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GENS PETRONIA

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La gens Petronia fu un'importante gens della Repubblica e dell'Impero romano. La loro origine non era romana, ma era in parte etrusca, in parte umbra e in parte e soprattutto sabina. Nella città umbra di Perusia (Perugia) ne sono state ritrovate le urne cinerarie con iscrizioni etrusche. 

Un ramo della famiglia ebbe in seguito il cognomen Umbrinus mentre a Montepulciano è attestato l'aruspice Gaio Petronio, figlio di Crispina (l'indicazione della madre è tipico della cultura etrusca); a Praeneste (Palestrina) ci sono tombe del VII-VI sec. che recano il nome etrusco "Petruni".



PETRONII D'EPOCA REPUBBLICANA

I Petronii compaiono solo nel II sec. a.c. nella storia romana.

- Un GAIO PETRONIO è nominato dallo storico Polibio, inviato in Asia nel 156 a.c. per esaminare le ragioni del contrasto tra i re di Pergamo e della Bitinia;
- Un LUCIO PETRONIO, di umile origine giunse al rango equestre nell'87 ac.
- All'epoca di Giulio Cesare, molti Petronii avevano un posto nell'esercito. Nell'anno 53 a.c. un PETRONIO servì sotto Marco Licinio Crasso e fu testimone oculare della sua morte nella campagna contro i Parti;
- MARCO PETRONIO era centurione della Legio VIII di Cesare: si sacrificò con i suoi soldati per conquistare Gergovia (52 a.c.).



PETRONII D'EPOCA IMPERIALE

PETRONII SENZA COGNOMEN; PETRONII TURPILIANI

FLAVIO ANICIO PETRONIO PROBO
Il ramo più importante della famiglia fu quello dei Petronii senza cognomen (anche se alcuni membri pare avessero il cognomen Turpilianus). Questo ramo della famiglia era di chiara discendenza sabina.

- PUBLIO PETRONIO - prefetto d'Egitto - erroneamente chiamato Gaio - cavaliere romano, prefetto d'Egitto nel 25-21 a.c. circa, forse identico al tribuno militare di Crasso;

- PUBLIO PETRONIO TURPILIANO - triumviro monetale - direttore della zecca nel 20-18 a.c. circa, figlio del precedente, forse da identificare col proconsole della Hispania Baetica nel 6/5 a.c. Con lui la famiglia raggiunge il rango senatoriale;

- PUBLIO PETRONIO - augure - probabilmente figlio del precedente, augure, console suffetto nel 19, proconsole d'Asia nel 29-35, governatore di Siria nel 39-42;

- PETRONIA - Petronia - prima moglie di Vitellio - madre di Vitellio Petroniano;

- SERVIO CORNELIO DOLABELLA PETRONIANO - Servio Cornelio Dolabella Petroniano, console nell'86 assieme all'imperatore Domiziano, poi senatore;

- PUBLIO PETRONIO TURPILIANO - Publio Petronio Turpiliano - del ramo più prestigioso della gens Petronia - console nel 61 - morì nel 68 -

- TITO PETRONIO DETTO ARBITRO - Tito Petronio detto Arbitro - detto Petronius Arbiter elegantiarum - (Massilia 27 – Cuma 66) - politico e scrittore - autore del Satyricon;

- GAIO PETRONIO - Gaio Petronio - console suffetto tra settembre e dicembre 25 - probabilmente fratello di Publio.



PETRONII NIGRII

I Petronii Nigri furono probabilmente imparentati strettamente con i Petronii senza cognomen e con i Petronii Turpilliani.

- GAIO PETRONIO PONZIOS NIGRINO - forse figlio di Lucio Ponzio Nigrino - forse adottato da Gaio Petronio (console suffetto 25) - console nel 37 -

- PUBLIO PETRONIO NIGRO - console suffetto del 62, figlio del precedente, talvolta confuso con Petronio Arbitro;

- PONZIA - probabilmente figlia di Petronio Nigro;

GENS PETRONIA


PETRONII UNBRINI

- GAIO PETRONIO UMBRINO;

- PETRONIA - figlia del precedente, sposa Galeo Tettieno;

- QUINTO PETRONIO UMBRO - figlio di Gaio, legato di Nerone nel 54;

- MARCO PETRONIO UMBRINO - figlio del precedente, console suffetto dell'81;

- MAECO PETRONIO CREMUZIO - figlio del precedente, arvale nell'87.



ALTRI PETRONII DEL I SECOLO

- PETRONIO MUSA - farmacologo;

- PETRONIO ARISTOCRATE (34-62) - di Magnesia, filosofo, amico e insegnante di Aulo Persio Flacco;

- AULO PETRONIO LURCONE - console suffetto del 58;

- PETRONIO PRISCO - bandito nel 65 per aver partecipato alla cospirazione di Pisone;

- MARCO PETRONIO FLACCO e MARCO PETRONIO NARCISSO - menzionati come cavalieri in Pannonia nel 61;

- PETRONIO URBICO - procuratore in Norico nel 68 -

PUBLIUS PETRONIUS TURPILIANUS


PETRONII PROBIANI

- PETRONIO PROBIANO - Petronius Probianus (315-331; ... – ...) uomo politico dell'Impero romano, console nel 322, praefectus urbi nel 329-331. Probiano discendeva da una famiglia di rango senatoriale. Suo figlio era Petronio Probino, console nel 341, e suo nipote Sesto Petronio Probo, console del 371. Fu proconsole d'Africa nel 315-317, ricoprì un incarico nel 321 (forse prefetto del pretorio), fu console prior del 322 (la sua nomina non fu riconosciuta in Oriente) e infine praefectus urbi dall'ottobre 329 al aprile 331. Scrisse dei versi, conservati nell'Anthologia Latina (I 783); Quinto Aurelio Simmaco compose dei versi in suo onore ('Lettere, I.2).

- PETRONIO PROBINO -
figlio di Petronio Probiano, praefectus urbi di Roma dal 329 al 331, mentre suo figlio Sesto Petronio Probo fu prefetto del pretorio; tra i suoi nipoti ci furono i consoli del 395, Anicio Probino e Anicio Ermogeniano Olibrio, il console del 406 Anicio Petronio Probo e l'aristocratica Anicia Faltonia Proba. Probino fu console posterior nel 341 e praefectus urbi di Roma dal 5 luglio 345 al 26 dicembre 346. 

SESTO PETRONIO PROBO - figlio del precedente, console nel 371 (CIL V, 5344, Verona);

- ANICIO PETRONIO ERMOGENIANO OLIBRIO - figlio di Anicia Faltonia Proba e di Sesto Petronio Probo, console nel 395, uno dei più influenti uomini della sua epoca e console nel 371, e fratello di Flavio Anicio Probino, col quale divise il consolato per l'anno 395;

- ANICIO  PETRONIO PROBINO - della gens anicia, aristocratico, figlio di Sesto Petronio Probo, console nel 371, e di Anicia Faltonia Proba; fratello di Flavio Anicio Ermogeniano Olibrio, Anicio Probo e Anicia Proba. Padre di Petronio Massimo, brevemente imperatore nella primavera del 455;

ANICIO PETRONIO PROBO - della gens Anicia, Petronia e Olybria, figlio di Sesto Petronio Probo (console nel 371) e di Anicia Faltonia Proba, poetessa cristiana; i fratelli maggiori furono Anicio Ermogeniano Olibrio e Anicio Probino (consoli nel 395). Nel 400 circa fu questore eletto (dall'imperatore), fu console nel 406.

POETESSA
- FALTONIA PETRONIA BETIZIA PROBA -
( 351-362; ... – ...) figlia di Probiano (console nel 322) e di Demetria, sorella di Petronio Probino, console del 341, suo nonno paterno fu Pompeo Probo, console nel 310. Sposò Clodio Celsino Adelfio, praefectus urbi nel 351, dal quale ebbe almeno due figli, Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio e Faltonio Probo Alypio, tutti alti funzionari imperiali. Ebbe anche una nipote, Anicia Faltonia Proba, figlia di Olibrio e Tirrania Anicia Giuliana: attraverso questo matrimonio Faltonia Proba si era dunque imparentata anche con l'influente gens Anicia. Nata da famiglia pagana, Proba si convertì da adulta, facendo poi convertire anche il marito e i figli. Faltonia Proba morì prima di Celsino, e venne probabilmente sepolta assieme a lui nella basilica di Sant'Anastasia al Palatino, la prima chiesa cristiana a Roma, dove, fino al XVI sec. c'era un'iscrizione funebre, apposta su di una colonna presso l'altare maggiore della chiesa, che fu poi ricollocata a Villa Borghese nel XVIII sec. prima di scomparire. Era proprietaria, assieme al marito, degli Horti Aciliorum, posti a Roma sul Pincio.
Fu la più importante e influente poetessa di lingua latina della Tarda antichità, famosa per aver scritto il "Cento vergilianus de laudibus Christi", un centone (poema composto da collage di frasi) composto da versi di Virgilio formanti un poema epico centrato sulla figura di Gesù. Il primo poema, forse composto quando era ancora pagana, riguardava lo scontro tra l'imperatore Costanzo II e l'usurpatore Magnenzio.
San Gerolamo espresse un giudizio negativo su questa opera, affermando che una «vecchia chiacchierona» voleva «insegnare le scritture prima di averle comprese», ritenendo «il Marone [Virgilio] senza Cristo un cristiano» (Lettera 53.7); invece sant'Isidoro di Siviglia la lodò. Ma san Girolamo aveva una scarsa simpatia per le donne.
Papa Gelasio I (492-496) dichiarò il De laudibus Christi un'opera apocrifa e, sebbene non eretica, ne proibì la declamazione in pubblico. Ma l'opera godette di un certo successo e venne copiata per gli imperatori Arcadio e Teodosio II, mentre durante il Medioevo si continuò a utilizzarla per scopi educativi, e Giovanni Boccaccio inserì Proba tra le donne illustri nel suo De mulieribus claris; l'edizione a stampa del De laudibus Christi, risalente al 1472, fu probabilmente la prima di un'opera composta da una donna.

- PETRONIO PROBINO - console nel 489, figlio di Rufio Achilio Mecio Placido (console nel 481), ebbe un figlio di nome Rufio Petronio Nicomaco Cetego (console nel 504) e una figlia, Blesilla. Era famoso per le sue capacità retoriche

- RUFIO PETRONIO NICOMACO CETEGO - figlio del precedente, console senza collega nel 504. Nel 512 ottenne il patriziato, che tenne fino al 558 circa; in seguito divenne magister officiorum e fu portavoce del senato (caput senatus).


BIBLIO

- Appiano di Alessandria - Historia Romana -
- Tacito - Historiae -
- Svetonio - De vita Caesarum -
- Mario Enzo Migliori - L’Origo Gentis Romanae. Ianiculum e Saturnia - 2015 -

CITTA' SCOMPARSE DEL LATIUM VETUS

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CITTA' DEL LAZIO SCOMPARSE A CAUSA DELLE CONQUISTE ROMANE

Sul Monte Cavo, sotto la direzione di Albalonga, in mezzo al recinto sacro, sull'ara dedicata a Giove, nella festa annua delle Feriae Latinae, si sacrificava un toro bianco le cui carni si dividevano tra i rappresentanti di tutte le tribù della lega sacra. Plinio nomina parecchie comunità latine federate, di cui alcune ignote e senza traccia:

Albani, Accienses, Aefulani, Abolani, Bolani, Bubentani, Carventani, Cusuetani, Coriolani, Fidenates, Foreti, Hortenses, Latinienses, Laurentes, Longulani, Manati, Macrales, Mucienses, Numintenses, Octulani, Olliculani, Pedani, Poletaurini, Papiri, Polluscini, Rutuli, Sanates, Sasolenses, Sisolenses, Tolirienses, Titienses, Vitellienses, Vimitellari, Vetulani.
Molti di questi popoli e delle loro città presto scomparvero.

Le città scomparse del Lazio arcaico, o Latium Vetus, riguardano cinquanta antichissime comunità, fiorite nell'età del bronzo (3400 a.c. al 600 a.c. circa), in gran parte distrutte a causa delle prime conquiste romane in età regia (753 a.c. 509 a.c.).

Il Latium era la parte meridionale dell'attuale Lazio, a sud del fiume Tevere, che lo divideva dai territori dell'Etruria meridionale (oggi Lazio settentrionale) e a nord del fiume Garigliano (presso Sinuessa) che lo divideva dalla Campania, limitato dalla costa tirrenica ed esteso sulle propaggini degli Appennini verso l'interno, fino al Sannio (Molise, sud dell'Abruzzo e nord-est della Campania).

Il Latium venne occupato, verso la seconda metà del II millennio a.c., da alcune popolazioni di lingua indoeuropea: Latini, Falisci, Capenati, Ausoni, a cui seguirono Volsci, Equi, ed Ernici, appartenenti all'altro ramo linguistico degli Osco-umbri.

- I Latini, nel corso del I millennio a.c., propagarono la lingua e la cultura latina a gran parte del bacino del Mediterraneo e dell'Europa, per cui il termine "latino"è spesso sinonimo di "romano".
- I Falisci, cioè "abitanti di Falerii", (moderna Civita Castellana) è il nome che i Romani davano a un antico popolo dell'Etruria meridionale.
- I Capenati erano un popolo italico stanziato nel Lazio centro-settentrionale, confinante a est con i Sabini, a nord con i Falisci e a sud e ovest con gli Etruschi di Veio.
- Gli Ausoni erano per alcuni una popolazione osca, per altri un gruppo italico dei Latini, il latino-falisco, e avrebbero abitato le regioni del mar Tirreno, soprattutto la zona tra Nola e Sorrento.
- I Volsci erano un popolo italico di lingua indoeuropea, riconducibile alle genti osco-umbre, inseriti a sprazzi tra il territorio degli Etruschi a nord e quello dei Greci a sud..
- Gli Equi, forse osco-umbri che occupavano il territorio che da N a S si estende dalla Sabina a Trevi nel Lazio.
- Gli Ernici occupavano il territorio situato nel Lazio fra la valle del Liri e la valle del Sacco (Trerus), confinando con i Volsci a sud e con gli Equi ed i Marsi a nord.


Città del Latium vetus sopravvissute alla conquista romana

Le città del Latium Vetus sopravvissute alla conquista romana in quanto solo a partire dalla fine del V secolo a.c., le città conquistate durante la successiva estensione dello stato romano, furono non più distrutte, ma vennero annesse politicamente.

ROMANI DEL VI SECOLO A.C.

LA ROMANIZZAZIONE

Si trattava generalmente delle città più lontane da Roma, alle quali l'espansione romana giunse solo in un'epoca successiva; esse divennero: 
- municipia,
- o di diritto latino (latini nominis),
- o di diritto romano (optimo iure)
restando talvolta città importanti fino alla piena età storica e alcune anche oltre.
Il segreto risiedette nel fenomeno della Romanizzazione, un fenomeno che si riscontra solo nella civiltà romana, che operò da civilizzatrice, portando non solo il diritto romano, e non solo le comode invenzioni romane, e non solo la ricchezza dei commerci, ma pure un metodo di vita agiata, piena di stimoli, di cultura, di comodità e di divertimenti inediti.

      • Tra queste: Anxur (Terracina), Tibur (Tivoli), Cora (Cori), Capena (nel comune di Capena), Nomentum (Mentana), Praeneste (Palestrina), Lanuvium (Lanuvio), Velitrae (Velletri), Gabii (Gabi), Ardea (Ardea), Aricia (Ariccia), Tusculum (Frascati), Lavinium (Pratica di Mare - Pomezia).



      CITTA' SCOMPARSE IN SEGUITO ALLE CONQUISTE DI ROMA 

      Primi ad essere sottomessi a Roma furono i Latini, già in epoca regia. Poi furono sottomessi Equi, Volsci (della pianura pontina), Ernici, e ancora prima i Rutuli e gli Aborigeni. E alla fine tutta la terra di queste popolazioni fu chiamata latina.

      Molte città invece scomparvero completamente in epoche più o meno arcaiche: le più vicine a Roma, conquistate per prime e distrutte, e di esse spesso conosciamo addirittura solamente i nomi, tramandati dalle fonti antiche.


        Plinio il Vecchio

          • L'elenco più ampio di città scomparse del Lazio arcaico è quello di Plinio il Vecchio, che cita ben "LIII populi" di cui alla sua epoca (I secolo d.c.) non rimaneva traccia. Prima cita le città del Lazio con il loro nome, poi si elenca in ordine alfabetico le popolazioni cittadine dell'area albana, con il nome degli abitanti, definiti come "populi albenses":


          • L'Elenco
            « In prima regione praeterea fuere in Latio clara oppida 
            - Ameriola, 
            - Amitinum, 
            - Antemnae, 
            - Antipolis quod nunc Ianiculum in parte Romae, 
            - Camerium, 
            - Collatia, 
            - Corniculum, 
            - Crustumeria, 
            - Medullum, 
            - Norba, 
            - Politorium, 
            - Pometia, 
            - Saturnia ubi nunc Roma est, 
            - Scaptia, 
            - Sulmo, 
            - Tellena, 
            - Tifata, 

            et cum iis carnem in monte Albano soliti accipere populi Albenses: 
            Albani, Aesolani, Accienses, Abolani, Bubetani, Bolani, Cusuetani, Coriolani, Fidenates, Foreti, Hortenses, Latinienses, Longani, Manates, Macrales, Munienses, Numinienses, Olliculani, Octulani, Pedani, Poletaurini, Querquetulani, Sicani, Sisolenses, Tolerienses, Tutienses, Vimitellari, Velienses, Venetulani, Vitellenses.»

            (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 68-69)

          • ANTICHE CITTA' DEL LATIUM (INGRANDIBILE)
            Le città nominate realmente però non sono cinquantatré, ma cinquanta, e magari non è un errore di Plinio, perchè forse non si conosceva all'epoca il nome di tutte le città scomparse. Di poche di queste infatti si è individuato con sicurezza il sito, e di pochissime esistono tracce più o meno importanti.

              • Le ultime due città citate da Plinio nel suo primo elenco, Norba e Sulmo (Sermoneta), vennero distrutte molto tardi, nell'ambito della guerra civile tra Mario e Silla (I secolo a.c.) .

                  • Poi Plinio elenca i "populi albenses", cioè di coloro che abitavano nella regione del mons Albanus (poi Monte Cavo) o nelle zone limitrofe (Colli Albani). Questi popoli si erano riuniti con gli altri Latini del Latium Vetus nella Lega Latina, che aveva il santuario di Giove Albano sul Mons Albanus, dove periodicamente si riunivano per celebrare la festa delle feriae latinae, con il sacrificio di un toro bianco, le cui carni venivano ripartite tra i rappresentanti delle varie città lì riuniti, in un banchetto rituale. Alla fine delle celebrazioni una parte di queste carni veniva portata nella propria città da ognuno di questi rappresentanti per condividerle con i capi della proprio centro abitato.



                      • ALTRE FONTI

                        - Dionigi di Alicarnasso nelle Romanae Antiquitates, cita le ventinove città della Lega latina che, consoli Tito Larcio e Quinto Clelio Siculo (498 a.c.), si riunirono a Ferentino, dove anche per l'azione di Tarquinio il Superbo e Ottavio Mamilio, si coalizzarono contro Roma.
                        Contrariamente a Plinio l'elenco comprende sia città in seguito scomparse, sia città esistenti ai suoi tempi: Ardea, Aricia, Bovillae, Bubentum, Cora, Carventum, Circeii, Corioli, Corbio, Cabum, Fortinea, Gabii, Laurentum, Lanuvium, Lavinium, Labici, Nomentum, Norba, Praeneste, Pedum, Querquetula, Satricum, Scaptia, Setia, Tibur, Tusculum, Tolerium, Tellenae, Velitrae.

                        • - Strabone cita solo il nome di alcune città del Lazio scomparse alla sua epoca (fine del I secolo a.c. - inizi del I secolo d.c.):
                          Collatia, Antemnae, Fidenae e Labicum, ridotte ai suoi tempi a semplici villaggi o a possedimenti agricoli privati. 
                          Apiolae e Suessa descrivendo l'espansione romana nella pianura Pontina a danno dei Volsci, a cui tali città erano appartenute. 
                          Poi cita Alba Longa parlando dello stanziamento degli Equi non più esistente. Tra le città situate presso i Colli Albani nomina Tellenae, che però Plinio pochi decenni più tardi elenca tra le città ai suoi tempi scomparse.

                          • - Tito Livio cita a più riprese molte antiche città latine poi scomparse, coinvolte nelle vicende più antiche di Roma, narrate nei primi libri della sua opera Ab Urbe Condita.


                            I RESTI ARCHEOLOGICI

                            Solo poche delle città scomparse del Lazio arcaico hanno conservato dei resti archeologici:
                            Satricum, Politorium, Tellenae, Ficana, Crustumerium, Corniculum, Antemnae, Collatia, Fidenae, Pedum e Querquetulum.
                            Di altre, pur molto certificate, non conosciamo il sito esatto, vedi Alba Longa, Apiolae, Pometia e Corioli.



                              LE CITTA' DI PLINIO

                              E' il Latium Vetus con le città di Caenina, Antemnae, Crustumerium, Medullia, Fidene, Veio ecc. le città rivali della Roma di Romolo nell'VIII secolo a.c.. Essendo recente, se non attuale, all'epoca, l'assetto tribale, molti popoli vivevano in modo semi-nomadico, razziando bestiame e rubando raccolti dai terreni delle città vicine,  si che rispondere con la forza era d'obbligo.


                                  AMITINUM

                                    • Era un centro situato a est di Roma, sui monti Cornicolani, presso Corniculum, tra Sant'Angelo Romano (Medullum) e Montecelio (Corniculum), come sembra attestato dal rinvenimento di un'epigrafe che cita un "pagus amentinus" e dallo stesso Plinio il Vecchio. Abbiamo pure notizia di una tribù Mentina che non necessariamente può alludere ad Amitinum, e di un Colle Mentino che però si trova in pieno Abruzzo, e di un Amitino maior e pure minor, ambedue dei monti Corniculi, ma gli Amitinensi però erano un popolo stanziato nell'Etruria.
                                    •  


                                      • ANTIPOLI

                                        Per altri sarebbe Enapolis, o Eneopolis, un insediamento arcaico situato sul Gianicolo. Dionigi scrive che alla morte di Enea, Ascanio divise il territorio dei Latini in tre parti. Una la tenne per sè, su una vi fece edificare Alba, e la terza la dette ai suoi fratelli Romolo e Remo. Remo vi edificò Capua, Romolo vi edificò Eneopoli, in onore di suo padre, sul colle Gianicolo. Questo colle nell'età più antica non era compreso all'interno della città di Roma, ma fu inserito solo successivamente, anche perché costituiva un importante baluardo strategico.

                                          TERRACOTTA ANTENNATE

                                            ANTEMNAE

                                          Antemnae (dal latino ante amnem="davanti ai fiumi"), posizionata alla confluenza del fiume Tevere e Aniene, nei pressi dell'odierno monte Antenne, a circa 30 stadi da Roma.
                                          Dionigi (V, 21, 3) la enumera tra le città che appoggiarono i Tarquini nei loro tentativi di riprendere il trono e in particolare aderirono all'azione di Porsenna contro Roma.
                                          Viene identificata con il Monte Antenne, successivamente all'interno di Villa Ada nel comune di Roma. Era la capitale del popolo degli Antemnati.



                                          CAENINA 🔎

                                          Caenina una tra le più antiche città del Latium Vetus, ma non importante. I suoi abitanti erano detti Caeninenses. Non ne sono mai trovati i resti. 
                                        - Secondo Dionigi di Alicarnasso erano Aborigeni, vale a dire Sabini, che ne avevano cacciato gli Umbri che l'abitavano.
                                        - Per Marcio Porcio Catone erano di origine greca,
                                        - Festo scrive che era vicina a Roma,
                                        - Antonio Nibby la colloca all'interno della tenuta di Marco Simone, non distante da Crustumerium ed Antemnae,
                                        - da altri viene situato sulla sponda sinistra del fiume Aniene, 10 km prima della confluenza nel Tevere, e a 3 km dal Monte Sacro, al VI miglio della via Collatina, in zona di Ponte Mammolo.



                                          CAMERIA o CAMARIA o CAMERIUM

                                          Era una città latina situata a nord-est di Roma, citata da varie fonti in età monarchica. La città è menzionata da Plutarco contro la quale Romolo avrebbe combattuto, ucciso 6.000 dei suoi abitanti ed installato una colonia romana, sedici anni dalla fondazione di Roma. Potrebbe essere stata una colonia di Alba Longa.

                                        La città che, come tante altre città Latine, si era ribellata alla supremazia di Roma, alla morte di Anco Marzio si arrese ai romani guidati da Tarquinio Prisco, dopo che questo aveva conquistato con la forza Corniculum, e ne aveva tratto i superstiti come schiavi a Roma. Fu definitivamente distrutta nel 502 a.c. dai Romani guidati dal console Opitero Verginio Tricosto.

                                        «Sistemate le vigne e gli armamenti gli uomini stavano per fare breccia nelle mura, quando la città si arrese. Per gli Aurunci non ci fu nessuna pietà: nonostante la resa, subirono la stessa sorte che sarebbe toccata loro se la città fosse caduta a séguito di un assalto. I personaggi più in vista furono decapitati, mentre il resto dei coloni vennero venduti come schiavi. La città fu rasa al suolo e la terra messa all'incanto. I consoli ebbero il trionfo più per aver vendicato implacabilmente gli affronti subiti che per l'importanza del successo ottenuto in guerra

                                        (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro II, 17.)

                                        Secondo Dionigi Opitero Verginio guidò i Romani contro i cittadini di Camaria che, sconfitti, furono tratti in schiavitù, mentre la loro città fu rasa al suolo. 



                                        COLLATIA 

                                        - Strabone la colloca a circa trenta stadi da Roma, un semplice villaggio con tenute agricole o tenute agricole.
                                        - Tito Livio narra che la città fu tolta ai Sabini dal re Tarquinio Prisco, che fece governare da suo nipote Egerio.
                                        - Secondo la tradizione era stata una colonia di Alba Longa, fondata dal re latino Silvio, discendente di Enea.

                                        Qui nacque e visse Lucio Tarquinio Collatino, primo console di Roma insieme a Lucio Giunio Bruto, e marito di Lucrezia, che proprio a Collatia si suicidò, per aver dovuto cedere con le minacce, alle richieste amorose di Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo.

                                        Fu agli abitanti di Collatia, cui Bruto rivolse un accorato appello, perché si ribellassero alla tirannia dei Tarquini, prima di ripetere lo stesso appello ai Romani. 



                                        CORNICULUM

                                        Situata nell'ager Tiburtinus, era probabilmente città sabina, e il suo nome deriverebbe dalle due colline adiacenti che le unisce proprio come una coppia di piccoli corni.  

                                        - Alcuni la identificano con la città latina di Corniculum (patria secondo la tradizione di Servio Tullio), che cessò di esistere dopo essere stata sottomessa a Roma. 
                                        - Altri la identificano con la località Montecelio, sempre dei monti Carnicolani, dove sono stati ritrovati vari materiali risalenti all'età del ferro e frammenti ceramici del VII-VI secolo a.c., che per alcuni ne hanno suffragato l'identificazione.

                                        La città, che come tante altre città Latine, si era ribellata alla supremazia di Roma alla morte di Anco Marzio, venne conquistata e distrutta da Tarquinio Prisco, che ne trasse i superstiti come schiavi a Roma.

                                        Secondo la tradizione era la città natale di Ocresia, la madre di Servio Tullio, che sarebbe stata la moglie o la figlia del re della città, catturata come schiava al momento della distruzione.



                                        CRUSTUMENTUM o CRUSTUMERIA

                                        - Secondo Diodoro Siculo fu tra le città fondate da Silvio, figlio di Enea e di Lavinia, e quindi di origine latina.

                                        SEPOLTURE DI CRUSTUMENTUM
                                        - Secondo Dionigi di Alicarnasso fu fondata prima di Roma, dalla popolazione latina di Alba Longa.

                                        - Virgilio la nomina nell'Eneide tra le cinque città impegnate nella fabbricazione delle armi che le popolazioni dell'Italia centrale dovevano usare per combattere Enea.

                                        - Plutarco la ritiene di origine sabina.

                                        Era la capitale del popolo dei Crustumini, identificata con il centro antico individuato e solo in parte scavato in località Marcigliana Vecchia, a nord di Roma, lungo la via Salaria presso Settebagni. Dopo averlo un po' studiato, il sito è stato definitivamente ricoperto, con grande gioia dei tombaroli.



                                        FICANA 🔎

                                        Ficana era collocata sulla sponda sinistra del fiume Tevere, sulle piccole alture di Monte Cugno, presso la località Monti di San Paolo, ad Acilia, oggi ridotto a una collinetta, ma un tempo più scosceso, naturalmente difeso su tre lati, e posto a dominare strategicamente il Tevere fino alla foce.

                                        Michele Mattei attraverso l'analisi dei dati archeologici pubblicati, ha individuato almeno cinque aree di scavo del sito che mostrano segni di distruzione violenta proprio alla fine dell'VII secolo a.c., coeve dunque al presunto arrivo di Anco Marzio, leggendovi i chiari segni del passaggio del re romano sul sito. Sito che sarebbe stato si distrutto, ma ricostruito subito dopo, e romanizzato.

                                        In effetti, Ficana non aveva solo il controllo sulla foce del Tevere: di grande importanza per i romani era il possesso delle saline, che si trovavano pochi chilometri a ovest ed erano probabilmente sfruttate dai ficanesi stessi. 



                                        MEDULLIA o MEDULLUM

                                        • Medullia fu una delle città dei Latini che, come ricorda Tito Livio, entrarono in guerra con Roma nel VII secolo a.c., durante il regno di Ancus Marcius. La città fu quindi perduta e riconquistata nuovamente da Anco Marzio, a prezzo di quattro anni di durissimi combattimenti, dopo che la città aveva nuovamente tradito passando ancora una volta ai Latini.

                                          Tito Livio ricorda anche che la città faceva parte della Lega Latina che entrò in guerra con Roma
                                          durante il regno di Lucio Tarquinio Prisco. La città secondo Livio aveva una forte guarnigione ed era potentemente fortificata, ciononostante i romani la assediarono e la vinsero in una battaglia campale fuori dalla città. Nel 494 a.c. si ribellò nuovamente ai romani, alleandosi con i Sabini e stavolta venne distrutta.
                                          Secondo Hubert Zehnacker si sarebbe trovata presso Sant'Angelo Romano, sulla riva destra del fiume Aniene. Si tratta tuttavia di una teoria non ancora provata.



                                          POLITORIUM

                                          - Catone parla della sua fondazione, 
                                        • - Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso narrano della sua conquista e distruzione ad opera di Roma Anco Marzio, durante i suoi primi anni di regno, che però ne avrebbe trasferito la popolazione sull'Aventino.

                                        • La guerra tra Romani e Latini sotto le mura di Politorium si ripeté l'anno successivo al primo scontro, poiché i Latini l'avevano ripopolata con nuovi coloni. Questa volta i romani, dopo averla conquistata, ne rasero al suolo le mura, e ancora una volta deportarono gli abitanti in città.

                                        • Politorium fu dunque effettivamente conquistata e distrutta nel corso della prima espansione di Roma verso il mare nel VII secolo a.c., che portò alla caduta anche di Tellenae e di Ficana e che sarebbe culminata nella fondazione di Ostia, attribuita dalla tradizione allo stesso Anco Marzio. 

                                        • Politorium è stata identificata con il centro arcaico rinvenuto negli scavi della località di Castel di Decima, nella periferia sud-est di Roma. Manca tuttavia una conferma epigrafica che confermi con certezza la localizzazione.

                                        RESTI DI SATRICUM
                                        E' una delle 18 città latine fondate da Silvio, figlio di Enea, posta lungo il fiume Astura, in località Le Ferriere nel Comune di Latina.
                                        • - Nel 498 a.c., dopo che Roma ebbe sconfitto Fidenae, 29 città alleate contro Roma, tra le quali Satrico, si incontrarono per ristabilire il regno di Tarquinio il Superbo, ma vennero poi sconfitte nella battaglia del Lago Regillo.
                                        • - Nel 489 a.c. venne attaccata dai Volsci di Gneo Marcio Coriolano che saccheggiò la città e distrusse il tempio sull'Acropoli.
                                        • - Nel 390 a.c., mentre i Romani combattevano gli Equi, Velitrae e Satrico si ribellarono ai Romani.
                                        • - Nel 386 a.c. Marco Furio Camillo guidò i soldati contro Anzio, scontrandosi con l'esercito di Volsci, Latini ed Ernici, numericamente superiore, nelle campagne intorno a Satrico; e fu qui che Furio Camillo, lanciò il vessillo romano oltre le schiere nemiche, per spronare i Romani al combattimento:

                                        • «Dopo aver quindi suonato la carica, scese da cavallo e prendendo per mano l'alfiere più vicino lo trascinò con sé verso il nemico gridando: «Avanti l'insegna, o soldato!». Quando gli uomini videro Camillo in persona, ormai inabile alle fatiche per l'età avanzata, procedere verso il nemico levarono l'urlo di guerra e si buttarono all'assalto tutti insieme, ciascuno gridando per proprio conto «Seguite il generale!».
                                        • (Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 8.)

                                        • Nello scontro i Romani ebbero la meglio, ma i Volsci riuscirono a ritirarsi entro le mura di Satrico, grazie a un provvidenziale temporale che interruppe lo scontro.

                                        • - L'anno successivo il Senato inviò a Satrico, una colonia romana di 2 000 cittadini, che però fu attaccata nel 384 a.c. dai Volsci e dai Prenestini, che riconquistarono la città. Ancora una volta Roma richiamò Furio Camillo, che riportò una difficile vittoria sui Volsci.
                                        • - Nel 377 a.c. ancora una minaccia dei Volsci che si erano uniti ai Latini. Organizzata la leva, l'esercito fu diviso in tre parti, uno a difesa della città, una della campagna romana, e il grosso agli ordini di Lucio Emilio e Publio Valerio che combatterono nei pressi di Satrico con esito favorevole. 
                                        • Mentre i Volsci si ritirarono ad Anzio, dove trattarono la resa, consegnando la città e le sue campagne ai Romani, i Latini, volendo continuare il conflitto contro i romani e perciò furiosi per la defezione degli alleati, diedero fuoco a Satrico che fu distrutta; in quest'occasione si salvò solo il tempio di Mater Matuta.
                                        • - Nel 349 a.c. Satrico fu nuovamente ricostruita dai Volsci di Anzio, che vi fondarono una colonia. Ma Roma, temendone la rinascita, le mosse guerra sconfiggendo ancora una volta i Volsci; Satrico fu data nuovamente alla fiamme, e ancora una volta solo il tempio di Mater Matuta fu risparmiato.

