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QUINTO ASCONIO PEDIANO - Q. ASCONIUS PEDIANUS

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Nome: Quintus Asconius Pedianus                                                              
Nascita: Padova (Patavium), forse 9 a.c.                                                                                                      Morte: 76 d.c. 
Professione: Grammatico e storico


Cronaca, 2092-76: «Q. Asconius Pedianus scriptor historicus clarus habetur, qui LXXIII aetatis suae anno captus luminibus, XII postea annis in summo honore consenescit». 

Asconio è stato un grammatico romano di tipo classicista che divenne però famoso come storico (historicus). Fu amico di Asinio Gallo, lo sfortunato figlio di Asinio Pollione, perseguitato e fatto assassinare da Tiberio, che gli confermò, tra le altre cose, come il puer della IV Bucolica di Virgilio fosse proprio lui.

Fu un attento studioso di Cicerone, Virgilio e Sallustiodi Sempronio Tuditano, di Valerio Anziate, di Varrone, di Livio, di Fenestella, e d'altri ancora, e pure le orazioni degli amici e degli avversari di Cicerone, gli Acta diurna, il che fa supporre avesse un'attività di erudito e di commentatore per le scuole. 

Il tono del commento è piacevole e familiare, giacché Asconio lo compose per i suoi figli, e talora ad essi rivolge il discorso. Sappiamo dalla "Cronaca di Gerolamo" che divenne cieco a settantadue anni, che morì a 85 anni nell'anno 76, e che fu tenuto in gran conto dai letterati del suo tempo. 

Asconio fu anzitutto un gramaticus, cioè un erudito commentatore degli autori ritenuti classici della scuola del tempo. Nella sua attività di erudito aveva commentato, in ordine cronologico, almeno sedici orazioni di Cicerone, forse anche tutte: ma si è conservato in ordine un po' stravolto e con qualche lacuna, solo il commento di cinque orazioni, redatti però in buon stile con una lingua molto semplice e pura. Questi 'commentarii' vanno sotto il nome di "Orationum Ciceronis quinque enarratio"



ORATIONUM CCICERONIS QUINQUE ENARRATIO

Dove si tratta, per la rimanente parte, il commento a:

- "Contra Lucium Pisonem", 

- "Pro Marco Scauro"«A te dunque, Scauro, faccio queste domande, particolarmente a te, che hai fatto celebrare dei giochi splendidissimi e fastosissimi» 

CICERONE
- "Pro Milone, «Uscito dalla lettiga, quando vide Pompeo che presidiava il foro, in alto, come in un accampamento, e tutto in giro le armi che splendevano, si confuse, e diede inizio a fatica al suo intervento, tremando da capo a piedi e con la voce alterata, mentre Milone assisteva al dibattimento con audacia e sfrontatezza. »

(Plutarco, Vite parallele. Cicerone, trad. di Domenico Magnino, UTET.)
Il testo, pur non essendo un resoconto storico degli eventi, offre utili e imparziali informazioni, in grado di far luce non solo sulla vicenda di Milone, che contribuì al collasso del sistema repubblicano, ma anche sul significato che l'orazione dovette avere per Cicerone che decise di rimaneggiare e pubblicare un discorso giudiziario con il quale non era riuscito ad assolvere l’imputato.

Dopo aver raccontato il delitto che è oggetto dell’azione giudiziaria, Asconio narra le conseguenze provocate dall’arrivo a Roma del corpo di Clodio. Nella tarda serata del 18 gennaio del 52 a.C., difatti, il cadavere dell’ex tribuno viene trasportato nell’atrio della sua splendida domus, dove accorre una folla smisurata (infimaeque plebis et servorum maxima multitudo, Ascon. 32, 19 C), infiammata dalle ostentate manifestazioni di lutto della vedova Fulvia (32, 20-22 C). 
Il giorno successivo, all’alba, si raduna una folla ancora più numerosa, ma dalla composizione analoga a quella della sera precedente (eiusdem generis, 32, 23 C), quindi formata anch’essa da schiavi e plebei di basso rango. 

