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MAECIUM (Città scomparse)

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LE FONDAMENTA DEL CASTELLO

Maecium è una località storica del Lazio, situata nei pressi di Lanuvio, dove nel 389 a.c. ebbe luogo un'importante vittoria dei Romani guidati da Furio Camillo contro i Volsci di Velletri e i Latini. Sembra infatti che durante le invasioni galliche le popolazioni latine si siano alleate tra loro per opporsi all'espansione di Roma così che alle pendici del Mons Maecium venne combattuta nel 389 a.c. la battaglia tra l'esercito di Roma capeggiato da Furio Camillo e quello dei Volsci.



LOCALITA' DUE TORRI

La località chiamata "ad Maecium" si trovava non lontano da Lavinium e il Mons Maecium è stato identificato con Monte due Torri, dove si elevano due torri medievali che hanno dato luogo al nome. Il monte Maecium, di origine vulcanica, è alto 415 m e si trova nella proprietà privata di un agriturismo il cui edificio venne costruito dai frati Carmelitani sui resti di una cisterna romana del IV sec. a.c., al fianco della via oggi chiamata di Monte Giove.

Le strutture residue presso S.Gennaro hanno evidenziato almeno tre fasi edilizie, che testimoniano frequentazioni in età romana e medievale: 
- IV - III secolo a.c.: età medio-repubblicana (testimoniata da blocchi di tufo in opera quadrata)
- I sec a.c.- inizi I sec. d.c.: viene edificata una villa di cui si conservano i resti di una cisterna e dell’impianto termale. Particolarmente evidenti sono 3 ambienti paralleli, che fino in epoca recente sono stati utilizzati dai pastori come ricovero per il gregge. 
- XII sec. d.c.: è la fase del Castello medievale di S. Gennaro, di cui si conservano le mura di cinta e resti dei torrioni.

CASTELLO DI SAN GENNARO


CASTELLO DI SAN GENNARO

Recentemente il sito della città di Maecium è stata identificata dove sorgono i resti del castello di San Gennaro, sul Mons Maecium presso Lanuvio, nelle cui fondazioni compare una cinta muraria in opera quadrata in tufo del IV secolo a.c., sopra la quale venne eretto poi il castello medievale.

Diodoro Siculo infatti riferisce che Maecium era posta a 200 stadi da Roma, circa 36 km, corrispondenti grosso modo alla distanza attuale tra Roma e San Gennaro, il che confermerebbe il sito. Nel 389 a.c., durante la guerra contro i Volsci, i Romani apprestarono una base militare e strategica lungo l'attuale Via Appia e fortificarono un colle posto al confine col territorio dei Volsci, appunto sul fosso di San Gennaro. 

I Volsci, ritenendo che le forze di Roma fossero rimaste fiaccate dal sacco dei Galli del 390 a.c., assediarono l'esercito romano che era stanziato sul colle. I Romani assediati riuscirono comunque a far uscire dei messaggeri che sfuggirono alla vista nemica e che corsero ad avvertire il senato, il quale inviò sul posto Furio Camillo, che per la circostanza era stato eletto dittatore per la terza volta. 

Il generale romano, che era un ottimo stratega, aggirò con un lungo percorso il monte Mecio, senza farsi scorgere dal nemico, e dispose l'esercito alle sue spalle, impedendogli così ogni via di fuga. I Volsci atterriti si rinserrarono all'interno del proprio accampamento, posto nei pressi del colle, il quale era costituito da un terrapieno rinforzato da palizzate di legno. 


Ma Camillo, che combatteva più con l'intelligenza che con la forza, approfittando di un forte vento che scendeva dai monti verso l'accampamento volsco, fece lanciare dei proiettili incendiari verso la loro palizzata. Con l'aiuto del vento si sviluppò un grande incendio che avvolse tutta la cinta ed i Volsci, costretti ad uscire dal campo, trovarono i Romani pronti a sterminarli, e così fu fatto.

Dopo questa vittoria Camillo lasciò a capo dell'accampamento il giovane figlio Lucio con parte dell'esercito, per la custodia dei prigionieri e del bottino, quindi, col resto dei legionari, provvide a punire il popolo che aveva osato alzare le armi contro Roma, così invase il territorio volsco devastandolo e depredandolo. 

Una volta devastata Maecium, Furio Camillo con il suo esercito marciò verso Bola, una città degli Aequi, anch'essa oggi scomparsa, che catturò. Al suo ritorno a Roma, il dittatore celebrò un trionfo.
Era stata in effetti una vittoria importante. perchè i Romani avevano dimostrato di essere forti come prima, e per giunta ora non si limitavano a difendersi ma procedevano ad attaccare. Durante i successivi dieci anni circa, i Romani si infiltrarono sempre di più nel Lazio meridionale, che era appunto occupato dai Volsci.

Confrontando le varie versioni della guerra si può notare come il luogo che Livio chiama "Maecium" corrisponda alla medesima località che gli storici greci Diodoro Siculo e Plutarco chiamano invece "Markion", variante in greco di "Maecium". 

In epoca tardo-repubblicana, quando il sito perse la sua funzione difensiva, vi fu insediata(all'uscita di Genzano, prima della località Monte Cagnoletto), la statio Sublanuvium (la stazione di posta Sublanuvio), dove possiamo vedere, in uno slargo della strada attuale, il cippo del XIX (19) miglio intestato all'imperatore Nerva (96-98 d.c.). 



BIBLIO
 
- Appiano di Alessandria - Historia romana - libri III e IV -
- Cassio Dione - Storia romana -
- Marco Porcio Catone - Origines.
- Dionigi di Alicarnasso - Antiquitates romanae -
- Eutropio - Breviarium historiae romanae -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri -
- Plinio il Vecchio - Naturalis Historia - libro III -
- Strabone - Geografia - libro V -
- Antonio Nibby - Analisi storico-topografico-antiquaria della carta de' Dintorni di Roma - I - Roma - Tipografia delle Belle Arti - 1848 -
- Giovanni Maria De Rossi - Apiolae (Forma Italiae, Regio I, vol. IX) - Roma - De Luca - 1970 -

MATRONALIA (1 Marzo)

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GIUNONE E GIOVE

DEA GIUNONE

La festa, detta Matronalia, veniva celebrata in onore della Dea Iuno Lucina, antica Dea Giunone, divinità del matrimonio e del parto, spesso rappresentata nell'atto di allattare, la quale assunse, in seguito, le funzioni di protettrice dello Stato. La festa si celebrava il I marzo, nelle kalende Martiis, calende di Marte, divinità di cui Giunone era madre e che ebbe come unico figlio. Ma era detta anche "Femineae Kalende", calende della femmina, in quanto dedicata alle donne. 

Nella festa si celebra la dedica dell'antico tempio, avvenuta il I marzo del 375 a.c. quando venne dedicato il tempio sull'Esquilino di Iuno Lucina: Giunone che presiede ai parti. 

"Portate fiori alla dea; questa dea ama le piante in fiore; 
fate corone di fiori da mettere intorno alla testa. 
Dite: 'O Lucina, tu ci hai dato la luce'. 
Dite 'Tu sii propizia al desiderio delle partorienti'. 
"Ferte deae flores; gaudet florentibus herbis
haec dea; de tenero cingite flores caput.
Dicite: "Tu nobis lucem, Lucina dedisti";
Dicite: "Tu uoto partorientibus ades"
.

(Ovidius, Fasti, I, 253-256)

Si trattava della festa delle matrone romane, festa antichissima che risaliva ai tempi di Romolo e Tito Tazio, quando le donne sabine incitate da Ersilia, moglie di Romolo figlio di Marte, si erano frapposte tra i mariti e i padri che stavano per affrontarsi in battaglia a causa del famoso "Ratto delle Sabine" urlando grida di guerra insieme a pianti e suppliche.

Durante la festa le donne offrivano banchetti e doni ai loro schiavi, attuando un rovesciamento delle parti simile a quello dei Saturnali decembrini. La festa era all'inizio riservata alle donne che avevano contribuito alla cessazione della guerra, ma in seguito passò alle donne romane sposate, libere e non divorziate dei tempi a seguire. 



LA MATRONA

MATRONA ROMANA
La matrona era una donna che possedeva la cittadinanza romana ed aveva contratto un matrimonio romano con un uomo libero. 

Durante la repubblica romana l'unico suo ruolo era quello di prendersi cura della Domus nell'ambito della "familia", sotto la protezione e la tutela del pater familias, fosse esso il padre oppure il marito. Non le era consentito ricoprire cariche pubbliche o avviare un'attività politica.

La matrona era la "mater familias", dignitosa e rispettabile, responsabile della corretta manutenzione delle casa e della crescita dei figli; esente dal lavoro domestico e agricolo, tranne che per la filatura della lana, una tradizione che i romani facevano derivare dal Ratto delle sabine, quando queste avevano imposto ai romani le loro leggi. 

In quanto madre di famiglia la matrona ha un certo potere all'interno della casa, dirige i servi e gli schiavi e viene chiamata "domina" (padrona).



LE MATRONALIA

Le matrone romane avevano dunque una loro festa appositamente celebrata a Roma, durante le calende di marzo, denominata Matronalia che si festeggiavano il 1° marzo fin dai tempi di Romolo e Tito Tazio. 

Le donne romane recavano fiori e incenso al tempio di Giunone Lucina sull’Esquilino, la cui costruzione era tradizionalmente fatta risalire, festeggiando appunto il primo giorno di marzo del 375 a.c., la "dedicatio" del tempio.

Il culto era riservato unicamente alle donne e vietato assolutamente agli uomini. Nel tempio di Giunone Lucina sull'Esquilino le donne facevano offerte di fiori, di ghirlande, di stoffe pregiate e talvolta di monili di cui ornavano la sacra statua muliebre.

La festa delle "femineae kalendae", segnava l'inizio dell'antico calendario romano: le donne romane recavano fiori e incenso al tempio di Giunone Lucina sull'Esquilino, la cui costruzione era tradizionalmente fatta risalire al 1º marzo 375 a.c., e facevano dei voti per la gloria dei loro mariti. Dietro questa usanza c'era tutto il carattere bellico e bellicoso dei romani.

Infatti se il marito attraverso la propria legione, o addirittura a titolo personale, aveva acquisito onori in combattimento la moglie, e pure la madre, lodavano nel tempio il proprio marito e figlio, come sposo, figlio e come soldato, mostrando i doni che questi aveva loro fatto per l'occasione. Il marito, e magari figlio dal suo canto, per invogliare la moglie e la madre alla benevolenza nei suoi confronti, faceva loro lauti doni. 

Così nelle case si parlava di chi era stato lodato e chi no, oppure di chi non era presente. Gli assenti erano le donne e le madri dei soldati che avevano perduto una battaglia, o che non avevano combattuto con valore, nel qual caso mogli e madri se ne stavano a casa per la vergogna.


Poi la Iuno Lucina, Dea italica protettrice delle nascite (ma pure Dea della crescita e della morte) venne gradualmente assimilata alla Era della mitologia greca, divenendo la moglie di Giove, quindi la più importante divinità femminile che, insieme a Giove e Minerva, formava la cosiddetta Triade Capitolina.

Figlia, come Giove, di Saturno e Opi, corrispondenti nella mitologia greca a Crono e Rea. Giunone era anche la protettrice degli animali, festività molto sentita nelle campagne tra i pastori, e in particolare le era sacro il pavone.

Il collegamento col culto di Giunone Lucina, protettrice delle nascite, trasformò la festività nella celebrazione delle nascite, ma l'esaltazione degli uomini guerrieri si mantenne sempre, perchè i romani erano anzitutto i figli di Marte, Dio della guerra, e pertanto guerrieri.

"Tu, che sai blanda schiudere i maturi
parti, le madri tu proteggi, Ilizia,
o che Lucina esser nomata voglia
o Genitale.
Cresci la prole, prospera i decreti
dei Padri, o Diva, per le muliebri
nozze, e la legge maritale di nuova
prole feconda... "

(Ars Poetica - Orazio)

Ma affinchè le donne non fossero solo la tutela della gloria maschile, e considerassero sempre il loro lato materno e affettivo, nella festa si facevano banchetti tra le donne e a favore degli schiavi, che venivano serviti dalle matrone.



TEMPIO DI GIUNONE LUCINA

Il tempio di Giunone Lucina, dedicato sul colle Esquilino alla divinità protettrice delle partorienti, era il luogo presso cui si celebravano le Matronalia. Già prima dell’edificazione del tempio sull’Esquilino il culto di Giunone Lucina era attivo in un bosco sacro (lucus, da cui potrebbe derivare l’epiteto della Dea Lucina). Varrone assegna l’introduzione del culto a Tito Tazio, re dei Sabini.

Nel 190 a.c. il tempio fu colpito da un fulmine, che ne danneggiò timpano e porte, per il quale si fecero riti di espiazione. Nel 41 a.c., il questore Quinto Pedio costruì o ristrutturò un muro che probabilmente recintava sia il tempio sia il bosco sacro. Alcune iscrizioni ne testimoniano l’esistenza anche in età imperiale. 

Tuttavia del tempio non vi è alcun riscontro archeologico. Dalle fonti si sa che sorgeva sul versante settentrionale dell’Esquilino, all’interno del bosco sacro in cui già per tradizione si esercitava il culto per la Dea. Secondo Plinio il Vecchio si trattava di un antico bosco di loti. 

Era opinione di Varrone invece che il tempio sorgesse sul monte Cispio, nei pressi del sesto sacrario degli Argei. Probabilmente doveva collocarsi poco a ovest della Basilica di Santa Prassede e appena a nordovest della Torre Cantarelli, nei cui dintorni sono state rinvenute iscrizioni relative al culto.


BIBLIO

- Plutarco - Vita di Romolo - XXI -
- Tito Livio - Storia di Roma - VII - Mondadori - Milano -
Andrea Carandini - La nascita di Roma. Dèi, Lari, eroi e uomini all'alba di una civiltà - Einaudi - Torino - 1997 -
- Raymond Bloch - Tite-Live et les premiers siècles de Rome - 1965 -
- Publio Cornelio Tacito - Annales -
- John F. Donahue - "Towards a Typology of Roman Public Feasting" in Roman Dining - A Special Issue of American Journal of Philology  - University Press - 2005 -
- Georges Dumézil - Feste romane - Genova - Il Melangolo - 1989 -

CASA ROMULI - TUGURIUM ROMULI

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RICOSTRUZIONE GRAFICA

La Casa Romuli ("capanna di Romolo"), detta anche "tugurium Romuli", era ritenuta la dimora del fondatore e primo re di Roma, Romolo ( 771-717 a.c.), situata all'angolo sud-occidentale del colle Palatino, dove scende verso il Circo massimo, vicino alle "Scale di Cacus", sulle cui cime terminava la Roma quadrata.

Si trattava della capanna tradizionale da contadini latini, con un'unica stanza, il tetto di paglia e pareti di frasche e fango, fedelmente riprodotte in miniatura nelle urne funerarie della cosiddetta cultura laziale, nel territorio del Latium vetus, cioè l'attuale Lazio centro-meridionale, tra la tarda età del bronzo e l'età del ferro (X - VI secolo a.c. circa). Lo sviluppo della cultura laziale coincide con la storia più arcaica del popolo latino.

 

GLI INCENDI

Nel corso dei secoli, la casa è stata ripetutamente danneggiata da incendi e tempeste, ma sempre restaurata con religiosa accuratezza. La distruzione da fuoco viene riportata nel 38 a.c., durante una cerimonia svoltasi all'interno della casa da parte dei pontefici, forse una cerimonia sull'altare del fuoco probabilmente sfuggito al controllo.

Un altro incendio viene riportato al 12 a.c, per la morte di Marco Vipsanio Agrippa, genero e braccio destro del primo imperatore romano, Augusto (regnante dal 27 a.c. al 14 d.c.), quando l'incendio venne propagato da alcuni corvi che fecero cadere pezzi di carne infuocata, ancora una volta strappati da un altare, sul tetto di paglia. Una versione poco credibile perchè mai dei corvi sfiderebbero il fuoco sia pure per cibarsi. 



I VARI TUGURII FAUSTOLI

Qualcuno ha ipotizzato che un certo "Tugurium Faustuli" sul Palatino, citato una sola volta dallo scrittore Gaio Giulio Solino ( 210 circa – dopo il 258) nel suo libro "Collectanea rerum memorabilium" (raccolta di cose memorabili) fosse in realtà la casa Romuli ancora esistente. Invece una seconda casa Romuli è riportata nelle fonti classiche, sul colle Capitolino, probabilmente una replica dell'originale, collocata accanto alla Curia Calabra. È l'ultima menzionata e risale al 78 d.c..

Le fondamenta della dimora sono state scavate nella roccia tufacea, con un perimetro di 4,9m x 3,6m a forma ovale. Sei incavi sul terreno disposti in un cerchio, di cui uno in centro, erano presumibilmente per alloggiare, rispettivamente, i montanti di sostegno per le pareti e per il tetto. Materiale organico trovato nel sito è stato datato alla prima età del Ferro italiana (ca. 900-700 ac).

In effetti a tutt'oggi gli archeologi non sono stati in grado di identificare definitivamente la casa Romuli da eventuali resti ancora esistenti, anche se alcune personalità autorevoli come il Prof. Carandini ne ha dichiarato il riconoscimento durante gli scavi nel 1946.

I FORI DEI PALI DELLA CASA ROMULI


ROMA. LA REGGIA DI ROMOLO ESISTE DAVVERO
Secolo d'Italia, Roma, 15/2/2005

Gli storici antichi avevano ragione, quelle antiche leggende sulla nascita di Roma sul Palatino che convergevano nell'indicare come dies natalis della Città Eterna il 21 aprile del 753 a.c. non erano solo leggende. Se oggi l'archeologia va a braccetto con la tradizione mitica che è impressa nella memoria fin dal nostro primo sussidiario lo dobbiamo alla pazienza e alla perizia del professor Andrea Carandini, docente e archeologo della Sapienza di Roma.

Narra la leggenda che Romolo tracciasse sul colle Palatino un solco quadrato e costruisse intorno al perimetro una piccola fortificazione. Sul lato nord-ovest del Palatino si dice sorgesse il mitico Tugurium Romoli, la dimora del primo re Romolo tanto nominata dagli storici antichi, da Cristo da Diocle di Pepareto a Fabio Pittore, sino a Tito Livio, quanto a noi sconosciuta. Fino a ieri. Il professor Carandini l'ha trovata finalmente la casa di Romolo, nel corso di una campagna di scavi al Foro Romano che passerà alla storia dell'archeologia.

Ebbene sì; è la Reggia dei Re di Roma, una casa sontuosa e monumentale di 345 metri quadri, 105 coperti e 240 di cortile. La notizia della scoperta l'ha data in questi giorni proprio lui, il professore che da 20 anni, con i suoi studenti dell'Università La Sapienza conduce ricerche sul Palatino per ricostruire le origini di Roma. La Reggia si trovava accanto al santuario di Vesta, fuori dalle Mura Palatine.

Grosse buche di pali, fosse di fondazione, piccoli elevati di mura in argilla: sono gli elementi che Andrea Carandini, da 20 anni con i suoi studenti dell'Università La Sapienza alle prese con le ricerche sul Palatino, ha trovato proprio dentro il Santuario di Vesta, tra le mura dell'età di Romolo, che aveva scoperto già nel 1987 nel Foro romano. «Sono i resti - ha detto Carandini - di un grande palazzo della metà dell'VIII secolo a.c., che potrebbe essere la casa dei primi re di Roma: un grande edificio, realizzato però ancora con tecnica capannicola, con i tetti in materiale vegetale, ma con una grande corte e un salone per i banchetti». 

(Secolo d'Italia)

TUGURIUM ROMULI


L'ERRORE, LA CASA E LA REGGIA

L'errore sta nel fatto che spesso si identifichi la "Casa Romuli" o "Tugurium Romuli" con la "Regia Romuli" detta anche semplicemente "Regia". Teniamo a precisarlo, l'errore non è di Carandini ma dei giornalisti che a volte fanno confusione. La Regia Romuli, o Regia, sembra che in realtà non sia appartenuta a Romolo ma sia stata usata da Numa Pompilio (754 a.c. – 673 a.c.), il secondo re di Roma, in poi, e si erigeva nel Foro Romano, una casa sontuosa e monumentale di 345 metri quadri, 105 coperti e 240 di cortile.

La "Casa Romuli" o "Tugurium Romuli" non era affatto una reggia, ma un'umile e piccola capanna di 4,9 m x 3,6 m a forma ovale, che non raggiunge i 20 mq, e che è locata sul Palatino, le cui fondazioni, scavate nella roccia, sono datate all'Età del Ferro, esattamente nel periodo che va dal 900 a.c. al 700 a.c., e il Colle Palatino è la locazione tradizionale della casa di Romolo.

D'altronde la tradizione data la fondazione di Roma al 753 a.c., ma la sua area venne abitata secoli prima. Comunque, alcune parti della cinta muraria vennero costruite molto prima, rivelando che una città sorse in quell'area già nel 730 a.c.. 

Le capanne furono danneggiate e riparate più volte, soprattutto nel 38 dopo che un incendio scoppiò durante una cerimonia in cui si celebrava la distruzione della maggior parte delle abitazioni di Romolo. Un altro incendio fu segnalato nel 12 a.c., ma la Casa Romolo probabilmente sopravvisse fino al IV secolo. Le fondamenta delle capanne oggi visibili sono scavate nella roccia tufacea del Colle Palatino e furono scoperte durante gli scavi del 1946.

BIBLIO

- Frank E. Brown - The Regia, in Memoirs of the American Academy in Rome - vol. 12  - 1935 -
- Flaminio Vacca - Memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi della città di Roma - 1594 -
- Tacito - Annali - XV -
- Filippo Coarelli - Il Foro Romano. Periodo Arcaico - Roma - 1983 -
- Filippo Coarelli - Il foro boario: dalle origini alla fine della repubblica - Roma 1988 - ed Quasar -- Giacomo Boni - Foro Romano: nuovi frammenti marmorei degli Acta triumphorum e dei Fasti consulares - Roma - Notizie degli Scavi - 1904 -


BATTAGLIA DEL LAGO CURZIO - LACUS CURTIUS

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MARCUS CURTIUS IN SELLA AL SUO CAVALLO SI GETTA NELLA VORAGINE

La battaglia del lago Curzio avvenne nei primi anni di regno del primo re di Roma, Romolus, che guidò il suo esercito contro Titus Tatius e il suo esercito sabino, nel periodo fra il 753 ed il 751 a.c. Secondo la tradizione, o la storia, la guerra fu a seguito al ratto delle Sabine compito dai romani a danno del popolo sabino. Il Lacus Curtius deve il suo nome alla gens Curtia, secondo quanto riportano Tito Livio e Marco Terenzio Varrone.

Il lacus Curtius non era un lago ma una infossatura del Foro Romano, presso la Curia, pavimentato in epoca cesariana e in epoca augustana, tanto che se ne conservano due tratti della pavimentazione in travertino e un tratto di epoca precedente in tufo. Sul lato orientale è la vera di un pozzo che designa il luogo come sacro. Un pozzo nel Foro poteva infatti avere solo uno scopo sacrale per effettuare riti particolari, forse proprio in memoria della famosa battaglia del Lacus Curtius.

        RESTI ATTUALI DEL LACUS CURTIUS CON IL BASSORILIEVO

LA VICENDA

I Romani una volta fondata la città sul Palatino, cominciarono ad estendersi, secondo Livio ormai "così potenti da poter rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni". Ma la città era stata ostello di briganti, esuli e fuggitivi conquistandosi pertanto una fama di temibilità ma pure di rozzezza che poco piaceva agli altri popoli che non concedeva pertanto le proprie figlie in spose.

« ..Romolo su consiglio dei Senatori, inviò ambasciatori alle genti vicine per stipulare trattati di alleanza con questi popoli e favorire l'unione di nuovi matrimoni... All'ambasceria non fu dato ascolto da parte di nessun popolo: da una parte provavano disprezzo, dall'altra temevano per loro stessi e per i loro successori, ché in mezzo a loro potesse crescere un simile potere. »
(Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)

« Quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo e tutti erano concentrati sui giochi, come stabilito, scoppiò un tumulto ed i giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze. Molte cadevano nelle mani del primo che incontravano. Quelle più belle erano destinate ai senatori più importanti... »

(Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)

Terminato lo spettacolo i romani si gettarono dunque sulle fanciulle e le rapirono, e i genitori delle fanciulle impauriti scapparono e accusarono i Romani di aver violato il patto di ospitalità. Romolo riuscì a placare gli animi delle fanciulle che pian piano accettarono le attenzioni e le cure dei Romani nei loro confronti.



LA BATTAGLIA

All'epoca certi reati non si sanavano attraverso gli ambasciatori ma con le battaglie. Naturalmente i popoli offesi presero le armi e vennero sconfitti dai Romani, prima i Ceninensi, poi gli Antemnati, e poi i Crustumini. Ora era la volta dei Sabini e si racconta della vergine vestale Tarpeia, figlia del comandante della rocca Spurio Tarpeio, che, corrotta con dell'oro da Tito Tazio, fece entrare nella cittadella, fortificata sul Campidoglio, un drappello di armati con l'inganno e morì per mano degli stessi assalitori. 

Una volta che i Sabini ebbero occupato la rocca, i due nemici si schierarono ai piedi del Palatino e del Campidoglio, avendo a capo: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i Romani. Il campo di battaglia era circondato da molte colline, non offrendo alle due armate vie di fuga, per cui si doveva combattere o morire. Inoltre in quei giorni, a causa di ingenti piogge, era straripato il fiume che attraversa il foro, lasciando una melma densa, che poteva ingoiare combattenti e cavalli.

Durante la battaglia che seguì accadde che Osto Ostilio, amico di Romolo, suo luogotenente e nonno del futuro re Tullo Ostilio, ingaggiò un duello con il comandante sabino Mettio Curzio, che lo sconfisse ed uccise. Romolo, per vendicare l'amico, lo inseguì e tutti conoscevano per fama l'abilità in combattimento di Romolo che combatteva in mezzo all'esercito e che osava sfidare chiunque. 

Così Mettio Curzio, fuggendo spaventato, si impantanò con il cavallo in una palude, riuscendo a scampare per miracolo dall'essere inghiottito con il suo cavallo nella fangosa palude del luogo, che perciò venne chiamato lacus Curtius; intanto le schiere romane spaventate dalla caduta del luogotenente romano cominciarono a ripiegare presso la vecchia porta del Palatino.

Secondo un'altra versione, di Tito Livio in Ab Urbe Condita, si sarebbe trattato inizialmente di una voragine, nella quale sarebbe caduto, a cavallo, il capo sabino Mettius Curtius durante la guerra tra Romani e Sabini. Questa sembra più attendibile perchè di certo i romani vi colsero la vendetta degli Dei a favore di Roma.

- Romolo intanto, ferito da una pietra nemica cadde svenuto, il che distrusse in un attimo il morale dei romani, e nel frattempo i Sabini erano riusciti a raggiungere le pendici del Palatino, così tutto sembrava perduto. Ma Romolo rinvenne e invocò Giove promettendogli in caso di vittoria di dedicargli un tempio. (il tempio di Giove Statore presso il foro romano); quindi si lanciò nel mezzo della battaglia riuscendo a contrattaccare e avendo infine la meglio sulle schiere sabine.

                                  LA DEVOTIO DI MARCUS CURTIUS

- Secondo un'altra versione, ma sempre di Tito Livio, Marco Curzio sarebbe stato invece un combattente romano a lanciarsi in una improvvisa voragine con tanto di fiamme apertasi per la collera degli Dei nel 362 a.c.. Interpellati i libri Sibillini, si disse che occorreva, per placare quell'ira, gettare nell'abisso la cosa più preziosa posseduta dai Romani. Poichè secondo Marco Curzio la cosa più preziosa dei Romani era il coraggio, indossò armi e corazza, votandosi agli Dei Mani, nella voragine sul suo cavallo e con la spada in mano  "e una folla di uomini e donne gli lanciò dietro frutti e offerte votive"

Naturalmente la voragine si richiuse miracolosamente sopra al cavaliere e a memoria del prodigio ai posteri resta un bassorilievo marmoreo rinvenuto nel 1553 nei pressi della Colonna di Foca, rappresentante il cavaliere Marco Curzio mentre si getta nella voragine. 

Il sito esatto fu scoperto da Giacomo Boni, valente archeologo, architetto e senatore del regno d'Italia, il 17 aprile 1903, che poi onorò il luogo con una libagione fatta con rito religioso romano, chiamando per questo l'amico inglese Horatio Brown, a sua volta storico e appassionato soprattutto di archeologia e di storia romana.

INTERVENTO DELLE SABINE

LE SABINE

Comunque in quel tragico momento in cui imperversava il combattimento le donne sabine, che erano state rapite in precedenza dai Romani, ma che sempre sabine erano e pertanto molto più libere delle donne romane, ma pure ormai mogli e madri dei Romani, si lanciarono tra le opposte fazioni emanando urla di guerra per cogliere l'attenzione onde dividere i contendenti e fermare la battaglia. Altre piangevano e mostravano i pargoletti, piangendo da un lato ma minacciando dall'altro:

«Da una parte supplicavano i mariti (i Romani) e dall'altra i padri (i Sabini). Li pregavano di non commettere un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di macchiarsi di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13.)

Colpiti dalla scena delle madri che recavano in braccio i bambini i pargoli e dalle altre che si erano gettate in mezzo alla battaglia i combattenti si convinsero a stipulare un trattato di pace. I due popoli, commossi dalle donne sabine e dai loro pargoletti, ma pure consci della potenza che potevano ottenere unendosi tra loro, infine si unirono in un solo popolo, associando i due regni e trasferendo il potere decisionale a Roma, che vedeva così raddoppiata la sua popolazione. 

Ora Roma aveva due re che governavano unitamente. Per contro i Romani, come narra Tito Livio, in onore dei Sabini, presero il nome di Quiriti, dalla città di Cures, mentre il vicino lago nei pressi dell'attuale foro romano, fu chiamato in ricordo di quella battaglia e del comandante sabino scampato alla morte (Mezio Curzio), Lacus Curtius.

RICOSTRUZIONE DEL SITO


GLI AUTORI

Plutarco conferma la storia e aggiunge che pochi giorni prima della battaglia era straripato il fiume che scorreva nel foro, lasciando depositare una melma densa nei punti pianeggianti, di cui non si capiva l'insidia finchè Curzio non perse il proprio cavallo inghiottito dalla melma, e per poco la vita.