                                        • Antonio Nibby localizzò il sito di Satricum in quella che era diventato il Casale di Conca, all'interno dell'omonima e vasta tenuta, che dal 1713 era di proprietà del Sant'Offizio di Roma. 



                                        • SATURNIA

                                          Secondo Varrone si sarebbe trovata sul Campidoglio, ai piedi del quale sarebbe esistito un santuario dedicato al Dio Saturno, mentre Ovidio nei Fasti attribuisce il nome a Roma stessa. Su questa base si è ipotizzata una connessione con il "nome segreto" di Roma, sulla presunta e misteriosa esistenza del quale ci informano varie fonti antiche. 
                                          Si sarebbe trattato di un nome rituale, noto solo ai sacerdoti di rango più elevato; doveva rimanere segreto per evitare che incantesimi magici potessero attirare sventure sulla città. Il principio era che se la magia era diretta al nome di Roma non avesse effetto in quanto non era il suo vero nome.
                                          La Dea Angerona, col dito sulle labbra ad incitare al segreto, avrebbe avuto la funzione di proteggere la segretezza di tale nome. Tuttavia, che questo nome fosse proprio "Saturnia" resta pura speculazione. 


                                        SCAPTIA 

                                        Secondo Tito Livio avrebbe dato il suo nome alla tribù Scaptia. Per la sua collocazione si è ipotizzata la piana sottostante Tivoli.



                                        SUESSA POMETIA

                                        Citata da numerosi autori antichi, non ha tuttavia una precisa localizzazione: si è ipotizzato per le moderne Cisterna di Latina e Borgo Podgora. La moderna città di Pomezia, fondata negli anni trenta del XX secolo, ne riprende infatti solo il nome.



                                        TELLENAE

                                        Secondo la mitologia romana, fondata dagli Aborigeni in conseguenza del rito della primavera sacra, fu distrutta dai romani guidati da Anco Marzio durante l'espansione di Roma verso il mare nel VII secolo a.c., mentre la popolazione sarebbe stata trasferita sull'Aventino.

                                        - Strabone cita Tellenae come prossima ai Colli Albani. L'autore non specifica peraltro che alla sua epoca fosse scomparsa, ma si può supporre che fosse ridotta a un villaggio insignificante, e pochi decenni più tardi, ai tempi di Plinio, poteva risultare effettivamente abbandonata del tutto.

                                        - Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso ne riportano la distruzione ad opera di Anco Marzio durante l'espansione di Roma verso il mare nel VII secolo a.c., mentre la popolazione sarebbe stata trasferita sull'Aventino.

                                        Un insediamento nell'attuale località di La Giostra, nella zona di Roma Castel di Leva, tra la via Ardeatina e la via Appia antica, venne identificata da Antonio Nibby come Tellenae. In seguito, l'archeologo britannico Thomas Ashby, accertò che si trattasse solo di un castrum romano del IV secolo a.c., recentemente identificato nell'antica Mugillae.

                                        Tellenae sembrerebbe esser stata identificata con un villaggio rinvenuto nella zona Fonte Ostiense, su un pianoro prospiciente il fosso dell'Acqua Acetosa, lungo l'attuale via Laurentina, ma anche in questo caso mancano comunque conferme epigrafiche per l'identificazione.



                                        TIFATA

                                        Di ignota collocazione, avrebbe dato il nome alla "curia Tifata", istituita secondo la tradizione all'epoca di Romolo.

                                        TRIONFO DI FURIO CAMILLO

                                        LE CITTA' DESUMIBILI DAI POPOLI ALBENSES CITATI DA PLINIO

                                        I popoli albensi (populi albenses) erano una foederatio di trenta popolazioni dell'Italia preromana (i prisci Latini) stanziate nell'antico Latium vetus tra il X (età del bronzo finale) e l'VIII secolo a.c. (età del ferro avanzata). Il termine albenses li indicava come partecipanti alla cerimonia del banchetto sacro sul mons Albanus, nel santuario di Giove Laziale.


                                          ALBA LONGA                                                                                                                                                                                                                                                                                                           Alba Longa fu il capo della confederazione dei popoli latini, la città principale e più grande di tutto il Latium vetus per tutta l'età arcaica, che dava il suo nome al mons Albanus (Monte Cavo) e al lago sottostante, lacus Albanus (lago Albano).

                                        ALBANUM
                                        «Qui i Romani, riunendosi insieme tutti, fanno sacrifici a Giove, insieme ai Latini. Per tutta la durata della cerimonia, mettono a capo della città un giovane di famiglia patrizia
                                          (Strabone, V, 3, 2.)

                                          Alba venne fondata da Ascanio, figlio di Enea, trent'anni dopo la fondazione di Lavinium. Dalla sua casa regnante discese Romolo. Sotto Tullo Ostilio, nella prima metà del VII secolo a.c., le due città entrarono in conflitto e Alba venne distrutta dai Romani. 
                                        Strabone riferisce che il santuario della città sarebbe stato risparmiato e che gli Albani vennero dichiarati cittadini romani. 

                                        Il sito esatto della città antica non si conosce: alcuni l'identificano con Castel Gandolfo, sulle pendici del Monte Cavo. Si sa che Settimio Severo ricavò dalla grande villa, costruita da Domiziano nel circondario di Alba, un accampamento per la II Legio Partica, chiamato "Castra Albana", da cui si sviluppò nella tarda antichità la città di Albano Laziale.


                                        BOLA

                                        Città dei Latini, situata tra Labicum e Praeneste.

                                        - Virgilio la cita nell'Eneide, 
                                        - Livio la chiama Bolae, 
                                        - Diodoro Sicula la ricorda come colonia di Alba Longa, Plinio il Vecchio pone Bola tra le città albane scomparse,
                                        - Dionigi d'Alicarnasso la cita come una delle città prese dai Volsci condotti da Coriolano, saccheggiate le case, fatti schiavi gli uomini, arresa e per questo incendiata dai Volsci.

                                        Nel 418 a.c. i Romani rasero al suolo l'antica Labicum, che si era ribellata, e ne distribuirono il territorio a 1500 veterani. Bola avrebbe subito la stessa sorte tre anni dopo, quando venne conquistata dai romani comandati dal tribuno consolare Marco Postumio Regillense, se costui non avesse suscitato un ammutinamento con il suo comportamento arrogante. Bola venne tuttavia conquistata da Furio Camillo, reduce dalla vittoria contro i Volsci nei pressi di Maecium, nel 389 a.c.

                                        Diodoro Siculo ne parla come se poi fosse stata occupata dai Latini e assediata dagli Equi. Questa è l'ultima menzione nota della città; probabilmente fu distrutta durante queste guerre e non se ne trovano ulteriori tracce, se non in Plinio il Vecchio che la cita tra le città scomparse. Finita l'era repubblicane se ne perdono le tracce.

                                        Si presume fosse posta nella Valle del Sacco presso l'antica Labicum (forse odierna Monte Compatri). Secondo Francesco de' Ficoroni e Antonio Nibby, Bola occupava il sito di Lugnano, (odierna Labico) allora un villaggio a 7 chilometri a sud di Palestrina (Praeneste), e a 12 chilometri a sud-est di Colonna.



                                        CORIOLI

                                        Secondo Dionigi una città-stato dei Volsci, identificata nella località località Monte Giove, presso Genzano. La città è legata a Coriolano, che da essa riprese il suo cognomen. Venne prima conquistata in una campagna militare contro i Volsci di Anzio. Nel 493 a.c., il console Postumio Cominio invase il territorio dei Volsci e Corioli venne conquistata, dopo un breve assedio, grazie al valore militare del giovane Gneo Marcio, soprannominato "Coriolano".

                                        Nel 489 a.c. venne nuovamente riconquistata dai Volsci, condotti dallo stesso Coriolano. In seguito il territorio di Corioli, conteso fra Aricini e Ardeati, divenne ager publicus.

                                        Sulla cima del colle di Monte Giove si conserva un terrazzamento rettilineo, di circa 200 metri e alto 3 metri, costituito da un costone di tufo tagliato verticalmente con funzione difensiva. Questo costone era rinforzato da molti blocchi di tufo lunghi un piede romano (29 cm), alcuni dei quali si conservano oggi sul posto, del VI secolo a.c. Probabilmente su questa terrazza si apriva una delle porte della città, visto la stretta apertura praticata nella roccia da cui si sale verso il casale moderno.

                                        Un cunicolo ipogeo noto come "Grotta del Tesoro" veniva utilizzato per la raccolta delle acque per l'approvvigionamento idrico della città.

                                        CAPANNA DEI FIDENATI

                                        FIDENE 

                                        Sorse nel sec. XI a.c, sul colle di Villa Spada, a circa 8 km a nord di Roma sulla Via Salaria, vicina al corso del Tevere, all'incrocio tra le vie commerciali tra Romani, Sabini, etruschi e Sanniti, nonché in contatto con i traffici fluviali del Tevere, grazie al quale di terre fertili. L'acropoli di Fidene probabilmente sorgeva sulla collina di Villa Spada, dove attualmente sorge l'omonima borgata Fidene. La città era cinta da mura e apparteneva al suo territorio anche la zona di Montesacro.

                                        Secondo gli storici Fidene fu fondata dagli Albani, con a capo:
                                        - secondo Solino fu Ascanio,
                                        - per Dionisio fu il maggiore di tre fratelli che fondarono contemporaneamente anche Nomentum e Crustumerium.

                                        La guerra tra Roma e Fidene durò per circa 400 anni, svolgendosi sotto Romolo, sotto Numa Pompilio, Tullio Ostilio e con i Tarquini.
                                        Plutarco racconta due versioni:
                                        - una secondo cui Roma riuscì a catturare Fidene, facendola assalire all'improvviso da un gruppo di cavalieri, a cui aveva dato ordine di tagliare i cardini delle porte di accesso della città, seguiti poi a sorpresa dall'esercito di Romolo.
                                        - Un'altra secondo cui furono i Fidenati a scatenare il conflitto, armando squadroni di cavalieri per devastare le campagne romane saccheggiando e uccidendo. Allora Romolo, andò con l'esercito dalla città nemica, ma una piccola parte andò sotto le mura, e il resto nel bosco. Una volta aperte le porte della città, i Fidenati si lanciarono sulle linee nemiche che fuggirono per raggiungere la boscaglia, dove vennero decimati e risospinti fino alla città che venne vinta e distrutta.

                                        Venne in parte riedificata ma riportata poi come decadente da Orazio e Strabone. L'unica notizia successiva la danno Svetonio e Tacito, a proposito del crollo di un teatro ligneo edificato per spettacoli temporanei presso Fidene nell'anno 27 d.c., che causò la morte di circa 20.000 persone, sulle 50.000 presenti, e che fu ricordato come uno dei peggiori disastri causati dal crollo di teatri in epoca romana.



                                        LONGULA

                                        Corrisponde secondo Antonio Nibby all'odierna località di Buon Riposo (ma non se ne ha ancora certezza), nel territorio di Aprilia dove emergono anche i resti di Polusca (a Campoleone) e insediamenti Rutuli a Casalazzara. Longula, inizialmente città latina, abitata cioè dai Longani, venne occupata dai Volsci, e poi fu riconquistata dai romani. Fu anche luogo di un importante scontro della II guerra sannitica, dove i Romani affrontarono i Sanniti che furono sbaragliati in uno scontro campale. 



                                        PEDUM

                                        Una delle città più importanti della Lega Latina, situata tra Tibur e Praeneste, presso l'odierna Gallicano nel Lazio. Nel 484 a.c. i Romani, in rotta dopo la sconfitta patita ad Anzio contro i Volsci, riuscirono a sconfiggere questi ultimi nella battaglia di Longula, sovvertendo così le sorti della guerra. Venne conquistata dai Romani prima ad opera di Coriolano e quindi definitivamente nel 338 a.c. In seguito decadde.



                                        QUERQUETULUM 

                                        Citata da Dionigi di Alicarnasso, è identificata in genere con Corcolle, tra Tivoli e Gallicano nel Lazio. In effetti nel nome stesso del questo piccolo villaggio di Corcolle sembrerebbe sopravvivere il nome più antico di Querquetulum. Nelle vicinanze di Corcolle sono venuti alla luce dei materiali dall'età del ferro fino al II secolo a.c., tra cui oggetti votivi riferibili a un tempio connesso con una fonte.



                                        TOLERIUM

                                        Tolerium, facente parte della Lega Latina, fu la seconda città conquistata dai Volsci nel 489 a.c., dopo Circei, condotti da Gneo Marcio Coriolano. Giunti sotto le città, trovarono gli abitanti sulle mura, pronti alla battaglia. Dopo averli costretti ad abbandonare le posizioni sulle mura, con l'intervento dei frombolieri, i Volsci riuscirono ad entrare, attaccando contemporaneamente la porta e le mura. I Volsci ne trassero un ricco bottino.
                                        Di incerta localizzazione, secondo Antonio Nibby si dovrebbe identificare con l'odierna Valmontone, ma ancora non se ne hanno prove certe. 



                                        VETELLIA o VETELIA

                                        Poco se ne sa, se non che si trovava sul confine tra Latini ed Equi e viene citata da Svetonio a proposito delle origini dell'imperatore Vitellio, a causa della somiglianza del nome. 



                                        APIOLAE 

                                        Antica cittadella dei Latini, non menzionata da Plinio, ma distrutta dal re di Roma Tarquinio Prisco e definita da Livio e Plinio come Oppidum Latinorum. A seguito all'annessione dei Sicani, per opera del re Anco Marzio, gli Apiolani si ritrovarono confinanti con gli stessi Romani.
                                        Morto il re e decaduto quindi il precedente accordo di pace con Roma, gli Apiolani invasero il territorio romano compiendo diversi saccheggi. Fu conquistata e distrutta dai romani condotti da Tarquinio Prisco. Venne localizzata dal Nibby a Castel Savello, tra Pavona e Albano Laziale. .


                                        BIBLIO

                                        - Massimo Pallottino - Origini e storia primitiva di Roma - Milano - 1993 -
                                        - Lorenzo Quilici - Roma primitiva e origini della civiltà laziale - Roma - Newton Compton - 1979 -
                                        - Antonio Nibby - Analisi storico-topografico-antiquaria della carta de' Dintorni di Roma - Antemna, Antemnae - 1837 -
                                        - Giovanni Maria De Rossi - Apiolae (Forma Italiae, Regio I, vol. IX), Roma, De Luca - 1970 -
                                        Andrea Carandini - La leggenda di Roma, volume II. Dal ratto delle donne al regno di Romolo e Tito Tazio, Mondadori - Fondazione Valla - Milano - 2010 -
                                        - Appiani alexandrini historia romana - Immanuel Bekker (a cura di) - 2 voll. - Lipsiae - in aedibus B. G. Teubneri - 1852-53 -
                                        - Emilio Gabba - Dionigi e la storia di Roma arcaica - Bari - Edipuglia - 1996 -
                                        - Tito Livio - Storia di Roma - Newton Compton - 6 volumi - traduzione di Gian Domenico Mazzocato - Milano -1997 -
                                        - Plinio il Vecchio - Naturalis Historia - libro III -

                                        PORTE AURELIANE

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                                        PORTA APPIA

                                        LE MURA AURELIANE 

                                        Vennero costruite tra il 270 e il 275 dall'imperatore Aureliano per difendere Roma, capitale dell'impero, dalla minaccia di incursioni barbare. Subì numerose ristrutturazioni in epoche successive, si che ancora oggi si presentano in un buono stato di conservazione per la maggior parte del tracciato.
                                        Risultati immagini per aureliano
                                        AURELIANO

                                        In parte sono anche percorribili internamente con reperti e musei.
                                         
                                        Per limitare le spese di edificazione vennero inglobate nelle mura alcuni monumenti, come l'Anfiteatro Castrense, la Piramide Cestia, due o tre lati del Castro Pretorio, di cui furono murate altrettante porte, e diversi tratti di vari acquedotti.

                                        La cinta muraria era alta dai 6 agli 8 metri (più 2 di fondazioni) e dello spessore di 3,30 metri (60 cm di muro e 2,70 m di ronda). Anticamente correvano per circa 19 km, oggi solo per 12,5 km (benché alcuni tratti siano in condizioni critiche). Costruite oltre 1.700 anni fa, con il loro percorso di oltre 18 km, sono tra le cinte murarie antiche più lunghe e meglio conservate al mondo.

                                        Aureliano governò solo cinque anni, assassinato dai suoi stessi soldati per mire di potere, e fu un peccato perchè fu un ottimo generale ed imperatore, e se fosse vissuto ancora sicuramente l'impero romano avrebbe avuto vita più lunga.


                                        Ecco l'elenco delle 17 porte che si aprivano nelle Mura Aureliane, da nord ed in senso orario:

                                        Porta Flaminia, poi diventata Porta del Popolo; da qui inizia la Via Flaminia.
                                        - Porta Pinciana, forse un semplice accesso secondario ampliato in occasione della ristrutturazione del V secolo.
                                        Porta Salaria, demolita e scomparsa, da qui iniziava la Via Salaria;
                                        Porta Nomentana, da qui iniziava la vecchia Via Nomentana; ora chiusa e sostituita a un centinaio di metri di distanza da Porta Pia, dove inizia la nuova Via Nomentana;
                                        Porta Praetoriana, successivamente Porta Clausa in quanto venne chiusa nel V secolo. La Porta Praetoriana era la vecchia entrata, sul lato occidentale, ai Castra Praetoria, la caserma della Guardia Pretoriana; fu eliminata da Costantino quando questi sciolse la guardia; scomparsa.
                                        - Porta Tiburtina, poi chiamata Porta San Lorenzo; da qui iniziava la via Tiburtina (ora chiamata Via Tiburtina Antica); la moderna Via Tiburtina inizia poco più avanti.
                                        Porta Praenestina-Labicana, ora Porta Maggiore, da qui iniziavano la Via Prenestina e la Via Labicana; qui si incrociano tre acquedotti.
                                        Porta Asinaria, da qui iniziava la vecchia Via Asinaria, da cui poi partiva la Via Tuscolana; ora la porta è inutilizzata e si trova accanto alla nuova Porta San Giovanni aperta nel XVI secolo, da dove parte la Via Appia Nuova.
                                        Porta Metronia, o Metrovia, in corrispondenza della Porta Querquetulana della cinta muraria serviana.
                                        Porta Latina, da qui inizia la Via Latina.
                                        Porta Appia, ora Porta San Sebastiano, da qui inizia la Via Appia Antica.
                                        Porta Ardeatina, probabilmente una semplice posterula; oggi scomparsa.
                                        Porta Ostiensis, ora Porta San Paolo accanto alla Piramide Cestia; da qui inizia la Via Ostiense;
                                        Porta Portuensis, da qui iniziava la Via Portuense; con la costruzione delle Mura gianicolensi fu abbattuta e sostituita, qualche centinaio di metri più a nord, dalla Porta Portese; scomparsa.
                                        Porta Aurelia, da qui inizia la Via Aurelia; con la costruzione delle Mura gianicolensi fu ricostruita e denominata Porta San Pancrazio.
                                        Porta Settimiana, successivamente inglobata all'interno delle Mura gianicolensi cessò la sua funzione di bastione; scomparsa.
                                        Porta Cornelia, poi chiamata Porta San Pietro, si trovava sulla riva sinistra del Tevere, di fronte all'odierno Ponte Sant'Angelo. Oggi scomparsa.

                                        PORTA ASINARIA

                                        MAUSOLEO DI LUCIO SEMPRONIO ATRATINO

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                                        LUCIO SEMPRONIO ATRATINO

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                                        Nel 22 intraprese un viaggio in Africa dal quale tornò con un male incurabile e, al suo ritorno, dopo la celebrazione del trionfo per le azioni vittoriose compiute nella provincia, si suicidò nel 20 a.c., a 53 anni, tagliandosi le vene dei polsi in una vasca d’acqua calda, onde darsi una morte dignitosa. Il suo cambiamento di partito da Antonio a Ottaviano dovette essere molto convinto perchè lasciò tutti i suoi averi all'imperatore Augusto.



                                        IL MAUSOLEO

                                        Non conosciamo nè la data di inizio lavori del mausoleo nè la data del termine dei lavori, per cui ci sono tre ipotesi:
                                        - il mausoleo era già ultimato prima della morte di Atratino, essendo stato iniziato in precedenza; 
                                        - il mausoleo era in corso di costruzione, al tempo della morte, e venne fatto ultimare dall’imperatore.
                                        - alla morte di Atratino la costruzione del mausoleo non era iniziata e fu diretta da Augusto, utilizzando i beni lasciatigli dal defunto; 
                                        Augusto aveva un suo codice d'onore molto preciso per cui sicuramente avrebbe ultimato o ordinato del tutto un mausoleo di colui che era diventato suo amico.

                                        Il mausoleo di Lucio Sempronio Atratino venne anche chiamato Mole Atratina o Torre dell'Atratina, ed è situato nel centro abitato di Gaeta, sul colle Atratino, che costituisce l'area superiore del quartiere Porto Salvo. 

                                        L'area in cui si sorge il quartiere di Porto Salvo era, in epoca romana, occupata da alcune ville, tra le quali quella dell'imperatore Antonino Pio sul versante occidentale dell'istmo di Montesecco, quella di Lucio Sempronio Atratino (nell'area superiore dell'attuale quartiere) e quella di Lucio Marcio Filippo, marito di Azia, figlia di Giulia, che a sua volta era la sorella di Cesare, per cui divenne padre adottivo di Ottaviano Augusto.

                                        Il mausoleo di Lucio si trova oggi sul colle Atratino che da esso prende nome; non lontano da via Gastone Maresca, all'incrocio tra via Atratina (che lo costeggia sulle fiancate settentrionale e occidentale), via Cuostile e via Cristoforo Colombo. Già in posizione isolata rispetto al centro abitato, è attualmente in una zona densamente edificata a scopo residenziale.

                                        MAUSOLEO DI LUCIO MINAZIO PLANCO COME IMMAGINE DEL MAUSOLEO DI ATRATINO INVIOLATO 

                                        DESCRIZIONE

                                        Il mausoleo ha pianta circolare, del diametro di m 36,30, con una circonferenza di m 114. Lungo il perimetro, internamente vi è un alto corridoio anulare largo m 2,50 coperto con volta a botte; di quest'ultimo manca tutta la metà meridionale, crollata in seguito allo scoppio del 1815. 

                                        Esso si eleva per 13,30 metri dal suolo raggiungendo col torrino m 18,10 e ciascuno dei suoi lati misura 9 metri di larghezza. Il torrino era a pianta circolare, in parte ancora visibile, raggiungibile tramite una scala situata all'interno del corridoio anulare.


                                        LA PIANTA - Il TRATTEGGIATO E' CROLLATO NEL 1815
                                        Intorno al pilastro centrale a base quadrata, avente lato di circa 3 metri, si sviluppano quattro ambienti principali, disposti a croce: in corrispondenza di ciascuno dei punti cardinali (ad eccezione dell'ovest), vi sono tre celle a pianta rettangolare, di m 6 x 4, anch'esse coperte con volta a botte. 

                                        In luogo della quarta cella, vi è una cisterna per l'acqua, elemento peculiare del mausoleo di Atratino, a pianta ellittica e foderata internamente di cocciopesto. 

                                        Gli ambienti intermedi sono aperti verso l'alto e, qualora la copertura del mausoleo fosse stata dotata di uno strato apicale di terriccio con piante come in monumenti coevi, probabilmente essi erano ricolmi di terra così da poter accogliere le radici dei soprastanti alberi.

                                        Il mausoleo di Atratino somiglia molto al coevo mausoleo di Lucio Munazio Planco, situato sul poco lontano monte Orlando, il quale in luogo della cisterna presenta una quarta cella funeraria. Inoltre non è stato spogliato come il mausoleo atratino. 

                                        Rispetto al mausoleo di Planco quello atratino è leggermente più ampio, e con le fiancate più alte di circa 5 metri (il torrino è presente solo sul mausoleo di Atratino). Per le sue dimensioni, il mausoleo di Atratino è nel suo genere il più grande del Lazio, superato solo da quelli di Augusto (31-4 a.c.) e di Adriano (secondo decennio del II secolo d.c.) a Roma.

                                        TRIGLIFI E METOPE DEL MAUSOLEO

                                        IL CAMPANILE DEL DUOMO

                                        Il mausoleo Atratino è privo del rivestimento esterno in conci lapidei, in quanto vennero utilizzati per costruire il basamento del campanile del Duomo di Gaeta e la scalinata degli Scalzi. Il basamento del campanile, costruito nel XII secolo, riutilizzò infatti parte del rivestimento esterno del mausoleo di Lucio Sempronio Atratino, lungo il perimetro sia esterno che interno del sepolcro, con diversi elementi scultorei ed epigrafici del mausoleo.

                                        Sulla fiancata sinistra del campanile sono visibili infatti diversi conci lapidei decorati a bassorilievo con metope e triglifi, costituenti il coronamento esterno del mausoleo. Sullo stesso lato del basamento, in basso a sinistra, vi è un blocco recante la seguente epigrafe:

                                        «L(ucius)•ATRA[tinus]»

                                        Tale iscrizione, letta come parte della parola "latrator", presente nel IX libro delle Metamorfosi di Ovidio e riferita ad Anubi, attraverso i cui latrati il Dio Mercurio dava i suoi vaticini, fece scambiare il basamento del campanile per la base di un tempio dedicato a Mercurio.

                                        Diverse metope e triglifi costituiscono il filare inferiore del lato anteriore del basamento, alla sinistra dell'arcata di ingresso; altre metope si trovano all'interno del basamento, sulle pareti della scalinata monumentale, decorate con rilievi raffiguranti insegne sacerdotali e strumenti sacrificali, riferite all'attività di augure di Lucio Sempronio Atratino.

                                        Fra i conci lapidei ne sono visibili alcuni decorati a bassorilievo con metope e triglifi (in particolare nella parte inferiore sinistra della facciata settentrionale e nella parte superiore destra di quella orientale) e diverse iscrizioni in lingua latina. Lungo il fianco sinistro ve ne sono due: la prima, situata in basso a sinistra, recita:

                                        «L(ucius)•ATRA[tinus]»

                                        SARCOFAGO ROMANO E MOSTRO MARINO CHE INGOIA UMANO

                                        Più in alto, in asse con questa, vi è un'altra iscrizione, più estesa e collocata capovolta. Il testo si articola su quattro righe ed è lacunoso alle due estremità; è di carattere funerario, relativo a due soldati, Gaio Furio Emilio Gallo figlio di Gaio e Gaio Furio Emilio figlio di Gaio e nipote di Marco:
                                        «[C(aius)•Fu]RIVS•C(ai)•F(ilius)•AEM(ilius)•GALLV[s]
                                        [prae]F(ectus)•LEVIS•ARMATURAE•PR[..]
                                        HISPANIENSIS
                                        [C(aius)•F]VRIVS•C(ai)•F(ilius)•M(arci)•N(epos)•AEM(ilius)•[...]»


                                        Sulla stessa fiancata, nella parte superiore del quadrante sinistro, vi sono altre due epigrafi; quella posta più in basso, tre filari al di sopra della precedente, è riferita a Lucio Munazio Planco, che aveva una villa a Gaeta e che, alla sua morte (1 d.c.), trovò sepoltura nel mausoleo eretto nel 22 a.c. sulla sommità del Monte Orlando:

                                        «[L(ucio)•Mun]ATIO•L(ucii)•F(ilio)•[Planco]
                                        [Cretes(ium)•]GORTYNII•[patrono]»

                                        Poco sopra, un'altra breve iscrizione, relativa alla gens Ummidia:
                                        «[- - -] P(ublius?) Ummidi[us - - -]»

                                        Tutti gli elementi citati, dal sarcofago con eroti alle varie iscrizioni, sembrerebbero appartenere al mausoleo depredato di Sempronio Atratino.


                                        BIBLIO

                                        - Patrizio Pensabene - Provenienze e modalità di spoliazione e di reimpiego a Roma tra tardoantico e Medioevo - in O.Brandt - Ph. Pergola - Marmoribus Vestita - Miscellanea - F. Guidobaldi - Città del Vaticano - 2011 -
                                        - G. L. Gregori, ‘Horti sepulchrales e cenotaphia nelle iscrizioni urbane’ - BullCom 92 - 1987 -
                                        - Giulio Jacopi - L. Munazio Planco e il suo mausoleo a Gaeta - Milano - Pleion - 1960 -
                                        . Giuseppe Fiengo - Gaeta: monumenti e storia urbanistica - Napoli - Edizioni scientifiche italiane - 1971 -
                                        - Marcello Di Marco, Franca Colozzo e Erasmo Vaudo - Il campanile del duomo di Gaeta - Gaeta - Centro Storico Culturale - 1972 -

                                        LEONE III (Usurpatore)

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                                        Nascita: Germanicea, 675 circa
                                        Morte: 18 giugno 741
                                        Dinastia: Isaurica
                                        Predecessore: Teodosio III
                                        Successore: Costantino V
                                        Moglie: Maria
                                        Figli: Costantino V, Anna
                                        Regno: 25 marzo 717 – 18 giugno 741


                                        «Leone III portato a quella dignità pericolosa, vi si tenne fermo a dispetto dell'invidia de' suoi uguali, del malumore di una fazione terribile, e degli assalti dei nemici domestici e forestieri. Anche i cattolici, benché esclamino contro le sue novità in materia di religione, son costretti a convenire, che le incominciò con moderazione, e le condusse a termine con fermezza, e nel loro silenzio hanno rispettata la savia sua amministrazione, e i suoi puri costumi

                                        (Edward Gibbon - Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano - 1776)

                                        Leone III Isaurico, in greco Λέων Γ΄ ὁ Ἴσαυρος; nacque a Germanicea in Commagene nel 675 circa - e morì il 18 giugno 741; fu Basileus dei Romei (Imperatore d'Oriente) dal 25 marzo 717 sino alla sua morte. L'appellativo "Isaurico" si riferisce alla regione di provenienza, tuttavia fu detto Isaurico da Teofane mentre da altri scrittori fu ritenuto siriaco.



                                        LE ORIGINI

                                        Di umili origini siriache, sotto il primo regno di Giustiniano II dovette, per via della politica colonizzatrice dell'imperatore, a trasferirsi in Tracia con la sua famiglia. 

                                        Alcune fonti, come Zonara, sostengono che Leone da giovane sarebbe stato un pezzente, che vagava a piedi da una fiera all'altra, portandosi dietro un asino carico di povere merci, e che sarebbe stato spinto all'iconoclastia da alcuni Ebrei che gli avrebbero predetto l'elezione a imperatore se avesse abolito il culto delle immagini.

                                        «Due ebrei incantatori, benché facessero professione dell'astrologia giudiziaria, gli promisero l'Imperio e una lunga vita, se egli facesse levar via dalle Chiese le immagini di Cristo, e della Madonna. Il Barbaro non fu tardo a obbedire: e fece distruggere tutte le più venerande immagini, che erano in tutte le chiese nel suo dominio. Né molto di poi fu il misero percosso dalla divina vendetta, perendo non ancora finito l'anno. 
                                        Suo figlio, succedendogli al trono, cercò quei falsi indovini per punirli per aver ingannato suo padre con un falso vaticinio, ma essi erano già fuggiti in Isauria. E qui, incontrando Leone, che era ancora giovinetto, e artigiano, gli predissero, che egli sarebbe diventato imperatore romano. 
                                        Il quale, considerando che la sua condizione era sì lontana da quella altezza, non porgeva lor fede: ed essi, allora, lo costrinsero a giurare che se avesse ottenuto l'imperio, avrebbe concesso loro una grazia. Avendo adunque, come si è detto, ottenuto l'Impero, nel nono anno di regno, gli indovini andarono a trovarlo, domandandogli il premio per avergli predetto l'imperio: noi, imperatore, non ti domandiamo ricchezze, né procacciamo alcun grado né dignità, né alcun onore dell'Impero, ma solo che tu faccia rimuovere da ogni parte le immagini del Nazareno, e di sua madre. 
                                        Egli promise di farlo; e cominciando il decimo anno, cominciò a muovere guerra contro Dio...»
                                        (Zonara, Epitome delle Storie, Paragrafo "La cagione che mosse Leone all'eresia".)

                                        Teofane invece lo descrive di origine isaurica, dunque appartenente a un'etnia nota per la rozzezza, e narra l'aneddoto delle 500 pecore regalate da Leone all'Imperatore Giustiniano II per ottenere il suo favore, ma ciò è stato riconosciuto come un errore di Teofane Confessore (o dei suoi copisti), e oggi si ritiene che Leone fosse originario di Germanicea in Siria. Probabile che i cronisti dell'epoca, essendo ostili alla dinastia di Leone III per l'introduzione dell'iconoclastia, abbiano trasformato Leone da siriano a isaurico per denigrare le origini dell'intera dinastia dato che gli Isauri erano ritenuti quasi "Barbari".

                                        GIUSTINIANO II

                                        GIUSTINIANO II

                                        Quando, dopo essere stato deposto una prima volta nel 695, Giustiniano II provò a riprendersi il trono (705), Leone decise di appoggiarlo, contribuendo alla sua restaurazione. L'Imperatore, riconoscente, lo nominò spatharios (guardia del corpo e d'onore del generale, il suo numero 2).



                                        ANASTASIO II 

                                        Dopo aver dimostrato le sue capacità sia militari che diplomatiche in una spedizione nel Caucaso, venne nominato strategos, cioè generale del thema anatolico (circoscrizione amministrativa e militare) da Anastasio II.



                                        TEODOSIO III

                                        Leone decise di approfittare del grande potere raggiunto (il tema anatolico era uno dei più grandi) per rivoltarsi contro l'Imperatore legittimo Teodosio III (basileus dal 715 fino al 25 marzo 717.) e, dopo averlo deposto, diventare imperatore. Per aver più probabilità di riuscire in questa impresa, si alleò con lo stratego del tema armenico, Artavasde, il futuro imperatore bizantino, usurpatore al trono dal giugno del 741 al novembre del 743. 

