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LEGIO I FLAVIA PACIS

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COSTANTINO I

Fu una delle legioni del tardo impero romano. Il suo nome significa "la Legione Flaviana di Pace".
Il suo nome richiama la II Legio Flavia Virtutis e la III Legio Flavia Salutis, nomi invocanti i valori di pace, virtù e salute. Evidentemente si voleva pubblicizzare le ottime intenzioni dell'impero romano, ma un poco in contrasto con il compito dei legionari.

SCUDO DELLA LEGIONE
Secondo alcuni la legione venne reclutata da Costanzo Cloro (Cesare 293-305 e Augusto 305-306), oppure da Costantino I (306-337), entrambi appartenenti alla gens Flavia, forse formata con elementi Britanni di una coorte ausiliaria. 

Altri ritengono che tutte e tre le legioni furono formate dall'imperatore Costanzo II (r.337-361) destinate alla metà orientale dell'Impero Romano, ma le date confermano la prima ipotesi.

Sappiamo che all'inizio la legione venne posta di stanza nella regione dell'Armorica, nella Gallia Lugdunensis III, agli ordini del Dux Tractus Armoricani et Nervicani, con un distaccamento a Benetis o Namnetes, con il compito di contrastare le scorrerie dei pirati Franchi e Sassoni sulle coste della Gallia del sud. 

- 360 - Dopo aver forse prestato servizio nell'esercito del Cesare Giuliano (356-360) in Gallia, viene spostata in Britannia, a Magis (365-370), località incorporata dal 369 nella nuova provincia di Valentia; 

- 369 - sembra che la I Flavia  combattè nel 369 agli ordini del Comes Britanniarum  Flavio Teodosio il vecchio,  padre del futuro imperatore Teodosio I, contro le incursioni dei Picti e degli Scoti. 

- 373 - Sempre agli ordini del Comes Teodosio, dopo aver combattuto per un breve periodo sulle rive del Danubio, la legione si trasferisce passando per la Gallia Viennensis fino ad Arelate (Arles). Dal porto della città, ormai denominata Costantina, la legione si imbarcò all'inizio dell'estate del 373 per Igilgili in Africa.

Qui dovette combattere in Mauretania, contro la sollevazione di Firmo, un principe Mauro. Una volta soffocata la rivolta, la Legio I Flavia Pacis, una volta ristabilita la Pacis, non tornò in Britannia, ma rimase in Mauretania Caesariensis, sembra facendo base a Caesarea.

All'inizio del V secolo risulta essere di pertinenza dell'esercito dell'Impero Romano d'Occidente agli ordini del Magister Peditum Praesentalis, carica istituita da Costantino I, comandante delle forze di fanteria dell'esercito romano su base locale, dove la legione ebbe la qualifica di legione comitatensis, trasferita di stanza in Italia. 

La legione comitatensis costituiva un'unità del comitatus, cioè dell'esercito mobile il cui compito era di intervenire lì dove c'era necessità. Le legioni comitatensi erano state istituite per non dover mantenere un'infinità di legionari per tutto il confine dei limes dell'impero.

LE DIOCESI (INGRANDIBILE)
La legio I Flavia Pacis apparteneva al gruppo di unità comitatensi-"periferiche" (in contrapposizione a quelle palatinae, appartenenti all'"esercito centrale"), le quali, insieme alle Vexillationes comitatenses (la cavalleria dell'esercito mobile non-praesentalis) costituivano l'esercito dedicato ad una singola Diocesi nell'ambito della Prefettura.

La Diocesi era una divisione amministrativa al cui interno erano raggruppate diverse province. La diocesi era subordinata ad una prefettura del pretorio, che costituiva la massima divisione amministrativa dell'impero. La diocesi, perciò, era ad un livello intermedio fra le province e le suddette prefetture.

La Diocesi poi si trasformò in un termine dell'amministrazione della Chiesa Cattolica per indicare la circoscrizione su cui si estende la giurisdizione spirituale e il governo di ogni vescovo.

La Legio I Flaviai Pacis venne sciolta nel V secolo.


TEMPIO DI GIUNONE AVENTINA - SANTA SABINA

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RICOSTRUZIONE  DEL TEMPIO


TEMPIO DI GIUNONE REGINA ALL'AVENTINO

"Quando i beni privati erano già stati asportati da Veio, i vincitori cominciarono a portarsi via anche i tesori degli Dei e gli Dei stessi, pur facendolo però con spirito di autentica devozione e non con foga da razziatori. Infatti all'interno di tutto l'esercito vennero scelti dei giovani che, dopo essersi lavati accuratamente e aver indossato una veste bianca, ebbero l'incarico di trasferire a Roma Giunone Regina.

Una volta entrati nel tempio pieni di reverenza, essi in un primo tempo accostarono piamente le mani al simulacro della dea perché secondo la tradizione etrusca quell'immagine non doveva esser toccata se non da un sacerdote proveniente da una certa famiglia. 

 Poi, quando uno di essi, vuoi per ispirazione divina, vuoi per celia giovanile, disse, rivolto al simulacro: 
«Vuoi venire a Roma, Giunone?», tutti gli altri gridarono festanti che la Dea aveva fatto un cenno di assenso con la testa. In seguito venne aggiunto che era stata udita la voce della Dea rispondere di sì. 

Di certo però sappiamo che non ci vollero grossi sforzi di macchine per rimuoverla dalla sua sede: facile e leggera a trasportarsi, la Dea approdò integra sull'Aventino, in quella zona cioè che le preghiere del dittatore avevano invocato come la sede naturale a lei destinata per l'eternità e dove in seguito Camillo le dedicò il tempio da lui stesso promesso nel pieno della guerra."

(AUTORE SCONOSCIUTO)

IL TEMPIO DI GIUNONE AVENTINA

Il tempio di Giunone Regina fu infatti dedicato sul colle Aventino alla Regina degli Dei da Marco Furio Camillo (446 a.c. circa – 365 a.c.) che fece voto di erigere un tempio a Giunone "Regina di Veio" in occasione della conquista di Veio.

Dopo la vittoria sciolse il voto costruendo, nel 396 a.c., il tempio alla Dea sull'Aventino, dove era custodita la statua in legno di Saturnia, portata via da Camillo stesso dalla città sconfitta. Giunone Regina, quella evocata durante l’assedio di Veio, venne portata nel suo simulacro sull’Aventino, condotta fin da Veio con processione solenne.

Il popolo cantò per lei, ed offrì incensi e regali alla Dea. La dedica avvenne il 1º settembre del 392 a.c., con processione, sacerdoti, canti e danze, con torce e incensi, con ghirlande di fiori e nastri, con sacrifici di animali, banchetti e brindisi in onore della Dea.

Il tempio, esastilo e poggiato su alto podio, divenne presto famoso e fu spesso nominato negli annali in seguito a congrui doni o sacrifici conseguenti a meravigliosi prodigia, insomma la Dea faceva molti miracoli ed esaudiva molte grazie.

CHIESA DI SANTA SABINA COSTRUITA SOPRA IL TEMPIO,
AL CENTRO I RESTI DEL PAVIMENTO ROMANO

Per questi suoi prodigi la gente si recava in pellegrinaggio per renderle onore e supplicarla, anche da fuori di Roma. Divenne un vero e proprio pellegrinaggio, con gente che traversava campi e vie consolari con mezzi di fortuna, spesso anche a piedi.

Il tempio, ormai famoso ovunque anche al di fuori di Roma, per i numerosi miracoli concessi dalla Dea misericordiosa, fu restaurato da Augusto, ma da allora non venne più menzionato dalle fonti, o almeno non si trovarono più fonti che lo menzionassero, tenendo conto che molto spesso i cristiani distruggevano tutto ciò che alludeva agli Dei pagani.

Si sa che il tempio si trovava nella parte superiore del clivus Publicius, infatti due iscrizioni di pertinenza alla processione lustrale del 207 a.c. sono state ritrovate nei pressi della chiesa di Santa Sabina, con tutta probabilità costruita su di esso, visto i numerosi reperti romani di cui è adorna.
All’interno della basilica di Santa Sabina nel V secolo furono ricollocate 24 colonne corinzie del tempio di Giunone Regina.
Al lato del tempio si trovavano le Scalae Cassi (Scale di Cassio) che portavano al luogo di culto.
"Parte degli avanzi delle sostruzioni del Tempio di Giunone Regina ora sostengono i muri della Chiesa di S Sabina. Questo Tempio aveva la Cella circondata da un maestoso Portico le di cui colonne ora sostengono l'architrave della medesima Chiesa".

(Ridolfino)

LE COLONNE ROMANE

SANTA SABINA

Una chiesa antica come un tempio pagano è S. Sabina, fondata nel 422 utilizzando le 24 colonne marmoree corinzie del tempio di Giunone Regina.

Nel IX secolo le sue decorazioni furono arricchite di finestre in selenite (sostitutivo del vetro), termine dal greco "selenites" letteralmente "pietra di Luna", dal nome della Dea greca della luna, Selene.
Nell'area è compreso anche il perimetro del santuario di Diana, fatto erigere dal re etrusco di Roma Servio Tullio, che condusse qui il culto, traslandolo dalla zona del lago di Nemi.



IL GIARDINO DEGLI ARANCI

Il Giardino degli Aranci, cosiddetto dall'aranceto che vi cresce estesamente, si espande a Roma nell'area dell'antico fortilizio della famiglia Savelli (1285 - 1287) presso la chiesa di Santa Sabina sull'Aventino, su un preesistente castello fatto costruire dai Crescenzi nel X secolo.

L'attuale giardino fu realizzato nel 1932 da Raffaele de Vico, destinando a parco pubblico l'area che i padri Domenicani della vicina chiesa tenevano a orto. Addossata ad una nicchia del muro di cinta del suddetto Parco Savello, c'è una fontana che è stata realizzata nel 1936 su progetto di Antonio Munõz.

Antonio Munõz diresse alcuni importanti restauri di chiese romane tra i quali, di particolare rilievo, quello della basilica di Santa Sabina che, eliminando le sovrapposizioni edificate da Domenico Fontana nel 1587, riportò la chiesa al suo aspetto originario. L'intervento fu eseguito in due fasi: la prima dal 1914 al 1919 e poi dal 1936 al 1937.

La chiesa fu costruita tra il 422 e il 432, si dice, sopra la casa della matrona romana Sabina, poi divenuta santa, di cui resta all'interno, addossata alla parete di destra, una colonna di granito. Sulla quale colonna ci sono leggende particolari.

Ma c'è da fare un premessa: la colonna della chiesa non appartenne alla casa di Santa Sabina ma al tempio di Giunone Aventina. Ci sono anzi molte riserve sulla casa di Santa Sabina, mentre è certo che la Chiesa è in parte sul tempio di Giunone Regina e in parte sul tempio di Diana.



LAPIS DIABOLI

La pietra nera di forma rotonda posta su una colonna tortile a sinistra della porta di ingresso, è chiamata Lapis Diaboli, ossia "pietra del diavolo" perché sarebbe stata scagliata dal diavolo contro San Domenico mentre pregava sulla lastra marmorea che copriva le ossa di alcuni martiri, mandandola in pezzi.

COLUMNA PONDERALIS - LAPIS DIABOLI
Sopra una piccola colonna biancastra, in disparte in un angolo a sinistra dell’edificio, si trova infatti una pietra dalla forma tondeggiante con incisioni di artigli. Leggenda vuole che nel 1220 San Domenico e il suo seguito di frati, che occupavano il complesso di Santa Sabina, si imbatterono più volte nel demonio.

Una sera, mentre Domenico pregava inginocchiato per terra, il diavolo afferrò, con i suoi artigli infuocati, un macigno di basalto strappato dal tetto della chiesa e lo scagliò furiosamente conto il Santo che ne venne, fortunatamente, solo sfiorato.

Questo fatto costrinse il diavolo ad andarsene frustrato ma sembra che, di tanto in tanto, torni in questo luogo per trattenersi sulla porta prima di andarsene sconsolato.

Le nere pietre diaboliche ritrovate nel tempio di Giunone Aventina erano in realtà pesi riferibili all'età romana, con iscrizioni in cifre o in lingua latina. Partendo dai pesi di maggiori dimensioni, tutti lapidei, l'indicazione della libra, con i suoi multipli e sottomultipli, veniva realizzata incidendo semplici cifre romane fungenti da numerali, con l'unità di riferimento, la libra, sottintesa.

Servivano da riferimento a chi acquistava delle merci per poter essere sicuro che il venditore non stesse truffando sul peso, in quanto i pesi erano garantiti dallo stato. Queste unità di misura venivano conservate in genere nei templi per essere certi che nessuno potesse sostituirli, garantiti dagli inappuntabili sacerdoti che custodivano il tempio.

In realtà la lapide, che è appunto una misura di peso, nulla di diabolico, fu spezzata dall'architetto Domenico Fontana ( 1543 – 1607),in un fortuito incidente, per spostare la sepoltura dei martiri. Come risulta da alcune iscrizioni ritrovate nei pressi della basilica (CIL VI, 364 e CIL VI, 364), la chiesa venne edificata, almeno in gran parte, sul tempio di Giunone Regina (dove si conservavano le unità di misura dei pesi), e 24 colonne del quale furono utilizzate per l'edificazione della chiesa di Santa Sabina.

Basta guardare come sono chiaramente antiche le otto colonne romane dell’atrio davanti alla facciata, la splendida cornice marmorea di I sec. sul portale di ingresso e le colonne utilizzate nell'interno .
Materiali: marmo bianco, granito, frammenti di marmi policromi e travertino.



FONTANA IN PIAZZA PIETRO DI ILLIRIA

Appena fuori dalla Chiesa di Santa Sabina, sulla piazza Pietro di Illiria, si nota una bella fontana, anche questa  composta da due pezzi di reimpiego: una vasca termale romana ed il monumentale mascherone marmoreo, scolpito per ornare una fontana costruita nel 1593 nel Campo Vaccino su progetto di Giacomo della Porta.

L’antica vasca in granito, del tipo che usavano i romani nelle terme, adorna di maniglioni a bassorilievo, è collocata al centro di un bacino rettangolare leggermente incassato rispetto al livello stradale. Sopra di essa, raccolto nella valva di una conchiglia, si trova il mascherone cinquecentesco.



BIBLIO

- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita -
- Floro - Epitomae de Tito Livio - libro I -
- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -
- Robert Graves - La Dea bianca. Grammatica storica del mito poetico - 4ª ed. - Milano - Adelphi - 2012 [1992] -



DIVINITA' ROMANE DELL'INFANZIA

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DEA TELLUS

GLI DEI DEL NEONATO

I romani avevano divinità per ogni occasione della vita e così non solo invocavano i grandi Dei del Pantheon ma ricorrevano in particolari e importanti momenti a divinità minori che non avevano templi e sacerdoti pagati dallo stato, ma avevano sacelli e piccoli santuari sparsi nei pagus.



DEA NUMERIA

Queste divinità minori intervenivano solo in casi particolari a loro affidati, che segnavano la nascita e la crescita dei figli fin da neonati. Per esempio le donne gravide invocavano la Dea Numeria in quanto preposta al conto dei mesi del parto. Mentre la matematica per gli ingegneri e i condottieri o gli studiosi in genere erano pertinenza di Minerva, Numeria aveva un compito molto ristretto e molto preciso: doveva contare i mesi della gravidanza per far nascere il bimbo esattamente al nono mese.  

Ciò aveva grande importanza, se la Dea contava contava bene anche la puerpera che sapeva per esempio che il terzo e il settimo mese erano quelli più pericolosi per avere un aborto per cui si riposavano di più. Sapevano pure che mentre un parto settimino non era così pericoloso come quello dell'ottavo mese, anche se oggi questa credenza è stata smentita.



DEA PARTULA

Sin dal momento del parto si invocava anche il nome di Partula, divinità la cui origine pare identificabile con quella della Parca Cloto, una delle tre Moire (o Parche), figlia, secondo una versione, della Notte o, secondo un'altra, di Zeus e di Temi o Mnemosine.

Era la più giovane delle tre e tradizionalmente associata alla nascita. Era la tessitrice, che filava la materia della vita estraendone il filo che man mano si allungava finchè non veniva troncato. Il suo nome viene dal greco Klothes, ovvero filatrice. Tutte le Dee Grandi Madri furono in origine filatrici tanto per la creazione dell'universo quanto per quella di una singola vita. Penelope, colei che faceva e disfaceva la tela era in effetti un'antica Dea creatrice che dava la vita e la morte.

IL PARTO NELL'ANTICA ROMA

DEA UTERINA

La Dea Uterina era assistente alla puerpera nel momento delle doglie, la levatrice ordinava alla schiava di accendere una candela in onore della Dea quando non fosse già stato fatto. I bambini erano molto importanti anche per la forte mortalità dell'infanzia e la paura crea gli Dei.

La partoriente invocava con brevi e usuali parole la divinità che l'aiutava a superare il dolore delle doglie. Queste non dovevano tardare e non dovevano essere precipitose e la preghiera breve a lei dedicata aiutava a regolarizzare il respiro e a far passare più velocemente le doglie.



DEA LUCINA

Al momento del parto vero e proprio però la partoriente e il suo contorno di donne schiave e levatrice invocavano la Dea Lucina per la nascita definitiva, cioè il momento in cui il bimbo “veniva alla luce” uscendo dal grembo materno. Veniva pertanto invocata affinchè ponesse il neonato nella giusta posizione per l'uscita tranquilla dal ventre materno.

Diverse Dee erano addette al parto tanto che esistevano sia Giunone Lucina che Venere Lucina. In realtà a queste divinità era semplicemente stata associata l'antica Dea italica Lucina, Dea della luce e delle nascite, quella che Robert Graves riconobbe argutamente come la Dea Bianca, o Leucotea, che dominò l'Europa e soprattutto il Mediterraneo.



DEA CANDELIFERA

La Dea Lucina era conosciuta anche come Candelifera, ma in realtà era più associata alle Dee del Nord Europa,  comunque le si accendeva una candela votiva per ingraziarsela.

La festa cristiana della candelora deriva appunto dalla festa pagana della Candelifera a cui si dedicavano processioni di candele per facilitare il ritorno della luce dopo l'inverno.



DIO VATICANO

Appena nato interveniva il Dio Vaticano o Vagitano, colui che si occupava di far emettere al neonato il primo vagito, così da permettere l’espansione dei polmoni e la respirazione.

 Vaticano o Vagitano, antico Vatgicanus era un Dio minore che aveva un santuario sul colle chiamato appunto Vaticano che da lui prese il nome. La funzione di questa divinità minore era appunto di assistere i neonati nel loro primo vagito. 

Sebbene la forma più attestata del nome sia "Vaticanus" e non "Vagitanus", diversi autori classici (fra cui Agostino d'Ippona e Aulo Gellio) menzionano questa divinità indicando l'origine del nome in vagitus ("vagito"). Tesi accolta anche da Sant'Agostino che, ne "La città di Dio", tratta questo argomento per dimostrare come le divinità pagane fossero semplicemente personalizzazioni di eventi naturali.

Il che è vero, tanto che oggi la suddetta funzione è stata assorbita dai santi del calendario cattolico, ognuno patrono e quindi preposto a proteggere i fedeli nella salute e negli eventi, esattamente come le divinità romane tanto biasimate.
Vedi anche:CULTO DI VATICANUS



DEA ALMA 

Alma, con evidente allusione all'anima, era colei che portava la vita. Si riteneva infatti che il neonato acquisisse vita nel momento in cui era stato partorito, o almeno acquisisse una vita più esterna e consapevole.



DEA NUNDINA

Ora gli Dei si susseguivano in un indaffarato  andamento di preoccupazioni e preghiere conseguenti.A questo punto subentrava la Dea Nundina che si occupava della purificazione dei nuovi nati, pertanto la levatrice veniva assistita dalla divinità nel suo lavacro del bambino e nel suo taglio del cordone ombelicale, per essere poi mostrato alla madre e successivamente al padre.



DEA LEVANA

Qui subentrava infatti una divinità molto importante, la Dea Levana, colei che era la fianco dei padri nel momento in cui riconoscevano il nuovo nato come appartenente alla famiglia. Si riteneva che la Dea cercasse di ispirare il novello padre affinchè provasse tenerezza verso la nuova creatura, soprattutto quando si trattava di una femmina, che secondo le leggi vigenti poteva anche venire esposta, cioè abbandonata alla fame e alle intemperie finchè morte non sopraggiungesse, procurando tra l'altro un dolore inestinguibile alla madre.



DEA CUNINA o CUBA

Se tutto era andato bene e se il padre era stato un buon padre si aveva il periodo della culla, periodo in cui si chiedeva l’assistenza della Dea Cunina o Cuba, Dea della tenerezza, protettrice dei lattanti, che veniva supplicata a lungo quando il pargolo era insonne e non faceva dormire, o quando aveva la febbre, o male al pancino.

Peraltro la Dea si occupava di tenere gli incubi lontani dal sonno del bambino a cui si cantavano diverse nenie in cui si invocava Cunina perchè rendesse tranquillo il bimbo e lo facesse dormire.



DEA EDULICA o EDUCA

Ma c'era ora un altro problema, quello del latte, che per far crescere bene in bimbo doveva essere sostanzioso, abbondante e duraturo. Per questo si invocava la Dea Edulica o Educa, spesso invocata perché alla madre non mancasse il latte. Quando il latte mancava si ricorreva alle balie ma le matrone romane erano molto fiere e orgogliose di allattare da sole il proprio bambino.



DEA RUMINA 

STATUA DI BAMBINO ROMANO
Rumina proteggeva le donne allattanti (rumis o ruma era parola arcaica per indicare la mammella d'un animale: cf. Plinio N.H. 15,77) e insegnava ai pargoli a succhiare il seno e si invocava quando questo era inappetente.

Il suo tempio era ai piedi del Colle palatino, adiacente al fico ruminale, un albero di fico in cui si credeva che la fatidica lupa avesse allattato i fondatori di Roma: Romolo e Remo.

In onore della Dea si offriva principalmente latte ovino o bovino, e qualcuno ha pensato che il nome Roma derivasse dal suo nome, visto che anticamente doveva essere stata una Grande Madre, ma non si ha prova di ciò.



DIO OSSILAO

Una volta allattato  però il compito dell'assistenza al piccolo non era finito, il bambino ora era cresciuto e cominciava a camminare, per cui ora ci si doveva occupare che le sue ossa crescessero sane e robuste.

A questo era preposto il Dio Ossilao, importante soprattutto per il figlio maschio che solo se aveva ossa ben formate e muscoli potenti poteva aspirare a diventare un buon soldato, la principale aspirazione di un romano.
  


DEA EDUSA

Ora che il bimbo era svezzato si doveva dargli da bere e da mangiare. Talvolta il passaggio dal latte dolce all'acqua non era facile per il piccolo che sperava di avere una bevanda altrettanto dolce quanto il latte, per cui per farlo bere si chiedeva aiuto alla Dea Edusa che provvedeva a fargli provare il desiderio della semplice acqua. 



DEA POTINA 

Ma non era finita, perchè se ora il bimbo si era abituato all'acqua, si doveva stare attenti a che il bimbo non si strozzasse bevendo; ma per questo c'era la Dea Potina, sempre al fianco di Edusa, che si occupavano di accompagnare il bimbo nello svezzamento. 



DIO FABULINUS 

A questo punto subentrava un'altra divinità, che si poneva sempre vicino alla bocca del bambino quando questi iniziava a fare i primi versi intellegibili, dalla lallazione, ossia dal balbettio di sillabe ripetute dal neonato senza formulare parole complete e sensate, al linguaggio parlato vero e proprio guidandolo nell’apprendimento della parola.

Fabulinus era addetto pertanto al linguaggio e all'affabulazione, cioè anche alla capacità di parlare piacevolmente attirando l'attenzione e il consenso degli altri, aprendo così il percorso all'oratoria dell'adulto. Non a caso una persona che ha capacità affabulatorie si dice affabile. Anche il termine favole viene dal nome del Dio, perchè le favole insegnano ai bambini a parlare e a fantasticare.



DIO STATULINO 

Ora però che il bambino che era passato dal gattonare alla posizione in piedi e cominciava a camminare aveva bisogno di una divinità specializzata in questo e il nuovo assistente era Statulino, che gli accanto nel muovere i primi passi perché non cadesse donandogli la stabilità che era la prerogativa del Dio. Dargli stabilità lo aiutava a non farlo cadere e soprattutto a non farsi mali.



DEA PAVENZIA 

Ma il bambino era una creatura fragile e molte cose potevano spaventarlo, e specie se maschio doveva crescere forte e coraggioso per diventare poi un buon soldato, così qui era preposta la Dea Pavenzia che si occupava di proteggerlo dagli spaventi improvvisi. 



DEA CARDA 

Ma sia il bambino che la bambina avevano bisogno di una crescita sana e robusta, per diventare un soldato per il maschio e per procreare figli sani per la femmina, così la Dea Crda, o Cardea, ne assisteva lo sviluppo fisico affinchè fosse sano e armonioso.

IUVENTAS

.:: GLI DEI DELL'ADOLESCENZA ::.


DEA STIMULA e SENTIA 

Ora che il bimbo era cresciuto aveva bisogno di sviluppare anche le sue facoltà intellettive, così le Dee Stimula e Sentia ne affinavano i sensi ed i ragionamenti, curandone l’intelligenza ed il raziocinio, lo rendevano consapevole e gli insegnavano da un lato l’indipendenza e dall'altro l'onere dei suoi doveri. Il passaggio vero e proprio dall’infanzia all’adolescenza avveniva sotto l’egida di queste due Dee. 



DEA IUVENTAS 

Era la Dea della gioventù e aveva a Roma un suo tempio e un suo culto. Importante soprattutto per i maschi, che qui, al primo apparire dei peli sul volto si rasavano e  consegnavano a questo tempio la prima barba. Per lungo tempo la rasatura venne considerata non solo l'introduzione all'età adulta del ragazzo ma il suo distinguersi dai barbari che non si curavano e non si rasavano, mentre il romano era sempre preciso e ordinato, nell'addestramento militare e nella vita in genere.
Vedi anche: CULTO DI IUVENTAS



DIO BARBATUS

La barba doveva essere tagliata all'uso romano e così i capelli, ma si pregava affinchè la barba crescesse perchè era simbolo di mascolinità, pertanto anche il tagliarla era segno di virilità e si invocava il Dio Barbatus non solo perchè facesse crescere copiosa la barba, ma anche per non tagliarsi quando ci si liberava di essa con una lama piuttosto affilata.
Vedi anche: CULTO DI BARBATUS



DEA DRIA

Se per i maschi si diventava adulti con la barba, per le femmine si era adulte con l'arrivo del menarca, per cui si invocava la Dea Dria, che assicurava un buon flusso esente da dolori. Avere le mestruazioni significava poter un giorno diventare madri e dare figli all'Impero. 



DEA LIBERTINA o LIBERA

Era invece la Dea al cui tempio le ragazze offrivano i propri giocattoli quando erano imminenti alle nozze. Il tempo dei giochi era finito, ora subentravano le responsabilità della casa e dei figli. Non più gioco ma lavoro. L'infanzia era finita per sempre.



BIBLIO 

- Attilio De Marchi - "Il culto privato di Roma Antica, I" - Milano - 1896 -
- George Dumezil - La religione romana arcaica (La religion romaine archaïque, avec un'appendice sur la religion des Étrusques - Parigi - Payot - 1964) - Milano - Rizzoli - 1977 -
- Philippe Borgeaud - Avec Doralice Fabiano - Perception et construction du divin dans l'Antiquité - Genève - Droz - 2013 -
- J. Eckhel - Doctrina numorum veterum - IV - Vienna - 1794 -
- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -

MUTINA (Città scomparse)

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Gli Etruschi colonizzarono la Pianura Padana nel VI secolo a.c., e la tennero per tre secoli fino all'arrivo dei feroci Galli Boi, la cui dominazione terminò a sua volta verso il 200 a.c., quando dovette cedere il dominio ai Romani, diventando un'importante colonia romana cinta da mura.

Mutina fu dunque un centro fortificato precedente alla fondazione come colonia romana nel 183 a.c., dato che al suo interno trovarono rifugio nel 217 a.c. i triumviri che stavano procedendo all'assegnazione delle terre a Piacenza di fronte alla rivolta dei Galli Boi. La città costituiva un nodo strategico della viabilità dell’Italia settentrionale, molto importante sia per i militari romani che per i commerci interessati alle terre del nord.

Mutina oggi è una città sepolta, ancora ricoperta da spessi strati accumulatisi tra la tarda antichità e l’inizio dell’alto medioevo. Le fonti letterarie e i pochi rinvenimenti archeologici presentano l’immagine di un centro ricco e fiorente, collocato lungo la Via Emilia, che univa Ariminum (Rimini) a Placentia (Piacenza), via voluta nel 187 a.c. dal console Marco Emilio Lepido, probabilmente ricalcando un più antico tracciato. 


Nel 78 a.c. la città assistè alla sconfitta dei rivoltosi anti-sillani guidati da Marco Emilio Lepido (console 78 a.c.) ad opera di Quinto Lutazio Catulo (console 78 a.c.), con tutte le stragi che ne seguirono. Dopo la morte di Gaio Giulio Cesare, lungo la via Emilia avviene lo scontro tra Marco Antonio, luogotenente di Cesare, e i consoli della Repubblica. Alla fine vincerà il giovane Ottaviano, nipote di Cesare, che col nome di Augusto diventerà il primo Imperatore di Roma.

Nelle Filippiche (44 a.c.) Cicerone elogia Mutina come "Firmissimam et splendidissimam populi Romani coloniam", cioè fedelissima e floridissima colonia romana. Al suo apice, nel I - II secolo d.c., Mutina aveva un'estensione di circa 700.000 m² ed una popolazione fra i 15.000 e 20.000 abitanti (all'incirca come Pompei).

Ma nel 387 d.c., durante una guerra civile, Sant'Ambrogio, attraversando la via Emilia, parla di Modena, Bologna e Reggio come di "cadaveri di città semidistrutte". In effetti le popolazioni barbariche che oltre due secoli percorsero la penisola saccheggiandola e a Mutina non spettò un destino diverso.

IL FORO (By mutinaromana.it)

I FIUMI

Sia Plinio che Frontino negli scritti sulla guerra di Modena (ovvero Mutina) informano che fuori città scorreva un fiume chiamato Saniturnus, forse un antico ramo dell’attuale torrente Tiepido, che in età romana doveva scorrere presso il limite orientale della città, come testimoniano i depositi di un antico alveo fluviale rinvenuti all’angolo tra le attuali vie Menotti e Bellini.

Ma altri corsi d’acqua lambivano o attraversavano la città, tra cui il canale che scorreva al confine occidentale di Mutina, forse un antico corso dell’attuale torrente Cerca, poi deviato più ad ovest in età imperiale per guadagnare nuovi spazi necessari all'espansione edilizia. 