Cicerone era molto legato sul piano personale e politico a entrambi i protagonisti dei fatti e misfatti della via Appia. Con l’assunzione della difesa di Milone egli poteva finalmente dire pubblicamente tutto il male possibile di quel Clodio che era stato l’artefice del suo esilio qualche anno prima. 
Nello stesso tempo Cicerone onorava il debito di gratitudine che aveva contratto nei confronti di Milone che, nell’anno in cui era stato tribuno della plebe (57 a.c.),  aveva contribuito al ritorno in patria di Cicerone dopo l’esilio. Anche in seguito a tale ritorno era stato sempre Milone a difendere Cicerone e la sua casa ricostruita sul Palatino dagli attacchi delle bande clodiane.

- "Pro Cornelio de maiestate" All'assistito di Cicerone alcuni optimates rinfacciavano alcune irregolarità che avrebbero segnato proposta di legge sui brogli elettorali che egli aveva avanzato l'anno precedente in qualità di tribuno della plebe. La difesa di Cicerone, che doveva effettivamente stimare il tribuno, ebbe successo e Cornelio fu assolto.

- "In toga candida contra Caium Antonium et Lucium Catilinam competitores" purtroppo perduta. Quest'ultima è un'orazione di Cicerone pronunciata contro Gaio Antonio Ibrida accusato di aver partecipato alla congiura di Catilina, di cui restano pochi frammenti proprio grazie allo studioso padovano. Il testo di Asconio fu trovato da Poggio Bracciolini in un codice, poi perduto, dell'Abbazia di San Gallo. Ne esistono tre copie: 
- il Madrileno del Bracciolini, 
- il Pistoiese Forteguerri  di Sozomeno da Pistoia, 
- il Laurenziano da un apografo di Bartolomeo da Montepulciano. 

Risulta, comunque, che avesse commentato le altre orazioni di Cicerone, anche se i frammenti di commenti a 17 orazioni di Cicerone pubblicati e a lui attribuiti da Angelo Mai (Schilpario 1782 – Castel Gandolfo 1854) non gli appartengono, così come non sono suoi, ma di un anonimo del V secolo, i "Commenti alle Verrine" (Pseudo-Asconio).



OPERE PERDUTE

Perdute sono altre opere che fanno riferimento alla sua attività di commentatore: 
- un trattato "Contra obtrectatores Vergilii" (Contro i detrattori di Virgilio), a cui attinsero molto Elio Donato, Servio Mario Onorato, 
- Vita Sallustii (biografia di Gaio Sallustio Crispo, in cui accoglieva le dicerie più infamanti sullo storico amiternino) 
- un trattato a imitazione del Simposio platonico, di cui informa il lessico Suda "Commentarii, recognovi Caesar Giarratano" - Roma - A. Nardecchia - 1920 -
 

BIBLIO
 
- Quinto Asconio Pediano Treccani.it
- Giuseppe Vedova - Biografia degli scrittori padovani - vol. II - Miverva - 1836 -
- C. Giarratano - I codici fiorentini di Asconio Pediano - Firenze - G. Bencini - 1906 -
- C. Marchesi - Storia della letteratura latina - Milano-Messina - Giuseppe Principato - 1957 - 
- E. Paratore - La letteratura latina dell'età imperiale - Firenze - Sansoni - 1969 -

GENS VALERIA

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GENS VALERIA

La gens Valeria era una gens patrizia romana di origine sabina, facente parte delle cento gentes originarie citate dallo storico Tito Livio ed avrebbe avuto come capostipite un Volusus o Valesus, venuto dalla Sabina (Dione Halicarnasso) assieme a Tito Tazio. Il praenomen Valesus divenne il nomen Valesius, trasformatosi successivamente in Valerius.

Nel 509 a.c. un discendente di Valesus, Publio Valerio Publicola, si attivò fortemente assieme a Lucio Giunio Bruto nella cacciata di Tarquinio il Superbo, dando inizio alla Repubblica Romana e ricoprendo per primo la magistratura consolare insieme a Lucio Giunio Bruto.

I Valerii furono una delle famiglie romane più illustri ed influenti, e ricoprirono per ben 74 volte la carica di Console, il che fa comprendere l'ascendente di questa gens sul popolo romano. Pur essendo patrizi molto si adoperarono per il riconoscimento dei diritti dei plebei, durante il primo periodo della repubblica, il che fa capire quale fosse la loro levatura morale.