                                        L'imperatore legittimo Costantino V avrebbe comunque continuato a mantenere il controllo di numerosi themata in Asia minore. Se Artavasde lo avesse appoggiato, avrebbe sposato la figlia di Leone e sarebbe stato nominato Kuropalates, o Curopalates, cioè ufficiale degli affari economici, ma anche chi doveva occuparsi del vestiario del basileus soprattutto in tempo di guerra, nonchè gestire le risorse dell'imperatore o il controllo dei cortigiani.

                                        VITTORIA SUI SARACENI


                                        IL BASILEUS

                                        Dopo aver concluso questa alleanza, Leone invase il tema di Opsikion e prese Nicomedia, dove fece prigioniero il figlio di Teodosio III. Giunto presso Crisopoli, ivi avviò le trattative con Teodosio III, il quale accettò di abdicare cedendo il trono a Leone e di ritirarsi in un monastero a Efeso. Entrato a Costantinopoli il 25 marzo 717, Leone III si recò nella Chiesa di Santa Sofia, dove venne incoronato basileus.

                                        Appena eletto Imperatore, dovette combattere i musulmani, che volevano occupare Costantinopoli. Nell'agosto del 717 l'esercito arabo di 120.000 uomini e 1.800 navi, si avvicinò alle mura di Costantinopoli, condotti da Maslama, passato alla storia per aver guidato la più imponente spedizione arabo-musulmana contro le mura di Costantinopoli nel biennio 717-718, voluta da suo fratello, il califfo Sulayman ibn Abd al-Malik. L'Imperatore strinse allora un'alleanza con i Bulgari che compresero che quel pericolo poteva riguardare anche il loro paese.

                                        Grazie al fuoco greco, la flotta araba subì molte perdite e dovette a ritirarsi, mentre le poserose mura della città resistettero ragli assalti arabi. Il ritiro della flotta araba permise alla capitale il rifornimento dei viveri, mentre l'inverno del 717, particolarmente rigido, mieté molte vittime tra i musulmani, non abituati al freddo e già indeboliti da una carestia e dagli attacchi dei Bulgari.

                                        Il califfo inviò navi dell'Egitto e del Nord Africa piene di rifornimenti a Costantinopoli ma l'equipaggio cristiano della flotta tradì gli Arabi, schierandosi con Bisanzio, mentre i rinforzi arabi, provenienti dalla Siria, vennero sconfitto dai Bizantini. Così i musulmani il 15 agosto 718 dovettero togliere l'assedio 15 agosto 718 e nel viaggio di ritorno dovettero affrontare una tempesta e un'eruzione vulcanica.

                                        Leone III si impossessò allora di alcune zone di confine nel Caucaso che però nel 720 vennero riconquistati dagli Arabi. Intanto, venuto a conoscenza dell'assedio arabo di Costantinopoli, Sergio, protospatario e stratego di Sicilia, aveva organizzato una rivolta per staccare la Sicilia dall'Impero, eleggendo imperatore Basilio, nativo di Costantinopoli, ribattezzato Tiberio. 

                                        Leone inviò in Sicilia il cartulario Paolo (cartulario era l'addetto all'amministrazione dell'erario), che aveva promosso patrizio e stratego di Sicilia, e quando questi entrò a Siracusa, Sergio fuggì presso i Longobardi, mentre la popolazione consegnava l'usurpatore Basilio e i suoi dignitari. Molti sostenitori dell'usurpatore furono decapitati o esiliati; mentre a Sergio si permise di tornare in Sicilia.



                                        L'EREDE

                                        L'anno successivo nacque l'erede al trono, il futuro Costantino V, soprannominato "Copronimo" ("nome di sterco") dai suoi nemici religiosi, perché si dice avesse defecato sul fonte durante il suo battesimo.

                                        Anastasio II, esiliato a Tessalonica, tentò di riprendersi il trono, appoggiato dai Bulgari, dal comandante dell'Opsikion e dal Comandante delle Mura, che gli avrebbe dovuto aprire le porte. Le lettere caddero però nelle mani dell'Imperatore, che li fece decapitare o esiliare confiscandone le proprietà. Infine i Bulgari consegnarono l'usurpatore e i suoi seguaci (tra cui l'arcivescovo di Tessalonica), all'Imperatore, che li fece decapitare.

                                        Poi distaccò dal thema anatolico una parte che ricevette il nome di tema dei Trachesi, mentre mantenne tale e quale il tema opsiciano. Si riappacificò con i popoli slavi e riorganizzò le forze armate respingendo i Saraceni che cercarono di invadere l'impero nel 726 e nel 739.



                                        LE RIFORME FISCALI

                                        - trasformò i servi della gleba in piccoli proprietari terrieri,
                                        - introdusse nuove norme di diritto della navigazione e di famiglia, che non piacquero ai nobili nè all'alto clero,
                                        - proibì il culto delle immagini sacre, con due editti del 726 e del 730, e nel 726 promulgò un codice di leggi, l'Ecloga, una selezione delle più importanti norme di diritto privato e penale vigenti.

                                        L'Ecloga, pur rifacendosi al diritto romano e al Codice di Giustiniano, ampliò i diritti delle donne e dei bambini, penalizzò il divorzio, proibì l'aborto e l'introduzione di mutilazioni corporali (taglio del naso, delle mani ecc.).

                                        GLI ICONOCLASTI


                                        L'ICONOCLASTIA

                                        Leone III iniziò a chiedersi se le calamità che affliggevano l'Impero non fossero dovute alla collera divina e cercò dunque di ingraziarsi il Signore, imponendo nel 722 il battesimo a Ebrei e a Montanisti. Questi ultimi erano una congrega cristiana in cui le donne avevano un ruolo di primo piano per le loro premonizioni e visioni, il che provocò non poco attrito col cristianesimo ortodosso che prevedeva una forte subordinazione delle donne. 

                                        C'era inoltre un problema: il cristianesimo ammetteva il culto delle immagini, che era invece precluso agli ebrei. Constatando che queste prime leggi non erano bastate ad arrestare le calamità (tra cui un'eruzione nel mar Egeo), l'Imperatore iniziò a credere che il Signore fosse in collera con i Bizantini perché adoravano le icone religiose, cosa contraria alla Legge di Mosè. 

                                        Viene da chiedersi come mai si preoccupasse delle legge di Mosè quando invece obbligava gli ebrei a farsi cristiani. Inoltre anche i musulmani vietavano l'adorazione delle icone, ma anche qui viene da chiedersi perchè se ne preoccupasse. 

                                        Secondo Teofane Confessore l'Imperatore fu convinto all'iconoclastica (distruzione delle icone) da un tal Bezér, un cristiano che, fatto schiavo dai musulmani, rinnegò la sua fede per quella musulmana, e una volta liberato e trasferitosi a Bisanzio, riuscì a convincere l'Imperatore:
                                        «Gli subentrò (al califfo arabo Yazid II) in questa ripugnante, scellerata eresia, l'Imperatore Leone, la causa di molti nostri mali. E in questa ottusa ignoranza Leone ebbe al fianco un tale di nome Bezer. Si trattava di un cristiano, che fatto prigioniero dagli Arabi in Siria, aveva abiurato alla propria fede per aderire alle credenze dei suoi nuovi padroni: poi liberato dalla schiavitù poco tempo addietro, aveva assunto la cittadinanza bizantina, si era guadagnato la stima di Leone per la sua forza fisica e la sua convinta adesione all'eresia, tanto da divenire il braccio destro dell'Imperatore in questa così vasta e malvagia impresa...»
                                        (Teofane, Cronaca, anno 723/724.)



                                        ICONOCLASTI E ICONODULI

                                        Nel 730 l'imperatore emise un editto che vietava la riproduzione delle immagini di Cristo, della Vergine e dei santi. Il patriarca tedesco di Costantinopoli si rifiutò di approvare la decisione e fu mandato in esilio. Leone III ordinò di sostituire un'immagine di Cristo situata nella porta di Chalke (quella principale) del Grande Palazzo di Costantinopoli con una croce, causando pesanti discussioni che si conclusero con la morte di un soldato. 

                                        Gli iconoduli coinvolti furono giustiziati come eretici e ciò provocò una grande rivolta. L'esercito dell'Ellade mandò una flotta a Costantinopoli per deporre Leone e porre sul trono l'usurpatore da loro scelto, un tal Cosma. Ma la battaglia tra flotta imperiale e flotta ribelle, del 18 aprile 727, finì male per i rivoltosi perchè la flotta ribelle venne distrutta dal fuoco greco e Cosma venne catturato e decapitato. 

                                        Intanto in Asia Minore gli Arabi assediarono Nicea ma non riuscirono ad espugnarla, a dire di Teofane, per intercessione del Signore, in quanto tutti credevano, cristiani inclusi che Dio benedicesse talune guerre, pur avendo proclamato il Cristo che tutti gli uomini sono fratelli. Gli Arabi si ritirarono comunque con un ricco bottino.

                                        Leone III cercò di convincere il Patriarca di Costantinopoli e il Papa ad accettare l'iconoclastia ma questi si ribellarono: tutto il mondo cristiano e tutte le chiese erano pieni di immagini e di reliquie miracolose che fruttavano grandi ricchezze alla parrocchie e al clero, si che nel 727, Papa Gregorio II si oppose fieramente al divieto delle icone religiose, appoggiato da buona parte delle truppe bizantine nell'Esarcato.

                                        Molti pensavano di mandare una flotta a Costantinopoli per deporre l'Imperatore ma il Papa si oppose, un po' sperando che l'Imperatore cambiasse idea, un po' perché contava sull'Imperatore per respingere i Longobardi. Tentarono pure di deporre il Papa e di assassinarlo, ma le truppe romane appoggiarono il Papa.

                                        A Ravenna, nei tumulti venne ucciso l'esarca Paolo, ma la flotta mandata dai Bizantini a Ravenna, subì la disfatta. Venne nominato esarca Eutichio, che però non riuscì a instaurare l'iconoclastia in Italia e fallì anche nel tentativo di assassinare il Papa. In tale caos i Longobardi condotti dal re Liutprando invasero il territorio bizantino conquistando molte città dell'esarcato e della pentapoli.



                                        L'EDITTO

                                        Con l'editto del 730 Leone ordinò la distruzione di tutte le icone religiose ordinando un silentium (un'assemblea) a cui impose la promulgazione dell'editto. Il patriarca Germano rifiutò di promulgare l'editto se non veniva convocato prima un concilio ecumenico. 

                                        Leone lo destituì e gli contrappose il patriarca Anastasio, ma il decreto venne nuovamente respinto dalla Chiesa di Roma e il nuovo Papa Gregorio III nel novembre 731 riunì un sinodo apposito per condannarne il comportamento.

                                        ICONOCLASTIA


                                        I SEGNI DIVINI

                                        L''imperatore bizantino inviò una flotta in Italia per reprimere ogni resistenza ma questa affondò, per gli iconoduli una punizione divina. Allora l'imperatore confiscò le proprietà terriere della Chiesa Romana in Sicilia e Calabria, e portò la Grecia ed il sud dell'Italia sotto il Patriarca di Costantinopoli. 

                                        Un devastante maremoto avvenuto nel 726 spinse Leone contro la venerazione delle immagini, essendo l'Imperatore persuaso che tale catastrofe naturale fosse dovuta all'ira divina contro gli iconoduli.

                                        Nel frattempo Ravenna venne occupata dai Longobardi, per gli iconoduli segno della collera divina,  ma solo l'aiuto di Venezia poté liberarla, segno della benevolenza divina per gli iconoclasti. 

                                        Nel 739/740, Liutprando, a causa della collera divina contro gli iconoduli, invase il ducato romano e si impadronì del corridoio umbro che collegava Roma con Ravenna, ma il Pontefice lo fece desistere, segno invece che Dio era dalla loro parte.

                                        Leone III nel frattempo rinforzò l'alleanza con i Cazari per utilizzarli contro gli Arabi, facendo sposare nel 733 suo figlio Costantino con una delle figlie del khan cazaro, Irene. Nel 740 ottenne una vittoria sugli Arabi presso Akroinos, un successo attribuito dall'Imperatore al favore divino per l'iconoclastia, ma un terremoto che danneggiò Costantinopoli e dintorni nello stesso anno, interpretato dagli iconoduli come ira divina per l'iconoclastia. 

                                        L'anno dopo l'Imperatore morì di idropisia, anche questo interpretato come punizione divina. Gli succedette sul trono il figlio Costantino V.

                                        Gli autori non sono concordi e tutte le suddette cronache potrebbero non essere oggettive e la distruzione degli scritti iconoclasti in seguito al Concilio di Nicea II del 787 non permettono di conoscere la versione opposta iconoclasta dei fatti, rendendo difficile ricostruire con oggettività gli avvenimenti dell'epoca. Ma se Leone non fosse stato così fortemente iconoclasta forse nemmeno suo figlio Costantino V lo sarebbe stato in modo ancora più duro.


                                        BIBLIO

                                        - Teofane - Cronaca -
                                        - Niceforo - Breve Storia -
                                        - Nicola Bergamo - La famiglia dannata: Leone III e Costantino V, vita di due empi tiranni, imperatori di Bisanzio - in Porphyra - 2011 -
                                        - Leslie Brubaker, John F. Haldon - Byzantium in the Iconoclast era (ca 680-850): a history - Cambridge University Press - 2011 -
                                        - Charles Diehl - La civiltà bizantina - Garzanti - Milano - 1962 -
                                        - Georg Ostrogorsky - Storia dell'Impero bizantino - Milano - Einaudi - 1968 -

                                        DIDYMA - DIDIM (Turchia)

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                                        ORACOLO DI APOLLO - BRANCHIDAE

                                        Didyma è un'antichissima città della Ionia che sorgeva presso l'attuale città turca di Didim, famosa per il suo tempio oracolare di Apollo tra Didym e Miletus, città portuale greca a cui era connessa la Via Sacra e i cui sacerdoti erano detti Branchidae. La città antica nacque direttamente all'esterno del grande e maestoso santuario che ospitava l'oracolo di Apollo, il Dydymaion.

                                        L'esistenza del santuario risale alla colonizzazione greca della Ionia, ma sembra che l'uso dei sacrifici non fosse proprio greco e anche il nome "Didyma"è di origine anatolica, d'altronde anche Apollo e Artemide erano chiamati didymoi, "i gemelli". Didyma, in greco, significa "gemello" ma sembra che i greci, in realtà, non gli dessero questa interpretazione, peraltro ad essi ignota. L'etimo esatto era di origine caria.

                                        Probabilmente il culto apollineo si era sostituito al più antico culto di Cybele Dyndimena ed al suo tempio costruito nel VII secolo a.c.. Non a caso l'oracolo venne poi criticato, come venne criticato anche quello di Delfi, ad esempio da Luciano e da Plutarco, perchè le antiche sacerdotesse oracolavano in versi, cosa che i nuovi sacerdoti non sapevano fare.

                                        RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO

                                        Il tempio del celebre oracolo venne fondato alla fine dell'VIII secolo e un secolo e mezzo dopo era conosciuto e onorato in tutto il mondo antico. Secondo Erodoto di Alicarnasso, il faraone Neco II inviò dei regali al tempio, evidentemente per aver ottenuto buone predizioni che si erano verificate. 

                                        Sempre Erodoto racconta che Creso di Lidia (560-546 a.c.), circa mezzo secolo dopo, fece grandi donativi a questo luogo, amministrato dalla famiglia sacerdotale dei Branchidi, anche lui per la veridicità dell'oracolo.

                                        Didyma ebbe una grandissima rilevanza oracolare, al pari di Delfi, in tutto il mondo ellenistico. Fu menzionata dai Greci fin dagli Inni Omerici ad Apollo. Erodoto e Pausania datano il santuario ad un'epoca antecedente la colonizzazione degli Ioni, che abitarono la città dal VI secolo a.c.. 
                                         

                                        La città di Dydyma venne distrutta da Dario I il Grande nel 494 a.c., in un'incursione persiana a seguito della quale venne trafugata e trasportata ad Ecbatana la statua bronzea di Apollo che, secondo la tradizione, era opera di Canaco di Sicione.

                                        Dopo che i Persiani avevano sconfitto i greci ionici a Lade, per punire gli abitanti della loro ribellione, saccheggiarono Mileto e distrussero Didyma deportando a est i Branchidi, parte del bottino fu portato a Susa, dove fu scoperto dagli archeologi. Più tardi Dario I, responsabile della sua distruzione, concesse poi molti privilegi a Didyma.

                                        Alessandro ordinò la ricostruzione del tempio, che venne però lasciato a Seleuco I Nicator, il fondatore dell'impero seleucide, per dare inizio al progetto che non può aver eseguito i lavori prima del 300, dopo la battaglia di Ipsus in cui conquistò questa parte dell'impero di Alessandro.


                                        Seleuco I, uno dei diadochi di Alessandro Magno, riportò dunque poco dopo il 300 a.c. al tempio di Apollo di Didyma alcuni dei tesori a suo tempo saccheggiati, tra i quali figurava anche la statua del Dio. 

                                        Gli abitanti di Mileto, che amministrarono il sito, iniziarono, poi, la grande ristrutturazione dell'edificio, che comprese l'edificazione di un periptero a doppia fila di colonnati ionici, un pronao di tre file di colonne ed altre imponenti innovazioni. 

                                        In questo modo il tempio divenne il più grande del mondo greco. Fu nominato anche un profeta, la cui carica era annuale, che amministrava il tempio per conto dello stato di Mileto.



                                        LA VIA SACRA

                                        Dal Tempio ad Apollo a Mileto, una Strada Santa raggiungeva il gigantesco santuario dedicato al Dio del sole e situato a circa venti miglia a sud della città. 

                                        Il tratto finale della strada è visibile poco prima di raggiungere l'area archeologica. La strada fu asfaltata dall'imperatore Traiano. Il tempio era collegato al vicino porto di Panormos da una strada larga dai 5 ai 7 metri.

                                        Alessandro Magno ne promosse la ricostruzione e il nuovo tempio fu progettato per essere uno dei più grandi del mondo greco. A causa delle sue dimensioni gli archeologi parlano di una Karnak greca con riferimento a quel gigantesco luogo di culto egiziano.

                                        La costruzione del tempio durò secoli e in realtà la sua decorazione non fu mai del tutto completata.
                                        Il sito si chiama Didyma, che in greco significa gemello; recenti scavi lungo l'ultimo tratto della Via Santa hanno individuato testimonianze di un tempio (più piccolo) dedicato ad Artemide, la sorella gemella di Apollo.


                                        Fu solo dopo che Alessandro aveva sconfitto i persiani, che l'oracolo parlò di nuovo. Secondo la tradizione o la propaganda macedone, il primo annuncio di Apollo fu che Alessandro era davvero il figlio di un Dio. 

                                        Il tempio era stato progettato per misurare 109 per 51 metri, ma in effetti era rimasto incompiuto. Proprio a causa delle sue grandi dimensioni, non venne dunque mai terminato. Strabone (64 a.c. - 21 d.c.) afferma che era ancora privo del tetto, quando lo vide. I suoi architetti erano Daphnis e Paionios.

                                        Una grande sala che doveva essere il cuore del tempio (l'adyton), non aveva mai avuto un tetto, il che significa che un piccolo santuario è stato costruito all'interno della sala senza tetto. L'adyton ora è diventato una sorta di cortile aperto con muri esterni sproporzionatamente alti, che circondava un tempietto (naiskos).



                                        L'ORACOLO

                                        Sotto il portico i fedeli si incontravano con i sacerdoti incaricati di riferire alla Sibilla le loro domande; i sacerdoti poi scomparvero in due lunghi corridoi che portavano all'adyton, uno spazio dove il grande pubblico non poteva entrare (adyton = non entrare). 

                                        Simile a Delfi, l'adyton si trovava a un livello inferiore, ma a differenza di Delfi, a Didyma la cella contenente la statua del Dio era collocata in un ampio cortile così che una grande folla potesse ammirarlo e onorarlo. 

                                        L'acqua ebbe un ruolo importante nel santuario perchè fedeli eseguivano le abluzioni del corpo presso un pozzo ai piedi del tempio, mentre la Sibilla si serviva di un altro pozzo nell'adyton. A sud di Didyma c'era il porto di Panormus, dove sbarcavano i pellegrini.

                                        LA GORGONE


                                        LA RICOSTRUZIONE

                                        Si distinguono diverse fasi di ricostruzione. Le colonne splendidamente decorate sono state rifinite nel 37 d.c. e le gorgonie sul cornicione del tempio risalgono al II secolo d.c. L'altare ha sollevato non pochi dubbi perchè la struttura circolare davanti al tempio è al posto giusto, ma sembra essere troppo piccola. 

                                        Un'alternativa plausibile è che l'altare fosse posto un po' più a nord, dove una moschea sorge su un'antica chiesa, che sembra fondata su una struttura dell'antichità. Da un'iscrizione, che può essere datata al regno di Giustiniano, possiamo dedurre che Didyma era ancora un luogo di culto nel VI secolo. 


                                        BIBLIO

                                        - Erodoto - Le Storie -
                                        - Tucidide - La guerra del Peloponneso -
                                        - Joseph Eddy Fontenrose - Zeus Didymaeus - Transactions and Proceedings of the American Philological Association - 1932 -
                                        - Joseph Eddy Fontenrose - Didyma: Apollo's Oracle Cult and Companions - 1992 -

                                        TEMPLUM FAUNUS (12-13 Febbraio)

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                                        DIO FAUNO

                                        TEMPLUM FAUNI 

                                        Il 12 febbraio, "pridie Idus Februarias", e cioè il giorno antecedente alle Idi di Febbraio che cadevano solitamente il 13 dello stesso mese, si onorava a Roma e nell'impero la festa in onore di Faunus, Dio dei pastori e protettore dei greggi, in realtà Dio degli animali (ovvero della fauna). 

                                        In questo giorno si celebrava l'anniversario della dedicatio del tempio di Fauno, che secondo altri durava due giorni chiudendosi il 13 febbraio, e secondo altri ancora avveniva solo il 13 febbraio, giorno della dedica effettuata nel 196 a.c.. 

                                        AN INSEGNA AL PASTORELLO DAFNI A SUONARE LA SIRINGA


                                        DIO PAN

                                        Fauno corrispondeva un po' al Dio ellenico Pan, il Dio corredato del multiflauto detto "siringa", che faceva parte del corteo dionisiaco. Egli era venerato principalmente da pastori, cacciatori e pescatori e i suoi attributi erano, oltre alla siringa, un bastone da pastore e una corona di pino. 

                                        Il bastone da pastore, o pastorale, fu poi adottato come insegna di potere liturgico dai vescovi cristiani come segno di guida delle anime del gregge cristiano.

                                        IL LUPERCALE

                                        DIO LUPERCO

                                        Fauno fu anche chiamato Luperco, in qualità di difensore delle greggi, il che provoca però non poche perplessità, un Dio lupo che protegge le pecore sembra una contraddizione un po' ironica se non macabra. Luperco era una divinità pastorale invocata a protezione della fertilità (festa dei Lupercali) ed era identificato con il lupo sacro a Marte. Il suo santuario era il Lupercale, che si trovava sulle pendici nord-occidentali del Palatino.

                                        In realtà il Dio Luperco era la mascolinizzazione dell'antica Dea Lupa, quella che allattò i fatidici gemelli e le cui sacerdotesse in epoca arcaica erano dedite nei loro templi alla prostituzione sacra, da cui il termine lupe per le sacerdotesse in quanto facevano ai visitatori il verso del lupo, e di lupanare per il luogo sacro in cui li ricevevano, termine che divenne poi molto profano come la prostituzione.

                                        Nel 2007 l'archeologa italiana Irene Iacopi annunciò che aveva probabilmente trovato la leggendaria grotta sotto le rovine del palazzo di Augusto sul Palatino ad una profondità di 15 metri durante i lavori di restauro del palazzo. 

                                        La volta della grotta è adornata di mosaici colorati e di conchiglie. Il centro della volta è decorato con un'aquila bianca, che è il simbolo del principato di Augusto. 

                                        ROMOLO QUIRINO


                                        IL DIO QUIRINO

                                        La festa era celebrata soprattutto nelle campagne o comunque dai proprietari terrieri o di bestiame. Al Dio si offrivano mosto, latte, miele, focacce e sacrifici animali. Più tardi venne identificato col preesistente Dio Quirino, il Dio romano delle curie, passato poi alla protezione delle pacifiche attività degli uomini liberi.

                                        In realtà Quirino era la divinizzazione di Romolo (che venne assimilato ad un Dio sabino) con una sontuosa celebrazione cittadina, solo che il Dio Quirino rimase e il Dio Fauno scomparve, ovvero divenne una specie di semidio, sostituito coi fauni dei boschi che insidiavano le ninfe.



                                        LA BOCCA DELLA VERITA'

                                        L'immagine della Bocca della verità, è un antico mascherone in marmo pavonazzetto, murato nella parete del pronao della chiesa di Santa Maria in Cosmedin di Roma dal 1632. In realtà era un tombino, che come tanti altri tombini venivano rappresentati col volto di divinità fluviali, propiziatori della raccolta delle acque piovane.

                                        Tuttavia nell’XI secolo nei “Mirabilia Urbis Romae” una sorta di guida medievale per pellegrini e viandanti, alla Bocca venne attribuito un potere oracolare per cui vi è riportato: 
                                        Ad sanctam Mariam in Fontana, templum Fauni; quod simulacrum locutum est Iuliano et decepit eum”, ovvero 
                                        Presso la chiesa di santa Maria in Fontana si trova il tempio di Fauno; tale simulacro parlò a Giuliano e lo ingannò”. 
                                        Il Giuliano in questione era Giuliano l'apostata, l'imperatore che volle ripristinare i culti pagani, ingannato, secondo l'avviso del libro, dall'oracolo del tombino.


                                        BIBLIO

                                        - Livio - Ab Urbe condita libri -
                                        - Theodor Mommsen - Storia di Roma antica - Firenze - Sansoni - 1972 -
                                        - Andrea Carandini - Cercando Quirino - Einaudi - 2007 -
                                        - Massimo Pallottino - Origini e storia primitiva di Roma - Milano - Rusconi - 1993 -
                                        - James Hillman - Saggio su Pan (An Essay on Pan, 1972) - trad. Aldo Giuliani - Adelphi - Milano - 1977 -

                                        PROCOPIO DI CESAREA

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                                        PROCOPIO (SECONDO ALTRI BELISARIO)


                                        Nome: Procopio di Cesarea, in greco Prokópios ho-Kaisaréus;                                                                    Nascita: Cesarea marittima, 490 circa  
                                        Morte: Costantinopoli, 560 circa                                                                                                   
                                        Padre: forse Stefano, cittadino di Cesarea e proconsole della Palestina
                                        Professione: Storico


                                        Nato a Cesarea marittima, Procopio fu un importante storico bizantino, proveniente da famiglia agiata, tanto che in gioventù gli permise di studiare a Gaza (Palestina) con validi insegnanti, retorica, filosofia e diritto. Acquisiti brillantemente i suoi studi, volle migliorare la sua situazione recandosi nella città più ricca dell'Impero Bizantino, quindi si trasferì a Costantinopoli sotto il regno di Anastasio, dove iniziò a seguire la professione di avvocato.

                                        Flavio Belisario fu un validissimo generale bizantino che servì sotto Giustiniano I (527-565), tanto da essere considerato uno dei più grandi condottieri della storia dell'Impero romano d'Oriente. Quando nel 527 questi divenne comandante delle truppe di Dara (Mesopotamia settentrionale) contro i Persiani, Procopio venne chiamato ad assisterlo come suo consigliere e suo segretario, tanta era la stima e la fiducia che Belisario riponeva in lui. Così Procopio prese parte alla guerra iberica (526-532) contro i Sasanidi e alla guerra contro i Vandali (533-534).

                                        GIUSTINIANO I

                                        Nel 534, in seguito alla conquista dell'Africa, Procopio non seguì Belisario a Costantinopoli ma restò in Africa alle dipendenze del magister militum e prefetto del pretorio Salomone, un eunuco nativo di Dara, che aveva combattuto nella Guerra vandalica (533-534) come domesticus del generale Belisario. La guerra venne vinta dai Romani, che riconquistarono l'Africa settentrionale, la Sardegna, la Corsica e le isole Baleari. 

                                        Tuttavia poi scoppiò una grande rivolta dell'esercito africano, Salomone e Procopio fuggirono in Sicilia e chiesero aiuto a Belisario, che aveva sconfitto momentaneamente i ribelli, dovette comunque ritornare in Sicilia. Procopio lo seguì di nuovo come segretario, partecipando alle campagne condotte contro i Goti (535-540). Tornato a Costantinopoli con Belisario nel 540, vide l'epidemia di peste che flagellò la capitale nel 542, detta "peste di Giustiniano".

                                        Procopio narrò che l'epidemia al suo culmine uccideva 10.000 persone al giorno nella sola Costantinopoli, una stima forse gonfiata dallo stato generale di allarme mentre nel Mediterraneo orientale la riduzione di popolazione dovette essere attorno al 25%. Non si trovavano luoghi dove seppellire i morti e i cadaveri dovevano spesso essere lasciati all'aperto. Giustiniano promulgò nuove leggi per snellire le procedure legate alle pratiche ereditarie, innumerevoli per le innumerevoli morti.

                                        Dopo il 540 dovrebbe essere rimasto a Costantinopoli, non seguendo Belisario nelle sue successive campagne, sebbene non tutti gli storici siano d'accordo.



                                        LE OPERE

                                        Le sue opere, scritte in greco, narrano le vicende dell'imperatore bizantino Giustiniano I, le sue guerre contro i Vandali, i Persiani e gli Ostrogoti, e la vita politica alla corte di Costantinopoli, oltre alla magnificenza delle opere edilizie volute dall'imperatore.

                                        Storico militare e politico, la sua vena storiografica è decisamente pagana, utilizzando i modelli greci e latini (Erodoto, Tucidide, Livio, Tacito) senza le enfatizzazioni e la faziosità di molti autori cristiani.

                                        VITTORIA DELLE GUERRE VANDALICHE


                                        LE GUERRE VANDALICHE

                                        - Nel libro I si narra anche la rivolta di Nika e la caduta in disgrazia di Giovanni di Cappadocia, prefetto del pretorio d'Oriente dell'imperatore Giustiniano I ad opera dell'imperatrice Teodora.

                                        - I primi due libri (La Guerra Persiana) narrano le guerre contro la Persia Sasanide dal 502 al 551.
                                         
                                        - I Libri III e IV narrano invece le guerre vandaliche, combattute in Africa contro i Vandali e i Mauri. I primi capitoli del Libro III narrano le guerre precedenti al regno di Giustiniano, quindi la conquista vandalica dell'Africa ad opera di Genserico, re dei Vandali e degli Alani (428 - 477), e i tentativi dei due imperi d'Occidente e d'Oriente di riconquistare l'Africa. Quindi narra la conquista bizantina dell'Africa ad opera di Belisario e le guerre dei Bizantini contro i Mauri, le popolazioni del deserto, in otto libri, sette scritti nel 551 e uno nel 553. 

                                        - I Libri V, VI e VII riguardano invece la guerra gotica, cioè la guerra di Giustiniano contro gli Ostrogoti che occupavano l'Italia e la Dalmazia. Descrive anche l'assedio di Roma ad opera dei Goti nel 537-538, e nel libro VII narra la guerra gotica dal 540 al 551. 

                                        - Il libro VIII descrive la guerra lazica contro i Persiani dal 551 al 553 fino alla vittoriosa campagna di Narsete contro i Goti, grazie alla quale l'Italia venne annessa all'Impero.

                                        Mentre gli eventi fino al 540 non contengono molte critiche al governo di Giustiniano quelli successivi contengono idee diverse, forse per le sconfitte subite contro Cosroe e Totila. L'opera, che ebbe un certo successo, contiene aneddoti, presagi e digressioni sui luoghi in cui si combattevano le guerre.


                                        STORIA SEGRETA

                                        In greco Anékdota, un libello astioso contro Giustiniano e Teodora scoperto secoli dopo la morte dell'autore. Voltaire considerava l'opera una satira dettata dall'odio che Procopio provava per l'Imperatore, pur conservando una certa attendibilità negli avvenimenti.

                                        È un libello contro Giustiniano, Teodora, Belisario e Antonina. Nella prefazione l'autore sostiene di aver dovuto tacere fino ad allora per paura di essere assassinato da sicari di Giustiniano e Teodora; ma ora voleva far sapere alle generazioni future le crudeltà dei due. L'opera vide la luce solo alcuni secoli dopo la sua redazione che dovrebbe risalire al 550, dato che parla del 32º anno di regno di Giustiniano (che tuttavia cade nel 559).


                                        SUGLI EDIFICI

                                        De aedificis è un'opera in stile celebrativa del 554 o del 560, in sei libri, che descrive ed elogia gli edifici fatti costruire o restaurare da Giustiniano durante il suo regno (527-565).
                                        - Il libro I descrive gli edifici voluti da Giustiniano e Teodora nella capitale, come la Chiesa di S. Sofia, le altre chiese, il palazzo, le cisterne, il convento dove vennero recluse le prostitute costrette da Giustiniano e Teodora a far penitenza per i loro peccati.
                                        - Il libro II descrive le fortificazioni volute da Giustiniano in Oriente, come la fortezza di Dara.
                                        - Il libro III descrive le fortificazioni volute in Armenia.
                                        - Il libro IV descrive le fortificazioni volute in Europa.
                                        - Il libro V descrive le fortificazioni in Cilicia e in Palestina.
                                        - Il libro VI descrive le fortificazioni in Africa.

                                        Il fatto che l'Italia non sia citata fa supporre che l'opera non sia completa, forse per morte dell'autore.
                                        Sembra poi che Procopio abbia nuovamente cambiato idea su Giustiniano, vedendolo ora giusto e caritatevole, il che fa pensare che l'opera sia stata commissionata dallo stesso imperatore.