LE MURA (By mutinaromana.it)

LE STRADE

Da Mutina, oltre alla Via Emilia, passavano o avevano inizio altri importanti assi stradali. Un primo possibile percorso aveva forse origine dal limite orientale del perimetro urbano, probabilmente in corrispondenza dell’incrocio con la Via Aemilia. 

Da qui procedendo in direzione Sud Est si raggiungeva la valle del Panaro e, attraversato l’Appennino, l’Italia centrale. Di questa via non abbiamo testimonianze archeologiche, ma rinvenimenti funerari attestati in prossimità di Viale Moreali (rinvenimenti 324, 326) potrebbero indicare la direttrice dell’asse viario.

C'era poi la via via Mutina – Colicaria – Hostilia, detta la Via Verona, che si dirigeva verso Nord come riferisce l’Itinerarium Antonini, (un documento del III secolo d.c., costituito da una lista delle grandi vie dell’impero romano, con 372 strade, i nomi delle stazioni o tappe e le relative distanze in miglia) che in parte coincideva con il cardine massimo della città e che era di importanza vitale per le comunicazioni fra l’area padana ed il Norico.

Un’altra strada, anch'essa diretta a Nord, forse in direzione di Mantova, si staccava dalla via Emilia poco oltre il limite occidentale delle mura romane. Già rinvenuta nel 1635 durante i lavori di costruzione della Cittadella, ne è stata recentemente recuperato un tratto di oltre 100 metri durante gli scavi del parco Novi Sad (rinvenimento 290). Ulteriori tracce di questo percorso sono state trovate nell’adiacente periferia, nell’alveo del fiume Secchia presso S. Cataldo.

LE TERME (By mutinaromana.it)


BIBLIO

- Gabriele Sorrentino - Mutina. L'alba dell'Impero - 2017 -
- Gabriele Sorrentino - Mutina. Geminiano e il crepuscolo degli dei - Ed. Artestampa - 2018 -
- Gride ducali, provisioni, gratie, et ragioni della città di Modona - Modena - Paolo Gadaldini - 1575 -
- Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso modenese - libro Settis S. (cur.) Pasquinucci M. (cur.) - edizioni Franco Cosimo Panini - collana Archeologia -1983 -

PRIMA GUERRA FIDENATE ( 748-746 a.c.)

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BATTAGLIA DI FIDENE


PRIMA GUERRA TRA ROMA E FIDENE

Fidene (Fidenae)  era un'antica città del Latium Vetus collocata da Plinio il Vecchio tra i “ populi albenses ”, popoli confederati appartenenti all’area albana, che usavano riunirsi per i loro riti pagani sul Monte Albano, attuale Monte Cavo vicino Tivoli, dove sorgeva il Tempio di Giove Laziale, poi trasferito da Romolo in Campidoglio.

Roma e Fidene si fecero guerra per ben 400 anni, vale a dire sotto Romolo, sotto Numa Pompilio, Tullio Ostilio e sotto i Tarquini. Sia Livio che Dionisio riportano una guerra contro Tullo Ostilio mossa da Alba, conclusasi con la sconfitta di Veienti e Fidenati nella piana presso Fidene.

Invece Dionisio, durante i regni di Anco Marcio, Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo, riporta battaglie in cui Fidenae è coinvolta nelle lotte tra Etruschi, Latini e Romani. Narra inoltre che durante la Repubblica le cose non cambiarono e numerose furono le ribellioni dei fieri fidenati contro Roma, talvolta alleati con i Sabini, oppure con i Latini o con gli Etruschi di Veio.

I Romani erano un popolo di pastori, ma anche di ribelli, di briganti, di esiliati e di fuggiaschi che accolsero a braccia aperte da ogni dove, potenziando il loro esercito, tanto da essere secondo Livio "così potenti da poter rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni".

Poichè caddero molte delle vicine città di Roma, come quelle dei Ceninensi, degli Antemnati, dei Crustumini e dei Sabini, i Fidenati, ritenendo Roma ormai troppo vicina e pericolosa decisero di attaccarla, prima che fosse lei ad attaccarli.

All'epoca o si attaccava o si era attaccati, era l'usanza tribale, dove la tribù più forte si espandeva a danno delle altre. I Romani però erano lungimiranti e intuirono che non si potevano avere troppi nemici, perchè prima o poi li avrebbero sopraffatti. 

Pertanto accolsero a Roma più gente possibile, e per accoglierli dovettero considerarli alla pari, solo così avrebbero accettato di combattere al loro fianco, e combattere era inevitabile per sopravvivere.

La battaglia di Fidene si svolse negli anni di regno del primo re di Roma, Romolo, quando Tito Tazio era già morto e il trono era interamente nelle mani del I re di Roma, tra l'esercito romano guidato appunto dal suo re ed i Fidenati, e naturalmente fu vinta dai Romani.

Plutarco racconta due versioni di questa guerra: 



I VERSIONE

Roma riuscì a catturare Fidene, facendola assalire a sorpresa da un gruppo di cavalieri, a cui aveva dato ordine di tagliare i cardini delle porte di accesso della città, seguiti poi dall'esercito di Romolo (771 - 716). Su questa versione abbiamo seri dubbi, tagliare dei cardini massicci come quelli di una porta di accesso alla città è un'operazione che comporta sopportare per lungo tempo i colpi che vengono sa sopra le mure, come frecce, pietre, acqua bollente e non si capisce l'uso dei cavalli perchè non è un'operazione "tocca e fuggi".



II VERSIONE

FIDENATI
La seconda versione narra invece che furono i Fidenati a scatenare il conflitto contro i Romani, armando squadroni di cavalieri e spedendoli a devastare le campagne tra Fidene e Roma saccheggiando e uccidendo. Questa versione sembra invece molto credibile. Allora Romolo, postosi a capo dell'esercito, si diresse verso nord seguendo il Tevere fino al un miglio dalla città nemica.

Lasciò una piccola guarnigione di cavalieri sotto le mura di Fidene, per attirare i Fidenati fuori delle loro mura, mentre Romolo mosse con il grosso dell'esercito verso un bosco vicino. Secondo il piano la cavalleria al momento opportuno doveva ripiegare attirando il nemico nella trappola tesa dai romani.

Una volta aperte le porte della città, i Fidenati si lanciarono sulle prime linee nemiche che si diedero alla fuga fino a raggiungere la boscaglia, dove era nascosto il grosso dell'esercito romano. Qui vennero decimati e risospinti fino alla città che ormai senza difese venne occupata.



III VERSIONE

Ma Tito Livio (ab Urbe Condita) dà ancora una versione:

"Gli abitanti di Fidene, ritenendo troppo vicina a loro una potenza in continua crescita, senza aspettare che diventasse forte come c'era da prevedere, si affrettano a scatenare il conflitto. Armano squadroni di giovani e li spediscono a devastare le campagne tra Roma e Fidene; di lì piegano verso sinistra (a destra niente da fare, c'è il Tevere che blocca la strada) e compiono atti di vandalismo terrorizzando i contadini; l'improvviso trambusto creatosi nelle campagne arrivò fino in città e fu come una prima avvisaglia della guerra. Romolo, visto che non c'era un minuto da perdere con una guerra così vicina, esce immediatamente alla testa dell'esercito e si accampa a un miglio da Fidene.

Dopo avervi lasciato una modesta guarnigione, si mette in moto col grosso delle truppe. Una parte di queste ordina che si piazzino, pronta a lanciare un'imboscata, in una zona tutto intorno riparata da fitti cespugli; poi, con il blocco più consistente dell'esercito e con tutta la cavalleria, si mette in marcia e, proprio come si era prefissato, riesce ad attirare fuori il nemico adottando un tipo di tattica spericolata e minacciosa, con i cavalieri che scorrazzano fin quasi sotto le porte
."

In effetti, per la simulazione della fuga, questo assalto a cavallo fornisce un pretesto più verosimile. Così, quando non solo la cavalleria sembrava incerta tra il combattere e il fuggire, ma anche la fanteria si ritirava, all'improvviso si spalancarono le porte e le linee romane furono travolte dallo straripare dei nemici che, nella foga di darsi all'inseguimento, furono trascinati nel punto dell'imboscata. 

Lì i Romani saltarono fuori a sorpresa e attaccarono sul fianco la schiera dei nemici che vennero invasi da stupore e paura, mentre dall'accampamento si videro avanzare gli stendardi del presidio lasciato di guarnigione. 

Così i Fidenati, in preda al panico, si dettero alla fuga quasi prima che Romolo e i suoi riuscissero a girare i loro cavalli; e visto che si trattava di una fuga vera, riguadagnarono la città in modo più disordinato dei falsi fuggitivi romani. I Fidenati, incalzati dai Romani, entrarono a Fidenae, ma prima che le porte della città venissero richiuse, irruppero all'interno anche i Romani, fondendosi tra assaliti e assalitori.

Secondo le fonti la lotta tra Fidene e Roma si intrecciò più volte con quella dei Romani contro la città etrusca di Veio, perchè, come afferma Livio, i Fidenati  "quoque Etrusci fuerunt", si sentivano un po' Etruschi. La città risulta comunque già conquistata e colonizzata da Roma sotto Romolo a seguito della Battaglia di Fidene del 748-746.

RICOSTRUZIONE DELLA CAPANNA FIDENATE


PLUTARCO

A questo proposito Plutarco racconta che i Veienti divisero il loro esercito in due schiere, una assalì l'esercito romano lasciato a guardia di Fidene e nell'altra si battè Romolo. A Fidene i Veienti vinsero uccidendo 2.000 Romani, ma nel secondo scontro persero la vita ben 8.000 Veienti e vinse Romolo. Lo scontro decisivo fu ancora a Fidene, dove Romolo dimostrò tutta la sua bravura di condottiero e vinse la battaglia.

"La guerra scatenata dai Fidenati fu come una febbre contagiosa che colpì gli animi dei Veienti (i quali, oltretutto, vantavano anche legami etnici, visto che condividevano coi Fidenati l'origine etrusca). E in più c'era il pericolo dei confini, nel caso in cui la potenza romana si fosse rivolta ostilmente contro tutte le popolazioni limitrofe. Così si riversarono in territorio romano senza però seguire i piani di una regolare campagna militare ma piuttosto per saccheggiare i dintorni alla rinfusa. Non si accamparono né attesero l'arrivo dell'esercito nemico, ma tornarono a Veio portandosi via ciò che avevano razziato nelle campagne. 

I Romani, da parte loro, non avendo trovato il nemico nei campi, attraversarono il Tevere pronti e determinati a sferrare un attacco decisivo. Quando i Veienti vennero a sapere che i nemici si erano accampati e stavano per marciare contro la loro città, andarono loro incontro per decidere la battaglia in campo aperto piuttosto che dover combattere ostacolati dalle case e dalle mura. 

Nello scontro, senza far ricorso a particolari stratagemmi di supporto alle sue truppe, il re romano ebbe la meglio solo grazie alla fermezza dei suoi veterani: sbaragliò i nemici e li inseguì fino alle mura, ma dovette desistere dall'attaccare la città in quanto risultava ben protetta dalle fortificazioni e dalla sua stessa posizione. 

Sulla via del ritorno saccheggia le campagne, più per desiderio di vendetta che per fare razzia. E i Veienti, piegati da questo disastroso strascico non meno che dalla sconfitta in battaglia, inviano a Roma dei delegati per chiedere la pace. Ottennero una tregua di cent'anni in cambio della cessione di parte del loro territorio. Grosso modo furono questi i principali avvenimenti politici e militari durante il regno di Romolo. 

Nessuno di essi impedisce però di prestar fede alla sua origine divina e alla divinizzazione attribuitagli dopo la morte, né al coraggio dimostrato nel riconquistare il regno degli avi, né alla saggezza cui fece ricorso per fondare Roma e renderla forte grazie alle guerre e alla sua politica interna. Fu proprio in virtù di quanto egli le aveva fornito che Roma di lì in poi conobbe quarant'anni di stabilità nella pace. Tuttavia fu più amato dal popolo che dal senato e idolatrato dai suoi soldati come da nessun altro. Tenne per sé, e non solo in tempo di guerra, una scorta di trecento armati cui diede il nome di Celeri."

Al termine della terza ed ultima battaglia c'erano sul campo di battaglia ben 14.000 i caduti. Romolo dopo la vittoria, inseguì i Veienti fin sotto le mura della città, conquistando loro i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e quelli delle Saline, in cambio di una tregua della durata di cento anni. Il territorio fidenate fu in parte alienato in favore di coloni Romani insediati, secondo Dionisio e Plutarco, per volontà dello stesso Romolo.


BIBLIO

- Fasti trionfali - anno 752/751 a.c. il trionfo di Romolo sul popolo dei Ceninensi (Caeniensi).
- Fasti trionfali - anno 752/751 a.c. il trionfo di Romolo sugli abitanti di Antemnae (Antemnates).
- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - VII-VIII -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita - I -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - I -
- Plutarco - Vita di Romolo - XXIII -
- Andrea Carandini - Roma. Il primo giorno - Roma-Bari - 2007 -
- Theodor Mommsen - Storia di Roma antica - Sansoni - Milano - 2001 -

COLONNA DI POMPEO (Egitto e Turchia)

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COLONNA DI POMPEO IN EGITTO

COLONNA DI POMPEO IN EGITTO

Le più grandi colonne monolitiche vennero utilizzate dai costruttori romani che le preferivano ai tamburi impilati tipici dell'architettura greca classica. Le colonne monolitiche furono caratteristiche di templi dell'antico Egitto, ma pure dei templi dorici in Grecia.

La logistica e tecnologie coinvolte nel trasporto e montaggio di extra-grandi colonne formate da un pezzo unico richiedevano grandi mezzi e grande esperienza. In effetti se le colonne greche e doriche erano a rocchi, le più antiche venivano montate intere, come si può vedere nei siti più antichi, anche a Catania.

Di regola il peso dei fusti di colonna lunghi tra i 40 e i 60 piedi romani (da 11.8 a 17.8 m ) veniva raddoppiato con ogni dieci piedi dalle 50 tonnellate, alle oltre 100 e alle 200. Nonostante questo, alti quaranta e anche cinquanta piedi, i fusti monolitici possono essere trovati in un certo numero di edifici romani, ma potevano raggiungere i sessanta piedi, come dimostrano due incompiuti di colonne di granito che si trovano ancora nella cava romana di Mons Claudianus, in Egitto.

COLONNA DI POMPEO IN EGITTO

Uno dei due incompiuti, che è stato scoperto solo nel 1930, ha un peso stimato di 207 t. Tutte queste dimensioni, tuttavia, vengono superate dalla Colonna di Pompeo, una colonna celebrativa di una vittoria eretta in Alexandria, in Egitto, scolpita in marmo di Assuan, nel 297 d.c.

Essa misura 20,46 m di altezza con un diametro di 2,71 m alla base, il peso del suo fusto di granito è stato calcolato di 285 t., ed è la più grande colonna di trionfo romano costruita al di fuori delle due capitali imperiali di Roma e di Costantinopoli, e si trova presso il Serapeo di Alessandria.

Pur venendo chiamata colonna di Pompeo, la colonna, di stile corinzio è stata effettivamente costruita nel 297 d.c., per commemorare la vittoria dell'imperatore romano Diocleziano (244-311) contro una rivolta alessandrina.

In realtà la colonna onoraria venne eretta in onore dell'imperatore Diocleziano, per la rivolta di Domizio Domiziano contro Roma nel giugno/luglio del 297. Nel marzo di quell'anno era stata promulgata una nuova legge sulle tasse e forse la rivolta ne era la reazione.

Secondo altri invece la colonna riguarda la sconfitta del cesare Galerio nella battaglia di Callinicum del 296 e quindi la debolezza del potere imperiale in Egitto. All'inizio si sollevò la Tebaide, con centro la città di Coptos, poi si ribellò il Basso Egitto, inclusa Alessandria d'Egitto.

RESTI DEL TEMPIO DORICO DI TARANTO CON COLONNE MONOLITICHE

Secondo altri ancora si tratterebbe della rivolta di Aurelio Achilleo. Sebbene il capo della rivolta e auto-proclamato imperatore fu Lucio Domizio Domiziano, pare che si trattasse di un fantoccio, mentre il potere effettivo fosse nelle mani di Aurelio Achilleo, il quale concentrò nelle proprie mani il potere politico e quello militare assumendo la carica di Corrector dell'Egitto.

Oppure è possibile che Achilleo, responsabile della difesa di Alessandria, tenesse la città dopo la morte di Domiziano. Diocleziano comunque andò personalmente in Egitto per sedare la rivolta, assediò la città per otto mesi per strapparla all'usurpatore Lucio Domizio Domiziano e ad Aurelio Achilleo, e da lì dirottò un carico di grano per Roma allo scopo di sfamare la popolazione colpita dall'assedio. 

Riprese dunque il controllo della Tebaide e qui le date si discostano dal 297 al 298. Perchè Domiziano morì nel dicembre 297, ma la città resistette ancora, cadendo solo nel marzo del 298. 
Comunque la colonna di Pompeo non veniva chiamata così al tempo dei romani ma ricevette questo nome dai Crociati, che la ritenevano costruita sul luogo dove era stato sepolto il generale romano Gneo Pompeo Magno.



COLONNA DI POMPEO A ISTAMBUL

Si tratta della colonna romana più antica di Istanbul ed é situata all’ingresso del Bosforo. Viene chiamata Colonna di Pompeo questa volta giustamente, perché venne eretta per celebrare la vittoria di Gneo Pompeo Magno contro Mitridate re del Ponto nel 63 a.c..

CIO' CHE RESTA DELLA COLONNA DI ISTAMBUL
La Pompei Sütunu, così viene chiamata in turco, é stata eretta in un luogo abbastanza inusuale ma con scopo preciso, e cioè per evitare che i marinai venissero ingannati da un “falso” ingresso del Bosforo. Infatti le navi che provenivano dal Mar Nero se non notavano o conoscevano quello che poi era un segnale, entravano in questa insenatura e si schiantavano, inevitabilmente, contro gli scogli.

Si pensa che la colonna probabilmente sorgesse in un luogo dove era presente un tempio antico.

Essa presenta una iscrizione in romano:
CAESARI AVGVSTO
F (E) C (I) T ANNIDIVS
LF CLA (VDIA) FRONTO. 
“Lucio Annidio Fronto, figlio di Lucio del clan Claudia, eretto per Cesare Augusto”.

Questa iscrizione conferma che la colonna risale alla fine della repubblica e probabilmente, vista la sconfitta di Pompeo contro Cesare, si é voluto “cambiare” il destinatario dell’opera ormai sconfitto.


BIBLIO

- Ralph-Johannes Lilie - Bisanzio la seconda Roma - Roma - Newton e Compton - 2005 -
- Alexander A. Vasiliev - History of the Byzantine Empire - Vol. I - The University of Wisconsin Press - 1980 -
- Giorgio Ravegnani - La storia di Bisanzio - Roma - Jouvence - 2004 -
- Alain Ducellier, Michel Kapla - Bisanzio (IV-XV secolo) - Milano - San Paolo - 2005 -

GLANUM (Francia)

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Glanum era una città della Gallia Narbonese, posta sulla via che va dalla Spagna all'Italia attraverso il Monginevro, ricordata dai geografi antichi (Ptolom., vi, 20), è annoverata da Plinio (Nat. hist., iii, 36) fra quelle che godevano del privilegio latino.
L'antica Glanum era una ricca città che gode ancora oggi di un magnifico scenario, posta come è sotto una gola sui fianchi delle Alpilles (colline provenzali). Si trova a circa un Km a sud della città di Saint-Rémy-de-Provence e originariamente fu un oppidum celto-ligure, che si espanse sotto l'influenza greca prima di diventare una città romana. Glanum, ovvero le sue rovine, ritrovate nel 1921, si trovano all'entrata di una suggestiva e stretta gola della catena delle Alpilles.

Poiché dopo l'epoca romana non fu mai riedificata sui suoi insediamenti, ma fu in parte sepolta da depositi alluvionali provenienti dalle colline soprastanti, gran parte della cittadina si è conservata fino ai nostri giorni. Molti degli imponenti edifici sono stati scavati e possono essere visitati a tutt'oggi.

È nota soprattutto per due monumenti romani ben conservati del I secolo a.c., conosciuti come "les Antiques", e cioè un mausoleo e un arco di trionfo.



L'OPPIDUM CELTICO- LIGURE

Tra il IV e il II secolo a.c., i Salyens, la più grande delle tribù celto-liguri della Provenza, costruirono una fortezza di pietra sulle colline che circondavano la valle di Notre-Dame-de-Laval, intorno alla preziosa sorgente della valle, che era conosciuta per i suoi poteri curativi. Intorno alla sorgente venne infatti edificato un santuario dedicato al Dio celtico Glanis. La città crebbe e nel II secolo a.c. fu costruita una seconda cinta muraria. che salvaguardava i nuovi edifici.

La città era praticamente celtica, come dimostrano i nomi degli abitanti incisi nelle epigrafi, come Vrittakos, Eporix e Litumaros, e pure dai nomi degli Dei locali Glanis e le Glanicae, Dee simili alle Matres Romane, nonchè dai nomi delle Dee Rosmerta ed Epona. Ma si evince pure dalle statue e ceramiche, e dagli utensili da cucina reperiti, poichè i Salyens bollivano il cibo nelle pentole, piuttosto che friggerlo nelle padelle come le altre tribù, e dall'uso cruento di mostrare le teste mozzate dei nemici alle porte della città.

Gli abitanti di Glanum, entrati in contatto con la colonia greca di Massalia (Marsiglia) fondata nel 600 a.c. mutarono l'architettura e l'arte, e pure le ville furono costruite in stile ellenico. Ma nel II secolo a.c. i Salyens entrarono in guerra con i Greci di Marsiglia, che, non avendo un esercito potente, invocarono l'assistenza dei loro alleati romani.

Così nel 125 a.c. i Salyens furono sconfitti dall'esercito del console romano Marco Fulvio Flacco, e l'anno successivo di nuovo dal generale romano C. Sesto Calvino con il suo esercito. Molti dei vecchi monumenti di Glanum vennero distrutti per rappresaglia dai vincitori.
Grazie alla sua posizione commercialmente utile sulla Via Domizia e all'attrazione della sua sorgente curativa, la città fiorì di nuovo e produsse le proprie monete d'argento e costruì i nuovi monumenti. La prosperità durò fino al 90 a.c. quando i Salyen si ribellarono di nuovo contro Roma. 
I romani intervennero, come al solito li vinsero e gli edifici pubblici di Glanum furono nuovamente distrutti. Questa ribellione fu schiacciata questa volta dal console Cecilio, e i resti degli edifici principali furono demoliti e sostituiti da strutture più modeste.



LA CITTA' ROMANA

- Nel 49 a.c. Giulio Cesare, nelle sue battaglie galliche, catturò Marsiglia e, dopo un periodo di guerre civili distruttive, iniziò la romanizzazione di Provenza e Glanum. Una strada lastricata di blocchi di pietra correva da nord a sud attraverso il centro di Glanum.

Tra l'altro fece edificare sotto la strada uno scarico che portava via l'acqua piovana e le acque reflue, mentre nella montagna fece costruire uno sbarramento le cui acque, condotte verso la città da un acquedotto, erano distribuite nelle case per mezzo di una rete di canali di piombo.

- Poi nel  27 a.c. fu la volta dell'imperatore Augusto che creò la provincia romana della Gallia Narbonensis, dove Glanum ricevette il titolo di Oppidum Latinum, che conferì ai residenti lo status civile e politico dei cittadini di Roma. Un arco trionfale fu costruito fuori dalla città intorno al 10 a.c., vicino alla fine del regno di Augusto (il primo arco di questo tipo costruito in Gallia). Venne edificato anche un imponente mausoleo della famiglia Julii. Entrambi i monumenti sono conservati a tutt'oggi.

MAUSOLEO DELLA GENS IULIA (40 A.C.)
- Nel I secolo d.c. la città costruì un nuovo foro, templi e una diga ad arco in pietra curvata, la più antica diga conosciuta nel suo genere, e un acquedotto, che forniva acqua per le fontane e le terme della città.

Glanum non fu prospero come le colonie romane di Arles, Avignone e Cavaillon, ma nel II secolo d.c. fu abbastanza ricco da costruire notevoli santuari per gli imperatori, ampliare il foro e avere grandi terme e altri edifici pubblici rivestiti in marmo.



LA FINE

La bella città fu invasa e distrutta dagli Alamanni nel 260 d.c. e successivamente venne abbandonata, i suoi abitanti si spostarono a breve distanza a nord nella pianura per fondare una città che divenne l'odierna Saint-Rémy-de-Provence mentre Glanum divenne una fonte di pietra e altri materiali da costruzione per la nuova città, distruggendo dei capolavori che mai più sarebbero stati riedificati.

Il magnifico sistema romano di scarichi e fognature non venne mantenuto, per cui le rovine vennero allagate e coperte di fango e sedimenti. Invece il mausoleo e l'arco di trionfo, i cosiddetti "Les Antiques", divennero invece famosi e furono visitati dal re Carlo IX che fece ripulire e mantenere i monumenti e i loro dintorni. Alcuni scavi furono effettuati intorno ai monumenti già nel XVI e XVII secolo, trovando sculture e monete e dal Marchese de Lagoy a Vallons-de-Notre-Dame nel XIX secolo.


GLI SCAVI

I primi scavi sistematici iniziarono nel 1921, diretti dall'architetto di monumenti storici, Jules Foremigé. Invece dal 1921 al 1941, subentrò l'archeologo Pierre LeBrun, che scoprì le terme, la basilica e le residenze della parte settentrionale della città. Dal 1928 al 1933, Henri Roland (1887-1970) lavorò al santuario dell'Età del ferro, a sud, mentre dal 1942 al 1969, Roland scavò l'area dal foro al santuario. Gli oggetti che ha scoperto sono oggi in mostra all'Hotel de Sade nella vicina Saint-Remy. Nel 1982 iniziarono nuovi lavori di scavo ed esplorazione, dedicati principalmente alla conservazione del sito e all'esplorazione di siti già scoperti per opere più antiche.

MAUSOLEO DEGLI IULII


IL MAUSOLEO DEGLI IULII


Il Mausoleo degli Iulii, situato sulla Via Domizia, a nord e appena fuori dall'ingresso della città, risale al 40 a.c. circa, ed è uno dei mausolei meglio conservati dell'era romana. Sull'architrave del mausoleo posto di fronte alla vecchia strada romana, c'è una dedica scolpita:

SESSO · M · L · IVLIEI · C · F · PARENTIBVS · SVEIS
Sisto, Marco e Lucio Giulio, figli di Gaio, ai loro antenati

Si ritiene che il mausoleo fosse la tomba della madre e del padre dei tre fratelli Julii e che il padre, per servizio militare o civile, ricevette la cittadinanza romana e il privilegio di portare il nome di Julii, uno delle più illustri famiglie di Roma.

Il mausoleo è costruito in tre fasi. Lo stadio superiore, o tholos, è una cappella circolare con colonne corinzie. Contiene due statue togate, presumibilmente il padre e il nonno di Julii. (Le teste delle statue furono perse, ovvero vandalizzate e sostituite nel XVIII secolo). Il tetto conico è decorato a squame di pesce, tradizionali per i mausolei romani. Il fregio sotto il tetto conico è decorato con un arabesco con intagli di foglie d'acanto, usati nell'architettura mortuaria romana per rappresentare l'eterna rinascita.

La parte centrale, o quadrifronte, è un arco con quattro fornici. Gli archivoltes, o fasce curve di decorazione sulle cime degli archi, hanno anch'esse foglie di acanto. Nella parte superiore di ogni arco si trova la testa scolpita di una gorgone, il tradizionale protettore delle tombe romane.

Il fregio in cima ai fornici è decorato con intagli di tritoni, che trasportano il disco del sole e con mostri marini, mentre la parte più bassa del mausoleo è decorata con ghirlande di vegetazione scolpite, maschere teatrali e amorini o putti, e con scene mitiche o leggendarie.

- Faccia nord: una battaglia di cavalieri e una vittoria alata che porta un trofeo.
- Faccia est: un fante disarma un guerriero amazzonico, un guerriero prende trofei da un nemico morto e la figura della Fama narra la storia della battaglia a un uomo e una donna. La scena potrebbe essere ispirata all'Amazzonomachia, la mitica guerra tra Greci e Amazzoni.

- Faccia ovest - una scena dell'Iliade e della guerra di Troia, i Greci e i Troiani in lotta per contendersi il corpo di Patroclo.

- Faccia sud - I cavalieri cacciano il cinghiale in una foresta. Un cavaliere è ferito e muore tra le braccia di un compagno. Forse la leggenda della caccia al cinghiale calidoniano, condotta da Meleagro, con Castore e Polluce mostrati a cavallo.

    ARCO TRIONFALEARCO TRIONFALE


    L'ARCO TRIONFALE (10 - 25 a.c.)

    L'arco trionfale si trovava appena fuori la porta settentrionale della città, vicino al mausoleo, come simbolo visibile del potere e dell'autorità romana. Le sculture che decoravano l'arco rappresentavano sia la civiltà di Roma sia il terribile destino dei suoi nemici. Fu costruito verso la fine del regno di Augusto Cesare (morto nel 14 d.c.), e manca la parte superiore dell'arco, compresa l'iscrizione.

    Su ciascuna faccia, ad inquadrare un fornice unico, si distaccano due gruppi di prigionieri molto espressivi, di derivazione ellenistica; tre dei gruppi sono composti da un guerriero e da una donna, ambedue accostati a un trofeo d'armi; l'uomo presenta la semi-nudità gallica, mentre la prigioniera, vestita alla greca, è rappresentata in attitudine di profondo abbattimento.

    BOULEUTERION - PIAZZA DEI NOTABILI - II-I SEC. A.C.
    Sulla faccia S-O la si vede seduta sopra un mucchio di armi, e un prigioniero gallico con le mani legate dietro di lui, secondo il tema da tempo adottato sulle monete a rappresentare le province conquistate. 

    Sulla faccia N-O, al posto della donna è un personaggio togato che poggia la mano sulla spalla del guerriero Gallo; è il gesto del conquistatore che mostra il nemico vinto. Sul retro dell'arco si trovano sculture di altre due coppie di prigionieri gallici. 

    L'archivolto è decorato con un bel festone di frutta e foglie; la vòlta a botte ha cassettoni esagonali con ricca decorazione ad alto rilievo. La costruzione dell'arco, seppure dedicato ad Augusto, non sembra legata ad un evento militare particolare. 

    Della struttura originaria rimane solamente la parte inferiore: l'attico in muratura è andato completamente distrutto, mentre si è conservata la volta a cassettoni dell'unico fornice presente, quello centrale. Le colonne addossate alla struttura (ora mutilate) sorreggevano probabilmente una trabeazione, andata perduta. 

    Secondo alcuni esperti la parte superiore doveva essere abbastanza alta per equilibrarsi con la struttura sottostante, e presentava un frontone triangolare simile a quello dell'arco di Orange. Sicuramente alla sua sommità conservava la statua bronzea di Augusto che guidava, come era usanza in tali complessi celebrativi, un quadriga di cavalli, probabilmente con la Nike che gli sorreggeva la corona di alloro sopra la testa.