Secondo Terenzio Varrone però, si tratterebbe invece di un luogo dichiarato sacro in quanto colpito da un fulmine, e la cui consacrazione avvenne nel 445 a.c. sotto il consolato di Gaio Curzio Filone che in quel punto fece edificare un pozzo in blocchi di tufo, tuttora esistente. Dal console il luogo sacro prese il nome di Lacus Curtius, anche in memoria della palude che anticamente occupava quella zona del Foro Romano.



IL RICICLO

Al tempo di Augusto la gente di passaggio era solita gettare monete nel pozzo del sito (come da ritrovamenti archeologici) e a fianco del Lacus Curtius è stato innalzato un calco del bassorilievo raffigurante Marco Curzio, mentre l'originale, di epoca repubblicana, è conservato nei Musei Capitolini. 

Assurdamente il rilievo venne riciclato per la pavimentazione del 12 a.c., infatti sul suo retro venne incisa una parte dell'iscrizione che ricordava il finanziatore dell'opera, il pretore Lucio Nevio Surdino, il che dimostra che all'epoca l'evento fosse ritenuto solo leggenda, ma allora perchè gettarvi monete? Forse la risposta sta nel fatto che i numerosi turisti lanciassero monete come fanno quelli odierni, a Fontana di Trevi, solo per l'augurio di rivedere la bellissima città eterna.


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - I -  
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita - I -
- Floro - Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC - I -
- Plutarco - Vita di Romolo - XVIII -
- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - VII-VIII -
- Andrea Carandini, - Roma. Il primo giorno - Roma-Bari - 2007 -
- Varrone - Lingua latina - V -
- Filippo Coarelli - Il Foro Romano. Periodo Arcaico - Roma - 1983 -
- Giacomo Boni - Fotografie e pianta altimetrica del Foro Romano - Roma - Accademia dei lincei - 1900 -
- Sandro Consolato - Giacomo Boni, l'archeologo-vate della Terza Roma - Gianfranco De Turris (a cura di) - Esoterismo e Fascismo - Roma - Edizioni Mediterranee - 2006 -

IULIA VALENTIA BANASA (Marocco)

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La Mauretania Tingitana (latino Tangerine Mauretania) era una provincia romana situata nel Maghreb, che si estendeva dalla penisola settentrionale di fronte a Gibilterra, a Sala Colonia (o Chellah) e Volubilis a sud, e fino a est fino al fiume Mulucha (o Malva). La sua capitale era Tingis (Tangeri). Altre grandi città della provincia erano Iulia Valentia Banasa, Septem, Rusadir, Lixus e Tamuda.

Il nome latino Valentia significa "giovane", "forte", come Valence (Francia) e Valencia (Spagna), anch'esse colonie. Augusto fondò almeno dodici colonie romane in Mauritania, nonostante fosse un regno assoggettato e non una vera provincia dell'impero. Banasa fu citata da Plinio, Tolomeo, Itinerario Antonino e Geografo di Ravenna. 

Il sito di Banasa si trova dove fu successivamente costruito il mausoleo di Sidi Ali bou Djenoun, 17 km a ovest di Mechra bel Ksiri. Il sito risalirebbe almeno al IV sec. a.c., con insediamenti autoctoni a cui si sono aggiunti insediamenti fenici, cartaginesi e poi romani, con un vasto transito commerciale. 

La città crebbe e raggiunse il suo apogeo nel III secolo, epoca in cui furono ricostruiti i principali edifici pubblici e oggi le sue rovine si trovano sulla riva sinistra del wadi Sebou, che Plinio descrisse come: "amnis Sububus praeter Banasam coloniam defluens magnificus et nauigabilis". 

33 - 25 a.c. - Iulia Valentia Banasa fu una delle tre colonie romane della Mauretania Tingitana (oggi Marocco settentrionale) fondate da Augusto durante il periodo tra la morte del re Boco e l'ascesa di Giuba II (33-25 a.c.), per accogliere i veterani della battaglia di Azio. 

La città si trovava sulla riva meridionale del fiume Sebou, sulla strada da Tingi a Sala, nei pressi della costa atlantica, sul sito oggi noto come Sidi Ali Boujenoun. Colonie contemporanee alla Iulia Valentia Banasa, furono Chella e Volubilis.

- 40 d.c. - Con l'assassinio di di Tolomeo di Mauretania, nipote di Marco Antonio, nel 40 d.c., voluto da suo cugino l'imperatore Caligola, Roma annetté completamente Banasa come provincia imperiale nonostante i forti disordini e le rivolte che si succedettero in Mauretania.

- 165 circa - All'inizio del regno di Marco Aurelio (r. 161 - 180) Banasa divenne la Colonia Aurelia. 



EDITTO DI BANASA

- 216 - E' un'epigrafe che riporta un editto dell'imperatore Caracalla datato al 216, con il quale si accorda una remissione dalle imposte arretrate, purché in futuro si pagassero le imposte in argento e in grano, uomini per l'esercito e gli animali da circo, destinati agli spettacoli degli anfiteatri. Gli animali da circo, detti "animali celesti" ("caelestia animalia"), dovevano essere soprattutto leoni ed elefanti.

La remissione delle imposte riguardava vici e provinciae, inteso in genere come province dell'impero, ma per lo storico ed epigrafico Michel Christol erano i territori che dipendevano dalle città della Mauretania Tingitana, per Jacques Gascou invece si trattava delle province della Tingitana e della Cesariense, mentre i vici erano i centri rurali.

La gratitudine degli abitanti della Tingitana per la remissione delle imposte è evidenziata nell'iscrizione dell'arco dedicato a Caracalla a Volubilis (216-217), dove si cita la indulgentia dell'imperatore.



LA FINE

285 - La provincia romana della Mauretania Tingitana si ridusse ai territori a nord di Lixus, situata poco a nord dell'attuale porto di Larache sul fiume Luccus. I territori erano per lo più collinosi contornati a nord ed est da foreste di querce. Banasa fu quindi abbandonata.

I reperti scavati a Banasa sono esposti presso il Museo archeologico di Rabat, il più importante museo del Marocco.



GLI SCAVI

Scoperta nel 1871 dall'archeologo Charles-Joseph Tissot, Banasa fu sottoposta a diverse campagne di scavi che hanno individuato tre livelli di occupazione preromana. Gli scavi archeologici hanno evidenziato che gli strati risalenti a prima della conquista romana sono rimasti sepolti sotto spessi strati di depositi alluvionali dovuti alle successive inondazioni del wadi Sebou. 

Per questo finora sono stati effettuati scavi limitati solo nel quartiere S e, a N, lungo il cardo principale tra il foro e il marabout di Sidi Ahmed el Garge. 

- I primi frammenti di vaso riscontrati negli scavi, a 10,25 m dalla superficie, non sono databili e non si capisce a quale edificio appartengano. 

- Le prime strutture, naturalmente preromane, sono 4,5 m più in basso, al di sotto della falda romana e vi predomina un gran numero di fornaci da vasaio e resti di abitazioni di fango e mattoni crudi del III - II d c.. Da questo momento in poi, anche fino al I sec. d.c., i vasai Banasa producevano oggetti dipinti caratteristici, ispirati ai modelli punici e iberici che venivano esportati piuttosto ampiamente nella regione. 

A questi primi strati corrisponde anche un certo numero di tombe rinvenute a SE del foro che contenevano gioielli punici piuttosto belli, si presume del VI-V sec. a.c., ma i doni immessi nella tomba sono probabilmente successivi.



L'URBANISTICA

La città romana era costruita su una pianta a griglia complessiva NE-SO formando insulae regolari anche se disuguali. Ma vi si scorge un altro orientamento, che riflette la pianta della colonia augustea, nel qual caso il bastione, di solito datato al tardo impero, sarebbe quello della colonia

Gli edifici che sono stati rinvenuti sono per lo più posteriori alla fine del I sec. d.c., che è il periodo dell'ultima edizione del Foro, ricostruito su precedenti resti. Probabilmente anche prima che Diocleziano avesse evacuato la Tingitania.



IL FORO

Il foro si trova al centro dell'insediamento, costituito da una piazza trapezoidale lastricata delle dimensioni di m 37 x 34, fiancheggiata a O ed E da portici, mentre a N termina con una basilica rettangolare, a E presenta un piccolo atrio absidale, e a S cinque celle frontali a un comune portico.

Queste celle si trovano su un podio davanti al quale si trova una fila di piedistalli in pietra e basi di statue. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di un Capitolium, ma in realtà è un tempio, costruito su un piano, che, insieme al vicino foro, sembra un principia di accampamento militare. 

Alcune epigrafi attestano la presenza di una flaminica e di seuiri augustales che testimoniano il culto dell'imperatore; altre iscrizioni e pure rappresentazioni di figure attestano la presenza delle divinità predominanti del pantheon greco-romano, Giove, Giunone, Minerva, Venere, Marte e Mercurio con in più Iside e il tempio della Mater deum.
 
Il foro conserva la pavimentazione a grandi lastre calcaree, sotto le quali sono state trovate le vestigia di costruzioni di epoca anteriore, distrutte agli inizi del III secolo; sul lato est sono i resti di una piccola curia absidata.



IL CAMPIDOGLIO

Il Campidoglio, situato sul lato sud del foro, è provvisto di tre logge che alloggiavano le statue della triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva). Esso venne ampliato e abbellito nel II secolo. Sul lato opposto sorge un arco a tutto sesto appartenente alla basilica, dove si amministrava la giustizia.



IL MACELLUM 

È presente anche un macellum (mercato), che dovrebbe essere posto ad O del foro, dove occupa un'intera insula, e non nel quartiere NO dove il nome è stato erroneamente dato ad una grande domus. Il macellum dispone di un cortile centrale circondato da gallerie.

TERME DI BANASA

LE TERME

Dal Campidoglio, attraversando l'asse stradale principale, si raggiungono le Grandi Terme dell'Ovest.Una scalinata e un vestibolo immettevano in un grande ambiente, il tepidarium, in origine pavimentato in marmo bianco, sul quale affacciavano i locali riscaldati dall'ipocausto e la piscina.

Subito a ovest, a un livello inferiore, si trovano le cosiddette terme degli Affreschi, o Piccole Terme, con un vestibolo mosaicato dal quale si accedeva a un ambiente pavimentato in mattoni disposti a lisca di pesce e con muri affrescati. Notevoli i mosaici che illustrano il mito di Amore e Psiche corredato da Ninfe e Baccanti.

Un mosaico raffigurante teste di amorini e tracce di quello che potrebbe rappresentare il dio Bacco ornava il pavimento del vestibolo, il che, insieme ad alcune epigrafi, ha fatto supporre che le terme fossero destinate agli iscritti di una setta dionisiaca, ma è tutto da dimostrare.
 


I QUARTIERI

A sud delle terme gli scavi hanno portato alla luce le rovine di un quartiere di abitazioni, botteghe e laboratori con un piccolo tempio.

Lungo la via principale si aprivano molte botteghe, a ovest delle quali sorgeva il quartiere sviluppatosi attorno al macellum, Al centro del portico sud si è trovato un pannello raffigurante due personaggi non identificati e un albero stilizzato.
Le case più ricche di Banasa richiamano molto quelle rinvenute a Volubilis, anche se meno ricche, tutte disposte attorno a un peristilio centrale secondo la tradizione romana. Le case più semplici sono invece disposte secondo una pianta meno regolare; ricordano le case della Mauritania trovate, ad esempio, a Tamuda ea Lixus.
 
Questi edifici non hanno potuto usufruire della pietra perchè le cave sono abbastanza lontane, per cui nella maggior parte dei casi i muri erano costruiti di fango o mattoni crudi (cioè cotti al sole) su una base di pietre di forma irregolare.
Il bugnato era riservato agli edifici pubblici o alla decorazione dei migliori edifici privati. La loro decorazione fece un salto di qualità modificata, nel II - III secolo, in cui si eseguirono i pavimenti a mosaico, i rivestimenti delle pareti marmo importato o affreschi dipinti, alcuni dei quali mostrano tracce di figure umane e di animali.
 
Negli scavi operati fino ad oggi sono state scoperte molte botteghe, indici di benessere, e sono stati scoperti diversi panifici, riconoscibili dalle loro attrezzature, che testimoniano la tradizionale e vasta produzione di cereali nella zona, mentre vi è solo un numero molto ridotto di impianti per la produzione di olio.


Nella zona la statuaria di pietra è rara e solitamente grezza; di quella in bronzo sono rimasti solo minuti frammenti di grandi statue e poche statuette. Sicuramente con l'avvento del cristianesimo, qui come altrove, le statue di bronzo vennero fuse, un po' per fabbricare le nuove immagini sacre e non e un po' per cancellare i vecchi Dei.

Il materiale epigrafico invece è ricchissimo, comprese le iscrizioni in bronzo: tra queste una dozzina di diplomi militari, quattro decreti di patronato e due importanti testi giuridici:
- un editto di Caracalla che esenta gli abitanti di Banasa dalle tasse nel 216
- la Tabula banasitana del periodo di Marco Aurelio e Commodo, che stabiliva le condizioni alle quali agli stranieri poteva essere concesso il diritto della città e il modo in cui erano organizzati il consilium principis e la cancelleria imperiale.



TABULA BANASITANA

La tavola riporta fedelmente, i documenti del 177 riguardanti la concessione della cittadinanza romana da parte dell'imperatore Marco Aurelio (121-180) a una famiglia di notabili della tribù dei Zegrenses, popolazione indigena della provincia della Mauretania Tingitana.
L'epigrafe illustra la procedura amministrativa della concessione della cittadinanza viritim (cioè concessa a titolo personale) e le conseguenze della concessione: la cittadinanza è concessa salvo iure gentis, ovvero preservando il diritto locale, e il nuovo cittadino può proseguire a condurre la propria vita come in precedenza.

La concessione della cittadinanza non intacca dunque l'equilibrio delle comunità locali dato poi che i beneficiari nominati nell'iscrizione mantengono tutti i loro doveri nei confronti del fisco. Questi dati sulla cittadinanza romana nel II secolo contribuiscono a chiarire anche l'editto di Caracalla.

L'iscrizione fornisce inoltre molte informazioni prosopografiche (a posizione sociale, famliare e gentilizia) sui nomi dei governatori della Mauretania Tingitana e sulla composizione del consiglio imperiale nella seduta del luglio 177.

La tabula riporta il testo di tre lettere, le prime due degli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero e la terza riporta un estratto del registro imperiale dei nuovi cittadini seguiti dalle dodici firme del consilium principis. La richiesta era accompagnata dalla raccomandazione di Vallio Massimiano (procurator Augustorum pro legato).

L prima lettera: "Noi abbiamo preso conoscenza della richiesta dello Zegrense Giuliano, che era unita alla tua lettera, e sebbene non sia abitudine concedere la cittadinanza romana a dei membri di queste tribù, se non quando il merito dei servizi resi attiri il favore imperiale... noi non esitiamo a concedere la cittadinanza romana, senza che essi debbano lasciare il diritto locale.."
La cittadinanza viene concessa fatto salvo lo ius gentis, anche se divenuti cittadini romani, Giuliano e i suoi familiari, possono continuare a vivere secondo il diritto berbero, non v'è nessuna modifica anche in campo tributario tranne nel fatto che Giuliano deve pagare le tasse locali ed in più quelle dovute a Roma.


GLI SCAVI FUTURI

A SO dell'insediamento, la fotografia aerea ha rivelato quelle che probabilmente sono tracce di un accampamento militare e di un piccolo forte di minore importanza; tuttavia, non è possibile tramite questo tipo di fotografia rilevare dei resti del sito sul terreno stesso.
Saranno i prossimi scavi, che ci auguriamo non avvengano a lungo termine, a chiarire il sito e a far riemergere questa importante parte dei dati di Iulia Valentia Banasa.


BIBLIO

- R. Thouvenot - Une colonie romaine de Maurétanie tingitane: Valentia Banasa - Publications du Service des Antiquités du Maroc - 1941 -
- R. Thouvenot - Une remise d'impôt sous l'empereur Caracalla - CRAI - Publications du Service des Antiquités du Maroc - 1954 -
- M. Euzennat - Chroniques - Bulletin d'Archéologie Marocaine 2 - 1957 - 
- M. Euzennat & W. Seston - Un dossier de la chancellerie romaine: la Tabula Banasitana - CRAI - 1971 -
- William Seston, Maurice Euzennat - Un dossier de la chancellerie romaine : La Tabula Banasitana. Etude de diplomatique - Comptes rendus de l'Académie des inscriptions et belles-lettres - 1971 -

CRETA E CIRENE (Province romane)

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IL PALAZZO DI CNOSSO


.:: CRETA ::.

La cultura cretese sorse all'età del bronzo, dal 2000 al 1450 a.c. (quando la cultura micenea greca divenne dominante) e venne detta civiltà minoica dal mitico re cretese Minosse, civiltà riscoperta tra il 1901 e il 1905, grazie all'archeologo britannico Arthur Evans (1851 – 1941).

L'ottima posizione geografica dell'isola montuosa che disponeva di vari porti naturali, favorì il sorgere della prima civiltà mediterranea e di un fiorente impero marittimo che dal Mare Egeo controllava una rete commerciale che raggiungeva l'Egitto, la Fenicia (Libano), le regioni a nord del Mar Nero e l'Occidente.

LA PROVINCIA


MINOSSE

« Minosse infatti fu il più antico di quanti conosciamo per tradizione ad avere una flotta e dominare per la maggior estensione il mare ora greco, a signoreggiare sulle isole Cicladi e colonizzarne le terre dopo aver scacciato da esse i Cari ed avervi stabilito i suoi figli come signori. Eliminò per quanto poté la pirateria del mare, come è naturale, perché meglio gli giungessero i tributi. »

(Tucidide, Guerra del Peloponneso I, 4)

Nella mitologia greca Minosse venne associato al celebre labirinto, che A. Evans identificò con il sito di Cnosso, ma si pensa che con il termine di Minosse gli antichi cretesi indicassero tutti i sovrani dell'isola. Nell'Odissea, composta secoli dopo la distruzione della civiltà minoica, Omero chiama i nativi di Creta eteocretesi ("veri cretesi"), che si pensa fossero i discendenti dei minoici.

I grandiosi palazzi minoici (anaktora), ampiamente scavati sull'isola, erano edifici monumentali adibiti alla residenza del sovrano, ai magazzini dei viveri e all'amministrazione dell'isola, come evidenziato dai vasti archivi portati alla luce dagli scavi. Erano costruiti con basi in pietra ed elevato in mattoni di fango essiccati al sole, poi le pareti venivano intonacate e talvolta dipinte. 

Ogni palazzo era a più piani, con scalinate interne ed esterne, pozzi, colonne massicce, magazzini e cortili. Ci sono peraltro chiari segni di danni dovuti al terremoto in molti siti minoici e chiari segni sia di sollevamento di terra che della sommersione di siti costieri.

Il periodo minoico viene diviso in tre fasi principali:
- Minoico Antico o protominoico o fase prepalaziale (MA),
- Minoico Medio o fase protopalaziale (MM),
- Minoico Tardo o fase neopalaziale.


MINOICO ANTICO 

I primi insediamenti sull'isola risalgono all'epoca Neolitica, nel 7000 a.c. All'inizio dell'età del bronzo a Creta, intorno al 2600 a.c., inizia la trasformazione in importante centro di civiltà con un periodo iniziale Neolitico Aceramico ed uno finale Neolitico Ceramico. 

I centri più importanti del Neolitico di Creta sono: Cnosso e Festòs, dove sono state ritrovate case con mura in pietra e battute pavimentali. entrambi siti palaziali. Durante il Neolitico avviene l'introduzione della viticoltura e dell'olivicoltura, evoluzione che porterà all'istituzione palaziale.

 SCAVI DI AKROTIRI

MINOICO MEDIO 

Vi è un notevole incremento demografico, con estensione delle aree abitate, e compare la scrittura ideografica e la scrittura sillabica (Lineare A), Vengono edificati i primi palazzi a Cnosso ed a Festo e inizia la ceramica policroma. Verso la fine di questo periodo, all'incirca nel 1700-1600 a.c., Creta fu soggetta a una catastrofe, o un un maremoto causato dal terremoto sull'Isola di Santorini. o un'invasione dall'Anatolia per cui i palazzi a Cnosso, Festo, Malia e Kato Zakros vennero totalmente distrutti.

La datazione con il radiocarbonio ha indicato una data del tardo secolo XVII a.c.; queste date del radiocarbonio, comunque, sono in conflitto con le stime fatte dagli archeologi i quali sincronizzano l'eruzione con la cronologia egiziana convenzionale ottenendo una data di circa 1525-1500 a.c.. L'eruzione viene spesso identificata come un evento naturale catastrofico per la cultura, che portò al suo rapido collasso, e fu forse fonte di ispirazione per la narrazione di Atlantide fatta da Platone.



MINOICO TARDO

Con il nuovo periodo neopalaziale, la popolazione incrementò di nuovo, i palazzi vennero ricostruiti ancor più monumentali con nuovi insediamenti su tutta l'isola. Tra il XVII e il XVI secolo a.c., si ebbe il culmine della civiltà minoica. 
 
La fase III del medio-tardo minoico, che va dal 1650 a.c. al 1530 a.c., vide non solo la ricostruzione dei palazzi delle grandi città cretesi ma pure il massimo splendore dell'architettura e dell'arte minoica. Nella Grecia continentale si sviluppa la cultura elladica. Poi alcuni palazzi vennero nuovamente distrutti, con la sola eccezione di quello di Cnosso.

Tra il 1450 a.c. ed il 1400 a.c., avvenne un'invasione di popoli greci, i siti palaziali vennero così occupati dai micenei, i quali adattarono la Lineare A minoica alla lingua micenea, una prima lingua greca, scritta in Lineare B, e vi è un'involuzione dello stile ceramico. Solo a Cnosso, il cui palazzo fu distrutto nel XIV secolo a.c., è attestata la continua occupazione almeno fino alla fine dell'XI secolo a.c.
La maggior parte delle città cretesi e palazzi declinarono nel XIII secolo a.c. ma Knossos rimase un centro amministrativo fino al 1200 a.c.; si è pensato che il nord di Creta si pensava fosse stato governato da Cnosso, il sud da Festo, la parte centro-orientale da Malia, mentre la punta orientale da Kato Zakros e l'ovest da Canea. Palazzi più piccoli sono stati trovati in altri luoghi.

 I più grandi siti archeologici minoici:

Cnosso - il più noto sito archeologico dell'età del bronzo a Creta; riemerso con gli scavi da Evans il 16 marzo del 1900
Festo - la seconda costruzione palaziale più grande sull'isola, scavata dalla scuola italiana quasi subito dopo Cnosso
Malia - conseguito da scavi francesi, un centro palaziale molto interessante che permette di capire lo sviluppo dei palazzi nel periodo protopalaziale
Kato Zakros - un sito palaziale scavato da archeologi greci all'estremità orientale dell'isola, noto anche come "Zakro" nella letteratura archeologica
Galatas - un sito palaziale confermato negli anni novanta del XX secolo.

TEATRO ROMANO DI GORTINA


LA DOMINAZIONE ROMANA

Nel 74 a.c. Marco Antonio Cretico guidò la flotta del Mediterraneo per occupare Creta, sia per i danni che i pirati cretesi causavano alle flotte romane, che per l’alleanza tra Creta e Mitridate VI, re del Ponto e nemico di Roma. 

Ma i romani vennero sconfitti, molte navi romane furono affondate, e molte catturate con i loro equipaggi. Molti prigionieri romani vennero impiccati ai pennoni delle loro navi, e i Cretesi imposero a Marco Antonio una pace così umiliante che il Senato si rifiutò di ratificarla. 

Nel 68 a.c., Roma intimò ai Cretesi la restituzione dei prigionieri romani, la consegna dei vincitori di Marco Antonio oltre a 300 ostaggi e 400 talenti d’argento. Davanti al rifiuto, il generale Quinto Cecilio Metello iniziò una lunga e feroce guerra di assedio, avanzando da ovest a est, sottomettendo all’autorità romana tutti i centri di resistenza e radendo al suolo le città che gli resistevano. Nel 63 a.c. Metello fu concesso il trionfo per la definitiva conquista di Creta.

Cirene e Creta (Cyrene et Creta) divennero provincie di Roma, con i territori comprendenti sia l'isola di Creta che la Cirenaica almeno per due secoli, da Augusto a Settimio Severo. Nel 67 a.c. venne costituita la provincia di Creta che, dopo la battaglia di Filippi, fece parte dei domini del triumviro Marco Antonio, il quale nel 43 a.c. concesse la libertà alle città cretesi, revocata da Ottaviano dopo la sconfitta di Marco Antonio ad Azio.


Infatti Augusto, nella sua riforma dell'amministrazione provinciale del 27 a.c. riunì Creta e Cirene, facendone una provincia senatoria, governata da un proconsole con capitale Gortina, a Creta. L'isola venne restaurata e abbellita con nuove costruzioni monumentali.

Un solo complesso di palazzi cretesi sembra essere stato distrutto dai romani, che effettuarono invece numerose costruzioni, oltre a strade ed acquedotti. Gortina sembra sia stata ricompensata per il suo atteggiamento pro-romano con la designazione a capitale della provincia e con la costruzione di una pretura, di un foro, di un teatro, un odeon, un ninfeo, etc

Diventa così la città principale di Creta, e secondo Strabone ha un diametro di 50 stadi (circa 10 km). Cnosso, prima di allora capitale provinciale, è relegata in secondo piano, abitata da militari romani e trasformata in colonia con il nome di Colonia Julia Nobilis. 

TEATRO ROMANO

Altre città come Litto e Ierapitna si sviluppano e, come Gortina, sono arricchite di fori e templi. Sulla costa meridionale si sviluppano piccoli porti che servono da scalo alle galere che percorrono le rotte verso l’Asia minore e l’Egitto.

Con la riforma di Diocleziano la provincia venne nuovamente separata: la Cirenaica, suddivisa in Lybia superior (orientale) e Lybia inferior (occidentale), entrò a far parte della diocesi di Oriente, nella Prefettura del pretorio d'Oriente, mentre la nuova provincia di Creta fu inserita nella diocesi di Mesia, della Prefettura del pretorio dell'Illirico. 

Alla morte di Teodosio I, nel 395, con la suddivisione dell'Impero romano, entrambe fecero parte dell'Impero romano d'Oriente: Creta nella nuova diocesi di Macedonia, e sempre nella prefettura del pretorio dell'Illirico, o Illyricum.

CIRENE


.:: CYRENE ::.

Cirene è stata prima una colonia greca e poi una colonia romana affacciata sul Mediterraneo, vicino all'odierna cittadina di Shahat, nel distretto di al-Jabal al-Akhdar, nella Libia orientale. Venne fondata intorno al 630 a.c. dai dori di Thera, (Santorini), che si dicevano discendenti di Euristeo, per obbedire al responso dell'oracolo di Delfi che imponeva loro di fondare una colonia in Libia.

Il primo a governare la città fu Aristotele Batto il fondatore, e poi i suoi discendenti per ben otto generazioni, fino al 440 a.c..  Città di molti filosofi e influente centro culturale per tutta la Cirenaica. Il primo a governare la città fu Aristotele Batto il fondatore, e poi i suoi discendenti per ben otto generazioni, fino al 440 a.c. È un importante sito archeologico per lo studio della cultura greco-romana e della sua diffusione in Nordafrica.

Si alleò con la Persia nel VI secolo a.c., e prosperò sotto Batto IV di Cirene (regno 514-470 a.c.). L'ultimo discendente di Batto fu Arcesilao IV che divenne re nel 470 a.c. e trionfò nella corsa delle bighe nei giochi pitici di Delfi del 462 a.c., celebrato da Pindaro, ma che perì esiliato e poi ucciso dalla rivolta dei suoi sudditi.

ODEON DI CIRENE

Cirene adottò la democrazia fino all'Età ellenistica quando subì l'influenza del Regno tolemaico d'Egitto, con qualche periodo di indipendenza. Partecipò alla Pentapoli cirenaica, con Apollonia, Arsinoe, Berenice e Barce e Tolemaide.

Nel IV secolo a.c. vi fiorirono i cosiddetti filosofi cirenaici, per cui la città fu soprannominata "Atene d'Africa". Nello stesso periodo diede i natali al poeta Callimaco (310 a.c.) e al geografo e astronomo Eratostene (276 a.c.). Dopo un periodo di protettorato romano nel corso del II secolo a.c. restò ai Tolomei fino a che uno di costoro, Tolomeo Apione, re di Cirene per vent'anni, decise di lasciare in eredità a Roma sia la città che il resto della Pentapoli cirenaica nel 96 a.c..

Nel 74 a.c. Cirene e la Cirenaica furono elevate, insieme a Creta, al rango di provincia romana ed ebbe il suo massimo splendore, per il traffico di merci fra Europa e Africa. Con la fine delle guerre civili beneficiò della pax romana di Augusto che vi fece costruire un tempio dedicato a Zeus con una replica delle statua di Fidia.


Nel 115, un cirenaico di origine ebrea affermò di essere il Messia e scatenò un rivolta che costò alla città una devastazione. Roma ripristinò il controllo sulla regione e l'imperatore Adriano la fece ricostruire e rifiorire.

Nel 365 subì ingenti danni a causa di un terribile terremoto che si abbatté su tutta la Cirenaica e che fece sprofondare in mare buona parte della città di Apollonia, porto di Cirene, e Tolemaide, meno danneggiata delle altre città divenne capitale della Libya Superior.

Nel 410 la città fu definitivamente abbandonata ai nomadi laguatani e non fu più riconquistata dall'impero romano, neppure durante la cosiddetta Ananeosis, cioè la rinascita della Cirenaica, voluta dall'imperatore Giustiniano.

I principali resti di epoca greco-romana sono l'acropoli, il foro romano, il santuario di Apollo e il tempio di Zeus (il tempio greco più grande del Nordafrica), ma pure una grande necropoli, con numerosi sepolcri dal VI secolo a.c. al IV secolo d.c., i tempietti di Ecate e dei Dioscuri e l'impianto idrico romano, che include condotti sia sotterranei che sopraelevati e acquedotti.