                                        BIBLIO

                                        - Averil Cameron - Procopius and the Sixth Century - Berkeley - 1985 -
                                        - Geoffrey B. Greatrex - Recent work on Procopius and the composition of Wars VIII - Byzantine and Modern Greek Studies - 2003 -
                                        - Anthony Kaldellis - Procopius of Caesarea. Tyranny, History, and Philosophy at the End of Antiquity - Philadelphia - University of Pennsylvania Press - 2004 -
                                        - Marco Cristini - Il seguito ostrogoto di Amalafrida: confutazione di Procopio - Bellum Vandalicum - 2017 -
                                        - Hans-Georg Beck - Lo storico e la sua vittima. Teodora e Procopio - trad. Nicola Antonacci - Collana Quadrante - Roma-Bari - Laterza - 1988 -

                                        PONTE NOMENTANO

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                                        IL PONTE OGGI
                                        Il Ponte Nomentano è un ponte che cavalca il fiume Aniene attraversato dalla via consolare romana che collegava Roma alla scomparsa cittadella di Nomentum, e cioè la via Nomentana, al suo VI km, a nord-est di Roma, nell'attuale quartiere di Monte Sacro. Oggi il ponte collega le zone urbanistiche di Monte Sacro e di Sacco Pastore del III Municipio, ed è uno dei pochi ponti pedonali di Roma.

                                        Il ponte venne eretto nel punto in cui la via Nomentana superava il fiume Aniene ai piedi della collina del Monte Sacro, luogo attraversato dal passaggio delle mandrie transumanti sin dall’antichità, mandrie che in estate abbandonavano le pianure con l'erba bruciata dal sole per salire sui più freschi Monti Sibillini.

                                        Insieme al ponte Milvio e al ponte Salario era uno dei ponti extraurbani più importanti e venne edificato in età repubblicana a blocchi squadrati di tufo, eccetto gli archivolti in travertino. Aveva tre arcate di cui la centrale, più grande delle altre due, sovrastava l'affluente del Tevere, l'Aniene.

                                        Nell'VIII secolo, sotto il pontificato di Adriano I, il ponte venne fortificato con due torri, a loro volta rinforzate con muri nel XII-XIII secolo e ancor più innalzate sotto papa Niccolò V. Il ponte venne distrutto e poi ricostruito dopo l'invasione barbarica di Totila (516 - 552). Secondo una tradizione locale si incontrarono su questo ponte nell'800 Carlo Magno e Leone III.

                                        IL PONTE DALL'ALTO
                                        Nel X secolo appartenne al monastero di San Silvestro in Capite (la chiesa costruita a Roma sopra la tempio del Sole), poi, dal 1205, passò alla chiesa di San Lorenzo in Lucina (costruita sopra il tempio di Giunone Lucina), poi passò al convento di San Pietro in Vincoli insieme alla chiesa di Sant'Agnese fuori le mura.

                                        Nel 1433 il ponte fu occupato dal condottiero mercenario Niccolò Fortebraccio della Stella e dal condottiero mercenario Antonio conte di Pontedera, mentre nel 1485 il ponte fu conquistato da Paolo Orsini, altro condottiero mercenario. In seguito dovette subire restauri e vari aggiustamenti.

                                        Nel periodo della Congiura dei Pazzi (1478) il ponte fu detto "Iuxta Casale de' Pazzis" e compreso come possedimento di questa famiglia. I ponti portavano all'epoca una rendita perchè chi passava doveva pagare una tassa detta gabella.

                                        Poi subì vari passaggi di proprietà fino a quando divenne dogana di città nel 1532, prima di subire nuovi interventi di restauro e di modifica. Nel 1849 durante l'invasione francese subì diverse distruzioni che vennero riparate sette anni più dopo.

                                        ARCO RIBASSATO CON ARCO ANTECEDENTE A TUTTO SESTO

                                        DESCRIZIONE

                                        Il ponte oggi si presenta con un grande arco di travertino, sormontato da una fortificazione merlata medievale, e due archetti di rampa laterali su ciascun versante. La pianta è costituita da due torri a merlatura ghibellina, cioè a coda di rondine, sotto le quali, mediante un arco a sesto ribassato, che, dalla cornice sopra quest'arco, si evince che originariamente fosse a tutto sesto, passa la via Nomentana. 

                                        Nel mezzo tra le due torri, la via percorre un breve tratto con muro a ballatoio a merlatura arieggiato da finestroni, ma questo tratto non è provvisto di tettoia, bensì è a cielo aperto. Ai lati del ponte vi erano due massicci portoni che sbarravano la strada. Un passaggio obbligato permetteva di passare sul ponte. Il ponte sovrasta il fiume Aniene con una monumentale arcata a tutto sesto, che era quasi identica a quella superiore che è stata notevolmente ridotta.

                                        Fino al 1924, anno della costruzione del vicino ponte Tazio (che unisce via Nomentana Nuova con corso Sempione), costituì via di collegamento obbligata tra Roma e le zone a nord della città. Nel 1997, nel timore di lesioni alla struttura, il ponte venne chiuso al traffico automobilistico diventando, da allora, un percorso esclusivamente pedonale. Restaurato nel 2002, è occasionalmente aperto al pubblico, che può così visitarne le strutture interne.

                                        Fu più volte distrutto e restaurato per cui presenta una varietà di materiali e tecniche costruttive che abbraccia un notevole arco di tempo, dall'età antica a quella medievale e, seppur in minima parte, moderna.

                                        L'INTERNO DEL PONTE
                                        Originariamente il ponte scavalcava il fiume Aniene con una duplice arcata, della quale si conserva solo quella sul versante del Monte Sacro. L’arco, di m 15,1 di luce, presenta le fronti in conci di travertino e il sott'arco di pietra gabina. I piloni degli archi, fortemente rimaneggiati dai lavori successivi, erano in blocchi parallelepipedi di tufo rosso litoide, dei quali se ne conservano alcuni in quello verso Monte Sacro.

                                        Nel pilone del versante a valle giacciono i resti di un piedritto in opus quadratum di travertino inglobato nella muratura in mattoni di epoca medievale, forse stipite si un occhio di piena posta al centro tra i due archi originari; oggi la facciata è coperta da un paramento in laterizi di spoglio attribuibili al restauro del VI secolo, a seguito alla distruzione del ponte durante la guerra greco-gotica (535-553).

                                        Il ponte presenta massicci interventi di rifacimento: al VIII secolo sono attribuibili gli archetti laterali costruiti in opera cementizia con materiale di spoglio (marmo, laterizio, selce, blocchi in tufo) e da ghiere in laterizio frammentato; la struttura merlata a castello è pertinente ai lavori eseguiti sotto il papa Niccolò V (1447-1455), dei quali rimane lo stemma papale sulla fronte di accesso sul versante a valle.

                                        Si conserva inoltre una delle torri merlate destinata ai corpi di guardia sul versante a valle che proteggevano le porte di accesso al ponte; mentre fu aggiunta sul lato a monte un gabbiotto pensile (una latrina) nel XVI secolo, che venne restaurata nella metà del XIX secolo. Recentemente a cura dell’Amministrazione Comunale è stato eseguito un intervento di consolidamento e di restauro conservativo di tutto il ponte.

                                        IL PONTE NEL 1754

                                        LA RICOSTRUZIONE

                                        Ultimamente è stata studiata una ricostruzione dell’aspetto originario del ponte, vale a dire due archi centrali con luce di m 15,1 separati da un pilone centrale di m 6 di larghezza in cui si trovava un occhio di piena di m 3.
                                        Lateralmente c'erano due piccoli archi per lato, i quali durante le piene del fiume favorivano il deflusso delle acque (vedi Ponte Fabricio). Per la tecnica costruttiva usata ed il tipo di materiali impiegati il ponte originario è datato tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.c..


                                        BIBLIO

                                        - Ponte Nomentano - su Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali -
                                        - Alessandra Reggi - Ponte Nomentano - su RomaNatura -
                                        - Vittorio Galliazzo - I ponti romani - Vol I - Treviso - Edizioni Canova - 1995 -
                                        - Degli avanzi delle antichità - Bonaventura Overbeke - a cura di Paolo Rolli - Tommaso Edlin -
                                         Londra - 1739 -
                                        - Colin O'Connor - Roman Bridges - Cambridge University Press - 1993 -

                                        LA CERAMICA ROMANA

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                                        La ceramica sigillata, o ceramica aretina era una delle ceramiche pregiate da mensa più diffuse nell’Impero romano a partire dal I secolo a.c.. Spesso costituiva il "servizio buono" di chi non poteva permettersi piatti e ciotole in argento, ma che aveva comunque soldi da spendere. Il nome sigillata è del 1700 e deriva da sigillum, piccolo oggetto in argilla cotta.

                                        Ne parla Plinio I sec. a.c. secondo cui Arretium (Arezzo) era sinonimo di qualità, perchè la moda si diffuse in altri centri che l'imitarono ma nessuno riuscì ad eguagliare la bellezza di quella aretina, sia nell'impasto che nella decorazione. 

                                        Infatti la ceramica sigillata si espanse in Gallia da dove a sua volta venne esportata anche in Italia, vedi la Collagomagus, con una fabbrica di ben 500 operai, ma venne da qui esportato anche in Africa. Per ogni infornata occorrevano ben sei tonnellate di legna, per cui occorrevano zone dove il bosco o la foresta fossero vicine.


                                        Nell'impero si producevano una grande quantità di articoli per la tavola, e molte piccole figure in terra cotta ma pure in terra sigillata, spesso incorporate in lampade olio, o manici di vasi, o candelabri o altri oggetti, spesso con temi religiosi o erotici. 

                                        La ceramica più costosa tendeva ad usare la decorazione a rilievo, solitamente modellata, piuttosto che il colore, e le forme nonchè la decorazione venivano spesso copiate da un metallo di maggior prestigio, come l'argento. 

                                        Si eseguivano grandi vassoi, piatti o tondeggianti in diverse dimensioni, ciotole più o meno profonde, e tazzine, a strisce o sul tornio, con una gamma di modelli molto precisi. Le dimensioni vennero standardizzate onde facilitare la cottura, lo stoccaggio e il trasporto degli oggetti. Le varie forme vennero copiate dagli oggetti in argento e in vetro dello stesso periodo, per cui le forme precise permettono una sicura datazione.

                                        Il tipo più semplice di decorazione era spesso un rilievo ad anello, e magari anche di un solco anulare all'interno della base di un piatto. Spesso venivano posti dei bolli riguardanti la fabbrica degli oggetti in questione.



                                        L'ARS

                                        Nel III secolo d.c., il rosso africano, ARS, appare in tutto il Mediterraneo e nelle principali città dell'Europa romana. L'ARS era una categoria di terra sigillata, o ceramica "fine" romana antica prodotta dalla metà del I secolo d.c. al VII secolo nella provincia dell'Africa Proconsolare, nell'area che corrisponde con la Tunisia e le province di Diocleziano di Byzacena e Zeugitana. 

                                        Si riconosce per il colore arancione intenso più tendente al rosso su un tessuto leggermente granuloso. Le superfici interne sono completamente rivestite, mentre l'esterno può essere solo parzialmente lisciato, soprattutto negli esempi successivi.

                                        Dal III secolo la qualità della ceramica fine andò un po' calando, in parte per le perturbazioni economiche e politiche, sia perché la vetreria stava sostituendo il vasellame, soprattutto nelle tazze per bere. Il ricco naturalmente continuava a preferire l'argento.


                                        In epoca tardo romana la fabbrica ARS era il rappresentante più diffuso della tradizione sigillata in epoca tardo-romana, e occasionali importazioni sono state trovate fino alla Gran Bretagna nel V - VI secolo. Venne prodotta nella provincia dell'Africa Proconsolare (moderna Tunisia), e venne esportata anche in Egitto, anche se aveva le proprie tradizioni in ceramica molto attive nel periodo romano. 

                                        Essa fu ancora ampiamente distribuita nel V secolo, ma dopo di allora il volume della produzione e del commercio ebbe un calo. Mentre le forme più recenti sono continuate nel VII secolo e si trovano in città importanti come Costantinopoli e Marsiglia, la rottura dei contatti commerciali che ha caratterizzato il successivo VII secolo coincide con il declino finale dell'industria della terra sigillata africana.


                                        La produzione e il successo della ARS africana fu probabilmente strettamente legata alla produttività agricola delle province nordafricane romane, che erano oggetto di grande esportazione a Roma, come indica in parte la contemporanea distribuzione delle anfore nordafricane di epoca romana. Le navi che dovevano riempire le proprie stive trasportarono oltre al grano, all'olio e ai datteri, la terracotta con cui facevano le anfore e la terra sigillata per vasi, piatti, vassoi, tazze, brocche, fruttiere e così via.

                                        Una vasta gamma di ciotole, piatti e boccali sono state effettuate in ARS, ma la tecnica di fare la produzione decorativa in stampi venne interrotta, mentre i motivi appliqué sono stati utilizzati di frequente quando era richiesto un decoro in rilievo, realizzato separatamente e applicato all'oggetto prima della essiccazione e della cottura. I motivi stampati, più economici, furono invece usuali nei secoli successivi, con soggetti e simboli cristiani. 




                                        BIBLIO

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                                        - Peacock, D. P. S. - Pottery In the Roman World: An Ethnoarchaeological Approach - London - Longman - 1982 -
                                        - Dragendorff, Hans -. "Terra Sigillata. Ein Beitrag zur Geschichte der griechischen und römischen Keramik". - Bonner Jahrbücher .- 1895 -
                                        - Peña, J. Theodore - Roman Pottery In the Archaeological Record - Cambridge (UK) - Cambridge University Press - 2007 -
                                        - Hartley, Brian; Dickinson, Brenda - Nomi sulla Terra Sigillata: un indice di timbri e delle firme Makers' sul gallo-romana Terra Sigillata (Samo) - Institute of Classical Studies - Università di Londra - 2008 -
                                        - Robinson, Henry Schroder - Pottery of the Roman Period: Chronology - Princeton - NJ - American School of Classical Studies at Athens - 1959 -

                                        COSTANTINO V

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                                        COSTANTINO V

                                        Nome:
                                        Costantino V detto il Copronimo, in greco Kōnstantinos V                                                  Nascita: agosto 718                                                                                                                                        Morte: 14 settembre 775                                                                                                                              
                                        Padre: Leone III
                                        Madre: Maria
                                        Regno: 741 - 775
                                        Dinastia: isaurica
                                        Mogli: Irene, Maria (†751), Eudochia                                                                                                          Figli: da Irene ebbe Leone IV, da Maria non ebbe figli. 
                                        da Eudochia, ebbe: 
                                        - Cristoforo, Cesare nel 769, accecato, tagliata la lingua ed esiliato nel 780;
                                        - Niceforo (756/758 - dopo l'812), anche lui Cesare, accecato ed esiliato sull'isola di Avşa ove morì;
                                        - Niceta, accecato, taglio della lingua ed esiliato nel 780;
                                        - Eudocimo, idem come Niceta;
                                        - Antimo, idem come Niceta ed Eudocimo;
                                        - Antusa (757 - 801), Alla morte del fratellastro Leone IV rifiutò l'offerta della moglie di questi, Irene, di condividere il trono fino alla maggiore età del nipote, figlio di Leone ed Irene, Costantino VI; divenne monaca ed è venerata come santa.

                                        «Dicono che Costantino V fosse un uomo piuttosto vigoroso, che uccise in combattimento un leone, belva ferocissima ed affrontò un drago, arrivando ad ucciderlo
                                        (Vescovo di Napoli - Gesta episcoporum neapolitanorum.)

                                        Costantino V, detto il Copronimo, è stato un imperatore bizantino che venne associato al trono nel 720 a soli due anni. Nacque nell'agosto del 718, e fu battezzato dal patriarca Germano, il 25 dicembre dello stesso anno, defecò sul fonte battesimale, e ciò gli valse l'infamante appellativo di Copronimo (traducibile con "nome di sterco"), dai suoi nemici, cioè gli storici iconoduli. 



                                        IL MATRIMONIO CON TZITZAC

                                        Nel 732, l'Impero Romano d'Oriente era minacciato di invasione dal Califfato omayyade. In cerca di alleati, Leone III Isaurico inviò un'ambasciata a Bihar, Khagan dei Khazari. L'alleanza fu suggellata con il matrimonio di Tzitzak (r. 741–750), la principessa cazara, battezzata per l'occasione con il nome di Irene, con Costantino V, figlio e co-sovrano minore di Leone.

                                        Nell'anno vi fu infatti la vittoria decisiva dei Cazari (o Khazari, popoli turchi seminomadi delle steppe dell'Asia Centrale) sugli Arabi (gruppo etnico originario della Penisola arabica) ad Ardabil (antica città dell'Azerbaigian persiano) e la loro espansione fino a Mosul (in Iraq). Da allora la via trans-caucasica per l'invasione d'Europa non verrà più tentata dagli Arabi.

                                        Tzitzak venne scortata a Costantinopoli per il suo matrimonio. Costantino aveva circa quattordici anni, mentre Tzitzak potrebbe essere anche più giovane in quanto non avrebbe partorito per diciotto anni. L'abito da sposa di Tzitzak divenne famoso, dando inizio a una nuova mania della moda a Costantinopoli per gli abiti maschili (!) chiamati tzitzakia.

                                        La cronaca di Teofane il Confessore riportò su Tzitzak: "ha imparato la Sacra Scrittura e ha vissuto devotamente, rimproverando così l'empietà di quegli uomini [Leone e Costantino]". Gli imperatori Leone III e Costantino V erano infatti iconoclasti mentre Teofane ed Irene fossero iconoduli.
                                        La cronaca di Teofane il Confessore riporta che Tzitzak imparò a leggere testi religiosi. La descrive come una pia e la contrappone all '"empietà" del suocero e del marito: "ha imparato la Sacra Scrittura e ha vissuto devotamente, rimproverando così l'empietà di quegli uomini [Leone e Costantino]".  Gli imperatori Leone III e Costantino V erano iconoclasti mentre Teofane era un monaco iconodulo. Le sue lodi probabilmente riflettevano il fatto che la stessa Irene condivideva le sue opinioni.

                                        Non è chiaro se sua suocera Maria fosse ancora l'imperatrice anziana al momento del matrimonio di Tzitzak. Leone III morì il 18 giugno 741. Gli successe Costantino V con Irene come imperatrice. Tuttavia, la guerra civile scoppiò quasi immediatamente quando Artabasdos, cognato di Costantino, rivendicò il trono per se stesso. La guerra civile durò fino al 2 novembre 743. Il ruolo di Irene nella guerra non è descritto da Teofane.

                                        Il 25 gennaio 750, Costantino e Tzitzak ebbero un figlio, Leone, che sarebbe succeduto a suo padre come imperatore Leone IV, meglio conosciuto come "Leone il Khazar". La nascita di Leo è l'ultima menzione storica di Irene. L'anno successivo Costantino sposò la sua seconda moglie Maria. Forse



                                        IL TRONO

                                        Leone III morì il 18 giugno 741. Gli successe Costantino V con Irene come imperatrice. Tuttavia, la guerra civile scoppiò quasi immediatamente quando Artabasdos, cognato di Costantino, rivendicò il trono per se stesso. La guerra civile durò fino al 2 novembre 743. 

                                        Il 25 gennaio 750, Costantino e Tzitzak ebbero un figlio, Leone, che sarebbe succeduto a suo padre come imperatore Leone IV, meglio conosciuto come "Leone il Khazar". La nascita di Leo è l'ultima menzione di Irene nella cronaca storica. 



                                        IL SECONDO MATRIMONIO

                                        L'anno successivo Costantino era già sposato con la sua seconda moglie, Maria. Forse Tzizak era morta di parto.



                                        CONTRO GLI ARABI

                                        Nel 740 Leone vinse gli Arabi ad Akroinon. nell'Anatolia occidentale, in una battaglia combattuta fra un esercito degli Omayyadi e fra le forze bizantine comandate da Leone  e suo figlio, il futuro Costantino V. Infine Leone espulse le forze arabe dall'Asia Minore.

                                        In seguito alla disastrosa Battaglia di Sebastopoli, i Bizantini si erano da allora tenuti sulla difensiva, mentre le armate musulmane sferravano regolari incursioni nell'Anatolia bizantina. I Musulmani non miravano alla conquista dei territori ma al saccheggio e al bottino di guerra. Tuttavia, i musulmani vennero presi dal conflitto contro i Cazari ma dopo averli vinti nel 737 si rivolsero di nuovo contro i Bizantini espugnando la città di Ancira.

                                        COSTANTINO V

                                         
                                        LA BATTAGLIA DI AKROINON

                                        Secondo la Cronaca di Teofane Confessore, l'esercito umayyade con 90.000 uomini. saccheggiarono la costa occidentale, seguiti da 20.000 soldati che marciarono verso Akroinon, mentre altri 60.000 soldati saccheggiarono la Cappadocia. L'Imperatore Leone si scontrò con il secondo esercito presso Akroinon e lo vinse, entrambi i comandanti arabi caddero in battaglia, insieme alla maggior parte del loro esercito. 

                                        Gli altri due eserciti devastarono le campagne incontrastati, ma senza riuscire a conquistare alcuna città o fortezza. Inoltre, l'esercito arabo soffrì una grave carestia e si trovò senza rifornimenti per cui dovette tornare in Siria. Secondo lo storico arabo cristiano del X secolo Agapio, i Bizantini catturarono 20.000 prigionieri di guerra. 

                                        Leone interpretò la vittoria come la benevolenza di Dio e rafforzò la sua politica iconoclastica. Nel 741 i Bizantini attaccarono l'importante base araba di Melitene. Nel 742 e nel 743, gli Umayyadi approfittarono di una guerra civile scoppiata a Bisanzio tra l'Imperatore Costantino V e l'usurpatore Artavasde per fare incursioni in Anatolia, ma gli attacchi furono inconcludenti.



                                        LA RIVOLTA DI ARATAVASDE

                                        Quando Costantino V divenne unico imperatore, durante una campagna di guerra contro gli Arabi, venne dichiarato morto dall'ex strategos del thema armeno, nonché cognato suo e genero di Leone III, Artavasde, e dovette riconquistare la capitale e il trono (741-742). 

                                        Artavasde, iconodulo, si fece nominare imperatore da una parte dell'esercito e giunto a Costantinopoli, fece rimettere a posto le immagini sacre. Intanto Costantino V ottenne l'appoggio delle truppe del thema anatolico e inflisse all'usurpatore due pesanti sconfitte, presso Sardi e presso Madrina, nel 743.

                                        Dopo un assedio di tre mesi, Costantino V entrò trionfalmente a Costantinopoli e punì l'usurpatore accecando lui e i suoi figli nell'ippodromo mandandoli poi in esilio mentre ai suoi sostenitori furono tagliati mani e piedi o furono accecati. 

                                        LE PERSECUZIONI ICONOCLASTE DI COSTANTINO V


                                        LA POLITICA INTERNA

                                        Nei primi anni di regno Costantino V non perseguitò apertamente gli iconoduli, al contrario di suo padre che fu considerato empio, in quanto forse frenato dalla moglie Irene, che Teofane descrive pia e veneratrice delle immagini.

                                        Tuttavia il Concilio di Hierìa, svoltosi appunto a Hierìa sulla sponda asiatica del Bosforo, fu convocato nel 754 da Costantino V, in appoggio alla politica iconoclasta iniziata da Leone III. Vi parteciparono 338 vescovi orientali presieduti dal vescovo di Efeso, convinto iconoclasta. Si decise che un'icona di Cristo poteva raffigurare o la sua natura divina ed umana insieme (monofisismo) o solo la sua natura umana (nestorianesimo), entrambe eretiche.

                                        pertanto le immagini religiose nelle chiese vennero distrutte e sostituite con altre profane, e nel 760 iniziò la persecuzione degli ordini religiosi, in quanto oppositori all'iconoclastia. Si impose ai monaci di abbandonare la vita monastica e sposarsi, pena l'accecamento e l'esilio. La persecuzione colpì anche i monaci non iconoduli: in questo modo i loro possedimenti vennero confiscati e incamerati dallo stato.

                                        Dopo la pestilenza che nel 747 aveva colpito Costantinopoli, Costantino ripopolò la capitale trasferendovi abitanti dalla Grecia e dalle isole dell'Egeo. Molte opere pubbliche vennero restaurate, come l'acquedotto di Valente, Hagia Sophia e la Chiesa di Santa Irene, rimuovendo tutte le immagini religiose. 

                                        Poi l'Imperatore apportò migliorie nell'esercito, con l'istituzione nel 760 dei cosiddetti tagmata, soldati di professione molto meglio addestrati dei soldati-contadini dei themata.



                                        POLITICA ESTERA

                                        Guerre contro i Musulmani

                                        Il califfato islamico passò nel 750 alla dinastia agli Abbasidi, la capitale fu trasferita a Baghdad e la pressione sui territori bizantini diminuì, e in questo modo l'imperatore poté condurre alcune campagne vittoriose contro i musulmani.

                                        Nel 746 Costantino V invase la Siria settentrionale, occupando Germanicea, nel 752 conquistò anche Teodosiopoli e Melitene, in Armenia. I prigionieri di guerra vennero condotti in Tracia per ripopolarla, creando una terra di confine. Sul mare lo stratego di Costantino nel 747 sconfisse la flotta araba proveniente da Alessandria.

                                        «Costantino, figlio di Leone, fu chiamato Cawallinos, ... "colui che raccoglie il letame" perché, quando le forze arabe erano ammassate sul fiume Alis, egli ordinò che il letame fosse ammassato e lanciato nel fiume; quando gli Arabi videro questo, il terrore li assalì, credendo che fosse un esercito immenso, scapparono. È detto che egli uccise cinque leoni, uno dopo l'altro...»
                                        (Samuele di Ani, Cronache)

                                        Le fortezze conquistate vennero riconquistate dagli Arabi, ma quando in Cappadocia giunse la notizia che l'Imperatore stava accorrendo con il suo esercito per uno scontro campale gli arabi arretrarono e chiesero la pace con cui, in cambio della restituzione di alcuni prigionieri, gli Arabi si impegnarono a non invadere più il territorio bizantino. Nel 763 parte dell'Armenia araba fu conquistata dai Turchi, alleati di Bisanzio, gli Arabi attaccarono la Cilicia ma dovettero ritirarsi.

                                        LA SITUAZIONE NEL 751

                                        La perdita dell'esarcato

                                        Mentre regnava Costantino V, l'esarcato bizantino di Ravenna (la cosiddetta Provincia Italiae) era in grave pericolo, minacciato dal re dei Longobardi Astolfo che nel 750 invase da nord l'Esarcato occupando Comacchio e Ferrara.

                                        Nell'estate del 751 conquistò l'Istria e poi Ravenna, capitale e simbolo del potere bizantino in Italia. Si insediò nel palazzo dell'esarca, che venne parificato al palazzo regio di Pavia come centro del regno longobardo. Costantino V inviò ambasciatori presso Astolfo per farsi restituire restituire i territori, ma Astolfo voleva conquistare anche Roma, minacciando il Papa che si rivolse a Pipino il Breve, re dei Franchi. 

                                        Il re discese due volte in Italia (754 e 756), sconfiggendo Astolfo e costringendolo a cedere Esarcato e Pentapoli al Papa invece che all'Impero. Costantino V inviò due messi presso il re franco, pregandolo di restituirgli l'Esarcato, ma Pipino rifiutò. Nacque così il potere temporale dei Papi e lo Stato della Chiesa.

                                        Costantino V cercò allora di accordarsi con il nuovo re dei Longobardi Desiderio per riprendersi l'Esarcato, ma nonostante l'accordo raggiunto, l'impresa fallì. La caduta del Regno longobardo ad opera di Carlo Magno (774) fece cadere ai bizantini ogni speranza di riconquista della penisola italiana. Adelchi, il figlio dell'ultimo re longobardo, ottenne rifugio a Costantinopoli.


                                        Contro i Bulgari

                                        Costantino V condusse nove campagne contro i Bulgari, che nel 756 avevano invaso l'Impero, mossi dalle nuove fortezze al confine con la Bulgaria che l'imperatore aveva fatto costruire. Il khan gli intimò di distruggerle e al suo rifiuto invase la Tracia bizantina.

                                        Teofane, il monaco e storico bizantino narra che l'invasione bulgara ebbe successo, devastando i territori imperiali e costringendo Costantino a intraprendere la prima spedizione nel 759. Ma Teofane è iconodulo e forse non imparziale nei confronti dell'imperatore.

                                        Invece lo storico Niceforo parla di fallimento dell'invasione e di una schiacciante vittoria dei Bizantini, che devastarono la Bulgaria e spinsero i Bulgari a firmare un oneroso trattato di pace. Anch'egli è iconodulo ma forse più imparziale.
                                         
                                        Nel 762 venne eletto khan dei Bulgari Teletz che invase la Tracia bizantina. L'imperatore lo raggiunse personalmente col suo esercito e il 30 giugno 763 gli inflisse una pesantissima sconfitta. La vittoria venne celebrata dall'Imperatore con un ingresso trionfale a Costantinopoli e con giochi e feste all'Ippodromo.

                                        Quando poi la Bulgaria cadde nell'anarchia, l'Imperatore armò due spedizioni che la invasero nel 764 e nel 765: la prima fu vittoriosa, la seconda sfortunatissima a causa del vento avverso che causò la distruzione di quasi tutta la flotta imperiale.

                                        La Bulgaria si risollevò dall'anarchia nel 770, con l'ascesa al potere di Telerig che invase la Macedonia nel 773 ma venne sconfitto dai Bizantini. Costantino volle tentare una nuova spedizione nel 775, ma quando stava per partire lo colse una forte febbre e gli si gonfiarono le gambe; morì infatti il 14 settembre 775 e fu sepolto nella chiesa dei Santi Apostoli. Il suo primo figlio gli succedette come Leone IV.

                                        GUERRE CONTRO I BULGARI

                                        LE OPERE

                                        Teofane narra che prima del concilio di Hiera circolassero degli scritti iconoclasti contenuti nell'opera "Monito del vecchio sulle sacre icone", di cui abbiamo tre frammenti:

                                        - il primo è una profezia che dovrebbe risalire a prima del 741 ma si arguisce fosse più tarda in quanto cita le persecuzioni di Costantino V contro i monaci del 760 - 770,

                                        - il secondo è un dialogo tra l'iconodulo Giorgio e l'iconoclasta Cosma, come scontro tra veneratori delle immagini e distruttori;

                                        - il terzo è un monologo iconodulo di un santo. Si ritiene inventato a posteriori da icononoduli per screditare Costantino V e l'iconoclastia.

                                        Costantino V scrisse prima del Concilio "Le questioni" destinato ai vescovi accorsi per partecipare al Concilio del 754. Secondo lo scritto, gli adoratori delle immagini cadrebbero nell'eresia perché dipingendo Cristo ne rappresenterebbero solo la sua natura umana, come gli eretici Nestoriani, e poiché le due nature di Cristo non possono essere rappresentate insieme, le immagini sacre vanno distrutte in quanto eretiche.

                                        COSTANTINO V


                                        IL SEGUITO

                                        Nel concilio di Nicea II, del 787, che condannò l'iconoclastia e ordinò la distruzione di tutte le fonti iconoclaste, le sue spoglie furono rimosse e bruciate nel Forum Bovis.

                                        «...Perché quella belva funesta e bruta, feroce e assetata di sangue, abusando del proprio potere, tirannicamente, contro la legge, si allontanò dapprima da Dio e da Gesù Cristo, nostro salvatore, e dall'immacolata santissima Sua Madre e da tutti i santi, sedotto da incantesimi, orge, sacrifici cruenti, riti magici con escrementi e urina di cavallo, tra dissoluti godimenti e evocazioni di demoni: in una parola visse, fin da tenera età, nella pratica di ogni forma di corruzione spirituale. Quando poi, nella sua malvagità, ereditò il potere del padre, che altro aggiungere?, riattizzò con ardore la fiamma maligna concepita fin dall'inizio, la fece divampare alta, ben visibile a tutti...»
                                        (Teofane Confessore, Cronaca, anno 741. Traduzione di Enrico V. Maltese.)

                                        A causa della iconoclastia l'imperatore venne accusato di tutti i possibili crimini, di paganesimo e pure di omosessualità e di essersi sposato tre volte, pratica illegale per la Chiesa. Venne poi accusato di aver commesso incredibili atti crudeli contro i monaci. Gibbon elenca tutte le accuse delle fonti di parte contro il sovrano:

                                        « L'odio religioso vomitò tutto il suo fiele nella dipintura, che i partigiani delle Immagini ci fecero della persona e del regno di questo principe, di questa pantera macchiata, di questo anticristo, di questo drago volante, di questo germe del serpente, che sedusse la prima donna. Al loro dire costui superò nei vizi Elagabalo e Nerone; il suo regno fu un perpetuo macello dei personaggi più nobili, più santi, o più innocenti dell'Impero; assisteva al supplizio delle sue vittime, considerava le convulsioni della loro agonia, ne ascoltava con piacere i gemiti, né mai potea saziarsi del sangue, che godea di versare: spesse volte battea colle verghe, o mutilava i familiari della sua Casa reale: il soprannome di Copronimo ricordava ch'egli avea lordato di escrementi il Fonte battesimale; veramente l'età potea farne le scuse; ma i sollazzi della sua virilità lo fecero inferiore ai bruti; confuse nelle sue dissolutezze tutti i sessi e tutte le spezie, e parve che si compiacesse pur delle cose più ributtanti pei sensi. Quest'Iconoclasta fu eretico, ebreo, maomettano, pagano, ateo; e solamente le sue cerimonie magiche, le vittime umane che immolava, i sagrifizi notturni a Venere e ai demonii dell'antichità, son le prove che abbiamo della sua credenza in Dio. La sua vita fu lorda dei vizi i più contraddittorii, e finalmente le ulceri che copersero il suo corpo gli anticiparono i tormenti dell'inferno.»
                                        (Edward Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano)

                                        Molte di queste infamie sono state riconosciute dalla storiografia moderna come esagerazioni retoriche e calunnie solo per ulteriore condanna all'iconoclastia. Il culto dei santi attraverso le immagini e le reliquie del resto fruttarono alla chiesa un notevole capitale per le donazioni fatte dai fedeli. Comunque, lo storico Edward Gibbon, nonostante molto critico nei confronti di Bisanzio, osserva:

                                        « Confessano i suoi nemici, che restaurò un vecchio acquedotto, che riscattò duemila e cinquecento prigionieri, che godettero i popoli sotto il suo regno una insolita abbondanza, che con nuove colonie ripopolò Costantinopoli e le città della Tracia; e a malincuore son costretti a lodarne l'attività ed il coraggio. In battaglia era sempre a cavallo alla fronte delle sue legioni, e quantunque non sieno state sempre fortunate le sue armi, trionfò per terra e per mare, su l'Eufrate e sul Danubio, nella guerra civile come nella barbarica; conviene inoltre, per fare contrappeso alle invettive degli ortodossi, mettere ancora nella bilancia le lodi dategli dagli eretici. Gl'Iconoclasti onorarono le sue virtù, lo considerarono per Santo, e 40 anni dopo la sua morte oravano sulla sua tomba. Si disse che l'eroe cristiano era comparso sopra un cavallo bianco, colla lancia imbrandita, contro i Pagani della Bulgaria: «Favola assurda, dice uno scrittore cattolico, perché Copronimo è incatenato coi demonii negli abissi dell'inferno»
                                        (Edward Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano)

                                        Ciò non toglie comunque che Costantino V fu uomo violento e crudele.