I PRIVILEGI

I Valerii risiedevano tra il Palatinno e l'Oppio, sulla sommità della collina Velia, e proprio per quel riconosciuto senso di onestà e giustizia, godettero a Roma di straordinari privilegi. Tra questi quello di essere gli unici le cui porte si aprivano direttamente sulla strada; nel circo avevano un seggio speciale a loro riservato.

Inoltre potevano seppellire i loro defunti all'interno delle mura della città, privilegio riservato a pochissime famiglie, che mantennero anche quando passarono dall'uso dell'inumazione a quello della cremazione.

Sembra inoltre che durante il periodo di transizione dalla monarchia alla repubblica, i membri della Gens Valeria avessero il privilegio di esercitare i poteri regi, in virtù della loro origine sabina e quindi della loro appartenenza alla tribù dei Tities.

La Casa dei Valerii ( Domus Valeriorum ), grande famiglia di origine Sabina, occupava una grande superficie sul Celio e fiancheggiava l’Acqua Claudia con vasti giardini in pendio. La ricca domus giaceva ai piedi della Velia, la terra che connetteva il Palatino col Colle Oppio ed era l'unica domus di Roma dove le porte si aprivano direttamente sulla strada. Secondo la tradizione, una casa sub Veliis (Asc. in Pison. 52, ubi aedes Victoriae=Vicae Potae), o in Velia (Cic. de Har. resp. 16), fu concessa a Valerius come un onore speciale (cf. Plin. NH xxxvi. 112, ).

Tra i loro cognomen ricorrevano spesso: Publicola (o Poplicola), Potito, Voluso, Massimo, Corvo (Corvino), Flacco, Messalla, Falto, Laevino, Tappo, Triario, Acisculo, Catullo. Diversi membri della Gens Valeria ebbero diritto di coniare monete, sulle quali troviamo incisi i cognomen Acisculus, Barbatus, Catullus e Flaccus.

PUBLIO VALERIO PUBLICOLA


MEMBRI ILLUSTRI

Publio Valerio Publicola - console nel 509, 508, 506 e 504 a.c. 

Marco Valerio Voluso - console nel 505 e nel 496 a.c., comandante nella Battaglia del Lago Regillo.

Manio Valerio Massimo - dittatore nel 494 a.c., nipote di: Publio Valerio Publicola. 

Lucio Valerio Potito Publicola - console 483 a.c., 470 a.c.. Nel 485 a.c. fu uno dei due questori che accusarono Spurio Cassio Vecellino di ambire alla monarchia, gettandolo personalmente dalla Rupe Tarpea, cosa che lo rese inviso alla plebe. Accusò i soldati di avergli fatto perdere la battaglia coi Volsci per ostruzionismo, ma per i soldati lui non sapeva fare la guerra. Riottenne il consolato nel 470 a.c. e i due consoli vennero inviati a combattere Tiberio contro i Sabini e Lucio contro gli Equi ma i vari eserciti decisero poi di non attaccarsi e di tornarsene a casa.

- Publio ValerioPublicola - eletto console due volte, nel 475 e nel 460 a.c., figlio di Publio Valerio Publicola, 

- Marco Valerio Massimo Lactuca - console 456 a.c. insieme con Spurio Verginio Tricosto
Celiomontano

Lucio Valerio Potito Publicola -  fu eletto con console nel 449 a.c. insieme al collega Marco Orazio Barbato e nel loro consolato vennero promulgate le Leges Valeriae Horatiae che, tra gli altri diritti, stabilivano l'inviolabilità dei tribuni della plebe e le modalità delle loro elezioni, e riconoscevano valore giuridico ai plebisciti.
Intanto gli Equi, i Volsci e i Sabini si muovono contro Roma: prima di partire per la guerra, i due consoli fanno incidere nel bronzo le leggi delle XII tavole. Mentre Marco Orazio si occupa dei Sabini, Valerio dei Volsci ed Equi e ambedue vinsero ma il senato irato per le leggi a favore del popolo, negò loro il trionfo.
Ma, per la prima volta nella storia di Roma, i comizi tributi, ignorando la volontà del Senato, decretarono il trionfo per i due consoli. Tito Livio commenta: «Non capitano spesso consoli come Valerio e Orazio, che antepongono la libertà delle persone ai propri interessi»

- Caio Valerio Potito - tribuno consolare 415 a.c., combatte contro i Volsci. L'elezione venne dopo  5 anni in cui a Roma non si erano eletti tribuni consolari, a causa del veto dei tribuni della plebe Gaio Licinio Calvo Stolone e Lucio Sestio Laterano, e fu dovuta all'attacco che Velletri portò a Tusculum, città alleata dei Romani.