BIBLIO

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- S. Rinaldi Tufi - Archeologia delle province romane - Roma - 2007 -
- Cassio Dione Cocceiano - Storia romana -
- Historia Augusta - Probo -
- Notitia Dignitatum - Oriente, I e XXXI -

FESTUM VESTAE (6 marzo)

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LE VESTALI

Il Festum Vestae, detto più semplicemente Vestiae, si celebrava il 6 marzo, nei giorni precedenti alla primavera, quando gli alberi mettevano le prime gemme tingendo i rami di verde. Da tenere presente che nei tempi più antichi l'anno romano iniziava in primavera con il risveglio della natura. 

Bisogna sfatare che il fuoco del tempio non venisse mai spento, perchè veniva spento una volta l'anno, appunto nel Festum Vestae e veniva riacceso lo stesso giorno. Il fuoco veniva spento con l'acqua mentre un altro fuoco veniva acceso dallo stesso, poi il tempio veniva lavato e profumato, e il nuovo fuoco sacro portato nelle case per accendere i camini. 

Occorre una precisazione: il fuoco sacro non doveva mai spegnersi, tanto è vero che, come narra Virgilio, Enea aveva portato via da Troia il fuoco sacro per trasmetterlo ai figli nipoti e pronipoti fino ai Romani. Sarà Teodosio a obbligarne lo spegnimento nel 394 d.c. quando Roma perderà la tolleranza religiosa che era stato un faro di civiltà per il mondo.

Pertanto prima di spegnere il fuoco del focolare del tempio, veniva accesa prima una torcia, poi con un secchio d'acqua veniva spento il fuoco del focolare che veniva pulito e lavato insieme al pavimento e alle suppellettili del tempio. Una volta pulito, il focolare veniva fornito di legna e fascine e con la torcia rimasta accesa si dava vita al nuovo fuoco del focolare che era comunque sempre lo stesso fuoco. 

LE VESTALI

Veniva spento dunque il focolare ma non il sacro fuoco che si perpetuava nel nuovo anno, a simboleggiare il termine della vita che tuttavia proseguiva e si rinnovava. Dopodichè il tempio, lavato e profumato con incensi ed erbe odorose, veniva ornato di serti e ghirlande, sulla statua della Dea che veniva addobbata e ingioiellata e sulle pareti, mentre ai piedi della scalinata del tempio si accendevano i bracieri di bronzo.

Iniziava quindi la processione delle torce, con le sacerdotesse che sfilavano ai lati della strada con in mano delle torce accese a cui le donne accendevano le proprie torce per riportare a casa il fuoco sacro, benedetto in quel giorno che però veniva spento alla fine della giornata ponendo fine alla festa. 

Le donne che non avevano potuto accendere la propria torcia avvicinandosi alla processione, potevano recarsi al tempio ed accendere la propria torcia al fuoco sacro del tempio per poi ricondurlo al proprio focolare dove si svolgeva una breve cerimonia privata e ammessa solo alle donne.

La festa non è da confondere con le Vestalia, festa arcaica del 9 giugno, che in età repubblicana ed imperiale vennero portati a nove, dal 7 al 15 di giugno. Il Festum Vestae segnava la fine del vecchio anno e l'inizio del nuovo e per l'occasione le sacerdotesse vestali si ponevano coroncine di fiori  sui capelli e recitavano preghiere accompagnate da vari canti. La festa terminava al tramonto del sole.


BIBLIO

- Carandini - Il fuoco sacro di Roma. Vesta, Romolo, Enea, Roma-Bari, Laterza, 2015 -
- Giacomo Boni - Le recenti esplorazioni nel sacrario di Vesta - Roma - Accademia dei lincei - 1900 -
- Sabbatucci - La religione di Roma antica - ed. Il Saggiatore - Milano - 1988 -
- Galiano - Dèi e feste nel calendario di Roma - ed. Simmetria - Roma - 2012 -
- Ovidio - Fasti  - VI -
- Dumézil - La religione romana arcaica - ed. Rizzoli - Milano - 1977 -

CLODIO TRASEA PETO

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STATUA DI TRASEA PETO

Nome: Publius Clodius Thrasea Paetus;
Nascita: Patavium, I secolo
Morte: Roma, 66
Moglie: Cecina Arria
Professione: Filosofo, scrittore ed oratore

Clodio Trasea è stato un oratore, filosofo e scrittore romano di dignità senatoria, ma anche un eroe per la dignità e il coraggio mostrati contro la tirannide di Nerone.



LE ORIGINI

Publio Clodio Trasea Peto nacque da una famiglia ricca e nobile proveniente da Padova; non è nota né la data né il luogo di nascita, se fosse nato a Roma o a Padova, con cui tuttavia mantenne stretti legami come dimostra la partecipazione ai festeggiamenti in onore del fondatore, Antenore.

Ignoriamo parecchio della sua giovinezza e degli inizi della carriera politica, sappiamo solo che nel 42 contrasse matrimonio con Cecinia Arria, figlia di Cecina Peto, console suffetto nel 37. Nel medesimo anno il suocero fu implicato nella rivolta di Lucio Arrunzio Camillo Scriboniano che mirava ad eliminare Claudio e a restaurare la repubblica e pertanto fu costretto al suicidio. 

Ma lo precedette, sebbene Trasea avesse cercato di impedirlo, la moglie Arria maggiore, che coraggiosamente da se stessa si pugnalò e per invitare il marito a fare lo stesso disse la frase rimasta celebre come esempio di amore e coraggio muliebre: "Non dolet, Paete!" (Peto, non fa male!)

Probabilmente, dopo la morte del suocero, Cecina Peto, Trasea aggiunse il suo nome al proprio, prassi inconsueta per un genero che può essere letta o come un segno di grande stima nei confronti del suocero, o come segno di opposizione al principato.



CURSUS HONORUM

A seguito della morte di Claudio e l'ascesa di Nerone, Clodio ottenne, tramite l'influenza del precettore del nuovo principe, il filosofo stoico Seneca (4 a.c.- 65 d.c.), con cui aveva solida amicizia, ottenne la nomina di console suffetto nel bimestre novembre-dicembre dell'anno 56. 

Acquisì inoltre l'importante amicizia del genero Elvidio Prisco, fervente repubblicano e oppositore in seguito di Vespasiano che lo mandò morte. Trasea dopo il consolato ottenne il prestigioso incarico di "quindecimvir sacris faciundis", carica a vita che si occupava di funzioni religiose.

Aulo Persio flacco, che scrisse di aver viaggiato con lui, sostiene fosse stato nominato governatore provinciale, cosa che si dice derivata dalla sua alacre attività svolta presso le corti di giustizia, o forse per l'amicizia che aveva con Seneca.

NERONE

CONTRO NERONE

Clodio sostenne in senato nel 57 la causa di concussione avanzata dai Cilici contro il loro ex governatore, Cossuziano Capitone, molto vicino a Nerone, che fu condannato probabilmente proprio per l'influenza e la capacità oratoria di Trasea. Indirettamente fu uno sgarbo a Nerone.

L'anno seguente si oppose ad una mozione con cui i siracusani chiedevano di superare il numero legale di gladiatori per i loro giochi, criticando il fatto che il senato dovesse pronunciarsi su temi così poco importanti e non su quelli che contavano. Anche questo indirettamente fu uno sgarbo a Nerone, insinuando che avesse esautorato il senato.

Quando, poi, Nerone inviò al senato una lettera in cui giustificava l'appena compiuto omicidio della madre, Giulia Agrippina, Trasea fu il solo ad uscire dall'aula affermando di non poter dire ciò che avrebbe voluto, mentre molti senatori mostrarono la loro approvazione all'Imperatore.

Nel 62, il pretore Antistio Sosiano, che aveva scritto poesie diffamatorie su Nerone, fu accusato da Cossuziano Capitone, recentemente riabilitato in Senato su impulso del suocero di questi, Tigellino, del reato di "maiestatis" (lesa maestà). 

Trasea dissentì dalla proposta di imporre la pena di morte e invece sostenne la più lieve sanzione dell'esilio. La proposta fu approvata con larga maggioranza nonostante il parere contrario di Nerone consultato prima della votazione ed il principe fu costretto ad aderirvi per mostrarsi clemente.

Nello stesso anno, al processo contro il proconsole di Creta Claudio Timarco, accusato dai provinciali di continui abusi, per averli obbligati a frequenti voti di ringraziamento, Trasea giudicò il comportamento del proconsole e fece approvare a maggioranza un senatoconsulto che però dovette aspettare il placet di Nerone.

Nel 63 Trasea fu dispensato dal principe dal portargli i ringraziamenti, insieme alla delegazione del senato, per la nascita di sua figlia. Ciò gli fece capire di essere caduto in disgrazia, anche perché Tigellino, tra i più influenti cortigiani di Nerone, era ostile a Trasea per ave r fatto condannare suo suocero Cossuziano Capitone. 

Tuttavia si sa che Nerone disse a Seneca di essersi riconciliato con Clodio e che Seneca si fosse congratulato perché aveva recuperato un'amicizia piuttosto che averlo costretto a chiedere clemenza.



RITIRO DALLA VITA PUBBLICA

Sembra che a questo punto Trasea si sia ritirato dalla vita politica, Tacito lo fa dire a Capitone, in occasione del processo, tenutosi nel 66, che Trasea aveva da oltre tre anni disertato tutte le sedute del senato ma, occorre la fonte è poco affidabile. Potrebbe però essere vera per evitare quello che era capitato a Seneca o come tacita protesta contro il principe.

Trasea continuò a curare gli interessi dei suoi clienti e probabilmente compose anche la sua "Vita di Catone" (opera perduta), del quale condivideva la filosofia stoica e che lodò come sostenitore della libertà senatoriale contro Cesare. 

TRASEA PETO ASCOLTA LA SUA CONDANNA

IL PROCESSO

Nell'anno 66 Nerone, dopo aver represso la Congiura dei Pisoni, decise di sbarazzarsi di chiunque gli apparisse ostile e tra questi Trasea Peto e Barea Sorano. Spinto da Cossuziano Capitone, Nerone agì durante la visita del re Tiridate I di Armenia a Roma, perchè il polo non badasse alle vicende dei due illustri cittadini. 

L'accusa contro Trasea Peto fu assunta da Cossuziano Capitone e Marcello Eprio, mentre Ostorio Sabino accusò Barea Sorano, intanto Nerone escluse Trasea dal ricevimento in onore di Tiridate ma questi, per nulla intimorito, chiese la notifica dei capi d'accusa e il tempo per istruire la difesa.

Nerone, preso da timore, accolse subito le richieste di Trasea, e comandò di convocare il senato. L'imputato, consultati gli amici, decise di non partecipare al processo per evitare che Nerone infierisse sulla moglie, Arria e sulla figlia. Poi proibì al giovane tribuno Aruleno Rustico di porre il veto al decreto del senato perchè avrebbe messo in pericolo la vita del tribuno senza salvare la sua.

Il giorno del processo, il tempio di Venere Genitrice, luogo di raduno del Senato, fu circondato da due coorti della Guardia Pretoriana e appena Iniziata la seduta, il questore lesse una lettera del principe che, senza far nomi, accusava alcuni senatori di trascurare da tempo i loro doveri e di essere, pertanto, cattivo esempio anche per i cavalieri. Gli accusatori accolsero tali affermazioni come una minaccia e subito si scagliarono Cossuziano e Marcello Eprio contro Trasea e Barea Sorano, definendoli "faziosi ribelli".

A questo punto i Senatori, terrorizzati dalla minacciosa guardia pretoriana, votarono la condanna a morte nella forma del liberum mortis arbitrium ovvero l'ordine di suicidarsi. Trasea Barea Sorano e sua vennero condannati al suicidio, il genero Elvidio Prisco fu esiliato insieme agli amici Paconio Agrippino e Curzio Montanoa.



LA MORTE

Al tramonto, Trasea che ascoltava con i suoi ospiti il filosofo cinico Demetrio sulla natura dell'anima e la separazione dello spirito dal corpo, ricevette da uno dei suoi intimi, Domizio Ceciliano, la notizia della condanna. 
Esortò gli amici a non disperarsi e a ritirarsi in gran fretta per evitare di compromettere le loro sorti con la sua, poi persuase la moglie Cecinia Arria che, memore della madre, si preparava a seguire nella morte il marito, a restare in vita e a non privare la figlia, Fannia, dell'unico sostegno.

Mentre Trasea si avviava sereno al portico, avendo saputo che il genero, Elvidio Prisco, era stato solo esiliato, giunse il questore a comunicargli la condanna. Si ritirò, quindi, accompagnato da Demetrio e dal genero, nelle proprie camere, porse ad uno schiavo le vene di entrambe le braccia e, come il sangue scorse, lo sparse a terra libando a Giove Liberatore sempre alla presenza del questore. Infine, dopo molte sofferenze, morì.


BIBLIO

- Tacito  - Annales  -
- Cassio Dione Cocceiano - Historia Romana - libri LXVI-LXVII -
- Plinio il Giovane - Epistulae -
- J. Geiger - Munatius Rufus and Thrasea Paetus on Cato the Younger - Athenaeum - 1979 -
- P.A. Brunt - Stoicism and the Principate, PBSR - 1975 -
- V. Rudich - Political Dissidence under Nero - Londra - 1993 -
- O. Devillers - Le rôle des passages relatifs à Thrasea Paetus dans les Annales de Tacite - Neronia - Bruxelles - Collection Latomus - 2002 -
- T. E. Strunk - Saving the life of a foolish poet: Tacitus on Marcus Lepidus, Thrasea Paetus, and political action under the principate - Syllecta Classica - 2010 -

LUCANI (Nemici di Roma)

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I LUCANI

La Lucania (si estende) dal fiume Lao, mentre fino a Metaponto dalla parte del golfo di Sicilia (lo Ionio). Esterna all'Italia è la zona tarantina, che è vicina a Metaponto, e gli abitanti Iapigi... Poi il nome di Italia e di Enotria si estese anche fino a Metaponto e alla Siritide.... Dunque la Lucania sta tra la costa tirrenica e quella siciliana, dal Sele al Laus, e da Metaponto a Thurii; sul continente, va dai Sanniti all'istmo da Thurii a Cerilli, vicino al Lao: l'istmo misura trecento stadi (55,5 km)»
(Strabone, Geografia, VI, 4)

Importante fu poi la Siritide (in greco Sirítis), una fiorente regione della Lucania centro-meridionale, ovvero la zona d'influenza dell'antica città di Siris, e comprendeva l'attuale territorio occidentale del metapontino, compreso tra i fiumi Sinni, Cavone e Agri (antichi Siris, Akalàndros e Akìris). 



I LUCANI

I Lucani furono una popolazione appartenente al ceppo italico e di lingua osca, che giunse, nel V secolo a.c., nella terra che da essi prese il nome di Lucania, nel territorio compreso tra i fiumi Sele, Bradano, Laos e Crati, fino ad allora chiamato dai Greci Enotria, dal nome del popolo abitante in precedenza la regione, gli Enotri. 

LA POSIZIONE DELLA LUCANIA (INGRANDIBILE)
I Lucani, pur avendo adottato presto l'alfabeto greco, mantennero sempre l'osco, una lingua indoeuropea del gruppo osco-umbro diffusa tra numerosi popoli italici ad essi affini, come i loro vicini Sanniti, che avevano assorbito gli Osci nel V secolo a.c.. Appresero l'uso della scrittura dai Greci per cui, pur essendo in lingua osca, le loro iscrizioni usavano l'alfabeto greco. 

Esistono varie ipotesi sull'origine del toponimo Lucania:
- dai Lucani, popolazione osco-sabellica proveniente dall'Italia Centrale, che avrebbero preso il nome dall'eroe eponimo Lucus;
- dal termine greco leukos ("biancore"), affine al latino Lux ("Luce"); secondo Alfonso Mele «Il nome dei lucani suona in greco Leukànoi e si pone perciò in relazione con l'aggettivo leukòs, che vuol dire splendente, luminoso;
- dal termine latino lucus ("Bosco sacro");
- dal termine greco lykos ("Lupo") per l'uso delle popolazioni sabelliche di adottare un animale totemico come guida nelle loro migrazioni, secondo l'uso della Primavera sacra; tuttavia, proprio l'esempio dei loro vicini settentrionali, gli Irpini, il cui nome deriva dal termine hirpus ("lupo"), rende poco probabile questa ipotesi. 
- dai Lyki, popolazioni provenienti dall'Anatolia che si sarebbero stabiliti nella valle del fiume Basento;
- dalla radice protoindoeuropea "leuk" che ha originato la parola latina lux ("luce") e quella greca leukos ("lucente, bianco") e che il nome Lucania indicasse "Terra della Luce". 

Nella sua Geografia, Strabone afferma che avevano istituzioni democratiche, tranne che in tempo di guerra, quando i magistrati in carica sceglievano un dittatore, e che ai suoi tempi fossero ormai in decadenza, con poche città poste sulle alture e piuttosto povere, con molte foreste abitate da cinghiali, orsi e lupi. 

L'attività principale era la pastorizia, tuttavia. nel secolo successivo al loro insediamento, alla pastorizia si associò l'agricoltura e si diffuse l'uso di abitare in fattorie sparse sul territorio. Per la religione, osservavano il culto di Mamerte (il Marte dei Romani) e il culto di Mefite, Dea delle acque e del mondo dei morti. 

I LUCANI IN GUERRA

LA STORIA

All'inizio del IV secolo a.c. si spinsero a sud-ovest, nell'attuale Calabria, dove combatterono con i Greci della Magna Grecia, in particolare con Siracusa, che riuscì a dividere i Lucani e a sbarrare loro il passo. Allora i Lucani si spinsero verso est, dove combatterono con Taranto. In seguito presero parte alle Guerre sannitiche e alle Guerre pirriche contro la potenza in ascesa di Roma, che riuscì a sottometterli nel 275 a.c..

Tra III e I secolo a.c. i Lucani presero parte a diverse insurrezioni italiche contro il dominio romano, senza riuscire a riacquisire l'indipendenza; a partire dalla decisiva battaglia di Porta Collina (82 a.c.) ebbe inizio la loro definitiva romanizzazione. 
 
Le tribù lucane: 
Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, compila una lista di popoli dell'antica Lucania: Atinati, Eburini, Grumentini, Numestrani, Potentini, Sontini, Sirini, Tergilani, Ursentini, Volcentani.
 
Le città principali:
- a est, Metapontum, Heraclea, Siris, 
- sul litorale a ovest, sorgeva Posidonia, dai romani ribattezzata Paestum; 
- delle città dell'entroterra le più importanti erano Potentia, Bantia, Acheruntia, Grumentum, Muranum, Atina, Strapellum, Popilii, Tegianum, Sontia, Buxentum, Pandosia, Cosilinum (l'attuale Padula), Eburi. 

«Dal Sele parte la III regione e comincia il territorio di Lucania e Bruzio... Il fiume Lao è omonimo di una città: da esso comincia la costa del Bruzio... Tra il fiume Siris e l'Aciris c'è Heraclea, a volte chiamata >Siris. Ai fiumi Acalandro, Casuento e alla città di Metaponto termina la III regione d'Italia. Sono mediterranei, tra i popoli bruzi, solo gli Aprustani, tra i Lucani solo gli abitanti di Atena... Tra l'altro, sappiamo da Catone che è scomparsa Tebe di Lucania, da Teopompo che scomparve Pandosia, nella quale morì Alessandro d'Epiro. »
(Plinio il Vecchio - Naturalis Historia) 

Poco sappiamo dei rapporti dei Lucani con le popolazioni preesistenti dell'interno chiamate dai Greci Enotri, Morgeti, Siculi. Al contrario sappiamo che le relazioni con le colonie greche furono molto conflittuali. 



LE CONQUISTE

- V secolo - Conquistata alla fine del V secolo a.c. Poseidonia, che i Lucani chiamarono "Paistom" (la Paestum dei Romani), ben presto caddero sotto il loro potere tutte le città della costa tirrenica fino a Laos, eccetto Velia. 

- Nel 389 a.c., i Lucani, alleati di Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa che cercava di imporre il suo predominio sulle città della Magna Grecia, mossero guerra contro le polis nemiche di Siracusa. Questo scatenò la reazione di Thurii, potente città sorta sulle ceneri di Sibari, che, senza attendere l'aiuto di altre città della Lega sorta proprio per difendersi dai Lucani, cercò di riconquistare la sua antica colonia, Laos, subendo una disastrosa sconfitta ed evitando lo sterminio dei prigionieri solo grazie all'intervento del generale siracusano Leptine. 

-  I Lucani conquistarono così tutta l'attuale Calabria interna a nord dell'istmo. Ma Siracusa, da alleata dei Lucani, divenne loro ostile; inoltre scoppiò una violenta rivolta servile che provocò una lunga guerra civile che avrebbe indebolito i Lucani. Narra Strabone che la rivolta provocata da Dione di Siracusa, fu causata dall'avere i Lucani armato i loro servi dediti alla pastorizia per sostenere le numerose guerre. 

La rivolta di quelli che i Lucani chiamarono Bretti ("ribelli" in osco) corrispondenti ai Bruzi provocò la nascita di un nuovo popolo, che si consolidò intorno a Cosentia e sui monti della Sila, privando i Lucani del territorio a sud della linea Laos-Thurii. 

Essendo impossibile espandersi a sud dato la presenza dei Bretti (i Bruzi dei Romani), i Lucani si diressero verso lo Ionio, entrando in conflitto con la potente Taranto. I Tarantini per mantenere la posizione di predominio nello Ionio settentrionale dovettero ricorrere all'aiuto della madrepatria, Sparta. 

- Intervenne in favore di Taranto Archidamo III, re di Sparta che, nel 338 a.c., morì combattendo i Messapi sotto le mura di Manduria. 

MONETA DI ALESSANDRO IL MOLOSSO


ALESSANDRO IL MOLOSSO

- Nel 323 a.c., giunse ad aiutare Taranto Alessandro I, detto "il Molosso", zio di Alessandro Magno. Alessandro che, dopo aver privato i Lucani delle città ioniche e restituito Heraclea a Taranto, conquistò l'Apulia; quindi, attraversando la Lucania, giunse sotto le mura di Poseidonia (Paestum) dove i Lucani ed i loro alleati sanniti affrontarono la falange macedone che distrusse i loro eserciti. 

Alessandro liberò Poseidonia, prese numerosi ostaggi fra le famiglie aristocratiche lucane deportandone molte in Epiro. Con la battaglia di Poseidonia, all'alleanza fra Lucani e Sanniti, da poco usciti dalla Prima guerra sannitica contro Roma, si contrappose l'alleanza di Alessandro con i Romani, per realizzare in Occidente un dominio su tutte le città magnogreche e siceliote. 

- Allora i Lucani trovavano nuovi alleati a sud nei Bruzi, ma per evitare il congiungimento delle forze lucane con quelle bruzie, Alessandro si posizionò a Pandosia, ai confini tra i territori dei due popoli, ma nel 338 a.c. il suo esercito, diviso in tre parti isolate fra loro da un'alluvione, venne distrutto da Bruzi e Lucani ed egli stesso morì, trafitto dal giavellotto di un ostaggio lucano. 

Narra Arriano che nel 323 a.c., i Lucani insieme ad altri popoli dell'Occidente, inviarono legati a Babilonia in segno di amicizia alla corte di Alessandro Magno.
 


LE GUERRE SANNITICHE

Durante la II guerra sannitica i Lucani erano divisi tra una fazione aristocratica filoromana ed una democratica vicina a Taranto e ai Sanniti, ma nel 302 a.c. Romani e Lucani si allearono nuovamente contro l'esercito del condottiero greco Cleonimo, re di Sparta, chiamato da Taranto. 

L'alleanza proseguì anche durante la III guerra sannitica, causata, come narra Tito Livio, dalla richiesta d'aiuto dei Lucani a Roma contro i Sanniti che, devastando i loro territori, cercavano di costringerli ad un'alleanza contro Roma. 

I LUCANI CONTRO PIRRO


LE GUERRE PIRRICHE

Finite le Guerre sannitiche, ai confini settentrionali della Lucania i Romani fondarono la colonia latina di Venusia mentre tra i Lucani prevalse la fazione democratica, per cui alleatisi con i Bruzi e con Taranto, attaccarono Thurii, tradizionale nemica di Taranto e alleata di Roma. 

Thurii chiese aiuto a Roma nel 285 a.c. e nel 282 a.c., quando venne inviato il console Gaio Fabricio Luscino per respingere i Lucani, un tempo alleati dei Romani, e per porre a Thurii una guarnigione romana. Il principe lucano Stenio Stallio venne sconfitto, come si ricorda nei Fasti triumphales ed ebbe inizio la Guerra tarantina.



LA GUERRA TARANTINA

In questa guerra combatté Roma contro Taranto alleata con Lucani, Sanniti, Bruzi e soprattutto Pirro, re dell'Epiro. L'esercito romano e quello di Pirro si scontrarono ad Heraclea e Pirro vinse grazie all'uso degli elefanti da guerra, sconosciuti ai Romani, che li chiamarono "buoi lucani". Ma infine i Romani ottennero la vittoria ed estesero il loro dominio su tutta l'Italia meridionale. 

Nel 275 a.c. Marco Curio Dentato celebrò il trionfo sui Lucani e nel 273 a.c. vennero dedotte colonie a Poseidonia, che divenne la romana Paestum, e a Grumentum. I Lucani divennero alleati dei Romani, mantenendo però i loro costumi ed istituzioni come tutti i popoli della penisola.



LE GUERRE PUNICHE

Durante la II Guerra Punica, dopo la battaglia di Canne i Lucani, come molti popoli e molte città del Sud Italia si schierarono con Annibale, più per evitare i saccheggi degli invasori che per ostilità verso Roma.

D'altronde i Romani avevano adottato la strategia del logoramento di Fabio il temporeggiatore  che consentì ad Annibale di restare diversi anni nell'Italia meridionale, ma fu punita tre anni dopo con la strage dei suoi cittadini e col saccheggio quando Fabio Massimo la riconquistò. Nel 125 a.c. vi fu dedotta una colonia romana (colonia neptunia).

Comunque i Lucani tornarono ad essere socii dei Romani fino a quando, nel 90 a.c., stanchi di partecipare alle numerose guerre romane senza ottenere reali vantaggi, chiesero la cittadinanza romana come gli altri popoli italici.



LA GUERRA SOCIALE


Poichè il Senato romano, nonostante le numerose richieste, rifiutò di concedere agli Italici la cittadinanza, i Lucani si misero in guerra contro Roma, guidati da Marco Lamponio che, presso Grumentum, sconfisse Marco Licinio Crasso, ma più tardi la stessa città fu presa e saccheggiata dai Romani. Lucani e Sanniti furono gli ultimi ad arrendersi e pertanto, quando i Romani nell'88 a.c. concessero la cittadinanza agli Italici, ne esclusero proprio questi due popoli.

In seguito Roma concesse anche ai Lucani la cittadinanza romana, e questi combatterono nella guerra civile fra Mario e Silla, schierandosi con Mario più favorevole agli Italici e poi con suo figlio. La rappresaglia di Silla fu feroce e intere città vennero rase al suolo.

Strabone narra che «a seguito di queste disfatte i loro insediamenti sono assolutamente insignificanti, senza alcuna organizzazione politica e i loro usi, in fatto di lingua armamenti e vestiario, completamente tramontati».

La battaglia di Porta Collina dell'82 a.c. tra le legioni degli optimates guidata da Lucio Cornelio Silla e le legioni dei populares e dalle milizie italiche guidate dal condottiero sannita Ponzio Telesino che marciavano su Roma venne vinta da Cornelio Silla e fu la la I guerra civile della Repubblica romana. 

Dopo la battaglia Silla procedette crudelmente con l'uccisione in massa dei capi e dei soldati dell'esercito sconfitto caduti prigionieri. I Lucani non ebbero mai più l'autonomia e il loro territorio venne organizzato con quello dei Bruzi nella Regio III Lucania et Bruttii.



LA DOMINAZIONE ROMANA

La ribellione dei Lucani al dominio romano con la Guerra sociale (90–88 a.c.), portò i popoli della Lucania al declino completo. In questo periodo, infatti, Strabone parla dello svuotamento delle città greche del litorale e dell'affermazione della malaria nelle pianure e nelle valli, mentre le poche città dell'entroterra non avevano nessuna importanza.

Durante l'impero di Augusto la Lucania fu unita al distretto dei Bruzi per costituire la Regio III Lucania et Bruttii e rifiorì in quanto attraversata dalle grandi direttrici delle vie consilari, ossia la via Popilia, la via Herculia e la via Appia.



BIBLIO

- Fasti triumphales 282/281 a.c. - Gaio Fabricio Luscino, console, trionfò su Sanniti, Lucani e Bruzi, alle none di marzo -
- Plinio il Vecchio - Naturalis Historia
- Strabone - Geografia -
- Tito Livio - Ab Urbe condita libri -
- Appiano di Alessandria - Storia romana -
- Alfonso Mele - Le fonti storiche in "I greci in occidente: Poseidonia e i Lucani" - di M. Cipriani, F. Longo - Napoli - Electa - 1996 -
- Luigi Pareti, Angelo Russi - Storia della regione lucano-bruzzia nell'antichità - Ed. di Storia e Letteratura - 1997 -
Lucilla De Lachenal - Da Leukania a Lucania: la Lucania centro-orientale fra Pirro e i Giulio-Claudii -Istituto poligrafico e Zecca dello Stato - Libreria dello Stato - 1993 -

CATACOMBE DI SAN SEBASTIANO

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LE DECORAZIONI

Le catacombe di San Sebastiano sono un cimitero ipogeo, ovvero sotterraneo, che si trova a Roma, lungo la via Appia Antica, nel quartiere Ardeatino. Trattasi di uno dei rari cimiteri cristiani rimasti sempre accessibili anche se dei quattro piani originari il primo è quasi completamente distrutto.

Nell'antichità le catacombe erano conosciute semplicemente col nome di "catacumbas", dal greco "katà" e "kymbe", che letteralmente significa "presso le cavità". Ma prima ancora di essere un cimitero, la zona aveva cave di pozzolana, profonde circa una decina di metri sotto il manto stradale e qui nacque un originario cimitero pagano, successivamente utilizzato dai cristiani. 



L'ATTENDIBILITA' DELLA TRADIZIONE

Non conosciamo il nome della catacomba pagana, perchè le catacombe, al contrario di ciò che normalmente si crede, non sono di origini cristiane ma bensì di uso pagano. Sappiamo che venne denominato "in memoria apostolorum" solo dal III secolo, per la presenza, si tramanda, delle reliquie degli apostoli Pietro e Paolo martiri. Il cimitero venne poi denominato di San Sebastiano solo con l'Alto Medioevo, quando molti luoghi persero il loro nome romano per acquisire quello dei martiri. 