                                        BIBLIO


                                        - Nicola Bergamo - Costantino V Imperatore di Bisanzio - Rimini - Il Cerchio - 2007 -
                                        - Leo Donald Davis - The First Seven Ecumenical Councils (325-787): Their History and Theology - Liturgical Press - 1983 -
                                        - Silvia Ronchey - Lo stato bizantino - Torino - Einaudi - 2002 -
                                        - Giorgio Ravegnani - Imperatori di Bisanzio - Bologna - Il Mulino - 2008 -
                                        - Khalid Yahya Blankinship - The End of the Jihâd State: The Reign of Hishām ibn ʻAbd al-Malik and the Collapse of the Umayyads Albany - New York - State University of New York Press - 1994 -
                                        - Judith Herrin - The Context of Iconoclast Reform - Anthony Bryer e Judith Herrin (a cura di) - Iconoclasm - University of Birmingham - March 1975 -

                                        FELIX ROMULIANA - GAMZIGRAD (Serbia)

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                                        RICOSTRUZIONE DELLA FELIX ROMULIANA (BY HISTORY IN 3D)

                                        In una valle tra le montagne della Serbia, nel 300 d.c. i romani edificarono la città romana Felix Romuliana, oggi Gamzigrad, una città serba situata a sud del Danubio, nei pressi di Zajecar, al confine con la Bulgaria.

                                        Durante la trentunesima sessione del Comitato dei patrimoni dell'umanità a Christchurch, Nuova Zelanda, tra il 23 giugno ed il 2 luglio, il palazzo di Galerio venne inserito nel 2007 tra i siti protetti dall'UNESCO tra i Patrimoni dell'umanità.
                                        Nei pressi dei bagni termali di Gamzigrad si trovano le rovine della "Felix Romuliana", uno dei più importanti siti europei dell'epoca tardo romana.

                                        I primi esploratori credevano che le vecchie rovine fossero un campo militare romano, a causa delle dimensioni delle torri.
                                        RICOSTRUZIONE DELLA FELIX ROMULIANA (BY HISTORY IN 3D)

                                        Altri scavi fatti a partire dal 1953 dimostrarono che fu, in effetti, un palazzo imperiale, creato da uno dei tetrarchi, Galerio, figlio adottivo e genero di Diocleziano.

                                        In realtà i Romani costruirono una città in onore dell’imperatore Gaio Valerio Galerio Massimiano, nato nella zona. La città, chiamata Felix Romuliana ospitava un tempio dedicato alla dea Cibele, orientato in modo diverso rispetto alle altre costruzioni. 
                                        Gli studiosi di acustica pensano che gli antichi progettisti abbiano disposto il tempio di Cibele, nel quale venivano effettuati sacrifici animali, in modo da sfruttare il suono e le vibrazioni dell’acqua che scorre sotto terra intorno al tempio.

                                        RICOSTRUZIONE DELLA PORTA DI ACCESSO (BY HISTORY IN 3D)

                                        I ricercatori ritengono che Romula, madre di Galerio, una sacerdotessa che abitò in questa città fino alla morte, utilizzasse veggenti o fosse veggente alla stessa per divinare il percorso delle acque e fece costruire il tempio di Cibele vicino alla sorgente di queste acque. I suoni e l'oscurità nella quale i fedeli venivano a trovarsi durante la celebrazione dei riti, sicuramente devono aver creato un clima di eccitazione tra i presenti.

                                        Galerio fece iniziare i lavori nel 298, dopo la vittoria sui Parti che gli valse fama e gloria, per segnalare il suo luogo di nascita. Prese il nome di Felix Romuliana in memoria della madre di Galerio, Romula, sacerdotessa di un culto pagano.


                                        Questo complesso di templi e palazzi divenne luogo di culto della madre nonché villa lussuosa in cui Galerio visse gli ultimi anni della sua vita. Galerio e Romula vennero sepolti nei pressi della città, su una collina sacra che, nel 1500 a.c., era stata un luogo di sepoltura. Si tratta della collina di Magura, dove è stata scavata una necropoli dell'Età del Bronzo.

                                        Galerio venne divinizzato proprio su questa collina, dopo la sua morte. Venne, in seguito, onorato in un tempio a lui dedicato a Felix Romuliana, mentre la madre veniva adorata come una Dea in un altro tempio.

                                        RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI CIBELE (BY HISTORY IN 3D)

                                        I MAUSOLEI

                                        Sulla collina di Magura, tra il 1989 e il 1993, sono stati messi in luce due mausolei e due monumenti commemorativi alla coppia imperiale e sul versante sudest dell'altura, lungo la strada che conduce alla città, sono stati trovati i resti di un imponente tetràpylon, costruiti tutti in un periodo tra il 305 e il 311 d.c..
                                        Entrambi furono demoliti e saccheggiati durante il V secolo d.c.. Sotto i tumuli sono stati rinvenuti vasi d'argento deformati dal fuoco e monete d'oro, identificati come i resti di una pira (il rogus consecrationis).

                                        Gli autori antichi affermano che Galerio visse raramente nella città a lui dedicata, mentre sua madre Romula vi abitò stabilmente. 


                                        Costei era solita adorare, sulla collina di Magura, divinità non romane, ed era, anche, una fervente seguace dei riti di Cibele. Il mausoleo in cui venne sepolta Romula è a pianta quadrata, mentre quello di suo figlio Galerio ha pianta poligonale. Vennero ambedue saccheggiate e demolite nel V secolo d.c.

                                        Sulle divinità adorate da Romula Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, storico del tempo, fa cenno soltanto a riti misteriosi che definisce nocivi sia per Romula che per gli accoliti di queste divinità.
                                                                      
                                        Cibele, alla quale si riferisce probabilmente lo storico, era la Grande Madre dei Frigi, una divinità della natura i cui seguaci praticavano riti orgiastici.


                                        I Greci identificarono Cibele con la loro Dea Madre Rhea. Il culto di Cibele venne introdotto a Roma nel III secolo d.c. a causa delle Guerre Puniche.

                                        Felix Romuliana è citata in due fonti storiche. Nelle Epitomi del cosiddetto pseudo-Vittore (360 d.c.), in cui è scritto che Galerio Cesare (Cesare dal 293 al 305 d.c. e Augusto dal 305 al 311 d.c.) era nato e venne sepolto in una località che egli chiamò Romulianum, dal nome della madre Romula. 

                                        Nel De Aedificiis di Procopio (553-555 d.c.) si cita Felix Romuliana solo di sfuggita, tanto per ricordare la città nella lista delle città restaurate da Giustiniano.



                                        LA FINE

                                        Felix Romuliana svolse il suo compito finché non venne saccheggiata dagli Unni a metà del V secolo. In seguito divenne un insediamento di coloni e artigiani ed infine venne abbandonato, all'inizio del VII secolo, con l'arrivo degli Slavi.



                                        GLI SCAVI

                                        Per molto tempo l'esatta ubicazione di Felix Romuliana è rimasta sconosciuta. Gli scavi sistematici iniziarono nel 1953 portando alla scoperta di un monumentale complesso architettonico, circondato da mura poderose e costruite in due riprese.

                                        Nel 1973, quando venne scoperta una struttura identificata come tempio-mausoleo, gli archeologi avanzarono l'ipotesi che Camzigrad fosse la misteriosa Felix Romuliana, ipotesi che venne confermata nel 1984 dal ritrovamento di un blocco di pietra che, un tempo, era coronamento di un archivolto, con l'iscrizione Felix Romuliana.

                                        L'area su cui sorgeva la città era trapezoidale e si estendeva su circa sei ettari di terreno. L'ingresso principale era sul lato est, verso il quale erano orientate le facciate di tutti gli edifici posti all'interno delle mura. Gli archeologi hanno identificato con certezza solo un asse stradale orientato est-ovest.


                                        La stratigrafia di Felix Romuliana è piuttosto complessa e ricca di reperti archeologici che hanno permesso di distinguere quattro fasi di vita della città: 
                                        - residenza imperiale (fine del III primi due decenni del IV secolo d.c.); 
                                        - centro ecclesiastico e luogo di riparo (seconda metà del IV secolo e prima metà del V secolo d.c.); - insediamento protobizantino (metà del V secolo fino ai primi decenni del VII secolo d.c.); 
                                        - città medioevale.

                                        Il palazzo regale è immenso, circondato da un numero tale di torri da aver indotto gli archeologi a pensare inizialmente che si trattasse di un campo militare particolarmente fortificato. Al suo interno si innalzano i colonnati dei patii e dei templi che l’imperatore costruì per venerare la madre Romula, sacerdotessa pagana; vi si possono ammirare ancora i pavimenti a mosaico e gran parte delle ciclopiche mura. 


                                        Di fatto il palazzo era un insieme di edifici di grande pregio, nei quali Galerio intendeva trascorrere gli ultimi anni della sua vita dopo le prestigiose vittorie riportate sui persiani che gli avevano procurato grande fama. 

                                        Saccheggiato dagli unni e abbandonato, nel VII secolo il sito fu ripopolato dagli slavi, che lo ribattezzarono Gamzigrad (‘città strisciante’) a causa dei tanti serpenti che lo avevano invaso.

                                        Gli scavi nella fortezza hanno portato alla luce i resti di un palazzo con mosaici, bagni, sculture e decorazioni splendide. Tra le importanti scoperte si possono citare ritratti di regnanti su pietre purpuree egiziane e monete che permettono di datare il complesso.



                                        BIBLIO

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                                        - Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio - Morte dei persecutori -
                                        - Sofronio Eusebio Girolamo - Cronaca -
                                        - Rufio Festo - Breviarium rerum gestarum populi Romani -

                                        SCORDISCI (Nemici di Roma)

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                                        "Parte di questa regione (Tracia) era abitata dagli Scordisci un popolo un tempo crudele e selvaggio, e, come la storia antica dichiara, abituato a offrire i propri prigionieri a Bellona e Marte, e dai loro crani scavati a bere avidamente sangue umano. A causa della loro ferocia lo stato romano era spesso molto turbato.."

                                        (Ammiano Marcellino - libro 27)

                                        Gli Scordisci (Scordisci anche in latino ma Scordistae in illirico) erano un insieme di popolazioni confederate stanziate alla foce del fiume Sava e di altre popolazioni celtiche giunte come invasori 
                                        fin dalla prima metà del III secolo a.c. nell'attuale Serbia, nei dintorni di Belgrado e nella bassa valle della Sava. 

                                        Il territorio degli Scordisci confinava a nord con i potenti guerrieri Daci, ad ovest con i pannoni Breuci ed Amantini, ad est con i Mesi e a sud con i Dardani. Tali forti nemici li avevano, nolenti o volenti, abituati a combattere, da ciò nasceva la loro notoria ferocia.



                                        LA STORIA

                                        - Nel 183-182 a.c. gli Scordisci fecero un trattato di pace con Filippo V di Macedonia a seguito delle guerre condotte dal re macedone contro Traci e Dardani.

                                        TERRITORIO DEI SCORDISCI
                                        -
                                        Nel 168 a.c. quando Roma conquistò la Macedonia, gli Scordisci non avevano ancora conquistato la Dardania. Quando però tentarono di sottometterla avvenne il primo scontro con i Romani nel 156 a.c., che miravano a sottomettere l'area balcanica.
                                        -Fino al 141 a.c. gli Scordisci estesero i loro territori fino a occupare l'intera Dardania, così estesa che il loro territorio coincideva con la futura provincia romana della Mesia Superiore.
                                        Nel 135 a.c., il pretore romano, Marco Cosconio, combatté e vinse contro di loro in Tracia.
                                        Nel 113 a.c. gli Scordisci respinsero un'invasione di Cimbri provenienti dallo Jutland, che allora ripiegarono sul Norico scontrandosi con l'esercito romano nei pressi di Noreia.
                                        - Nel 112 a.c. il console Marco Livio Druso combatté per ben due anni contro gli Scordisci in Tracia, e poi ancora nel 111 a.c. quando gli venne prolungato il mandato come proconsole di Macedonia, vista la sua attività bellica.
                                        Nel 110 a.c. Livio Druso, con la sua solita abilità riesce ad ottenere il trionfo sugli Scordisci con tutto che fossero alleati dei Traci, dei Daci e delle vicine popolazioni della Tracia.
                                        Nel 106 a.c. il console Marco Minucio Rufo, ora proconsole di Macedonia, celebra a sua volta il trionfo sugli Scordisci, Roma ha la meglio come al solito.
                                        Dall'88 all'81, ad opera di Lucio Cornelio Scipione Asiatico, generale di Lucio Cornelio Silla, gli Scordisci sconfitti devono abbandonare i territori acquisiti della Dardania, tanto che i vicini Mesi, assoggettati agli Scordisci da circa sessant'anni, finalmente si liberarono di loro.
                                        PROBABILE MONETA DEI SCORDISCI

                                        Nel 75-74 a.c., alleati ancora a Dardani e Daci, gli Scordisci combattono contro il proconsole di Macedonia Gaio Scribonio Curione Burbuleio. Vengono sconfitti, chiedono la pace e si alleano al grande re dei Daci Burebista, ancora con la speranza di sfuggire alle legioni romane.
                                        Nel 16 a.c., gli Scordisci, alleatisi pure con i Denteleti (abitanti l'alta valle del fiume Strymon) invadono la Macedonia ma vengono respinti dal neo governatore Lucio Tario Rufo.
                                        - Nel 14 a.c. un Marco Vinicio, in qualità di Legato imperiale, si reca sul fronte Illirico per sedare le rivolte nell'area di Emona e Siscia, e ci riesce 

                                        - Nel 13 a.c. la campagna di Augusto, affidata al suo genero Agrippa, mira a occupare le area illirica e la balcanica e a mettere fine a questi attacchi una volta per tutte.

                                        - Nel 12 a.c. Marco Vinicio viene inviato nella provincia di Macedonia come nuovo governatore, sotto il comando del futuro imperatore Tiberio. Attua un'abile manovra a tenaglia (manovra già usata da Cesare e da Scipione l'Africano), occupa l'intera area della Dardania, della bassa valle della Sava e della piana di Sirmio, riuscendo a sottomettere anche gli Scordisci.
                                        Nel 12 a.c. il comandante e futuro imperatore Tiberio, sottomette i pannoni Breuci, anche grazie all'alleanza degli Scordisci ormai sottomessi, che entrano a far parte anche delle truppe ausiliarie romane. 

                                        Gli Scordisci vennero inglobati dai coloni romani, accettano le usanze romane e le loro leggi, divenendone per giunta combattenti mercenari. I nemici di Roma divennero romani.


                                        BIBLIO

                                        - Strabone - Geografia VII - Illiria e Pannonia -
                                        - Plinio il Vecchio - Naturalis Historia - III -
                                        - Dione - Storia romana - libro LV -- Svetonio - Vite dei Cesari - Tiberio -
                                        - Scrittori della storia augusta - a cura di Paolo Soverini - voll.2 - Torino - Utet - 1983 - 
                                        - Procopio di Cesarea - Guerra gotica - I - 
                                        - Tacito - De origine et situ Germanorum - Progetto Ovidio - 
                                        - Velleio Patercolo - Historiae romanae ad M. Vinicium - libri duo -

                                          GAIO GIULIO SOLINO - G. IULIUS SOLINUS

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                                          SOLINO NEL DITTAMONDO


                                          Nome: Gaius Iulius Solinus
                                          Nascita: 210 circa
                                          Morte: dopo il 258
                                          Professione: Studioso, storico, geografo


                                          Di questo scrittore non sono mai stati rinvenuti i dati biografici e di lui ci è pervenuta una sola opera: i Collectanea rerum memorabilium ("raccolta di cose memorabili"). Nel medioevo questa stessa opera fu nota anche sotto i titoli di Polyhistor ("il curioso", "l'erudito"), termine preso dall'autore stesso che così si definisce, oppure, ma più raramente, di De mirabilibus mundi ("sulle meraviglie del mondo").



                                          COLLECTANEA RERUM MEMORABILIUM

                                          L'opera, l'unica a noi pervenuta dall'autore, è scritta in un latino piuttosto manieristico, ed è solo compilativa in quanto l'autore si limita ad attingere pienamente dalle opere di Pomponio Mela (Tingentera, I secolo – Roma, dopo il 43), dall'opera di Svetonio (69 circa – post 122) e da quella di Marco Terenzio Varrone (Rieti116 a.c. – Roma27 a.c.). 

                                          Secondo Theodor Mommsen (Garding, 1817 – Charlottenburg,1903) avrebbe attinto anche da autori o opere non pervenutici altrimenti, come Cornelio Bocco, uno storico romano della Lusitania, (area occidentale della Penisola Iberica) citato da Solino in De mirabilibus mundi o Collectanea Rerum memorabilium come Bocchus, mentre Plinio in Naturalis historia lo cita sia come Bocchus che come Cornelius Bocchus ( xxxvii , 24). 

                                          In realtà attinse pure da Cincio Alimento, Fabio Pittore, Cornelio Nepote, Lutazio Catulo, Eratostene, Apollodoro e Cicerone. Di ciò che scrisse non ci rimane se non ciò che è contenuto in Solino e in Plinio e nelle compilazioni enciclopediche di Svetonio (Prata). Da tali fonti Solino avrebbe appreso e annotato le cose più strane e meravigliose inerenti a popoli, usanze, animali e piante illustrandole nelle zone e aree di origine.

                                          Il testo è dedicato ad un certo Aventus, forse uno dei consoli per l'anno 258 (per questo si suppone la sua morte oltre tale data). Segue poi una trattazione sulla storia di Roma dalle origini al principato di Augusto. Va a descrivere quindi l'Italia, la Grecia, le regioni intorno al Mar Nero, la Germania, la Gallia, la Britannia, la Spagna, e successivamente le province dell'Africa, l'Arabia, l'Asia minore, l'India e l'impero dei Parti.

                                          Il testo fu oggetto di notevole rielaborazione, tanto che lo stesso Solino, nella seconda epistola dedicatoria, definisce il proprio lavoro polyhistor. Le meraviglie descritte nel suo libro e la sua ridotta estensione rispetto alle opere di Plinio il Vecchio ne decretarono il successo nel medioevo, quando l'erudizione era molto meno consueta che nel periodo romano, tanto più che la bassa alfabetizzazione aveva praticamente comportato l'oblio del latino. 

                                          Lo scritto fu soggetto ad alcuni rimaneggiamenti, soprattutto quelli in esametri tradizionalmente attribuiti a Teodorico (Pannonia, 454 – Ravenna, 526) e a Pietro Diacono (Roma, 1107 – Montecassino, dopo il 1159). 

                                          Colpì molto l'immaginazione dei suoi estimatori nel Medioevo anche il ruolo di Solino, simile a quello di Virgilio nella Divina Commedia, come accompagnatore del poeta Fazio degli Uberti (Pisa, 1305 o 1309 – Verona, post 1367) nel suo Dittamondo, il viaggio Di Fazio degli Uberti che percorrere tutto il mondo allora conosciuto dopo un incontro con la figura allegorica della Virtù, sempre in compagnia di Gaio Giulio Solino, che gli offre la possibilità di descrivere i panorami e le particolarità delle città visitate. 

                                          IL MONDO MEDIEVALE DEI DRAGHI


                                          LE EDIZIONI

                                          La prima edizione dei "Collectanea rerum memorabilium" di Solino fu pubblicata a Venezia nel 1473. Nel '500 ne furono pubblicate varie edizioni critiche da Johannes Camers (Vienna, 1520), Elias Vinetus (Poitiers, 1554), Martin Delrio (Anversa,1572 - Lione, 1646). Tra i commenti più importanti sono da ricordare le Plinianae exercitationes (1689) di Claude Saumaise. 

                                          La migliore edizione dell'opera di Solino è considerata quella curata da Theodor Mommsen (premio Nobel per la letteratura nel 1902) nel 1895 con un'importante introduzione sui manoscritti utilizzati, le fonti di Solino e i suoi successivi compilatori. Tra le pochissime traduzioni si può ricordare quella italiana di Giovan Vincenzo Belprato (Venezia, 1559).



                                          UN ACCENNO AL TESTO

                                          L'autore annuncia che l'opera sarà un compendio perché non risulti noiosa, ed è organizzata per regioni geografiche con notizie etniche, zoologiche e botaniche.

                                          NATALIA ROMULI


                                          Capitolo I - Delle origini della città di Roma

                                          Secondo alcuni risaliva al tempo di Evandro, per altri derivava da Rome, la troiana che bruciò le navi giunte al Tevere per porre fine al viaggio, o da un'altra Rome nipote di Enea. Roma aveva un nome segreto, Valerio Sorano lo rivelò e per questo fu ucciso. Si ricordava, prima della fondazione, la vittoria di Ercole su Caco per la quale l'eroe aveva innalzato un altare a Giove. 

                                          Roma fu fondata a 18 anni da Romolo figlio di Marte e di Rea Silvia, il 21 aprile, giorno ricordato con le feste Parilia durante le quali era proibito uccidere animali. e inizialmente fu detta Roma Quadrata, dove si trovava la capanna di Faustolo e dove Romolo trascorse l'infanzia.

                                          - Romolo regnò trentasette anni. Il suo primo trionfo fu su Acrone re di Cenina quando offrì per la prima volta le spoglie opime. Trionfò inoltre su Antemnati e Veienti. Scomparve il 7 luglio presso la Palude della Capra.
                                          - Tazio co-re di Roma abitò dove poi sorse il tempio di Giunone Moneta e fu ucciso dai Laurenti nel V anno di regno.
                                          - Numa regnò quarantatré anni, abitò sul Quirinale e fu sepolto ai piedi del Gianicolo.
                                          - Tullo Ostilio regnò ventiquattro anni, abitò sulla Velia dove poi sorse il tempio dei Penati.
                                          - Tarquinio Prisco regnò trentasette anni e dimorò presso la Porta Mugonia.
                                          - Servio Tullio regnò quarantadue anni ed abitò nelle Esquilie.
                                          - Anche Tarquinio il Superbo abitò nelle Esquilie e regnò venticinque anni.

                                          Solino sostiene che Roma fu fondata nel primo anno della settima olimpiade, 433 anni dopo la caduta di Troia, basandosi sui fasti consolari e sul computo delle Olimpiadi. In base a ciò la monarchia durò 241 anni, il Decemvirato fu istituito 302 anni, la I guerra punica iniziò nel 489, la II nel 535, la III nel 604, la guerra sociale nel 662.


                                          Capitolo II - Della divisione dell'anno

                                          Inizialmente i Romani avevano, fin dai tempi di Numa Pompilio, anni di dieci mesi di trenta giorni ciascuno che iniziavano da Marzo, quando si rinnovava il fuoco di Vesta, il senato ed il popolo si riunivano e si festeggiavano i Saturnali durante i quali i padroni servivano gli schiavi.

                                          Poichè però non corrispondeva con i cicli lunari, si passò a un anno di 355 giorni e poi di 365 giorni.
                                          Furono aggiunti il mese di Gennaio, consacrato agli dei superi, e di Febbraio, dedicato agli dei inferi. Il giorno intercalare fu lasciato all'arbitrio dei sacerdoti fino alla riforma di Giulio Cesare poi perfezionata da Augusto. 

                                          Seguono dei cenni sulla vita di Augusto: in gioventù aspirava alla carica di Maestro della Cavalleria ma gli fu anteposto Lepido, fu molestato da Marco Antonio, dalla battaglia di Filippi e da problemi di salute. Vengono ricordati gli scandali della figlia e della nipote ed altri dispiaceri. Durante il suo regno si verificò una carestia preannunciata dal prodigio di un parto quadrigemino.


                                          Capitolo III - Dell'uomo

                                          Fra tutti gli animali solo la donna ha il mestruo, una cosa mostruosa perché al suo contatto le biade non danno più frutto, il mosto si fa aceto, il ferro arrugginisce e così via. Addirittura lo sguardo della donna con le mestruazioni macchia gli specchi.

                                          La fertilità delle donne varia: alcune sono sterili, altre molto prolifiche. Superati i cinquanta anni nessuna donna può più partorire. Invece uomini ottuagenari come Massinissa e Catone il Censore ebbero figli.

                                          Una donna può concepire due figli con due diversi rapporti ed una sola gestazione me fra le due nascite trascorrerà tanto tempo quanto ne è trascorso fra i due amplessi, le donne che desiderano figli devono evitare di starnutire dopo l'unione sessuale perché potrebbero espellere il seme maschile. I maschi cominciano a muoversi dopo il quarantesimo giorno, le femmine dopo il novantunesimo. 

                                          Le donne incinte di una femmina sono più pallide e deboli ed il loro parto avviene più tardi. Nascere con i piedi in avanti era contro natura, venivano chiamati Agrippa e la loro vita era breve ed infelice. Marco Agrippa soffrì per un'infermità ai piedi e per le infedeltà della moglie. 

                                          Gaio Papirio Carbone e Marco Curio Dentato nacquero con i denti, un figlio di Prusia re di Bitinia aveva un unico osso continuo al posto dei denti. I maschi hanno più denti delle donne. Se i canini di destra nascono prima di quelli di sinistra recano buona fortuna. Nessun neonato sorride prima dei quaranta giorni ma Zoroastro nacque ridendo, mentre Crasso non rise mai.


                                          Capitolo IV - Della somiglianza e delle misure del corpo umano

                                          La somiglianza consiste in caratteri fisici tramandati in linea ereditaria, ma vi sono esempi di somiglianza estranee. Laodice, moglie di Antioco re di Siria, sfruttò la straordinaria somiglianza di un suddito con il re per tenere nascosta la morte del marito finché non fu scelto un successore di suo gradimento. 

                                          Si credeva che gli antichi fossero più alti: vissero sotto Augusto due romani alti più di dieci piedi, sotto Claudio un arabo che superava i nove piedi. Il ritrovamento a Tegea dello ossa di Oreste dimostrò la sua altezza smisurata. La distanza fra la punta delle dita tenendo le braccia aperte e tese è pari all'altezza. La mano destra è più abile, la sinistra più forte.


                                          Capitolo V - Della velocità, della vista, della forza di alcuni romani e dell'eccellenza di Cesare

                                          Polimestore di Mileto vinse nella 46° Olimpiade, ve lo aveva accompagnato un mandriano che lo aveva visto inseguire una lepre. Filippide corse da Atene a Lacedemone: 248 stadi. Dei corrieri di Alessandro Magno coprirono in un giorno oltre milleduecento stadi. Varrone racconta di un uomo dalla vista tanto acuta da vedere da Lilbeo in Sicilia le navi uscire dal porto di Cartagine. 

                                          Manio Sergio antenato di Catilina perse una mano in combattimento e la sostituì con una di ferro e continuò a combattere contro Annibale. Fatto prigioniero fuggì dopo venti mesi. Fu l'unico a ricevere un premio per il comportamento durante la battaglia di Canne. Ma il più valoroso fu Giulio Cesare, combattè in cinquanta battaglie nelle quali caddero quasi due milioni di nemici. Era inoltre velocissimo nel leggere e nello scrivere ed in grado di dettare quattro lettere contemporaneamente.


                                          Capitolo VI - Delle memorie straordinarie, della voce, della pietà, della pudicizia e della beatitudine

                                          Ciro ricordava a memoria il nome dei suoi numerosissimi soldati, Mitridate re del Ponto comprendeva le ventidue lingue dei suoi sudditi. La paura può far perdere la memoria o la voce e può farle ritrovare, come accadde ad Ati figlio di Creso che, muto dalla nascita, ritrovò la parola quando Ciro stava per uccidere il padre.

                                          L'eloquenza non è ereditaria. Fecero eccezione i Curioni, oratori per tre generazioni successive. Lo spartano Lisandro assediava Atene dove giaceva il corpo insepolto di Sofocle e fu persuaso a sospendere le ostilità e permettere le esequie da Libero che gli appariva continuamente in sogno per ordinarglielo. Il poeta Simonide fu salvato dal crollo di un edificio da Castore e Polluce che comparendo gli ordinarono di uscire. Scipione Africano volle il proprio sepolcro ornato con la statua di Ennio. Dionisio di Siracusa ricevette Platone con grandissimi onori.

                                          Esempi di pudicizia furono quello di Claudia spontaneamente seguita dalla nave che portava oggetti sacri dalla Frigia e quello di Sulpitia, moglie di Marco Fulvio Flacco, che fu eletta da cento matrone per dedicare un tempio a Venere. Non si conosce un uomo che fu veramente felice. 



                                          Capitolo VII - Dell'Italia

                                          Elogio dell'Italia, del suo paesaggio e delle sue antiche città: una zona della Liguria è detta dei Campi Lapidarii perché una volta Giove, combattendo, vi fece piovere sassi; la regione ionica prende nome da Ione figlio di Nauloco ucciso da Ercole perché infestava le strade con il brigantaggio. 

                                          I Dauni discesero da Cleolao figlio di Minosse, gli Iapigi da Iapige figlio di Dedalo, i popoli tirreni da Tirreno re di Lidia. Cora fu fondata da Dardano, Argilla dai Pelasgi, Falisca dal greco Aleso, Faleria da Falero, Tescennio dai Greci, Partenio dai Focensi, Tivoli da Catillo di Arcadia, figlio di Anfiarao che ebbe tre figli: Tiburto, Cora e Catullo.

                                          Preneste ebbe il nome da Preneste figlio di Latino; Filottete fondò Petilia ed Arpi; Benevento fu fondata da Diomede, Padova da Antenore, Metaponto da gente di Pilo in Acaia, Sibari dagli Ateniesi, Ancona e Gabi dai Siciliani, Taranto da quelli di Eraclea, Pesto dai Dori, Crotone dagli Achei.
                                           
                                          Palinuro prese il nome dal timoniere di Enea, Miseno dal suo trombettiere, la sua nutrice Caieta fu eponima di Gaeta, la moglie Lavinia di Lavinio. Enea giunse in Italia l'estate successiva alla caduta di Troia, consacrò un simulacro a Venere nel territorio di Laurento e ricevette il Palladio da Diomede,
                                          ricevette 50 iugeri di terra da Latino e vi regnò per 32 anni prima di scomparireAscanio fondò Albalonga, i Tizi fondarono Nola, quelli di Eubea Cuma. 

                                          In un'isola prossima alla costa pugliese nidificano uccelli simili alle folaghe che discendono dai compagni di Diomede che furono mutati in uccelli e si avvicinano alle persone se sono greche, altrimenti le attaccano.


                                          Capitolo VIII - Di alcune isole del Mar Tirreno

                                          Fra le isole del Tirreno, di sono Pandataria, Procida, l'Elba ricca di ferro, la Capraia e la Corsica che fu abitata dai Liguri, Mario e Silla vi dedussero colonia. Vi si trova una pietra molto preziosa detta catochite.


                                          Capitolo IX - Della Sardegna

                                          Eponimo della Sardegna fu Sardo, figlio di Eracle, ma per Solino proveniva dalla Libia. Altro colonizzatore fu Norace, di origine iberica, proveniente da Tartesso. Quindi Aristeo fondò Carace unendo insieme genti di due diverse etnie.

                                          In Sardegna non nascono serpenti ma nelle miniere d'argento si trova un ragno molto velenoso detto solifuga perché evita la luce del sole. E' tossica anche l'erba sardonia che produce contrazioni tali che gli avvelenati sembrano morire ridendo.

                                          I Sardi usavano conservare per l'estate l'acqua delle piogge invernali. Si trovavano nell'isola fonti calde e salubri che potevano curare molte malattie ma si diceva che rendessero ciechi i ladri che negavano il proprio reato.


                                          Capitolo X - Della Sicilia

                                          La Sicilia ha forma triangolare, con i vertici in Pachino, rivolto al Peloponneso, Peloro rivolto all'Italia e Lilibeo verso l'Africa. La regione di Peloro è amena e salubre, con tre laghi presso cui è piacevole cacciare o pescare, ma uno dei tre è sacro ed è proibito bagnarvisi perché le acque hanno effetti letali.

                                          Il mare di Pachino è ricco di tonni e di ogni altro tipo di pesce. Sul promontorio Lilibeo si trova il sepolcro della Sibilla. L'isola ebbe il nome di Sicania dal re Sicanio, quindi quello di Sicilia da Siculo figlio di Nettuno. Molti Greci vi fondarono colonie. In Sicilia visse Archimede, inventore ed architetto, vi si vedono le spelonche dei Ciclopi e dei Lestrigoni. 

                                          Nel Campo Ennense di trova la voragine dalla quale uscì Plutone per rapire Proserpina, da qui Cerere iniziò a divulgare l'architettura. La Fonte Aretusa (Siracusa) ed il fiume Alfeo (Grecai) sono in comunicazione. 


                                          Capitolo XI - Del terzo seno dell'Europa

                                          In Epiro è una fonte sacra: se vi si getta un tizzone acceso si spegne, se vi si getta spento si accende. Nella regione del terzo seno si trovano anche Dodona, sacra a Giove, Delfi, il fiume Cefiso, il monte Parnaso, la fonte Castalia.

                                          Dal monte Pindo, che divide l'Acarnania dall'Etolia, nasce il fiume Acheloo dove si trova una pietra detta galattite che rende abbondante il latte delle madri. Sul promontorio Tenaro si trova una statua in bronzo di Arione di Metimna che fu salvato da un delfino e portato in quel luogo.

                                          Nel tempio di Esculapio ad Epidauro il dio indica in sogno le cure ai malati. In Arcadia, sui monti Cilene, Liceo e Menalo, vengono venerati Mercurio, Pan e Fauno. Varrone narra di una fonte velenosa che sgorga in Arcadia. Sull'istmo di Corinto si celebrano famosi giochi che furono sospesi temporaneamente dal tiranno Cipselo.