- Lucio Valerio Potito - tribuno consolare del 414 - 406 - 403 - 401 - 398  a.c..

- Caio Valerio Potito Voluso - console 410 a.c..

- Lucio Valerio Potito - nel 406 a.c. tribuno militare con podestà consolare, è sconfitto dai Volsci.

Lucio Valerio Potito - Venne eletto Tribuno militare con poteri consolari in cinque occasioni, nel 414, 406, 403, 401, e 398 a.c.. Eletto console nel 393 a.c., con Publio Cornelio Maluginense, ma dovettero dimettersi entrambi per auspici vitio facti, ma vennero eletti nuovamente nel 392 a.c., con Marco Manlio Capitolino, vinsero anche la guerra contro gli Equi, per cui Valerio ottenne il trionfo e Marco Manlio Capitolino un'ovazione.

Lucio Valerio Publicola - tribuno consolare 388 a.c..

Publio Valerio Potito Poplicola - tribuno militare con Furio Camillo nel 386 a.c. portò guerra a Anzio, nel 377 a.c. sconfisse i Latini a Satrico.

Tito Valerio - tribuno consolare nel 385 e nel 382 a.c..

- Lucio Valerio - tribuno consolare nel 379 a.c..

Publio Valerio Potito Publicola III - tribuno consolare nel 379

Valerio - tribuno consolare nel 374 a.c.

- Marco Valerio Publicola -  eletto console nel 355 a.c. per la prima volta avendo come collega Gaio Sulpicio Petico, entrambi patrizi, in violazione delle leggi licinie-sestie. Nonostante le proteste dei plebei e dei tribuni della plebe, i due consoli riuscirono a far sì che anche per l'anno successivo la carica fosse appannaggio di due patrizi.  Nel 353 a.c. fu eletto console per la seconda volta ed ebbe come collega il patrizio Gaio Sulpicio Petico, al suo quarto consolato. Gaio Sulpicio venne eletto dittatore e Marco Valerio fu suo magister equitum. A Sulpicio fu affidata la campagna contro Tarquinia ed a Publicola quella contro i Volsci, che minacciavano gli alleati Latini. Quando però sembrò che Cere fosse entrata in guerra, alleandosi a Tarquinia, fu nominato dittatore Tito Manlio Imperioso Torquato.

- Publio Valerio Poplicola - console nel 352 a.c.

- Marco Valerio Corvo - console 6 volte, dal 348 a.c., chiamato Corvino dai soldati.

- Caio Valerio Potito Flacco - console 331 a.c. con M. Claudio Marcello e fu aedile nel 329 a.c..

- Lucio Valerio Flacco - magister equitum del dittatore Marco Emilio Papo nel 321 a.c..

- Marco Valerio Massimo Corvino - console 312 a.c. combatte i Sanniti, nel 309 a.c., come legato, combatte nuovamente contro i Sanniti ed è console per la seconda volta nel 289 a.c..

Marco Valerio Massimo - console 286 a.c. nel suo consolato vi furono delle agitazioni a causa della Lex Hortenzia.

- Lucio Valerio Potito - inviato nel 282 a.c. ambasciatore a Taranto, viene dapprima maltrattato e poi ucciso.

- Publio Valerio Levino - console 281 a.c. insieme a Tiberio Corouncanio, Posto a capo delle truppe romane nella battaglia di Eraclea, venne sconfitto dalle truppe epirote/tarantine comandate dal re Pirro d'Epiro che nella battaglia usò, per la prima volta, gli elefanti da guerra.