Paolo venne ucciso nel 64, ne parla la "Depositio martyrum", che però risale alla metà del IV secolo, ponendolo alla data del 29 giugno, senza specificare da dove abbia tratto nè la data nè la storia del martire. 

Il Martirologio Geronimiano, di un anonimo del V secolo, ricorda, alla stessa data, la ricorrenza di Pietro in Vaticano, di Paolo sull'Ostiense e utrumque in catacumbas, Tusco et Basso consulibus, all'epoca dei consoli Tusco e Basso, cioè nel 258. Ma le sue fonti sono: 
- un martirologio siriaco di fine IV secolo, 
- il Calendario di Filocalo del 354 
- un martirologio africano, 
il tutto pubblicato a Bruxelles in Acta Sanctorum nel 1931.
 
Nel cimitero sulla via Appia invece, le fonti antiche documentano la presenza di tre martiri: Sebastiano, Quirino ed Eutichio. I nomi dei tre martiri sono citati in un catalogo del VII secolo, chiamato "Notula oleorum" che però neanche esso cita le sue fonti, mentre gli itinerari per pellegrini dell'alto Medioevo non citano Eutichio, perché la sua sepoltura era difficile da raggiungere.

Di Sebastiano, la "Depositio martyrum" ricorda la morte e la sepoltura il 20 gennaio in catacumbas. 
- Di lui sant'Ambrogio (fine IV secolo) dice che subì il martirio a Roma durante la persecuzione di Diocleziano, ma è una testimonianza lontana secoli; 
- la passio del V secolo (ancora più tarda) dice che era un soldato originario della Gallia, morto a Roma sotto Diocleziano. 
- Le sue reliquie rimasero nella catacomba fino al IX secolo, poi trasferite dentro le mura della città, ed oggi sono nuovamente conservate sulla via Appia, nella cappella di San Sebastiano nella basilica soprastante il cimitero.

Quirino era un vescovo della Pannonia, i cui resti furono traslati a Roma da pellegrini di quella regione tra IV e V secolo. Di Eutichio non si conosce nulla, se non  il carme damasiano oggi esposto all'entrata della basilica.



GLI SCAVI

Attraverso gli scavi di fine Ottocento e durante il Novecento si è potuti ricostruire la storia topografica ed architettonica della zona in cui si trovano le catacombe, che consta di tre livelli di gallerie.

In origine come già detto era una cava di pozzolana; abbandonata alla fine del II secolo e utilizzata dai romani come luogo di sepoltura pagana, con semplici sepolture di schiavi e liberti, ma anche sepolture monumentali, in particolare nella cosiddetta piazzola, un tempo cava a cielo aperto, nelle cui pareti furono scavati tre mausolei in laterizio:
- uno di "Marcus Clodius Hermes", come da iscrizione, composto di due camere sovrapposte: sopra la facciata, le tracce di un muretto costituivano il "solarium", dove i parenti del defunto si riunivano nell'anniversario della sua morte del congiunto per consumarvi il pasto funebre in suo onore detto "refrigerium". 
- Uno detto "degli Innocentiores", di proprietà di un collegio funeratico, 
- uno detto "dell'ascia", per la figura incisa nel timpano del frontone; composto da una rampa d'ingresso e di una camera sotterranea con volta a botte ornata di bellissimi stucchi. Alcuni simboli cristiani come il "pesce", indicano una precoce presenza cristiana, anche se spesso le tombe pagane vennero svuotate per accogliere spoglie cristiane. 

Oltre alla piazzola, si iniziarono a scavare le gallerie cimiteriali. Verso la metà del III secolo, l'intera piazzola era stata interrata creando un terrapieno a un livello superiore, da cui sono stati riportati alla luce tre monumenti: 
- la "triclia", una sala coperta porticata utilizzata per banchetti funebri nelle cui pareti vi sono più di 600 graffiti con invocazioni agli apostoli Pietro e Paolo; 
- un'edicola rivestita di marmo, probabilmente il luogo delle reliquie dei due apostoli, 
- un ambiente coperto con pozzo per attingere acqua. 
- la "villa piccola", di cui restano un cortile con pavimento a mosaico bianco e nero ed un portico a pilastri.

Alla metà del III secolo il sepolcreto risulta interrato e l'area occupata da una "triclia", un cortile di trapezoidale (23 x 18 metri) con pavimento in mattoni ed un grande porticato a pilastri dove 600 graffiti conservati sull'intonaco testimoniano quasi 70 anni di "refrigeria". 



LA TRASLAZIONE DELLE RELIQUIE

La traslazione delle reliquie degli apostoli in San Sebastiano a metà del III secolo e la loro ricollocazione nei luoghi originari agli inizi del IV secolo è dibattuta sia tra gli studiosi che tra gli archeologi. Infine all'inizio del IV secolo anche questi ambienti furono interrati, per costruire il terrapieno su cui fu edificata la basilica costantiniana.

Le iscrizioni votive, in latino, greco, siriaco ed aramaico, sono in onore degli apostoli Pietro e Paolo, che la tradizione ritiene collocati qui nel 258, durante la persecuzione di Valeriano, dove rimasero per 50 anni prima di tornare nei propri sepolcri. Il cimitero si trasformò in luogo di culto cristiano dal momento in cui le spoglie dei due apostoli vi furono sepolte, anche se i risultati archeologici non confermano la traslazione dei corpi, forse anche perché nella zona non fu mai ritrovata una vera sepoltura.

Privata delle reliquie, la "Memoria Apostolorum" decadde e all'inizio del IV secolo, tutte le costruzioni vennero demolite e interrate ed al loro posto venne edificata la grande "Basilica Apostolorum", che oggi sorge sul lato destro dell'Appia. Numerosi mausolei, a pianta centrale o a struttura basilicale, vennero in seguito costruiti attorno alla chiesa, il più importante dei quali, databile alla fine del IV secolo, di forma irregolare, è quello detto "Platonia", che la tradizione vuole sia la cripta dove i due apostoli trovarono sepoltura. 

Soltanto alla metà del V secolo il complesso viene intitolato a S. Sebastiano, ufficiale dell'esercito imperiale, secondo la "Passio S. Sebastiani", condannato a morte sotto Diocleziano per la sua fede cristiana, legato ad una colonna e trafitto da numerose frecce, ma venne raccolto e curato dalla vedova Irene. 

Dopo la guarigione, Sebastiano tornò dall'imperatore (anche se i generali stentavano per ottenere un'udienza dall'imperatore) per proclamare ancora il suo credo. Diocleziano ordinò di ucciderlo a bastonate e di gettare il corpo nella Cloaca Maxima. Tuttavia, prima di arrivare al fiume, il corpo si impigliò nei pressi della chiesa di S.Giorgio in Velabro dove fu ritrovato dalla matrona Lucina che provvide a dargli degna sepoltura nella Catacomba. 



LA MIRACOLOSA CONSERVAZIONE

Nell'826, dopo quasi sei secoli, il corpo del santo evidentemente non solo conservato intatto alle frecce, alle bastonate, alla disgregazione dell'acqua, ma soprattutto dopo sei secoli, venne conservato nella cripta, poi rimosso e trasferito a S.Pietro per volere di Eugenio II. Pochi anni dopo, la catacomba venne affidata ai Cistercensi di S.Bernardo, e nel 1218 Onorio III riportò i resti (erano d'acciaio!) del martire nella cripta, conservati ancora oggi presso la Cappella di S.Sebastiano, a sinistra dell'altare maggiore.

Tra l'altro nessuno ci ha mai raccontato se le reliquie del santo siano pezzi del suo corpo (come spesso usava) o un corpo intero, se solo scheletro o con la carne, o se solo scheletro ma ricostituito con la cera o altri vari elementi.

Per una scala si scende nelle gallerie dove sono vari cubicoli, con pitture in quattro scene della fine del IV secolo nel cubicolo di Giona. Si giunge alla cripta di san Sebastiano, con un altare a mensa sul luogo dell'antico basamento ed il busto di san Sebastiano attribuito al Bernini. 

Dalla piazzola si sale a un ambiente coperto da una tettoia dove si celebravano banchetti funebri, con centinaia di graffiti di devoti, incisi dalla seconda metà del III agli inizi del IV secolo, con invocazioni agli apostoli Pietro e Paolo. Si passa poi per un vano che gira intorno all'abside con una raccolta di epigrafi e un plastico completo dei mausolei.


BIBLIO

- De Santis L., Biamonte G. - Le catacombe di Roma - Newton & Compton Editori - Roma - 1997 -
- Ferrua A. - La basilica e la catacomba di S. Sebastiano - Città del Vaticano - 1990 -
- Guarducci M. - Pietro e Paolo sulla via Appia e la tomba di Pietro in Vaticano - Città del Vaticano - 1983 -
- Mancini G. - Scavi sotto la basilica di S. Sebastiano sull'Appia - in Notizie degli Scavi di Antichità - Roma - 1923 -

IRENE BASILEUS

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IMPERATRICE IRENE RITRATTA IN S. SOFIA A COSTANTINOPOLI


Nome: Irene Sarantapechaina
Nascita: Hieria in Bitinia 752 circa
Morte: 9 agosto 803
Nipote di: Costantino Sarantapechos
Regno: 780-790



IRENE

Irene nacque nella nobile famiglia ateniese Saratanpechos e suo zio, Costantino Sarantapechos, era uno stratega di uno dei themi della Grecia. Ella era famosa per la sua bellezza per cui, appena rimasta orfana di padre, alcune navi andarono a prelevarla dal palazzo di Hieria, sulla riva asiatica del Bosforo, ove ella risiedeva, per portarla a Costantinopoli alla corte dell'imperatore Costantino V. 

La bellezza era considerata in ambiente cristiano-bizantino non solo un potere ma una benevolenza di Dio, pertanto dava l'idea di meriti particolari, tanto è vero che chi avesse difetti fisici non poteva aspirare al trono. Così la bellissima Irene partecipò alla "sfilata della sposa" quando, secondo l'usanza bizantina, il figlio dell'imperatore, il futuro Leone IV, decise di sposarsi.

In quella sfilata le giovani aspiranti al titolo di imperatrice si presentavano con ricche vesti adorne di preziosi veli e gioielli, affinchè il futuro sposo ne selezionasse una in base alla bellezza e all'eleganza del portamento. Un mese più tardi, il 18 dicembre del 768, Irene e Leone si sposarono nella basilica di Santa Sofia e la bellissima sposa venne acclamata dal popolo nell'Ippodromo di Costantinopoli. 

Nel 775, alla morte di Costantino V, Leone divenne imperatore con il nome di Leone IV e Irene divenne imperatrice ed elevata al rango di Augusta nel 776. Nel 780 però Leone riprese le persecuzioni contro gli iconoduli, anche se in modo più moderato rispetto a quelle del padre. 

Nello stesso anno l'imperatore scoprì che alcuni suoi funzionari avevano procurato delle icone alla moglie iconodula Irene che ne teneva un paio sotto il cuscino. Adirato destituì i funzionari facendoli torturare e cessò il suo favore verso l'imperatrice negandole la condivisione del talamo nuziale. Ma Irene gli aveva già dato un figlio maschio.



LA REGGENZA (780-790) 

 Alla morte di Leone IV nel 780, gli succedette il figlio Costantino V di soli nove anni con la reggenza della madre Irene, che cercò l'aiuto della sorellastra del marito, Antusa, nella gestione dell'impero, ma questa rifiutò per dedicarsi alla vita religiosa. Irene fece subito edificare un nuovo palazzo, presso uno dei porti di Costantinopoli: il ricchissimo Palazzo dell'Eleuterio.

Ma i cinque fratelli dell'Imperatore Leone IV: Niceforo, Cristoforo, Niceta, Antimo ed Eudocimo, appoggiati da Gregorio, logoteta del Dromos e da Elpidio, Strategos di Sikelia, dopo soli due mesi dall'ascesa di Costantino VI, si rivoltarono volendo porre Niceforo al trono. 

La rivolta, appoggiata dagli iconoclasti, venne sbaragliata e Irene costrinse i cinque cognati a farsi preti mentre a Gregorio e i suoi complici vennero cavati gli occhi. Irene fece poi arrestare e torturare la famiglia di Elpidio contro cui inviò una flotta che riuscì a riconquistare la Sicilia; Elpidio fuggì in Africa, dove gli Arabi lo trattarono come un re.



LE GUERRE

- Rioccupò la Sicilia dopo che il suo strategos Elpidio, nel 781, si era ribellato al governo di Costantinopoli.

L'IMPERATRICE SANTA
- Nel 782 venne attaccata dagli arabi-musulmani del califfo Hārūn al-Rashīd marciò con poco meno di 100.000 uomini, fino al Bosforo, occupando la riva opposta a Costantinopoli. Irene nel 782 inviò contro gli Arabi l'esercito al logoteta postale Stauracio che però venne tradito e fatto prigioniero, riscattato poi da Irene, che pagò gli arabi pure per ottenere la tregua e la liberazione dei prigionieri bizantini in mano musulmana.

- Poi Irene inviò il suo esercito al comando di Stauracio contro gli Slavi, creando un nuovo thema di Macedonia nei territori conquistati. Per questo trionfo l'Imperatrice fece erigere la Basilica di Santa Sofia a Salonicco ed attuò una politica di ellenizzazione dei popoli slavi dei Balcani.

- Nel 785, Irene non versò più il tributo al Califfato abbaside e gli Arabi devastarono il Thema degli Armeniaci, che per ritorsione devastarono la fortezza di Hadath in Cilicia.

- Nel 787 si ripeté il settimo Concilio Ecumenico a Nicea, che condannò l'iconoclastia e scomunicò gli iconoclasti, ripristinando il culto delle immagini sacre, ma non avendo invitato una delegazione franca Carlo Magno chiese la scomunica per Irene.

- Ostile al Regno dei Franchi, che minacciavano gli interessi bizantini in Italia, appoggiò militarmente una campagna (fallimentare) guidata da Adelchi, un principe longobardo in esilio a Costantinopoli, figlio del re Desiderio già deposto dai Franchi, che desiderava riprendersi il regno.

Successivamente Irene firmò un'alleanza con Carlo Magno progettando il matrimonio tra la figlia Rotrude e suo figlio, accordo che poi interruppe temendo che Carlo Magno avrebbe spinto Costantino VI a liberarsi dalla sua tutela, anzi costrinse Costantino a sposare la figlia di un piccolo nobile bizantino.

- Irene offrì poi assistenza militare ad Adelchi, principe longobardo in esilio a Costantinopoli essendo stato il suo regno conquistato dai Franchi. Per questo un corpo di spedizione, sotto il comando logotheta Giovanni, unitamente alle truppe dalla Sicilia sotto il Patrikios Teodoro, sbarcò in Calabria nel 788, ma venne sconfitto dagli eserciti dei duchi longobardi Ildebrando di Spoleto e Grimoaldo III di Benevento, alleati con i Franchi, perdendo Benevento e l'Istria. 

- Nel 788 le truppe bizantine di Irene vennero sconfitte dal Califfato abbaside di Harun al-Rashid a Kopidnadon. A causa del tradimento di uno dei suo generali, l'armeno Tatzates, Irene fu costretta a pagare ingenti tributi all'emiro in cambio del ritiro delle sue truppe.



COSTANTINO VI E IRENE CO-IMPERATORI (790-797)

Nonostante Costantino VI avesse raggiunto la maggiore età, Irene continuava a governare al suo posto ed anzi si nominò Autocrate dei Romani, come dire "la legittima imperatrice". Lo Stratega degli Armeni nel 790, assediò Costantinopoli chiedendo la legittimazione di Costantino e, incolpando Stauracio, ordì una congiura contro di lui, ma Irene scoprì congiura e fece arrestare il figlio, facendolo anche frustare. 

Irene tentò quindi di convincere l'esercito a legittimarle il potere assoluto sullo Stato pur restando Costantino VI coimperatore, e costringendolo a giurare «Finché tu vivrai, noi non riconosceremo tuo figlio come imperatore».

Ma le truppe anatoliche, favorevoli all'iconoclastia e pertanto a Costantino VI, lo nominarono unico imperatore nell'ottobre del 790, costringendo l'imperatrice a ritirarsi nel Palazzo di Eleuterio. Un anno dopo tuttavia Irene riuscì di nuovo a ottenere il titolo di imperatrice, regnando insieme al figlio.

A questo punto fece del tutto per rendere il figlio impopolare, gli fece sospettare l'infedeltà del generale Alessio Mosele, facendo si che lo accecasse, perdendo così il favore delle truppe anatoliche, che insorsero. Costantino VI sedò la rivolta con molta violenza, accentuando l'odio delle truppe anatoliche (793). Poi gli fece ripudiare la moglie, facendolo sposare con Teodota (795), per cui gli ortodossi lo accusarono di adulterio.

Tra il 792 e il 797 nelle monete d’oro vengono introdotti, al diritto, entrambi i busti dei reggenti dove Irene si presenta vestita con lorica e regge il globo crucigero mentre suo figlio Costantino (che già aveva raggiunto l’età adulta per governare) viene presentato senza barba, come a dichiararlo immaturo per il governo.

Invece le monete d'oro emesse durante l’assenza di Irene nel 790 quando le truppe dei Temi dell’Asia Minore si ribellarono alla sua autorità, Costantino viene mostrato con la barba mentre la madre, privata del trono, non viene più raffigurata con il globo crucigero in mano. Solo Costantino compare al diritto con in mano il globo crucigero (prassi che cambierà nuovamente quando Irene tornerà ad affiancarlo sul trono).

IRENE IMPERATRICE

IL COLPO DI STATO (797)

Durante il soggiorno a Prusa, Costantino VI tornò a Costantinopoli nell'ottobre del 796 a vedere il suo nuovo nato e Irene ne approfittò per attuare un colpo di Stato, cercando di farlo assassinare il 17 luglio 797. Costantino riuscì a fuggìre in Asia Minore, dove avrebbe potuto contare dell'appoggio delle truppe anatoliche. 

Allora Irene minacciò i cortigiani compromessi con lei di rivelare a Costantino VI il loro tradimento se non l'avessero aiutata. Questi acconsentirono: Costantino VI venne riportato a Costantinopoli, detronizzato e accecato nella stessa stanza dov'era stato battezzato (15 agosto 797), morendo poco dopo per le ferite. Irene, la madre belva per giunta santificata, continuò a governare come unica imperatrice.

Nel periodo tra il 797 e l' 802, le emissioni monetali d’oro e di bronzo presentano, sia al diritto che al rovescio, il busto loricato di Irene con in mano sia il globo crucigero che lo scettro imperiale. La figura di Costantino VI scompare. 

Essa era la prima donna che governava l’impero non come reggente di un imperatore minorenne e incapace, ma con il proprio nome, come autocrate. … il diritto di una donna a ricoprire quella carica era per lo meno dubbio, ed è significativo il fatto che negli atti legali Irene non viene chiamata Basilissa ma Basileus

Essendo Costantino VI estremamente impopolare, pochissimi piansero la sua morte e i più videro il colpo di Stato attuato da Irene come un atto di liberazione da un tiranno. Solo Teofane nella sua Cronaca, pur lodando nel suo complesso la figura di Irene, sembrò aver realizzato la gravità del suo crimine.

«Il sole si oscurò per 17 giorni senza irradiare, tanto che i vascelli erravano sul mare; e tutti dicevano che era per via dell'accecamento dell'Imperatore che il sole rifiutava la sua luce. E così salì al trono Irene l'Ateniana, madre dell'Imperatore

(Teofane, Cronaca.) Regno (797-802)

Essendo la prima imperatrice bizantina ad essere imperatrice regnante e non imperatrice consorte, assunse il titolo di basileus (imperatore/re) al posto di quello di basilissa (imperatrice/regina) e si autoproclamò Autocrate dei Romani Politica interna. 

CARLO MAGNO


CARLO MAGNO IMPERATORE DEI ROMANI

Nel Natale dell'800 vi fu l'incoronazione di Carlo Magno come Imperatore dei Romani, titolo fino ad allora spettante solo agli Imperatori di Costantinopoli, unici discendenti degli Imperatori romani. Il fatto che il trono fosse occupato da una donna, l'aveva fatto considerare vacante a papa Leone III, declassando Irene a "Imperatrice dei Greci". 

La nascita di un nuovo Impero d'Occidente non fu ben accolta dall'Impero d'Oriente che tuttavia, nonostante le minacce di Irene che rifiutò di riconoscere l'incoronazione di Carlo, non aveva i mezzi per intervenire militarmente.

Nell'802 con l'aiuto di papa Leone III, si profilò nuovamente l'idea di un matrimonio, ma direttamente tra Irene e Carlo. Ma pochi giorni dopo l'arrivo a Costantinopoli degli ambasciatori franchi con la proposta di matrimonio, l'imperatrice venne detronizzata.



L'OPERATO

- Abolì l'esosa tassa cittadina a Costantinopoli. 
- Ridusse i dazi che i mercanti erano tenuti a pagare nei porti di Costantinopoli. 
- Favorì gli iconoduli, avversi agli eretici iconoclasti, 
- Favorì i monasteri che appoggiavano la sua politica.
- Fece erigere la Basilica di Santa Sofia a Salonicco.
- Fece erigere la Piccola Cattedrale di Atene o Mikri Mitropoli.
- Arricchì con nuovi mosaici la Basilica di Santa Sofia a Costantinopoli (di cui il suo ritratto a grandezza naturale riprodotto all'inizio dell'articolo).
- Fece preparare un concilio che abolisse l'iconoclastia che si tenne il 31 luglio 786, a Costantinopoli, interrotto dalle truppe iconoclaste che Irene inviò allora in Asia Minore a combattere gli arabi e trasferì nella capitale quelle iconodule. 



LA SUCCESSIONE

Per la successione: dei figli di Costantino VI, l'unico maschio ancora in vita era nato dopo l'accecamento del sovrano e dunque era considerato bastardo e in quanto tale impossibilitato a succedere a Irene. Si contesero il trono: i due eunuchi consiglieri di Irene, Stauracio ed Ezio, per mettervi uno dei loro parenti.

Poi Irene nominò suo sovrintendente alle finanze (logothetēs tou genikou) l'intelligente e ambizioso Niceforo I il Logoteta che, con scarsa riconoscenza, alla fine dell'802 deporrà la stessa Irene usurpandole il trono.

NICERORO I IL LOGOTETA


LA MORTE

Nell'802 Carlo Magno inviò messi a Costantinopoli per proporre a Irene di sposarlo in modo da «riunificare l'Oriente e l'Occidente». Tuttavia le negoziazioni non andarono a buon fine perché nello stesso anno l'Imperatrice Irene fu detronizzata da una congiura che pose sul trono Niceforo I.

Mentre Irene si trovava nel Palazzo di Eleuterio, i congiurati si presentarono al Sacro Palazzo con ordini contraffatti dell'Imperatrice che nominava Imperatore Niceforo affinché le fosse di aiuto nel combattere Ezio. I soldati a guardia del palazzo consegnarono il palazzo ai congiurati, che sparsero la voce della proclamazione a Imperatore di Niceforo I, mentre Irene veniva imprigionata.

Tuttavia il popolo e il clero erano favorevoli ad Irene e per questo si presentarono davanti alle porte del Sacro Palazzo, pretendendo la restituzione del trono ad Irene. Ma l'imperatrice accettò di ritirarsi dal governo credendo alle promesse di Niceforo, che le aveva garantito l'avrebbe trattata «come si addice a una basilissa», concedendole di vivere nel suo Palazzo di Costatinopoli, l'Eleuterio.

Ma Niceforo non mantenne la promessa e la esiliò prima in un monastero nelle Isole dei Principi e nel novembre dell'802 nell'isola di Lesbo, dove per sopravvivere dovette adattarsi a filare la lana. Morì il 9 agosto 803, senza suscitare rimpianti neppure nel Clero che aveva tanto favorito.

La sovrana venne proclamata santa benchè avesse fatto torturare e uccidere intere famiglie, avesse cospirato contro il figlio, l'avesse prima fatto frustare e poi accecare causandone la morte. D'altronde la Chiesa la santificò perchè aveva abbattuto l'iconoclastia e concesso molti privilegi al clero.

Il suo corpo fu inizialmente sepolto a Büyükada sulle Isole dei Principi, trasferendolo poi nella chiesa dei Santi Apostoli di Costantinopoli. Il suo sepolcro fu però poi violato dai crociati nel 1204, che ne saccheggiarono il ricco corredo, e ancora dai turchi ottomani nel 1462, quando demolirono la basilica ormai abbandonata. Resta, tuttavia, ancora oggi un sarcofago vuoto nella Santa Sofia a Istanbul attribuito ad Irene.


BIBLIO

- Nicola Bergamo - Irene, Imperatore di Bisanzio - Milano - Jouvence - 2015 -
- Patrizio Corda - Irene d'Atene. L'Imperatrice Mantide - 2020 -
- Anna Maria Fontebasso - Lettere di Pharan: l'ascesa al potere di Irene di Bisanzio - Firenze - 1988 -
- Mirko Rizzotto - Irene Imperatrice romana d'Oriente - 2008 - Pagine Svelate - Gerenzano (Varese) -
- Antonio Calisi - I Difensori dell'icona: La partecipazione dei Vescovi dell'italia Meridionale al Concilio di Nicea II 787 - 2017 -
- Becher Matthias - Carlo Magno - Il Mulino - Bologna - 2000 -

PERCHE' CADDE L'IMPERO ROMANO

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IL MISTERO

L’impero Romano era riuscito a mettere insieme tanti popoli con lingue e tradizioni diverse, sotto un’unica forma di governo, evoluta sotto ogni punto di vista, sociale, giuridico, economico, culturale. Per far questo aveva costruito 80000 km di strade, con ponti, acquedotti, fognature, cisterne, porti, tribunali, ninfei, stadi, archi, mura e porte, basiliche, anfiteatri e teatri, terme, bagni pubblici e templi. Allora perché fra il IV e il V sec. d.c., la più grande civiltà che il mondo abbia mai conosciuto comincia a crollare su se stessa?


La situazione

L'attuale alfabeto europeo, come il suo calendario, le sue lingue, e come l'architettura, la pittura, l'ingegneria, la letteratura derivano da quelli romani, nonchè il principio della giustizia secondo cui "ciascuno è innocente se non a prova contraria" con il suo codice di diritto pubblico e privato e le sue leggi. 

Roma disponeva di una formidabile forza militare, efficiente e unica al mondo, aveva una enorme ricchezza economica basata sui fiorenti commerci per terra e per mare, godeva di un territorio immenso, che si estendeva dal Vallo di Adriano ai confini con la Scozia fino all'Eufrate, dall'Africa settentrionale al Reno e al Danubio. 

Era una macchina perfetta con un diritto scritto che fu faro di civiltà da cui ha attinto tutto il mondo più evoluto, con una rete capillare di strade e di fortezze, di postali veloci, di ricche e bellissime città con una organizzazione amministrativa ancora insuperata. 

Al suo apice, cioè agli inizi del II secolo, l'impero romano aveva 130 milioni di persone dislocati su 3 milioni ottocentomila Kmq. Cosa l'ha fatta cadere in modo così disastroso per cui ci vorrà almeno un millennio per riprendersi almeno in parte?


LA DATA FATIDICA

La caduta dell'Impero romano d'Occidente viene fissata dagli storici nel 476, anno in cui Odoacre depone l'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augusto, nome simile, per ironia della sorte, all'uomo, prima re e poi Dio, reputato il suo fondatore, cioè Romolo re di Roma. 

Romolo Augusto fu ritenuto così l'ultimo imperatore romano d'Occidente, con lo stesso nome del fondatore di Roma e dell'Impero romano, e parve una fine segnata dal destino, e infatti già nel VI secolo, lo storico Marcellino Illirico considerava l'impero romano terminato nel 476. 

Il 476, anno dell'acclamazione di Odoacre re, fu quindi preso come simbolo della caduta dell'Impero romano d'Occidente semplicemente perché da allora, per oltre tre secoli fino a Carlo Magno, non vi furono più imperatori d'Occidente, mentre l'Impero romano d'Oriente, dopo la caduta dell'Occidente, si trasformò diventando talmente greco-orientale da tradire quella sana razionalità illuministica e tollerante che aveva caratterizzato il mondo romano. 

Ed ecco le cause ipotizzate: 

La peste 
a) la peste che spaventò e portò a un vertiginoso crollo demografico, 
b) aveva pertanto pochi contribuenti per il mantenimento dello stato 
c) ne seguì necessariamente una persecuzione fiscale che distrusse l'economia; 
d) si dovette ovviare alla carenza di popolazioni italiche con l'uso massiccio degli immigrati con un processo che sfuggì di mano. 

Secondo l’ Atlante Storico Garzanti: 
a) crisi militare con infiltrazione dei germani nell’esercito, 
b) spopolamento delle campagne per l’eccessivo fiscalismo, 
c) inflazione, 
d) corruzione di funzionari statali e fisco, 
e) crisi dell’ordine pubblico ed economica. 

Secondo M. Prometheus: 
a) Carenze politiche, specialmente mancanza di uno stabile sistema di legittimazione della trasmissione del potere imperiale. 
b) Fiscalismo da cui: Inflazione, Corruzione, Regresso Economico, Spopolamento. 
c) Cristianesimo. 

Secondo William Robertson (1721-1793): 
In "I progressi della società europea dalla caduta dell’Impero romano agli inizi del secolo XVI", vide la causa del crollo dell'impero nell’azione devastatrice dei barbari. 

Secondo Michail Rostovcev (1870-1952): 
La decadenza dell’economia. 

Secondo Edward Gibbon (1737 – 1794): 
Fu il cristianesimo intollerante a determinare la demolizione della antica civilta’. 

LA PESTE

LA DISAMINA DELLE CAUSE


( 1 ) IL CALO DEMOGRAFICO

- Roma al tempo di Cesare aveva un milione di abitanti: sotto Romolo Augustolo, l'ultimo imperatore d'Occidente, solo ventimila, una strage. Di gente da tassare e/o da mandare a difendere il limes ce n'era sempre meno. Le regioni di confine divennero lande semivuote, tentazione fortissima per i barbari dell'altra parte. Si pensò allora di arruolarli dandogli la cittadinanza romana oltre ai soldi, affinchè difendessero le frontiere dello stato.