      I MONUMENTI DI GLANUM

      - Il Bouleuterion, risalente al II - I secolo a.c., era un luogo di incontro per notabili, costruito in stile ellenico, con uno spazio aperto e con un altare al centro circondato da file di sedili a gradini su tre lati. Ad una delle stremità aveva un portico con tre colonne. 

      La parte settentrionale del Bouleuterion fu cancellata in epoca romana dalla costruzione dei Templi Gemelli, ma lo spazio fu preservato e usato come Curia.
      - La fontana ellenica. Accanto alla strada si trova un piccolo bacino circolare in pietra del periodo di influenza greca, vale a dire del II-I secolo a.c., sicuramente una fontana, ed è una delle fontane più antiche scoperte in Francia.

      COLONNE CORINZIE DI DUE TEMPLI DEL I FORO ROMANO


      IL PRIMO FORO ROMANO

      Il primo Foro Romano di Glanum venne edificato intorno al 20 a.c., giusto all'epoca in cui Glanum ottenne il titolo di oppidum latinum.



      I TEMPLI GEMELLI

      Le caratteristiche principali del primo foro erano due templi corinzi, identici nello stile ma uno più grande dell'altro, chiusi su tre lati da un peribolo cioè da un recinto sacro che circondava il tempio tempio, nel quale si trovavano edicole, altari, statue, alberi, doni votivi che non potevano esser conservati all’interno del tempio, per ragioni di spazio.

      Tre colonne e una parte della facciata, nello stile dei primi anni del regno dell'Imperatore Augusto, sono state in parte restaurate e in parte riprodotte per dare un'idea della forma impressionante dell'edificio.



      LA BASILICA

      Il primo foro aveva sul lato settentrionale una modesta basilica a due navate, utilizzata come sala pubblica per le transazioni sia commerciali che legali. Solo l'angolo nord del portico est di questo edificio è giunto fino a noi.



      LA FONTANA MONUMENTALE

      Una fontana monumentale, risalente al 20 a.c. circa, era situata all'estremità meridionale del forum. Consisteva in una vasca rettangolare e un'abside semicircolare con colonne corinzie, che sicuramente ospitava una statua ora scomparsa. La fontana, di uso non sacro ma profano, era fornita di acqua da un acquedotto della vicina diga.



      IL SECONDO FORO ROMANO

      Il secondo foro romano, costruito tra il I e il III secolo d.c., era il mercato centrale, il luogo degli affari, il luogo di giustizia e il sito dei riti religiosi ufficiali. Un grande spazio aperto era racchiuso su due lati da portici colonnati.



      L'EDICOLA

      Sul lato meridionale c'era un'edicola semicircolare, ma non sappiamo a chi fosse dedicata poichè la statua o le statue che vi furono collocate vennero abbattute dai nuovi culti.



      LA BASILICA

      Nella parte nord del foro c'era invece c'era la basilica, la grande sala che era il palazzo di giustizia e sede del governo. La basilica misurava 47 per 24 metri, sostenuta da 24 grandi colonne.
      La facciata è scomparsa, ma esistono ancora la parete posteriore e le pareti laterali.



      LA CURIA

      Dietro la basilica c'era la curia, dove una statua dell'Imperatore era collocata in una nicchia nel muro. Al centro della curia c'era una stanza quadrata che fungeva da tribunale e da cappella del culto dell'Imperatore.

      MASCHERONE DELLE TERME  - I SEC. A.C.

      LE TERME

      La parte settentrionale di Glanum, nella parte inferiore del sito in pendenza, era il quartiere residenziale: il sito delle ville e dei vasti bagni pubblici. I bagni erano il centro della vita sociale e aiutavano a romanizzare la popolazione locale.

      Le terme romane furono costruite intorno al 75 a.c. Successivamente, durante il regno di Lucio Vero (161-169 d.c.) furono ricostruiti e l'edificio rivestito di marmo.

      Di dimensioni modeste, consistevano in:

      - una palestre, un'area di esercizio all'aperto circondata da una galleria di colonne;
      - una sala con bagni freddi;
      - due sale riscaldate da un ipocausto, attraverso il quale l'aria calda circolava sotto le stanze attraverso canali di mattoni. Uno era un locale ad aria calda o un laconicum, l'altro un caldarium o un bagno caldo, inclusa una piscina in muratura.
      - A sud, vicino alla palestre, c'era una grande piscina. L'acqua veniva immessa nella piscina attraverso la bocca di una maschera teatrale in pietra. L'originale è ora nel vicino museo di St. Remy ma una riproduzione è nella sua posizione originale.

      CASA DI ANTAE, IN STILE ELLENICO CON PERISTILIO TOSCANO


      LE DOMUS ELLENICHE


      Il quartiere contiene le rovine di numerose ville e residenze in stile greco, antecedenti alla città romana. Tra i bagni e il foro c'era una casa con un peristilio dorico, e un'altra, chiamata Casa del Capricorno, con due sezioni sopravvissute di pavimenti a mosaico, una sezione con un capricorno circondato da quattro delfini.



      IL MERCATO E IL TEMPIO DI CIBELE

      Vicino alle abitazioni più o meno lussuose c'era un mercato pre-romano, circondato da colonne doriche, con quattro piccoli negozi sul lato ovest. In epoca romana metà del mercato fu trasformato in un piccolo tempio per la Bona Dea, una Dea dell'oracolo, e successivamente per Cibele. In primavera le sacerdotesse di Cibele portavano un piccolo pino nel santuario, a simboleggiare il Dio Atys.

      Nel tempio c'era anche un altare dedicato alla sacerdotessa Loreia, con una scultura in pietra delle orecchie della Dea, simbolo della sua pietosa attitudine ad ascoltare e ad accogliere le preghiere ascoltare le preghiere.



      LA CASA DELLE ANTEE

      1) - La casa delle Antee fu costruita nello stile delle case greche del Mediterraneo. Una casa a due piani con tre ali e un portico di colonne toscane, costruito attorno a un piccolo bacino d'acqua, alimentato dall'acqua piovana dal tetto, che convogliava l'acqua in una cisterna, quindi negli scarichi che scorrevano sotto il marciapiede della strada. La Domus prende il nome da due ante scanalate che fiancheggiano la porta.

      2) - La casa di Atys, del II secolo a.c., fu chiamata così per l'amante castrato di Cibele, a causa di un rilievo marmoreo di Atys (Attis) trovato tra le rovine. Aveva un atrio con un bacino poco profondo, cioè un impluvio, al centro, e un pozzo con un gradino intorno e delle panchine di pietra, ed era riccamente costruito. Probabilmente era una schola, una sala di accoglienza per il collegio dei Dendrophores, associata al tempio vicino.


        LA VALLE DELLA FONTE SACRA

        La fonte sacra di Glanum si trova nella parte meridionale e più alta della città. La valle era chiusa da un muro di pietra che era stato edificato alla fine del II o all'inizio del I secolo a.c., onde determinare l'area sacra.

        Questo muro aveva un cancello abbastanza grande per lasciar passare dei carri, poi c'era una torre quadrata e un cancello più piccolo per i pedoni. A sinistra e a destra del cancello ci sono le vestigia delle mura più vecchie, risalenti tra il VI e il III secolo a.c., che formano un bastione alto ben 16 metri.



        IL PORTICO DORICO

        Appena dentro al cancello c'era un edificio con un portico di colonne doriche. Rimangono tracce della struttura originale che andò dal II al I secolo a.c. La struttura venne ricostruita intorno al 40 a.c. e parti delle colonne e del portico di questo periodo vennero restaurate. All'interno dell'edificio c'erano piccoli bacini alimentati da condotte d'acqua che uscivano dalla parete di fondo.
        Evidentemente l' edificio era un luogo in cui i pellegrini si lavano e si purificavano ritualmente con l'acqua della sacra fonte, un po' come la gente va a Lourdes che del resto, prima di essere un luogo sacro cristiano fu un luogo sacro pagano.



        LA SORGENTE SACRA 

        La sorgente e i suoi poteri curativi furono la base della reputazione e della ricchezza della città. In origine era semplicemente un bacino scavato nella roccia. Nel II secolo a.c. era già stato coperto da un edificio in pietra con una facciata decorativa di pietre a forma di squame di pesce. Una scala di pietra conduceva dalla sorgente fino alla cima della collina vicina.

        Nel I secolo d.c. il legionario romano M. Licinius Verecundus costruì un altare a destra della scalinata, dedicato al Dio Glanis, alle Glannicae, e alla Fortuna Redux, la Dea responsabile del ritorno sicuro di coloro che erano lontani da casa.
        L'iscrizione recita: "Per il dio Glanis, e le Glanicae, e per Fortuna Redux: Marcus Licinius Verecundus, della tribù Claudia (un distretto elettorale a Roma), veterano della XXI Legion Rapaces (Rapaces, o predatori, era il soprannome della XXI Legione, che in quel momento serviva in Germania) - ha compiuto il suo voto con gratitudine e buona fede ".

        TEMPIO DI VALETUDO 39 A.C.

        IL TEMPIO DI VALETUDO

        Si tratta di un piccolo tempio dedicato a Valetudo, la Dea romana della salute, soprattutto della salute personale, o almeno una delle Dee romane della salute. Infatti venne associata alla Dea Salus che divenne anche Dea Salutis Publicae, La Valetudo era una Dea della sola salute personale, ma come Sirona, altra Dea Gallica della salute, venne assimilata, come del resto la Dea Igea o la Ninfa Egeria, alla Dea romana Salus. 

        L'iscrizione indica che il tempio fu costruito da Agrippa, il futuro genero dell'Imperatore Augusto che, a detta di alcuni autori fece innalzare il tempio per la salute di Augusto. Le colonne corinzie sono nello stile della tarda Repubblica romana e risale probabilmente al primo viaggio di Agrippa in Gallia nel 38 a.c., visto che nel 37 a.c. divenne console a Roma.

        STELE VOTIVE A ERCOLE GUARDIANO DELLA FONTE E CAPPELLA DI ERCOLE

        LA CAPPELLA DI ERCOLE

        I resti di una piccola cappella dedicata a Ercole, il guardiano delle sorgenti, si trovano vicino alla sorgente. L'archeologo Henri Roland scoprì che addossati contro le pareti, c'erano sei altari dedicati ad Ercole e il torso di una grande statua di Ercole, alto 1,3 metri, che portava un vaso d'acqua, evidentemente l'acqua della sorgente Glanum. 

        L'iscrizione alla base della statua indica che fu posto in segno di gratitudine per l'avvenuto ritorno del tribuno Gaius Licinius Macer e dei centurioni e di tutti i legionari di Glanum reduci da una campagna militare svoltasi durante il II secolo d.c..



        BIBLIO

        - La tomba dei Giulii a Glanum (St. Rémy-de-Provence) in Gallia Narbonensis - Maurizio Paoletti - Milano - 2012 -
        - Glanum - éd. Guides archéologiques de la France - impr. Nationale - 1990 -
        - James MacKillop - Dictionary of Celtic Mythology - Oxford: Oxford University Press - 1998 -
        - Charles Loriquet - Avviso sulle antichità di Reims - scoperte recenti e misure adottate per la conservazione degli antichi monumenti della città - 1861 -
        - Reims - Enciclopedia Britannica (XI ed.) - Una geografia storica della Francia - Cambridge University - 2014 -
        - La France gallo-romaine - Pierre Gros - éditions Nathan - 1991 -

         

        VIA BRIXIANA

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        L'ANTICA BRIXIA (BRESCIA)

        La Via Brixiana, detta anche Via Cremonensis, e oggi Via Brescia (in Lombardia), era una strada romana consolare, cioè voluta da un console per ragioni militari o economiche, che poneva in comunicazione il porto fluviale di Cremona, locato sul fiume Po (Padus), con Brescia (Brixia), da cui si diramavano diverse strade romane per raggiungere l'intera Gallia Cisalpina.

        Esiste ancora nel Dizionario topografico-storico degli stati estensi del 1825 ed è nominata come confine di alcuni beni posti presso un luogo detto la Costella "che sembra non fosse distante da un de' Bondeni Reggiani nella donazione fatta dalla Contessa Matilde al Monastero di Brescello"

        Non sappiamo quale fosse il nome del console perchè la strada prese poi il nome dalla città romana di Brixia (oggi Brescia). La moderna località di Pontevico, anticamente Pons Vicus, deriva il nome dalla presenza del ponte che permetteva alla via Brixiana di attraversare il fiume Oglio (Ollius)
        Il percorso della via Brixiana iniziava al porto fluviale di Cremona (oggi Cremona), "fedelissima città et nobilissima colonia de Romani" e coincideva col cardo maximus della divisione agraria originata dalla fondazione di Cremona, colonia latina del 218 a.c.
        TEMPIO CAPITOLINO DI BRESCIA

        Appena uscita da Cremona la via Brixiana intersecava diverse strade romane che si diramavano verso l'intera Gallia Cisalpina, come la via Postumia (una via consolare romana fatta costruire nel 148 a.c. dal console Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l'odierna Pianura Padana, per scopi prevalentemente militari), poi intersecava la via Regina, che collegava il porto fluviale di Cremona (attuale Cremona), fortificata dai Romani nel 218 a.c. da 6.000 coloni come castrum avanzato in riva al Po, quando vennero a conoscenza dell'avanzata di Annibale dalla Spagna verso l'Italia. 

        Quindi la Via Brixiana passava da Mediolanum (Milano), città romana della Regio XI Transpadana, che, come scrive Strabone nella sua Geografia: "Gli Insubri avevano come metropoli Mediolanum, che anticamente era un villaggio, ora invece è un'importante città al di là del Po quasi ai piedi delle Alpi...»

        Per raggiungere poi Clavenna (oggi Chiavenna), in passato importante centro strategico nel cuore della Rezia, sulla strada tra la Pianura Padana e il bacino del Reno, proseguendo poi verso Plaxanum (oggi Pozzaglio ed Uniti, un comune della provincia di Cremona), poi Brazzuoli (frazione del comune di Pozzaglio ed Uniti), e Rubeccum (oggi Robecco d'Oglio), sempre della provincia di Cremona, in Lombardia.

        L'ATTUALE VIA BRIXIA, SOPRA LA STRADA ROMANA
        Seguiva poi Pons Vicus (Pontevico), situato sulla bassa Bresciana e lambito dal corso del fiume Oglio, il cui nome originario fa pensare ad un ponte romano che cavalcava il fiume.

        Proseguendo toccava Bassianum (oggi Bassano Bresciano), il cui nome romana significava "basso" e cioè terra piana

        La Via Brixia proseguiva per Minervium (oggi Manerbio),  evidentemente una città con un importante santuario dedicato a Minerva. Da successivi scavi archeologici sono emerse in loco cinque ville romane e sono stati trovati anche reperti ceramici, metallici, vitrei e una necropoli del I - III secolo d.c.. 

        La Brixia proseguiva quindi per Balneolum (oggi Bagnolo Mella), dal latino "balneolum", nel senso di piccolo bagno o piccole terme e oltre incrociava la via Gallica che Iniziava a Gradum (oggi Grado) passando poi da Patavium (Padova), Vicetia (Vicenza), Verona (Verona), Brixia (Brescia), Bergomum (Bergamo), Mediolanum (Milano) e Augusta Taurinorum (Torino), dove terminava il suo percorso.

        La Brixia invece proseguiva intersecando la via Mediolanum-Brixia, una strada romana che metteva in comunicazione Mediolanum (Milano) con Brixia (Brescia) passando da Cassianum (Cassano d'Adda) e terminando infine a Brixia (Brescia).


        BIBLIO

        - Pierluigi Tozzi - La via Postumia - Guardamagna - 1999 -
        - La Venetia nell'area Padano-Danubiana: le vie di comunicazione - convegno internazionale, Venezia - 1988 -
        - Pierluigi Romeo di Colloredo Mels - Roma contro Roma: L'anno dei quattro imperatori e le due battaglie di Bedriacum - Soldiershop Publishing - 2017 - 2019 -
        - Mario Luni (a cura di) - Le strade dell'Italia romana - DEA Store - Milano - 2004 -
        - Anna Ferrari-Bravo (a cura di) - Le strade dell'Italia romana - Touring Editore - Milano - 2004 -


        TEMPIO DI GIUNONE REGINA AL PORTICO D'OTTAVIA

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        TEMPIO DI GIUNONE REGINA NEL PORTICO D'OTTAVIA EVIDENZIATO DALLA FRECCIA

        Dall'Eneide, Enea entra nel tempio di Giunone Regina a Cartagine

        "V'era, in mezzo alla città, un bosco rigoglioso
        d'ombra, dove prima gettati dalle onde e dal turbine
        i punici scavarono il segno che aveva indicato Giunone
        regale, il teschio d'un cavallo da guerra; così la stirpe
        sarebbe famosa in guerra e prospera in pace per secoli.


        Qui la sidonia Giunone fondava un tempio maestoso
        A Giunone, opulento di offerte e del nume della dea,
        a cui sui gradini sorgevano soglie di bronzo,
        e travi connesse di bronzo, e strideva il cardine a bronzei
        battenti. 


        In questo bosco dapprima l'apparire d'un fatto
        inatteso lenì il timore, ed Enea osò sperare
        salvezza e avere migliore fiducia nelle avverse vicende.
        "


        Secondo Esiodo, Hera, per i Ropmani Iunio, Giunone, sarebbe stata la terza moglie di Giove che, prima di lei, avrebbe sposato Mèti e poi Tèmi o, secondo altri, Latona o Lèto.

        Quando Giove si innamorò di lei, le si sarebbe presentato sotto la forma di cuculo; ma, riconosciuto da lei, prima di cedere avrebbe chiesto d’essere sposata. In miti più antichi invece Giove la obbligava a sposarsi con il compianto delle Parche in quanto la libertà femminile era finita.

        In ogni caso Giunone, in qualità di moglie di Giove era regina degli Dei, nonchè protettrice dello stato romano e pure della famiglia. Pertanto nel suo ruolo di regina molti templi le vennero dedicati nell'impero e diversi entro Roma stessa.



        TEMPIO DI GIUNONE REGINA AL PORTICO D'OTTAVIA

        "Due mucche bianche furono condotte in città, attraverso la porta Carmentale, dal tempio di Apollo. 
        Le seguivano due officianti dei sacerdoti, recando due statuette di Giunone Regina, fatte di legno di cipresso.
         Poi avanzavano 27 fanciulle, vestite di abiti lunghi, cantando un inno in onore di Giunone Regina. 

        I decemviri seguivano la processione delle fanciulle, indossando la toga pretesta e cingendo corone d' alloro. 

        Dalla porta Carmentale giunsero nel foro attraverso il Vico Giugario, con grande concorso di cittadini che applaudivano e offrivano doni votivi. 
        Infine il solenne corteo entrò nel tempio di Giunone Regina. Ivi pingui vittime furono immolate dai decemviri alla moglie di Giove e le statuette di legno di cipresso furono deposte nel tempio."

        L'area occupata dal  Portico di Ottavia va da Via di Pescheria, Piazza Campitelli, il teatro Marcello e Teatro di Balbo. Qui nel 147 a.c. Quinto Cecilio Metello fece costruire un Tempio dedicato a Giove Statore, circondato da portici, con adiacente, sempre fornito di portici, un Tempio di Giunone.

        Portici e Templi vennero interamente ricostruiti da Augusto in onore di sua sorella Ottavia nel 32 a.c., sotto la direzione degli architetti lacedemoni Sauros (lucertola) e Batrachos (rana), i quali fecero scolpire una lucertola ed una rana sopra i capitelli del portico. Uno di questi capitelli orna oggi la chiesa di San Lorenzo fuori le mura.

        Danneggiati dall'incendio dell'anno 80, i Templi ed i Portici furono restaurati, nel 203 d.c. da Settimio Severo e Caracalla, i quali vi posero l'iscrizione ancora esistente sul portico, dove fu costruita nel Medioevo la Chiesa di S.Angelo in Pescheria, per l'antico vezzo di demolire o trasformare qualsiasi tempio romano in chiesa cristiana snaturando o demolendo il contesto.

        Il Tempio di Giunone Regina, aveva sei colonne con duplice fila di colonne sul fronte, e fu dedicato dal Censore M. Emilio Lepido, nell'anno 179 a.c. alla Regina degli Dei. Ne restano parte del basamento, la porta della Cella (nelle cantine di una casa di Via Sant'Angelo in Pescheria), ed una grandiosa elegante colonna scanalata, corinzia, ancora in piedi nel luogo originario.

        Qui fu ritrovato il piedistallo della statua di Cornelia, madre dei Gracchi (oggi al Museo Capitolino).
        Molte opere d'arte decoravano i Portici d'Ottavia e i due templi, tra cui la cosiddetta Venere dei Medici, capolavoro della scultura greca, oggi alla galleria degli Uffizi di Firenze.



        BIBLIO

        - Eutropio - Breviarium ab Urbe condita -
        - Floro - Epitomae de Tito Livio - libro I -
        - Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -

        DIGA DI DARA (Turchia)

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        LA CISTERNA

        Dara o Daras è stata un'importante città-fortezza romana (poi bizantina) della Mesopotamia settentrionale, lungo il confine con l'Impero sasanide. A causa dell'importanza strategica, ebbe parte nei conflitti romano-persiani del VI secolo, e fuori dalle sue mura si combattè la battaglia di Dara del 530.

        Durante la guerra anastasiana del 502-506, gli eserciti romani contrastarono i Sasanidi, ma secondo la Cronaca Siriana di Zaccaria di Mitilene, i generali romani accusarono la mancanza di una forte base e nel 505 l'Imperatore Anastasio I ricostruì il villaggio di Dara, a soli 18 Km a ovest di Nisibi e 5 km dal confine romano-persiano, per «un rifugio per le legioni nel quale esse potessero riposare, e per la preparazione delle armi, e per sorvegliare il confine». 

        La città fu costruita su tre colli, sul più alto dei quali era la cittadella, corredata di grandi empori, di un bagno pubblico, e cisterne d'acqua potabile. Prese dapprima il nome di Anastasiopoli e divenne la sede del Duce romano di Mesopotamia.



        LA DIGA

        L'Imperatore Giustiniano I (482 - 565) dette l'avvio a importanti restauri, dopo i quali fu cambiato il nome della città in Iustiniana Nova. Le mura furono rialzate portando la loro altezza da 30 a circa 60 piedi (20 m). Le torri furono rinforzate e alzate da 60 a 100 piedi (30 m). Infine sul fronte sud, il più debole, fu realizzato una diga, cioè un fossato esterno pieno d'acqua a forma di mezzaluna e venne spianata una collinetta in grado di nascondere i tentativi nemici di scavare gallerie per minare le mura.

        Gli ingegneri di Giustiniano inoltre deviarono il corso del vicino fiume Cordes realizzando un canale che approvvigionasse abbondantemente la città. Allo stesso tempo, essendo il corso del canale sotterraneo per gran parte del percorso, la guarnigione era in grado di negare l'acqua agli assedianti, fatto questo che salvò la città in diverse occasioni.


        La sua diga divenne famosa, una diga romana ad arco, uno dei rari esempi di questo tipo. Si chiama diga ad arco la diga in cui la maggior parte del carico d'acqua è distribuito verso le pareti laterali della valle, che deve essere piuttosto stretta, o del canyon in cui è costruita. Generalmente una diga ad arco contiene meno calcestruzzo di una diga a gravità, ma pochi siti si prestano alla costruzione di questo tipo di struttura.

        La costruzione e la progettazione della diga di era bizantina viene descritta dallo lo storico Procopio intorno al 560, nel suo trattato sulle realizzazioni architettoniche dell'epoca di Giustiniano I ( De Aedificiis II.3). Procopio fornisce la prima descrizione di tali tipi di diga in contrasto con la diga a gravità, il modello usuale in tutta l'antichità e oltre.

        Procopio stabilisce che la diga deve avere un piano curvo, al fine di resistere alla pressione dell'acqua, e che la spinta dell'acqua non era contenuta dal peso puro della struttura (come nelle dighe a gravità), ma trasferito alle pareti ala della gola attraverso la curvatura dell'arco.

        Lo studioso tedesco Günther Garbrecht alla fine del 1980 ha sollevato qualche dubbio sul racconto di Procopio, egli aveva identificato la collocazione della diga nei pressi delle antiche mura della città, con le caratteristiche coerenti alla descrizione di Procopio, ma senza il contorno a forma di mezzaluna della diga.

        La struttura scoperta, di 4 m di larghezza e con un alto muro di 5 m, sostenuto da un nucleo di cemento, avevano una lunghezza stimata di 180-190 m; e la sua sezione centrale venne distrutta completamente per una lunghezza di 60-70 m. Anche se non si può escludere che la diga avesse un andamento leggermente curvo, le pareti esistenti indicano invece una pianta poligonale. 
        In questo caso, la diga Dara avrebbe resistito alla pressione dell'acqua dal suo peso puro , non per azione dell'arco. Garbrecht ipotizza che la forma irregolare della diga può aver portato Procopio ad un allusione poetica alla forma di mezzaluna distesa.


        BIBLIO 

        - Hodge, A. Trevor - Acquedotti romani e approvvigionamento idrico - London - Duckworth 1992 -
        - Hodge, A. Trevor - "Bacini e dighe" - in Wikander, Örjan - Handbook of Ancient Water Technology - Tecnologia e cambiamento nella storia - Leiden - Brill - 2002 -
        - Patrick James, Hubert Chanson - Historical Development of Arch Dams. From Roman Arch Dams to Modern Concrete Designs - in Australian Civil Engineering Transactions - 2002 -
        - Smith, Norman - A History of Dams - London - Peter Davies - 1971 -

          II GUERRA FIDENATE ( 438-437 a.c.)

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          Siamo nel 438 a.c. a Roma esplode la contesa tra Plebei e Patrizi, e finalmente si concluse con l'elezione dei Tribuni consolari, dove furono eletti Lucio Quinzio Cincinnato, figlio di Cincinnato, Mamerco Emilio Mamercino (poi nominato dittatore) e Lucio Giulio Iullo, tutti e tre eletti dal popolo, in maggioranza plebeo, al posto degli ordinari consoli di nomina senatoriale. 

          Contemporaneamente la colonia romana di Fidene, approfittando del momento di debolezza romana, causata dai soliti dissensi tra patrizi e plebei, si alleò con la potente città etrusca di Veio. Fidenae, forse di origine etrusca, e a sole 5 miglia da Roma, era nota per la fertilità del territorio, dovuta anche alla vicinanza con il Tevere. A lungo fu il primo centro latino oltre il confine settentrionale del territorio romano e spesso fu sottoposta all'influenza dell'etrusca Veio.

          Quindi non solo i Fidenati abbandonarono l'alleanza con Roma, ma Lars Tolumnio, il principe fidenate, per segnare un punto di non ritorno, fece uccidere i tre romani inviati a Fidene, per chiedere le motivazioni della decisione. Per Roma fu un affronto che andava lavato nel sangue, così si decise di affidare la guerra ai consoli dell'anno successivo appena eletti: Marco Geganio Macerino, al suo terzo consolato, e Lucio Sergio Fidenate, cui fu affidato il comando delle azioni belliche.

          Lucio Sergio guidò immediatamente l'esercito romano contro l'esercito veiente, guidato da Tolumnio, in uno scontro campale lungo le sponde dell'Aniene; i romani come al solito guadagnarono la vittoria, ma lo scontro fu così violento, causando grandi perdite anche tra i romani, per cui il momento era pericoloso e si decise per la nomina di un dittatore a cui affidare la nuova Guerra Fidenate.

          La coalizione nemica, che si era ritirata dalla campagna romana fino alle colline intorno a Fidene, per prudenza attese l'arrivo degli alleati Falisci e dei Capenati, prima di porre il proprio campo davanti alle mura di Fidene. Mamerco Emilio Mamercino, nominato dittatore, a sua volta nominò Magister equitum Lucio Quinzio Cincinnato, figlio di Cincinnato e suo collega nel tribunato dell'anno precedente (che sarà eletto tribuno consolare per tre volte).

          RESTI DI VEIO

          Mamerco Emilio, come suoi legati, volle Tito Quinzio Capitolino Barbato, già sei volte console, e già trionfatore sui Volsci, e Marco Fabio Vibulano a cui fu affidato il compito di proteggere il campo romano, che in effetti riuscì a difendere dall'assalto della cavalleria etrusca di Tolumnio, che divenne un personaggio dell'Eneide di Virgilio.

          I romani posero il proprio accampamento vicino alla confluenza dell'Aniene con il Tevere, erigendo in fretta delle fortificazioni a protezione del campo. Mentre i romani volevano battaglia immediata, sia perchè consci del proprio valore, sia per vendicare l'offesa degli ambasciatori uccisi. Tolumnio invece era più propenso a temporeggiare, ma si decise allo scontro, anche perchè spinto dai Falisci, desiderosi di dar subito battaglia perché lontani dalle propria città.

          Tolumnio schierò i Veienti sull'ala destra, i Fidenati al centro, e i Falisci e i Capenati sulla sinistra. Mamerco affidò a Tito Quinzio le operazioni contro i Fidenati, a Barbato quelle contro i Veienti, riservandosi il comando dei soldati opposti ai Falisci e Capenati.

          Mamerco lasciò la cavalleria sotto il comando del Magister equitum, in modo che potesse intervenire su tutto il fronte della battaglia, ma ebbe anche cura di lasciare alcune guarnigioni di soldati a protezione del campo, sotto il comando di Marco Favio Vibulano (che morirà poi come tutta la sua gens Fabia, nella Battaglia di Cremeria), mossa decisiva per contrastare un attacco a sorpresa, portato al campo da parte della cavalleria etrusca, mentre infuriava la battaglia tra i due eserciti.

          «Come vide il segnale, levato il grido di guerra, (il dittatore romano) lanciò contro il nemico per primi i cavalieri, seguiti dalla schiera dei fanti che combatté con grande vigore. In nessuna parte le legioni etrusche riuscirono a reggere l'urto romano: i loro cavalieri offrivano la resistenza più tenace e il re in persona - il più forte, in assoluto, di tutti i cavalieri - prolungava la lotta avventandosi contro i Romani, mentre questi ultimi si sparpagliavano nella foga dell'inseguimento
          (Tito Livio, Ab Urbe condita libri)

          AULO CORNELIO COSSO

          Lo scontro si risolse con il famoso gesto eroico di Aulo Cornelio Cosso che da solo affrontò Tolumnio uccidendolo:

          «E, spronato il cavallo, si buttò, lancia in resta, contro quel solo nemico. Dopo averlo colpito e disarcionato, facendo leva sulla lancia, scese anch'egli da cavallo. E mentre il re cercava di rialzarsi, Cosso lo gettò di nuovo a terra con lo scudo e poi, colpendolo ripetutamente, lo inchiodò al suolo con la lancia. Allora, trionfante, mostrando le armi tolte al cadavere e la testa mozzata infissa sulla punta dell'asta, volse in fuga i nemici, terrorizzati dall'uccisione del re
          (Tito Livio, Ab Urbe condita libri)

          Poi i Fidenati messi in fuga con la morte di Tolumnio, vennero inseguiti e sterminati dai romani, che arrivarono a far razzia fin nelle campagne di Veio. Per questa vittoria Roma concesse a Mamerco Emilio Mamercino il trionfo a Roma.