- Manio Valerio Massimo Corvino Messalla - fu console nel 263 a.c., con Manio Otacilio Crasso e censore nel 252 a.c. con Publio Sempronio Sofo. durante la I guerra punica, i due consoli scesero in Sicilia al comando di una legione ciascuno. I Fasti trionfali riportano che Messalla riportò delle grandi vittorie, conquistando 67 cittadine, tra cui Messina e Catania, e vincendo un'importante battaglia contro Gerone e i cartaginesi ad Imera.

- Lucio Valerio Flacco - Fu eletto console nel 261 a.c. con Tito Otacilio Crasso con cui comandò le operazioni belliche in Sicilia contro i Cartaginesi.

Quinto Valerio Falto - pretore comandò la flotta romana alla battaglia delle isole Egadi, nel 241 a.c., sostituendo il console Gaio Lutazio Catulo che soffriva per una ferita. Il suo valore nella battaglia lo rese famoso presso i Romani e presso i nemici. Ottenne una grande vittoria ponendo fine fine alla I guerra punica., per cui gli venne accordato il trionfo di rango pretorio. Fu poi eletto console nel 239 a.c. con Gaio Mamilio Turrino.

- Publio Valerio Faltone - console nel 238 a.c..

- Publio Valerio Flacco - console nel 227 a.c.. Nel 215 a.c. venne nominato praefectus classis alla guida di cinquantacinque navi, comprese le cinque navi che avevano trasportato i prigionieri macedoni, i quali avevano tentato di mettere in contatto Filippo V di Macedonia con Annibale. La flotta partì da Ostia a Taranto (dove imbarcarono i soldati di Varrone, posti sotto il comando di Lucio Apustio Fullone) onde proteggere il litorale della Puglia e a fare ricognizione lungo le coste orientali dell'Adriatico per controllare le mosse di Filippo.

- Marco Valerio Massimo Messala - console nel 226 a.c. con Lucio Apustio Fullone. Impiegò l'anno del consolato per organizzare una leva generale in tutta Italia, onde affrontare una prevista invasione di popoli provenienti della Gallia cisalpina ed pure da oltralpe.

- Marco Valerio Publio Levino - console nel 220 e 210 a.c.; proconsole e comandante della flotta in Sicilia fino al 207 a.c.; pretore e propretore in Grecia negli anni 214 a.c. - 211 a.c.; propretore e comandante di una flotta nel 201 a.c.

- Quinto Valerio Faltone - console 239 a.c., pretore nel 242 a.c., comandò con Gaio Lutazio Catulo la flotta contro i Cartaginesi su cui nel 241 a.c. ottennero presso le Egadi una vittoria schiacciante che guadagnò loro il trionfo.

- Publio Valerio Faltone - console 238 a.c.

Publio Valerio Lucio Flacco - console 227 a.c. Nel 215 a.c. venne nominato praefectus classis con cinquantacinque navi, comprese le cinque navi che avevano trasportato i prigionieri macedoni che tentaronodi mettere in contatto Filippo V di Macedonia con Annibale. La flotta partì da Ostia a Taranto per proteggere il litorale della Puglia e controllare lungo le coste orientali dell'Adriatico le mosse di Filippo

Marco Valerio Massimo Messalla - console 226 a.c. con Lucio Apustio Fullone, nell'anno del consolato organizzò una leva generale in tutta Italia, per fronteggiare un'invasione gallica dalla Gallia cisalpina e pure da oltralpe.

- Marco Valerio Levino - console 221 a.c. e nel 210 a.c.

- Lucio Valerio Anziate - comandante di una flottiglia nel 215 a.c.

- Marco Valerio Messalla - comandante della flotta in Sicilia nel 210 a.c. durante la II guerra punica

Lucio Valerio Flacco - console nel 195 a.c.. Fratello di Gaio Valerio Flacco, fu edile curule nel 201 a.c.; l'anno seguente fu nominato pretore ed ottenne la Sicilia. Venne eletto pontefice massimo ma lo stesso anno anche console con il collega Marco Porcio Catone.
Ricevette il comando dell'esercito e sconfisse i Galli Boi, uccidendone 8000. Nel 194 a.c. fu proconsole nella Gallia Cisalpina e sconfisse i Galli Boi e gli Insubri, uccidendone oltre 10.000. Nel 191 a.c. servì sotto Manio Acilio Glabrione nella guerra contro Etoli e Macedoni e sconfisse alle Termopili Antioco III di Siria. 
Assieme a Catone il Censore, sconfisse i Galli Boi e gli Insubri presso Mediolanum nel 191 a.c.. Censore nel 183 a.c. con Marco Porcio Catone, nello stesso anno fu nominato princeps senatus. Morì nel 180 a.c. con la carica di pontefice.