- E ci si ritrovò con intere legioni composte da barbari che non tardarono a chiedersi perché dovevano obbedire a generali romani e non ai loro capi naturali. Metà di loro erano germanici, e si sentivano più affini a quelli che dovevano combattere.

- La spinta all'espansione era cessata quando i romani si erano resi conto che, schiavi a parte, in Europa c'era poco da depredare. I barbari, invece, vedevano i mercanti precedere le legioni portando vettovagliamenti e merci in quantità.

- Roma soffriva di un calo demografico dovuto non solo alle guerre ed alle carestie, ma anche alle epidemie che si diffondevano molto velocemente e causavano numerose vittime. Il contatto con popoli molto meno attenti a pulizia ed igiene diffuse la peste.

- La peste antonina (165-180), nota anche come peste di Galeno, da colui che la descrisse, è stata un'antica pandemia di vaiolo o morbillo, se non di tifo, riportate in patria dalle truppe di ritorno dalle campagne militari contro i Parti. L'epidemia nel 169 causò la morte Lucio Vero, co-reggente con Marco Aurelio il cui patronimico, Antoninus, diede il nome all'epidemia.

- La peste scoppiò di nuovo nove anni dopo, secondo lo storico Cassio Dione, la cosiddetta Peste di Cipriano, probabilmente un’epidemia di morbillo o ancora di vaiolo, che imperversò in tutto l’impero fra il 251 e il 270, fu un altro colpo alla struttura amministrativa che lo stato romano cercava di dare a un mondo euro-mediterraneo sempre più vasto.

- Essa causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma, un quarto degli infettati. La peste imperverserà nell'impero per quasi 30 anni, facendo secondo le stime tra i 5 e i 30 milioni di morti. La malattia uccise circa un terzo della popolazione in alcune zone, e decimò l'esercito romano. - L'epidemia apparve la prima volta durante l'assedio dei Romani a Seleucia, nell'inverno del 165–66. Ammiano Marcellino afferma che la peste dilagò fino alla Gallia ed alle legioni stanziate lungo il Reno. Eutropio asserisce che moltissime persone morirono in tutto l'impero.

- La grave devastazione che la popolazione europea subì da queste due epidemie fa pensare che queste persone non fossero mai state colpite dalle due pandemie, infatti le malattie endemiche provocano individui ormai immuni alla malattia. Altri storici credono si sia trattato di morbillo, ma altri, a nostro avviso più credibili, pensano si trattasse sempre di vaiolo, dato che il morbillo si scatenò dopo il 500.

- La crisi e la fuga dalle città, che venivano sempre più spesso saccheggiate dai barbari, ma anche per le malattie infettive per le disastrose condizioni igieniche, furono dovute molto al taglio degli acquedotti e dalla chiusura delle terme che resero le persone e il territorio sporco e antigienico favorendo malattie ed epidemie.



( 2 ) LA CRISI ECONOMICA 

 - Il calo demografico portò alla crisi economico-produttiva delle campagne, dovuta alla carenza di persone, al crollo dei traffici commerciali, all'inflazione incontrollata con un ritorno al baratto; gli schiavi che un tempo lavoravano la terra erano diventati liberi e non erano stati sostituiti da altri schiavi. 

 - La ricchezza di Roma attirava grandi traffici di importazione ed esportazione, i romani importavano grandi quantità di frumento, di olio, di carne, di stoffe di cotone, di legno, di stoffe di seta, di argento, di stagno e di marmo ed esportavano vino, oggetti d'argilla, oggetti di vetro, oggetti di argenteria, stoffe di lana, cosmetici, gioielli. Col crollo dei limes il commercio diminuì notevolmente togliendo dal mondo del lavoro commercianti ed artigiani. 



( 3 ) LA TASSAZIONE

- Diocleziano, per ovviare alla carenza di fondi dello stato, operò una riforma fiscale senza precedenti in tutto il mondo Romano, centralizzando il fisco e imponendo due tipi di tasse, una sulla proprietà fondiaria, l’altra sul reddito. Lo stato esigeva le tasse perché doveva pagare l'elefantiaca amministrazione, ma soprattutto doveva mantenere gli eserciti. 

 Diocleziano non comprese che questo sistema di esazione fiscale ben presto avrebbe bloccato l’economia. Nel IV secolo l’inflazione divenne un problema incontrollabile, l’imperatore tentò di 
rivalutare il denaro ma inutilmente.


Il peso della tassazione

"Un Impero come quello dell’Occidente, che non aveva mai ceduto per due secoli e mezzo, a partire dal regno di Augusto, che aveva superato la crisi della metà del terzo secolo e che, riorganizzato internamente da Diocleziano, era riuscito a rimanere ancora intatto per altre tre generazioni, come mai si sgretolò in così poco tempo nel V secolo? 

 E fu questo crollo dovuto principalmente all'aumentata pressione dall'esterno o a un disfacimento interno, o all'uno e l'altro fattore insieme?... Per far fronte alla crescente pressione dei barbari, sia l’una che l’altra metà dell’Impero dovettero aumentare di molto il numero dei soldati nei loro eserciti, probabilmente raddoppiandolo.... 

 Il pesante aggravio economico che l’aumentata dimensione dell’esercito comportava affaticò gravemente la capacità produttiva dell’Impero con la conseguenza di provocare una serie di debolezze. A qualcuno potrebbe sembrare un’esagerazione dire che le risorse di regioni così vaste come quelle che costituivano l’Impero romano potessero essere affaticate eccessivamente dalla necessità di rifornimenti alimentari, di vestiario e di armamento di 300 000 uomini in più; ma non dobbiamo dimenticare che tecnologicamente l’Impero era più addietro anche dell’Europa medievale. 

 Con i primitivi sistemi di agricoltura, di produzione industriale e di trasporti che allora si usavano, erano necessarie molte più ore lavorative di quanto non sia oggi, per produrre i viveri per le razioni, tessere la stoffa per le uniformi, forgiare e rifinire le armi e le armature, e trasportare tutto questo materiale con chiatte o carri nelle zone di confine. 

 Per far questo le tasse dovettero essere aumentate di molto, e per stabilire gli imponibili e raccogliere le nuove tasse, l’apparato amministrativo dovette anch'esso allargarsi, ciò che, di nuovo, significava un altro aumento nel peso della tassazione. 

 Il pesante aggravio prodotto dalle tasse fu probabilmente la causa prima della decadenza economica dell’Impero. Un’altra causa fu l’aumento della popolazione improduttiva in proporzione al numero delle persone produttive: i senatori con le famiglie e lo stuolo di servitori, i decurioni, gli impiegati dell’amministrazione pubblica, gli avvocati, i soldati, i cittadini delle capitali. Il peso in tasse e in affitti che di conseguenza fu scaricato sulle spalle dei coltivatori risultò troppo gravoso e la popolazione agricola lentamente si ridusse di numero." 

 (Arnold H. M. Jones)


( 4 ) LA CORRUZIONE 

 - La perdita di coesione sociale, dovuta all'enorme squilibrio nella distribuzione della ricchezza: lusso eccessivo per pochissimi privilegiati e povertà estrema per la grande massa dei contadini e del proletariato urbano; il popolo non aveva più nè soldi nè voce, ormai simili agli squilibrati popoli orientali. Il diritto era un bel ricordo e così i plebei con i loro tribuni che garantivano i loro diritti. 

- La mancanza di consenso nei confronti del governo centrale, causata anche dalla degenerazione burocratica: da una parte corruzione sistematica, dall'altra eccessivo peso fiscale che finiva per gravare sui ceti meno abbienti; sfiducia nel potere centrale, corruzione, odio e sfruttamento. 

- L’incapacità del potere centrale di contrastare le acclamazioni degli imperatori da parte degli eserciti, era dovuta alla debolezza del senato, a sua volta accresciuta da un’insicurezza sociale diffusa, mancanza di lavoro, inflazione, paura del futuro.

DEPOSIZIONE DI ROMOLO AUGUSTO


( 5 ) Il VALORE DELLA MONETA


La Moneta d’Argento più utilizzata durante i primi 220 anni dell’Impero era il denarius, una moneta delle dimensioni dei 10 centesimi di Euro, che valeva la paga di un giorno di un artigiano o di un soldato. All'inizio dell’Impero il denarius conteneva 4,5 grammi di argento puro.

Per finanziare le guerre, costruire strade, terme, palazzi e circhi gli imperatori dovettero diminuire la purezza del conio mantenendo lo stesso valore nominale. Con meno argento si poteva coniare un maggior numero di monete e quindi spendere di più. Così ai tempi di Marco Aurelio, il denarius era composto da solo il 75% di argento.

Caracalla Introdusse il “doppio denarius”, che aveva un valore nominale doppio ma con il peso di 1,5 denarii. Ai tempi di Gallieno, la moneta aveva appena il 5% in argento. La parte interna era in bronzo con un sottile rivestimento in argento che veniva facilmente consumato rivelando lo scarso valore.

Naturalmente si creò così un'inflazione, la merce costò più cara e i soldati chiesero salari più alti, infatti Caracalla dovette aumentare la paga dei soldati del 50% nel 210 d.c.. Nel 265 d.c., quando nel denario c’era solo lo 0,5% di argento, i prezzi erano alle stelle in tutto l’Impero Romano e solo i mercenari barbari venivano pagati in oro. Inflazione, tasse altissime e denaro senza valore bloccarono gran parte degli scambi commerciali dei Romani.

Alla fine del III secolo, gli scambi commerciali erano soprattutto a livello locale, il commercio per mare diminuì drasticamente. Tra gli anni 235 e 284 d.c. regnarono più di 50 imperatori, molti dei quali vennero uccisi, assassinati o perirono durante le battaglie. E vennero le invasioni dei barbari.


( 6 ) LE INVASIONI BARBARICHE 

- I barbari di solito si spostavano in piccoli gruppi, inserendosi in una situazione dove l’impero poteva controllare e reagire, come effettivamente fece fino a quando ci riuscì. Attraverso l’istituto dell’hospitalitas, la stessa Roma consentiva l'entrata dei barbari nei suoi confini, dava loro delle terre e chiedeva in cambio protezione militare nei confronti di altri barbari. Alla fine del III secolo ci furono una serie di imperatori, abili comandanti militari, che riuscirono per circa due secoli a tamponare un po’ la crisi.

LA PESTE


( 7 ) L'ESERCITO STRANIERO 

 - L'Impero già prima del 476 si presentava rispetto ai secoli precedenti molto meno romanizzato e sempre più di impronta germanica, soprattutto nell'esercito, l'asse portante del potere imperiale. Goti, Unni, Franchi e altri popoli barbarici costituivano l'esercito che combatteva per la salvezza e la gloria di Roma. 

- Ma la pax romana, senza bisogno di guerre ulteriori, richiedeva la presenza di forti e numerosi eserciti. Il reclutamento dei soldati gravava sull'agricoltura, perché sottraeva braccia al lavoro nei campi; le spese per arruolare e mantenere i soldati erano molto elevate; per fare fronte alle spese era necessario aggravare la tassazione; il peso delle tasse provocava il malcontento della popolazione. 

 - I difetti del sistema costituzionale, con il governo centrale condizionato dallo strapotere dell'esercito e sempre a rischio di usurpazione. Come in una dittatura chi assicurava il potere al dominatore era l'esercito, e come in ogni dittatura l'esercito doveva essere pagato profumatamente, visto che era pronto ad asservirsi a chi l'avrebbe pagato di più.


Il reclutamento nell’esercito romano e la crescente presenza dei barbari. 

"Le regole generali di arruolamento nell'esercito prevedevano che i soldati fossero procurati, parallelamente all'esazione di altre imposte, dai proprietari fondiari, grandi e piccoli, questi ultimi raggruppati in modo che l’obbligo di dare una o più reclute pesasse solidalmente su un consorzio: la scelta cadeva in tal modo sulla popolazione contadina, soprattutto sul colonato dipendente, e il servizio imposto ai soldati si prolungava nel tempo per oltre un ventennio, non senza una forte tendenza..., a trasformarsi in un obbligo ereditario. 

 Ma invece di persone il grande proprietario o il consorzio potevano offrire una somma di denaro, che consentisse ai responsabili del reclutamento di procurarsi altrove i soldati: e fu questa la via che favorì il crescente ricorso ad elementi germanici, più facilmente disposti a farsi assoldare. Poiché i soldati germanici, rispetto a quelli forniti dai proprietari fondiari a modo di imposta, rivelarono buone qualità militari, e nell'esercito romano furono accolti anche germani già avvezzi al comando presso le proprie tribù, la presenza di tali elementi assunse nell'esercito dell’Impero un’importanza non soltanto numerica. 

 Nel corso del IV sec. andò crescendo la proporzione degli ufficiali militari di origine barbarica rispetto a quelli provenienti dai ceti elevati dell’Impero o dall'avanzamento dei veterani reclutati nella popolazione rurale. Salirono anche ai gradi più alti: furono sempre più numerosi fra i duces, a cui era affidato il comando militare delle regioni soprattutto di confine; e divennero anche comandanti supremi, subordinati soltanto all'imperatore. 

 Le grandi famiglie senatorie per lo più non disdegnarono di estendere a questi Germani, potenti nella corte imperiale e per la base economica conseguita, le alleanze anche matrimoniali con cui usavano appoggiarsi fra loro. 

L’assimilazione dei Germani di dignità senatoria nell'aristocrazia dell’Impero poté quindi apparire perfetta. Ma la loro origine non era dimenticata: perché essa li poneva in una relazione speciale con tutti i gruppi germanici non assimilati dell’Impero, presenti in modo cospicuo nelle forze armate, e con intere popolazioni, ora alleate ora nemiche dell’Impero. Ciò avvenne ovunque, in Occidente e in Oriente, ed anche in Italia." 

 (Giovanni Tabacco)


( 8 ) LA RELIGIONE 

 - In accordo con gli illuministi del XVIII secolo: Montesquieu, Voltaire ed Edward Gibbon, pur riconoscendo che la caduta dell'impero d'Occidente avvenne per cause concomitanti, riteniamo che la causa principale della caduta sia stata la religione cristiana. 

- Molte erano le vocazioni religiose e poche quelle militari, Voltaire sosteneva che l'Impero aveva ormai più monaci che soldati. Inoltre la diffusione del Cristianesimo aveva scatenato dispute religiose, che alla fine divisero ancor più l'Impero, accelerandone la rovina. 

- Tra gli uomini che si facevano monaci e le donne che si votarono alla verginità, decrebbe ancor più la natalità, considerando il mondo, come espresse Agostino, un pellegrinaggio temporaneo e quindi privo di importanza. 

 - Per comprendere quanto incise il cristianesimo sulla natalità basti guardare le leggi di Maggiorano (420-461) (che proibì alle donne di farsi monache prima dei 40 anni, poiché ciò stava causando la diminuzione delle nascite, in un momento in cui Roma aveva bisogno di difensori armati. 

 «Egli (Maggiorano) presenta la gradita scoperta di un grande ed eroico personaggio, quali talvolta appaiono, nelle epoche degenerate, per vendicare l'onore della specie umana.»(Edward Gibbon, Storia del declino e della caduta dell'Impero romano, capitolo xxxvi, s.a. 457) 

- Ci furono aperte esultanze di cristiani eminenti come Tertulliano o Salviano di Marsiglia, di fronte alle disfatte e alle invasioni. Sant'Agostino predicava che la sola e vera patria dei cristiani era quella celeste e che le città degli uomini rovinavano non per colpa dei cristiani, ma per effetto delle scelleratezze dei loro reggitori. Insomma i cristiani non combatterono i barbari anche se non si opponevano all'impero. Nell'Impero d'Oriente invece il Cristianesimo divenne invece una sorte movimento nazionale che si opponeva decisamente ai barbari, perchè era Dio che lo voleva e pretendeva addirittura la conversione di tutti i popoli, usando qualsiasi mezzo, lecito e illecito, pietoso e impietoso, la fede era l’unica risposta possibile alla vita rischiosa, faticosa, grama e disperata, che offriva come consolazione solo la speranza di una vita migliore dopo la morte. Anzi chi più avesse sofferto di più sarebbe stato più ricompensato. 

- Il Cristianesimo divenne l'unica religione legale nel 391 con l'imperatore Teodosio che portò con la forza i Cristiani al 50% della popolazione dell'Impero, ma tutta raggruppata nelle città dove era possibile controllarli. Una crescita straordinaria se si pensa che all'epoca di Costantino, quando l'imperatore emanò nel 311 l'editto di Nicomedia che legalizzò il cristianesimo, i Cristiani erano solo il 30% e nelle campagne la religione cristiana era quasi sconosciuta. 

- Le chiese cattolica ed ortodossa considerano il persecutore dei pagani Teodosio un loro Santo, e la persecuzione degli ebrei iniziò nel 315 a soli 3 anni dalla Libertà di culto proclamata da Licinio e ribadita nel 313 da Costantino. Licinio punì la conversione all'ebraismo con la pena di morte, idem per i matrimoni misti per il coniuge ebreo dal 339 e per entrambi dal 388. 

- Alla fine del IV e nel V secolo la crisi dell'impero si aggravò tanto da portare sconforto in ogni settore: militare, politico, civile, economico e culturale. Per l'uomo non c'era più speranza in questa terra. L'unica salvezza era nella religione. 

 - La Chiesa, con il proclama della religione di stato, divenne intollerante, crudele, dispotica e autoritaria. La lotta alle idee divenne fondamentale per la gestione sociale, la libertà di pensiero divenne reato e crollò miseramente. Chi non si convertiva veniva condannato a morte e la sua famiglia perdeva i suoi beni e veniva esiliata.

COSTANTINOPOLI

L'IMPERO D'ORIENTE 

Nell'economia 

 - Roma fu fondata nel 753 a.c. l'Impero finì nel 476 d.c., di conseguenza lo Stato romano durò 1229 anni. L'impero romano d'Oriente nacque nel 345 e cadde nel 1453 d.c., durando per 1108 anni e perdurando oltre l'Impero d'Occidente per altri 977 anni, ma l'Impero d'Oriente fu molto diverso da quello d'Occidente. 

 - Mentre Roma si alleò con i barbari esterni per difendere i propri confini, lasciando che i comandanti militari barbari e i rispettivi popoli agissero in totale autonomia, Costantinopoli invece integrò i popoli barbari all'interno dei suoi confini, tanto che quando salì al trono il barbaro Zenone era già legittimato dalla lunga permanenza degli isaurici nell’Impero, potendo combattere gli Ostrogoti nella penisola balcanica, come imperatore e comandante militare. 

 - Il Senato peraltro agevolò il contatto tra latifondisti e burocrati come era avvenuto nella Roma imperiale, mentre in Occidente nel IV secolo quel ruolo si era disgregato. l'Impero d'Occidente era diventato debole e povero, con tasse gravose, carenza di schiavi per lavorare nei vasti latifondi e città spopolate dalle epidemie e dalle incursioni barbariche, mentre nell'Impero d'Oriente l'agricoltura fu 
fiorente, l'organizzazione militare fu basata sulla cavalleria, e c'era una buona amministrazione.

PROCESSIONE A BISANZIO

Nella Religione 

- Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, l'Impero Romano d'Oriente, detto anche Impero Bizantino con capitale Costantinopoli, sopravvisse ancora per un migliaio d'anni anni, sviluppando però una monarchia assoluta sul modello di quelle barbariche orientali. Il rispetto del popolo romano e la tolleranza verso le religioni, caratteristiche dell'Impero Romano, erano cadute per sempre. 

 - L’imperatore si considerava un essere superiore e viveva nel suo palazzo separato dal popolo, al quale si presentava solo in occasione di fastose cerimonie. Vicino all'imperatore viveva la corte, tra nobili e consiglieri. L’intera società era suddivisa in classi sociali molto separate: pochissimi e ricchissimi i membri delle classi alte, moltissimi i poveri. 

 - L'impero d'Oriente finì molto presto di essere romano. L'imperatore divinizzato doveva essere privo di difetti fisici (prova della punizione di Dio verso gli indegni), tanto che nella lotta per il soglio imperiale frequentemente il vincitore deponeva il predecessore condannando lui e pure i suoi figli al taglio del naso, o della lingua, o alla castrazione rinchiudendoli poi in convento. 

 - L’impero d'Oriente, ormai imbarbarito, esaltava il ruolo sacrale dell’imperatore raffigurato nelle Chiese in mezzo ai santi, quale inviato e voluto da Dio. A questo scopo sorse una serie di cerimonie liturgiche lunghe, complesse e molto sceniche che duravano per tutta la vita dell’imperatore. La religione divenne orientale, i fedeli si inginocchiavano, supplicavano, si prostravano, si battevano il petto, si auto-infliggevano punizioni. 

 - L'impero Bizantino aveva una cultura più greca che romana, risentendo quindi molto della cultura levantina, per cui l'imperatore, divinizzato già in vita, possedeva il potere taumaturgico, poteva curare dalle malattie con il solo tocco delle mani. 

Questa supposta qualità faceva si che i fedeli potessero chiedere di sfilare davanti all'imperatore toccandone le mani, poi toccandone solo la veste e infine solo la veste senza l'imperatore dentro. Tale potere taumaturgico venne trasportato anche in occidente, anche in Francia e in Inghilterra, tanto che 
ancora nel '900 si diceva: "La regina (Elisabetta) ha toccato, il malato guarirà" trasformato poi in
"La regina ha toccato, Dio guarirà il malato". 

In questo clima di credulità ed esaltazione chi combatteva i barbari (cioè i non cristiani) si acquistava il paradiso, un po' quello che accadde poi nelle crociate. Il messaggio cristiano non passò ma passò quello orientale che legittimava guerre e stermini.

LE MURA DI COSTANTINOPOLI

Nelle difese 

 - Inoltre Bisanzio (Costantinopoli) aveva mura tanto potenti da renderne impossibile lo sfondamento almeno fino all'avvento dell'artiglieria con la polvere da sparo, avendo infatti tre potenti cinte di alte e spesse mura difensive con un fossato d'acqua a guardia di esse. Aveva anche una catena enorme che proteggeva un lato in modo che le navi nemiche non potessero semplicemente salpare e attaccarle dall'estuario noto come il Corno d'oro. 

 Ogni volta che rischiavano una sconfitta, i romani potevano semplicemente ripararsi all'interno della loro città fino a quando la minaccia non fosse passata. All'interno delle mura furono completamente al sicuro fino a quando, nel 1453, il turco Sultano Mehmet II decise di costruire il più grande cannone che il mondo avesse mai visto. Costantinopoli non solo aveva mura impenetrabili, ma aveva anche enormi serbatoi sotterranei di acqua dolce. 

Queste cisterne sotterranee furono riempite da sorgenti nelle colline circostanti tramite acquedotti e furono in grado di fornire alla città abbastanza acqua fresca per resistere a quasi tutti gli assedi. Si ritiene che la Cisterna Basilica (una delle numerose cisterne sotterranee) abbia una capacità di 80 milioni di litri di acqua dolce.



DIFFERENZE TRA MENTALITA' PAGANA E MENTALITA' CRISTIANA 

Per comprendere davvero la causa e le concause della caduta dell'impero occorre anzitutto ricostruire la vita e la mentalità dell'epoca. 



MENTALITA' PAGANA 

I Romani avevano l'orgoglio di essere continenti, cioè di godere e di sperimentare di tutto ma con moderazione. Il principio del "Buon Padre di Famiglia" presupponeva che rispettasse la moglie e allevasse con cura i figli, ma pure che fosse giusto con gli schiavi. Ma la prima qualità era d'esser bravo cittadino romano e soprattutto buon combattente, poi uomo pio, cioè devoto agli Dei e infine generoso con la famiglia. 

La religione era importante per i romani ma anche qui non si doveva esagerare, il fanatismo non era visto di buon occhio, e nemmeno si pensava che gli Dei chiedessero di essere amati e pregati oltre misura. Era sufficiente fare i riti e le offerte, passare troppo tempo nei templi era sospetto. Si pregavano gli Dei che più piacevano e convenivano, Dei che assicurassero il buon raccolto, o la fertilità, o il buon matrimonio, o la vittoria sui nemici o la buona salute e così via. 

Gli Dei per essere onorati dovevano essere utili, infatti venivano omaggiati per le grazie ricevute solo a conti fatti, ingraziarsi gli Dei prima non esisteva per i romani. L'imperatore faceva parte degli Dei, ma veniva onorato privatamente solo se era un buon imperatore. 

Anche all'interno degli accampamenti, i soldati seguivano la religione ufficiale, soprattutto di Giove e Marte, il Dio militare per eccellenza, ma soprattutto delle insegne e dell'imperatore. Le insegne furono sempre oggetto di particolare rispetto da parte dei soldati, i quali in combattimento le difendevano con accanimento. In età imperiale, i soldati onoravano soprattutto l'imperatore vivente, la cui immagine era riprodotta su medaglioni fissati sulle aste delle insegne. 

Ma i soldati veneravano anche le divinità del loro paese d'origine, spesso insieme a quelle che imparavano a conoscere nel territorio in cui prestavano il servizio militare. - Roma - Dei - Famiglia - erano i riferimenti sacri, e nessuno avrebbe sovvertito quest'ordine. Se la patria chiamava si andava a combattere e se si voleva essere bene accolti in famiglia, tra gli amici e in società, occorreva anche vincere. 


Il popolo era allegro e sperava nel futuro. 
Roma era il paese delle possibilità, come un tempo l'America per l'Europa, chiunque sapesse fare una qualsiasi cosa metteva un banchetto in piazza o magari solo un tappeto per terra ed offriva i suoi manufatti o i suoi servigi. 

Quindi artigiani, non solo nostrani, ma pure orientali o etnici, potevano mostrare la loro merce e nel fiume di gente che passava sicuramente qualcuno apprezzava e comprava. Oppure si offriva il mestiere di sarta, o di barbiere, o di acconciatore di vasi in terracotta, o di creatore di oggetti in cuoio (borse, scarpe, cinture, mantelli), o di scultore di oggetti in legno (puramente decorativi o scatole porta gioielli, o porta cosmetici, o porta strumenti per scrivere ecc.). 

C'era pure il venditore di giocattoli, di bambole, di stoffe esotiche, di gabbie lavorate, di ombrellini da sole, di ventagli decorati e non, di gioielli tintinnanti in argento o in ferro o in bronzo, di campanelle, di flauti, biflauti, cetre, lire e cimbali, di riproduzioni di divinità, o di maschere da teatro. 

Insomma si poteva lavorare anche senza affittare un negozio, bastava mettersi davanti ai templi nei giorni di festa, a Roma c'era una festa un giorno si e uno no, oppure davanti alle terme dove tutti andavano, dai più poveri ai più ricchi, oppure davanti alle basiliche dove si andava ad assistere ai processi per valutare i migliori avvocati, e dove le arringhe erano spettacoli. Chiunque avesse voglia di lavorare lavorava, e sopravviveva, più o meno bene. 


Nelle campagne c'erano culti antichi mai toccati. 
Anche se tutti onoravano gli Dei cittadini, ogni straniero poteva adorare gli Dei della sua terra natia, e poteva pure dedicargli un altare o un'edicola o addirittura un tempio. Certamente un tempio a Roma presupponeva dei sacerdoti che ne curassero il culto a spese dello stato. per cui non era facile ottenere questo a meno che non fossero parecchi gli abitanti che lo richiedessero, vedi sull'Aventino. 

Ma nelle campagne si adottavano ancora gli antichi culti italici a cui Roma non faceva alcuna opposizione essendo estremamente tollerante, e addirittura favorevole, ai culti più antichi dismessi, spesso dedicati a madre Natura nella triplice veste di colei che dà la vita, che nutre e che riprende a sè nella morte. 

Nelle campagne si protraevano dunque riti arcaici e segreti, di solito non cruenti, per lo più affidati alle donne che conoscevano i boschi e le erbe, pertanto con un ruolo di guaritrici. Molto vivo era anche il culto delle divinità minori, come quello delle ninfe e dei satiri. Le ninfe si prendevano cura delle acque, degli alberi, delle rocce e degli antri segreti. 

Non mancavano dei riti di fecondità in cui, in determinate feste, le coppie o giovani non accoppiati, si univano a fare sesso in nome della Dea prolifica, appartandosi negli anfratti sacri o nel folto delle selve. Tutto questo andò bene finché non venne la religione monoteista che bollò tutto questo come orgia e stregoneria. 


L'amore di patria era il sommo bene. 
Servire la patria era il sommo bene. Non si poteva intraprendere una carriera politica se prima non si era servita la patria in modo egregio, senza Cursum Honorum non c'era onore, rispetto o carriera pubblica. Il buon romano serviva prima la patria, poi gli Dei, poi la famiglia. Un nobile patrizio doveva dare lustro alla sua famiglia combattendo e vincendo per la patria. 


C'era l'orgoglio di essere romani. 
"Civis romanus sum" era una garanzia e un orgoglio. Viaggiando per il mondo ci si accorgeva quanto la civiltà romana fosse aldisopra di quella di qualsiasi popolo. Non si poteva non essere orgogliosi delle proprie leggi, del valore e della grande capacità degli eserciti romani, dell'arte romana, della bellezza ineguagliata delle città dell'impero. 

La cultura era diffusissima, c'era un'unica lingua. Per tutto l'impero si parlava latino, c'erano scuole pubbliche e private. Tutti sapevano parlare, scrivere e far di conto. Perfino gli schiavi andavano a scuola. L'alfabetizzazione era come oggi. Decadde miseramente nel medioevo, quando la chiesa provvide a chiudere tutte le scuole. 


Il diritto assicurava il potere del popolo. 
Roma era intesa come S.P.Q.R. Senatus populusque romanus, vale a dire che il potere era nelle mani del senato e del popolo romano. Mentre in oriente vigeva il monarca col diritto assoluto, vale a dire con diritto di morte su tutto il popolo, a Roma anche quando vi furono imperatori prepotenti e ingiusti, non si misero mai contro il popolo, semmai angariarono i senatori, ma il popolo lo rispettavano, perchè questo conosceva i suoi diritti e li faceva valere. Bastava un nulla per far scendere in piazza un milione di persone, e gli imperatori lo sapevano. 


Le terme erano per tutti, schiavi compresi. 
I romani erano puliti, inventarono prima i bagni e poi le terme, estese presto a tutti i cittadini romani, gratuite o quasi. Ogni romano dopo il lavoro, che in genere terminava verso mezzogiorno, se ne andava a prendere il bagno alle terme, ancora più pulite delle piscine di oggi, perchè l'acqua era perennemente corrente, per cui perennemente pulita. 