          Aulo Cornelio venne insignito delle spoglie opime (che dovevano essere condotte nel tempio di Giove Feretrio), la più alta onorificenza romana dovuta solo ai comandanti che uccidevano in battaglia il comandante nemico. In tutta la storia di Roma, solo tre persone ebbero le spoglie opime: Romolo, Cornelio Cosso e Marco Claudio Marcello, che uccise in battaglia un re dei Galli.

          «Siccome l'impresa aveva avuto pieno successo, per decreto del Senato e per volontà del popolo, il dittatore rientrò a Roma in trionfo. Ma nel trionfo lo spettacolo più grande fu Cosso che avanzava con le spoglie opime del re ucciso. In onore di Cosso, i soldati cantavano rozzi inni, paragonandolo a Romolo. Con una solenne dedica rituale, egli appese in dono le spoglie nel tempio di Giove Feretrio, accanto a quelle di Romolo, le prime, e fino a quel momento le uniche, a essere chiamate opime. Cosso si attirò gli sguardi dei cittadini distogliendoli dal carro del dittatore, così che quasi da solo raccolse il frutto della solennità di quel giorno. Per volontà del popolo, il dittatore offrì in dono a Giove sul Campidoglio, a spese dello Stato, una corona d'oro del peso di una libbra. Seguendo tutti gli scrittori che mi hanno preceduto, ho narrato come Aulo Cornelio Cosso abbia portato le seconde spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio avendo il grado di tribuno militare. Ma, a parte il fatto che tradizionalmente sono considerate opime solo le spoglie prese da un comandante a un altro comandante e che il solo comandante che noi riconosciamo è quello sotto i cui auspici si fa una guerra, la stessa iscrizione posta sulle spoglie confuta gli altri e me, dimostrando che Cosso era console quando le prese. Avendo io sentito Cesare Augusto, fondatore e restauratore di tutti i templi, raccontare di aver letto lui personalmente quest'iscrizione su un corsaletto di lino quando entrò nel santuario di Giove Feretrio, che lui aveva fatto riparare dai danni del tempo, ho ritenuto quasi un sacrilegio privare Cosso della testimonianza che delle sue spoglie dà Cesare, cioè proprio colui che fece restaurare il tempio. Ma è giusto che ciascuno abbia un'opinione personale in merito alla questione se vi sia o meno un errore, dato che sia gli annali antichi sia i libri lintei dei magistrati, depositati nel tempio di Moneta, che Licinio Macro cita continuamente come fonte, riportano solo nove anni dopo il consolato di Aulo Cornelio Cosso, insieme a Tito Quinzio Peno. Ma un altro valido motivo per non spostare una battaglia così famosa in quell'anno è che all'epoca del consolato di Aulo Cornelio per circa un triennio non ci furono guerre a causa di una pestilenza e di una carestia, tanto che alcuni annali, quasi in segno di lutto, riportano solo i nomi dei consoli. Due anni dopo il suo consolato, Cosso compare come tribuno militare con poteri consolari e nello stesso anno anche come magister equitum. E mentre ricopriva tale carica combatté un'altra celebre battaglia equestre. In merito è possibile fare molte ipotesi, che per me sono però tutte inutili, dato che il protagonista del combattimento si sottoscrisse Aulo Cornelio Cosso console, dopo aver deposto le spoglie appena conquistate nella sacra sede alla presenza di Giove, cui erano state dedicate, e di Romolo, testimoni che l'autore di un falso non può certo prendere alla leggera
          (Livio, Ab Urbe Condita, IV 20)


          BIBLIO

          - Tito Livio - Ab Urbe condita - I e IV -
          - Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - VII-VIII -
          - Eutropio - Breviarium ab Urbe condita - I -
          - Tito Livio - Ab Urbe condita libri - I -
          - Plutarco - Vita di Romolo - XXIII -
          - Andrea Carandini - Roma. Il primo giorno - Roma-Bari - 2007 -
          - Theodor Mommsen - Storia di Roma antica - Sansoni - Milano - 2001 -

          ALBINGAUNUM - ALBENGA (Liguria)

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          IL BATTISTERO

          Albingaunum o Albium Ingaunum, è un antico centro in provincia di Savona, abitato prima dai Liguri Ingauni e poi dai Romani, che sorse nella Riviera ligure di ponente, presso la foce del fiume Centa, un fiume a volte impetuoso che ha modellato la pianura ingauna, si che i suoi abitanti dovettero dotarlo di argini e di svariati ponti.

          All'inizio fu un oppidum celtico, poi un castrum romano. Albingaunum è traducibile come Città degli Ingauni, dalla popolazione dei Liguri che l'ebbe in origine per capitale, ed è stato un centro importante per la fondazione dell'Impero romano nella Liguria occidentale.

          Abingaunum fu il centro principale del comprensorio albenganese, che si estendeva da Ceriale, un piccolo e antico centro insediatosi lungo la Via Julia Augusta, come dimostra il ritrovamento di reperti archeologici in loco, fino al possedimento romano di Andora e al relativo entroterra.
          L'ANTICA ALBINGAUNUM

          Il toponimo Ceriale secondo alcuni deriverebbe dalla presenza in loco di due consoli dell'Impero romano - Onicius Cerialis e Quinto Petilio Cerialis - che avrebbero qui svolto la loro attività. Secondo altri deriverebbe invece da un importante mercato dei cereali e alla presenza di un tempio romano dedicato alla Dea delle messi Cerere a cui era correlata la festa "Cerialia"

          Il nome attuale Albenga deriva dal latino Albíngaunum che si chiamò così una volta conquistata dai romani, mentre precedentemente antecedentemente detta Albium Ingaunum, poi dopo la caduta di Roma divenne Albingauno ed intorno all'anno mille Albingano.

          Albingaunum comprende anche la riserva naturale regionale dell'Isola Gallinara (o Gallinaria), così chiamata, come testimoniano Catone e Varrone, per le gallinelle selvatiche che l'abitavano.



          LA STORIA

          I primi insediamenti sono del VI secolo a.c. e di tipo agropastorale e con un centro fortificato con il nome Albium Ingaunum, "la fortezza degli Ingauni", nei pressi del mare, con un'ampia insenatura che fungeva da porto naturale.

          Gli Ingauni, nel IV secolo a.c. hanno notevoli conoscenze marittime e una potente flotta, che pratica sia il commercio che la pirateria; sempre in antagonismo con i Greci Marsigliesi, per il dominio del Tirreno settentrionale, su cui gli Ingauni esercitavano la pirateria. 

          Tito Livio narra che gli ingauni fossero ottimi naviganti ma pure feroci pirati con navi snelle e veloci, per le quali la guerra di corsa era l'attività principale. Gli Ingauni erano un gruppo etnico abbastanza omogeneo che andava da Savona a Monaco e che i Romani chiamarono Ligures Alpini.

          I  RESTI DEL PONTE LUNGO

          Tuttavia gli ingauni governavano sul territorio che va da Finale Ligure, confinante con i Sabates, fino a Sanremo, confinante con gli Intemeli, più vasto rispetto ai confinanti. Nel III secolo a.c. i romani fanno un patto di alleanza con la città di Genova, patto che non piace alle altre popolazioni liguri, legate a Cartagine da vincoli commerciali.

          Albiganum fu infatti alleata dei Cartaginesi contro Roma durante la Seconda guerra punica (dal 218 a.c. al 202 a.c., prima in Europa e successivamente in Africa) divenendo la base navale del fratello di Annibale Barca, Magone. Da qui egli salpò alla volta di Genova saccheggiandola nel 205 a.c.. Il danno dovuto al sacco di Genova fu talmente enorme che ancora oggi si usa il termine "magone" per indicare un dolore inesprimibile da nodo alla gola.

          Sconfitti i cartaginesi, gli ingauni si allearono con Roma nel 201 a.c. ma tuttavia non cessarono le operazioni di pirateria per cui nel 185 a.c. Roma, decisa ad aprirsi una via sicura per le Gallie, invia ad Albiganum un esercito col proconsole Lucio Emilio Paolo (229 - 160 a.c.) che sconfigge pesantemente gli Ingauni annettendo nel 181 a.c. tutto il territorio a Roma.

          AFFIORAMENTO IN CITTA' DEGLI ANTICHI MOSAICI

          Tito Livio narra che prima vinsero gli Ingauni, ma tramite un inganno che fece ritirare i romani, di gran numero inferiori, nella loro fortificazione. Ma alla fine prevalsero le grandi capacità di combattimento romane che vinsero sugli Ingauni nel 181 a.c. mentre il duumviro Matieno, con la sua flotta riuscì a catturare ben 32 navi corsare, che portarono alla definitiva resa di Albium Ingaunum.

          Vinti poi i Liguri Montani, i romani ottennero controllo su tutta la Liguria. Lucio Emilio Paolo non infierì sui vinti ma fece distruggere le mura delle città e non consentì più la costruzione di navi di grosso tonnellaggio. Fece radere al suolo l'oppidum ingauno di cui nulla è rimasto mentre si sono avuti alcuni ritrovamenti ingauni al Monte, del IV secolo a.c.

          Ma sopra all'oppidum abbattuto i romani edificarono un castrum militare che pian piano si ampliò diventando la città romana di Albingaunum che nel 13 a.c. ottenne sul suo territorio la via Julia Augusta che univa Roma con la Gallia.


          Successivamente, nell'89 a.c., Albiguanum ottenne il diritto latino, e nel 45 a.c. divenne municipium ottenendo la cittadinanza romana dopodiché essa assoggettò i territori dell'interno. Gaio Giulio Cesare gli conferì la cittadinanza romana e lo status municipale. Il suo territorio si ampliò dalla costa tra Sanremo e Finale Ligure nell'entroterra conquistando l'intera alta valle del Tanaro.

          Dal I al III secolo Albingaunum fiorì economicamente e monumentalmente, divenendo una città ricca e sicura che si dotò di lussuosi monumenti: le terme, l'anfiteatro, l'acquedotto e le tombe patrizie costruite lungo la via Iulia Augusta.

          Un suo cittadino, Proculo, nel 280 d.c., aspirando a diventare imperatore, armò a sue spese un piccolo esercito personale contro Probo (circa duemila schiavi). Proculo viene sconfitto e giustiziato, ma il suo tentativo fa capire il livello di ricchezza che potevano raggiungere le imprese agricole della piana ingauna.

          RESTI DELLA NECROPOLI
          Con la crisi dell’Impero Romano iniziano le invasioni barbariche. I Visigoti nel 402 saccheggiano e radono al suolo Albingaunum. Flavio Costanzo, generale dell’imperatore Onorio, di passaggio per una spedizione in Gallia, nel 414 decreta la ricostruzione della città: vengono riedificate le mura, che resisteranno per tutto il medioevo, i principali edifici cittadini e le prime strutture cristiane, la Cattedrale e il battistero.



          LA DECADENZA

          Con la caduta dell’Impero Romano, Albingaunum nel V secolo passa sotto il dominio Ostrogoto e nel VI secolo sotto quello bizantino conservando tuttavia una certa prosperità economica.
          Nel V secolo venne invasa dai Goti che la conquistarono demolendola in gran parte.  Fu poi conquistata dai Longobardi di Rotari (606 - 652).

          VIA IULIA AUGUSTA

          I RITROVAMENTI

          I reperti di Albiganum sono conservati sia nel Civico museo ingauno, sia nel Museo navale romano. La città romana era costruita attorno a un cardo e un decumano che dividevano la città che era composta da un forum, centro della vita sociale con strade principali e secondarie perfettamente conservate. Sul foro sono stati eretti, con grande spolio di fregi e marmi: il Battistero, la cattedrale, il portico demolito e parte del palazzo sede del Comune.

          Nell'alveo del fiume Centa e nella parte nord della città, sono stati ritrovati tratti di mura dello stessa epoca di quelle di Costanzo III (370-421), che fanno presupporre che la città possedesse una doppia cinta muraria, per proteggersi anche dalle piene del Centa. 

          VETRI ROMANI DEL II E III SECOLO

          LA VIA IULIA AUGUSTA

          Nei pressi poi della Chiesa di San Calocero, sono state trovate tracce della Via Iulia Augusta, di cui non è noto il nome ad essa attribuito in epoca romana, ma venne così chiamata dall'archeologo Gregorutti per il fatto che era stata risistemata una prima volta all'epoca di Giulio Cesare e degli imperatori della dinastia giulio-claudia.

          La Via Iulia Augusta entra ad Albiganum per la porta Molino ed esce dalla porta Arroscia lungo il “cardo maximum”, oggi Via Medaglia d’Oro. Giunti a Vadino, dalla strada che sale al “Monte”, un viottolo che segna l’inizio della passeggiata archeologica lunga la via romana. 

          A ridosso della collina del “Monte”, lungo il percorso della strada romana, sorse nel IV-V secolo una delle prime chiese cristiane di Albingaunum, dedicata a San Calocero, martire locale. La via romana saliva direttamente da S. Calocero in direzione della chiesa di S. Martino, ma il tratto di collegamento non è oggi individuabile, mentre si può rintracciare la strada, lasciata la strada provinciale Albenga-Villanova e seguendo in salita la via vicinale al Monte.




          NINO LAMBOGLIA

          Grande archeologo soprattutto delle profondità marine, studiò a fondo l'oneraria di Spargi, già individuata nel 1957 da Gianni Roghi su una secca di 18 metri di profondità, naufragata intorno al 120 a.c. nelle Bocche di Bonifacio, il pericoloso "fretum Gallicum" per la presenza di isolotti, scogli affioranti e secche. I molti relitti rinvenuti testimoniano però si preferiva lo stretto alla circumnavigazione che richiedeva più tempo.

          Vi si reperirono vasellame fine da mensa a vernice nera, ceramiche orientali e ceramica comune, unguentari in vetro, lucerne, coppe megaresi, anforette rodie, una macina, un piccolo altare un bacile di marmo, una piccola colonna scanalata, una testina di personaggio virile con una grossa mano sul capo, forse parte di una divinità, una corazza di bronzo, un elmo con resti di cranio umano, costituivano certamente elementi della dotazione di bordo.



          L'ANFITEATRO

          Nei pressi della Chiesa di San Martino sono emersi i resti dell'anfiteatro romano del II secolo, oltre a un grande edificio pubblico a pianta rettangolare, delle tombe monumentali ed epigrafi di personaggi famosi.

          I RESTI DELL'ANFITEATRO
          L'anfiteatro venne edificato intorno al II secolo d.c., lontano dalla città sia per tenere lontano i disordini delle competizioni sportive, sia dare la possibilità ai paesi vicini di usufruire degli spettacoli senza portare disordini in città. 

          L'anfiteatro di Albenga è ancora oggi l'unico edificio di questo tipo conosciuto nella Riviera di Ponente. 

          Secondo le porzioni di muro riemerse negli scavi del 1973/75, si ritiene che avesse una pianta ellittica di circa 72,80 metri per 52,20 e che potesse contenere qualche migliaio di spettatori.

          Probabilmente venne utilizzato solo per spettacoli di gladiatori, ben presto proibiti dal cristianesimo. Nel Medioevo fu utilizzato come luogo di sepoltura.

          Dell'anfiteatro emergono ampi resti murari sul lato nord, appartenenti sia al muro perimetrale esterno, con contrafforti, sia all’ellisse interno che circondava l’arena; verso est è conservato uno dei due ingressi principali. 

          Sul margine ovest dell’anfiteatro si conservano gli avanzi della Chiesa e dell’Abbazia di S. Martino, incorporati in un edificio adibito a bed & breakfast. Dalla proprietà privata si sbocca sull’antica strada romana, caratterizzata in questo punto da una striscia di mattoni al centro, forse opera tardomedievale. A valle della strada iniziano gli scavi della necropoli settentrionale.

          LE TERME ROMANE

          Dunque l'anfiteatro di Albingaunum è stato scavato solo in minima parte, anche se l'archeologo Nino Lamboglia aveva progettato di proseguire negli scavi fino alla scoperta dell'intero anfiteatro. Purtroppo, a causa della sua tragica morte tutto si arrestò, e oggi, dopo quasi 40 anni il sito versa in pessime condizioni: se ne estirpano le erbacce ma non si tolgono i materiali accumulatosi col tempo.

          Secondo Lamboglia l'anfiteatro misurava 70 x 50 m. quindi poteva accogliere solo dalle 6 alle 8 mila persone. Però i muri in pietra sono palesemente troncati, questo ci porta a considerare che siano stati demoliti e il materiale riutilizzato, come appare evidente dalla muratura a vista della chiesa di San Martino, dove sono presenti i blocchi di arenaria dell'anfiteatro.

          Sul lato nord è presente una Porta Pompae per gli spettatori, e sui muri laterali emergono due filari paralleli di pietre, dove sopra venivano appoggiate tavole di legno o lastre di pietra come scalini per accedere alla cavea.

          Pertanto l'anfiteatro presenta un'accesso principale all'arena con una larghezza minore di 3,50 metri, percorsa da una rampa con un dislivello maggiore all'esterno e minore all'interno. La base dell'arena, e parte delle zone dell'anfiteatro, sono state scavate direttamente nella pietra e poi sono state realizzate delle murature contro questa per renderle intonacabili. A lato è presente un vomitorium tra l'arena e l'esterno. Tra il muro esterno e il muro interno sono presenti degli ambienti vuoti, sicuramente di servizio dell'anfiteatro.



          BIBLIO

          - Nino Lamboglia, La nave romana di Albenga, in «Rivista di Studi Liguri», a. XVIII, 1952,
          - Nino Lamboglia, Scavi nelle terme di Cemenelum, Rivista di Studi Liguri XI, 1945
          - Nino Lamboglia - Albenga romana e medioevale - Studi Liguri - Bordighera - 1966 -
          - Massabò Bruno, Itinerari Archeologici di Albenga - Fratelli Frilli Editori - Genova - 2005 -
          - Cottalasso Giuseppe - Saggio Storico della Città di Albenga - Genova - 1820 -

          COLOMBARIUS PATTACII MAXIMI - COLOMBARIO DI P. MAXIMO

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          SCORCIO DEL COLOMBARIO

          Teoricamente si entra nel colombario impropriamente denominato di Pattacius o Patlacius Maximus attraverso un chiusino su marciapiede in prossimità delle Mura Aureliane, presso Porta Maggiore a Roma. Diciamo teoricamente perchè in pratica nessuno è autorizzato a calarsi o far calare chicchessia attraverso un tombino per visitare il reperto romano.

          Non vi è accesso consentito in sicurezza né un custode che vi accompagni perchè nessuno è stato autorizzato a tanto e anche perchè il transito fino al primo piano sotterraneo del colombario è consentito da una scala a chioccola in metallo, che non è il massimo per la sicurezza richiesta.

          Il suddetto colombario sembra costituito a tale piano da un paio di sale con pareti contenenti nicchie a colombario e basso bancone lungo i lati, dove, viene da pensare, si eseguissero dai cristiani i banchetti per i defunti secondo l'antica usanza romana, usanza poi bandita dalla chiesa perchè si schiamazzava e si beveva, insomma si divertivano troppo.

          Una scala in muratura con gradini in travertino conduce al secondo piano sotterraneo, stavolta rimasto miracolosamente intatto. Il luogo è intonacato di bianco e le nicchie portano per lo più numeri anziché le consuete tabulae, ansate e non ansate, con il nome o i nomi dei defunti ivi locati.                                                                                    
          Le nicchie sono perlopiù molto semplici, solo alcune, appartenute a personaggi un po' più ricchi, oppure con parenti più devoti, presentano decorazioni in stucco che le incorniciano. Il colombario, databile al I secolo d.c., era stato usato e riusato in quanto oggetto di affitto per un certo periodo di tempo.

          I colombari erano una delle tante forme di investimento onde fare business. Uno o più investitori in società tra loro facevano scavare un nutrito colombario con tanto di nicchie, in genere quelle più basse decorate e quelle più alte senza decori. Le nicchie venivano poi affittate ai parenti dei defunti che non avevano un proprio colombario.                     

          Si affittava la nicchia con le ceneri del defunto per un certo numero di anni, o almeno finché i parenti pagavano, dopodiché l'urna per le ceneri veniva gettata via o, più spesso, riutilizzata  e si affittava ad altri. Inutile dire che i piani più bassi erano i più comodi, pertanto i più cari nell'affitto e pertanto gli unici decorati.

          Non si conosce la vastità del colombario di Patacius in quanto le fondazioni moderne hanno tamponato in buona parte i condotti ipogei. Purtroppo la corruzione dilagante o la tempestività dei costruttori di cancellare qualsiasi traccia romana dai loro scavi hanno conseguito la distruzione di molti preziosi e antichi ipogei. 

          Per ultimo: il nome del colombario deriva da una lastra tombale con su scritto Patlacius Maximus rinvenuta al piano più sotterraneo, ma si ritiene non sia nemmeno relativa al cimitero. D'altronde un nome dovevano pur darglielo.

          Basterebbe nominare un custode, magari nel condominio stesso, che per modestissima cifra aprisse il colombario ai visitatori, facesse un minimo di manutenzione e avvertisse gli addetti in caso di infiltrazioni d'acqua o quant'altro. però bisognerebbe creare un vero ingresso perchè una scala a chiocciola di certo non è il modo di accedere nè sicuro nè assicurabile su eventuali danni.


          BIBLIO

          - Rodolfo Lanciani - Roma pagana e cristiana - Colombari romani - Cap. VI -
          - Antonio Nibby - Roma antica di Fabiano Nardini - Stamperia De Romanis - Roma - 1818 -
          - Filippo Coarelli - Guida archeologica di Roma - Arnoldo Mondadori Editore - Verona - 1984 -
          - L. Quilici, S. Quilici Gigli -  "Opere di assetto territoriale ed urbano" - L'Erma di Bretschneider - 1995 -

          ULPIA NICOPOLIS AD ISTRUM - VELIKO TARNOVO (Bulgaria)

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          Nicopolis ad Istrum o Nicopolis ad Iatrum fu una città romana sorta nei primi tempi dell'impero bizantino. Le rovine della città si trovano oggi nel villaggio di Nikyup, a 20 km a nord di Veliko Tarnovo, nel nord della Bulgaria.

          La città prosperò e si ampliò raggiungendo il suo apice durante i regni di Adriano, degli Antonini e della dinastia severa. Il sito è oggi materia di scavo e sta rivelando nuovi edifici e nuove strade cittadine. Per tali ragioni la Bulgaria ha richiesto il riconoscimento del sito che è stato inserito nell'elenco provvisorio per essere considerato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO nel 1984.

          Il sito si pone all'incrocio tra Iatrus (Yantra) e i fiumi Rositsa dove l'esercito romano, guidato dall'imperatore Traiano (53 - 117), era stato acquartierato e allestito, pronto per contrastare l'attacco, insolitamente invernale, del 101-102 da parte della tribù dei Roxolani a nord del Danubio, che si erano alleati con i pericolosi Daci.

          A seguito delle sue vittorie l'imperatore fece costruire una città intorno all'accampamento, intorno al 102-106, come viene anche indicato nella scena XXXIX della Colonna Traiana, in memoria della sua vittoria nelle guerre daciche sui Roxolani e anche in seguito alle vittorie del 105.
          Il nome della città fu Ulpia Nicopoli in onore della famiglia Ulpia da cui Traiano discendeva. Il nome Nicopolis ad Haemum venne usato nella Geographia di Claudio Tolomeo (100 - 175 d.c.) risalente a prima del 130.

          Traiano intendeva realizzare una magnifica città che stupisse il mondo e contribuisse notevolmente alla romanizzazione della zona. Tale carattere monumentale della città venne molto ampliato sotto Adriano e da Antonino Pio (138-161) e le iscrizioni trovate risalgono a dopo il 136, quando era già in uso il nome Ulpia Nicopolis ad Istrum. La nuova agorà, come hanno rivelato gli scavi, comprendeva una monumentale stoa ionica e una sontuosa sala di funzione sconosciuta.



          I COSTOBOCI

          I Costoboci, una tribù dell'odierna Ucraina occidentale, si ritiene fosse in parte germanica e in parte dacica, posta lungo i pendii nord-orientali dei monti Carpazi, in Galizia. Sembra fossero legati a Roma da un trattato di amicizia stipulato sotto Adriano ed Antonino Pio, ma non lo rinnovarono con Marco Aurelio nel 170, tanto che invasero le province occidentali della Dacia, Mesia e Tracia fino a raggiungere l'Achaia (con capitale Colonia Laus Iulia Corinthiensis - Corinto - Grecia).

          I Costoboci nel 170 avevano invaso i Balcani e saccheggiarono Ulpia Nicopolis nel 170-1. Alcune bande furono intercettate ed annientate nei pressi di Scupi dalla Cohors II Aureliae Dardanorum, ma Roma inviò Lucio Giulio Veilio Grato Giuliano, brillantissimo generale già insignito dei dona militaria dagli imperatori Antonino e Vero.

          Veilio Giuliano nell'inverno del 171 riuscì a dirigere contro i Costoboci i vicini Vandali Asdingi, in cerca di nuovi territori dove insediarsi e nel contempo fece circondare la città di mura anche se molti edifici dovettero rimanere esclusi dall'area murata.

          I Costoboci in seguito dovrebbero essere stati inglobati in parte dalle tribù germaniche, in parte dai Sarmati e dai Goti, insieme ai quali compirono razzie nelle province imperiali romane durante tutto il III secolo.


          DINASTIA SEVERIANA

          La città prosperò di nuovo nel II e III secolo sotto la dinastia Severana (193-235), tanto che nel 193 la città dotò Settimio Severo, appena insediatosi sul trono, di ben 700000 denarii (una fortuna all'epoca) per i quali possediamo una copia della lettera di ringraziamento alla città dall'imperatore, grazie a un'iscrizione. In seguito l'imperatore fece diverse visite in città.

          IL TEATRO

          CARACALLA

          Tuttavia, dal 212 il titolo onorifico Ulpia non fu più utilizzato dalla città stessa nelle iscrizioni pubbliche, a causa della visita di Caracalla nel 211-212. Per l'occasione l'imperatore chiuse la zecca e tolse alla città il suo status di civitas stipendaria e pertanto la sua prosperità economica.
          Dopo la sua morte, la città organizzò giochi per il nuovo imperatore Geta e, di conseguenza, sembra che la città riacquistò il suo stato civile, sebbene non il suo nome completo, e riaprì la zecca, emettendo monete con immagini dei suoi edifici pubblici.
          Nicopoli rifiorì invece come un importante centro urbano sotto le riforme dell'imperatore Diocleziano (284-305). Tuttavia, almeno l'ala nord dell'agorà fu danneggiata dagli attacchi soprattutto dei Costoboci durante il III secolo.
          Nel 250 vicino alla città, l'imperatore Decio ottenne la vittoria sui Goti sotto Cniva nella battaglia di Nicopoli ad Istrum.


          Sotto Costantino, a cominciare dal 306, gli edifici danneggiati dell'agorà settentrionale vennero sostituiti da altri due edificati in opus mixtum e divisi in tre navate da file di grandi pilastri, il che fa supporre che si trattasse di horrea (magazzini), dato che anche altre città vicine (come Tropaeum e Zaldapa) nello stesso periodo edificarono horrea anziché basiliche.

          IN MEMORIA DI TRAIANO PER LA VITTORIA SUI DACI
          Questi horrea probabilmente facevano parte della grande rete di rifornimento per l'esercito del Danubio, rifornito attraverso gli horrea verso la fine del III secolo e l'inizio del IV secolo.

          Nel 447, la città fu distrutta dagli Unni di Attila, ma forse era già stata abbandonata prima dell'inizio del V secolo.

          Con la caduta dell'impero Romano d'Occidente il territorio bulgaro passò sotto il dominio dell'Impero Bizantino. Così verso la metà del V secolo, cessata l'invasione degli Unni, vennero ricostruite le mura adiacenti al muro meridionale della città vecchia rendendole più spesse e più alte. Sembra le vecchie mura fossero in pessime condizioni e non fosse possibile ripararle, e poi la loro notevole lunghezza di 1,8 km richiedeva più difensori di quanti ne fossero disponibili.

          La nuova città aveva dunque un'area di 1/4 della città originale e racchiudeva i pochi edifici, soprattutto militari e le chiese, secondo l'uso dell'epoca nell'area danubiana. La più grande area delle vaste rovine (21,55 ettari) della classica Nicopoli rimase deserta. La parete sud della città vecchia venne ricostruita come la parete nord di quella nuova.

          Le sue torri furono costruite su edifici distrutti e abbandonati e nelle nuove strutture furono usati blocchi di pietra di reimpiego, spesso ornati. Le torri erano a circa 15 m di fronte al muro alto 10 m. e il loro esterno simulava la pietra con scanalature incise nella malta a imitazione dei blocchi. La vecchia porta sud in seguito subì anche un'importante ricostruzione per compensare il terreno circostante più alto poiché la porta era situata in una cavità.

          La città divenne un centro episcopale durante il primo periodo bizantino. Venne distrutta dagli Avari e dagli Slavi alla fine del VII secolo. durante le guerre avari-bizantine. Sulle sue rovine sorse in seguito un piccolo insediamento bulgaro (IX-XIV secolo).



          LA DECADENZA

          Si dice che Nicopoli ad Istrum sia stata la culla della tradizione letteraria germanica, poichè nel IV secolo, il vescovo gotico, missionario e traduttore Ulfilas (Wulfila) ottenne il permesso dall'imperatore Costanzo II di emigrare con il suo gregge di convertiti in Mesia stabilendosi vicino a Nicopoli ad Istrum nel 347-8. Qui ideò l'alfabeto gotico onde cercare di sostituire l'alfabeto greco che normalmente si usava.

          Poichè il latino era caduto in disuso, togliendo anche l'uso del greco, le grandi opere letterarie, poetiche, mitologiche e storiche del passato sarebbero sprofondate nel dimenticatoio e l'ignoranza avrebbe regnato sovrana. Si sa che a un popolo ignorante il potere può raccontare ciò che vuole, e così fu. Naturalmente Ulfilas invece fece curare da un gruppo di studiosi cattolici la traduzione della Bibbia dal greco al gotico.
          Nikopolis fu una delle più importanti fortezze dell'impero bulgaro medievale e una delle sue ultime roccaforti contro gli invasori turchi ottomani nel 1390.



          LA CITTA' NUOVA

          La città classica fu progettata secondo il sistema ortogonale, con il foro circondato da un colonnato ionico e molti edifici, una sala a due navate successivamente trasformata in una basilica e altri edifici pubblici Le nuove architetture e sculture somigliano molto a quelle delle antiche città dell'Asia Minore.