- Gaio Valerio Flacco - fratello del precedente, nel 199 a.c. è edile curule e viene nominato contro la sua volontà Flamen Dialis. Il fratello giura al posto suo dato che al Flamen Dialis il giuramento era vietato. Nel 183 a.c. è nominato pretore.

- Lucio Valerio Messalla - pretore nel 193 a.c.

- Lucio Valerio Tappone - pretore in Sicilia nel 192 a.c.; comandante della flotta in Sicilia nel 191 a.c. , con Attilio Serano e Lucio Valerio Flacco nel 189 a.c. venne mandato dal Senato di Roma nella zona dove una volta sorgeva Felsina, per l’insediamento di tremila coloni romani su 12.000 ettari di terreno da coltivare, costruendo la città di Bonomia (Bologna).

- Marco Valerio Messalla - console nel 188 a.c..

Caio Valerio Levino - console suffecto nel 176 a.c.. Quando Marco Fulvio Nobiliore fu eletto console nel 189 a.c., Levino lo seguì nelle campagne militari e nell'assedio di Ambracia, dove gli la lega etolica lo scelse come intermediario con il console. Nobiliore garantì agli abitanti di Ambracia ed alla lega etolica condizioni vantaggiose, inviandolo a Roma con la delegazione avversaria, dove il Senato ratificò gli accordi. Nel 179 a.c. ottenne la Sardegna come provincia. Morto il console Gneo Cornelio Scipione Ispallo Levino fu scelto dal Senato come console suffetto e a tre giorni dalla nomina, andò in Liguria per prendere il comando delle sue legioni. Riuscì a trionfare sui Liguri solo l'anno successivo (175 a.c.).

- Marco Valerio Messalla - console 166 a.c..

- Lucio Valerio Flacco - eletto console nel 152 a.c. con Marco Claudio Marcello. Morì durante l'anno del suo magistrato.

- Lucio Valerio Flacco - console nel 131 a.c. con Publio Licinio Crasso Dive Muciano mentre era flamine marziale, per cui gli fu proibito di partecipare alla campagna contro Eumene III di Pergamo.

- Lucio Valerio Flacco - console 100 a.c, figlio del precedente, console suffetto nell'86 a.c., interrex e magister equitum del dittatore Silla nell'82 a.c..

Valerio Edituo - poeta del 100 a.c. in lingua latina di cui restano solo due epigrammi erotici, tramandatici da Aulo Gellio.

Gaio Valerio Flacco - console nel 93 a.c.. Nel 98 a.c. fu pretore urbano e con il consenso del Senato, concesse la cittadinanza romana a Callifana, sacerdotessa di Velia, così che una sacerdotessa straniera potesse compiere sacrifici anche a nome dei Romani. Nel 93 a.c. fu eletto console con Marco Erennio; poi proconsole in Spagna al posto di Tito Didio che aveva trattato molto male i Celtiberi, che a Bèlgida si rivoltarono e nel senato locale bruciarono numerosi senatori iberici, che vi si erano rifugiati, dopo aver rifiutato di unirsi alla rivolta. Flacco riuscì rapidissimo ad occupare la città e a condannare a morte tutti i coinvolti nell'attacco contro il locale Senato.

Lucio Valerio Flacco - pretore 63 a.c. - figlio del console del 100 a.c..

- Valerio Anziate - annalista nel I secolo a.c. che scrisse almeno fino al 78 a.c., ultima data ricavabile dai resti della sua opera.Cercò di glorificare le gesta della sua Gens Valeria con esagerazioni e pure falsificazioni. Scrisse gli Annali (Annales) o Storie (ab urbe condita), in almeno 75 libri, dalla fondazione di Roma fino al 78 a.c. data della morte di Silla. Per i caratteri romanzeschi e le cifre iperboliche, Anziate fu molto criticato da Tito Livio, che ne utilizzò, comunque, l'opera.