Il culto degli antenati era vivissimo, essi proteggevano la loro discendenza, c'era un forte legame nell'ambito della stessa gens. 
Questo culto, molto sentito tra i romani, era esaltato nei funerali, nelle feste dei morti, negli antenati di Roma che ancora vegliavano sulla città dei loro discendenti.


MENTALITA' CRISTIANA 

La nuova fede cristiana ebbe il maggior numero di seguaci tra gli uomini di truppa ed i graduati, soprattutto delle legioni reclutate in Oriente ed in Africa, mentre quelle reclutate in occidente erano formate in maggioranza da elementi provenienti dalle zone rurali (pagani), nelle quali la diffusione del cristianesimo fu più lenta perchè più difficile da imporre con la forza.. Basti pensare che il culto di Diana era ancora vivo nel suolo italico fino al 1500, seguito in segreto nelle case di campagna e nel segreto dei boschi con i riti e la cura delle erbe.

Da qui la caccia alle streghe. È certo che fino al cosiddetto editto di Milano, nel 313 d.c., con il quale gli imperatori Licinio e Costantino sancirono la liceità della religione cristiana, i soldati che la professavano venivano tollerati fino a quando non assumevano una netta posizione di intransigenza, fino a quando cioè non si rifiutavano di adempiere i doveri connessi alla loro condizione di appartenenti all'esercito.

Non compiere il servizio militare o, più grave tra tutti, non voler prestare il giuramento all'imperatore, richiesto ad ogni nuova elezione, erano comportamenti che venivano puniti con la morte. Per tali atti di disobbedienza, ispirati dai rigidi princìpi della nuova fede, molti cristiani subirono il martirio. L'assorbimento del cristianesimo non fu veloce nè indolore. Al contrario di tutti gli altri Dei questo nuovo Dio voleva essere unico, voleva permeare tutta la vita degli uomini ed essere l'unico punto di riferimento per tutti. Pretendeva inoltre una venerazione che andava molto più in là degli Dei pagani.


Il popolo divenne cupo e non sperò più.
C'era poco da stare allegri, la miriade di Dei bellissimi, giocosi, anche biliosi, ma si potevano scegliere, venne sostituita da un Dio eternamente torturato e sofferente, che si era offerto al sacrificio (oppure era stato truffato, non si sa bene) da un Padre poco padre visto che lo ha fatto finire in croce. 

Per giunta per questa religione tutti erano colpevoli, per cui dovevano o riscattarsi o pagare, perchè si nasce tutti colpevoli per un peccato originale che mai commesso (alla faccia della giustizia). Ma anche se non ci fosse quella colpa ce n'erano così tante che evitare il castigo era praticamente impossibile. Ogni piacere era peccato, dal sesso al cibo, al bere e agli spettacoli. 

L'unica gioia doveva essere pregare e sacrificarsi, dormendo poco, mangiando poco ed evitando il sesso a meno che non si volessero figli. Fare il militare poi uccidendo i propri fratelli era peccato, per cui molti evitarono le guerre lasciando il paese indifeso. 


Gli antichi culti vennero snidati e condannati ferocemente. 
Questi culti furono perseguitati con infinita rabbia e crudeltà. Dopo aver obbligato tutti alla conversione, pena la morte e la confisca dei beni ai familiari, ci fu la distruzione delle bellissime statue e dei templi stupendi, a cui i credenti dovevano assistere impotenti. Solo le campagne si salvarono, perchè gli antichi riti venivano fatti all'aperto in luoghi solitari fuori dal controllo cittadino. 

Per questo costoro vennero spregiatamente chiamati pagani, in quanto abitanti dei pagus, cioè dei villaggi difficili da controllare uno per uno. Per questo i culti proseguirono nelle campagne finchè la chiesa adirata istituì la santa Inquisizione che operò contro questi culti rimasti, torturando e bruciando tante persone sinché il terrore invase tutti gli animi e nessuno osò più credere a nulla. 


L'antica romanità divenne sempre più un sinonimo di paganesimo da cancellare. 
L'orgoglio di essere romani decadde, gli uomini divennero analfabeti e ignoranti, quindi in grado di credere qualsiasi cosa gli venisse propinata. E la Chiesa insegnò che Roma era stata una meretrice in quanto pagana, per cui una vergogna tutta da cancellare. Calcinazione dei marmi il riutilizzo dei materiali e una distruzione sistematica di monumenti, statue e opere d'arte romane venne messa in atto per cancellarne ogni ricordo. 


L'unico bene era il Signore Iddio, la patria non contava più. 
L'amore doveva essere diretto solo a Dio, uccidere era un delitto, difendersi significava non aver fede in Dio, se poi venivano gli stranieri e ammazzavano e saccheggiavano questo era il volere di Dio per le colpe commesse. 


Non c'erano più scuole e non c'era più una lingua. 
La prima cosa che fece la chiesa fu di chiudere tutte le scuole lasciando solo quelle per il clero. Così la gente non parlava più latino ma solo una miriadi di idiomi derivati, i cosiddetti dialetti e nessuno poteva più leggere la storia passata. Dell'Impero romano si cancellò anche il ricordo. Il polo piombò nella superstizione, nella fame e nell'ignoranza. E fu Medioevo. 


All'S.P.Q.R. subentrò il potere dispotico della chiesa. 
Il diritto del popolo che poteva emettere leggi, abrogarle, porre veti alle leggi dei ricchi, nominare generali cadde totalmente. La Chiesa divenne una monarchia assoluta che fece e disfece troni in ogni parte d'Europa. 


Le terme vennero chiuse come luogo di depravazione. 
Le terme erano considerate uno scandalo perchè si vedevano le nudità, con tutto che i sessi erano già divisi. Inoltre erano un divertimento e pertanto riprovevoli. Anche lavarsi troppo era peccato, perchè il proprio corpo andava disprezzato, trascurato e mortificato. Sparì inoltre ogni forma di spettacolo, divertirsi era peccato. Dio amava solo coloro che si sacrificavano. 


Per la nuova religione gli antenati e i defunti in genere non potevano proteggere nessuno, perchè anche essi erano impotenti di fronte all'arbitrio di Dio. 
Ora dovevano essere i vivi a pregare Dio perchè fosse misericordioso con i morti, sperando di poter almeno mitigare le terribili pene che il Dio assoluto infliggeva a chi non fosse vissuto per obbedire supinamente ai suoi voleri e ai suoi capricci.


LA DEPRESSIONE 

Con questi principi la gente cadde in depressione, si disperò, la vita era diventata un peso e un sacrificio, lo stesso tentativo di stare bene era peccato. Il sesso era peccato, l'unico amore vero doveva essere rivolto a Dio. Il matrimonio era consentito ma solo perchè si dovevano fare figli, ma la forma perfetta di vita era quella dei preti con la loro castità (si fa per dire). 

Perfino suicidarsi era peccato, l'unica via era quella della sofferenza e della sopportazione. L'unica speranza era riposta in Dio che li risparmiasse in questa vita o nell'altra. Così tutta l'arte e tutta la scienza vennero dimenticate. Ti ammali? Non andare dal medico, prega Dio. Muori di fame? Dio ti ama. I potenti e l'alto clero sono ricchissimi e tu poverissimo? Dio castigherà e premierà nell'ora del giudizio. Così svanì la medicina, l'ingegneria, l'edilizia, l'artigianato, la poesia, il teatro, e pure l'arte di difendersi in guerra. 

I romani non combattevano perchè la patria non contava, contava solo Dio. Roma era stata da sempre attaccata dai nemici ma si era sempre difesa perchè aveva ottimi generali che forgiavano ottimi combattenti. Ma difendersi non contava, se c'era la guerra era perchè Dio era arrabbiato dei peccati dei romani. L'impero romano era un'ignominia da dimenticare e prima si abbatteva tutto ciò che era stato romano meglio era. 

E prima si bruciava ciò che era stato romano meglio era. L'arte, la scrittura erano solo vanità, e così immensi patrimoni di prosa e poesia vennero bruciati, e bellissime statue vennero fatte a pezzi e calcinate. E stupendi monumenti che nessuno è stato poi in grado di ricostruire vennero abbattuti con protervia e tenacia, Roma doveva essere dimenticata. 

Contava solo Dio e il pentimento dei peccati. E Roma era un peccato da cancellare. Così avanzò l'evo buio, privo di arte, di cultura, di conoscenza, di libri, di gioia ma pieno di superstizioni. E da quel medioevo, dopo duemila anni, non ci siamo del tutto ripresi. 


BIBLIO 

- J. Bagnell Bury - The Invasion of Europe by the Barbarians - 1928 - 
- Edward Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'impero romano - traduzione di Davide Bertolotti - 1820-1824 - 
- Santo Mazzarino - La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell'impero romano - Rizzoli - 1988 - 
- Edward Gibbon - Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano - L'Impero d'Oriente - 
- Arnold Hugh Martin Jones - The later Roman Empire, 284-602: a social, economic and administrative survey - Norman - University of Oklahoma Press - 1964 - 
- John Bagnell Bury - History of the Later Roman Empire - Londra - Macmillan & Co. - 1923 -

TEMPIO DEA CAELESTIS

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EX VOTO ALLA DEA CAELESTIS CHE RECITA:
"A CAELESTIS VITTORIOSA LOVINUS SCIOLSE IL SUO VOTO"

Margherita Guarducci: “E come Tanit era venerata sull’acropoli di Cartagine, così a Roma la dea, divenuta Caelestis, ebbe probabilmente fin dall’inizio la sua dimora sull’arce della città, sul Campidoglio, là dove fioriva da tempi molto antichi il culto di Giunone Moneta, sia per rispetto dei principi di topografia religiosa dei Romani, che attribuivano alle figure connesse con la sovranità cosmica attuale i summa, i luoghi più alti."

Si sa che dopo la distruzione di Cartagine, il culto della Dea Caelestis venisse trasferito a Roma, e magari momentaneamente ospitato nel tempio di Iuno Moneta sull’Arx, mentre solo in epoca imperiale alla Dea venisse dedicato un proprio santuario.

Ciò contraddice il voto di un tempio e di giochi sacri espresso da Scipione a Tanit e agli Dei di Cartagine, come riferisce Macrobio, tanto che alcuni studiosi pensarono che il culto avesse potuto continuare in situ, ma la totale distruzione di Cartagine contraddice l'idea.

Certamente non si ebbe a Roma la realizzazione di un tempio grandioso, in tal caso avrebbe lasciato qualche traccia a livello documentario, ma comunque anche il semplice trasferimento della statua cultuale della Dea cartaginese avrebbe richiesto una degna sede. 

Se quindi appare probabile che un luogo di culto per Iuno Caelestis nell’Urbs dovesse esistere sin dall’epoca repubblicana, in realtà non esiste alcun documento riconducibile al culto prima dell’età imperiale.

La prima attestazione certa di Iuno Caelestis è, infatti, il piccolo frontone mutilo rinvenuto a Roma nella zona del Campidoglio, in cui la Dea appare al centro del rilievo assisa su leone in movimento; alla sua destra una stella a otto raggi la indica come Caelestis; all’estremità si riconosce il dio Sole con corona radiata che sorge con il suo carro; per cui nella parte opposta doveva rappresentata la quadriga della luna.

Nel secolo successivo l’assimilazione con Iuno tende ad attenuarsi mentre il nome Caelestis si trova attribuita ad altre figure divine femminili Venus, Diana, Virgo o anche semplicemente Dea. Invece il suo aspetto di Virgo Caelestis cominciò a riguardare la produzione della pioggia, che essa era in grado di promettere secondo la formula pluviarum pollicitatrix riportata da Tertulliano: “Ista ipsa Virgo Caelestis, pluviarum pollicitatrix”.

In epoca imperiale il suo culto si concentra sulla zona del Campidoglio e la più antica epigrafe cultuale sembra essere la dedica a Venus Caelestis Augusta e a tutti gli Dei (Dii omnes) pro salute per la salvezza dell’imperatore Nerva Traiano. Grande impulso al culto della dea Caelestis fu dato dall’imperatore Settimio Severo, a causa anche delle sue origini africane, ma fu con Elagabalo che il culto della Dea fu al top. 

L’imperatore ordinò la costruzione di un tempio dedicato al culto della Dea Caelestis sul Campidoglio e forse anche di un altro più modesto sul Palatino; e il suo simulacro venne fatto venire da Cartagine Nuova.

 Ancora Elagabalo nel 221 d.c. celebrò la ierogamia della Dea con il Dio solare di Emesa, di cui egli stesso era il sacerdote. Se il trasferimento della statua cultuale della dea Caelestis da Cartagine Nuova a Roma prova che nel culto praticato sul Campidoglio la dea Caelestis aveva conservato un suo aspetto originario.

Due dediche, una a Invicta Caelestis Urania da parte di adepti del culto di Mithra con il grado di Leones e l’altra a Caelestis Victrix, a Deus Sol Mithra, Venus Felix e Cupido dimostrano la valenza religiosa della connotazione “celeste.”

TEMPIO DELLA DEA CAELESTIS IN TUNISIA

Si è ritenuto, perciò, che il culto della dea abbia acquisito, nel corso del tempo, caratteri mistici e misterici di trasformazione, e a Roma venne istituito sacerdozio dedicato alla Dea Caelestis, presieduto da un princeps sacerdotum e costituito da almeno due ordini di sacerdoti denominati sacrati e canistrarii, questi ultimi una sorta di sacerdoti questuanti, come testimoniato dall’epigrafe del 259 d.c., rinvenuta nell’area a nord-est dell’antica Arx. 

L’iscrizione, impressa sulla base di una statua cultuale andata persa, ribadisce il rapporto della Dea con la zona dell’Arx Capitolina: 

DEAE · VIRGINIS · CAELESTIS PRAESENTISSIMO · NVMINI LOCI · MONTIS · TARPEI 
(alla dea Vergine Celeste favorevolissima divinità del Monte Tarpeo) 

e sta ad indicare come “la Virgo Caelestis non solo avesse sede e culto proprio sul monte Capitolino, ma di questo sacro colle fosse la principalissima divinità benefica e tutelare”.

Due dediche del III sec. d.c. sono indirizzate alla Dea per ringraziarla del buon esito del viaggio: 
PRO ITV ET REDITV (per l’andata ed il ritorno); 
esse sono accompagnate dall’impronta di una coppia di piedi in direzione opposta a simboleggiare i allontanamento e avvicinamento e dall'immagine di una colomba, animale sacro alla Dea. Queste epigrafi, riutilizzate e murate nelle strutture dell’edificio ai piedi del Campidoglio, allorché si procedette alla sua ristrutturazione tra il IV sec. e il V sec. d.c., sono tra i pochi avanzi del tempio della Dea Caelestis.


BIBLIO

- Lanfranco Cordischi - Il frontoncino con la "Dea Caelestis" nei Musei Capitolini: cenni sulla divinità e sul suo culto - Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma - Vol. 93 - No. 2 - L’Erma di Bretschneider - 1990 - 
- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -
- J. Eckhel - Doctrina numorum veterum - IV - Vienna - 1794 -
- Robert Maxwell Ogilvie - The Romans and their gods in the age of Augustus - 1970 -

BATTAGLIE DI CRUSTUMERIA - CRUSTUMERIUM (751 a.c.) (492-494 a.c.)

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GUERRIERO SABINO

ROMOLO - ETA' REGIA - BATTAGLIA DI CRUSTUMERIA

Siamo nel VII secolo a.c., esattamente nel 751 a.c. « Romolo, figlio di Marte, re, trionfò sul popolo dei Caeninensi (Ceniensi), calende di marzo (1º marzo). »
(Fasti Triumphales - Fasti trionfali - 2 anni dalla fondazione di Roma )
Secondo Plutarco invece, che si basa su quanto tramandato dallo storico Fabio Pittore (260 a.c. – 190 a.c.), solo tre mesi dopo la fondazione di Roma e cioè nel luglio del 753 a.c..

Dopo la vittoria sui Ceninensi fu la volta degli Antemnati. La loro città fu presa d'assalto ed occupata, portando Romolo a celebrare una seconda ovatio. Ancora i Fasti trionfali ricordano sempre per l'anno 752/751 a.c.:
« Romolo, figlio di Marte, re, trionfò per la seconda volta sugli abitanti di Antemnae (Antemnates).»
(Fasti Triumphales, 2 anni dalla fondazione di Roma )

Rimaneva solo la città dei Crustumini, la cui resistenza durò ancora meno dei loro alleati. I Crustumini (per contrazione di Crustumerini), erano un popolo dell'Italia preromana che occupavano un territorio del Latium Vetus delimitato ad ovest dal fiume Tevere, al di là del quale si trovavano i Veienti. Erano considerati di stirpe latina anche se Plutarco li ritiene di origine sabina. 


La loro capitale era Crustumerium (o Crustumeria), una città affacciata sul Tevere tra Eretum e Fidenae, esattamente a nord di Fidenae e ad ovest della città sabina Corniculum, presso le sorgenti del fiume Allia, sulla collina della Marcigliana Vecchia, che domina la via Salaria presso Settebagni. 

Portate a termine le operazioni militari, il nuovo re di Roma dispose che venissero inviati nei nuovi territori conquistati dei coloni, i quali andarono a popolare soprattutto la città di Crustumerium (o Crustumeria), che, rispetto alle altre, possedeva terreni più fertili. Contemporaneamente molte persone dei popoli sottomessi, in particolar modo i genitori ed i parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. 

La distruzione della città, come narra Tito Livio avvenne verso la metà del V sec. a.c., (secondo altre fonti nel 499 a.c.) con il trasferimento della popolazione a Roma e la creazione della nuova tribù Crustumina. 

PARCO ARCHEOLOGICO DI CRUSTUMERIUM

L'ANTEFATTO

I fatti sono noti: i Romani che erano per lo più, profughi, esuli e banditi desideravano farsi una famiglia ma i genitori delle città vicine rifiutavano di dare in moglie le loro figlie a tipi così poco raccomandabili. Allora Romolo, il I re di Roma, organizzò il rapimento delle ragazze durante una festa in cui tutti dovevano presenziare senza armi mentre i romani avevano conservate nascostamente le loro. Così avvenne il famoso ratto delle sabine che in realtà non riguardava solo le sabine. 

I congiunti delle ragazze vennero rimandati indenni nelle loro città anche per non inimicarsi le fanciulle che i Romani intendevano sposare, ma questi poi mossero guerra ai Romani per vendicare l'offesa subita. Tra i primi ad attaccare furono i Crustumini.

VASO CRUSTUMINO
Cinque grandi città, mano alle incudini, fan nuove armi: la potente Atina, Tivoli stupenda, Crustumerio ed Ardea e la turrita Antenne”. 
(Virgilio - Eneide, VII, 629-631)

Tutte le città che avevano subito l'affronto mossero battaglia, ma abituate ai piccoli dissidi tra di loro per i vari sconfinamenti di terreni non pensarono a far fronte comune contro i Romani, che avrebbero in caso distrutto sicuramente ma, orgogliosi dei propri guerrieri, attaccarono ciascuna città per suo conto.

Per Roma fu un bene; essendo abituati al saccheggio, alla rapina e al combattimento più di ogni altro popolo in quanto essendo quasi solo uomini e spesso con reati alle spalle, non temevano il confronto con una singola città, essendo tutti abituati a combattere per sopravvivere.
                                                                                                                                        
Intanto che i Romani intendeano a questo affare quelli d'Antenna colto il bello che non v'avea difensori corsono sopra la terra di Roma. Ma Romolo subitamente venne loro incontro con la romana legione e sconfissegli e sbarattatili al primo assembro e romore prese la loro città per forza. "
(Tito Livio - Ab Urbe Condita XI)

" Ed al tornare ch'egli faceva lieto di doppia vittoria, Ersilia sua moglie per preghi delle rapite il pregò eh'egli perdonasse ai loro padri e ch'ei gli ricevesse dentro la cittade imperò che cosi vi potrebbe crescere la cittade per accordo e per pace Romolo il concedette assai leggermente.

Poi andò incontro ai Crustumini i quali gli moveano guerra. Ma egli furo sì paurosi e spaventati della sconfitta degli altri che assai più leggermente venne a capo Romolo della guerra che non avea fatto delle altre. E mandò gente ad abitare all'una città e all'altra. E assai trovò di quelli che volentieri andarono ad abitare a Crustumeria per la terra che era buona e diviziosa e molti de Crustumini principalmente i parenti e li padri delle rapite se n'andaro ad abitare a Roma. "
(Tito Livio - Ad Urbe Condita Libri) 

Dunque la vittoria fu agevole per i Romani e venne seguita da una rapida fusione tra i due popoli, fusione ottenuta con sistema più semplice e più rapido: molti Romani andarono ad abitare nella città di Crustumeria e nelle loro campagne, mentre molti Crostumini vennero ad abitare a Roma e nelle sue campagne. I figli che nacquero sancirono oltre che la pace il buon accordo tra i due popoli.


IL SITO ARCHEOLOGICO

L'abitato antico, per un'area di non meno di 60 ettari, è stato individuato dagli studiosi su basi archeologiche intorno al 1970. I primi saggi furono effettuati dalla Soprintendenza di Roma nel 1982, mentre la necropoli della cittadina è stata esplorata a partire dal 1987.

Essa è posta in località Marcigliana, a nord di Roma, nei pressi di Settebagni che, nata come zona agricola ma oggi urbanizzata, si sviluppa su una collina dove, nel 2002, sono stati effettuati rilevanti ritrovamenti archeologici (tombe ed altro) tuttora in corso di osservazione.

Dopo il casello dell'autostrada Firenze-Roma, al termine del lungo rettilineo finale, le colline di Crustumerium accompagnano per alcuni km il percorso di chi raggiunge la capitale.  

Crustumerium, infatti, è l'unico centro dell’antica civiltà laziale non compromesso dalla moderna urbanizzazione e in tutta l’area il paesaggio è straordinariamente conservato.


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe Condita libri - I II -
- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - VI -
- Diodoro Siculo - Bibliotheca historica -
- Eutropio - Breviarium historiae romanae -
- Angelo Amoroso - Nuovi dati per la conoscenza dell'antico centro di Crustumerium - Archeologia Classica - 2002 -
- Francesco di Gennaro - Crustumerium - Ricerche del 1982 - Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma - XCII - 1987-1988 -
- Lorenzo Quilici e Stefania Gigli Quilici - Crustumerium - Roma - ISCIMA - 1980 -
- Paolo Togninelli (a cura di) - Tra Eretum, Nomentum e Crustumerium: Antiche modalità insediative nel territorio di Monterotondo - Roma - L'Erma di Bretschneider - 2013 -
- Ultime scoperte a Crustumerium - Francesco Ceci - Archeo - Agosto 1997 -
- Andrea Carandini - La leggenda di Roma, volume II. Dal ratto delle donne al regno di Romolo e Tito Tazio, Mondadori - Fondazione Valla - Milano - 2010 -

DOMUS GENS FLAVIA

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Roma Via XX settembre

Via XX Settembre è una via lunga oltre un km che collega via delle Quattro Fontane col piazzale di Porta Pia, e corrisponde all'antica via dell'Alta Semita, che attraversa tutto il colle Quirinale. Qui si loca la Caserma dei Corazzieri, le guardie d’onore del Presidente della Repubblica, militari di cavalleria pesante del Reggimento Carabinieri, un tempo guardie d'onore dei re d'Italia.

 
Caserma dei Corazzieri

Nei sotterranei della Caserma dei Corazzieri di via XX Settembre al Quirinale, sono perfettamente conservati alcuni affascinanti resti pertinenti a diverse strutture architettoniche sapientemente inglobate nella odierna mensa della caserma.

Si possono così ammirare:
- un tracciato delle antiche mura urbane di Roma che in questo ambito disegnano in superficie una misteriosa curva,
- porzioni di setti murari di diverso orientamento,
- e incredibilmente conservati notevoli tappeti di mosaici policromi di minutissima e pregiata esecuzione a parete.

DOMUS FLAVIA SOTTO LA CASERMA DEI CORAZZIERI


CASA DEI FLAVI SUL QUIRINALE

Diverse sono state le attribuzioni di proprietà di queste enigmatiche costruzioni attribuite dagli studiosi moderni alla casa della famiglia dei Flavi sul Colle Quirinale.

Effettivamente in via XX Settembre (al Quirinale) scendendo per una ripida scaletta, sotto il vecchio refettorio della caserma dei Corazzieri, accanto al convento delle suore di clausura di Santa Susanna, si nasconde un vero e proprio tesoro.

La sistemazione della pavimentazione del refettorio, nel 1964, portò alla luce resti di edifici e costruzioni tra cui: tratti della prima cinta muraria urbana fatta costruire dal sesto re di Roma Servio Tullio (578-734 a.c.).

Il tempio della gens Flavia (in latino Templum Gentis Flaviae) era un tempio dell’antica Roma situato sul colle Quirinale in posizione ancora non del tutto certa. Era stato costruito da Domiziano, sul sito della casa di suo padre, Vespasiano, in cui egli stesso era nato, nel 51 d.c. e consisteva nel mausoleo dove furono sepolti i membri della famiglia imperiale e in un tempio, inseriti in un recinto sacro.

In passato era stata avanzata l’ipotesi che si trovasse sotto la Caserma dei Corazzieri del palazzo del Quirinale, dove sono stati scavati vari resti: un tratto di Mura serviane, un podio di un tempio e un edificio templare dell’età flavia.


Quest’ultimo edificio, dotato di ninfeo con mosaici parietali di quarto stile era forse la casa privata di Vespasiano, mentre il podio potrebbe essere pertinente al tempio della gens Flavia, come sembra avvalorare anche una fistula trovata nelle vicinanze con il nome di Flavio Sabino, fratello di Vespasiano.

Una più recente ipotesi, secondo la quale la casa di Vespasiano era prossima, ma non identica a quella del fratello, identifica il tempio con resti rinvenuti sotto le terme di Diocleziano (tra l’aula ottagonale, un tempo utilizzata come planetario, e la chiesa di San Bernardo), eliminati in occasione della costruzione del complesso, ad eccezione dell’edificio centrale, rimasto in vista nel recinto delle stesse terme.

I resti permettono di ipotizzare un esteso recinto porticato sui quattro lati, con esedre alternativamente circolari e rettangolari sporgenti dal muro di fondo. Al centro un ampio podio che doveva sorreggere un edificio di forma oggi sconosciuta. 

Dalla decorazione del complesso provengono una testa colossale di Tito oggi al Museo archeologico nazionale di Napoli, rinvenuta nelle vicinanze, e i frammenti di rilievi del cosiddetto “dono Hartwig” , rinvenuti durante la costruzione dei portici dell’attuale piazza della Repubblica (che ripetono la pianta della grande esedra delle terme di Diocleziano).

Un mosaico spettacolare realizzato sulla parete principale di un grande ninfeo (fontana monumentale) risalente al I secolo d.c., che abbelliva la casa della nobile gens Flavia, stirpe degli imperatori Vespasiano, Tito e Domiziano.


Il mosaico è costituito da una grande composizione a paste di vetro colorate (pasta vitrea). In origine da due piccoli fori visibili sulla parte alta dell’opera fuoriusciva un velo d’acqua che creava un effetto speciale, rendendo più vivi e brillanti i colori delle tessere. Il mosaico è ancora oggi ritenuto un reperto archeologico unico per lo sviluppo parietale, la ricca policromia e gli straordinari effetti prospettici.

Sarebbe bello che potesse un giorno essere asportato e ricostruito nel cortile di un museo romano con la stessa ricostruzione dell'antica fontana. Il velo d'acqua sulle vivaci paste vitree deve essere un colpo d'occhio unico nel genere e nell'effetto su chi guarda.


BIBLIO

- Procopius - De Aedificiis - 3.5.8.11. -
- Bonaventura Overbeke - Degli avanzi delle antichità - a cura di Paolo Rolli - Tommaso Edlin - Londra - 1739 -
- O. Elia, D. Levi - «Emblema» - G. Becatti (a cura di) - Mosaico c Mosaicisti nell'antichitå - Roma - 1967 -
- Filippo Coarelli - I templi dell'Italia antica - Milano - 1980 -
- Antonio Nibby - Roma antica di Fabiano Nardini - Stamperia De Romanis - Roma - 1818 -
- Filippo Coarelli - Guida archeologica di Roma - Arnoldo Mondadori Editore - Verona - 1984 -


PONTE KARAMAGARA (Cappadocia-Turchia)

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Il ponte Karamagara ( "Ponte della Grotta Nera") è un ponte bizantino o tardo romano dell'antica regione della Cappadocia, nella Turchia orientale, ed è forse il primo ponte ad arco a sesto acuto a noi noto. Costruito nel V o VI secolo d.c. attraverso un affluente dell'Eufrate, la struttura ora sommersa è uno dei primi esempi conosciuti di architettura a sesto acuto della tarda antichità. 

L'arco singolo di 17 m si estende tra le scogliere della gola rocciosa di Arapgir Çayı, un affluente dell'Eufrate, e insieme a gran parte della valle di Arapgir Çayı, è stato sommerso dal completamento della diga nel 1975, a seguito del quale il livello dell'acqua nella valle dell'Eufrate e alcuni dei suoi affluenti a monte è aumentato drammaticamente.

LA SCRITTA SUL PONTE (INGRANDIBILE)
Il suo nome Karamağara ("grotta nera") deriva probabilmente da una caverna ingrandita artificialmente sulla sponda meridionale che fu scavata nella roccia scura a 75 m sopra la struttura e serviva per la protezione del punto di attraversamento. Più a valle, nel villaggio di Bahadın, sono stati sommersi i resti di un altro ponte romano.

Il ponte di Karamagara faceva parte della più ampia strada romana che conduceva alla città di Melitene, tagliata nella roccia vicino al ponte su entrambi i lati del fiume, e si trova nella regione dell'Anatolia orientale della Turchia. Esso si estende tra le scogliere della gola rocciosa dell'Arapgir Çayı, un affluente dell'Eufrate.

Il ponte non è più utilizzabile oggi perché è stato sommerso dopo il completamento della diga di Keban nel 1975. Prima di questo, il ponte Karamagara è stato esaminato dall'Università Tecnica del Medio Oriente di Ankara.

PARTICOLARE DEL PONTE
Il ponte, insieme a gran parte della valle dell'Arapgir Çayı, è stato sommerso dal completamento della diga di Keban nel 1975, a seguito della quale il livello dell'acqua nella valle dell'Eufrate e alcuni dei suoi affluenti a monte sono aumentati notevolmente.