          L'agorà conteneva una statua di Traiano a cavallo, nonché altre statue di marmo e un colonnato ionico. C'era una basilica a tre navate, un bouleuterion, un tempio di Cibele, un piccolo odeon, terme (bagni pubblici) e un singolare edificio romano inciso con termoperiatos, un edificio riscaldato con negozi e spazi chiusi per passeggiate e affari incontri. Sono state anche scavate alcune case ed edifici cittadini.

          Un edificio pubblico unico, un thermoperipatos, è stato identificato finora solo a Nicopolis ad Istrum, e in nessun'altra città dell'Impero Romano. Occupava un'intera insula e fu costruito sotto Commodo nel 184-5 sulle rovine di un precedente edificio. Probabilmente era usato per il commercio e includeva dei negozi. Crollò nel IV sec. e un altro edificio più tardi lo sostituì edificandolo al disopra di esso.

          La città era fornita da tre acquedotti e aveva diversi pozzi d'acqua, molti dei quali sono stati rinvenuti attraverso gli scavi archeologici. L'acquedotto occidentale della lunghezza di 25 km aveva un ponte, lungo quasi 3 km e alto quasi 20 m, che trasportava acqua sull'intera valle del fiume Rositsa.

          Il suo bacino idrografico del II secolo si trova vicino alla città di Musina nel comune di Pavlikeni, a ovest della città romana, dove raccoglie ancora acqua dalle sorgenti carsiche all'interno della grotta di Musina. Un grande castellum aquae di questo acquedotto si trova ad ovest della città.


          Nel 2015 sono stati rivelati i resti di un enorme edificio che probabilmente era la residenza dell'agoranomus o curule aedile, un ufficiale pubblico incaricato delle operazioni commerciali e di mercato nelle città greche e romane.

          L'obelisco di Quinto Giulio, un aristocratico di Nicopoli, si erge ancora a 14 m di altezza nella campagna vicino a Lesicheri, a circa 12 km a ovest della città. Numerosi reperti sono esposti nel Museo regionale di storia Veliko Tarnovo.

          Nel 2018, gli archeologi hanno trovato un altare dedicato alla Dea Tyche in una piccola piazza nell'angolo sud-occidentale del complesso del Forum, con un'iscrizione in greco antico che è un epigramma modificato di Demostene.


          BIBLIO
          - Ruscu, Ligia Cristina - "On Nicopolis AD Istrum and Her Territory." - Historia: Zeitschrift Für Alte Geschichte - 56, no. 2 - 2007 -
          - Simeonov Topalilov -A Note on the Name of Nicopolis ad Istrum - Open Archaeology - 2018 -
          - Ronald Syme - The Provincial at Rome and Rome and the Balkans - a cura di Anthony R. Birley - Exeter - University of Exeter Press - 1999 -
          - Ivan Tsarov - “The Aqueducts in the Bulgarian Lands, 2nd-4th century AD” -
          - Alexander A. Vasiliev - History of the Byzantine Empire - Vol. I - The University of Wisconsin Press - 1980 -

          DOMUS TRANSITORIA DI NERONE

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          RICOSTRUZIONE GRAFICA (By https://www.katatexilux.com/)

          L'imperatore Nerone, prima di far erigere la Domus Aurea, aveva già fatto costruire la Domus Transitoria, per collegare le tenute imperiali del Palatino con gli Horti Maecenatis sull'Esquilino, che però bruciò interamente nel grande incendio del 68. Ne sono stati rinvenuti dei resti sotto la Domus Flavia sul Palatino.

          Lo storico Svetonio racconta come già fece scandalo a Roma il grande impegno di soldi e maestranze che Nerone aveva dedicato all’edificazione del suo magnifico palazzo privato: la Domus Transitoria, che permetteva di “transitare" dal Palatino all’Esquilino, seguita, dopo l’incendio del 64 d.c., dalla Domus Aurea. E infatti le pitture, gli stucchi e i marmi che la decorano furono un'anticipazione dello splendore e munificenza che profonderà nella Domus Aurea.

          Ma soprattutto furono una delapidazione dell'erario di stato, giustamente poi esecrato da traiano che lo trovò profondamente immortale verso il popolo, tanto che fece abbattere la lussuosissima dimora per crearci su, almeno su una parte di essa, le famose Terme di Traiano, con cui il popolo si riprendeva il suo spazio e il suo divertimento.

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          Ma Traiano fu un "optimo princeps", onesto, generoso, intelligente e valoroso, e il popolo lo amò, ma cosa strana o almeno insolita, lo ammirò e lo amò anche il senato, ammirato dal suo profondo senso di giustizia, dalla sua sobrietà e dal suo rispetto per tutto l'impero, dal più ricco dei senatori al più infimo dei plebei.

          Ma chi era Nerone? Perchè i giudizi su di lui furono così controversi? Spesso odiato dal senato ma molto apprezzato dal popolo, verso cui era estremamente munifico nell'apprestargli spettacoli da capogiro allestiti a prezzi astronomici.

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          NERONE

          Poichè Nerone dimostrava maggior affetto verso la zia Domizia, com'era naturale che fosse, visto che l'aveva allevato, Agrippina la accusò di complotto contro l'imperatore, facendola condannare a morte. Costrinse inoltre il figlio undicenne a testimoniare contro la zia, unica figura materna della sua vita. Inoltre lo fece fidanzare con Ottavia figlia di Claudio, di otto anni. Insomma lo usò come uno strumento.

          C'è da meravigliarsi che Nerone fosse un pessimo soggetto? Perchè pessimo lo era, aveva ucciso sua madre e sua moglie, più tutto il resto, incluso la persecuzione dei cristiani. Oltre a tutto era un mitomane.

          Svetonio (Nero, 38). « mirifica…ad lavandum institutum, opus ceteres haud multo dispar”. (Sesto Aurelio Vittore, "de Caesaribus).
          "Con essa vennero distrutte le case degli antichi generali, ornate delle spoglie dei nemici vinti, i templi costruiti dai re di Roma o al tempo delle guerre di Gallia e di Cartagine, e tutti i più importanti monumenti dell'antica repubblica".

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          Molti pensarono fosse stato l'imperatore a ordinare l'incendio, ma non ci sono prove a riguardo. Gli imperatori romani davano molta libertà alla nuova religione di volta in volta; e alcuni di loro, mossi da una sorta di sincretismo religioso, cercarono perfino di alleare il culto del Cristo con il culto ufficiale dell'impero.

          Lo storico Giovanni Malala, (Siria 491 – 578) dice che Nerone fece indagini oneste sulla nuova religione e che, all'inizio, si mostrò piuttosto favorevole nei suoi confronti; un fatto non del tutto improbabile, se prendiamo in considerazione le circostanze dell'appello di Paolo, la sua assoluzione e le sue relazioni con Seneca e con i convertiti de domo Cæsaris "della casa di Cesare".

          Fatto sta che per stornare i sospetti la colpa infine venne data ai cristiani. Pur essendo stati espulsi da Claudio, molti cristiani erano rimasti a Roma fondando una importante comunità, aderita soprattutto da schiavi e liberti. La persecuzione fu feroce e sanguinosa.



          Placati gli animi Nerone chiamò gli architetti Severo e Celero per il nuovo piano regolatore, così Roma fu riedificata con strade ampie e dritte, case più basse e soprattutto di pietra perchè meno incendiabili.

          Le macerie furono talmente tante che i carri giorno e notte le caricavano e le portavano fuori Roma, si che con esse vennero in parte colmate le paludi di Ostia.

          Ma anche la reggia dell'imperatore fu ricostruita e sorse così la splendida Domus Aurea che andava dal Palatino al Celio e all'Esquilino. Quella di cui Nerone disse poi: "Ecco una casa degna di un uomo", ma se la godette poco perchè di lì a poco venne ucciso.




          LA TRANSITORIA

          Oggi, dell’originario edificio neroniano, pur vittima del famoso e terribile incendio che devastò Roma, è ancora possibile riconoscere alcuni ambienti molto suggestivi. Tra questi, uno spazio occupato da un ninfeo con giochi d’acqua tra forme architettoniche che ricordano una quinta teatrale, ma pure un triclinio circondato da colonne di porfido e pilastri in marmi policromi, destinato al riposo e allo svago dell’imperatore.

          Altre due stanze recano, invece, i segni della preziosa decorazione di affreschi, stucchi e pavimenti marmorei in opus sectile, che sono in parte conservati e visibili nel vicino Museo Palatino. 

          Questi affreschi, individuati nel 1912 sotto il triclinio della Domus Flavia e poi staccati dal loro sito nel 1956, per qualità stilistica e ricchezza particolarissima dei materiali impiegati, occupano un posto di straordinaria importanza nel repertorio dell’arte di tutta l'età neroniana. 



          IL MUSEO PALATINO

          Il Museo Palatino è stato allestito nell’ex convento delle Monache della Visitazione, costruito nel 1868 sui resti del palazzo di Domiziano, dove l’archeologo Alfonso Bartoli, nel 1930 allestì il nuovo Antiquario Palatino. Per consentire l’ampliamento degli scavi archeologici allora in corso sul colle, venne fatto demolire l’edificio in stile neogotico eretto sulla sua sommità.

          Successivamente molti dei materiali rinvenuti nei numerosi scavi dell’Ottocento che interessarono il colle Palatino furono trasferiti al Museo delle Terme (di Diocleziano), e in seguito, solo una minima parte della collezione fece definitivamente ritorno al Palatino.

          Verso l 1990 il museo fu riorganizzato, soprattutto in occasione del Bimillenario Augusteo, migliorandone la fruibilità grazie anche a installazioni multimediali. 


          Il percorso si articola su due piani. Al pian terreno, in ambienti che conservano le strutture originarie delle domus preesistenti, è narrata la storia del colle dalle origini di Roma fino all’avvento del Principato (I secolo a.c.).

          Al piano superiore, fra le molte opere esposte, ed esattamente nella sala VII, si conservano i mosaici e le preziose pitture provenienti dalla neroniana Domus Transitoria.



          SVETONIO

          Svetonio, a proposito della prima residenza di Nerone sul Palatino, scriveva che “tutto era coperto d’oro, pietre preziose e madreperla”, e non esagerava affatto. A onore del vero, i dipinti del ninfeo neroniano, con inserti di pasta vitrea e pietre dure, testimoniano esattamente le parole dell’autore, insieme ai pavimenti e alle pareti intarsiati di marmi colorati rari e pregiatissimi. 


          Lo schema decorativo delle volte affrescate, ora esposte al Museo Palatino, riproduce un soffitto a cassettoni, con un telaio virtuale di travi rosse a inquadrare, tra rameggi a grottesche, dove si manifestano le scene figurate dei grandi eroi della tradizione omerica.

          D'altronde Nerone, grande appassionato dell'arte greca, sia per la pittura e la scultura, sia per la architettura, nonchè la poetica e la musica, non poteva ignorare la grande epica greca, lui che si sentiva un vate nella poesia e nella musica della sua cetra, lui che aveva partecipato alla gara greca, in Grecia, dei migliori canti poetici, e guarda caso aveva vinto su tutti.

          E ti pareva che i greci, dopo aver accolto in modo fantastico e sontuoso l'imperatore di tutto l'impero d'occidente e d'oriente, non lo facessero vincere su tutti, lui che a un suo cenno poteva ridurre in polvere la giuria, i partecipanti e l'intera Grecia?



          Ma come non bastasse aveva pure vinto una gara della corsa dei carri. L'imperatore viaggiò fra le isole della Grecia, a bordo di una lussuosa galea sulla quale divertiva gli ospiti (fra questi anche tutti gli stupefatti notabili delle città visitate, compresa Atene) con prestazioni artistiche, naturalmente sue.
          Proprio alle Olimpiadi Nerone fu protagonista di un'altra vittoria falsata: mentre partecipava alla corsa dei carri venne sbalzato fuori dal cocchio e rimase indietro; tuttavia gli avversari, probabilmente per paura di ripercussioni future, fecero fermare i cavalli per permettere all'imperatore di rialzarsi, lasciandogli poi vincere la gara.

          Prima di lasciare la Grecia, diede nuovamente prova della sua predilezione per la cultura ellenica, annunciando personalmente - ponendosi al centro dello stadio d'Istmia, presso Corinto, prima della celebrazione dei giochi panellenici - la decisione di restituire la libertà alle polis, eliminando il governo provinciale di Roma, un fatto che provocò nuovi malumori dei nobili, soprattutto per la perdita dei tributi.




          RIAPRE LA TRANSITORIA

          "Dopo dieci anni di alacri restauri la Domus Transitoria apre al pubblico. Si scendono i gradini per almeno dieci metri di profondità, la temperatura cambia, l'umidità si fa pungente, e il Palatino svela un tesoro praticamente sconosciuto di marmi colorati sui pavimenti, di volte affrescate con scene omeriche e rivestimenti di luminose paste vitree, di ninfei e colonne, di pareti con raffigurazioni vegetali, e persino un graffito che riproduce un uccellino. 

          Siamo insomma nella Domus Transitoria, la prima reggia di Nerone, concepita con la grandiosità dei sovrani ellenistici e lo sfarzo dei faraoni dell'antico Egitto, e vissuta per una decina di anni dall'imperatore (come casa di passaggio dal Palatino all'Esquilino), fino all'incendio del 64 d.c. che ne decretò la sorte. 

          Sulle sue murature, infatti, Nerone fece costruire la più famosa Domus Aurea. Poi, sotto la scure della "damnatio memoriae", tutto fu seppellito e dimenticato. Ma di una cosa gli archeologi sono sempre più convinti, dopo ben dieci anni di faticoso restauro: che tutto il lusso e l'estro architettonico della leggendaria Domus Aurea derivino dalla prima reggia di Nerone.


          «Probabilmente lo stesso Fabullo, il pittore citato da Plinio per la Domus Aurea, ha messo mano in questa prima dimora», suggerisce l'architetto Maddalena Scoccianti che ha diretto il restauro.

          Date a Nerone quel che è di Nerone, allora. E lo spettacolo è da vertigine. Per la prima volta, da oggi, la Domus Transitoria apre al pubblico.

          Un traguardo per la direttrice del parco archeologico del Colosseo Alfonsina Russo che con un accordo con il Museo archeologico nazionale di Napoli è riuscita a far tornare a casa, per un lungo prestito, gli affreschi originali della reggia staccati dai bulimici Farnese subito dopo la scoperta nel 1721 e confluiti nelle collezioni borboniche.



          Un colpaccio, per comprenderne tutta la bellezza: «Una prova tecnica di quella che sarà poi la Domus Aurea», commenta la Russo. Addirittura, l'ipotesi che prende corpo è che alcune porzioni di decorazioni siano state staccate per essere riallestite nella Domus Aurea:

          «Troppo preciso, accurato il taglio della spoliazione», 
          riflette la Scoccianti. 
          Il percorso sotterraneo, articolato in oltre 800 metri quadrati, lascia scoprire 
          «il padiglione estivo per i lussuosi banchetti di Nerone » 
          racconta l'archeologo Alessandro D'Alessio 
          « che si affacciava su un ninfeo di cascate e giochi d'acqua 
          articolati su una fronte-scena teatrale». 
          Acqua e luce, sono il leitmotiv.

          La sorpresa la regala la sequenza di ambienti, con vaste porzioni di pitture. 

          Stanze che hanno svelato un raffinato sistema ingegneristico di isolamento termico. 

          Fino al mistero della grande latrina da oltre 50 posti. 

          L'ipotesi è che fosse al servizio degli operai-schiavi impiegati nell'impresa edilizia della Domus Aurea, che come la precedente dimora si estendeva dal Palatino all'Oppio. 

          A rendere ancora più suggestiva la visita, sono le installazioni multimediali curate da Stefano Borghini: visori 3D e proiezioni che raccontano con rigore scientifico l'antico padiglione di Nerone. Una chicca, il videomapping curato da VisivaLab di Riccardo Auci che svela le decorazioni vegetali riscoperte dal restauro.



          BIBLIO

          - Federico Castelli Gattinara - Sul Palatino riapre la Domus Transitoria - da Il Giornale dell'Arte n° 396 - 12 aprile 2019 -
          - Roma, apre al pubblico la Domus Transitoria: la prima reggia di Nerone sul Palatino visitabile dopo 10 anni di lavori - 12 aprile 2019 - Finestre sull'Arte - Rivista Online di Arte Antica e Contemporanea
          - Brian H. Warmington - Nerone: realtà e leggenda - Roma-Bari - Laterza 1973 -
          - Carlo Palumbo, La vita di Nerone, Le Grandi Biografie, Milano, Peruzzo, 1985 -
          - Dimitri Landeschi - Nerone, il grande incendio di Roma e la congiura di Pisone - Edizioni Saecula - 2015 -
          - Dimitri Landeschi - "Seneca. Un filosofo al potere" - Edizioni Saecula - 2019 -
          - Lucio Anneo Seneca - La brevità della vita - Torino - Einaudi - 2013 -
          - Dimitri Landeschi - Terrore e morte nella Roma di Nerone - Boopen - 2011 -
          - Girolamo Cardano - Elogio di Nerone: mansuetudine, acume politico e saggezza di un esecrato tiranno - Milano - Gallone Editore - 1998 -


          COLONNA DEI GOTI - COLUMNA GOTHORUM

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          LA COLONNA DEI GOTI

          La Colonna dei Goti è una Colonna della Vittoria romana del III o IV secolo d.c. situata oggi nel Parco Gülhane, a Istanbul, in Turchia, alta 18,5 m, in marmo proconnesio (bianco). La colonna, sormontata da un capitello corinzio, ha alla sua base una iscrizione latina che commemora una vittoria romana nel corso degli invasori Goti; venne eretta tra il 268 e il 337.

          Fortunae Reduci OB DEVICTUS Gothos ( "Per la Fortuna Reduce, che torna in ragione della vittoria sui Goti "), sembra però che sotto vi fosse una precedente iscrizione latina. La datazione e la dedizione originale della colonna sono incerte.

          Molto probabilmente, la colonna fu eretta per onorare le vittorie di entrambi: Claudio II il Gotico (r. 268-270), e Costantino il Grande (r. 306-337), entrambi noti per aver conseguito vittorie sui Goti. 

          Secondo lo storico, astronomo e teologo izantino Niceforo Gregorio ( c. 1295-1360), la colonna è stata un tempo sormontata da una statua di Byzas il Megarian. Byzas fu il fondatore semileggendario di Bisanzio e Megara è città storica dell'Attica occidentale, in Grecia.

          BYZAS IL FONDATORE DI BISANZIO

          Byzantion fu dunque un'antica colonia greca, sulle cui rovine venne costruita la città di Costantinopoli. Il suo fondatore, Byzas, era figlio del re Nisos di Megara. Ma secondo la mitologia greca, Byzas era figlio di Poseidone e di sua madre, Ceroessa, che era la figlia di Io e di Zeus.

          Altre fonti citano invece una statua della Dea Tyche, comunque ambedue le statue, sicuramente entrambe venerate a Bisanzio, sono andate entrambe perdute. In ogni caso la colonna rappresenta il più antico monumento di epoca romana, che probabilmente precede la fondazione di Costantinopoli, ancora esistente nella città.


          BIBLIO

          - Giorgio Ravegnani - La storia di Bisanzio - Roma - Jouvence - 2004 -
          - Cyril Mango - "La Via Trionfale di Costantinopoli e il Golden Gate" - 2000 -
          - Ralph-Johannes Lilie - Bisanzio la seconda Roma - Roma - Newton e Compton - 2005 -
          - Alain Ducellier, Michel Kapla - Bisanzio (IV-XV secolo) - Milano - San Paolo - 2005 -
          - A.A.Vasiliev - History of the Byzantine Empire - Univ. Of Wisconsin Press - Vol.I -

          APULI ( Nemici di Roma )

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          DANZA FUNEBRE APULA

          L'Apulia era una regione dell'Italia antica confinante a nord-ovest con il Sannio, a sud-ovest con la Lucania e a sud-est con l'allora Calabria (Salento), e a nord-est col mare Adriatico. Il nome Apulia deriva dal nome indigeno "Japudia", derivato dal termine greco Ἰαπυγία, poi latinizzato in Iapygia. La sua fascia costiera era in gran parte rettilinea, tranne che all'estremo nord ove si ergeva il promontorio del Gargano. 

          LA POSIZIONE DELL'APULIA (INGRANDIBILE)
          Al centro godeva di una vasta pianura detta il Tavoliere che si affacciava sul golfo di Manfredonia. All'estremo sud invece, oltre le Murge, la regione si affacciava sul golfo di Taranto, il cui dominio marittimo spettava però alla colonia magnogreca di Taras.

          Sulla lingua si pensa che gli Apuli, pur possedendo un proprio alfabeto di origine greca e di forma messapica, si servissero soprattutto della lingua osca come le vicine popolazioni italiche. Così, mentre nelle legende delle antiche monete coniate a Teanum Apulum (oggi Teati, antecedenti al 300 a.c.) si leggono iscrizioni esclusivamente in lingua osca, sulle monete rinvenute a Rubi e Azetium sono invece incise legende trilingui in osco, greco e messapico (quest'ultimo di derivazione iapigia). 

          La progressiva colonizzazione romana del territorio apulo determinò comunque la graduale scomparsa dei diversi idiomi locali in favore del latino e la civilizzazione della zona che aveva comunque un suo aspetto artistico di grande levatura.

          VASI DAUNI

          APULIA IAPIGIA E PUGLIA

          Occorre distinguere l''Apulia, dalla Iapigia e dalla Puglia. Tutti i popoli che abitavano la regione Japigia erano Iapigi, pur essendo distinti nei tre gruppi tribali dei Dauni, Peucezi e Messapi. La Japigia fu popolata in origine da genti sia illiriche che greche, e comprendeva anticamente i territori della Daunia (la Puglia settentrionale) Peucezia (Puglia centrale) e la Messapia (antico Salento). 

          - La Daunia costituiva la Japigia, un territorio che si estende dal Gargano al Vulture e dai Monti Dauni al golfo di Manfredonia, includendo il Tavoliere delle Puglie e confinando con il Sannio all'altezza del bacino del Fortore, mentre la valle del Cervaro è condivisa con l'Irpinia. 

          SCULTURA DAUNIA

          Dal 1962 al 1969 venne riportato alla luce un abitato di Monte Saraceno, provvisto di fossato difensivo, scavato nella roccia calcarea. Un fossato di m 15x5 isolava il villaggio dalla necropoli, sovrastato da una muraglia alta 6 m, necropoli che rivelò ben 500 tombe. Le abitazioni erano del tipo a capanna sub-circolare, o a ferro di cavallo, fatte di frasche e pelli con sostegni di legno.

          I Dauni furono anche gli autori delle famose steli daunie, blocchi lapidei scolpiti risalenti al VI secolo a.c., trovate nella piana sud di Siponto, presso Manfredonia, e conservate nel Museo nazionale di quella città. con figure umane maschili e femminili fortemente stilizzate ed infisse verticalmente nel terreno, in corrispondenza delle sepolture di coloro che raffiguravano.

          - I Peuceti abitavano la parte centrale dell'Apulia, più o meno l'attuale provincia di Bari, in un'epoca in cui l'attuale capoluogo pugliese era ancora un centro minore e insieme ai Dauni e ai Messapi costituivano il popolo degli Iapigi (o Apuli). I Dauni si stanziarono nella Puglia centrale, con centri principali quali Thuriae (Turi), Butuntum (Bitonto), Rubi (Ruvo), Silvium (Gravina), Putinianum (Putignano) e Azetium (Rutigliano).

          CAVALIERE MESSAPO

          - I Messapi, popolazione di origine illirica o egeo-anatolica, abitavano la penisola salentina, posta tra il mar Ionio a ovest e il mar Adriatico a est, che figurativamente costituisce il tacco dello stivale italiano. Quasi tutte le città messapiche erano costruite su un luogo elevato ed erano cinte da una o più cerchie di mura costruite a blocchi, regolarmente squadrati, di dimensioni medie di metri 1,30×0,6. 

          La fondazione della città di Taranto, importantissimo porto della Magna Grecia, è datata al 706 a.c., ad opera di alcuni coloni Spartani giunti in questa zona per necessità di espansione e di commercio. La colonia tarantina Taras lottò a lungo contro i Messapi. come natta Erodoto, Messapi e Lucani, alleatisi tra loro, sterminarono gli eserciti di Tarentini e Reggini nel 473 a.c.. 

          Dal 343 a.c. al 338 a.c. i Tarantini si scontrarono nuovamente con i Messapi, ma vennero sconfitti. A differenza dell'antica Japigia, popolata da Dauni, Peuceti e Messapi, nell'Apulia abitavano solo gli Apuli ma, a differenza dell'attuale Puglia, il loro territorio non comprendeva la penisola salentina, la quale costituiva invece una regione a sé stante denominata Calabria.

          VASO APULO - PERSEO SALVA ANDROMEDA

          La civiltà apula fu a stretto rapporto sia con i Greci, che all'epoca, dominavano il Mediterraneo centrale, sia con i Sanniti che dominavano nell'entroterra. Necessariamente gli Apuli, per mantenere una certa autonomia, dovettero appoggiarsi sempre più a Romani:

          - Nel 326 a.c. gli Apuli si allearono con i Romani contro i Sanniti.

          - Nel 320 a.c. i Romani assediarono Lucera, in mani sannitiche, ove nel 314 a.c. fondarono una colonia latina, la prima nella regione.

          - Durante le guerre puniche gli Apuli si allearono con i Romani, ma passarono (a esclusione di Lucera) dalla parte dei Cartaginesi dopo la sconfitta alla battaglia di Canne nel 216 a.c.;

          - Gli Apuli, dopo il decisivo assedio di Arpi del 214 a.c., si schierarono definitivamente dalla parte dei Romani ma non aderirono attivamente alla guerra sociale del 91-88 a.c. (ad eccezione di Canosa e della vicina Venosa).

          - Infine l'imperatore Augusto, intorno al 7 d.c., istituì la regio II Apulia et Calabria che includeva però, oltre all'Apulia propriamente detta, anche l'ex-colonia greca di Taras, il Salento, la città di Benevento e il Sannio irpino.


          BIBLIO

          - Strabone -  Geografia - VI -
          - Marcella Chelotti - Epigrafia e territorio, politica e società: temi di antichità romane - vol. 5 - Edipuglia - 1983 - 
          - Edward Herring - Daunians, Peucetians and Messapians? Societies and Settlements in South-East Italy - 2012 - 
          - Giuseppe Micali - XVI – Iapigi, Dauni, Peucezi e Messapi - Storia degli antichi popoli italiani - Milano - 1836 -
          - Angelo Russi - Teanum Apulum - Roma - 1976 -
          - Popoli e culture dell'Italia preromana. Gli Iapigi, gli Apuli e i Dauni - Il mondo dell'archeologia - Istituto dell'Enciclopedia Italiana - 2002-2005 -

          I GUERRA GIUDAICA ( 66-70 )

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          IL TRIONFO ROMANO SUI GIUDEI - ARCO DI TITO


          LE TRE GUERRE

          Le guerre giudaiche sono le tre guerre che gli antichi Romani combatterono contro la popolazione giudaica in rivolta:

          - la prima, nel 66-70, si svolse nel territorio dell'attuale Israele, iniziando sotto il regno di Nerone e terminando sotto il regno di Vespasiano, e culminò con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme ad opera di Tito, figlio di Vespasiano ed imperatore di Roma dal 79 all'81;

          - la seconda, nel 115-117, chiamata anche "guerra di Kitos", colpì le città della Diaspora, iniziando e concludendosi sotto il regno di Traiano;

          - la terza, nel 132-135, interessò parte del territorio ora conosciuto come Palestina, iniziando e concludendosi sotto il regno di Adriano, sostenuta da Simon Bar Kokheba, che si credeva il Messia. Dopo questa, il nome di Iudaea, fu cambiato in quello di Syria Palaestina.



          GIUSEPPE FLAVIO 

          «Storia della guerra dei Giudei contro i Romani» o "Bellum iudaicum"è un'opera dello storico romano di origine ebrea Flavio Giuseppe, composta tra il 93 e il 94 d.c. e pubblicata nel 75 in greco, che narra la storia di Israele dalla conquista di Gerusalemme da parte di Antioco IV Epifane (164 a.c.) alla fine della I Guerra Giudaica (74).

          La diaspora ebraica si verificò a seguito della fine di un'entità politica ebraica in Palestina dopo le conquiste militari dei romani e la duplice distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 e nel 135 d.c .. Il tema del ritorno in Palestina degli ebrei dispersi divenne uno dei più comuni della letteratura apocalittica e del messianismo giudaico.



          LE CAUSE

          I rapporti tra Romani ed Ebrei si deteriorarono dall'anno 40, quando secondo Filone di Alessandria, l'imperatore Caligola avrebbe tentato di far collocare una statua con le sue fattezze nel tempio di Gerusalemme, sostenendo di essere un Dio e pretendendo di essere venerato, pena la morte per la disobbedienza. I Giudei si opposero, comunicando al legato di Siria che Caligola avrebbe dovuto annientare l'intero popolo, in quanto la legge ebraica vietava di porre nel Tempio qualsiasi immagine, sia pure di divinità.

          Nel 41 Caligola morì e la questione finì lì ma, secondo Giuseppe Flavio, il malgoverno dei prefetti romani, come Lucceio Albino e Gessio Floro, e l'avversione all'aristocrazia laica e sacerdotale sempre più corrotte, accrebbero l'idea di essere nel periodo di tribolazione premessianica (Libro di Daniele) con il manifestarsi di numerosi profeti ritenuti mendaci.

          Per giunta nel 66, il procurator Augusti della Giudea romana, Gessio Floro, pretese che fossero prelevati diciassette talenti dal Tempio e, trovando opposizione, inviò i propri soldati, che provocarono la morte di 3.600 persone. Per giunta Floro, come dimostrazione di fedeltà da parte dei Giudei, ordinò che accogliessero due coorti dell'esercito romano dirette da Cesarea a Gerusalemme. Le coorti avevano l'ordine di attaccare la folla qualora avesse insultato Floro, cosa che avvenne, provocando un altro intervento contro la popolazione provocando una sommossa.

          Floro, alla presenza del governatore di Siria Gaio Cestio Gallo, dichiarò che erano stati i Giudei ad iniziare i disordini. Ma gli ispettori di Cestio diedero ragione ai Giudei, la situazione sembrò distendersi, ma le frange ebraiche più radicali sterminarono la guarnigione romana di Masada,  mentre il sacerdote del Tempio, proibì di eseguire i consueti sacrifici in favore dei Romani e occupò il Tempio. 

          Floro inviò duemila cavalieri a domare la rivolta, che si era estesa per tutta la città alta. I rivoltosi,  incendiarono gli edifici romani, il sommo sacerdote del Tempio venne assassinato e i pochi seguaci scampati fuggirono a Masada.