                                          In Beozia si trova Tebe costruita da Anfione che faceva muovere le pietre con il suono della sua lira, ma era la sua eloquenza a convincere il popolo a lavorare di buon grado. Presso Tebe si trova la selva Elicona con il fiume Ismenio e numerose fonti fra le quali Ippocrene, nata da un colpo di zoccolo di Pegaso. La costa della Beozia con quella dell'isola di Eubea forma il porto di Aulide dove si riunirono i Greci in partenza per Troia.


                                          Capitolo XII - Tessaglia

                                          La Tessaglia, chiamata da Omero Argo Pelagica è divisa dalla Macedonia dalla Pieria. Vi si trovano importanti città fortificate, molti fiumi e la Valle di Tempe in cui scorre il fiume Peneo e dove si trovano i Campi Farsalici che furono teatro degli scontri della guerra civile.

                                          Sulla sommità dell'Olimpo si trova il tempio di Zeus. Si diceva che le offerte al dio che vi venivano recate rimanessero intatte per oltre un anno. Nella Magnesia si trova il castello Metone, assediando il quale Filippo di Macedonia fu ferito da una freccia e perse un occhio.


                                          Capitolo XIII - Macedonia

                                          La Macedonia è ricca di miniere d'oro e d'argento, comprende la regione Orestide che prese il nome da Oreste fuggito da Micene dopo il matricidio che vi si rifugiò e vi nascose il figlio avuto da Ermione.
                                          Nella regione sono monti altissimi e le alluvioni provocate dai fiumi in piena hanno portato alla luce ossa umane gigantesche. Emazio fu il primo abitante della regione che si chiamò Emazia prima che Macedone nipote di Deucalione la ri-denominasse Macedonia. 

                                          A Macedone succedette Carano, poi Perdicca, noto per la ricchezza e la liberalità, poi Archelao, inventore delle battaglie navali e amante delle lettere tanto da vestire il lutto per la morte di Euripide.
                                          Poi Aminta che ebbe tre figli, gli successe il maggiore Alessandro che morì presto lasciando il trono al fratello Perdicca II che morì a sua volta succedendogli il fratello minore Filippo padre di Alessandro Magno. 

                                          Si diceva che Alessandro fosse nato dall'unione della madre Olimpiade con un serpente e molti, per le sue imprese, lo credettero figlio di un dio. Sottomise infatti tutto l'oriente e l'India. Alessandro fu di statura inferiore alla media, di aspetto gradevole e non privo di maestà. Fu vinto soltanto dal vino e dall'infermità che lo uccise a Babilonia. Nessuno dei suoi successori fu alla sua altezza.


                                          Capitolo XIV - Costumi e leggi della Tracia

                                          Credendo fermamente nella vita eterna, gli abitanti della Tracia non temono la morte,anzi accolgono piangendo i neonati e sono allegri ai funerali. Gli uomini sono poligami, le donne usano gettarsi nel rogo del marito morto. Le ragazze più belle vengono pagate dallo sposo, le brutte pagano per farsi sposare. Durante i pasti siedono intorno al fuoco e gettano sulle fiamme un'erba che come il vino provoca il buon umore.

                                          Sul promontorio Sperchio Orfeo compose i suoi inni. Presso lo stagno Bistonio si trovava in un castello la stalla dei cavalli di Diomede. Non lontana è la città di Abdera che prese il nome dalla sua fondatrice sorella di Diomede. Tipiche della Tracia sono le gru che per migrare oltre il Ponto senza essere travolte dai venti si zavorrano con sabbia e piccole pietre. Si aiutano fra loro e la notte rispettano turni di guardia.

                                          Oltre il promontorio del Corno d'Oro si trova Bisanzio distante 711 miglia da Durazzo. Sull'altro istmo della Tracia sorgeva la rocca del re Tereo alla quale le rondini non si avvicinavano mai perché, si dice, sono in grado di riconoscere i luoghi negativi.


                                          Capitolo XV - Isola di Creta

                                          Si estende da oriente a occidente fra la Grecia e Cirene. E' bagnata a nord dall'Egeo e a sud dai mari Libico e Egizio. Prende il nome da Crete figlia di Giove e della ninfa Idea o dal re Crete. Fra i primati di Creta si ricorda l'invenzione della musica fatta dai Coribanti. L'isola è ricca di capre selvatiche, non vi sono belve nè serpenti.


                                          Capitolo XVI - Isola di Caristo

                                          Nell'isola di Caristo sgorgano acque calde e vivono uccelli che possono volare tra le fiamme. Anticamente fu chiamata Calcide e vi venne scoperto il rame. Si credeva che fosse stata regno dei Titani e vi si veneravano Briareo e Egeone.


                                          Capitolo XVII - Isola di Ortigia

                                          Ortigia fa parte delle Cicladi e vi furono vedute per la prima volta le quaglie, uccelli sacri a Latona, che migrano a fine estate sorvolando il mare e sono pericolose per i marinai perché possono danneggiare le vele.


                                          Capitolo XVIII - Isola di Eubea

                                          L'isola di Eubea è vicinissima alla terraferma, tanto che il canale di Euripo che la divide dalla Beozia potrebbe essere superato da un ponte. All'estremità settentrionale è il promontorio Ceneo, alla meridionale il capo Geresto è volto verso l'Attica e il capo Cafareo verso l'Ellesponto. Qui l'armata greca subì molte traversie dopo la guerra di Troia.


                                          Capitolo XIX - Isola di Paro

                                          Paro è rinomata per la qualità dei suoi marmi. Anticamente fu dominata da Minosse.


                                          Capitolo XX - Isola di Icaro

                                          L'isola di Icaro è una delle Sporadi, posta tra Samo e Miconos, è inabitabile. Secondo Varrone è posta nel luogo in cui Icaro cadde in mare. L'isola di Samo è ricordata perché patria di Pitagora che l'abbandonò a causa della tirannia e passò in Italia.


                                          Capitolo XXI - Ellesponto, Propontide, Bosforo Tracio

                                          Il quarto seno dell'Europa va dall'Ellesponto alla palude Meotide. Serse attraversò l'Ellesponto con un ponte di barche. Oltre l'Ellesponto si apre la Propontide che riducendosi alla larghezza di 500 passi forma il Bosforo Tracio che fu attraversato dall'esercito di Dario. In questi mari vivono i delfini, straordinari per la velocità e per loro vivere in coppie che accudiscono i figli. Le femmine hanno dieci mesi di gestazione, partoriscono in estate e allattano i loro nati. E' accertato che i delfini possono fare amicizia con gli esseri umani.


                                          Capitolo XXII - Fiume Istro

                                          Il fiume Istro nasce in Germania, riceve sessanta affluenti quasi tutti navigabili e sfocia nel Ponto con sette rami così grandi che la loro acqua rimane dolce per molte miglia nel mare.
                                          Nelle regioni del Ponto si trovano gli istri o castori dal morso micidiale. Vi sono anche delle gemme rosse o dorate considerate sacre.

                                          I MOSTRI DEI MARI


                                          Capitolo XXIII - Fiume Hipane e Fiume Esampeo

                                          L'Hipane è il maggior fiume della Scizia, le sue acque sono chiare e potabili finché non si mescolano con quelle amarissime del fiume Esampeo e ciò che giunge al mare è imbevibile.


                                          Capitolo XXIV - Fiume Boristene

                                          Il Boristene nace nel territorio dei Neurim genti bellicose devote a Marte, adorano le spade e periodicamente si trasformano in lupi. I loro vicini Geloni si vestono della pelle dei nemici e ne fanno finimenti per i cavalli, seguono gli Agatirsi che si tingono di azzurro, gli Antropofagi che si cibano di carne umana.

                                          Gli Albani dicono di discendere da Giasone e prendono il nome dall'aver i capelli bianchi fin dalla nascita, hanno cani enormi capaci di uccidere un toro o un leone. Lungo le rive orientali del Boristene vivono gli Essedoni che hanno l'uso di mangiare i cadaveri dei genitori. 

                                          Gli abitanti delle aree più interne della Scizia vivono in caverne e bevono il sangue dei nemici. Gli Arimaspi hanno un solo occhio. La Scizia Asiatica è ricca d'oro e di gemme ma infestata dai grifi. Gli Arimaspi li combattono per prendere i preziosi smeraldi ed altre gemme o i purissimi cristalli.


                                          Capitolo XXV - Popoli Iperborei

                                          Gli Iperborei vivono in Europa, prossimi ai cardini del mondo. Nel loro paese il giorno dura sei mesi ed altrettanti la notte. Il clima è ottimo, il paesaggio gradevole e gli alberi forniscono tutto il sostentamento. Vivono senza discordie e senza malattie, coloro che sono sazi di vivere si gettano da una rupe in un mare profondissimo.


                                          Capitolo XXVI - Popoli Arifei

                                          Gli Arifei sono un popolo dell'Asia pacifico, si cibano di frutti e si radono i capelli, è considerato sacrilegio far loro del male. Verso il Mar Caspio vivono i Cimmeri e le Amazzoni, quindi si incontra l'Ircania dove vivono ferocissime tigri, veloci e fameliche le femmine si battono fino alla morte per i loro piccoli e se vengono uccisi si gettano in mare. Si trovano in Ircania anche le pantere, divoratrici di pecore. Si cerca di ucciderle avvelenando le loro vittime ma spesso si curano mangiando sterco umano.


                                          Capitolo XXVII - Origine dei Mari Mediterranei

                                          Alcuni sostenevano che i Mari Mediterranei fossero tutti originati da flussi e riflussi dell'Oceano, altri che tutte le acque provenissero dal Ponto.


                                          Capitolo XXVIII - Di alcune isole della Scizia

                                          A ottanta miglia dal Bosforo Tracio, oltre la foce dell'Istro, si trova l'isola degli Apoloniti dalla quale Lucullo riportò l'Apollo Capitolino. Alla foce del Boristene è l'isola di Achille con il tempio nel quale non entrano mai uccelli.


                                          Capitolo XXIX - Oceano Settentrionale

                                          Il Mar Caspio ha acque dolci per i numerosi fiumi che vi sfociano. Alessandro andò in otto giorni dalla terra dei Battriani all'India tramite il fiume Icaro, il fiume Ossa, il Mar Caspio e il fiume Ciro, quindi proseguì per cinque giorni sulla terraferma. Nelle isole vicine vivono uomini con i piedi di cavallo detti Ippopodi, mentre gli abitanti della Tanesia hanno grandi e lunghe orecchie con le quali ricoprono tutto il corpo.


                                          Capitolo XXX - Cervi e Tragelasi

                                          Nella Scizia vivono molti cervi. I maschi diventano rabbiosi nella stagione degli amori. le femmine allevano i piccoli tenendoli nascosti finché non sono in grado di fuggire, quindi li allenano alla corsa. Quando sentono il latrato dei cani corrono nella direzione del vento per nascondere il loro odore. Con le corna e il midollo dei cervi si producevano diversi farmaci, si credeva che fossero estremamente longevi.


                                          Capitolo XXXI - Germania

                                          Nella Selva Ercinia vivono uccelli le cui penne sono luminose al buio. In tutta la parte settentrionali vivono bisonti, uri e alci.


                                          Capitolo XXXII - Scandinavia

                                          La Scandinavia è considerata un'isola appartenente alla Germania. Vi abita un animale simile all'alce ma con le ginocchia rigide come quelle degli elefanti, che lo costringe a dormire appoggiato agli alberi. Si segano gli alberi a cui si appoggia per farlo cadere e poterlo catturare.

                                          La Scandinavia è la più grande delle isole della Germania, in un'altra isola di nome Glessaria si trovano alberi da cui si ricava il succino (ambra) noto in medicina per curare molte infermità. In Germania si trova anche la pietra callatide, simile allo smeraldo.


                                          Capitolo XXXIII - Gallia, Rezia, Norico, Pannonia, Mesia

                                          La Gallia si estende dal fiume Reno ai Pirenei, è una regione fertile e ricca di vigne. I suoi abitatori fanno sacrifici umani. Dalla Gallia si passa via terra in Spagna e in Italia. Viaggiando verso sud-est si incontrano la Rezia, il Norico, la Pannonia bagnata dai fiumi Sava e Drava, quindi la Mesia che fu detta "granaio di Cerere". Vi si produce l'olio medico che se incendiato non si può spegnere con l'acqua ma solo con la terra.


                                          Capitolo XXXIV - Britannia e isole circostanti

                                          La Britannia è circondata da molte altre isole,  abitata da gente selvaggia che beve il sangue dei nemici uccisi e se ne tinge il viso. Il mare fra la Britannia e l'Ibernia è sempre inquieto ed è navigabile solo per pochi giorni in estate.

                                          L'isola Silvaro è abitata da gente primitiva che pratica il baratto e crede di poter predire il futuro.
                                          L'isola Tanati è molto fertile e il suo terreno uccide le serpi. La più lontana dalla Britannia è Thule, circondata dal mare congelato e durante l'estate, quando il sole è nel Cancro, è sempre giorno mentre è sempre notte per il resto dell'anno.

                                          Le isole Ebude sono cinque, molto vicine tra loro, governate da un solo re il quale non può possedere nulla e viene mantenuto dal popolo per fare in modo che amministri la giustizia senza interessi personali. Le isole Orcadi sono desertiche e vi crescono soltanto giunchi.


                                          Capitolo XXXV - Spagna

                                          La Spagna è ricca di ogni frutto della terra e di ogni sorta di metallo. Vi scorrono il fiume Tago, l'Ibero dal quale prende il nome tutta la penisola, e il Beti dal quale viene il nome della Betica. Cartagena fu fondata dagli Africani, Tarragona dagli Scipioni ed è il capoluogo della provincia Tarragonese.
                                          Fra le isole spagnole si ricordano le Baleari nelle quali regnò Boccore, l'isola Eritrea nella quale visse Gerione, le isole Gadi che danno il nome al mare Gaditano.

                                          Fra i monti Calpe e Abila, detti Colonne d'Ercole, l'Oceaano entra nel Mar Mediterraneo che nei pressi della Spagna si chiama Iberico e Balearico, quindi procedendo verso Oriente si trova il Mar Gallico, il Ligustico, il Toscano, lo Ionio. Dalla Sicilia a Creta è detto Siciliano, seguono il Mare d'Egitto e quello Cretico.

                                          I BESTIARI MEDIEVALI


                                          Capitolo XXXVI - Libia

                                          Dalla Spagna si passa alla Libia, nome usato a volte per indicare l'intera Africa. Il nome viene da Libia figlia di Epaco, Africa da Afro figlio di Ercole Libico. In Libia Ercole sconfisse e uccise Anteo.
                                          Sulle coste dell'isola dove si trovano gli orti delle Esperidi il mare forma con i suoi moti rivoli simili a serpenti sempre in movimento, da qui il mito dei rettili custodi dei pomi. Sul fiume Sala si trova un castello oltre il quale si accede ai deserti dell'Atlante.


                                          Capitolo XXXVII - Mauretania

                                          Nella regione Tiigintana in Mauretania si trovano sette monti su cui vivono molti elefanti con intelletto simile a quello umano, con la luna nuova si recano al fiume e all'alba salutano il nascere del sole. La grandezza dimostra quali sono i più nobili, il bianco dei denti quali sono i più giovani. Il più anziano guida le loro marce, formano coppie durature e proteggono i più deboli e i feriti. 

                                          Sono mansueti con uomini e pecore. Vivono trecento anni, si cibano di vegetazione, non sopportano il freddo e fuggono l'odore dei topi. Sono nemici dei serpenti (dragoni) che vogliono succhiare il loro sangue e cercano di farli cadere avviluppando loro le zampe. Furono visti per la prima volta in Italia al seguito di Pirro re dell'Epiro.


                                          Capitolo XXXVIII - Numidia

                                          La Numidia è abitata da pastori nomadi, le sue maggiori città sono Cullu e Cirta, vi si produce porpora e marmo. Gli orsi della Numidia si accoppiano abbracciati come gli essere umani, la gestazione dura solo trenta giorni e i piccoli nascono poco formati e devono essere tenuti al caldo dalle madri per mesi. Gli orsi sono ghiotti di miele, sono fortissimi e in grado di combattere contro i tori. 


                                          Capitolo XXXIX - Africa

                                          L'Africa ha inizio di fronte alla Sardegna, e si estende fronteggiando la Sicilia e l'isola di Creta. La regione Cirenaica è compresa fra le due Sirti pericolose per la navigazione a causa delle maree difficili da prevedere. 

                                          Molte genti hanno fondato città in Africa: i Greci costruirono i castelli di Hippone Regio e Hippone Diarrito e le città di Diafra, Abrotano e Letta che nell'insieme chiamano Tripoli. I Siciliani fondarono Clipea e Veneria, coloni di Tiro costruirono Adrumeto e Cartagine. Cartagine fu fondata dalla regina Elissa e fu distrutta dopo 737 anni. In seguita Caio Gracco vi trasferì coloni italiani e la chiamò Gianonia, centodue anni più tardi, durante il consolato di Marco Antonio e Dolabella, nacque la seconda Cartagine.

                                          All'interno dell'Africa vivono molte belve fra cui i leoni, non sono crudeli e spesso si astengono dalla violenza se non sono spinti dalla fame, quando sono inseguiti preferiscono dileguarsi, se possono, invece di attaccare. Le iene sono capaci di imitare la voce umana per attirare uomini e cani e divorarli, i cani toccati dalla loro ombra diventano muti. Gli occhi delle iene hanno vari usi nella magia. Dall'accoppiamento di iene e leoni nasce un mostro detto Crocula che non muove mai le palpebre e ha un unico osso al posto dei denti. I maschi degli asini selvatici africani sono così libidinosi che per aver minor concorrenza cercano di castrare i neonati.

                                          Nel deserto africano vive il basilisco, un rettile con il capo circondato da un diadema bianco che corrompe il suolo su cui si trova, secca l'erba, distrugge gli alberi e ammorba l'aria con il suo fiato pestilenziale. Oltre le Sirti si trova la città di Berenice bagnata dal fiume Lete che viene dagli Inferi e induce l'oblio. La città fu fondata da Berenice moglie di Tolomeo III. Nei dintorni vivono molte scimmie abilissime nell'imitazione degli esseri umani. Delle scimmie fanno parte anche cinocefali e sfingi.


                                          Capitolo XL - Popoli Ammanienti

                                          I popoli Ammanienti vivono fra i Sagramoni e i Trogloditi. Costruiscono le loro abitazioni con il sale che scavano dai monti.


                                          Capitolo XLI - Garamanti

                                          Nel paese dei Garamanti è una fonte la cui acqua è gelida di giorno e calda di notte. La capitale dei Garamanti è Garama. Furono sottomessi da Cornelio Balbo sotto Vespasiano.

                                          GLI STRANI POPOLI

                                          Capitolo XLII - Etiopia

                                          I Garamanti che vivono in Etiopia praticano la comunanza delle donne e di conseguenza non sanno chi sia il padre, fra loro sono i Nomadi che vivono del latte dei cinocefali, i Sirboti lunghi dodici piedi, gli Asache, i Simbri, gli Ariofagi che si cibano di carne di leoni e pantere, i Panfagi che mangiano qualsiasi cosa commestibile, gli Antropofagi, i Cimamolgi con la voce canina, gli Artabatiti sempre col viso rivolto al terreno come animali, i mangiatori di locuste.

                                          Oltre l'isola di Meroe vivono i longevi Macrobi. Vi è un lago dalle pure acque salutifere e poi il deserto oltre il quale vivono creature orrende e deformi. A sud si trova un vulcano sempre attivo dal quale escono in abbondanza i dragoni.

                                          Fra i molti animali dell'Etiopia è il camelopardo che fu visto nei giochi a Roma per la prima volta sotto Cesare, il rinoceronte, il catablepa il cui sguardo uccide chi lo fissa, formiche grandi come cani, il licaone simile al lupo, il tarando con le corna ramificate che si credeva capace di cambiare colore come i camaleonti.

                                          Un animale etiope detto teo è peloso in inverno e nudo in estate. Ci sono istrici che possono lanciare lontano i loro aculei. L'uccello detto pegaso ha orecchie da cavallo, il tragopa è un uccello più grande di un'aquila con corna da montone. In Etiopia si raccoglie il cinnamomo e si trovano il hiachintho (pietra preziosa di colore ceruleo) e il crisolampo, pietra che splende al buio.


                                          Capitolo XLIII - Popoli della Libia

                                          Tutta la regione fra l'Atlante e il confine della Libia con l'Egitto fu detta Canopo dal nome di un compagno di Menelao che vi fu sepolto. Vi abitano popoli privi di un linguaggio ed anche di un nome, che odiano il sole a causa del clima torrido. Vi sono i Trogloditi che vivono nelle caverne in volontaria povertà e si cibano di serpenti. Presso di loro si trova una rara pietra preziosa detta hesecondtalito. Gli Angili adorano gli dei inferi, le donne devono concedersi a tutti nella prima notte di nozze e successivamente essere molto pudiche.

                                          I Gafasanti non combattono mai ma non permettono agli stranieri di unirsi a loro. I Blemmi nascono senza testa con occhi e bocca nel petto. I Satiri e gli Egipani hanno di umano solo il volto. Gli Imatompodi strisciano perché hanno le gambe piegate. I Farusi discendono da compagni di Ercole che si fermarono in Libia andando verso il giardino delle Esperidi.

                                          GLI STRANI POPOLI

                                          Capitolo XLIV - Egitto

                                          Varie ipotesi si facevano sulle cause delle piene del Nilo: le piogge, i venti, i moti delle stelle, il calore del sole. Se le piene sono scarse i raccolti sono poveri, se le piene superano un determinato limite il prolungato allagamento compromette il raccolto.

                                          Fra le cose memorabili dell'Egitto è il bue Api che viene adornato e adorato come un dio. Deve avere una sola macchia bianca a forma di mezza luna, viene sacrificato quando raggiunge una determinata età e quando si trova il nuovo viene consacrato da cento sacerdoti. Si crede che con il modo di mangiare predica il futuro, rifiutò il cibo dalla mano di Germanico che venne ucciso pochi giorni dopo.

                                          Durante le cerimonie per il bue Api i coccodrilli del Nilo diventano mansueti e tornano feroci al termine delle solennità. Sono pericolosissimi in acqua e in terra, non hanno lingua e il loro morso è micidiale a causa della forma dei denti. Depongono le uova in luoghi dove non possono arrivare le acque del Nilo, maschio e femmina si alternano nella cova. Gli abitanti di un'isola del Nilo, benché piccoli di statura, domano i coccodrilli e li cavalcano.

                                          L'ippopotamo nasce nella stessa regione, ha crini sulla schiena e nitrisce come i cavalli, ha muso di serpente, unghie fesse, denti da cinghiale. Sulle rive del Nilo vive l'uccello detto ibis che mangia le uova dei serpenti ed è sacro perché lotta contro pericolosissimi rettili alati provenienti dall'Arabia.


                                          Capitolo LXVIII - Di Babilonia, dell'Oceano Atlantico, delle Isole Gorgone e delle Fortunate

                                          Capitale dei Caldei, Babilonia fu fondata da Semiramide. Si trova presso il fiume Eufrate ed è circondata da una possente cinta di mura. Vi si trova il tempio di Belo ritenuto inventore dell'astronomia.

                                          In Etiopia abita un popolo di Trogloditi velocissimi nell'inseguire le prede nelle loro battute di caccia, e gli Ictofagi, straordinari nuotatori. Senofonte di Lampsaco narrava che i Cartaginesi vi catturarono due femmine della popolazione locale tanto pelose che le loro pelli furono esposte al pubblico stupore nel tempio di Cartagine.


                                          BIBLIO

                                          - Collectanea rerum memorabilium - Iterum recensuit Th. Mommsen - Berolini apud Weidmannos - 1895 -
                                          - A History of Roman Literature, Volume 2, Wilhelm Sigmund Teuffel - London - George Bell - 1873 -
                                          - Caii Julii Solini - Collectanea rerum memorabilium - da The Latin Library - testi latini a cura di T. Mommsen - Berlin - 1864 -
                                          - Caii Julii Solini - Collectanea rerum memorabilium (da The Latin Library), testi latini a cura di C.L.F. Panckoucke - Paris - 1847 -
                                          - Opere di Gaio Giulio Solino - su digilibLT (Digital Library of late antique Latin texts) - Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro -
                                          - Vittorio De Falco - Gaio Giulio Solino - Enciclopedia Italiana - Istituto dell'Enciclopedia Italiana -

                                          GENS ROMILIA

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                                          ROMOLO E REMO

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                                          Tito Romilius Rocus Vaticanus fu console nel 455 a.c., e successivamente membro del primo Decemvirato nel 451. Da questo momento, i Romilii non ebbero per secoli personalità di rilievo, nè in ambito politico nè in ambito militare; vennero occasionalmente ma eccezionalmente nominati alcuni suoi membri in epoca imperiale, poi il silenzio assoluto. Un certo numero di Romilii sono conosciuti dalle iscrizioni.

                                          I Romilii si dichiaravano discendenti di Romolo, il primo re di Roma, secondo alcuni assolutamente leggendario, secondo altri con un fondo si verità. Gli studiosi hanno a lungo contestato la storicità di Romolo, e di tutta la tradizione della fondazione di Roma, ma sappiamo che dietro le leggende vi è spesso un tratto di verità. Lo comprese bene l'imprenditore-archeologo Heinrich Schliemann che basandosi sulle leggende riportò alla luce l'antica città di Troia e il tesoro di Priamo.

                                          Tito Livio cita i Romilii tra le cento gentes originarie e pertanto patrizia, e secondo il grande Theodor Mommsen la sua remota antichità sarebbe attestata anche dall'evidente rapporto di omonimia con Roma, con l'antica tribù rustica Romilia e con Romolo stesso.

                                          Secondo alcuni studiosi infatti la gens Romilia dovrebbe essere identificata con il clan familiare di Romolo: anche se sarebbe originaria di Alba Longa e non di Roma, in ogni caso la sua esistenza costituirebbe una prova rilevante a favore dell'effettiva esistenza storica del fondatore di Roma.

                                          IL PREFETTO

                                          Sembra dunque che Romolo fosse un autentico cognomen; Romilius appartiene a una grande classe di gentilicia avente il suffisso -ilius, derivati da cognomi che terminano con il suffisso diminutivo -ulus. Il primo di questa famiglia menzionato nella storia fu Romulius Denter, un personaggio molto importante visto che sembra sia stato nominato praefectus urbi dallo stesso Romolo.

                                          Che i Romilii fossero patrizi si deduce dal fatto che Vaticanus fu console nel 455, mentre i plebei furono esclusi dal consolato fino alla lex Licinia Sextia del 367 a.c; e pure per sua elezione al primo collegio dei decemvirs, che sicuramente erano tutti patrizi. 

                                          Tuttavia, gli storici hanno a lungo sospettato che alcuni dei consoli negli anni precedenti il Decemvirato fossero in realtà plebei, mettendo in dubbio che il consolato e il decemvirato fossero all'epoca esclusi ai plebei.

                                          E' ancora discusso lo status sociale dei Romilii essendo scomparsi dalla storia per diversi secoli; i Romilii dell'epoca imperiale in effetti potrebbero essere stati plebei, ma la maggior parte delle gentes patrizie alla fine acquisì rami plebei, spesso discendenti da liberti che assunsero la nomina dei loro protettori.

                                          Comunque secondo alcune fonti l'etrusco Ager Vaticanus fu annesso a Roma proprio ad opera della gens Romilia, che dimorava sulla sponda destra del fiume, anticamente sotto l'influenza o il dominio della città etrusca di Veio: un ramo della famiglia portava infatti il cognomen di Vaticani.
                                          La Tribù Romilia comprendeva, oltre alla colonia latina di Sora nel Lazio, anche Ateste (oggi Este) nel Veneto, sul fiume Adige.



                                          PRAENOMINA

                                          Gli unici praenomina che si conoscono dei Romilii sono: Titus, Lucius, Gaius, comuni a molte altre gentes, ma pure Marcellus. Iustus, Germanus e Pollius.

                                          SENATORE


                                          MEMBRI RICORDATI

                                          - Romulius Denter, (forse denter perchè aveva i dentoni) Tacito ci racconta che fu il primo praefectus urbis nominato da Romolo.

                                          - Titus Romilius Rocus Vaticanus, (forse Rocus perchè aveva la voce roca, e Vaticano perchè risiedeva nel Mons Vaticanus) console nel 455 a.c., con il collega, Gaius Veturius Geminus Cicurinus, sconfisse gli Equi al Monte Algido. Tuttavia entrambi  furono processati e multati per aver depositato tutto il bottino nel tesoro pubblico, non riservandone nulla ai loro soldati. Nel 451 fu membro del primo collegio dei decemvirs e collaborò alla stesura delle prime X tavole del diritto romano.

                                          - Romilius Pollio (forse Pollio perchè portatore, magari di armi e armature), raggiunse la ragguardevole età di cento anni, per cui Augusto, che aveva sempre paura di ammalarsi e morire, gli chiese il segreto della sua longevità. Romilius rispose che beveva vino dolcificato col miele, ed applicava olii alla sua pelle.

                                          - Romilius Marcellus, un centurione che servì nella XXII legione in Germania nel 69, venne messo a morte, in quanto sostenitore di Galba, dai pretoriani che avevano eletto Otone.

                                          - Lucius Romilius O[...]poh[...], come si legge da un'epigrafe, fu un soldato che stazionò a Roma nel 70, servendo nella centuria di Tiberius Julius Primigenius.

                                          - Romulius Euhemerus, nome greco corrispondente al nome greco del filosofo Evemero, ma pure nome di un'opera dei Ennio, venne trovato in un'iscrizione del III secolo a Roma. 

                                          - Lucius Romilius, capo di un collegio di scribi a Roma. Lucius era un nomen molto frequente tra i Romilii.

                                          - Romulius Germanus, come avverte l'epigrafe, fu figlio di Germanus e Colenda, e fu sepolto a Roma.

                                          - Gaius Romilius C. f. Juncus, sepolto dai suoi genitori in un sepolcro di famiglia a Roma, alla tenera età di 13 anni.

                                          - Romulius Justus, venne sepolto a Roma, morto a 45 anni, con un monumento che gli fece fare la sua affezionata moglie, come è annunciato nell'epigrafe.

                                          - Gaius Romilius C. l. Anteros - un liberto sepolto nel sepolcro di famiglia dei Romilii a Roma. Spesso i liberti diventavano membri della famiglia e venivano sepolti nelle tombe di famiglia.

                                          - Gaius Romilius C. l. Phileros - anche questo un liberto nominato in una iscrizione funeraria a Roma.

                                          - Romilia C. l. - una liberta sepolta nel sepolcro di famiglia a Roma. Le donne avevano un sole nome preso da cognomen della famiglia.


                                          BIBLIO

                                          - Titus Livius - Ab Urbe Condita libri -.
                                          . Gaius Plinius Secundus - Historia Naturalis -
                                          - Publius Cornelius Tacitus - Annales, Historiae -
                                          - Theodor Mommsen et alii - Corpus Inscriptionum Latinarum (The Body of Latin Inscriptions, abbreviated CIL) - Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften - 1853 -
                                          - René Cagnat et alii, L'Année épigraphique (The Year in Epigraphy, abbreviated AE) - Presses Universitaires de France -1888 -
                                          - Mario Enzo Migliori - L’Origo Gentis Romanae. Ianiculum e Saturnia - 2015 -

                                          RICICLO DI VASCHE E SARCOFAGI ROMANI

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                                          FONTE BATTESIMALE DUOMO DI MILANO - EX VASCA TERME ROMANE


                                          VASCHE DI FONTANE, SARCOFAGI 

                                          Le prime ricerche avvennero sulla fine del secolo VII. 
                                          I corpi di Faustino, Simplicio, e Viatrice, trasferiti circa l'anno 682 dal cimitero di Generosa a s. Vibiana, furono collocati da Leone II entro « una conca d'alabastro orientale di figura ovale, scolpitavi nella facciata la testa di un gattopardo ed è in circonferenza p. 25, alta p. 4 » (Ficoroni, R. A., p. 191).

                                          - Stefano V, riedificando la basilica dei ss. Apostoli nell'SlG, « in conca porphyretica recondidit » i corpi di Eugenia, Claudia, e di XII martiri tratti dalle catacombe di via Latina, 

                                          - ed in altro simile labro le spoglie di s. Savino (Martinelli, R. ex ethn. sacr. p. 65).

                                          - L'anno 1625, restaurandosi dal card. Millini la confessione dei ss. Quattro, furono scoperte quattro conche ben grandi: 
                                          - due di porfido, 
                                          - una di serpentino, 
                                          - una di metallo, nelle quali Leone IV e Pasquale II avevano riposto reliquie. 

                                          - Ottone III (983-1002) depose il corpo di Bartolomeo apostolo ed altre illustri spoglie in una vasca di porfido, la maggiore delle conosciute, misurando m. 3,34 in lunghezza, 0.90 in larghezza e profondità. Conserva ancora il foro per la chiave di scarico dell'acqua.

                                          SARCOFAGO DI TEODORICO

                                          - L'anno 1049 Leone IX collocò altra vasca simile sotto l'altare grande di s. M. in via Lata, tornata a scoprire nel 1491;

                                          - Callisto II nel 1123 altra di granito orientale in s. M. in Cosmedin (Crescimbeni. Storia, p. 416). Il 

                                          - Marangoni, descritta la conca porfiretica, già nel battistero lateranense, aggiunge: « questa più non si vede a cagione delle desolazioni patite da Roma. Bensì nel medesimo battistero fu ed è collocata una bellissima urna di basalto che rassembra metallo, una di quelle che adoperavansi da' gentili nelle loro terme »

                                          Bianchini, Veron. 355 ricorda una vasca di porfido nell'atrio dei pp. Certosini alle Terme "ch'era alla vigna di pp. Giulio". Il medesimo compilò nel giorno 26 aprile 1706 il catalogo dei monumenti scritti e figurati, che sopravanzavano "in Villa Medicea in monte Sancti Valentini extra portam flaminiam". Sono 12 sculture e 17 iscrizioni (ivi, 347, e. 23).