La nervatura dell'arco a sesto acuto è stata costruita senza malta e sul lato orientale, a valle, un'iscrizione cristiana in greco, quasi intatta, corre per la maggior parte della sua lunghezza, citando quasi letteralmente il Salmo 121, versetto 8 della Bibbia. Il testo recita:

Κύριος ὁ Θεὸς φυλ (ά) ξει τὴν εἰσοδ (όν) σου κε τὴν ἐ (ξ) οδόν σου ἀπὸ τοῦ νῦν καὶ ἔως τοῦ αἰῶνἀς, ν.

Kýrios ho Theós phyláxei tēn eisodón sou ke tēn exodón sou apó tou nyn kai héōs tou aiṓnos, amḗn, amḗn, amḗn.

"(Il) Signore Dio può custodire la tua entrata e la tua uscita da ora e per sempre. Amen, amen, amen."

Un'analisi paleografica delle forme delle lettere greche fornisce una data di costruzione del V o VI secolo d.c. per il ponte. Con la maggior parte dei ponti in muratura romani che poggiano su archi semicircolari, o, in misura minore, su archi segmentati, il Ponte Karamagara rappresenta un esempio altrettanto raro e precoce dell'uso di archi a sesto acuto non solo nel ponte tardoantico, ma anche nella storia dell'architettura in generale. 

Insieme ad altri esempi tardo romani e sassanidi, per lo più evidenziati nella costruzione di chiese primitive in Siria e Mesopotamia, il ponte dimostra l'origine preislamica dell'arco a sesto acuto nell'architettura del Vicino Oriente, che successivamente i conquistatori musulmani adottarono e costruirono. Le pietre contenenti le iscrizioni greche furono rimosse dal ponte e portate al Museo Elazığ nel 1972.


BIBLIO

- Galliazzo, Vittorio - I ponti romani - Vol. 1 - Treviso - Edizioni Canova - 1995 -
- Mango, Cyril - Byzantine Architecture, New York: H. N. Abrams - 1976 -
- O’Connor, Colin - Roman Bridges - Cambridge University Press - 1993 -
- Warren, John - Creswell's Use of the Theory of Dating by the Acuteness of the Pointed Arches in Early Muslim Architecture - Muqarnas - 1991 - 

I BACCANALI (16 - 17 Marzo)

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BACCANALI

I baccanali, ovvero la festa di Bacco, si festeggiavano in tutto il territorio italico soprattutto centro-meridionale iniziando dalla Magna Grecia, il 16 e il 17 marzo, quindi con l'avvento della primavera. Il Dio Bacco era un antico Dio Italico del vino che associò a sè i miti del greco Dioniso il cui culto sconvolse la Grecia.



LE VERSIONI DI LIVIO

Tito Livio che scrive in epoca augustea, due secoli dopo la vicenda dei reprimenda Baccanali, e per giunta piuttosto benevolo verso il moralismo un po' austero dell'imperatore. Qualcuno lo dice pure male informato sulle associazioni bacchiche a Roma, la loro struttura e i loro rituali. Livio fornisce due versioni sull’origine dei Baccanali:

«.. che il culto era apparso dapprima in Etruria ad opera di «un greco di umili origini» (Graecus ignobilis in Etruria primum venit…), indovino e pratico di riti sacrificali notturni, «che all’inizio erano riservati a pochi, ma poi erano stati divulgati a masse di uomini e donne». (Initia erant quae primo paucis tradita sunt, dein volgari coepta per viros mulieresque).

« poi che il culto era giunto in Roma dalla Campania, dove all'inizio erano compiute di giorno da sole donne, poi si erano trasformate in riti orgiastici ad opera di Paculla Annia, una sacerdotessa campana che le aveva estese anche agli uomini, iniziandovi per primi i figli Minio ed Erennio Cerrino». (Pacullam Anniam Campanam sacerdotem eam primam omniam tamquam deum monitum immutasse; nam et viros eam primam filios suos initiasse, Minium et Herennios Cerrinus»).


Livio parla per sentito dire, ma il senato è preoccupato di non poter controllare il fenomeno. Era già accaduto in Grecia nel culto dionisiaco del V sec. a.c. «Le donne abbandonano i loro figli e i loro telai per correre sui monti a celebrare i riti dionisiaci». Che fosse questa la paura?

Livio a proposito dell’indovino etrusco parla di «riti segreti e notturni», sempre più diffusi; con banchetti e vino, promiscuità di uomini, donne e fanciulli, depravazioni e crimini di ogni genere, dalle violenze al plagio di individui costretti a falsi testamenti e false testimonianze, avvelenamenti e uccisioni di parenti.

La connotazione orgiastica è comune ai riti misterici di Dioniso (l’equivalente di Bacco) in Grecia, ma anche a quelli orientali, in Tracia e in Egitto.

Così iniziarono le persecuzioni e i processi, mosse in genere a tutte le società segrete, anche in contesti storici differenti, vedi i seguaci di Iside, o le persecuzioni ai cristiani, o le persecuzioni ai pagani che ormai erano diventate società segrete, o in seguito i roghi e i processi dei Templari, o i roghi per le streghe e per gli eretici. Livio la descrive come una «congiura» .(XXIX, 9-12).

BACCANALI

QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DEI BACCANALI

Tito Livio narra che un Greco dell'Italia meridionale, sacerdote e indovino venuto in Etruria, vi fece conoscere i riti dionisiaci, che degenerarono ben presto nelle orge più immorali, pretesto, talora, di ogni sorta d'azioni delittuose. Dall'Etruria codesti riti passarono a Roma dove però già si praticavano i riti dionisiaci, cioè feste notturne che si tenevano tre volte all'anno nel bosco di Stimula (nome latino di Semele), presso l'Aventino e alle quali partecipavano soltanto onorate matrone romane.

Secondo l'iconografia i Βaccanali si svolgerebbero in aperta campagna, tra alberi e rocce al di fuori dei templi. Le scene sono orgiastiche o iniziatiche e vi prenderebbero parte personaggi divini o mitici: satiri, sileno e Pan, Dioniso e Arianna, nutrici e Ninfe di Nisa. 

Il profilo delle baccanti rappresentate su sarcofagi illustra la iactatio fanatica corporis di cui ci parla Titio Livio. La menade che carezza un animale selvatico personifica una perduta età dell'oro dove animali e umani si riconciliano.

In seguito però una donna campana, sacerdotessa di questo culto, Annia Paculla, ne trasformò del tutto il rituale, riportandolo a quello etrusco: vi furono ammessi gli uomini e le adunanze ammontarono a cinque al mese. Da allora cominciò a diffondersi la voce che in codeste riunioni si commettesse ogni sorta di scelleratezze.

INIZIO DEL BACCANALE

Nel 186 a.c. esplode l’affare dei Baccanali descritto da Livio (Ab urbe condita XXXIX, 8 –18) e testimoniato da un’iscrizione bronzea rinvenuta nel 1640 a Tiriolo (in Calabria), contenente il testo del «senatoconsulto» emanato per reprimere il culto di Dioniso.

Così a Roma si finì per vedere negli affiliati ai riti bacchici una specie di grande setta, pericolosa per l'ordine morale e sociale: un affare privato procurò casualmente a Spirio Postumio Albino, console dell'anno 186, le prime rivelazioni precise da parte della liberta Ispala Fecenia.

Condotta a fondo l'inchiesta e persuaso della gravità della cosa, il magistrato ne informò il senato, il quale ordinò ai consoli che, con procedimento giudiziario straordinario, provvedessero a ricercare e ad arrestare tutti gli associati alla religione bacchica, per poi processarli.

Ma che era successo ai Baccanali? Per capirlo occorre prima conoscere questa festività. La festa apparteneva al culto orfico-dionisiaco, ma designava soprattutto quei misteri dionisiaci che, dalla Magna Grecia, ove erano molto diffusi, penetrarono a Roma all'inizio del sec. II a.c.

BACCANTE
Livio riporta la vicenda all’inizio dell’età augustea, due secoli dopo che accadde, con due versioni contrastanti sull’origine dei Baccanali.

In un passo scrive che il culto era apparso prima in Etruria ad opera di «un greco di umili origini», indovino e pratico di riti sacrificali notturni, all’inizio  riservati a pochi,  poi divulgati a  uomini e donne.

In un altro invece che le cerimonie giungono a Roma dalla Campania, dove in principio erano compiute di giorno da sole donne, poi si erano trasformate in riti orgiastici ad opera di Paculla Annia, sacerdotessa campana che le aveva estese anche agli uomini, mutando così il carattere dei baccanali coll’ammettervi per la prima volta, come iniziatrice dei propri figli, degli uomini, e Minnio Cerrinio Campano, figlio di Annia Paculla. 

Questi sarebbe poi diventato uno dei capi della segreta associazione che contava più di 7000 associati fra uomini e donne.

Un culto derivato dalla Magna Grecia, che ad un certo punto viene considerato «pericoloso», a causa di "riti segreti e notturni», piaceri del vino e banchetti, promiscuità di uomini, donne e fanciulli, depravazioni e crimini di ogni genere, dalle violenze al plagio di individui costretti a falsi testamenti e false testimonianze, avvelenamenti e uccisioni di parenti" Tali sono le accuse.

Gli accusati furono ben 7000, fra uomini e donne; capi della setta risultarono due plebei romani, Marco e Gaio Atinio, un Lucio Opiterio di Falerii e il campano Minio Cerrinio; coloro che furono riconosciuti soltanto iniziati ai misteri, ma innocenti di qualunque altra turpitudine o delitto, furono lasciati in prigione. Quelli invece - e furono i più - che si erano macchiati di stupri, di omicidi, o di frodi, furono puniti di pena capitale, non escluse le donne.

Furono sciolte, con ordine dei consoli e con poco riguardo ai trattati, tutte le associazioni bacchiche ancora esistenti a Roma e in Italia, anche nelle città degli alleati; indi fu emanato un senatoconsulto che ne proibiva la costituzione per l'avvenire.

Il fatto è che, analogamente al culto di Dioniso in Grecia, da cui deriva, si trattava di un culto misterico, ossia riservato ai soli iniziati, originariamente solo donne, le baccanti,  poi esteso ai maschi altrimenti sarebbe stato proibito. In seguito i baccanali sopravvissero come feste occasionali e propiziatorie senza più componente misterica.

Livio insiste sulla natura clandestina e orgiastica di questi riti:  una connotazione comune a tutti i riti misterici di Dioniso, di Bacco, ma pure a tanti altri in Grecia,  in Tracia e in Egitto. Le  imputazioni che vengono fatte durante le persecuzioni o i processi alle associazioni  religiose o parareligiose clandestine, cui non sfuggirono neppure le prime comunità cristiane. Eppure i Sacri Misteri durarono ben 1500 anni. Ce ne volle per spegnerli tutti.



LA STORIELLA

La storia, evidentemente inventata, (sembra una commedia di Plauto ma senza il lieto fine) narra di due giovani amanti, Publio Ebuzio e la liberta, «cortigiana» Ispala Fecennia; il patrigno di Ebuzio, avido dell’eredità del figlioccio che cerca di plagiare iniziandolo ai riti dei Baccanali, con la complicità della madre Deuronia; e l’anziana e saggia zia di Ebuzio che avvisa il console Postumio sulla malvagità dei baccanali.

Insomma l’amore della cortigiana Ispala per il cittadino romano Ebuzio la spinge alla denuncia dei baccanali e da qui parte l’inchiesta del console. E' stato il cattivo patrigno a spingere il cives romano romano ad accogliere i riti stranieri. I romani accolsero sempre i riti e gli Dei stranieri, vedi Cibele, Epona, Elios, Mitra e del resto gli Dei romani provenivano dagli Dei Greci.

BACCANTE
Effettivamente sui baccanali si fece una seduta senatoria e si scoprirono che a Roma esistevano associazioni che praticavano il culto in onore di Bacco, solo che lo sapevano tutti, ciononostante per la delazione Ebuzio e Fecennia ricevettero dal senato un compenso di centomila assi di bronzo ciascuno e a Fecennia furono concessi diritti civili non pertinenti a una liberta.
 
Pacullia può anche non essere esistita, ma i nomi a lei legati sono invece rintracciabili:
«Marco Atinio della plebe romana, il falisco Lucio Opicernio e il campano Mino Cerrino: i sommi sacerdoti e gli iniziatori del culto»,
insomma gli osco-campani.

Dunque a Roma molti commercianti erano di origine magno-greca, plebei e abitanti dell’Aventino, dove avevano trovato ostello molte divinità importate come la triade di Cerere, Libero e Libera.

La repressione dei Baccanali viene a fagiolo, i commercianti vengono allontanati dal potere politico. Tra il 218 e il 179 a.c. tutti quelli che non avevano ascendenza nobile non potevano più accedere alle magistrature.

Furono sciolte, con ordine dei consoli e con poco riguardo ai trattati, tutte le associazioni bacchiche ancora esistenti a Roma e in Italia, anche nelle città degli alleati; indi fu emanato un senatoconsulto che ne proibiva la costituzione per l'avvenire.

E' una storia palesemente inventata, sembra una commedia di Plauto, cui segue l’indagine preliminare del console Postumio, che appare del tutto ignaro della congiura bacchica. Serviva una «cortigiana» (prostituta),  per far sapere che a Roma si erano diffuse le associazioni del culto di Bacco. I rimandi continui di Plauto ai Baccanali nelle commedie scritte prima del 186 a.c. dimostrano che l’opinione pubblica ne era al corrente. Ma c'è di più.

BACCANTI ESAUSTE

LA FEROCISSIMA PUNIZIONE

Il Senato estese l'inchiesta a tutta la penisola, in ogni città e in ogni paese, quindi, ascoltato il console Postumio, fece impedire dai magistrati ulteriori riunioni dei Baccanali, di ricercare i partecipanti e di giudicarli con molta severità; solo dopo aver ristabilito l’ordine, in una seconda seduta, il senato prese decisioni a lungo termine, ordinando di distruggere i luoghi del culto.

I reati contestati vanno dai reati comuni quali il falso e l’omicidio fino alla cospirazione contro la repubblica. La partecipazione maschile (oltre che femminile), lo svolgimento notturno, la «follia» della possessione erano tradizionali in questo movimento, sia in Grecia che in Italia, e non avevano in sé niente di criminoso.

Che tali elementi del rito favorissero ogni tipo di comportamento sessuale anche deviante per la morale pubblica, compresa l’omosessualità maschile, ma di che si lamentavano? A Roma come in Grecia, anche se in misura molto minore, la pederastia è diffusa, la praticano pure gli imperatori, è solo condannato (ma solo virtualmente) il sesso tra due maschi adulti, ma non quello verso gli adolescenti.

Vennero tuttavia, nonostante ciò perseguitati, arrestati e uccisi tutti i partecipanti, circa 7000 persone, uomini e donne. Lo stesso Livio afferma che ci furono più sentenze di morte che carcerazioni. Terrorizzati dalla ritorsione, i Baccanali di matrice misterica non vennero mai più riproposti a Roma e sopravvissero solo come festa propiziatoria e celebrati il 15 e il 16 marzo, perdendo la loro connotazione misterica.



L'INIZIAZIONE

Ispala narra che nei Baccanali chi si rifiutava di fare o subire violenza veniva ucciso, come vittima sacrificale alla divinità: sostenendo che le vittime sarebbero state sacrificate in maniera molto teatrale, legandole a macchine che le trascinavano in oscure caverne, in modo da far credere alla folla dei partecipanti che gli uccisi erano stati «rapiti dal Dio».

Ma questa era una pratica molto frequente nell'iniziazione di molti riti misterici. La discesa dell’iniziando in una caverna simboleggiava la discesa nel mondo degli inferi, e quindi la morte rituale e simbolica, dell’individuo, che rinasceva come iniziato. Nel processo non fu trovato nulla che confermasse queste accuse di omicidio reale a scopi rituali. L’accusa di «cospirazione» contro la repubblica era inesistente.

BACCANTE
IL GIURAMENTO

Coniurare e coniuratio sono le parole usate ripetutamente da Livio nel riportare l’accusa di cospirazione, desunta da un’associazione tenuta al giuramento comune dei soci. Ma si giurava in tutti i riti misterici, perchè si era tenuti al segreto, lo fanno ancora oggi i massoni, ma non per questo sono un'associazione segreta, semmai, come i Baccanali, hanno rituali segreti.

Il segreto da mantenere era ovviamente quello «comunicato» dal Dio ai suoi seguaci, e non il segreto di una congiura politica diretta a sovvertire la repubblica, ma’implicazione del testo è che la coniuratio dei Baccanali fosse rivolta contro la repubblica.

Coloro che stavano per essere iniziati al dionisismo, sia in Grecia che a Roma, «pronunciavano le formule di preghiera ripetendo le parole del sacerdote» (Liv, 18, 3), onde fare un giuramento sacro del non divulgare i segreti della società misterica. Il giuramento riguardava soprattutto la segretezza sul contenuto dei riti, che creava a lato una certa solidarietà tra i membri del gruppo.

All'inizio dell’inchiesta i magistrati cercano ossessivamente tutti i sacerdoti del culto e di tutti coloro che si fossero impegnati col famoso giuramento; i consoli dal loro canto dovevano evitare le ulteriori riunioni e cerimonie, anche fuori le mura. Un vero accanimento.

Dopo aver annunciato i premi per i delatori ed un giorno per la comparizione volontaria in giudizio, i consoli ottennero molte confessioni: poi si recarono anche fuori città per processare sul posto molti congiurati fuggiaschi. Ma di che delitti si parla? Del delitto di "coniura".

La condanna a morte dei colpevoli non si trova, nel racconto di Livio, mai comminata dal senato né dai consoli: era tuttavia implicita nell’accusa di coniuratio. Ma quali potevano essere i delitti sessuali dell'epoca, tenendo conto che le ragazzine potevano sposarsi a 12 anni e che gli adolescenti erano legalmente oggetto di concupiscenza dai maschi adulti? Non si sa
DIONISO BACCO (ANCHE SE HA IL SENO)

LA PROVOCATIO

«Esiste a Roma un principio più volte ribadito mediante lex publica, che taluni fanno risalire addirittura all’età regia e che viene definito dallo stesso Livio «l’unica garanzia della libertà» (Liv, III, 55, 4). In base a questo principio, il cittadino romano maschio condannato a morte o alla fustigazione poteva «provocare ad populum», poteva cioè pretendere che il magistrato convocasse il comizio centuriato che, con regolare votazione, confermasse la condanna o assolvesse. 
Ne seppe qualcosa Cicerone, che, avendo violato questa legge, venne bandito da Roma (grazie a Giulio Cesare) e i suoi beni vennero confiscati, per aver fatto uccidere i congiurati di Catilina senza aver eseguito la «provocatio».

BACCANTE
Nel processo dei Baccanali non esiste "provocatio", perchè fu una vera e propria «caccia alle streghe», perseguita tanto dai patrizi che dai plebei. Cosa li univa?

Sant’Agostino riporta Varrone, nel De civitate Dei (6, 9): 
«I Baccanali vengono celebrati con tale follia, che lo stesso Varrone ammette non potersi compiere cose simili se non da menti turbate. Ma esse in un secondo tempo dispiacquero ad un senato più sano di mente (sanior) che comandò di abolirle».

Livio ci ha descritto i Baccanali come una congiura segreta rivolta a cospirare contro la repubblica, ma le parole di Postumio sono:
« Son certo che voi sapete non solo per sentito dire, ma per lo strepito e per gli ululati notturni che risuonano per tutta la città, che ci sono i Baccanali: da un pezzo in tutta l’Italia e ora anche a Roma in molti luoghi; peraltro non sapete di cosa si tratti: e alcuni credono che sia una religione, altri un gioco o uno scherzo permesso».

Qualcuno vi vede una contrapposizione tra i gruppi del severo e moralista Catone contro i gruppi dei disinvolti e liberali Scipioni, seguaci della libera cultura greca. Eppure questi ultimi non si mossero. 
E' vero che i baccanali, festa di culto greco vennero repressi nel 186 a.c. ma Catone divenne censore due anni dopo, nel 184 a.c.

E il famoso "senatus consultus de Bacchanalibus", scoperto a Tiriolo in Calabria, proibiva tutti i riti bacchici, permettendone la celebrazione in qualche caso speciale, previa autorizzazione del senato e a condizione che al rito non partecipassero più di cinque persone alla volta, due uomini e tre donne.

La misura del senato non piacque alla popolazione, soprattutto nelle città della Magna Grecia, specialmente a Taranto, dove occorsero alcuni anni perché il senatoconsulto avesse piena applicazione, dopodiché i Baccanali non riapparvero mai più in Roma.



I CULTI STRANIERI

E poi, cosa poteva rimostrare Roma contro i culti greci, i culti romani ufficiali erano assolutamente greci: quasi tutti gli Dei romani erano stati importati dalla Grecia, da Giove a Giunone, da Minerva a Marte, da Mercurio a Vesta, da Apollo a Diana ecc. ecc. 

Perfino Cibele era straniera e pure orientale, per non parlare di Mitra. Furono gli Dei stranieri a soppiantarsi a Roma più che gli Dei italici. Naturalmente il senato non poteva eliminare il culto del Dio Bacco, pena la sua collera divina. Il suo culto era ammesso, ma sotto il controllo delle autorità religiose ufficiali. 

Le celebrazioni del culto di Bacco proseguirono a Roma e in Italia anche dopo il processo del 186 a.c.: l’iconografia e le fonti testimoniano la presenza di Bacco sia in età repubblicana, presenza che il liberale Giulio Cesare contribuì a rinverdire, che in età imperiale. 

Una lista dei membri di un collegio di iniziati, del II sec. d.c., rinvenuta a Tuscolo, nel Lazio, e di cinquecento nomi, tra schiavi e liberti, attesta la prosecuzione del culto misterico. Del resto i sarcofagi romani e gli affreschi (famosi quelli della «Villa dei misteri» di Pompei), erano pieni di simboli dionisiaci e relative immagini. 

Ma venne ritrovata a Firenze un'altra lista, anche questa di quasi cinquecento persone coinvolte nel culto segreto di Iside, Dea egizia più volte bandita anch'essa da Roma. Naturalmente era stata bandita per cui la gente si riuniva segretamente sfidando le ire dello stato.

CULTO DIONISIACO

LA SENTENTIA

Nel 1640, nella cittadina calabrese di Tiriolo, mentre si scavavano le fondamenta per la costruzione del palazzo del principe Cigala, fu rinvenuta una tavola di bronzo che riportava un’iscrizione. Si trattava nientemeno del testo del senatoconsulto del 186 a.c., che proibiva i Baccanali:

«Nessuno, uomo o donna che sia, potrà essere capo o sacerdote dei Baccanali, nessuno dovrà essere seguace dell’associazione; è proibito unirsi e legarsi con giuramento, raccogliere denaro, promettersi aiuto reciproco. E’ vietato altresì celebrare i riti sacri in pubblico, in privato e in segreto; soltanto il pretore urbano, dopo essersi consultato e avere ottenuto l’assenso del Senato, potrà concedere a non più di cinque persone il permesso di celebrare un Baccanale. Per coloro che contravverranno a tali disposizioni è comminata la pena di morte» (!).
Si ordina quindi di scolpire su tavole di bronzo la decisione del Senato e di diffonderla il più possibile nei forum. «Entro dieci giorni dalla consegna della tavola, tutti i luoghi dove si tenevano i Baccanali, a meno che non contengano altari o statue sacre, dovranno essere demoliti



IL MISTERO SACRO

A Cuma un’iscrizione del V secolo a.c. allude ad un sepolcreto esclusivamente riservato ad associati dionisiaci, a Puteoli due iscrizioni romane rivelano l’esistenza di un "thiasus Placidianus" del quale facevano parte "sacerdotes orgiophantae". Ma il documento più espressivo di quanto fosse profondamente amata la religione dionisiaca in Campania è offerto dall’affresco misterico della famosa Villa. Testimone di un culto che, fiorito altrove, si era tuttavia intimamente radicato sino ad assumere un sua propria ed indipendente fisionomia.

BACCANTE
L'avvento del mito dionisiaco risvegliò un’appassionata adesione, come una liberazione e un'esigenza dell’animo umano di esprimersi in relazione all’Infinito.

In Dioniso ci si poteva lasciare andare, fino a sperimentare un’indicibile e gioiosa totalità. Per di più la gioia che il Dio annunciava era accessibile a tutti, anche agli schiavi e a coloro cui erano interdetti i culti gentilizi.

Finalmente la parte razionale si faceva da parte, aprendo le porta a quell'Anima Mundi che la filosofia greca aveva in ogni modo tentato di contattare, o meglio tentato di capire come se ne potesse ottenere il contatto.

In Dioniso non c'erano distinzioni tra uomini e donne, patrizi e plebei, schiavi e liberi. L'uomo torna ad essere totale ed integro, nella sua animalità e nella sua sensibilità, tanto più sensibile quanto più conosce la sua istintualità, contrariamente a quanto si pensa nella società di oggi e pure di ieri.

I sacri misteri avevano compreso che l'istinto è bruto quando non conosce se stesso, quando si abbandona senza coscienza, e aveva scoperto peraltro che era possibile abbandonarsi pur rimanendo perfettamente consapevoli (che è pure il fine di tante discipline dello yoga).

La consacrazione dionisiaca si adempie nel “furore bacchico”, bakcheía che trasforma l'iniziando in bákchos. Tale furore è beatitudine, come illustra appassionatamente il canto introduttivo delle Baccanti euripidee. La terra si tramuta in un paradiso, latte, vino e miele sgorgano dal suolo, le menadi porgono il seno a un piccolo capriolo; ma accanto all'atmosfera paradisiaca si affianca la ferocia assassina, i “furiosi” diventano irrefrenabili cacciatori di bestie e di uomini, fino a tagliarli a pezzi, fino al “piacere dell'omofagia”.

La presenza sulla parete centrale di Dioniso che, lasciato il tirso ed ebbro d’amore, si abbandona fra le braccia di Arianna, imponentemente seduta in trono, offre la chiave d’interpretazione del sacro divenire. La donna è la tenutaria dei segreti divini della natura, lei è l'Anima Mundi, natura selvaggia e cosmo, senza di lei non ci sono Dei.

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VILLA DEI MISTERI - POMPEI

LA DOMINA DELLA VILLA DEI MISTERI

Così lo sguardo del visitatore scorre fino al centro della scena dove la coppia divina si manifesta in scena compiuta, di madre con figlio, di amante con amante. Solo un’altra figura possiede la stessa prerogativa.

Sulla sinistra è ritratta la Domina, la Signora della villa, con lo sguardo assorto e serenamente rivolto ad una giovane donna,  sulla parete meridionale, una sposa che si prepara alla sua notte coniugale.

La Signora della casa è una matrona campana,  sacerdotessa del culto bacchico, e committente dell’affresco, viene da Kerènyi associata per la sua posizione alla regina di Atene durante la celebrazione del culto dionisiaco statale. A Pompei si trovano spesso immagini di sacerdotesse, il cui esercizio era prerogativa del patriziato e si tramandava di madre in figlia, come privilegio di nobiltà.

Le donne sono le uniche celebranti, come nel mito furono le inseparabili compagne del femmineo dio, modelli archetipali delle comunità femminili che ne officiavano il culto misterico, a parte un giovanetto e alcune figure mitiche, sileni e satiri, parte consueta della cerchia dionisiaca.

Dioniso infatti, figlio e amante della Madre natura, in essa muore e risorge come figlio-vegetazione-annuale, col suo mistero di morte e rinascita. Nistero copiato senza intenderlo affatto dalla chiesa cattolica che ne ha fatto un incidente drammatico sull'accoglienza della divinità che incautamente si presenta in veste di uomo ai mortali.

L’erotismo estatico e l’aspetto frenetico della possessione dionisiaca erano connaturati a una dimensione sovrasensibile della vita percepita dalla natura femminile. La Natura era considerata la grande Prostituta, quella che si accoppia ovunque e sempre, tenendo conto che nelle società primitive la prostituzione era sacerdotale e sacra.

La follia del culto e dei riti è la necessaria uscita dagli schemi, come prima e ultima lama dei Tarocchi essa è l'inizio e la fine, pur non essendo la stessa follia al termine dell'opera, in quanto presenza consapevole dell'istinto universale, ricongiunzione all'Anima Mundi, ricongiunzione del maschile col femminile, come nell’androgino Dioniso. Il Mistero dionisiaco è il mistero dell'universo e dell'uomo, del macrocosmo e del miscrocosmo, della vita e della morte cui segue una novella vita.


MENADI ESAUSTE (QUADRO INCOMPIUTO)

LE MENADI OVVERO LE BACCANTI

Le menadi, dette anche Baccanti, Tiadi o Mimallonidi, furono donne reali anche se in parte mitizzate (negativamente) che vestite con pelli animali, con in testa una corona di edera o quercia o abete, presero le strade dei monti abbandonando case e talami per celebrare il Dio Dioniso, il liberatore. 

Tutto questo accadde all'incirca nel VI - V sec. a.c., quando le donne greche vennero coperte dai pepli dai capelli ai piedi e rinchiuse  nelle galere dei ginecei. Perchè di galera si trattava in quanto non potevano uscire neppure per fare la spesa.

Però uno spirito libero ancora era stato conservato se al richiamo del Dio le greche ebbero il coraggio di abbandonare mariti e figli per fuggire sui monti. Perchè le antiche greche un tempo gareggiavano nude nelle palestre, vestivano con la veste corta e un'unica spallina come Diana e un tempo avevano diritto al voto, tanto è vero che furono le donne a decretare col loro voto che il Partenone dovesse essere dedicato ad Athena anzichè a Nettuno, come gli uomini invece desideravano.

Dunque le donne greche con l'avvento di Dioniso hanno un risveglio: "abbandonarono le case e andarono sui monti a fare riti orgiastici dove danzavano e si scatenavano fino a tornare a notte tarda a casa stanche morte"

Dice Dioniso“Io ho impugnato la sferza della follia e ho spinto queste donne fuori dalle loro case in preda alla pazzia verso la montagna”.

Allora le donne che se ne vanno dalle loro case, che abbandonano i telai e i figli ancora da allattare e vanno in montagna in preda a questa follia sono pazze.
In realtà non erano pazze ma rivendicavano la loro libertà, perchè in Grecia avvenne una cosa simile, le donne si ripresero la libertà, allora gli ateniesi prima negarono il culto di Dioniso, poi lo accolsero ma ne fecero un culto ben controllato e senza riti orgiastici.