          A Cesarea Floro fece uccidere tutti i Giudei della città, circa diecimila, facendo estendere la ribellione a tutta la Giudea settentrionale, dove Giudei e Siri si massacrarono a vicenda. Infine Cestio intervenne di persona con la XII legione, saccheggiando diverse zone della Giudea e si diresse verso Gerusalemme, dove si stava svolgendo la Festa delle Capanne, una festa di pellegrinaggio di sette giorni. 

          I rivoltosi vennero sconfitti e Cestio poté conquistare alcuni quartieri di Gerusalemme. Molti Giudei però giunsero da altre regioni in soccorso dei rivoltosi e l'esercito di Cestio fu quasi completamente distrutto mentre Cestio si salvò con difficoltà.

          I rivoltosi diedero poi ad Eleazaro la guida della rivolta, che organizzò la difesa coinvolgendo i suoi uomini più fedeli, mentre Giovanni di Giscala (Giovanni ben Levi), capo di una nuova fazione di rivoltosi, complotta contro Giuseppe ben Mattia (poi divenuto Giuseppe Flavio) per sottrargli il controllo della Galilea, affidatogli da Eleazaro.

          RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI GERUSALEMME


          LA I GUERRA GIUDAICA

          La I Guerra Giudaica fu combattuta tra l'Impero romano e gli Ebrei ribellatisi nel 66, che riuscirono a infliggere una pesante sconfitta ai Romani e proseguì fino al 70, anno in cui le legioni di Tito entrarono a Gerusalemme dopo un lungo assedio, che si concluse con la distruzione del Secondo Tempio. L'ultimo episodio di rilievo fu l'assedio della roccaforte di Masada che cadde nelle mani dei Romani solo nel 73.



          VESPASIANO

          Vespasiano, fedele e capace combattente dell'esercito romano, aveva combattuto in Tracia, ed era stato Questore nella provincia di Creta e Cirene, poi aveva sposato Flavia Domitilla, figlia di un cavaliere, da cui ebbe due figli: Tito e Domiziano, in seguito imperatori, ed una figlia, Domitilla. Vespasiano divenne poi Edile e successivamente venne incaricato della conduzione della guerra in Giudea. 

          All'epoca Vespasiano si trovava in Grecia, al seguito di Nerone, per cui inviò il figlio Tito ad Alessandria d'Egitto, per rilevare la legio XV Apollinaris, mentre egli stesso attraversava l'Ellesponto, raggiungendo la Siria via terra, dove concentrò le forze romane e numerosi contingenti ausiliari di re clienti (tra cui quelli di Erode Agrippa II). 

          Nel 66, quando Nerone (Anzio 37 – Roma 68), venne informato della sconfitta subita in Giudea dal suo legatus Augusti pro praetore di Siria, Gaio Cestio Gallo, colto da grande angoscia, pensò che solo Vespasiano fosse all'altezza del compito e lo spedì in Giudea.

          Ad Antiochia di Siria quest'ultimo concentrò e rafforzò l'esercito siriaco (legio X Fretensis), aggiungendo la legio V Macedonica e la legio XV Apollinaris, giunta dall'Egitto, più otto ali di cavalleria e dieci coorti ausiliarie, mentre attendeva l'arrivo del figlio Tito, nominato suo vice (legatus). Nel frattempo i Giudei assediarono disastrosamente Ascalona, ancora fedele ai Romani, i quali cominciarono la campagna occupando Seffori.

          MONETA CON VESPASIANO E LA DEA TICHE


          L'ESERCITO DI VESPASIANO

          Nel 67 Vespasiano dispone di un esercito imponente:

          - 3 legioni di 6.000 armati ciascuna:
                 la legio V Macedonica, il cui legatus legionis era Sesto Vettuleno Ceriale; 
                 la X Fretensis, il cui legatus legionis era Marco Ulpio Traiano; 
                 la XV Apollinaris, il cui legatus era il figlio Tito),
                 per un totale di 15.000 armati;
          - 23 coorti, di cui 
                10 erano milliarie, 
                le restanti quingenarie equitatae (600 fanti + 120 cavalieri), 
                per un totale di quasi 20.000 armati;
          - 6 alae di cavalleria, pari a 6.000 armati circa;
          - un cospicuo numero di truppe alleate (15.000 armati), raccolte tra i re "clienti": 
               Antioco IV di Commagene, 
               Erode Agrippa II e Gaio Giulio Soaemo, che fornirono ciascuno 2.000 fanti e 1.000 cavalieri,  
               l'arabo Malco II dei Nabatei inviò 1.000 cavalieri e 5.000 fanti.

          Il totale era quindi di ben 60.000 armati schierati da Vespasiano.



          GIUSEPPE FLAVIO

          «L'intera Galilea si trasformò in un mare di fuoco e sangue, subendo ogni tipo di sofferenza e rovina. Unica via di fuga, rimanevano le sole città fortificate da Giuseppe
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, III, 4.1.)

          Giulio Placido, dopo aver preso posizione, divise le sue truppe: i fanti vennero inviati nella città, mentre i cavalieri rimasero nell'accampamento ma con il compito di continue incursioni nel territorio nemico, al per non permettergli di organizzarsi, infliggendo loro  perdite umane, e devastando i territori limitrofi alle città dove i Galilei si erano rifugiati. 

          Giuseppe, a capo delle truppe ribelli galilee, avrebbe voluto riprendere la città di Zippori (o Siffori), ma lui stesso in passato l'aveva fortificata, rendendola inespugnabile anche ai Romani. La sua incursione provocò solo un inasprimento della guerra nella regione, poiché i Romani continuarono, di notte e di giorno, a devastare e saccheggiare le pianure, uccidendo tutti gli uomini validi alle armi e trascinando in schiavitù i più deboli. 

          Vespasiano mosse da Antiochia a Tolemaide (inverno, inizi del 67), dove gli vennero incontro gli abitanti di Zippori, la città più grande della Galilea, fedeli anche a Cestio Gallo, che ricevettero perciò nuovi armati romani a loro protezione (mille cavalieri e seimila fanti), sotto il comando di Giulio Placido. La città era di grande importanza strategica, per vigilare l'intera regione.



          TITO

          Frattanto Tito (Roma 39 - Aquae Cutiliae 81), figlio di Vespasiano, si congiunse col padre a Tolemaide, portando con sé la legio XV Apollinaris (inverno, inizi del 67), oltre a diversi contingenti di re locali. Tito aveva una forte intesa con suo padre e un buon legame con suo fratello che però molto lo invidiava, anche perchè il padre si fidava di Tito ma non di lui come combattente.

          TITO
          Di Tito si può dire che aveva avuto sempre un comportamento non esemplare, dedito a donne e amici in bagordi, ma come il padre divenne imperatore egli cambiò totalmente atteggiamento. Lasciò amici e bordelli e si pose al seguito del padre con grande senso di responsabilità, cambiando a tal punto con la gente e pure con i senatori che tutti lo presero in gran simpatia al punto che il Senato stesso, per quanto Tito fosse di nascita plebea, lo definì: "Delizia dell'umanità". 

          Ora l'esercito romano risultava composto da tre legioni e diciotto coorti ausiliarie, a cui si aggiunsero altre cinque coorti ed un'ala di cavalleria (provenienti da Cesarea marittima), oltre a cinque ali di cavalleria dalla Siria. A tutto ciò si aggiungevano 15.000 armati dei re "clienti", Antioco IV di Commagene, Erode Agrippa II, Gaio Giulio Soaemo e Malco II re dei Nabatei. Si trattava di un esercito imponente di 60.000 armati.

          Vespasiano, insieme con Tito, si trattenne a Tolemaide per completare la preparazione dell'esercito, mentre Placido faceva scorrerie per tutta la Galilea, uccidendo la maggior parte dei prigionieri. Vedendo che molti ribelli si rifugiavano nelle città fortificate da Giuseppe, Placido mosse contro quella meglio difesa, Iotapata, ma gli iotapateni informati del suo arrivo, preferirono attenderlo davanti alle mura della città e, appena i Romani giunsero in prossimità, si scagliarono di sorpresa. E poiché gli iotapateni risultavano più numerosi e più motivati, li sconfissero obbligandoli a ritirarsi.

          Allora Vespasiano decise di invadere la Galilea personalmente, facendo uscire le sue truppe da Tolemaide e giunto ai confini della Galilea si accampò, frenando i suoi soldati che erano ansiosi di combattere, e sperando di spaventare i nemici, infatti Giuseppe, che era accampato non molto distante da Siffori, vedendo che il terrore che incutevano i Romani nei suoi aveva generato molte defezioni, con i pochi rimasti si rifugiò a Tiberiade.

          Poi Vespasiano conquistò al primo assalto la città di Gabara, rimasta priva di uomini validi e Giuseppe, giunto a Tiberiade, scrisse ai governanti in Gerusalemme che se avessero deciso di continuare la guerra, gli inviassero adeguati rinforzi per fermare i Romani.



          IOTAPATA

          Intanto Vespasiano proseguì la sua avanzata in direzione di Iotapata, città ben fortificata e rifornita di viveri:
          «Vespasiano che era ansioso di occupare Iotapata, sapeva che la città si era trasformata in un rifugio di moltissimi nemici, oltre a rappresentare un loro caposaldo fortificato. Per questi motivi decise di inviare in avanguardia fanti e cavalieri a spianare la strada, che era un tortuoso sentiero montano, poco adatto per la fanteria, impraticabile per la cavalleria. E questi in quattro giorni riuscirono nell'impresa di creare una comoda strada per l'armata romana. Al quinto giorno, che coincideva con il 21 del mese di Artemisio (aprile), Giuseppe entrò in tutta fretta in Iotapata, provenendo da Tiberiade, e alzò il morale dei Giudei.»
          (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, III, 7.3.)

          MARCO ULPIO TRAIANO IL VECCHIO
          Iotapata lottò strenuamente e Vespasiano venne ferito a un piede, ma infine la città cadde con 40000 morti e 1200 sopravvissuti tra cui il comandante della piazzaforte, Giuseppe ben Mattia, ovvero Giuseppe Flavio che venne fatto prigioniero. Nel giugno del 67 la Legio V Macedonica, sotto il comando di Sesto Vettuleno Ceriale (n. 67 -71), fu inviata sul monte Garizim per reprimere una ribellione di Samaritani, mentre il legato di Vespasiano, Marco Ulpio Traiano, conquistò Iafa, uccidendo 12.000 difensori.

          La caduta di Iotapata, generò nei Giudei di Gerusalemme grande dolore e grande spavento nei confronti dei Romani, ma pure ira contro Giuseppe, che non era morto come avrebbe dovuto ma si era arreso:
          «Quando emerse la verità di Iotapata e si capì che la morte di Giuseppe era un'invenzione e che, al contrario, era ancora vivo e stava dalla parte dei Romani, tanto che dai loro comandanti aveva un trattamento migliore di quello che si riserva ad un prigioniero. Nei suoi riguardi, ebbero motivi di odio, non meno grande di quella simpatia che gli avevano tributato quando lo credevano morto. C'era chi imprecava contro di lui, chiamandolo vigliacco, chi traditore, e tutta la città provava nei suoi confronti sdegno e lanciava maledizioni contro lo stesso.»
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, III, 9.6.438-439)



          TOLEMAIDE

          Il quarto giorno del mese di Panemo (giugno), Vespasiano giunse con l'esercito a Tolemaide (Acri) e poi a Cesarea Marittima, una delle più grandi città della Giudea, dove gli abitanti erano in maggioranza greci. Essi accolsero l'esercito romano con grande giubilo, per la loro simpatia verso i Romani, ma ancor di più in odio ai vinti, tanto da chiedere a gran voce la morte di Giuseppe. 

          Vespasiano, però, non accordò la richiesta ma inviò a Cesarea le legioni V Macedonica e X Fretensis, mentre la XV Apollinaris la inviò a Scythopolis per non gravare con tutto l'esercito su Cesarea. Intanto gli anziani ed i notabili accorsero nell'accampamento romano e supplicarono Vespasiano di perdonare la popolazione cittadina affinchè la follia di pochi non pesasse sull'intera città e gli proposero di punire i responsabili della rivolta. 

          Il giorno seguente Vespasiano inviò il legatus legionis Marco Ulpio Traiano con un contingente a cavallo sulle alture per capire se effettivamente il popolo nutrisse, in verità, sentimenti di pace e quando gli fu riferito che tutti erano d'accordo con i supplici, avanzò verso la città con l'esercito. 

          Gli abitanti gli spalancarono le porte e gli vennero incontro festanti, acclamandolo loro salvatore. Vespasiano diede ordine di astenersi dal saccheggio e da atti di violenza e, per compiacere il re alleato, risparmiò la cinta delle mura, poiché Agrippa si rese garante della fedeltà degli abitanti.

          Durante l'inverno i Giudei si erano radunati e rifugiati a Ioppe (Giaffa), distrutta nel 66 da Gaio Cestio Gallo. La città fu ricostruita e divenne la base delle numerose azioni di pirateria che i Giudei compirono nel periodo successivo, ma i Romani la conquistarono sfruttando una tempesta che aveva distrutto la flotta pirata. 

          Subito dopo, Erode Agrippa II invitò il comandante romano con il suo esercito, per riportare l'ordine grazie al loro aiuto in alcuni territori che gli si erano rivoltati contro. Vespasiano, allora, mosse da Cesarea Marittima e raggiunse Cesarea di Filippo. 

          PALAZZO DI AGRIPPA A CESAREA DI FILIPPO

          Qui fece riposare l'esercito, intrattenendosi in numerosi festini e facendo offerte agli Dei per i successi ottenuti, ma poichè Tiberiade e Tarichee si stavano ribellando, entrambe del regno di Agrippa, Vespasiano preparò una spedizione punitiva contro queste due città, anche per ringraziare Agrippa che lo aveva accolto. 

          Incaricò per questo il figlio Tito a Cesarea Marittima con l'incarico di portare nuove forze da lì a Scythopolis, la città più grande della Decapoli, non molto distante da Tiberiade. Poi marciò egli stesso alla volta di questa città per ricongiungersi con il figlio e, insieme alle solite tre legioni, si accampò a trenta stadi da Tiberiade in località Sennabris. 

          Poco dopo inviò il decurione Valeriano con cinquanta cavalieri a fare proposte di pace agli abitanti, cercando di convincerli a trattare, avendo saputo da altre fonti che il popolo era desideroso di pace, costretto alla guerra solo da una minoranza. Quando Valeriano giunse in prossimità delle mura, smontò da cavallo insieme ai suoi uomini, non volendo apparire come quello che veniva per attaccare la città. 

          Però gli furono subito addosso un gruppo di ribelli, guidati da un certo Gesù, figlio di Safat, il capo di quella banda di briganti. Valeriano fuggì a piedi con i suoi armati, lasciando i cavalli al nemico che li portò trionfalmente in città.

          Vespasiano si accampò poi fra Tiberiade e Tarichee, fortificandosi in previsione del futuro assedio. Gran parte della massa dei rivoltosi si era raccolta a Tarichee facendo affidamento sulle fortificazioni della città e sul vicino lago di Gennesar. 

          Tarichee venne conquistata da Tito, che inseguì e distrusse i difensori fuggiti su zattere nel Mar di Galilea, mentre Vespasiano, che aveva occupato Tiberiade, vendette 30.400 schiavi di Tarichee e inviò a Nerone seimila schiavi, perché tagliassero un canale nell'istmo di Corinto.

          I rimanenti ribelli Galilei, dopo l'espugnazione di Iotapata e la disfatta di Tarichee, accettarono la sottomissione a Vespasiano che ne occupò tutte le fortezze. Solo le città di Giscala, le forze che del monte Tabor e la città di Gamala, situata dalla parte opposta del lago rispetto a Tarichee e che apparteneva al territorio assegnato ad Agrippa, continuarono a contrapporsi. 

          Vespasiano, mentre assediava Gamala, inviò il proprio tribunus militum Giulio Placido che conquistò il Tabor, e dopo un assedio lungo e sofferto la città fu presa e alla strage che seguì sopravvissero solo due donne su più di novemila abitanti, una strage totale.

          Restava ancora Giscala, piccola cittadina della Galilea, dove i suoi abitanti erano stati sobillati da una banda di briganti, comandati da un certo Giovanni, figlio di un certo Levi, definito da Giuseppe Flavio "un subdolo ciarlatano". 

          Vespasiano gli inviò il figlio Tito con 1.000 cavalieri, mentre la legio X Fretensis fu inviata a Scitopoli e le altre due legioni, la V Macedonica e la XV Apollinaris, fecero ritorno a Cesarea Marittima, per porvi i quartieri d'inverno (hiberna) e concedere ai soldati un meritato riposo in vista delle future azioni militari. 

          Vespasiano sapeva che l'impresa più difficile era la conquista di Gerusalemme, sede di tutti coloro che erano fuggiti dalla guerra e con una posizione strategica favorevole, non solo per la natura del luogo, ma anche per le imponenti opere difensive e il coraggio dei suoi abitanti. 

          MONTE TABOR

          Così allenò i suoi soldati per tutto l'inverno, mentre Tito, giunto con i suoi cavalieri davanti a Giscala, cercò di convincere i cittadini ad arrendersi evitando una strage e godendo del perdono romano:
          «Si poteva perdonare il desiderio di libertà, non l'ostinazione a progetti irrealizzabili.»
          (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, IV, 2.2.95.)

          Il capo dei ribelli Giovanni rispose dicendo che aderiva alle proposte del comandante romano e le avrebbe fatte accettare agli abitanti, ma essendo il sabato, secondo la legge giudea, non si poteva né combattere, né trattare la pace. 

          Tito acconsentì ad aspettare e si accampò a Cidasa, mentre Giovanni fuggì e raggiunse Gerusalemme, dove istigò il popolo alla guerra, facendo credere che avessero speranze di vittoria, sostenendo che "nemmeno se avessero messo le ali, i Romani avrebbero mai potuto superare le mura di Gerusalemme". 

          Il giorno seguente Tito si presentò davanti alle mura di Giscala e i cittadini gli spalancarono le porte e lo riconobbero come benefattore e liberatore della città, informandolo della fuga di Giovanni e chiedendogli clemenza per i cittadini, non invece dei pochi rivoluzionari rimasti ancora in città. 

          Tito inviò una parte della cavalleria ad inseguire Giovanni, che però sfuggì alla cattura, i Romani uccisero ben 6.000 dei suoi compagni di fuga, mentre circondarono e riportarono indietro poco meno di 3.000 tra donne e bambini.
           
          Tito dispose poi di far abbattere dai suoi soldati un tratto delle mura in segno di presa di possesso e colpì gli agitatori della città soprattutto con le minacce, per evitare di coinvolgere nella punizione qualche innocente. Poi vi stabilì una guarnigione per evitare che potessero ribellarsi nuovamente. 

          Mentre Tito faceva ritorno a Cesarea Marittima, Vespasiano si recava a Iamnia e ad Azoto, le sottometteva e vi collocava una guarnigione, per tornare a Cesarea con un gran numero di Giudei venuti a patti. Non appena poi i Giudei ottenevano tregua dai Romani, si battevano tra di loro, chi a favore della pace e chi della guerra. 

          A Gerusalemme alcuni, guidati dal sommo sacerdote Anania erano favorevoli a contrattare la pace con i Romani; la posizione predominante fu però quella intransigente portata avanti dagli Zeloti e dagli Idumenei, una popolazione araba recentemente convertitasi all'ebraismo.

          Successe anche che alcuni capi banda si riunirono in un grande esercito di briganti ed entrarono a Gerusalemme, ma quella massa inutile ed oziosa consumò tutte le riserve di cibo che avrebbero potuto mantenere i combattenti, attirando sulla città, oltre alla guerra, anche rivolte interne e fame. Provenienti dal contado entrarono in città altri briganti che, aggregatisi a quelli già presenti, non si limitarono al furto ed alla rapina, ma anche all'assassinio a cominciare dalle persone più eminenti. 

          Essi cominciarono con l'imprigionare dei membri della famiglia reale oltre a tutti quelli che ricoprivano cariche importanti. Molti di questi vennero poi messi a morte per evitare che le loro numerose casate potessero vendicarsi e il popolo insorgesse contro tale iniquità. Si facevano chiamare Zeloti e fecero del grande Tempio il loro quartier generale. Ma il popolo insorse, ed era più numeroso degli Zeloti, che però erano meglio addestrati ed armati.
          «Il piazzale davanti al Grande Tempio fu trasformato in un lago di sangue, e il giorno nacque sopra ottomila e cinquecento cadaveri.»
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 5.1.313)

          Il popolo di Gerusalemme, sotto il comando del sommo sacerdote Anano, richiese aiuto ai Romani, mentre gli Zeloti, chiesero aiuto agli Idumei, che poterono radunare ben 20.000 armati. Così gli Zeloti si trovarono assediati dal popolo di Gerusalemme, che a sua volta era assediato dagli Idumei. Questi ultimi di notte riuscirono ad introdursi all'interno delle mura e con gli Zeloti si lanciarono a massacrare la popolazione. 

          MURA DI GAMALA COLPITE DAI ROMANI

          Giuseppe Flavio narra:
          «Ma ciò non bastò ad appagare il furore degli Idumei, che, una volta entrati in città, la depredarono, casa per casa, uccidendo chiunque avessero incontrato, poi diedero la caccia ai sommi sacerdoti, In poco tempo riuscirono a catturarli e li uccisero. Quindi, accalcandosi presso i loro cadaveri, sbeffeggiavano il corpo di Anano per il suo amor di patria e quello di Gesù per il suo discorso dalle mura. Giunsero ad un tale livello di follia, da gettare i loro corpi senza seppellirli. Non credo di sbagliare a dire che la morte di Anano segnò l'inizio della distruzione di Gerusalemme
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 5.2.315-318)

          «Dopo la morte dei sommi sacerdoti, Zeloti e Idumei si avventarono sul popolo facendone grande strage, quasi fossero un branco di bestie immonde. La gente comune veniva massacrata sul posto, subito dopo essere stata catturata, mentre i giovani nobili, una volta catturati, erano incatenati, gettati in prigione, con la speranza che qualcuno passasse dalla loro parte. 
          Ma nessuno si lasciò persuadere, perché tutti preferirono morire piuttosto che schierarsi contro i propri compatrioti, dalla parte di quella feccia. Tremende furono le pene che dovettero sopportare, dopo ogni rifiuto: vennero flagellati e torturati, e quando erano ormai stremati, a stento gli toglievano la vita. 
          Quelli che erano catturati di giorno, venivano massacrati di notte, ed i loro cadaveri venivano trasportati fuori e gettati lontano per far posto ad altri prigionieri. 
          Il terrore del popolo fu tale, che nessuno osava più piangere o disperarsi apertamente per un congiunto ucciso, né dargli sepoltura. Piangevano di nascosto dopo essersi rinchiusi in casa, gemendo stando attenti a non farsi sentire, poiché chi piangeva apertamente avrebbe subìto la stessa sorte del compianto. Alla fine, morirono dodicimila giovani della nobiltà.»
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 5.3.327-333)

          E dopo questa strage, gli Idumei, temendo la reazione dei Romani, misero in libertà circa duemila cittadini rinchiusi in carcere, che prontamente fuggirono dalla città. Però non cessarono le ostilità tra il popolo e gli Zeloti, che continuarono a commettere terribili delitti.



          I ROMANI (68 d.c.)

          Molti ufficiali romani, considerando tali dissensi, chiesero a Vespasiano di intervenire ma questi rispose che, se aspettavano li troverebbero più ridotti di numero:
          «Se qualcuno crede che la gloria della vittoria sarà meno bella senza combattere, prenda in considerazione che la vittoria ottenuta senza correre pericoli è migliore rispetto a quella che ne consegue passando attraverso l'incertezza della battaglia. E non sono meno gloriosi coloro che raggiungono gli stessi risultati in combattimento, riuscendo a dominarsi con freddo calcolo
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 6.2.372-373.)

          I Giudei, infatti, subivano quotidianamente perdite maggiori di quelle che gli avrebbero potuto infliggere i Romani e molti disertori cominciarono ad arrivare ogni giorno, eludendo la vigilanza degli Zeloti.

          MASADA


          MASADA

          Non lontano da Gerusalemme si trovava una munitissima fortezza, di nome Masada, costruita dal re Erode il Grande tra il 37 ed il 31 a.c. per nascondervi i suoi tesori, al riparo in caso di guerra. Questa fortezza venne occupata da una banda di Sicarii, che fino a quel momento si era limitata a saccheggiare il territorio limitrofo, rubacchiando per vivere, ma a contenerli era solo la paura. Il nome viene da sica, un tipo di spada corta.

          «Furono i sicarii che per primi calpestarono la legge e furono crudeli contro la loro stessa gente, senza astenersi dall'offendere con insulti le loro vittime, o dal rovinarle con qualunque atto.»
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, VII, 8.1.262.)

          Quando però seppero che l'esercito romano non si muoveva e che Gerusalemme era dilaniata dalla guerra civile, intervennero nel giorno della festa degli Azzimi (o Pasqua ebraica), assaltando una cittadina di nome Engadde, compiendo un terribile massacro, uccidendo anche settecento tra donne e bambini. 

          Svuotarono, quindi, le case e s'impadronirono dei prodotti agricoli più maturi, trasportando tutto il bottino a Masada. Poi fu la volta di altri villaggi nei dintorni della fortezza, i quali furono presi d'assalto, mentre le file di questi briganti si ingrossavano per il continuo arrivo di altri briganti. 

          Ciò provocò anche in altre regioni della Giudea l'insorgere di tante altre bande, compiendo ogni tipo di rapina o saccheggio impunemente. Finalmente Vespasiano si mise in marcia, più che per assediare la città, per liberarla dall'assedio degli Zeloti. 



          GADARA

          Giunto davanti a Gadara, capitale della Perea, il quarto giorno del mese di Distro (febbraio), entrò in città, dopo che i notabili, desiderosi di pace, si erano arresi lasciando che le trattative con i Romani rimanessero segrete agli avversari che però le scoprirono e si vendicarono, uccidendo pure il primo cittadino e facendo scempio del suo cadavere. 

          Giunto l'esercito romano, il popolo di Gadara accolse Vespasiano con acclamazioni, ottenendo un adeguato presidio di cavalieri e fanti a difesa della città. Giuseppe Flavio aggiunge che le mura cittadine, vennero abbattute dai cittadini stessi, prima ancora che i Romani lo chiedessero, per confermare così la loro volontà di pace.

          Contro i ribelli fuggiti da Gadara, Vespasiano inviò Giulio Placido con 500 cavalieri e 3.000 fanti, mentre egli fece ritorno a Cesarea Marittima. I fuggitivi vennero intercettati presso un villaggio dove le truppe romane  saccheggiarono e incendiarono il villaggio mettendo in fuga, non solo i ribelli ma anche gli abitanti.

          Placido li inseguì fino al fiume Giordano, dove compì una strage di 15.000 Giudei, e facendo 2.200 prigionieri. Occupò, quindi, Abila, Giuliade, Besimoth e tante altre fino al lago Asfaltite (Mar Morto), collocando poi in ciascuna di queste un presidio formato dai disertori più fidati. Imbarcò infine gli uomini e catturò quelli che si erano rifugiati sul lago. Così tutta la Perea fino a Macherunte venne posta sotto il dominio romano.



          EMMAUS

          Giunta la primavera, Vespasiano si recò ad Antipatride e  riprese la marcia devastando l'intero territorio circostante. Giunto nel territorio di Emmaus costruì un accampamento, dove sistemò la legio V Macedonica, avanzando nella toparchia di Bethleptenfa, devastandone i territori insieme ai lembi estremi dell'Idumea. Anche qui collocò presidi e occupò i due villaggi più centrali dell'Idumea, Betabris e Cafartoba, dove uccise più di 10.000 uomini, facendo più di 1.000 prigionieri, e costringendo gli altri a fuggire. 

          Qui pose due guarnigioni e col resto dell'esercito tornò ad Emmaus, da dove raggiunse Gerico, che riunì le sue forze con il legatus legionis Traiano, che proveniva dalla Perea, visto che ormai il territorio al di là del fiume Giordano era sottomesso. La maggior parte della popolazione era fuggita da Gerico sui monti vicini a Gerusalemme. Tutti quelli, però, che rimasero indietro vennero sterminati, mentre la città all'arrivo dei Romani risultò deserta.



          GERASA

          Vespasiano per attaccare Gerusalemme pose i suoi accampamenti a Gerico e ad Adida, con truppe romane e alleate. Inviò, quindi, contro Gerasa, Lucio Annio insieme ad un contingente di cavalleria e numerosi fanti, che attaccarono la città, uccidendo un migliaio di giovani, facendo prigionieri le donne e i bambini e permettendo ai soldati di saccheggiare ogni cosa, e pure dei villaggi vicini. 

          Dato fuoco alle abitazioni, compì altre azioni di devastazione sui villaggi vicini. Frattanto a Gerusalemme, chi stava dalla parte dei Romani, non riusciva a fuggire dalla città a causa della sorveglianza degli Zeloti, mentre chi non era filoromano si trovava di fronte all'imminente arrivo delle legioni romane pronte a mettere la città sotto assedio.

          E mentre Vespasiano si apprestava a marciare con tutte le sue forze contro Gerusalemme, dopo essere tornato nuovamente a Cesarea, gli giunse la notizia che Nerone si era tolto la vita; rinviò allora la marcia su Gerusalemme, aspettando il nuovo imperatore. 



          GALBA IMPERATORE

          Quando seppe che era Galba, rimase a Cesarea, in attesa di istruzioni sulla guerra. Ma inviò il figlio Tito, con il re Agrippa, per rendergli omaggio e per farsi dare disposizioni sulla guerra in Giudea. Ma mentre erano in viaggio, giunse la notizia dell'uccisione di Galba (dopo soli sette mesi e sette giorni di regno), e dell'acclamazione a imperatore del suo rivale Otone. 

          Agrippa decise di proseguire per Roma, ma Tito tornò in Siria, raggiungendo il padre a Cesarea. Non sapendo come comportarsi, visto lo scoppio della guerra civile, preferirono sospendere le operazioni militari contro i Giudei, in attesa di conoscere quali sarebbero stati gli sviluppi a Roma.



          OTONE IMPERATORE

          Giuseppe Flavio racconta poi di un certo Simone, figlio di Ghiora, nativo di Gerasa, che si era unito ai briganti che occupavano Masada. Qui crebbe in considerazione e con il tempo fu ammesso a partecipare alle loro scorrerie, che devastavano i territori circostanti. Infine si ritirò fra i monti e, promettendo la libertà agli schiavi e premi agli uomini liberi, radunò da ogni parte una grande massa di briganti. 

          L'esercito che raccolse andò via via aumentando, finchè tutti i territori fino all'Idumea, passarono sotto il suo dominio. Era chiaro che addestrava i suoi uomini per occupare Gerusalemme così gli Idumei insorsero invidiosi ed uccisero un gran numero di Zeloti, costringendoli a rifugiarsi nel palazzo reale. 

