che non funziona correttamente. La seconda spada non aveva manico, pomo o fodero ma aveva la lama intatta ed è stata trovata poco distante dalla prima arma. Accanto vi erano due spade giocattolo in legno. Altri oggetti ritrovati nell'antico forte romano sono cuoio, coltelli, spille, punte di freccia e bulloni per le baliste. Si ritiene che i reperti risalgano al 120 d.c., quando il forte ospitava una popolazione di circa 1.000 persone.



                BIBLIO

                - Anthony Richard Birley - Garrison Life at Vindolanda: A Band of Brothers, Stroud, Tempus - 2002 -
                - Robin Birley - Vindolanda: a Roman frontier post on Hadrian's Wall - Londra - Thames e Hudson - 1977 -
                - A. Selkirk - "A ritual statue from Vindolanda" - Current Archaeology - 205 - 2006 -
                - Anthony Richard Birley - The Roman Government of Britain - Oxford - Oxford University Press - 2005 -
                - Anthony Richard Birley - Life in Roman Britain - Londra - Batsford -1964 -

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