Cosa c'era di così scandaloso nei Baccanali, in una Roma dove la suburra pullulava di lupanari, dove oltre alle donne si prostituivano anche i maschi, dove Cesare va a letto, oltre che con le donne, con i propri generali, dove Traiano e Adriano vanno coi maschi e i padroni vanno con le schiave e, ma non si dice, le donne vanno con gli schiavi? 

Appunto, non si dice e si può fare solo se non si dice. La paura è quella della licenziosità delle donne, se le donne sono libere di abbandonarsi al sesso, tutti i maschi, nell'immaginario maschile verranno traditi. 

I romani sono abbastanza maschilisti, poi accordarono diritti alle donne grazie ad Augusto (che saggiamente ascoltava Livia), infatti accordò alle donne il divorzio e la scelta (dopo aver partorito tre volte) di sganciarsi dall'autorità maritale. Dovranno passare ben duemila anni affinchè le donne possano ottenere di nuovo questi diritti.

I Baccanali fecero paura perchè liberavano, almeno durante le feste, tutte le donne, questa fu l'autentica paura, e i romani non potevano permetterselo, altrimenti addio "mos maiorum", addio al moralismo di Catone, addio al dominio dell'uomo sulla donna. Settemila morti non li faceva nemmeno una guerra, ma lo fece la paura della liberazione sessuale della donna romana. .

VILLA ROMANA AD APPIANO (Trentino Alto Adige)

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Il paesino di San Paolo, anticamente chiamato Appiano, è situato in Alto Adige a 394 m s.l.m., e un po' al di sopra del paesino, nel quartiere di Aica, nell'anno 2005 è avvenuta una magnifica scoperta. 

Secondo alcuni studiosi il nome Appiano dovrebbe derivare da quello del proprietario terriero Appius, proprietario della villa dissepolta. Secondo altri qui avrebbe soggiornato a lungo Appiano di Alessandria, ma questa sembra meno credibile.

In Italia i beni archeologici si scoprono quasi sempre per caso, tanto il nostro territorio è ricco di questi beni, per cui si scoprono facendo una casa, una strada, sistemando delle rotaie e così via. Durante la costruzione di una nuova casa della zona sono infatti emersi i resti di un’abitazione del IV secolo d.c..

Trattavasi dei resti di una magnifica villa romana, con zone conservate meglio o peggio, in parte perché le pareti sono servite come forniture di materiale da costruzione ai residenti circostanti, in parte perchè vi hanno edificato sopra delle case.

La villa giaceva in una zona servita dalla Via Augusta, una delle più importanti vie romane di collegamento tra il Nord Italia e le aree germanofone meridionali, che attraversa San Paolo e la Bassa Atesina in direzione Val Venosta e Augusta in Germania.


Particolarmente visibili sono i contorni di una piscina pubblica e di una grande sala di rappresentanza con diversi mosaici pavimentali. Soprattutto i mosaici e i resti di pitture murali conservati fanno di questa scoperta una rarità: In Alto Adige non c'è nessun altro mosaico, che sarebbe così ben conservato come quello della villa romana di San Paolo / Appiano.

L'alta qualità e la struttura della Villa fanno pensare ad un padrone di casa molto benestante, infatti nella villa sono stati anche rinvenuti frammenti di pitture murali, che mostrano tutto lo splendore della villa, all’epoca dotata anche di riscaldamento a pavimento (encaustum) e di un impianto balneare (Balneum). 

Fino al 2010, erano state individuate 27 stanze, di cui due affrescate e tre con bellissimi pavimenti a mosaico, simili a quelle rinvenute ad Aquileia. Sono state rinvenute anche piastrelle in marmo per la decorazione di pareti e pavimenti e frammenti di pregiate stoviglie.  

La parte ovest è quella meglio conservata, mentre verso valle le mura sono state demolite in epoca moderna per costruire altre case (sig!). La villa romana di San Paolo, eretta probabilmente per un grande proprietario terriero, un cosiddetto Possessore, è oggi di proprietà della Provincia Autonoma di Bolzano. 

Le foto sono state messe a disposizione da: © Provincia Autonoma di Bolzano – Alto Adige, Ufficio Beni archeologici.



IL CONCORSO DI PROGETTAZIONE

Bandito il concorso di progettazione per la musealizzazione della villa romana in via Aica. Entro il 28 maggio 2021 il progetto di fattibilità per il percorso espositivo. La Provincia intende musealizzare e così rendere accessibile ai visitatori i resti della Villa romana, risalente al III-IV secolo d.c., venuti alla luce in via Aica a S.Paolo/Appiano.

La struttura sorgeva in posizione strategica, su un rilievo lungo una probabile strada d’accesso alla via Claudia Augusta. Secondo gli storici il complesso abitativo dovrebbe essere appartenuto al proprietario terriero Appius. Dal suo nome potrebbe derivare la denominazione della località Appiano.

Il costo netto di costruzione della struttura museale prevista ammonta a 2.270.000 di euro, oneri della sicurezza inclusi, come indicato dal programma planivolumetrico approvato dalla Giunta provinciale a fine 2010.



PROGETTO DI FATTIBILITA' ENTRO IL MAGGIO 2021

In questi giorni, la Ripartizione edilizia e servizio tecnico della Provincia ha pubblicato l’avviso relativo all’indizione del concorso di progettazione per la musealizzazione della Villa romana.

«Oggetto del concorso è individuare la miglior soluzione complessiva architettonica e funzionale grazie all’elaborazione di un progetto di fattibilità tecnica ed economica, a basso impatto ambientale», fa presente l’assessore provinciale all’edilizia pubblica che ricorda la richiesta ai partecipanti di utilizzare il legno come materiale edile da costruzione per la struttura.

L’istanza di partecipazione potrà essere inoltrata entro il 2 ottobre 2020; in seguito a due fasi di selezione, entro il 28 maggio 2021 dovrà essere presentato il progetto di fattibilità.

Per la realizzazione dell’opera al vincitore del concorso verrà richiesto di presentare, sulla base del progetto vincitore un'offerta per le successive fasi prestazionali, ossia progettazione definitiva ed esecutiva, coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, nonché direzione dei lavori e coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione.



PERCORSO MUSEALE COPERTO 

Obiettivo del concetto museale da progettare è rendere visibili gli scavi al meglio per veicolare al pubblico le varie funzioni della villa nel suo contesto storico. A tal fine dovrà essere sviluppato un percorso archeologico con passerelle che attraversi l’intero ambito espositivo. L’intera zona di rinvenimento dei reperti della Villa romana dovrà essere coperta da una struttura protettiva.

La copertura degli scavi dovrà essere chiusa, al fine di garantire temperature e umidità costanti. Le finestre della struttura museale dovranno essere dotate di filtro di protezione dai raggi infrarossi UV per mantenere intatti i colori dei mosaici.

Il percorso sarà dotato di zone per bacheche, pannelli espositivi ed informativi per i visitatori.
Inoltre, sul lato est, vi sarà un ambito per consentire ai visitatori di riposarsi e di ammirare il paesaggio circostante al paese di S. Paolo, antico paese romano, e di ascoltare spiegazioni sulla storia del luogo.
Le singole parti dello scavo saranno poste in risalto grazie ad illuminazione artificiale mirata.

RICOSTRUZIONE DELLE TERME


TERME E LOCALI RISCALDATI
 
La parte più a sud è costituita dalle terme con le vasche; la zona nord è la parte residenziale e di rappresentanza con ambienti di particolare bellezza per i mosaici e gli affreschi che li adornano.
I locali erano riscaldati grazie a un sistema di riscaldamento a pavimento ad hypocaustum, un sottofondo con tubi in laterizio nei quali circolava aria calda, prodotta da un apposito forno. Parti della villa non sono più conservate.


COMMENTO

Oltre ad approvare l'iniziativa del bando di progettazione, suggeriremmo di restituire al paese l'antico nome romano, cioè Appiano, lasciando al Santo le sue glorie e le sue feste. Non tanto perchè l'Italia è per costituzione un paese laico, quanto perchè i nomi romani sono molto più suggestivi e ricchi storia sia per chi ci vive che per i turisti.


E ANCORA IN ALTO ADIGE

A Bolzano/Gries, sul terreno d.c. con portico, colonnato e un edificio pubblico, il primo del genere in Alto Adige, sono venuti alla luce durante i lavori di costruzione della nuova casa di riposo.

Una scoperta considerata straordinaria: frammenti di colonne di marmo, muri fino a due metri di altezza con affreschi di ottima qualità e motivi floreali e geometrici. Sono stati rinvenuti resti di capitelli corinzi, una rarità per la zona, ed elementi architettonici in marmo. Al centro del peristilio si trovava una vasca decorata verosimilmente da un mosaico di cui sono rimasti frammenti e singole tessere.

A monte della villa è emersa una struttura imponente, un edificio pubblico realizzato all’epoca della conquista delle Alpi da parte di Druso, figlio adottivo dell'imperatore Augusto. Si tratta dei resti archeologici più importanti del romano Pons Drusi.


BIBLIO

- L. Crema - L’architettura romana - Torino - 1959 -
- James C. Anderson - Architettura e società romana - Baltimore - Johns Hopkins Univ. Stampa - a cura di Martin Henig - Oxford - Oxford Univ. - Comitato per l'archeologia - 1997 -
- Ranuccio Bianchi Bandinelli, Mario Torelli - L'arte dell'antichità classica - Etruria-Roma - Utet - Torino 1976 -
- N. Blanc - Les frises de stuc du décor intérieur en Italie romaine (TAV. V).53 -
- Santo Mazzarino - Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana. 2 volumi, Dedalo, Bari, 1974-1980 -

COSTANTINO VI

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LA REGGENZA


Nome: Costantino VI, Kōnstantinos VI 
Nascita: Costantinopoli, 14 gennaio 771 
Morte: Costantinopoli, 19 agosto 797 
Padre: Leone IV 
Madre: Irene l'Ateniana 
Dinastia: Isaurica Coimperatore di Leone IV dal 776 
Mogli: Maria di Amnia e Teodota 
Figli: Efrosina ed Irene da Maria di Amnia, e Leone da Teodota Fratellastro di sant'Antusa di Costantinopoli
Regno: 780 - 796 


LA REGGENZA (780-790)

Costantino VI succedette alla morte di Leone IV nel 780, a soli nove anni con la reggenza della madre Irene, che cercò l'aiuto della sorellastra del marito, Antusa, nella gestione dell'impero, ma questa rifiutò per dedicarsi alla vita religiosa. Irene fece subito edificare un nuovo palazzo, presso uno dei porti di Costantinopoli: il ricchissimo Palazzo dell'Eleuterio.

Ma i cinque fratelli dell'Imperatore Leone IV: Niceforo, Cristoforo, Niceta, Antimo ed Eudocimo, appoggiati da Gregorio, logoteta del Dromos e da Elpidio, Strategos di Sikelia, dopo soli due mesi dall'ascesa di Costantino VI, si rivoltarono volendo porre Niceforo al trono. 

La rivolta, appoggiata dagli iconoclasti, venne sbaragliata e Irene costrinse i cinque cognati a farsi preti mentre a Gregorio e i suoi complici vennero cavati gli occhi. Irene fece poi arrestare e torturare la famiglia di Elpidio contro cui inviò una flotta che riuscì a riconquistare la Sicilia; Elpidio fuggì in Africa, dove gli Arabi lo trattarono come un re.

Nel 782 l'Impero Bizantino venne attaccato dagli arabi-musulmani del califfo Hārūn al-Rashīd che marciò con poco meno di 100.000 uomini, fino al Bosforo, occupando la riva opposta a Costantinopoli. Irene allora inviò contro gli Arabi l'esercito al logoteta postale Stauracio che però venne tradito e fatto prigioniero, riscattato poi da Irene, che pagò gli arabi pure per ottenere la tregua e la liberazione dei prigionieri bizantini in mano musulmana.

Poi Irene inviò il suo esercito al comando di Stauracio contro gli Slavi, creando un nuovo thema di Macedonia nei territori conquistati. Per questo trionfo l'Imperatrice fece erigere la Basilica di Santa Sofia a Salonicco. 

CARLO MAGNO

Quindi la madre di Costantino VI fece preparare un concilio che abolisse l'iconoclastia che si tenne il 31 luglio 786, a Costantinopoli, interrotto dalle truppe iconoclaste che Irene inviò allora in Asia Minore a combattere gli arabi e trasferì nella capitale quelle iconodule. Nel 785, Irene non versò più il tributo al Califfato abbaside e gli Arabi devastarono il Thema degli Armeniaci, che per ritorsione devastarono la fortezza di Hadath in Cilicia.

Nel 787 si ripetè il settimo Concilio Ecumenico a Nicea, che condannò l'iconoclastia e scomunicò gli iconoclasti, ripristinando il culto delle immagini sacre, ma non avendo invitato una delegazione franca Carlo Magno chiese la scomunica per Irene.

Successivamente Irene firmò un'alleanza con Carlo Magno progettando il matrimonio tra la figlia Rotrude e suo figlio, accordo che poi interruppe temendo che Carlo Magno avrebbe spinto Costantino VI a liberarsi dalla sua tutela, anzi costrinse Costantino a sposare la figlia di un piccolo nobile bizantino.
Nel 788 le truppe bizantine di Irene vennero sconfitte dal Califfato abbaside di Harun al-Rashid a Kopidnadon per cui Irene fu costretta a versare nuovamente i tributi al Califfato.

BASILEUS COSTANTINO E BASILISSA IRENE


COSTANTINO VI E IRENE CO-IMPERATORI (790-797)

Nonostante Costantino VI avesse raggiunto la maggiore età, Irene continuava a governare al suo posto ed anzi si nominò Autocrate dei Romani, come dire "la legittima imperatrice". Lo Stratega degli Armeni nel 790, assediò Costantinopoli chiedendo la legittimazione di Costantino e, incolpando Stauracio, ordì una congiura contro di lui, ma Irene scoprì la congiura e fece arrestare il figlio, facendolo anche frustare. 

Irene tentò quindi di convincere l'esercito a legittimarle il potere assoluto sullo Stato pur restando Costantino VI coimperatore, e costringendolo a giurare «Finché tu vivrai, noi non riconosceremo tuo figlio come imperatore».

Ma le truppe anatoliche, favorevoli all'iconoclastia e pertanto a Costantino VI, lo nominarono unico imperatore nell'ottobre del 790, costringendo l'imperatrice a ritirarsi nel Palazzo di Eleuterio. Un anno dopo tuttavia Irene riuscì di nuovo a ottenere il titolo di imperatrice, regnando insieme al figlio.

A questo punto fece del tutto per rendere il figlio impopolare, gli fece sospettare l'infedeltà del generale Alessio Mosele, facendo si che lo accecasse, perdendo così il favore delle truppe anatoliche, che insorsero. Costantino VI sedò nel 793 la rivolta con molta violenza, accentuando l'odio delle truppe anatoliche. Poi gli fece ripudiare la moglie, facendolo sposare nel 795 con la sua ex amante Teodota, per cui gli ortodossi lo accusarono di adulterio.



IL COLPO DI STATO

Durante il soggiorno a Prusa, Costantino VI tornò a Costantinopoli nell'ottobre del 796 a vedere il suo nuovo nato e Irene ne approfittò per attuare un colpo di Stato, cercando di farlo assassinare il 17 luglio 797. Costantino riuscì a fuggìre in Asia Minore, dove avrebbe potuto contare dell'appoggio delle truppe anatoliche.

Allora Irene minacciò i cortigiani compromessi con lei di rivelare a Costantino VI il loro tradimento se non l'avessero aiutata. Questi acconsentirono: Costantino VI venne riportato a Costantinopoli, detronizzato e accecato nella stessa stanza dov'era stato battezzato (15 agosto 797), morendo poco dopo per le ferite. Irene, la madre belva per giunta santificata, continuò a governare come unica imperatrice.

Essendo Costantino VI estremamente impopolare, pochissimi piansero la sua morte e i più videro il colpo di Stato attuato da Irene come un atto di liberazione da un tiranno. Solo Teofane nella sua Cronaca, pur lodando nel suo complesso la figura di Irene, sembrò aver realizzato la gravità del suo crimine.

«Il sole si oscurò per 17 giorni senza irradiare, tanto che i vascelli erravano sul mare; e tutti dicevano che era per via dell'accecamento dell'Imperatore che il sole rifiutava la sua luce. E così salì al trono Irene l'Ateniana, madre dell'Imperatore

(Teofane, Cronaca.)


BIBLIO

- Nicola Bergamo - Irene, Imperatore di Bisanzio - Milano - Jouvence - 2015 -
- Patrizio Corda - Irene d'Atene. L'Imperatrice Mantide - 2020 -
- Anna Maria Fontebasso - Lettere di Pharan: l'ascesa al potere di Irene di Bisanzio - Firenze - 1988 -
- Mirko Rizzotto - Irene Imperatrice romana d'Oriente - 2008 - Pagine Svelate - Gerenzano (Varese) -
- Antonio Calisi - I Difensori dell'icona: La partecipazione dei Vescovi dell'italia Meridionale al Concilio di Nicea II 787 - 2017 -- Becher Matthias - Carlo Magno - Il Mulino - Bologna - 2000 -
- Charles Diehl - Figure bizantine - introduzione di Silvia Ronchey - Einaudi - 2007 -

CANALI ROMANI

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CANALE DI ALBANO

La tecnologia romana fu dovuta all'ingegneria non teorica ma pratica che ebbe un grande sviluppo permettendo l'espansione del commercio e della forza militare romana per oltre un millennio. Tra queste capacità tecnologiche brillò quella di scavare con estrema precisione dei canali per portare o regolare il flusso delle acque. I canali romani vennero destinati a varie funzioni, come irrigazione, drenaggio, bonifica delle terre, controllo delle inondazioni e non ultima, per navigazione. 

Gli ingegneri greci sono stati i primi ad utilizzare delle chiuse per canali, per regolare il flusso d'acqua nell'antico Canale di Suez già nel III secolo a.c.. I Romani sotto Traiano assicurarono l'ingresso al Mar Rosso con paratoie (pareti di legno o metallo, posta attraverso un canale per sbarrarne o regolarne il deflusso), mentre estesero il canale sud all'altezza della moderna Cairo per migliorare l'afflusso di acqua. Ecco l'elenco dei canali maggiori, ma se ne scavarono moltissimi in tutto l'impero di minori proporzioni.



SUOLO ITALICO

La gestione dei laghi e delle zone umide può essere ottenuta utilizzando superfici artificiali o canali sotterranei (emissari) ed è noto che, in Italia, ci sono non meno di ventuno antichi tunnel realizzati per questo scopo, che risalgono ai tempi dei romani o prima; è probabile che ve ne siano ancora molti da scoprire. 

- Canale Modena-Parma - Costruito da Marco Emilio Scauro per drenare la zona inferiore del Po. - II sec. a.c. - I canali navigabili che, stando a Strabone, sarebbero stati aperti da Scauro interessavano si il territorio parmense, ma, avendo la funzione di impedire le alluvioni provocate dalla confluenza del Trebbia in Po, dovevano essere dei canali scolmatori e quindi correre nella bassa pianura a ridosso della fascia direttamente interessata dal Po e parallelamente al fiume.

Canale aree Bologna, Piacenza e Cremona - Costruito da Marco Emilio Lepido, sempre per drenare la zona inferiore del Po - II sec. a.c.. Lepido fondò le colonie romane di Parma e Modena e diede il nome al castrum romano del Regium Lepidi (oggi Reggio Emilia ).

COLLETTORE DI SERRAVALLE DEL CHIENTI
- Canale "Tunnel di Albano" - nell’area vulcanica dei Colli Albani - lungo 1450 metri, scavato tra il nel IV secolo a.c. per regolare il livello del lego di Albano che, privo di sbocchi naturali, era soggetto a forti variazioni di livello. Non fu prosciugato completamente, sia per la profondità (170 m) sia per mantenere un’ampia conserva d’acqua con possibilità di sfruttamento del rivo per l’irrigazione. La tradizione storica pone l’Emissario del Lago Albano tra le più antiche imprese romane sotterranee documentate, secondo solo alla Cloaca Massima. Narra Tito Livio che  il tunnel fu scavato all’inizio del IV secolo a.c. dai romani durante la guerra contro Veio, città etrusca situata pochi chilometri a nord di Roma. La leggenda vuole che l’opera sia stata realizzata come conseguenza di un responso dell’oracolo di Delfi: “Veio non sarà conquistata (dai Romani) finché il lago Albano uscirà dalle sue rive”.

- Canale "Tunnell di Nemi" - nell’area vulcanica dei Colli Albani - lungo 1600 metri, scavato tra il VI e il IV secolo a.c. per regolare il livello del lego di Nemi che, privo di sbocchi naturali, era soggetto a forti variazioni di livello.  Non fu prosciugato completamente, sia per la profondità (33 m) sia per mantenere un’ampia conserva d’acqua con possibilità di sfruttamento del rivo per l’irrigazione. 

- Canale Forum Appii - Terracina - Drenaggio Pomptine Paludi quando la Via Appia era inutilizzabile a dorso di mulo-traino I sec. a.c. - Il Forum Appii è un'antica stazione di posta sulla Via Appia , 69 km (43 miglia) a sud-est di Roma, fondata dallo stesso costruttore della strada. Orazio la menziona come la solita sosta alla fine del primo giorno di viaggio da Roma, e la descrive come piena di barcaioli poichè era il punto di partenza di un canale che correva parallelo alla strada attraverso le paludi pontine appunto per bonificarle.

- Canale di Ferrara-Padova - un canale di drenaggio che collegava le due città - I sec. a.c. -

- Canale "Fossa Augusta" - entroterra della costa - Costruito da Augusto per collegare Ravenna e Po estuario - Fine I sec. a.c. - per mezzo di un ramo minore del Po (la Padusa) e per ostacolare il graduale alluvionamento della foce della laguna ravennate a N di Classe. È rimasto in funzione fino al Medioevo e in diversi tratti fino al 18° secolo.

Canale "Fossa Flavia" - Secondo Plinio il Vecchio per il drenaggio Po estuario; erosione e insabbiamento rende impossibile l'identificazione moderna - fine I sec. d.c. - Nel I secolo d.c. esistevano le fosse che permettevano di navigare da Ravenna ad Aquileia rimanendo sempre all'interno di lagune e percorrendo canali artificiali e tratti di fiumi.

- Canale "Fossa Carbonaria" - Secondo Plinio il Vecchio costruita per il drenaggio Po estuario; erosione e insabbiamento rende impossibile l'identificazione moderna - fine I sec. d.c. - Il suo nome deriva dal centro di Carbonara che in latino significava acqua scura.

- Canale "Fossa Philistina" - Secondo Plinio il Vecchio per il drenaggio Po estuario; erosione e insabbiamento rende impossibile l'identificazione moderna - fine I sec. d.c. - Secondo Braccesi, la fossa Philistina collegava già in epoca pre-siracusana la città di Adria a Chioggia e alla laguna di Venezia fino al porto di Malamocco (oggi Pellestrina). Tale canale permetteva la navigazione endo-lagunare fino alle risorgive del Timavo (caput Adriae), dove arrivava la via carovaniera dal Mar Nero attraverso Danubio e Drava. Tale canale, in seguito chiamata fossa Clodia fece di Adria il principale terminale commerciale dell'Alto Adriatico, e portò in seguito i greci a denominare come "golfo di Adria" (Adrias Kolpos) il futuro mare Adriatico.

- Canale "Fossa Clodia" - Altro nome della Fossa Philistina -

- Canale "Fossa Messanicia" - Altro nome della Fossa Augusta -

- Canale "Fossa Neronis" - Ambizioasissimo progetto di scavare in canale artificiale tra Puteoli e Roma per un rapido trasporto del grano riservato a Roma. Gli scavi iniziarono nel 64 d.c. ma finirono per le rivolte in Gallia prima e la morte di Nerone poi.



GALLIA

FOSSA MARIANA
Canale "Fossa Mariana" - Rhone - entroterra della costa - Costruito da Mario attraverso pianura Crau per le fornitura intorno a Arles nella campagna contro Teutoni - 101 a.c. - Esso andava dal Rodano al Golfo di Stomalimne, vicino alla moderna città di Fos-sur-Mer, per aiutare la navigazione presso la foce del fiume, per accumulazione di sabbia e detriti. Era lungo 16 miglia, e venne poi dato agli abitanti di Massilia (Marseilles).

- Canale Narbonne - sul fiume Aude con una lunga storia di traboccamento delle sue sponde - entroterra della costa - Realizzato per rendere la città di Narbonne accessibile dal Mediterraneo - lungo 13 Km -



GERMANIA

- Fossa Drusiana - canale navigabile tra lo Zuidersee e l'Issel - entroterra della costa - costruita nel 12 a.c. per il passaggio delle truppe alla costa Frisone, evitando il passaggio pericoloso sul Mare del Nord al largo della foce del Reno. Lunga 14 km - Nella I campagna la flotta romana scese la Lupia, passò nello Zuidersee, costeggiò la Frisia e giunse al fiume Ems. I Romani sottomisero Frisi e dei Batavi, ma non riuscirono a risalire il fiume. Druso respinse una nuova invasione di Usipeti, Tencteri e Sigambri, concludendosi poi con una spedizione navale nelle terra di Frisi e Cauci in cui fece anche costruire un canale (fossa Drusi) per trasportare le flotta dal Reno allo Zuiderzee.« .. dove si trovò in pericolo quando le sue imbarcazioni si incagliarono a causa di un riflusso della marea dell'Oceano. In questa circostanza venne salvato dai Frisi, che avevano seguito la sua spedizione con un esercito terrestre, e dopo di ciò si ritirò, dal momento che ormai l'inverno era cominciato.. »
(Cassio Dione, Storia romana, LIV.32) 

-Fossa Corbulonis - Reno- Mosa - entroterra - navigazione entrambi i fiumi senza vela nel Mare del Nord; lunga 35 km - 47 d.c. - 

RICOSTRUZIONE DELLA FOSSA CORBULONIS


GRAN BRETAGNA

- Canale tra il Fiume Cam e il fiume Ouse (Car Dyke) - canale di drenaggio per le bonifiche nella Fenland, la pianura costiera paludosa dell'Inghilterra orientale, ma pure per la navigazione e il trasporto di carbone e di ceramiche. - L'immagine mostra un ingegnere romano alle prese con la groma.

Canale fiume Ouse-fiume Nene - con lo scopo di drenaggio - con insediamento romano presso Irchester, con un cimitero, una strada attraverso la pianura alluvionale del Nene, un tempio romano-celtico tempio con portico esterno di 11,5 mq e cella di 5 mq. Nella città è stata trovata anche la lapide di uno Strator Consularis - "un ufficiale dei trasporti del governatore consolare". Sono stati identificati una strada che corre da nord a sud nel sito e tre edifici rettangolari. Poiché è stata trovata solo una strada romana che si allontana dal sito, a sud, è "molto probabile" che il fiume fosse utilizzato come mezzo di trasporto e di comunicazione con altri insediamenti romani a Duston, Thrapston e Irchester, grazie anche al canale suddetto -

- Canale Fiume Nene-fiume Witham - nella contea del Lincolnshire nella parte orientale dell'Inghilterra - Fin dall'epoca dei romani era navigabile a Lincoln, da dove il Fossdyke è stato costruito per collegarlo al fiume Trent.

- Canale Fossa Dyke - ancora in uso per la navigazione - Fiume Witham- fiume Trent - collega il fiume Trent a Torksey a Lincoln, della contea di Lincolnshire, il più antico canale in Inghilterra, costruito intorno all'anno 120 dai Romani.

- Canale Bourne-Morton - per la navigazione - un corso d'acqua artificiale di 6,5 km che collega la terra a Bourne sul mare vicino Pinchbeck, o forse per un estuario navigabile nella zona. Ormai ce n'è poca traccia visibile. -



EGITTO

Antico Canale di Suez - Nilo-Mar Rosso - entroterra della costa - Mentre il canale egizio, però, si diramava dal braccio Pelusiac, sotto Traiano il canale venne restaurato e ampliato per circa altri 60 km a sud. Si unì alla diga tolemaica a Belbeis, scaricando nel Golfo di Suez a Arsinoe - Costruito entro il 112 d.c. -


MESIA 

- Canale di transito sul Danubio - nell'entroterra - del 101 d.c. - Per passare in modo sicuro le cateratte del Cancello di Ferro; una volta rintracciabile sulla riva serba (SIP) su una lunghezza di 3220 m -
II-VI secolo d.c. -

- Canale di transito del Danubio - nell'entroterra - Secondo Procopio per consentire il passaggio sicuro oltre i resti del ponte di Traiano che ostacolavano la navigazione fluviale; scavato sulla parte serba (Kladovo)



CANALI NON FINITI

- Canale Roma-Ostia - presso la costa - progettato da Nerone - 54-68 d.c. -

- Canale Puteoli-Ostia - presso la costa - A partire dal Lago d'Averno nei pressi di Puteoli, destinato da Nerone a correre parallelamente al Mediterraneo; sarebbe stato lungo 160 miglia romane - 54-68 d.c. -

 - Istmo di Corinto (moderno Canale di Corinto) - costa a costa - Per evitare di lunga e pericolosa circumnavigazione del Peloponneso; iniziato da Nerone, ma interrotto dopo la sua morte 54-68 d.c.

- Canale Saône-Moselle (moderno Canal de l'Est ) - nell'entroterra - avrebbe collegato il Mar Mediterraneo al Mare del Nord, via Rodano, Saona, Mosella e Reno; ma vi sono dei dubbi; 55 d.c. -

- Canale Lago Sapanca-Mar di Marmara - presso la costa - Per facilitare il trasferimento di prodotti verso l'interno per mare; oggetto di corrispondenza tra Plinio il giovane e Traiano; avrebbe richiesto il superamento di un dislivello di 32 m - 111 d.c. -


BIBLIO

- Vitruvio - De architectura - Eucharius Silber - Roma - 1486-87 -
- Ammiano Marcellino - Historiae - Les Belles Lettres - Paris - 2002 -
- Plinio il Vecchio - Naturalis Historia -
- Apollodoro di Damasco - Poliorcetica -
- Cesare - Commentarii de bello Gallico -
- Cesare - Commentarii de bello civili -
- Frontino - Strategemata -
- Strabone - Geografia -
- Tacito - Annales -
- Michael Reddé, Jean Claude Golvin - I Romani e il Mediterraneo - Roma - Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato - 2008 -

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