          Gli Idumei per liberarsi di Giovanni decisero di far entrare Simone bar Giora, acclamato dal popolo come salvatore e protettore che divenne infine signore di Gerusalemme, mentre Giovanni e gli Zeloti, barricati nel tempio, temettero per la loro sorte.



          VITELLIO IMPERATORE

          Così Vespasiano, in attesa di capire meglio gli sviluppi della guerra civile a Roma che vide alternarsi dopo la morte di Galba, prima Otone e poi Vitellio, venne a sapere che Simone bar Giora, con i suoi 40.000 armati, aveva assediato e poi occupato la stessa Gerusalemme.

          Vespasiano, allora, agli inizi di maggio, partì da Cesarea e assoggettò le due toparchie di Gofna e di Acrabetta, poi le cittadine di Bethela e di Efraim, dove pose una guarnigione, spingendosi con la sola cavalleria fino a Gerusalemme in perlustrazione, facendo ovunque grande strage e catturando numerosi prigionieri.

          Intanto Sesto Vettuleno Ceriale, legatus legionis della legio V Macedonica, al comando di cavalieri e fanti, devastava la regione dell'Idumea superiore, dove occupò e diede alle fiamme la città di Cafethra; a Cafarabis gli abitanti gli aprirono le porte avanzando con rami d'olivo; penetrò poi nella città di Hebron, sterminando i giovani ed appiccando il fuoco alle case. 

          Rimanevano ancora libere Erodion, Masada e Macherunte, che erano in mano dei briganti. Vespasiano puntava su Gerusalemme. Tornato a Cesarea, Vespasiano seppe dell'acclamazione a imperatore di Vitellio e rimase indignato per come si era impossessato del potere a Roma. Gli ufficiali, inoltre, lo incitavano a prendere il potere e accettare l'acclamazione ad imperatore, sostenendo che:
          «Se per governare era necessaria l'esperienza degli anni, questa si trovava in Vespasiano padre, se il vigore della giovinezza, questa si trovava nel figlio Tito, sommandosi così i pregi dell'età di entrambi. Ai nuovi eletti ci sarebbero state come sostegno, non soltanto i soldati di tre legioni insieme alle truppe alleate dei re, ma anche quelle di tutto l'Oriente, oltre alle province europee, abbastanza lontane da non temere Vitellio, gli alleati in Italia, un fratello di Vespasiano (Tito Flavio Sabino) e un altro figlio (Domiziano).»
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 10.3.597-598.)



          LA GUERRA CIVILE ROMANA (68-69)

          I soldati si radunarono tutti insieme e, facendosi coraggio l'un l'altro, acclamarono Vespasiano loro imperatore, pregandolo di salvare la Res publica. Al suo rifiuto, come narra Giuseppe Flavio, anche i generali insistettero, mentre i soldati gli si avvicinavano con le spade in pugno, come a minacciare di ucciderlo se non avesse accettato. E se Vespasiano, in un primo momento, espose le sue ragioni che lo inducevano a rifiutare la porpora imperiale, alla fine accettò l'acclamazione ad imperator.

          «E poiché Gaio Licinio Muciano ed altri generali sollecitavano affinché esercitasse il potere come princeps, anche l'esercito lo incitava ad essere condotto a combattere qualunque rivale. Vespasiano, allora per prima cosa, rivolse la sua attenzione ad Alessandria, poiché sapeva che l'Egitto costituiva una delle regioni più importanti dell'impero per l'approvvigionamento del grano, credette che, assicuratosene il controllo, avrebbe costretto Vitellio ad arrendersi, poiché la popolazione di Roma avrebbe patito la fame. Mirava, inoltre, ad avere come sue alleate le due legioni presenti ad Alessandria, ed a fare di quella provincia un baluardo contro la cattiva sorte
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 10.5.605-607.)



          IL FUTURO IMPERATOR

          Così Vespasiano, scrisse a Tiberio Alessandro, governatore dell'Egitto e di Alessandria, informandolo di essere stato acclamato imperator dalle truppe in Giudea e che contava sulla sua collaborazione ed aiuto. Questi dopo aver dato pubblica lettura al messaggio di Vespasiano, chiese che le legioni e il popolo giurassero fedeltà al nuovo imperatore, poi si dedicò ad accogliere Vespasiano, mentre la notizia si diffondeva in tutto l'Oriente romano ed ogni città festeggiava la lieta notizia, compiendo sacrifici per il nuovo imperatore.

          Anche le legioni di Mesia e Pannonia, che già da tempo avevano dato segni di insofferenza al potere di Vitellio, giurarono con grande entusiasmo la loro fedeltà a Vespasiano, il quale da Cesarea si trasferì a Berito. Qui giunsero ambascerie dalla provincia di Siria e dalle altre province orientali che gli recavano doni e decreti gratulatori. Giunse anche Muciano, governatore di Siria, a tributargli il suo appoggio e giuramento di fedeltà, insieme a quello dell'intera popolazione provinciale.

          Vespasiano fra i molti presagi ricevuti da ogni parte a predirgli l'impero, si ricordò delle parole di Giuseppe, che aveva avuto il coraggio di chiamarlo imperatore quando Nerone era ancora in vita. Sapendo che Giuseppe era ancora in prigione, convocò Muciano assieme ad altri generali e amici e, dopo aver ricordato loro la sua perizia militare nell'assedio di Iotapata, accennò alle sue predizioni, che al momento aveva sottovalutato, ma che il tempo e i fatti ne avevano dimostrato la bontà e l'origine divina:
          «Mi sembra vergognoso che chi mi ha predetto l'impero sia ancora in prigionia con le catene
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 10.7.626)

          Fece liberare Giuseppe e diede ordine di togliergli i ceppi. Tito, che stava assistendo alla scena a fianco del padre e che spesso faceva suggerimenti al genitore, gli disse:
          «Padre è giusto che Giuseppe venga liberato, oltre che dei ceppi anche della vergogna. Se noi non slegheremo le sue catene, ma al contrario le spezzeremo, dimostreremo che egli non è mai stato incatenato. Così accade a chi è stato incatenato ingiustamente
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, IV, 10.7.628)

          Vespasiano, che aveva grande stima del figlio, ne accolse la richiesta e la catena venne spezzata a colpi di scure. Così Giuseppe, ricevuta la libertà, poté godere del credito di profeta e venne accolto dal seguito dell'imperatore, il quale, dopo aver assegnato i vari comandi nelle province orientali a lui fedeli e congedato le ambascerie, si trasferì ad Antiochia di Siria.

          Qui, affidato un forte contingente di cavalleria e fanteria a Muciano, lo inviò in Italia via terra, attraverso Cappadocia e Frigia, mentre spedì Antonio Primo, al comando della Legio III Gallica di stanza nella Mesia, di cui era governatore, in Italia per affrontare Vitellio.

          Lo scontro decisivo tra le truppe favorevoli a Vespasiano e quelle di Vitellio avvenne in Italia settentrionale, dove le truppe di Antonio Primo sconfissero l'esercito di Vitellio presso Bedriaco e avanzarono fino a Roma, dove le attendeva Flavio Sabino, fratello di Vespasiano ed il figlio Domiziano. 

          Ma poiché gran parte dei soldati e del popolo volevano Vitellio attaccarono Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, e l'uccisero. Il giovane figlio di Vespasiano, Domiziano, che era con lo zio, riuscì a scampare alla strage, ma poco dopo, le truppe di Antonio Primo, entrate vittoriose in Roma, trovarono Vitellio nei palazzi imperiali e lo condussero nel Foro romano, dove venne ucciso per le vie di Roma, dopo otto mesi e cinque giorni di regno.

          VESPASIANO IMPERATORE


          VESPASIANO IMPERATORE

          Il 21 dicembre, il giorno dopo l'ingresso delle truppe di Antonio Primo in Roma, e l'uccisione di Vitellio il Senato proclamò Vespasiano imperatore e console con il figlio Tito, mentre il secondogenito Domiziano veniva eletto pretore con potere consolare.

          Contemporaneamente a Gerusalemme, la guerra tra le fazioni si era trasformata in una lotta a tre, poiché Eleazar figlio di Simone, fingendosi sdegnato per i comportamenti di Giovanni, si staccò dagli altri e prese con sé alcuni notabili, con un discreto numero di Zeloti. Essi presero allora possesso della parte più interna del tempio, dove vi accatastarono grandi quantità di viveri per costituire sicure riserve in vista dei futuri scontri. Gli scontri che si susseguirono tra le due fazioni, furono sanguinosi e senza tregua, con stragi di ambedue le parti.

          A Gerusalemme la guerra civile infuriava tra le tre fazioni presenti in città: gli uomini di Eleazar, che occupavano il tempio e che se la prendevano soprattutto contro Giovanni, il quale spogliava il popolo e lottava contro Simone, che a sua volta utilizzava altri mezzi dalla città per combattere contro i suoi due avversari. I dintorni del tempio andarono distrutti dal fuoco e la città si trasformò in un terribile campo di battaglia, dove le fiamme divorarono tutto il grano, che avrebbe potuto sfamare per alcuni anni:
          «Mentre la città era colpita da ogni parte dai suoi carnefici e dei loro aguzzini, il popolo sembrava come un unico corpo, nel mezzo, che veniva dilaniato
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, V, 1.5.27.)

          Giovanni arrivò a impiegare il legname che era invece destinato ad usi sacri, per costruire macchine da guerra. Si trattava di travi giunte dal Libano, di grandi dimensioni e diritte. Giovanni le fece tagliare per realizzare delle torri che collocò dietro al piazzale interno, di fronte alla parte occidentale dell'esedra, l'unico lato da dove poteva effettuare l'assalto.

          LA DISTRUZIONE DEL TEMPIO DI GERUSALEMME


          ASSEDIO DI GERUSALEMME(anno 70)

          Vespasiano, che era giunto ad Alessandria d'Egitto, seppe che Vitellio era morto e che il Senato ed il popolo di Roma lo aveva proclamato imperatore. Giunsero, quindi, numerose ambascerie a congratularsi con lui da ogni parte del mondo. Vespasiano, ansioso di salpare per Roma, inviò allora il figlio Tito, di cui molto apprezzava le doti di generale, con ingenti forze a conquistare Gerusalemme.

          Tito si trasferì per via di terra a Nicopoli, e da qui imbarcatosi con l'esercito su navi da guerra, risalì il corso del Nilo fino alla città di Thmuis. Da qui proseguì a piedi fino a Tanis, Eracleopoli e Pelusio dove riposò per due giorni. Il sesto giorno passò le foci del Nilo e, marciando attraverso il deserto, raggiunse infine Cesarea Marittima, che aveva eletto a suo quartier generale, radunando tutte le truppe prima della partenza per Gerusalemme.

          Tito aveva ai suoi ordini le tre legioni che avevano combattuto in Giudea con il padre negli anni precedenti, molto affezionate a suo padre ed ora anche a lui, oltre alla legio XII Fulminata, che all'inizio della guerra, sotto il comando di Gaio Cestio Gallo, era stata sconfitta dalle truppe ribelli e desiderava, più di ogni altra, vendicarsi. 

          Comandò, quindi alla legio V Macedonica di raggiungerlo passando per Emmaus, alla  X Fretensis di passare per Gerico, mentre egli stesso si avviò con la XII Fulminata e la XV Apollinaris ed un numero assai maggiore di truppe alleate fornite dai re clienti, oltre ad un buon numero di ausiliari siriaci.

          I vuoti lasciati nelle quattro legioni, da quei reparti che Vespasiano aveva inviato in Italia, furono riempiti dalle truppe condotte da Tito, giunto da Alessandria d'Egitto con 2.000 legionari scelti tra le truppe di stanza in Egitto, oltre ad altri 3.000 dalle guarnigioni siriane lungo l'Eufrate. Suo amico e consigliere di guerra era era Tiberio Alessandro che, come governatore d'Egitto ed estimatore di suo padre, aveva appoggiato la candidatura di Vespasiano alla porpora imperiale.

          Tito condusse l'esercito fino a Gofna dove era presente una guarnigione romana, poi riprese la marcia e pose l'accampamento nella "Valle delle Spine" presso il villaggio di Gabath Saul, a trenta stadi da Gerusalemme. Da qui, scelti 600 cavalieri, proseguì in ricognizione verso la città, per esaminarne le fortificazioni e vedere se i Giudei intendessero arrendersi. Tito sapeva che il popolo desiderava la pace, ma che non poteva ribellarsi alle tre fazioni di briganti.



          IL CORAGGIO DI TITO

          Tito era ormai vicino alle mura della città, quando uscì da una porta un grandissimo numero di nemici che s'incuneò in mezzo alla cavalleria romana, dividendola  in due parti e tagliando fuori Tito con pochi altri. Non potendo tornare in mezzo ai suoi, mentre molti si erano dati alla fuga ignorando il pericolo che incombeva sul loro comandante, voltò il cavallo e urlando ai compagni di seguirlo, si lanciò in mezzo ai nemici, aprendosi a forza il passaggio per raggiungere il grosso della cavalleria romana.

          I suoi compagni si tennero stretti a Tito, ricevendo colpi da dietro e sui fianchi, sapendo che l'unica salvezza era di rimanere uniti al loro comandante, cercando di non rimanere accerchiati. Fu così che Tito riuscì a mettersi in salvo, raggiungendo accampamento romano.
          «Un'inutile speranza diede animo ai Giudei, che erano riusciti ad avere la meglio in questo primo scontro, tanto che l'insperato successo diede loro grandi speranze per il futuro
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, V, 2.2.66)

          Giunta anche la legio V Macedonica, Tito tolse l'accampamento e raggiunse il monte Scopus da dove poteva vedere la città e il suo Tempio, e qui comandò di porre un accampamento per due legioni, mentre la V Macedonica si acquartierò a tre stadi dietro a quelle, poiché più stanca per la marcia notturna e meritandosi maggiore protezione. 

          Poco dopo giunse anche la quarta legione, la legio X Fretensis, proveniente da Gerico, dove alcune vexillationes erano rimaste a guardia dei passi già occupati da Vespasiano. Venne accampata a sei stadi da Gerusalemme, sul monte degli Olivi, da cui un profondo burrone, la valle del Cedron, lo divideva dalla città.

          Qui iniziò la penetrazione romana nel perimetro esterno del grande tempio, mentre i Romani  sul monte degli Ulivi, attaccati dai Giudei, riuscirono a respingerli. Dopo quindici giorni di combattimenti,  i Romani abbatterono la prima delle tre muraglie di Gerusalemme, e penetrarono nel quartiere di Bezeta. Poi Tito pose il suo comando nel Gareb e gli fece costruire un muro alto tre metri e lungo 7.300 metri tutt'intorno.



          I SICARII

          Intanto Eleazaro ben Simone, capo degli Zeloti che occupavano il Tempio, fece entrare dei pellegrini nel recinto per la Pasqua ebraica, che si rivelarono seguaci di Giovanni di Gamala. Dopo una lotta spietata rimasero solamente i sostenitori di Giovanni e quelli di Simone bar Giora (i Sicarii), gli Zeloti erano finiti.

          I Sicarii erano una fazione estremista del partito ebraico degli Zeloti che come strategia usavano l'assassinio terroristico. Durante la I Guerra Giudaica, i Sicarii si scagliavano contro quelli che erano disposti a sottomettersi ai Romani combattendoli come fossero nemici, assassinandoli, depredandoli dei loro averi e del loro bestiame, incendiando le loro case. 

          Ma anche se inizialmente si unirono ai Giudei nella ribellione, combattendo i Romani, in seguito usarono atrocità terribili contro chi denunciava i loro crimini. Il fatto che poi si suicidarono in massa a Masada non fa di loro degli eroi, tanto è vero che da loro venne il termine "sicario" cioè colui che uccide su commissione per denaro, quindi l'infima abiezione.

          «Furono i sicarii che per primi calpestarono la legge e furono crudeli contro la loro stessa gente, senza astenersi dall'offendere con insulti le loro vittime, o dal rovinarle con qualunque atto
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, VII, 8.1.262.)

          Giorni dopo Tito attaccò la fortezza Antonia e, per agevolare l'accesso al Tempio, la rase al suolo, il Tempio e fece innalzare il vessillo dei legionari sulla Porta Orientale. Sesto Giulio Frontino ricorda che l'ultima resistenza dei Giudei fu abbattuta durante la Shabbat. Tito fu proclamato imperator, e gli fu concesso il trionfo a Roma, dove nel 71 fece sfilare 700 prigionieri, Simone, Giovanni e gli arredi del Tempio tra cui la famosa Menorah (candelabro a 7 braccia) di oro massiccio.

          Giuseppe Flavio racconta che al termine dell'assedio, il numero complessivo dei prigionieri catturati durante l'intera guerra fu di 97.000, i morti pari a 1.100.000. La maggior parte erano giudei, non di Gerusalemme, giunti da ogni parte del paese per la sacra Festa degli Azzimi, e il sovraffollamento generò prima la pestilenza e poi il flagello della fame. 

          Giovanni, capo di una delle fazioni ribelli, distrutto dalla fame nei sotterranei insieme con i fratelli,  venne condannato al carcere a vita, mentre Simone, a capo di un'altra fazione di ribelli, arreso dopo una lunga lotta, sfilò in trionfo a Roma, e venne poi condannato a morte. I Romani, infine, incendiarono la città e abbatterono l'intera cerchia di mura di Gerusalemme.

          Terminato l'assedio, Tito dispose che la legio X Fretensis restasse a presidio di Gerusalemme, la legio XII Fulminata venne inviata a Melitene, presso l'Eufrate, lungo il confine tra il regno d'Armenia e la provincia di Cappadocia. La legio V Macedonica e la legio XV Apollinaris, lo seguirono fino in Egitto. Poi egli marciò con il suo esercito fino a Cesarea Marittima, dove mise al sicuro l'enorme bottino e pose sotto custodia la grande massa di prigionieri, anche perché l'inverno gli impediva di prendere il mare per l'Italia.

          A Cesarea Tito festeggiò il compleanno del fratello Domiziano, che si trovava a Roma, dando una serie di spettacoli in cui più di 2.500 giudei perirono, sia nei combattimenti contro le fiere, sia duellando tra loro o anche arsi vivi. Poi si trasferì a Berytus (Iulia Augusta Felix Berytus), celebrando il compleanno del padre Vespasiano, e mettendo a morte tanti altri prigionieri.

          Ripartito da Cesarea sul mare, si trasferì a Cesarea di Filippo, dove rimase a lungo offrendo alla popolazione ogni genere di spettacoli. Qui trovarono la morte altri prigionieri: alcuni gettati alle belve, altri costretti a scontrarsi tra loro a gruppi. Poi con la cattura di Simone, i Romani scoprirono un gran numero di altri ribelli nelle gallerie sotterranee di Gerusalemme. Quando Tito tornò a Cesarea Marittima, gli venne portato in catene Simone, e Cesare diede ordine di riservarlo per il trionfo che presto avrebbe celebrato a Roma.

          PALAZZO-FORTEZZA DI HERODION


          CONTRO I GIUDEI

          Il popolo di Antiochia, quando seppe che il comandante romano era vicino, gli mosse incontro e si dispose ai margini della strada fra grandi acclamazioni, pregandolo di cacciare i Giudei dalla città, ma Tito non consentì:
          «La loro patria, dove dovrebbe vivere ogni giudeo, è ormai distrutta, e non esiste nessun posto che potrebbe accoglierli
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, VII, 5.2.109)

          Allora gli Antiocheni fecero una seconda richiesta, quella di rimuovere le tavole di bronzo dove erano contenuti i diritti dei Giudei. E anche questa volta Tito negò. Passò nuovamente da Gerusalemme e, paragonando quella triste visione di desolazione all'antico splendore della città, si commosse per la devastazione. Inviò la legio V Macedonica in Mesia e la legio XV Apollinaris in Pannonia, e inviò in Italia i due capi, Simone e Giovanni, insieme ad altri 700, scelti per statura e prestanza fisica, per trascinarli in catene nel trionfo. 

          Roma gli riservò un'accoglienza entusiastica come era accaduto in passato a suo padre, Vespasiano, che lo attendava nella capitale con il fratello, Domiziano. Pochi giorni più tardi, il morigerato Vespasiano che aveva molto rispetto per le casse dello stato, ordinò un unico trionfo, sebbene il senato ne avesse decretato uno per ciascuno. Una volta avvisati sulla data della cerimonia trionfale, l'immensa popolazione di Roma uscì a prendere posto ovunque, lasciando libero solo il passaggio per far sfilare il corteo.


          TRIONFO A ROMA SUI GIUDEI

          Sesto Lucilio Basso, che aveva prima acclamato Galba, tradendolo e poi acclamando Vitellio, tradendolo e poi acclamando Vespasiano, era stato inviato in Giudea come legatus Augusti pro praetore, e dopo aver preso la fortezza di Herodion con tutta la guarnigione, riunì insieme alla legio X Fretensis anche le forza ausiliarie che si trovavano distaccate in vari forti e fortini della zona, e decise di marciare contro la fortezza di Macheronte che capitolò in mano romana grazie all'attaccamento dei Giudei al giovane Eleazar. Il comandante romano si fece consegnare la fortezza in cambio della grazia al giovane:

          «Comandò di piantare una croce come se volesse mettervi sopra Eleazar, e ad una tale vista gli abitanti della fortezza furono presi da un'angoscia crescente, tanto da gridare fra alti gemiti che si trattava di una disgrazia oltre misura. Contemporaneamente Eleazar cominciò a supplicarli di non lasciarlo morire così dolorosamente e anche di riflettere sulla loro salvezza, arrendendosi alla forza e alla fortuna dei Romani, visto che tutti erano stati sottomessi. Questi allora, impietositosi dalle sue parole inviarono prontamente alcuni a trattare la resa della fortezza, a condizione di potersi allontanare liberamente portando con loro Eleazar
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, VII, 6.4.202-205.)

          Intanto l'imperatore Vespasiano che aveva deciso di rimpinguare l'erario dell'Impero impoverito dalle follie di Nerone, ordinò a Sesto Lucilio Basso (legatus Augusti pro praetore) e a Laberio Massimo, che era il procurator Augusti, di ridurre tutto il territorio della Giudea al regime di locazione in affitto,  disponendo che quella regione fosse come una sua proprietà privata. 

          A soli 800 soldati mandati in congedo permise di costituire una colonia ad Emmaus (a 30 stadi da Gerusalemme). Impose infine a tutti i Giudei, ovunque risiedessero, una tassa di due dracme ciascuno da versare ogni anno al Campidoglio, in sostituzione di quella versata al tempio di Gerusalemme. 

          Quindi Basso condusse l'esercito verso la foresta di Iardes, dove sembra si fossero raccolti molti degli scampati all'assedio di Gerusalemme ed a quello di Macherunte, fece circondare il luogo dalla cavalleria per impedire la fuga ai Giudei, mentre alla fanteria diede ordine di abbattere la foresta. Dei Romani morirono solo dodici uomini, e pochi furono i feriti, mentre tra i Giudei perirono tutti, circa tremila, compreso il loro capo.



          RE ANTIOCO

          Nel quarto anno di regno di Vespasiano (72), Antioco, re della Commagene, dovette rinunciare al trono del regno "cliente" di Commagene a vantaggio di un'annessione romana, per il sospetto di voler ribellarsi ai Romani e di aver già preso accordi con il re dei Parti. 

          L'invasione romana avvenne senza resistenza, Antioco non pensò di far guerra ai Romani, ma preferì abbandonare il regno, e fuggire con la moglie e le figlie in Cilicia. L'aver abbandonato figli e sudditi al loro destino, generò un tale sconcerto nel morale delle sue truppe che alla fine i soldati commageni preferirono consegnarsi ai Romani. Al contrario il figlio Epifane, accompagnato da una decina di soldati a cavallo, attraversò l'Eufrate e si rifugiò presso il re dei Parti Vologese, il quale lo accolse con tutti gli onori.

          Antioco  venne catturato e mandato a Roma in catene, ma Vespasiano però, per l'antica amicizia, durante il viaggio ordinò che fosse liberato dalle catene e lo fece fermare a Sparta dove gli concesse cospicue rendite, al fine di poter mantenere un tenore di vita da re. Quando queste informazioni giunsero al figlio, Epifane, che aveva temuto per la sorte del padre, cominciò a sperare di potersi riconciliare con l'imperatore. Vespasiano concesse loro, generosamente, di trasferirsi a Roma insieme al padre, che sarebbero stati trattati con ogni riguardo.



          MASADA

          Il nuovo governatore Lucio Flavio Silva, avendo osservato che tutto il resto del paese era stato sottomesso tranne un'unica fortezza ancora in mano ai ribelli, radunò la sua armata dalla regione circostante e marciò su di essa. Si trattava di Masada, occupata dai Sicarii, che avevano eletto quale loro leader un certo Eleazar Ben Yair.

          Il comandante romano mosse contro Eleazar e la sua banda di sicarii che occupavano Masada, assicurandosi prima il controllo dell'intera regione circostante, innalzando un muro tutt'intorno alla fortezza, perché nessuno degli assediati potesse fuggire, e vi pose a guardia delle sentinelle. 

          Si accampò quindi per condurre le operazioni d'assedio, dove le pareti a strapiombo della fortezza risultano più prossime alla vicina montagna, anche se risultava in posizione poco comoda per i rifornimenti, poiché sul luogo non vi era neppure una sorgente. 

          Masada si presentava su un altopiano scosceso e aveva abbondanti riserve di acqua e cibo. Alla fine i Romani, dopo aver costruito una torre rivestita di ferro alta 30 metri sopra un enorme terrapieno, erano ormai prossimi ad entrare nella fortezza. Resosi conto della disfatta imminente, il capo zelota Eleazar Ben Yair, organizzò il suicidio collettivo, uccidendo mogli, figli e sé stessi.

          «E così, mentre accarezzavano e stringevano al petto le mogli e sollevavano tra le braccia i figli baciandoli per l'ultima volta tra le lacrime per l'ultima volta, contemporaneamente compirono il loro disegno, quasi che a colpirli fossero mani altrui, consolandosi che se non li avessero uccisi, avrebbero sofferto tremendi tormenti in mano dei Romani
          (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, VII, 9.1.391-392.)

          Ma forse, se glielo avessero chiesto, le mogli e i figli avrebbero preferito vivere, così come Giuseppe Flavio preferì vivere presso i romani che lo accolsero e rispettarono.

          Alla fine si salvarono solo due donne e cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l'acqua potabile. Le vittime furono in totale 960, comprese donne e bambini. La data dell'eccidio fu il quindici marzo del 73. Quando all'alba i Romani si gettarono all'attacco finale, le due donne uscirono dal nascondiglio e raccontarono ai Romani tutti i particolari dell'accaduto. Non rimaneva più alcun nemico nel paese. 

          Una visione di ribelli-buoni e  imperialisti-cattivi che però inizia a cedere, anche perchè gli studi dell’archeologo israeliano Nachman Ben-Yehuda ridisegnano ampiamente la vicenda, e tratteggiano una versione più realistica degli eventi:
          Quando esaminiamo a fondo la Grande Rivolta e Masada, semplicemente non abbiamo alcun ritratto di eroismo. Al contrario. I racconti narrano la storia di una fatale (e discutibile) rivolta, di un gigantesco fallimento e della distruzione del Secondo Tempio e di Gerusalemme, di massacri di ebrei su larga scala, di differenti fazioni di ebrei che combattevano e si ammazzavano a vicenda, di suicidi collettivi (un atto non visto con favore dalla fede ebraica) perpetrato da un gruppo di terroristi e assassini il cui “spirito combattivo” può essere stato incerto.”



          LA FINE DEI SICARII

          Anche la popolazione alessandrina, per dimostrare la sua lealtà ai Romani,  si scatenò furiosamente contro i sicarii che cercavano ancora di sollevare la popolazione, che furono tutti gettati in prigione. 
          A quel tempo era governatore d'Egitto e Alessandria, un certo Tiberio Giulio Lupo, che informò Cesare di questi primi fermenti di rivolta. 

          L'imperatore, temendo nuove tendenze rivoluzionarie dei Giudei, ordinò a Lupo di distruggere il tempio giudaico nel distretto di Onias. Lupo, allora, ricevuta la lettera dell'imperatore, raggiunse il tempio e, dopo avervi asportato i doni votivi, lo chiuse. 

          Frattanto altri sicarii contagiarono con i loro propositi di rivolta anche le città attorno a Cirene. Qui era giunto un certo Gionata, il quale dopo aver attirato molti tra i più miserabili del popolino, promise loro prodigi e apparizioni. Ancora una volta i più ragguardevoli fra i Giudei di Cirene denunziarono i suoi piani a Catullo, il governatore della pentapoli libica. 

          Molti furono uccisi, altri dichiararono falsamente che erano stati i più ricchi dei Giudei a costringerlo a rivoltarsi, tra cui lo stesso Giuseppe Flavio.  Vespasiano e Tito ebbero dei sospetti e promossero delle indagini che condussero all'infondatezza delle imputazioni a carico degli accusati, procurando agli accusatori una terribile morte. La distruzione del tempio di Gerusalemme,  e la riduzione in schiavitù di 97.000 Giudei, che vennero dispersi in tutto l'impero, dette inizio alla diaspora. 


          BIBLIO

          - Flavio Giuseppe - De Bello Iudaico - 1559 -
          - Edward Gibbon - On the Triumphs of the Romans - 1764 -
          - Giulio Firpo - Le rivolte giudaiche - Bari - Laterza - 1999 -
          - Giovanni Brizzi - 70 d.c. La conquista di Gerusalemme - Roma-Bari - Laterza - 2015 -
          - Piganiol André - Le conquiste dei romani - Milano - Il Saggiatore - 1989 -
          - Martin Goodman - Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche - Roma-Bari - Editori Laterza - 2009 -

          PATRIZI E PLEBEI

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          Il conflitto tra patrizi e plebei, ovvero, nelle fazioni tra optimates e populares, fu uno scontro politico basilare nell'antica Repubblica romana, per il desiderio e senso del diritto della plebe di raggiungere le più alte cariche governative e la parità politica, onde assicurarsi un trattamento equo e non di sfruttamento.



          PATRIZI E PLEBEI

          Fin dalla nascita della Repubblica la popolazione di Roma era divisa in due parti: il patriziato e la plebe e le teorie su questa suddivisione sono diverse:
          - una sostiene che i patrizi fossero i discendenti dei primi senatori e i plebei i clienti dei patroni patrizi;
          - un'altra che i patrizi fossero i Latini, abitanti del Palatino e i plebei i Sabini insediati sul Quirinale ed entrati a far parte della società in un secondo tempo e pertanto in una condizione di inferiorità;
          - oppure che i patrizi fossero i grandi proprietari terrieri e i plebei i ceti emergenti economicamente tenuti in una condizione di inferiorità;
          - secondo la tradizione fu a Romolo a creare cento senatori (patres), i cui discendenti furono detti patrizi, e tutti gli altri erano plebei; 
          - per altri le gentes patrizie erano antiche organizzazioni politiche, anteriori alla civitas; quindi i patrizi sarebbero i membri (gentiles) di queste genti unitesi a formare la civitas originaria; 
          - per altri ancora, i patrizi sarebbero sorti dalla solidarietà di interessi di famiglie divenute ricche e potenti, e anche piuttosto imparentate.