                                          Probabilmente la vasca dei Certosini era identica al labrum porfireticum trovato a sant'Adriano negli scavi del Comizio « et postea ad villa(m) lulia(m) translatum », del quale parla il Panvinio nel codice vaticano ligoriano 3439.

                                          VASCA NERONIANA - MUSEI VATICANI

                                          - Prima del rinnovamento dei ss. Giovanni e Paolo per opera del card. Fabrizio Paolucci, nel 1725, si conservava in ima cappella in fondo alla chiesa altra urna preziosa. Benedetto XIII la trasferì all'altare grande, e toltene le reliquie di s. Saturnino, vi depose quelle dei santi titolari. L'urna aveva prima contenuto parte delle spoglie dei martiri scillitani. 

                                          Il Ficoroni, il Marangoni, il Corsi, che hanno studiato questo soggetto, nominano le seguenti altre vasche: 
                                          - Conca di verde antico nella galleria Rospigliosi; 
                                          - conca simile di basalte nero morato con quattro teste leonine in s. Croce, chiamata dal Ruccellai « concha di paraone molto gentile dove si posa la tavola dell' altare »; 
                                          - simile di porfido in s. M. maggiore; 
                                          - simile nell'altare di s. Elena in Araceli; 
                                          - simile d'africano in s. Francesca Romana. 

                                          - In s. Marcello, nella seconda cappella a destra è una gran conca di porfido ovale, con testa di leone nella facciata, ma presentemente resta quasi tutta racchiusa, con avere scalpellata la detta testa di leone per appoggiarvi il paliotto " (Ficor.). 

                                          - Seguono le conche di giallo in s. Stefano rotondo; 
                                          - di bigio in s. Pietro in Vinculis; 
                                          - di porfido nel battistero di s. M. maggiore; 
                                          - di cipollino in villa Albani; 
                                          - di granito rosso nel palazzo Barberini; 
                                          - di nero sotto l'altare maggiore di s. Marcello; 
                                          - di imezio nel palazzo di villa Giulia; 
                                          - di bigio brecciato in s. Antonino dei Portoghesi; 
                                          - di portasanta nel palazzo Altemps; 
                                          - di porfido verde nella casa dei Filippini; 
                                          - di porfido rosso in s. Eustachio, 
                                          - di porfido rosso in s. Marco, 
                                          - di porfido rosso in s. Pancrazio, 
                                          - di porfido rosso in s. Pietro (ss. Processo e Martiniano) etc.

                                          VASCA ROMANA A SAN ZENO - VERONA

                                          - Il duca Giovannangelo Altemps nel 1617 collocò il corpo di s. Aniceto in un'urna di giallo trovata al terzo miglio dell'Appia, e da lui creduta « labrum quod Alexandri Severi imp. sepulcrum fuit ». 

                                          - Si può ricordare da ultimo l'urna di porfido trovata nelle terme di Agrippa l'anno 1443, e collocata da Clemente XII nella sua cappella Corsini al Laterano. 

                                          - Le vasche termali non hanno sempre servito a contenere reliquie illustri: ne ha fatto uso anche il volgo profano. 
                                          « Non è molto » scriveva il Fea nel 1790 « che nel recinto (delle terme antoniniane) furono trovate le due bellissime urne di basalto verde, una, e l'altra ferrigno, comprate da Pio VI che le ha collocate nel museo pio-clementino. Vi furono trovati dentro cadaveri » 
                                          (Misceli, voi. I, p. LXV, nota d). 

                                          - Fra quelle adoperate per uso di fontane primeggiano le due di granito, lunghe m. 5,57 scoperte nelle terme stesse. La prima era stata collocata da Paolo II in piazza di s. Marco, l'altra da Paolo III davanti il suo palazzo. 

                                          Restituita l'acqua traiana da Paolo V nel 1612, il card. Odoardo Farnese riunì le due conche insieme, trasformandole in fonti copiosissime d'acqua. A una di esse si riferisce l'appunto del Ruccellai, in Arch. Storia Patria, tomo IV, p. 579, ove dichiara di aver visto nel 1450 « uno vaso o vero conca in una vigna presso alle terme d'Antonino Pio, lunga braccia quindici larga braccia V alta braccia 3 di granito o vero serpentino ". 

                                          FONTE BATTESIMALE RICICLATO A SAN PIETRO

                                          - Altro reimpiego si trova nella cappella del Battesimo della Basilica di San Pietro, realizzata su disegno di Carlo Fontana fra il 1692 e il 1697. L’architetto riutilizzò per il Fonte battesimale una conca di porfido rosso che, secondo la tradizione, proveniva dalla tomba dell’imperatore Adriano ma già reimpiegata come copertura del sepolcro di Ottone II nell'atrio della vecchia basilica di San Pietro.

                                          E' già gravissimo violare la tomba del grande imperatore Adriano, ma è ancor più grave la violazione delle tombe che la Chiesa esecra e condanna, a patto che non sia un sepolcro appetibile per il suo valore. Per ordine della chiesa intere catacombe pagane sono state svuotate dei defunti che contenevano per far posto ai corpi dei cristiani commettendo un'infinità di sacrilegi.

                                          - Il card. Odoardo trasferì nella « piazza della Conca di s. Marco » come la chiama Marcello Alberini nel suo Diario, un altro vaso di granito rosso il quale, da tempi remoti era stato trasferito da qualche terma imperiale al sepolcreto di s. Lorenzo fuori le mura. Pio IX l'ha fatto collocare nella seconda risvolta del viale del Pincio, dietro la tribuna di s. M. del Popolo.

                                          VASCA VESUVIANA

                                          - Si possono ricordare anche le marmoree bagnarole di piazza Navona,
                                          - le marmoree bagnarole di piazza di s. Marta,
                                          - le marmoree bagnarole della fontana di papa Giulio,
                                          - le marmoree bagnarole di villa Madama,
                                          - le marmoree bagnarole di villa Albani, 
                                          - le marmoree bagnarole « in platea s. Salvatoris de Lauro, et Eustachii, maximae capacitatis » descritte dall'Albertino f. 54'.

                                          - La sola anticaglia superstite dell'antica casa de' Colonnesi sotto il monte Cavallo, al tempo dell' Aldovrandi era il sarcofago di Melissa, messo per vasca nel cortile (p. 266).

                                          AREA PANTHEI - 
                                          "Sulla piazza dirimpetto alla chiesa una sepoltura di porfido molto gentile con due lioni, dal lato una bella petrina et con due vasetti di porfido" p. 573.

                                          - MAVSOLEVM HELENAE - 
                                          Anastasio IV scopre il sarcofago porfiretico di Flavia Elena, nel mausoleo della villa ad duas Lauros, a Tor Pignattara, e lo trasferisce al Laterano. Danneggiato nell' incendio di Clemente V, i canonici lo risarcirono nel 1509 « iniuria temporum undique diruptum ac protinus disiectum ». Pio VI lo collocò nella sala della Croce Greca, sotto il n. 589. 1160 circa.

                                          VASCA ROMANA RICICLATA NEL BATTISTERO DI S. GIOVANNI A ROMA

                                          - Si importarono anche sarcofagi, come quello di Marco Annio Proculo (ibid. 292) scoperto nuovamente l'anno 1742 a piedi dell'altar maggiore a s. Sofìa di Costantinopoli.

                                          - THERMAE TITI (?) AD VINCVLA - 
                                          « San Pietro ad vincula: vi sta un grandissimo labbro fuso di pietra, ed accanto un simulacro» p. 260.

                                          - BASILICA LIBERIANA  - 
                                          all'entrare della chiesa a mano ritta una bella sepoltura di porfido.

                                          Ma i labra disseminati nell’Urbe, rimasti visibili nei secoli o riscoperti occasionalmente, furono riutilizzati a partire dal ‘400 fino ad oggi, in funzione di abbeveratoi e fontanili pubblici o di suggestive fontane in piazze e nobili dimore, conservando intatte le loro antiche prerogative, in una città che da sempre è ammirata per la bellezza e la scenografica monumentalità delle sue numerose fontane.


                                          ARA DELLA DEA DELLA GUERRA BELLONA USATA COME FONTE BATTESIMALE

                                          A Monteverdi Marittimo nella chiesa dedicata a S. Andrea c’è una testimonianza di epoca romana, un’ara marmorea usata da tempo immemorabile come fonte battesimale.
                                          Sul fronte reca la scritta:

                                          BELLONAE SACR
                                          DONAX AVG. LIB
                                          MESOR D.D

                                          cioè: "Alla sacra Bellona, Donace, liberto di Augusto, agrimensore, diede in dono". Probabilmente il liberto di Augusto, affezionato al suo padrone, rese grazie con quest'ara alla vittoria di Augusto, forse ad Azio. Augusto era molto magnanimo con gli schiavi della reggia e ne liberò ben 4000.

                                          L’ara pagana era dunque dedicata a Bellona, Dea romana della guerra. A Roma le era stato dedicato un tempio dove il Senato dava udienza agli ambasciatori e alla cui porta si trovava una piccola colonna chiamata bellica, contro cui l’araldo lanciava una picca tutte le volte che si dichiarava la guerra. 

                                          SARCOFAGO FONTANA

                                          Col Cinquecento il reimpiego di carattere “privato” diventa la forma principale di riutilizzo dei monumenti antichi, come testimoniano i numerosi sarcofagi romani usati come sepolture dalle famiglie nobili modenesi. Fra questi è il sarcofago cosiddetto Fontana rinvenuto nel 1530 scavando un pozzo presso la casa di Ludovico Falloppia, nell’attuale via Falloppia (presso l’antica chiesa di S. Agata).

                                          Acquistato da Baldassarre Fontana per fare un sepolcro per sé e per il fratello, venne collocato vicino alla porta del Duomo. Per il nuovo utilizzo il sarcofago venne completamente rilavorato con decori e scritte cinquecentesche, sfruttando come fronte il retro del monumento.


                                          SARCOFAGO DI CORNELIA MAXIMINA E PUBLIUS VETTIUS SABINUS - III sec.

                                          Verso il 1680, insieme alla maggioranza dei sarcofagi esposti attorno al Duomo, il sarcofago Fontana venne spostato nel cortile delle Canoniche dove insieme ad altri sarcofaghi, a detta del Malmusi, “servì ad accogliere le ceneri e le ossa in circostanza di un espurgo all’interne tombe della chiesa”.

                                          Tra i suddetti sarcofagi c'era il sarcofago di Cornelia Maxiama e Publius Vettius Sabinus, del III secolo d.c. che venne spezzato e poi riassemblato con delle grappe di ferro, oggi tolte fermando i vari pezzi con apposite colle ad alta resistenza.




                                          BIBLIO

                                          - Romolo Augusto Staccioli - Acquedotti, fontane e terme di Roma antica: i grandi monumenti che celebrano il "trionfo dell'acqua" nella città più potente dell'antichità - Roma - Newton & Compton Ed. - 2005 -
                                          - K. M. Coleman - Launching into history: aquatic displays in the Early Empire - Journal of Roman Studies - 1993 -
                                          - Rodolfo Lanciani - I Commentarii di Frontino intorno le acque e gli acquedotti - silloge epigrafica aquaria - Roma - Salviucci - 1880 -
                                          - A. Malissard - Les Romains et l’eau. Fontaines, salles de bains, thermes, égouts, aqueducs - Les Belles Lettres - Paris -

                                          PAGLIANO ( Umbria )

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                                          Tito Livio: 
                                          e grandi convogli di frumento giunsero a Roma per il Tevere, grazie agli ottimi uffici dell'Etruria." 

                                          Dionigi D'Alicarnasso: 
                                          Il Tevere non è traversato nella sua foce da cumuli di arene, come altri gran fiumi, né dilaga in stagni e paludi, né si consuma in altre maniere prima che giunga nel mare: ma è sempre navigabile con barche fluviali mezzane”. 

                                          Il sito di Pagliano si colloca a Sud del lago di Corbara e dell' A.1, nella confluenza attuale tra il Tevere e del Paglia (che proviene da Ovest), nel territorio comunale di Orvieto, ben seguito dal seminario di studi "sul campo" organizzato dalla Scuola di Etruscologia e Archeologia dell'Italia Antica e coordinato dal Prof. Maurizio Gualtieri (Dipartimento Uomo e Territorio - Sezione Studi Comparati sulle Società Antiche, Università degli Studi di Perugia).

                                          Pagliano, centro urbano di origine etrusca, situata su una lingua di terra molto fertile a forma di cuneo, dista circa 6 km da Orvieto nel punto in cui il Tevere riceve le acque del Paglia. Pagliano aveva vie di comunicazione stradali, ma pure fiumi, come il Paglia ed il Tevere, a quei tempi navigabili, tutte vie riutilizzate poi dai Romani. La navigazione tiberina era ottima per gli scambi commerciali che collegavano Roma con le regioni più interne, attraverso il Paglia, la Nera, l'Aniene. 

                                          Lo dimostrano i resti di anfore, il recupero delle strutture murarie, di cisterne, di terme e di impianti portuali lungo il Tevere. Lungo il tratto fluviale si stanziarono gli Umbri, i Falisci, gli Osci, nel IV sec. a.c. già in rapporti con Roma. 



                                          LE ORIGINI

                                          Si ipotizza che le origini di Pagliano furono molto antiche per la probabile esistenza del porto già al tempo degli scontri tra Roma e l’Etruria per il predominio sul Tevere (IV ­ III sec. a.c.); un’ altra ipotesi lo fa risalire al tempo di Silla, nell’80 a.c., in quanto fu allora che l’opus reticolatum cominciò ad apparire. Tuttavia Pagliano sarebbe entrato in funzione ancora prima del I secolo a.c. come testimoniano dei muri in opus incertum. 

                                          Di grande importanza per delineare il periodo di attività del porto sono le iscrizioni doliari e le ceramiche di Pagliano; queste sono distinguibili per il marchio con il nome dei vasai noti, per la colorazione nera o rossocorallino e per le figurazioni in rilievo. I vasi neri risalgono al II secolo a.c., mentre quelli rossi al I secolo a.c..
                                           


                                          IL SEPOLCRETO

                                          Sul lato sinistro del Paglia sono stati ritrovati dei resti di scheletri umani che hanno messo in evidenza un’area di circa 900 mq destinati alla sepoltura. E’ di grande interesse l’aver portato alla luce cadaveri interi deposti in urne di coccio ricalcanti la tipologia degli antichi orci italici.



                                          GLI STUDI 

                                          L'indagine sistematica programmata per gli anni 2009 e 2010, condotta in collaborazione tra la Scuola di Etruscologia e Archeologia dell'Italia Antica (istituita nel 2002 per volontà congiunta della Fondazione per il Centro Studi "Città di Orvieto" e della Fondazione per il Museo "Claudio Faina"), l'Università degli Studi di Perugia e la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Umbria, consentirà di effettuare un rilievo aggiornato delle strutture già visibili nonché una campagna di prospezioni geo-archeologiche mirata ad una più precisa definizione della natura ed estensione dell' area archeologica. 




                                          IL PORTO

                                          Il sito, con imponenti strutture già parzialmente messe in luce da precedenti indagini, è stato identificato quale porto fluviale di Volsinii a partire almeno dall'età tardo-repubblicana. Livio e Dionigi riportano che il Tevere e i suoi affluenti fossero percorsi da grandi e piccole imbarcazioni in inverno e in primavera, tranne che in estate, quando diminuiva il livello delle acque. 
                                          Dal I sec. a.c. la zona orvietana si servì del porto di Pagliano fino al IV sec. d.c., ma la massima fioritura di Pagliano avvenne in epoca romana, E' recente la “riscoperta” dell’impianto portuale a seguito di un’opera di disboscamento. 
                                          E’ visibile, infatti, un molo che precede i fabbricati insieme a piloni di ormeggio che fungevano da luogo di approdo e banchina di carico e scarico delle merci. Complementare ad esso è la via terrestre, la strada Ferentinum - ­Tuder, evidente raccordo anulare con le vie fluviali, testimoniata da un tratto di muro costruito con pietra squadrata da ambo le parti simili a teste di ponte e da un cippo marmoreo dedicato ad Ercole (come dimostra l’iscrizione) che nell’Italia centrale era identificato come tutor Viarum. 



                                          LA FINE

                                           La fine dell’ attività di Pagliano va cercata negli avvenimenti tra il 395 e il 408, con la discesa in Italia di Alarico re dei Visigoti. Per ostacolare la navigazione sul Tevere e togliere ai Romani i rifornimenti questi distrusse Pagliano, dopo aver abbattuto anche il porto di Ostia. Molto probabilmente il porto venne incendiato come dimostrano i segni dell’azione distruttiva del fuoco.



                                          GLI SCAVI

                                          Gli scavi hanno fatto riemergere molte anfore vinarie ed olearie, rinvenute nel sito, testimoniano che qui c’erano magazzini di tali prodotti. Il territorio di Pagliano forniva: grano, farina, vino, olio, ortaggi, il sale delle saline di Ostia, stoffe, aromi, cristalli, calzature, bronzi e ceramiche, anche perchè la via fluviale era la più sicura ed economica. 

                                          La presenza di 16 macine da mulino e di granai a nord­est, attestano che qui c’era un "pistrinense opificium" in cui avveniva la trasformazione del grano in farina; i molti vasi aretini e campani, nonchè monili d'argento, candelabri, collane, fibule, statue bronzee o di marmo, confermano che qui c’era un emporio commerciale, non potendo tanto materiale appartenere alla popolazione locale, costituita prevalentemente da schiavi. 

                                          Prima della macinazione il grano veniva lavato in acqua corrente, per mezzo di vasche assai capaci e intercomunicanti per via di canaletti; questi si trovano nei vani attigui alla sala di macinazione, alimentati da una fontana ancora oggi visibile sotto un arco. L’asciugatura del grano, avvenendo in inverno per sfruttare la temporanea navigabilità del fiume, ricorreva ad ambienti riscaldati.

                                          Il sito archeologico oggi è distribuito sulla sponda sinistra e sulla sponda destra. Il piano più basso, della sponda sinistra, era abitato per circa 8000 mq. quello sulla sponda destra, coperta da terra alluvionale, presenta locali con frammenti di lucerne e ceramiche aretine e utensili come aghi e anfore e molte monete dell’epoca di Augusto fino a quella di Costanzo. 

                                          Altri ritrovamenti rivelano alcuni vani come balneum (bagno), provvisti di vasche e oggetti da toilette; in altri sono stati rinvenute colonne in travertino, cippi sepolcrali, nicchie semicircolari e canali per scaricare l’acqua. 

                                          Nella parte inferiore, quella che guarda il corso del Paglia, si pensa fosse la zona adibita alla macinazione e che il vano centrale possa essere stato un luogo di mercato con intorno un ambulacro coperto. Le abitazioni non erano ricche, addossate le une contro le altre e prive di atrium e peristilium. 

                                          LE MACINE DEL FIUME PAGLIA


                                          Nuove scoperte dì antichità in contrada Pagliano del feudo Corbara.

                                          Si scoprì per un'altezza di circa m. 2,00 un grande ambiente, che prospetta sulla sponda destra del Tevere, nell'angolo di confluenza con il Paglia, per una superficie approssimativa di 300 m.q. Vi si rinvennero gli oggetti che seguono:
                                           Bronzo.
                                          - Due monete di Nerone, e sedici di vario modulo, irriconoscibili per l'ossido -
                                          - Utensile da toletta, semplice, lungo m. 0,09 - Frammento, forse di serratura, lungo m 0,05 -
                                          Vetro.
                                          - Due bottoni di colore scuro - Globetto per collana, a forma di pera -
                                          Osso.
                                          - Ago crinale semplice, lungo m. 0,095, rotto.
                                           Ferro.
                                          - Chiodo con grande capocchia, lungo m. 0,09 - Oggetto da lavoro,  lungo m. 0,16, alto 0,09, da applicare a manico di legno m. 0,05. Da un lato con punta solida e ricurva, dall'altro una punta adunca, più corta - Aratro di forma comune, m. 0,27 x 0,10. - Altro più piccolo m. 0,19 x. 0,07.
                                          Fittili - Frammento di tazza di fabbrica aretina.
                                           Pietra.
                                          - Piccola base di travertino, m. 0,47 x 0,47 con tratto di colonna, alta m. 0,13, diametro m. 0,30.
                                          - Oggetto di puddinga (roccia), alto cm 64, formato da due coni tronchi vuoti, diametro di m. 0,66 ciascuno, uniti per la parte superiore, senza comunicazione tra loro.



                                          EDIFICI

                                          Il lato della sinistra sponda del fiume Paglia è stato ritenuto il più adatto per cominciare i lavori di sterro delle camere dell'edificio romano di opera reticolata quivi esistente in un terreno dalla Banca Romana, cioè Pagliano (ex feudo di Corbara) nel territorio di Orvieto (cfr. Notizie 1889, p. 4).

                                          Sino a tutto il giorno 8 gennaio nei lavori suddetti è stata rimessa in luce una parte di una corsìa, ritenuta di passaggio, senza traccia di copertura. Misura m. 14,00 X 2,90. Le pareti interne sono rivestite di opera reticolata, di buona conservazione, dello spessore di m. 0,45. L'altezza, presa a valle, alla estremità del muro sulla sponda del Paglia in corrosione, è di m.0,60, mentre a monte va a salire sino a m. 1,30. Il pavimento è costruito con ciottoli ricavati da detto fiume, messi a cemento.

                                          A sinistra un piccolo vano, o cameretta scoperta, forse usata per bagno, quasi quadrata, senza indizio di comunicazione e mancante della parete parallela al fiume. L'accesso parrebbe dalla parte superiore. Ha in pianta le dimensioni di m. 3,60X4, conserva qualche traccia di pavimento, quasi uguale a quello della corsìa.

                                          Dopo la suddetta camera riapparve un altro piccolo vano, ancora non del tutto sterrato. In uno strato di terriccio alluvionale, misto a combustione, si raccolsero gli oggetti che seguono:
                                          - Nove aghi crinali, semplici, da m. 0,09 a m. 0,05 - Frammenti di aghi crinali semplici -
                                          VETRO
                                          - Tre bottoni color turchiniccio - Manico di anforetta -
                                          FERRO
                                          - Piccola scure ben conservata, lunga m. 0,14. - Lama di coltello lunga m. 0.085 -
                                          - Gancio di saliscendi - Frammento con grande capocchia, lungo m. 0,22 a forma di chiodo -
                                          - Due anelli intrecciati, uno rotto da un lato - Perno con capocchia rotonda, lungo m. 0,17 -
                                          BRONZO
                                          - Grazioso oggetto da toletta lungo m. 0,115 - Ago di forma comune lungo m. 0,07 -
                                          - Oggetto di lavoro lungo m. 0,1 rotto da un lato - Anello da dito, diam. m. 0,02 -
                                          - Chiave lunga m. 0,042 - Ago crinale lungo m. 0,085 con ornato presso la testa -
                                          - Frammento di manico di vaso - Piccola chiave lunga m. 0,025 con anellino attaccato e rotto -
                                          - Frammento di serratura - Cinque dischi con giri concentrici e foro al centro, da m. 0,05 a m 0,09 - 
                                          - Frammenti fatti a cordoni a sbalzo - Due frammenti di chiavi, di una catenella e di un bottone -
                                          - Cinquecentotto monete, irriconoscibili per l'ossido; le più conservate spettano ad Augusto, Druso, Faustina, Lucilla, Gordiano, Carino, Costantino, Filippo giuniore e Filippo seniore.
                                          PIOMBO
                                          - Peso da bilancia alto m. 0,043, diam. alla base m. 0,043, in sommità m. 0,02, peso grammi 450.
                                          TERRACOTTA
                                          - Peso da telaro, con foro, alto m. 0,09 largo in sommità m. 0,052, alla base m. 0,072.
                                          - Tredici lucerne ordinarie di più dimensioni e forme, due delle quali con ornati.
                                          - Frammento di tegola con bollo frammentato - Frammenti di vasetto aretino -



                                          RESTI DI EDIFICIO TERMALE

                                          Furono proseguite le ricerche nei ruderi delle terme in contrada Pagliano (ex feudo Corbara) delle quali si disse nelle Notizie dello scorso gennaio tenendosi conto di ciò che era stato rinvenuto fin al giorno 8 di quel mese. Dal giorno 9 al 21 del mese stesso si ebbero questi nuovi trovamenti.

                                          È stato messo all'aperto un altro tratto di corsìa, ora segnato col n. 1,  di m. 6,00 e per m. 2,90. Il muro laterale a sinistra, partendo dalla sponda del fiume Paglia, mantiene lo spessore di m. 0,42, e misura in altezza m. 1,80, proseguendo leggermente a salire dalla parte della collina.

                                          Si è dovuto riconoscere che in epoche piuttosto antiche, sieno stati fatti dei tentativi di scavo, in vari punti del grande edificio romano, e in ispecie in questo tratto di corsia, nel quale non si sono raccolti che pochi frammenti di embrici e di grandi anfore di rozzo lavoro.



                                          SECONDO VANO

                                          Quindi, con regolare scavazione, ed a seguito dell'altra camera già descritta nel precedente rapporto, venne scoperto altro vano, di eguale costruzione, di forma quadrata, segnato col n. 3. Ha le dimensioni di m. 4,00 per m. 4,00  e m. 0,93 di altezza, dal lato del Paglia, e m. 1,27 a monte. I muri in giro hanno lo spessore di m. 0,42.

                                          VENERE DI PAGLIANO
                                          Sparsi nella terra, si estrassero gli oggetti seguenti:
                                          Fittili ordinari.
                                          - Frammento di una tazza con testa umana sul davanti.
                                          - Testina a rilievo di vecchio sbarbato con bocca semiaperta, alta m. 0,09 mancante dell'orecchio sinistro. Ha il capo ricoperto da un manto che gli scende sul collo. Frammento forse di vaso -
                                          - Lucerna con rilievo a stampa di un cervo, rotta nel beccuccio -
                                          - Frammenti di embrice rotto nel punto in cui era impressa la marca di fabbrica
                                          Fittili di arte aretina.
                                          - Grande lucerna, frammentata, con sopra bellissimo ornamento a stampa, di un vaso con fiori.
                                          Piombo.
                                          - Quadretto di forma ovoidale ; altezza della luce m. 0,05, altezza esterna m. 0,10 ; ha la cornicetta ornata in giro ad impressione, e un monogramma - Frammento di piccola lastra lunga m. 0,07.
                                          Osso.
                                          - Sei aghi crinali, semplici, dei quali, da m. 0,08 a m 0,15 - Frammenti di altri quattro aghi -
                                          Ferro.
                                          - Oggetto triangolare di una bilancia, m 0,10 x m 0,07 - Frammento di lastra ricurva, lunga m 0,10 -
                                          Argento.
                                          - Frammenti di anello da dito, con pasta vitrea incastonata, ove è impressa una colomba.
                                          Bronzo.
                                          - Ago crinale lungo m. 0,095, ornato nella capocchia - Piccolo piombo da filo, alto m. 0,03 -
                                          - Frammento di catenella - Frammento di disco a sbalzo, con foro al centro, diam. m. 0,15 -
                                          - Anello semplice da dito, con piastrina; diam. m. 0,23 - Altro diametro m. 0,2-1 senza piastrina -
                                          - Altro, semplicissimo, diam. m. 0,02 - Monete varie di bronzo di Augusto, Germanico e i Gordiani -



                                          TERZO VANO

                                          Col progredire dei lavori si potè arguire che la suddetta camera avesse a sud-ovest, un piccolo accesso, che si riconobbe rovinato, parallelo al muro sinistro della corsia. Venne scavata altra camera piccola, che fa seguito alla suddetta, di forma quadrilunga, lunga m 2,25, larga m 4,00, alta, dal lato del Paglia m 1,27, da quello della collina m 1,40; lo spessore del muro è di m. 0,42.

                                          Anche in questo vano osservasi una piccola porta di accesso, larga m. 1,35, che in tempi posteriori alla costruzione dell'edificio venne chiusa, come attualmente si crede, per la ragione forse, che l'ambiente fu destinato ad altro uso. Misti a terra ed ai rottami laterizi si raccolsero i seguenti oggetti:

                                          OSSO
                                          - Dieci aghi crinali, da m 0,08 a m. 0,10 - Frammenti di altri quattro aghi crinali -
                                          - Piccolo manico lavorato al tornio, lungo m. 0,93.
                                          FITTILI
                                          - Lucerna con piccoli ornati circolari, manichetto arcuato sopra, e sotto la marca FORTIS -
                                          - Due grandi anfore, una alta m. 0,99, l'altra in parte mancante - Tazza a due manichi, rotta -
                                          - frammenti di piccoli vasi - Grande anfora, assai affusolata lunga m. 0,74, mancante del collo -
                                          VETRO
                                          - Anforina semplice, alta m 0,045 - Piede di vasetto, diam. m. 0,05 con dentelli sull'orlo esterno -
                                          - Palla sferica, diam. m 0,04, di colore turchiniccio e verde smeraldo -
                                          FERRO
                                          - Chiave rotta e mancante, lunga m 0,065 - Anello semplice da catena, diam. m. 0,03 -
                                          - Altro più piccolo e largo, diam. m 0,025 -
                                          BRONZO
                                          - Bilico di piccola bilancia m. 0,11 X 0,035, ben conservato - Piccola chiave lunga m. 0,058 -
                                          - Dischetto semplice, diam. m 0,052 - Frammento lastra lunga m. 0,11 X 0,068, ornato a sbalzo -
                                          - Due frammenti: una mezza testina ed una chiave.
                                          - Frammento a rilievo con due piccole teste umane, imberbi, quasi unite, lavorate a sbalzo -
                                          - Lastra a lama di rasoio, con sei piccoli fori al centro; m. 0,11 X 0,018 -
                                          - Monete di varie dimensioni, in gran parte corrose ed in cattivo stato. Alcune di M. Antonio. Augusto, Livia, Antonino Pio, Julia Domna e i Gordiani.

                                          VEDUTA AEREA DELL'AREA ARCHEOLOGICA


                                          QUARTO VANO

                                          Nuove indagini nei resti dell'edifìcio termale in contrada « Pagliano » .
                                          A contatto degli ambienti segnati coi numeri 2, 3, 4, già descritti, si riconobbe esistere un'altra fila parallela di piccole camere, alquanto rovinate. In quella indicata col n. 7, già in corrosione per trovarsi sulla sponda sinistra del Paglia, non si rinvenne suppellettile di sorta. Misura m. 3,02 in lunghezza, m. 4,00 in larghezza, m. 0,72 nell'altezza media e m. 0,41 nello spessore dei muri.
                                          Proseguito lo scavo verso il monte, venne dissotterrato il vano n. 13, che anteriormente era diviso in due parti per mezzo di muro distrutto in tempi abbastanza remoti. Detto vano misura m. 7,20 x 4,00 in larghezza, ed ha l'altezza media di m. 1,00.

                                          Misti alla terra si raccolsero i seguenti oggetti:
                                          BRONZO
                                          - Pezzo di aes rude. Anello da dito; diam. m. 0,02 con sopra piccola incisione irriconoscibile -
                                          - Statuetta m. 0,05, rappresentante Giove, in piedi, quasi ignudo; ha nella destra il fulmine e la clamide avvolta nella sinistra; è discretamente conservato e di arte mediocre.
                                          - Ottantaquattro monete di vario modulo, per lo più irriconoscibili, a causa dell'ossido. Ve ne sono delle familiari e delle imperiali.
                                          Sospeso lo scavo nella camera n. 13, furono incominciate le indagini presso la sponda inferiore del Paglia, ove fu rimessa alla luce una delle solite camerette. Misura m. 5,90 X 3,50 X 0,52, ed ha la porta orientata a sud-ovest, larga m. 1,70. Vi si rinvenne:
                                          PIETRA
                                          - Macina di puddinga, del diam. di m. 0,90 e m. 0,31 di spessore. Giaceva nell'angolo destro della porta, ove
                                          ancora trovasi.
                                          ORO
                                          -  Anello da dito; diametro m. 0,02, con vetro liscio color granato, incastonato.
                                          ARGENTO
                                          - Anello semplice da dito, mancante della pietra.
                                          BRONZO
                                          - Piccolo busto virile barbuto, m. 0,042 - Due monete di Gordiano Pio, ed una di Costanzo -
                                          - Novantaquattro monete irriconoscibili per l'ossido.