          Di solito avviene che divengano più potenti le famiglie che si impiantano per prime nella fondazione di una città, che solitamente per ragioni di difesa formano un gruppo coeso, e che poi si arroccano sancendo dei privilegi verso i nuovi arrivati che cercano di insediarsi successivamente. Le dinamiche della psicologia dei gruppi, ben studiate e illustrate dallo psicoanalista britannico Wilfred Ruprecht Bion (1897- 1979), valgono anche per gruppi più estesi, dove si osserva che gli appartenenti al primo gruppo realizzano un senso di intrusione nei nuovi arrivati coalizzandosi contro di loro.

          Le cause dei contrasti sociali tra le due parti furono comunque di natura sia economica che politica, essendo chiaro per i plebei che se non si riscattavano politicamente non avrebbero neppure ottenuto un'equità economica. Tito Livio, nella sua Ab Urbe Condita, narra che i patrizi, una volta preso il potere esecutivo detronizzando Tarquinio il Superbo e cacciando definitivamente la monarchia nel 509 a.c., stabilirono di limitare ai soli componenti del loro ordine il governo annuale della città con il titolo di console.

          Pertanto la plebe era la "classe inferiore" base della economia e della milizia e ai patrizi erano riservate tutte le magistrature, l'accesso esclusivo ai collegi sacerdotali e al Senato. Peggio ancora: i patrizi usarono contro i plebei l'istituto del "nexum" per portare i debitori alla schiavitù, favorendo il loro ordine nelle cause contro i plebei e annullando le decisioni dei comizi centuriati. 

          Le continue guerre di Roma con i popoli vicini rendevano spesso impossibile alle famiglie agricole plebee, private dei maschi della famiglia per il lavoro dei campi, pagare i debiti che contraevano per sopravvivere durante la loro assenza. Così i patrizi si prendevano le terre e li facevano schiavi. I Patrizi in definitiva erano gli unici ad avere l'accesso al potere, in virtù del fatto che erano i soli a poter prendere gli auspicia.

          La caduta dei Tarquini ed i mutamenti nel quadro internazionale della prima metà del V sec. a.c., ebbero pesanti ripercussioni nella situazione economica di Roma. La sconfitta subita dagli Etruschi per opera di Ierone di Siracusa nella battaglia navale combattuta nelle acque davanti a Cuma, nel 474 a.c., portò al crollo del dominio etrusco in Campania, causando un grave danno per Roma, prosperata grazie alla sua funzione di punto di passaggio sul Tevere, lungo la via commerciale che conduceva dall'Etruria alle città etrusche della Campania. 



          LE XII TAVOLE

          Le leggi, fino al 450 a.c. circa, quando vennero promulgate le XII tavole da parte dei Decemviri, erano tramandate per tradizione orale da un pater familias al successore e solo i patrizi avevano accesso a questa conoscenza. Non c'è da stupirsi, era il mondo tribale in cui i guerrieri più potenti comandavano nella tribù, con un capo che, come tra gli animali, era il più forte, o il più aggressivo o, nel caso più fortunato, magari il più esperto.

          Era quel mondo barbarico  che i romani poi esecrarono e mutarono, dove il capo famiglia aveva diritto di vita e di morte su moglie figli, come fu all'inizio della civiltà romana, perchè non essendoci leggi scritte vigeva la legge del più forte.

          Le XII Tavole in realtà non introdussero grandi novità, perchè i Decemviri si sarebbero limitati a redigere per iscritto gli antichi mores, cioè i costumi vigenti in quell'epoca, possederne le iscrizioni significava però che i patrizi non potessero rigirarsele a loro vantaggio.



          ESTRATTI  DALLE  XII TAVOLE

          Tavola I (procedura civile)
          - Se (l'attore) lo cita in giudizio, (il convenuto) ci vada. Se non ci va, (l'attore) chiami dei testimoni. Quindi lo afferri.
          - Se la malattia o l'età avanzata sono un impedimento, gli sia dato un mulo. Se non lo vuole, non gli sia data alcuna lettiga.
          - Se ambo i contendenti sono presenti, il tramonto sia il limite ultimo del processo.

          Tavola II (procedura civile)
          - Grave malattia... o un giorno stabilito contro il nemico... se qualcuno di questi è un impedimento per il giudice o qualsiasi partito, quel giorno i procedimenti devono essere sospesi.
          - Uno che cerca testimonianza da un assente deve gridare davanti alla sua porta ogni quarto giorno.

          Tavola III (procedura esecutiva)
          - Per un debito riconosciuto, una volta emessa sentenza regolare, il termine di legge sarà di trenta giorni.
          - Dopo ciò, ci sia l'imposizione della mano (manus iniectio) e il debitore sia trascinato in giudizio. 
          - Se il debitore non paga la condanna e nessuno garantisce per lui, il creditore può portare via con sé il convenuto in catene. Lo può legare con pesi di almeno 15 libbre. 
          - Il debitore può sfamarsi come desidera. Se egli non riesce a sfamarsi da solo, il creditore deve dargli una libbra di grano al giorno. Se vuole può dargliene di più.
          - Al terzo giorno di mercato, (i creditori) possono tagliare i pezzi. Se prendono più di quanto gli spetti, non sarà un illecito.
          - Nei confronti dello straniero, è perpetuo l'obbligo di garantire la proprietà della merce.

          Tavola IV (genitori e figli)
          - Un bambino chiaramente deformato deve essere ucciso.
          - Se un padre vende il figlio per tre volte consecutive perde la patria potestas su di lui. 

          Tavola V (eredità)
          - Se una persona muore senza aver fatto testamento, il parente maschio prossimo erediterà il patrimonio.
          - Se questo non c'è erediteranno gli uomini della sua gens.
          - Se qualcuno impazzisce, il suo parente più prossimo maschio e i gentili avranno autorità su di lui e sulla sua proprietà. 

          Tavola VI (proprietà)
          - Quando taluno fa un nexum o una mancipatio, come solennemente pronuncia, così sarà il suo diritto (cioè il tenore e la portata del diritto dipenderanno esattamente dalle parole proferite).
          - Nessuno deve spostare travi da edifici o vigne.

          Tavola VII (mantenimento delle strade)
          - Mantengano le strade: se cadono in rovina, i passanti possono guidare le loro bestie ovunque vogliano.
          - Se la pioggia fa danni [...] la questione sarà risolta da un giudice.

          Tavola VIII (illeciti)
          - Se una persona mutila un'altra e non raggiunge un accordo con essa, sia applicata la legge del taglione.
          - Coloro che hanno cantato un maleficio.
          - Chiunque rompa l'osso di un altro, a mano o con un bastone, deve pagare trecento sesterzi se è un libero; centocinquanta se è uno schiavo; se abbia commesso altrimenti offesa la pena sia di venticinque.
          - Chi si appropriasse con la magia del raccolto o il grano di un altro...
          - Se avrà tentato di rubare nottetempo e fu ucciso, l'omicidio sia considerato legittimo.
          - Se di giorno [l'omicidio è legittimo], se [il ladro] si sarà difeso con un'arma [e se il derubato avrà prima tentato] di gridare aiuto.
          - Se un patrono (cittadino autorevole in genere patrizio, con legame di patrocinio, ossia di protezione, con i clientes) froda il cliente (cittadino che, per la sua posizione svantaggiata nella società, è costretto a ricorrere alla protezione del "patronus"), sia condannato alla sacertà (sanzione giuridico-religiosa che determinava un'infrazione della pax deorum.
          Quest'ultima era un'espressione del diritto penale romano, nel periodo regio, per indicare una situazione di concordia tra la comunità dei cives e le divinità della religione romana; ad es. disonorava i vincoli sociali e religiosi tra patronus e cliens, o tra tribuno della plebe e gli altri magistrati. 
          Questi, condannato alla maledictio, secondo le leges sacratae, era consacrato a Giove e il suo patrimonio era consacrato a divinità plebee, garantendo l'impunità a colui che uccidesse il colpevole.
          - Chi sia stato chiamato a testimoniare o a pesare con una bilancia, se non testimonia, sia disonorato e reso incapace di ulteriore testimonianza.
          - Se una lancia sfugge dalla mano o viene lanciata per sbaglio (uccidendo qualcuno ndt), si sacrifichi un ariete.
          Tavola IX (principi del processo penale e controversie)
          - Non devono essere proposte leggi private a favore o contro un singolo cittadino (privilegi). 

          Tavola X (regole per i funerali)
          - Quando un uomo vince una corona, o il suo schiavo o bestiame vince una corona per lui.
          - Nessun morto può essere cremato né sepolto in città.
          - Nessuno deve aggiungere oro (a una pira funebre). Ma se i suoi denti sono tenuti insieme dall'oro e sono seppelliti o bruciati con lui, l'azione sia impunita. »

          Tavola XI (matrimonio)

          - È vietato il matrimonio fra plebei e patrizi.

          Tavola XII (crimini)
          - Se uno schiavo ha commesso furto o un male [...].
          - Se qualcuno abbia portato in giudizio una falsa vindicia (il pretore?) dia tre arbitri, e paghi il doppio (del bene?) e dei frutti.

          Le XII tavole furono un passo in avanti per i plebei, perchè le interpretazioni delle leggi, e perfino la decisione di quale fosse il giorno giusto per il dibattimento di una causa, restavano in mano ai patrizi attraverso i collegi degli auguri che decretavano i "giorni fausti" e i "giorni infausti".

          D'altra parte anche le leggi delle XII tavole non portarono che miglioramenti limitati. La fissazione su bronzo e l'apposizione del testo alle colonne del tempio resero necessario definire anche una serie di altre decisioni accessorie, i giorni infausti, dovettero essere ben definiti e in quei giorni era chiusa ogni attività forense. Queste leggi, inoltre, rimanevano molto discriminatorie nei confronti della plebe. Basti citare la legge che vietava il matrimonio fra componenti dei due ordini e che fu abrogata dopo pochi anni con l'approvazione, fra immani contrasti, della Lex Canuleia nel 445 a.c.



          LA MILIZIA

          La distinzione tra patriziato e plebe significò per molti una coincidenza tra patriziato e cavalleria, da un lato, e plebe e fanteria, dall’altro. Ma per altri si identifica con i patrizi e i loro clienti il populus (cioè il popolo in armi), riservando invece alla plebe una funzione ausiliaria.
          Se così fosse non si spiegherebbe l’impoverimento economico che faceva decadere tra la plebe tante famiglie patrizie impoverite, come dimostra la decadenza numerica dei patrizi: delle circa 130 genti note alle fonti antiche non ne rimanevano, sul finire della repubblica, che 14 con circa 30 famiglie. 

          L’esercito romano era infatti composto per la maggior parte da cittadini-agricoltori e a causa delle continue guerre di Roma con i popoli vicini le famiglie plebee, che si mantenevano grazie al lavoro svolto dal capo-famiglia e dai figli maschi nei campi, non riuscivano a parare i debiti contratti per sopravvivere durante l’assenza dei maschi impegnati in guerra. Come già detto, attraverso il nexus i patrizi si impadronivano delle terre e rendevano in stato di schiavitù i contadini-combattenti e le loro famiglie.

          Essendo gli unici a poter godere del diritto di diventare magistrati e senatori, partecipare ai comizi, ottenere cariche sacerdotali, i patrizi finirono per abusare della loro posizione utilizzando, ad esempio, il nexus per rendere in schiavitù la classe plebea. Populus e plebe finirono per essere identificati, in contrapposizione al gruppo dei patrizi.

          PATRONUS CHE RICEVE CLIENTES - Gustave Boulanger


          LE SECESSIONI

          In questa situazione di oppressione i plebei riuscirono ad ottenere l'istituzione del tribuni della plebe, la cui autorità per proteggerli dagli eccessi dei patrizi fu da questi accettata. Queste prime forme di emancipazione furono ottenute anche attraverso la secessione, cioè la decisione di uscire in massa dalla città e di non rientrarvi fino alla soddisfazione delle richieste. Questo rese impossibile la chiamata della leva militare contro i confinanti e sempre pronti nemici e il patriziato dovette accettare questa diminuzione del potere quasi assoluto.

          La protesta dei plebei fu dunque di lasciare la città, non svolgere più i loro compiti (sia civili che militari) e ritirarsi sul Monte Sacro o, per un'altra tradizione, sull'Aventino. La secessione preoccupò molto i patrizi, soprattutto per l'esercito. Menenio Agrippa decise, allora, di andare a parlare con i plebei, garantendogli che molte delle loro rivendicazioni sarebbero state soddisfatte ed i plebei accettarono di fermare la protesta.

          La plebe ottenne l'istituzione dei tribuni della plebe eletti durante i Concili della plebe. Inizialmente solo solo due, successivamente fino a dieci. Non molto tempo dopo ai plebei fu, come conseguenza, aperto l'accesso alle cariche di dittatore, censore e pretore. Compito dei tribuni era "prestare soccorso" ai cittadini che si rivolgevano a loro contro abusi di potere da parte dei patrizi; proprio per questo la porta della casa dei tribuni era sempre aperta, giorno e notte. 



          IL DIRITTO DI VETO

          Altro potere dei tribuni era il "diritto di veto" sui decreti emanati da altri magistrati o sulle delibere del senato considerate lesive per la plebe e per i cittadini. Allo stesso modo, le decisioni di un tribuno della plebe potevano essere annullate o sospese da altri magistrati.
           
          Fu dichiarata un'altra secessione risolta da Quinto Ortensio, plebeo, che nominato dittatore riuscì a riportare i plebei in città. Dopo poco tempo fu approvata la legge Ortensia, proposta dal dittatore, con cui i plebei ebbero il riconoscimento giuridico delle loro assemblee popolari, i concili della plebe, che cambiarono il nome in comizi tributi, cioè comizi del popolo riunito per tribù.



          I PLEBISCITI

          Le delibere dei comizi tributi, formati da maggioranza plebea, presero il nome di plebisciti e divennero vincolanti sia per i plebei che per i patrizi. Da quel momento cessarono le differenze politiche tra i due Ordini e verso la fine della repubblica si assistette a passaggi di membri dall'Ordine dei patrizi all'Ordine dei plebei in quanto ai plebei era consentito di salire a tutte le cariche mentre ai patrizi non era consentito essere eletti tribuni della Plebe. 

          La crisi politica che portò al termine del conflitto degli ordini avvenne nel 287 a.c. quando gli agricoltori, nonostante una legislazione ormai imponente, ancora impossibilitati a restituire i debiti per aver partecipato alle guerre, chiesero al Senato di essere sollevati dal gravame finanziario, ma senza esito.

          La secessione che ne seguì fu dichiarata e venne risolta da Quinto Ortensio, plebeo che, nominato dittatore, riuscì a riportare i plebei in città in un modo che ci è sconosciuto. Probabilmente ci fu la promessa di una legge adeguata e, infatti, poco dopo fu approvata la "Lex Hortensia" che dava uguale peso ai decreti del Senato e alle assemblee della plebe. Da quel momento cessarono le differenze politiche fra i due ordini anche se rimasero distinte certe forme, per lo più esteriori.

          Addirittura, come già detto, verso la fine della Repubblica si assistette a casi di passaggi di membri del patriziato all'ordine plebeo; famoso quello di Publio Clodio Pulcro in quanto, mentre ai plebei era concesso di salire a tutte le cariche, ai patrizi non era consentito essere eletti tribuni della plebe e ciò, paradossalmente era una limitazione delle possibilità del cursus honorum. Non a caso Giulio Cesare, seppure di gens patrizia, si iscrisse e militò nel partito dei Populares, cioè della plebe.

          Rimasero tuttavia sempre patrizi il rex sacrorum, i tre maggiori dei flamines e dei salii, gli interreges, il princeps senatus, ma essendo naturalmente esclusi dalle magistrature plebee, i patrizi erano in certo modo in condizioni di inferiorità rispetto alla plebe.



          LE LEGGI IN FAVORE DEI PLEBEI

          509 a.c. - Lex Valeria de provocatione - rogata dal console Publio Valerio Publicola per cui la pena capitale di un condannato a morte poteva essere cambiata in altra pena per decisione popolare.

          V sec. a.c. - I "Fasti" riportano numerosi casi di consoli con nomi plebei  quando l'accesso alla carica doveva, da tradizione, essere riservato ai patrizi.

          496 a.c. - secessione sul Monte Sacro - la plebe riuscì a far riconoscere i propri diritti ed a far eleggere i propri rappresentanti, i tribuni della plebe. Ai tribuni della plebe spettarono le seguenti prerogative:
          la sacrosanctitas, ovvero l'inviolabilità personale,
          lo ius auxilii, cioè il diritto di aiuto nei confronti di un uomo della plebe,
          la intercessio, ovvero il diritto di veto contro i decreti dei magistrati.367 a.c. - le leggi Licinie-Sestie riservavano ai plebei uno dei posti di console e aprirono quindi anche le altre magistrature.

          471 a.c. - Lex Publilia Voleronis - Istituzione dell'elezione dei tribuni della plebe da parte dei comizi tributi (che comprendevano sia patrizi che plebei)

          454 a.c. - Lex Icilia - Concessione di terre ai plebei. Dichiarava ager publicus l'Aventino.

          451 a.c.
          - il senato richiede ad una commissione di dieci persone, i decemviri (di cui tre sono gli esperti che avevano studiato le leggi straniere), di redigere in forma scritta le leggi civili e penali in modo ordinato e preciso.
          Il decinvirato sostituì tutte le magistrature ordinarie per tutto l'anno, sia della plebe che dei patrizi, ed era formato da: Appio Claudio, Tito Genucio, Publio Sestio, Lucio Veturio, Gaio Giulio, Aulo Manlio, Publio Sulpicio, Publio Curiazio, Tito Romilio e Spurio Postumio.

          450 a.c. - il senato rinnovò il mandato dei decemviri, inserendovi altri cinque membri plebei. Sempre in questo anno Appio Claudio, nobile e ambizioso uomo politico, assunse la direzione della commissione, con lo scopo di far diventare stabile tale concilio, instaurando una tirannide.

          449 a.c. - Leggi delle XII Tavole, il Senato sciolse la commissione e ripristinò le magistrature ordinarie. La plebe ottenne leggi scritte, incise su dodici tavole di bronzo, esposte nel Foro così che tutti possono consultarle. Le Leggi delle XII Tavole riconoscono, per la prima volta a Roma, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la certezza del diritto. 

          421 a.c. - Anche la plebe può accedere alla questura

          367 a.c. - Leges Liciniae Sextiae promulgate da Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio, per cui uno dei due consoli poteva essere eletto fra i componenti dell'ordine plebeo. 

          343 a.c. - Lex Genucia - almeno uno dei due consoli doveva essere plebeo

          339 a.c. - Lex Publilia Philonis De Plebiscitis - Si stabilisce che un plebiscito può avere valore di legge, qualora il Senato abbia concesso la propria preventiva auctoritas.

          326 a.c. - Lex Poetelia-Papiria - Abolizione della schiavitù per debiti

          300 a.c - Il plebiscito Ogulnio aumentò i pontefici da 4 a 8, stabilendo che 4 fossero plebei, mentre gli auguri passarono da 4 a 9, dei quali 5 dovevano essere plebei. 

          287 a.c. - Lex Hortensia de Plebiscitis - fu promulgata durante la Repubblica, dal dittatore Quinto Ortensio a seguito di un ennesimo conflitto tra patrizi e plebei.
          La legge imponeva che le deliberazioni prese durante il Concilium plebis (concilio della plebe) dovessero vincolare tutto il popolo romano, per cui i Plebiscita (le decisioni dei concilia plebis tributa), vennero equipararte alle leges rogatae, le deliberazioni dei comitia centuriata.

          149 a.c. - Lex Atinia - Tribuni della plebe automaticamente promossi al Senato.

          91 a.c. -
          Il tribuno della plebe Marco Lucio Druso, propone una riforma del senato, una riforma agraria e la concessione della cittadinanza agli italici. Uccisione del tribuno.

          88-84 a.c. - il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo promuove un'alleanza tra cavalieri e popolazione che genera la guerra civile fra Mario e Silla.

          58 a.c. - Lex Clodia de capite civis Romani - Prevedeva l'esilio per chi avesse condannato un cittadino romano senza aver concesso la Provocatio ad popolum cioè senza accordargli la possibilità di appello al popolo

          58 a.c. - Lex Clodia de iure et tempore legum rogandarum - Liberava l'attività dei comizi da tutti i limiti derivanti dagli "auspici"

          45-44 a.c. - Lex Cassia - provvedimento emanato nel 137 a.c., che allargò lo scrutinio segreto dalle assemblee elettorali (Lex Gabinia, 139 a.c.) alla corte circa la concussione.

          30 a.c. - Lex Saenia
          Queste attribuirono rispettivamente a Cesare e ad Augusto la facoltà di elevare i plebei al patriziato, facoltà divenuta in seguito censoria e come tale assunta da Claudio, Vespasiano e Tito; scomparsa la censura, la facoltà rimase agli imperatori.
          Nel frattempo si andava diffondendo la pratica del clientelato, attraverso il quale la plebe poteva essere facilmente controllata dai patrizi ed essere dunque usata come strumento politico. 

          Successivamente le leggi si occuparono di risollevare le sorti degli schiavi e dei servi, ma non si parlò più di patrizi e plebei perchè ormai, aldilà delle ricchezze personali (e talvolta i liberti diventavano più ricchi degli optimates), la parità legislativa tra patrizi e plebei era fatta.


          BIBLIO

          - Giovanni Rotondi - Leges publicae populi Romani. Elenco cronologico con una introduzione sull'attività legislativa dei comizi romani - Milano - Società Editrice Libraria - 1912.
          - Paul Krüger - Studi critici nel regno del diritto romano - 1870
          - Theodor Mommsen - Digesta, recogn. - 1889.
          - J.Carcopino - La vita quotidiana a Roma all'apogeo dell'Impero - Laterza - Bari - 1971.
          - Diritto romano - thes.bncf.firenze.sbn.it, - Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
          - Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL).
          - Salvatore Di Marzo - Manuale elementare di diritto romano - Utet - Torino - 1954.

          FOSSA DRUSI - FOSSA DRUSIANA

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          BRUSO MAGGIORE

          DRUSO MAGGIORE

          Druso (38 a.c. - 9 a.c.), il designato successore di Cesare Augusto, morì improvvisamente nel 9 a.c. a causa di una caduta da cavallo, che gli procurò una frattura alla gamba con conseguente infezione. Svetonio afferma nei suoi scritti che Druso si rifiutò di tornare a Roma dopo l’incidente, morendo quindi a Mogontiacum. In 4 anni di campagne, Druso era riuscito a fortificare la provincia con numerose guarnigioni e fece costruire più di cinquanta fortini lungo il Reno.


          I FUNERALI DI DRUSO

          « Serrario, uno degli storici di Magonza, pensa forse più ragionevolmente degli altri, e come lo prova Floro nella sua storia, che sia stata fondata o almeno notevolmente ingrandita dieci anni prima di Cristo, da Nerone Claudio Germanico genero dell'imperatore Augusto e fratello di Tiberio. 

          Altri dicono che Marco Agrippa, uno dei luogotenenti di Augusto, avea posto un campo munito dove ora si innalza la città, per difendersi dai germani che scendevano dal monte Janus, e che poi il detto Druso Germanico fabbricò nel luogo medesimo la fortezza Magonziaca.

          Druso Germanico, padre dell'altro celebre Germanico, morì presso Magonza ove Augusto gli fece innalzare un monumento: il canale che Druso fece scavare per unire il Reno all'Issel portò per lungo tempo il nome di Fossa Drusiana. 

          Il pd Giuseppe Fuchs narra nell'Istoria antica di Magonza, che essendo Druso meritatamente adorato dall'armata e dai popoli, nel trasporto del cadavere da Magonza a Roma, tutte le città e colonie gli celebrarono solenni esequie, ed in persona incontrò a Pavia il convoglio di Augusto che l'aveva nominato suo successore, il quale ordinò che entrasse in Roma con gli onori consolari e trionfali, perchè eragli stato decretato un trionfo. »

          (Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica di Gaetano Moroni, Venezia,Tipografia Emiliana, 1847)



          MONTIAGUM

          Mogontiacum, attuale città di Magonza, in Germania, fu una importante fortezza legionaria romana. In origine, la Renania era occupata dalla popolazione dei Celti. In seguito i Romani la conquistarono mediante le guerre galliche che Cesare svolse dal 58 a.c. al 50 a.c. e nel 13-11 a.c. vi fondarono un castrum chiamato appunto Mogontiacum.

          L’accampamento sorse per volere del comandante Nerone Claudio Druso (detto anche Druso maggiore), figlio della terza moglie di Augusto, Livia Drusilla, e fratello del futuro imperatore Tiberio, per tenere sotto controllo le tribù germaniche dei Catti, dei Mattiaci e dei Vangioni e per continuare la guerra per la conquista dell’intera Germania.

          CANALE DI CAIUS AVILLIUS CAIMUS 

          I CANALI ROMANI

          La regolazione delle acque è la base delle civiltà sia per l'agricoltura che per l'igiene. I Greci, in paese piccolo e sminuzzato e senza grandi fiumi, mancò l'occasione di farvi una grande esperienza. Ma i Romani non impararono quest'arte dai Greci, bensì dagli Etruschi che molto operarono con e sulle acque con grandi opere di bonifica.

          - Emilio Scauro nel 115 av. asciugò le paludi del Po scavando canali tra Parma e Piacenza.
          - Grandi lavori si fecero pure attorno alle paludi Pontine, e Augusto vi scavò un canale parallelo alla
          via Appia.
          - Da non dimenticare il canale intrapreso da Mario verso lo sbocco del Rodano;
          - Appunto il canale di Druso fra il Ileno e l'Yssel;
          - Il canale di Corbulone alle imboccature delle Mosa e del Reno.
          - Un canale arditissimo cominciò Nerone, che dal lago di Averno dovea comunicare da un lato col lago Lucrino nel golfo di Baia, dall'altro con Roma per le paludi Pontine, lungo da 160 miglia, e largo da lasciar il cambio di due triremi; "manentque vestigia irritae spei" (Tacito), in quella che ancora si chiama Fossa di Nerone.
          - Sotto Tiberio si divisò di congiungere la Chiana dell'Arno per diminuire le inondazioni del Tevere in cui quella affluiva.
          - Lo scolo del lago di Fucino, ora Celano, già tentato da Cesare, fu effettuato da Claudio, aprendo un canale traverso a montagne, ove lavorarono trentamila persone. E' questo l'emissario più grande d'Europa, neppur eccettuato quello del lago Cepal in Beozia, opera greca antichissima. Per esso il lago scende nel Liri, a più di tre miglia romane di distanza, ed è profondo da 50 a 200 piedi, largo 6, alto 10; prima attraverso la roccia, poi, ch'è più difficile attraverso il terreno calcare, sostenuto con muri ed archi; tratto tratto vi han de' pozzi per darvi aria e luce. Il governo napoleonico intraprese a ripristinarlo nel 1806.

          (Dizionario Univ. Archeol. Artist. Tecnol. - Luigi Rusconi 1859)

          DRUSO MINORE

          LA FOSSA DRUSI

          I romani non erano nuovi allo scavo dei canali, 
          - Un canale navigabile sull'esterno di Corinto (km. 6) era stato progettato da Periandro (Diogenes Laertius  I 7, 93); 
          - Nerone ne fece iniziare l'escavazione ma l'abbandonò; 
          - Vespasiano la proseguì ma anch'egli fu costretto a rinunciare.
          (Svetonio, Nerone 19; Joseph B. Wirthlin III 10; Luciano, Nerone,  Ner.; Cassiodoro LXIII 16-19). 

          La Fossa Drusi o fossa drusiana è il nome di un canale artificiale costruito in epoca augustea da parte del generale Druso maggiore durante la prima delle sue campagne militari svolte in Germania nel 12 a.c.

          Del canale di Druso ce ne parla Svetonio:

          « Questo Druso fu questore e poi pretore, ed ebbe un comando in Rezia e poi in Germania, dove navigò come primo generale romano sopra l'Oceano settentrionale, costruendo un canale artificiale che lo collegasse con il fiume Reno, in un'impresa colossale. Tale canale ancora oggi porta il suo nome.»

          (Svetonio, Claudio, 2-4.)

          Tacito  conferma raccontando le campagne in Germania di Germanico degli anni 14-16:
          « Germanico una volta distribuiti i viveri, le legioni e gli ausiliari sulle navi, entrò nel canale scavato dal padre, Druso, e pregò per suo padre che lo aiutasse nell’impresa, ora che stava assumendo gli stessi rischi per se stesso, grazie al suo misericordioso e benigno modello, ed il ricordo delle sue azioni.»

          (Tacito, Annales, II, 8.)

          Non sappiamo dove il canale fosse collocato. Si suppone che esso partisse da Arnheim, una città dei Paesi Bassi collocata sul basso Reno, per congiungerlo a Ussel, che è uno dei tre rami principali in cui si divide il Reno, dopo aver attraversato la frontiera tra Germania e Paesi Bassi.
          Ussel veniva indicato dai Romani con il nome Isala (o Sala), e da esso prendeva il nome l'antica tribù dei Franchi Salii.

          Il canale di Utrecht, tra Utrecht e IJsselmeer, sembra quindi fosse il canale di Druso, ma a seguito di una recente teoria sembra che fosse affiancato da un secondo canale tra lo Zuiderzee, un golfo dei Paesi Bassi ed il Mare del Nord, tanto che la Lange Renne, un affluente del Reno, si potrebbe considerare come parte di questo sistema di canali.

          Con l'aiuto di questo canale navigabile Druso poté mettere in comunicazione continua il Reno con il Mare del Nord, permettendo alla "classis Germanica" di costituire una minaccia permanente per le tribù germaniche residenti lungo la costa oceanica.


          BIBLIO

          - Smith - "Canali romani" - Atti della Società Newcomen - vol. 49 - NAF - 1977/78 -
          - KD Bianco - Tecnologia greca e romana - London - Thames and Hudson - 1984 -
          - Moore, Frank Gardner - "Tre Progetti di Canale, romano e bizantino" - American Journal of Archaeology , vol. 54, No. 2 - 1950 -
          - Gaetano Moroni - Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica - Venezia - Tipografia Emiliana - 1847 -
          - Bela Gerster - L'Isthme de Corinthe: tentatives de percement dans l'antiquité - Bulletin de Correspondance Hellénique - VIII -1884 -
          - Svetonio - Vita dei Cesari - Claudio -
          - Tacito - Annales - II -
          - Kenneth Scott - Drusus, nicknamed "Castor" - in Classical Philology - vol. 25 - nº 2 - 1930 -
          - Rodolfo Lanciani - I Commentarii di Frontino intorno le acque e gli acquedotti - silloge epigrafica aquaria - Roma - Salviucci - 1880 -
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