                                          QUINTO VANO

                                          In prossimità della suddetta camera,  ebbe luogo la scoperta di altro piccolo vano con dimensioni identiche a quelle della camera, con la porta orientata a sud-ovest. Vi si raccolsero i seguenti oggetti:

                                          CIPPO A TESTA DI GUUERRIERO
                                          BRONZO
                                          - Statuetta m 0,06, di uomo barbato, ignudo che appressa la mano sinistra alla fronte, rotta in più parti e mediocre - Due anelli semplici da dito, diam. m. 0,015 - Altro simile diametro di m. 0,017 -
                                          - Oggetto lungo m. 0,17, con cinque fori, forse una serratura - Piccolo candelabro ad imitazione di un tronco d'albero, alto m. 0,275. Ha tre cornetti o foglie ricurve, una rotta come un piedino della base -
                                          - Oggetto lungo m 0,06, con sopra un piccolo delfino attortigliato - Altro a mezza luna, largo m 0,07 -
                                          - Grande capocchia, diam. m 0,025 - Piccolo pezzo di aes rude - Manico di vaso diam. m 0,07 -
                                          - Anello da dito con punte sporgenti, diam. m 0,016 - Frammento di altro anello semplice -
                                          - Chiavetta lunga m. 0,043 - Anello a forma di armilla diam. m 0,05 -
                                          - Altro più piccolo e rotto, diam. m. 0,032 - Altro semplice di filo di rame, diametro m. 0,05 -
                                          - Idoletto arte locale, alto m 0,05, senza gamba sinistra - Otto frammenti di oggetti vari -
                                          - Settantacinque monete di diverso modulo, ossidate.
                                          ARGENTO
                                          - Piccolo fiammento, forse di orecchino - Anello semplice da dito, diam. m. 0,017 -
                                          VETRO
                                          - Manico di anfora con collo, color turchiniccio, lungo m 0,08 - Piede circolare di vasetto con punte sporgenti, diam. m 0,04 - Frammento di armilla, color olivastro, diam. m 0,08 - Frammento di altra, di colore scuro - Piccolo disco piede di tazza, con rilievo di un busto di uomo barbato -
                                          OSSO
                                          - Cinque aghi crinali semplici, da m. 0,165, con tre fori in testa, a m. 0,07 -
                                          FERRO
                                          - Anello, diam. m, 0,04 - Cilindro a forma di chiodo, lungo m. 0,20 -
                                          PIETRA
                                          - Piccola base di colonna di marmo bianco m 0,24X0,24 - Piccola macina di puddinga, circolare, m. 0,32 X 0,18, con foro al centro - Altra macina del diametro di m. 0,37 X 0,21 - Frammento di marmo, di cornice architettonica, m. 0,21 - Alcuni frammenti di lastre in marmo bianco.
                                          - Due dischi di serpentino, quasi sferici, il maggiore m 0,10 X 0,145; il minore m 0,08 X 0,11 -
                                          FITTILI ARETINI
                                          - Piede di tazza, diam. m 0,095, col bollo: A/I - Altro frammento, diam. m. 0,06 col bollo: L • P • S -
                                          - Frammenti di piedi di vasetti e tazze di varie forme e grandezze, con bolli non decifrabili -
                                          FITTILI ORDINARI di arte locale.
                                          - Bordo di grande ziro, largo m. 0,20, col bollo: LiRRA CHtl - Frammenti di tegole con marche incomplete e ripetute - Altro frammento m 0,14 X 0,11 con impressione di un priapo, al centro una croce e un piccolo ornato di cuori o foglie - Peso da telaio con piccolo foro m. 0,10 X 0,07 X 0,06 -



                                          SESTO VANO

                                          In seguito alla precedente fu scoperta la camera, di uguali dimensioni, e costruzione; la porta è orientata a sud-ovest, dal lato del Paglia, come le altre due. Nello spurgo della terra si raccolse:
                                          BRONZO
                                          - Statuetta alta m 0,08 di Mercurio in piedi, ignudo; con la sinistra tiene il caduceo e sulla spalla e sul braccio ha avvolta la clamide. Nella destra, protesa, sostiene una testa di animale, e presso il piede destro è un piccolo montone. Ha la testa cinta da una corona di tre foglie.
                                          - Beccuccio a testa di leone, di un vaso - Frammento di anello da dito, con pastiglia incastonata, ove è impressa una figurina - Disco diam. m 0,08, con cinque fori e giri concentrici a sbalzo, rotto in parte -
                                          - Altri tre dischi mezzani, diam. m 0,062 ciascuno, uno rotto, ed altro con lieve traforo - Altri sei più piccoli, m. 0,05 ciascuno, tre mancanti e rotti - Altro piccolissimo, semplice, m. 0,03, rotto.
                                          - Vasetto del diam, alla bocca m 0,05, e 0,04 alla base, con quattro anellini per appenderlo -
                                          - Chiodo m. 0,095 con bella capocchia e punta acuminata, per trapano -
                                          - Settantuno monete, ossidate, di vario modulo, tutte irriconoscibili per l'ossido.



                                          SETTIMO VANO

                                          Poi furono scoperte due camere. Nella prima, partendo dal piano di campagna, si discende per una piccola scala composta di quattro gradini, lunghi ognuno m. 1,53, alti m. 0,22, larghi m. 0,29. In questo vano di m. 5,57 x 2,02 x 0,81, osservasi una traccia di vasca di m. 1,12 x 0,82 x 0,22; quattro pilastrini di opera incerta, in parte rovinati e caduti. Dalla parte della collina, ad un livello più basso di m. 1,61 vi è l'altro vano m 5,50 X 1,56.
                                          Aderente al muro superiore, ove, in alto, sono due nicchie semicircolari del diam. di m 0,84 ciascuna, vi è nel pavimento un canaletto, m. 0,34 X 5,50 che serviva per scaricare l'acqua nella corsia; e dal lato opposto, discretamente conservate, tre vasche da bagno, di arenaria. Ognuna m. 1,40 x 0,82 x 0,81. Si rinvennero nelle due camere i seguenti oggetti:

                                          VETRO
                                          - Globetto rigato, forato, per collana - Bottone color biancastro -
                                          FITTILI SEMPLICI
                                          - Due lucerne con bolli indecifrabili; una di esse è rotta - Piccola tazza semplice, diam. m. 0,07 -
                                          - Frammenti di due lucerne; in una un giovane genuflesso, nell'altra un amorino, a stampo -
                                          - Tazza semplice ad imitazione dei fittili aretini; diam., alla bocca, m. 0,09 -
                                          FITTILI ARETINI
                                          - Otto frammenti di vasetti e tazze di più forme e grandezze.



                                          OTTAVO VANO

                                          Proseguirono le indagini, seguendo sempre la corrente del fiume Paglia, sulla sponda sinistra; ed è stata rimessa in luce altra camera più grande delle altre, ancora non del tutto esplorata e mancante in parte del lato verso la collina. Si pote constatare che aveva due porte di accesso, una a destra,
                                          l'altra di fronte verso il Paglia. Questa misura in larghezza m. 2,06. Le dimensioni dell'ambiente sono: m. 8,45 x 4,85. La parete meglio conservata è alta m. 1,10. Vi si raccolsero i seguenti oggetti:
                                          FITTILE
                                          - Piccolo frammento di embrice con la marca rettangolare: MLVCVLL
                                          BRONZO
                                          - Frammento di piccola figura votiva arte locale m. 0,04 - Alcune monete di Claudio, Aureliano, Gordiano, Costantino, ed altre 57 di piccolo modulo, non decifrabili per l'ossidazione -

                                          Alla distanza di m. 5,00 circa dal muro laterale destro della camera suddetta, si rinvenne, al posto, una base di colonna, di travertino, di forma quadrata, di m. 0,60 di lato e m. 0,06 di spessore.
                                          Sulla stessa linea, a m. 3,00, venne in luce un altro frammento di colonna di travertino, in forma di rozzo cippo sepolcrale. Ha in base le dimensioni di m. 0,55 X 0,55 X 0,82.

                                          Più indietro, verso il monte, a m. 2 di distanza si scoprì una colonnetta di pietra puddinga, di forma conica, del diametro medio di m. 0,48, alta m. 0,40. Anch'essa al posto primitivo. Da ultimo, presso la sponda del Paglia, a m. 3,00 di distanza dal frammento di colonna di travertino, si incontrò una piccola vasca quadrangolare, di opera incerta, m. 0,95 X 0,45 X 0,51, che sulla destra ha un piccolo canale, di m. 0,70 X 0,75 -
                                          In questo spazio di terra, senza ordine, si trovò:
                                          OSSO
                                          - Un ago crinale lungo m 0,093 - Quattro frammenti di aghi - Un bottone diametro di m. 0,022 -
                                          FITTILI
                                          - Due lucerne semplici, una rotta nel manico - Frammenti di due tazze, di fabbrica aretina.
                                          BRONZO
                                          - Anello semplice per catena, m. 0,04 - Piccola armilla con righette, diam. m 0,04 rotta -
                                          - Pendaglio a mezza luna, m. 0,06, con due fori all'estremità - Disco con foro al centro, e giri concentrici; diam. m. 0,064 - Altro più piccolo, diam. m. 0,058, un poco rotto -
                                          - Frammento di altro disco con testa di uomo imberbe al centro, fatta a sbalzo, diam. m. 0,042 -
                                          - Altro semplice, diam. m. 0,062, con cinque fori, e rotto - Frammento di lastra di m. 0,06X0,085 -
                                          - Piccola chiave m. 0,05 - Anello semplice m. 0,02 - Altro più piccolo m. 0,025, con piastrina -
                                          - Altro semplice e rotto, diam. m. 0,018 con piastrina ed incisione indecifrabile.
                                          - Varie monete di Probo e Costantino - Altre 624 monete corrose ed ossidate -
                                          PIOMBO
                                          - Una tessera -

                                          Nuove esplorazioni In contrada Pagliano dell'ex fendo Corbara. 18 maggio - 22 giugno. Fu sospesa la prosecuzione dei lavori di scavo del grande edificio termale romano, presso le camere segnate coi numeri 18 e 20. Fu invece incominciato uno scavo dal lato est della tenuta, presso la destra del Tevere, dove erano state iniziate alcune riparazioni a difesa di quella sponda, e precisamente nell'angolo di confluenza del fiume Paglia. Si rimise in luce qualche resto di antico muro; nello spessore del quale si ebbe a riconoscere una traccia di gradinata che scendeva in qualche vano, ora non più visibile, in direzione del Tevere, e nel limite della sponda destra. Degli oggetti sparsi in disordine, si notano i seguenti:

                                          FITTILI
                                          - Parte superiore di una lucerna con tibicine barbato, seduto e seminudo; m. 0,07 - 
                                          - Cilindro a punta; lung. m. 0,18, diam. m. 0,06 con linee formate quasi a spira, all'esterno -
                                          FITTILI ARETINI
                                          Furono anche scoperti vari frammenti fittili aretini e campani con bolli di fabbrica.
                                          - 1. Parte di grande sottocoppa con: ALFI entro impressione di piede.
                                          - 2. Fondo grande di sottocoppa con leggenda entro sigillo a forma di piede: C-M-E
                                          - 3. Fondo frammentato di piattello. Nel mezzo è il sigillo, a forma di piede con: C- WR marca comunissima che aveva le fornaci a Fonte Pozzuolo, sotto il lato settentrionale delle mura di Arezzo -
                                          - 4. Fondo di piattello con impressione del piede, con due lettere così disposte: MR -
                                          - 5. Fondo di piattello con la nota marca: C-M VII -
                                          - 6. Fondo di piccola tazza, con leggenda entro impressione di piede: C-M VRI -
                                          - 7. Fondo di piattello con sigillo uguale al precedente -
                                          - 8. Fondo di tazzina con rozza impressione di piede, e dentro: P- AVG -
                                          - 9. Fondo di vasetto con piccola impressione di piede, su cui si legge: CORNELI -
                                          - 10. Idem con bollo rettangolare: PGR, di P. Cornelio, delle fabbriche di Cincelli presso Arezzo -
                                          - 11. Piccolo fondo di vasetto con orma di piede che contiene: GELI della Gelila -
                                          - 12. Fondo di vasetto con: C-SE in sigillo rettangolare della Sertoria (Gamurrini, iscr. aret. n. 148) -
                                          - 13. Fondo di piattello con rozza impressione di piede e dentro: TERM e sotto una X -
                                          - 14. Fondo di tazza liscia in rosso pallido. Nel mezzo, impressione di piede con: OCT -PRO -
                                          - 15. Fondo di tazzina a vernice rosso-lucida. Entro il sigillo a forma di piede : T- RGLA forse la fabbrica di T. Rufrenio. scoperta nel 1837 nella piazza di s. Agostino di Arezzo -
                                          - 16. Fondo di grande coppa con: L • VM entro impressione di piede. Spetta alla fornace di L. Unibricio (Gaiuiirrini, op. cit. u. 384) -
                                          - 17. Nel fondo di vasetto liscio entro la solita forma del piede, malamente impresso: PRIJW -
                                          - 18. Fondo di piattello con RASINI entro segno di piede -
                                          - 19. Fondo di tazzina colla solita impressione del piede con: T • R- S PI 20 -
                                          - 20. Idem a vernice rossa sfamata in fornace. Nel mezzo sigillo rettangolare con: L- L VCI Sotto il fondo una T. Appartiene forse alle fabbriche della Campania -
                                          - 21. Fondo e parte di orlo di una tazzina verniciata rosso pallido, forse della Campania. Entro piccola orma di piede, a lettere nitide: L • EOPOR -
                                          - 22. Fondo di tazzina liscia con il bollo precedente. Sotto due graffiature in croce -
                                          - 23. Idem verniciato di rosso pallido, segnato con sigillo a forma di piede: LEOPO -
                                          - 24. Vasetto campano a vernice pallida che ripete il sigillo precedente -
                                          - 25. Fondo di tazzina con piccola impressione di piede, contenente la leggenda: LE-PR -
                                          - 26. Altro fondo di tazzina campana recante entro l'orma di piede: L- EOP -
                                          - 27. Fondo di vasetto con orma di piede e con : L-E -
                                          - 28. Fondo di tazzina campana con leggenda entro impressione di piede: L • EOTP -
                                          - 29. Fondo di tazza con sigillo a forma di piede, debolmente impresso: L -
                                          - 30. Fondo di tazzina delle fabbriche campane. Entro il sigillo a forma di piede: L-P- Z- -
                                          - 31. In altri sette frammenti i sigilli sono indecifrabili, A. Fasqci -
                                          BRONZO
                                          - Anello semplice da dito; diam. m. 0,02 - Altro più grande m. 0,025 - Mollette lunghe m. 0,09 -
                                          - Ditale m. 0,018 - Manico di un vaso a boccale, lungo m. 0,14, con pendaglietto mobile -
                                          - Campanello m. 0,12 X 0,06, senza battaglio - Sei piccoli frammenti di niun valore -
                                          - Monete di Augusto, Germanico, Traiano. Altre di vario modulo, ossidate e corrose -
                                          - Frammento di serratura con sei piccoli fori - Stilo lungo m. 0,058 senza capocchia.
                                          MARMO
                                          - Frammento lungo m. 0,27 di color giallognolo, con baccellature incavate, disposte a circolo.


                                          BIBLIO

                                          - Caravale A. - Museo Claudio Faina di Orvieto - Vasellame - Perugia - Electa - 2006 -
                                          - Caravale A. - I bronzi del Museo Claudio Faina di Orvieto: una banca dati - in P. Basso, A. Caravale, P. Grossi (eds.) - ArcheoFOSS. Free - Libre and Open Source Software e Open Format nei processi di ricerca archeologica - 2016 -
                                          - Della Fina G.M. - Tra archeologia e museologia - in A. Caravale - Museo Claudio Faina di Orvieto - Bronzetti votivi - Perugia - Electa - 2003 -

                                          PONTE FUNICCHIO (Lazio)

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                                          PISCIN DE POLVERE

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                                          Il fosso Piscin di Polvere, è un modesto corso d’acqua che all’altezza del km. 1,400 della strada provinciale Vitorchianese (in provincia di Viterbo) inizia, in direzione Nord e con il nome di fosso dell’Acqua Bianca, un piccolo e tortuoso percorso tra alture e declivi fino a confluire nel fosso dell’Acquarossa, accanto al centro etrusco omonimo.

                                          Sul Piscin De Polvere sembra si conservino ancora tre ponti romani o etrusco - romani, il primo è il Pontaccio, che dovrebbe essere di origine etrusca, il secondo il ponte delle Caselle, il terzo il ponte della Strega (qualcuno lo chiama ponte del diavolo), e il quarto è il ponte Funicchio, detto anche Finocchio per deturpazione del linguaggio nell'uso popolare, che invece dovrebbe essere romano, anche se qualcuno ne propugna un'origine etrusca.

                                          PONTE FUNICCHIO

                                          PONTE FUNICCHIO"Noi l'abbiamo scoperto in maniera un pò inconsueta. Sapevamo della sua esistenza dalla lettura del Giannini "Centri Etruschi e Romani dell'Etruria Meridionale". Nel capitolo dedicato a Ferento viene evidenziata dall'autore la presenza di ben tre ponti di epoca etrusco-romana sul fosso Piscin di Polvere posti a una distanza di appena duecento metri l'uno dall'altro: il ponte Funicchio, il Pontaccio e il ponte delle Caselle.

                                          Pensavamo che fossero rimasti in loco pochi resti e non abbiamo mai dato importanza alla cosa finchè, navigando su ebay, ci siamo imbattuti in una cartolina del 1904, che raffigurava una imponente costruzione a due arcate ottimamente conservata e la scritta 
                                          " Viterbo, Ponte Etrusco detto Ponte Funicchio sul fosso Piscin di Polvere ". 

                                          Una breve ulteriore ricerca e troviamo sul sito viterboincartolina.it una card molto simile, sempre dei primi anni del 1900, con una foto del ponte e due persone che vi si affacciano, a testimonianza del fatto che all'epoca era ancora accessibile.


                                          Naturalmente abbiamo cercato informazioni sullo stato attuale del ponte e sull'accessibilità dei luoghi. L'opera ancora esiste e si eleva in tutta la sua imponenza, sia pur avvolto da una generosa vegetazione. 

                                          Recentemente l'abbiamo visitata, qui sotto troverete il video della nostra escursione pubblicato su youtube nella serie Nuovi Grand Tour della Tuscia.

                                          Sempre dal Giannini: il ponte è largo mt. 2,60 e alto 16 metri circa. Ha due arcate che poggiano direttamente sui fianchi delle scoscese rupi di peperino. 

                                          Il pilastro centrale poggia su enormi massi, caduti sul fondo del torrente. Costruito in opera quadrata regolare con bugnato, sembra doversi attribuire alla fine del II secolo a.c.. "

                                          Il ponte, in conci di un tipo molto compatto di peperino, è edificato appunto in pietra locale,
                                          Il percorso è attualmente sbarrato da un'alta recinzione con filo spinato, e i cartelli delimitatori riportano "zona addestramento cani con sparo". Sembra impossibile oramai ogni passaggio, però si può invece arrivare al Funicchio dalla strada Pian del Cerro, chiedendo autorizzazione ai proprietari del fondo di visitare il sito.


                                          BIBLIO

                                          - Degli avanzi delle antichità - Bonaventura Overbeke - a cura di Paolo Rolli - Tommaso Edlin - Londra - 1739 -
                                          - Vittorio Galliazzo - I ponti romani - Vol I - Treviso - Edizioni Canova - 1995 -
                                          - A. Seppilli - Sacralità dell'acqua e sacrilegio dei ponti - Sellerio Editore - Palermo -
                                          - Sabrina Laura Nart -  Architettura dei ponti storici in muratura - In: Strade e Autostrade - n. 76 - 2009 -
                                          - Vittorio Galliazzo - I ponti romani - Catalogo generale - Vol. 2 - Treviso - Edizioni Canova - 1994 -

                                          VILLA ROMANA DI LITTLECOTE (Inghilterra)

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                                          La villa romana di Littlecote è stata rinvenuta nella contea inglese del Wiltshire, nel sud-ovest dell'Inghilterra, vicino a Hungerford. La villa giace in una tenuta comprendente 34 ettari di parchi e giardini storici, un vero accumulo di tesori. La villa romana è stata scavata archeologicamente sotto la direzione di Bryn Walters ed è oggi visitabile. 

                                          Nelle varie stanze ed edifici ci sono delle bacheche che spiegano dettagliatamente la funzione di ogni stanza e di ogni edificio all'epoca in cui erano in funzione. A proposito della contea inglese del Wiltshire, vicino al sito della città romana di Cunetio, a poche miglia a ovest lungo la valle del fiume Kennet, nel 1978 è stato trovato il tesoro Cunetio di quasi 55.000 monete romane del 200 d.c. ma con bassa percentuale di materiale di valore. 


                                          Si pensa che l''insediamento romano di Littlecote sia iniziato come un piccolo stabilimento militare di breve durata a guardia di un guado del fiume Kennet. Al suo abbandono seguirono sullo stesso sito delle capanne circolari edificate dalle tribù locali intorno al 70 d.c..

                                          Successivamente alle capanne si sovrappose un edificio rettangolare di stile romano, circa cinquant'anni dopo, dedicato all'attività artigianale che ha riguardato forni per vasi e anfore di terracotta, vasche per fare la malta e delle mole per gli impasti cementizi: insomma un centro muratorio per le edificazioni in pietra e in cemento.


                                          Dopo altri cinquant'anni, questa attività fu sospesa e al posto del suo edificio, anzi sopra ad esso, fu edificata una grande villa a due piani con una corte e delle terme. Questo edificio subì una serie di modifiche nel corso dei secoli successivi, ma soprattutto un'importante ricostruzione intorno al 270 d.c., quando evidentemente il terreno venne acquistato da un uomo di potere.
                                           
                                          La villa aveva una serie di mosaici ma c'erano pure una vasta attività agricola, dei laboratori distaccati, dei fienili e una grande portineria. Intorno al 360 d.c., come è attestato da prove numismatiche, l'attività agricola venne terminata e il complesso venne trasformato in un istituto religioso.

                                           
                                          RICOSTRUZIONE DELLA VILLA

                                          Un grande fienile fu convertito in un cortile e fu costruita una sala triconch insieme a delle terme o bagni. Triconch, dal greco "quattro conchiglie", è una chiesa o un edificio religioso, con quattro absidi di uguale lunghezza nelle 4 direzioni, pertanto a croce greca, molto comuni in epoca bizantina.

                                          RICOSTRUZIONE DELLA VILLA
                                          La sua forma comunque poteva riguardare anche un mausoleo o un battistero. Normalmente, c'era cupola centrale più alta sullo spazio centrale. Sul suo pavimento era posato un ormai famoso "Mosaico di Orfeo" scoperto per la prima volta nel 1727 dallo Steward della tenuta del Parco Littlecote.

                                          Questo mosaico è di solito interpretato in termini religiosi pagani molto articolati con la presenza non solo di Orfeo, ma di Bacco e Apollo, pertanto è ritenuto un santuario o comunque un edificio sacro dedicato al culto di questi due ultimi Dei. 

                                          Altri edifici dovettero servire per ospitare i pellegrini in visita, a nostro avviso doveva trattarsi probabilmente di una scuola misterica del culto misterico orfico, dove Bacco ha il senso notturno di Dioniso e Apollo quello diurno della coscienza esteriore. 

                                          Si ritiene che il luogo di culto sia associabile al risveglio del paganesimo sotto l'imperatore Giuliano (361-363). Molti edifici vennero demoliti dai cristiani intorno al 400 d.c., poco dopo la legislazione teodosiana contro il paganesimo e prima del ritiro romano dalla Gran Bretagna.

                                          Purtroppo l'intransigenza cristiana non solo pose fine alla civile tolleranza e addirittura accoglienza romana verso le altre religioni ma privò il mondo di preziosissimi capolavori di arte pagana mai più eguagliata.



                                          IL RITIRO ROMANO DALLA GRANBRETAGNA

                                          RICOSTRUZIONE DELLA VILLA

                                          Nel 383, l'usurpatore Magnus Maximus ritirò le truppe dalla Gran Bretagna settentrionale e occidentale, e intorno al 410, i Romano-Britannici cacciarono i magistrati dell'usurpatore Costantino III che aveva spostato la guarnigione romana dalla Gran Bretagna in Gallia, lasciando l'isola agli attacchi dei barbari.

                                          L'imperatore romano Onorio accettò l'autogoverno britannico temporaneo, avendo a che fare con i Visigoti e Alarico, con la stessa Roma sotto assedio. Invece secondo Zosimo l'appello di aiuto da parte delle comunità britanniche fu respinto dall'imperatore Onorio nel 410 d.c. Verso la metà del VI secolo lo storico Procopio riconobbe che il controllo romano della Britannia era completamente perduto.

                                          Il grande archeologo e storico Theodor Mommsen (Gran Bretagna - 1885) disse che "non era la Gran Bretagna a rinunciare a Roma, ma Roma a rinunciare alla Gran Bretagna ...", sostenendo che i bisogni e le priorità dei romani erano altrove. La posizione degli studiosi nel corso del tempo fu soprattutto a favore di tale interpretazione.


                                          BIBLIO

                                          - Scavi archeologici nel Littlecote Park - Wiltshire 1978 - primo resoconto intermedio  -1979 - 
                                          - B Walters e B Phillips - "Apollo, bestie e stagioni: alcuni pensieri sul mosaico del littlecote" - JMC Toynbee - Britannia -  Vol. 12 - 1981 -
                                          - Frere, Sheppard Sunderland - Britannia: A History of Roman Britain - vol III - London - Routledge & Kegan Paul - 1987 -
                                          - Martin Millett - The Romanization of Britain - Cambridge - Cambridge University Press - 1990 -
                                          - Mattingly, David - An Imperial Possession: Britain in the Roman Empire - London - Penguin Books - 2007 -

                                           

                                          LEONE IV

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                                          0
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                                          LEONE IV E IRENE AI LATI DELLA MADONNA


                                          Nome: Leone IV il Cazaro, Léōn D ho Cházaros
                                          Nascita: Costantinopoli, 25 gennaio 750
                                          Morte: Costantinopoli, 8 settembre 780
                                          Dinastia: Isauriana
                                          Padre: Costantino V
                                          Madre: la prima moglie di Costantino V, Irene la Cazara
                                          Moglie: Irene
                                          Figlio: Costantino VI
                                          Regno: dal 775 al 780


                                          Iconoclasta accanito, difensore dell'impero che seppe anche espandere valendosi di bravi generali, padre premuroso a detta di alcuni, ma pure coraggioso, vendicativo e a volte crudele.



                                          IRENE

                                          Irene nacque nella nobile famiglia ateniese Saratanpechos e suo zio, Costantino Sarantapechos, era uno stratega di uno dei themi della Grecia. Ella era famosa per la sua bellezza per cui, appena rimasta orfana di padre, alcune navi andarono a prelevarla dal palazzo di Hiera, sulla riva asiatica del Bosforo, ove ella risiedeva, per portarla a Costantinopoli alla corte dall'imperatore bizantino. 

                                          IMPERATRICE IRENE
                                          La bellezza era considerata non solo un potere ma una benevolenza di Dio, pertanto dava l'idea di meriti particolari, tanto è vero che chi avesse difetti fisici non poteva aspirare al trono. Così la bellissima Irene partecipò alla "sfilata della sposa" quando, secondo l'usanza bizantina, l'imperatore decise di sposarsi.

                                          In quella sfilata le giovani aspiranti al titolo di imperatrice si presentavano con ricche vesti adorne di preziosi veli e gioielli, affinchè il futuro sposo ne selezionasse una in base alla bellezza e al portamento. Un mese più tardi, il 18 dicembre del 768, Irene e Leone si sposarono nella basilica di Santa Sofia e la bellissima sposa venne acclamata dal popolo nell'Ippodromo di Costantinopoli.

                                          Nel 775, alla morte di Costantino V, Leone divenne imperatore con il nome di Leone IV e Irene divenne imperatrice. Nel 780 però Leone riprese le persecuzioni contro gli iconoduli, anche se in modo più moderato rispetto a quelle del padre. 

                                          Nello stesso anno l'imperatore scoprì che alcuni suoi funzionari avevano procurato delle icone alla moglie iconodula Irene che ne teneva un paio sotto il cuscino. Adirato destituì i funzionari facendoli torturare e cessò il suo favore verso l'imperatrice negandole la condivisione del talamo nuziale. 

                                          ICONOCLASTIA


                                          L'ICONOCLASTIA

                                          «Adunche al tempo di Gostantino imperatore et di Silvestro papa sormontò su la fede christiana. Ebbe la ydolatria grandissima persecuzione in modo tale, tutte le statue et le picture furon disfatte et lacerate di tanta nobiltà et anticha et perfetta dignità [...] Et per leuare uia ogni anticho costume di ydolatria costruirono i templi tutti essere bianchi. [...] Finita che fu l’arte stettero e templi bianchi circa d’anni DC.»

                                          (Lorenzo Ghiberti, Commentarî, II, 1)

                                          L'iconoclastia, sorta agli inizi del 700, fu un movimento religioso cristiano-bizantino che volle abrogare ogni forma di culto per le immagini sacre distruggendo ogni immagine sia pittorica che statuaria. Sia nella religione ebraica che in quella musulmana sono proibite le immagini sacre, a sostegno dell'incapacità dell'uomo di comprendere la grandezza dell'unico Dio supremo.

                                          La venerazione delle icone diventava pertanto un'idolatria (cosa molto temuta perchè ancora viva nelle campagne) e una grande offesa al Dio Unico. Leone IV nei primi anni del suo regno fu un iconoclasta moderato, restaurando anche il Patriarca di Costantinopoli e fermando le persecuzioni contro i monaci iconoduli che anzi ottennero da lui cariche ecclesiastiche di prestigio.

                                          Con la conquista araba di Palestina, Siria ed Egitto (metà del VII secolo), le sedi patriarcali di Gerusalemme, Antiochia e Alessandria entrarono nel dominio islamico, così la sede di Costantinopoli rimase l'unico centro ecclesiastico della chiesa orientale che si contrappose a quella occidentale dandosi ogni tanto delle accuse di eresie con relative scomuniche.



                                          IL COIMPERATORE

                                          Narrano alcune fonti che il 24 aprile 776 Leone IV nominò coimperatore e suo successore il figlio Costantino dopo aver obbligato senato, esercito e ceti cittadini a giurare lealtà al figlio. Secondo Teofane, ciò avvenne invece su insistenze dell'esercito, che avrebbero insistito parecchio per spingerlo a incoronare come coimperatore il figlio.

                                          Sembra che Leone fosse restio perchè in caso di rivolta l'esercito avrebbe potuto uccidergli il figlio, ma l'esercito rispose giurando che non avrebbero accettato altro imperatore al di fuori di suo figlio; anche il popolo insistette per cui, il Venerdì Santo del 776, «tutto il popolo, ovvero quelli dei themata, i membri del senato, i tagmata della città, e tutti gli artigiani, giurarono sulla Croce che non avrebbero accettato altro imperatore al di fuori di Leone e Costantino e tutti i suoi discendenti...».

                                          Allora Leone, dopo aver nominato suo fratello Eudocimo nobilissimus, si recò con i fratelli e il figlioletto in una chiesa dove annunciò alla folla riunita che avrebbe acconsentito alle richieste e il giorno dopo (24 aprile) all'ippodromo Costantino fu incoronato dal padre di fronte al patriarca e al popolo.

                                          Ai suoi fratelli però non piacque l'incoronazione del nipote perché ambivano essi stessi alla corona imperiale: e il mese dopo, nel maggio 776, fu scoperta dall'Imperatore una congiura ordita dal Cesare Niceforo, uno dei suoi fratelli, nel tentativo di impadronirsi del potere; i congiurati vennero puniti con la tonsura e con l'esilio a Cherson. La tonsura portava all'ordinazione sacerdotale. per cui si veniva esclusi dalla lotta per il potere politico.

                                          GUERRE ARABO - BIZANTINE


                                          LE GUERRE ARABE

                                          Nel 777 Thumama, il figlio del califfo omayyade al-Walīd I, invase l'Anatolia, da cui si ritirò poi col bottino e con molti prigionieri per farne dei schiavi. Leone non reagì subito, ma l'anno successivo, però, riuscì a radunare un grande esercito bizantino di ben 100.000 uomini, affidandolo a Michele Lacanodracone, fanatico e feroce iconoclasta ma generale di talento, e ad altri strateghi.

                                          Lacanodracone invase la Siria e pose assedio a Germanicea, che sarebbe caduta se Lacanodracone non avesse ricevuto ricchi doni dagli Arabi per ritirarsi. Comunque devastò i dintorni della città e catturò numerosi eretici giacobiti, sconfiggendo e uccidendo in una battaglia 2.000 arabi. L'Imperatore, soddisfatto, concesse ai generali il trionfo, e deportò gli eretici siriani in Tracia.

                                          L'anno successivo gli Arabi cercarono di invadere Anatolia, ma l'Imperatore aveva fatto rinsaldare rinsaldare le fortezze con adeguate guarnigioni, si che gli Arabi furono costretti a ritirarsi per mancanza di rifornimenti senza aver nulla conquistato.

                                          Nel 780 però gli arabi, che non demordevano, invasero l'Armeniakon impadronendosi di una fortezza, anche se Michele Lacanodracone riuscì a ottenere una vittoria su un piccolo esercito arabo. Il fatto però non ebbe seguito perchè non conveniva fare una guerra per una sola fortezza.



                                          I BULGARI

                                          Giunto al potere nel 768 dopo un certo numero di regnanti di poca durata, il nuovo khan bulgaro, di nome Telerig, sebbene spesso i bulgari fossero stati alleati di Roma, si dimostrò subito ambizioso di conquiste e ostile verso l'Impero bizantino, pertanto l'imperatore Costantino V senza perdere altro tempo lo attaccò e lo sconfisse nel 773.

                                          Nello stesso anno, Telerig, non pago della sconfitta, tentò allora di invadere Macedonia sperando di dover affronate solo i macedoni, ma venne respinto dall'esercito bizantino, solo l'improvvisa morte di Costantino V salvò Telerig e il suo Impero bulgaro da una decisiva offensiva bizantina.

                                          La popolazione bulgara intanto, stanca di combattere, morire e subire sconfitte, si ribellò al suo Khan
                                          e nel 776 - 777 Telerig dovette implorare asilo a Costantinopoli, dove venne accolto, venne nominato patrizio, poi fu costretto a battezzarsi e a sposare una cugina della moglie del nuovo imperatore Leone IV il Cazaro. I Bulgari però, non contenti di riavere il vecchio re, attaccarono i bizantini restandene però sconfitti nel 777. Nel 778 al 779 Leone dovette nuovamente combattere gli Arabi vincendoli di nuovo ed espandendo sempre più la potenza dell'Impero bizantino.

                                          LEONE IV


                                          LA MORTE

                                          Leone IV morì apparentemente per un malore l'8 settembre 780, mentre provava una corona che originariamente era custodita in Santa Sofia;; diverse fonti, tuttavia, sottolineano la possibilità che la sua morte fosse dovuta al veleno, e conoscendo la figura della sua ambiziosissima e crudele moglie l'ipotesi di avvelenamento non appare affatto improbabile.

                                          Gli succedette il figlio Costantino, di soli 9 anni, e, data la sua tenera età, il trono di Bisanzio passò sotto la reggenza di Irene, che in seguito farà appunto accecare e uccidere il figlio per poter regnare come unica sovrana.


                                          BIBLIO

                                          - Teofane - Cronaca -
                                          Cedreno - Cronaca -
                                          - Antonio Calisi - I Difensori dell'icona: La partecipazione dei Vescovi dell'italia Meridionale al Concilio di Nicea II 787 - 2017 -
                                          - Giorgio Ravegnani - La storia di Bisanzio - Roma - Jouvence - 2004 -
                                          - Nicola Bergamo - Irene, Imperatore di Bisanzio - Milano - Jouvence - 2015 -
                                          - Warren Treadgold - A History of the Byzantine State and Society - Stanford - California - Stanford University Press, 1997 -
                                          - Ralph-Johannes Lilie, Bisanzio la seconda Roma - Roma - Newton & Compton - 2005 -
                                          - Anna Maria Fontebasso - Lettere di Pharan - l'ascesa al potere di Irene di Bisanzio - Firenze - 1988 -
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