- Lucio Valerio Flacco - console suffecto nell'86 a.c. al posto di Gaio Mario.

- Lucio Valerio Flacco - tribuno militare nella II guerra piratica in Cilicia ca. 80 a.c.

Quinto Valerio Sorano - tribuno della plebe 82 a.c., poeta e grammatico latino, venne giustiziato da Gneo Pompeo per ordine del dittatore Silla, ufficialmente per aver pubblicamente rivelato il nome segreto della città di Roma, che avrebbe potuto essere utilizzato nel rituale di evocatio da parte dei nemici, ma in effetti in quanto era legato alla fazione di Caio Mario.

- Gaio Valerio Triario - ufficiale romano legato di Lucullo nella III guerra Mitridatica, conquistò Apamea nel 73,vinse la Battaglia di Tenedo ottenendo il trionfo navale nel 72 a.c. , sconfisse Mitridate presso Comana nel 68 ma ne fu sconfitto l'anno seguente a Zela.

- Lucio Valerio Flacco - pretore 63 a.c., propretore in Asia l'anno seguente.

Marco Valerio Messalla Niger - console 61 a.c., censore nel 55, valente oratore, difese nel 54 Emilio Scauro.

- Quinto Valerio Orca - pretore nel 57 a.c., legato di Cesare in Sardegna durante la guerra civile.

- Marco Valerio Messalla Rufo - console 53 a.c., accusato di pratiche illecite nelle elezioni, prima da Quinto Pompeo Rufo e prosciolto, nonostante la sua evidente colpevolezza, grazie all'eloquenza dello zio Quinto Ortensio; accusato una seconda volta fu invece condannato. Durante la guerra civile si schierò con Giulio Cesare. Fu augure per cinquantacinque anni e scrisse un trattato sull'arte della divinazione.

Marco Valerio Messalla Corvino - di ideali repubblicani, a Filippi combatté per di Bruto e Cassio. Passò poi dalla parte di Antonio ed infine di Ottaviano. Fu Console suffectus nel 31 a.c. con Ottaviano, e con lui prese parte alla Battaglia di Azio. Nel 28-27 a.c. combatté contro i Salassi, come proconsole della Gallia, dove soppresse anche una rivolta tra gli Aquitani. Per queste imprese celebrò un trionfo.
Fu nominato praefectus urbi nel 26 a.c., ma rinunciò dichiarandosi incapace. Nel 2 a.c., come princeps senatus, avanzò la proposta dell'attribuzione a Ottaviano del titolo di pater patriae. Incoraggiò la letteratura con il "Circolo di Messalla" in cui c'erano Tibullo, Ligdamo e la poetessa Sulpicia. Fu amico di Orazio ed Ovidio.

- Marco Valerio Messalla - console suffecto nel 32 a.c.

Marco Valerio Messalla Corvino - console 31 a.c.

- Publio Valerio Catone - poeta e grammatico romano I secolo a.c. della Gallia Cisalpina che perse i possedimenti durante le requisizioni di Silla e rimase povero per tutta la vita, specie in vecchiaia. Visse a Roma dove esercitò fino a tarda età l'attività di maestro di poesia e grammatico. Considerato il fondatore della poetica neoterica ed il primo vero critico letterario del mondo latino. Opere: Lydia, Dictynna (o Diana), Indignatio, in cui si difendeva dalle accuse raccontando i suoi casi

- Marco Valerio Messala Barbato - marito di Domizia Lepida e padre di Messalina.

Marco Valerio Messalla Messallino - console 3 a.c. Nel 6 fu proconsole dell'Illirico e dovette battersi contro l'invasione della Boemia dei Marcomanni dal Danubio, partendo da Carnuntum, sotto l'alto comando di Tiberio. La rivolta dalmato-pannonica, lo costrinse a tornare in Illiria, riuscendo a mettere in fuga 20.000 Dalmati attirati in un'imboscata, e poi condusse l'esercito, senza grandi perdite, nella fortezza legionaria di Siscia. Tiberio, che si unì a lui solo verso la fine dell'anno, costrinse Valerio ad operare da solo, difendendo prima la provincia illirica, poi sbarrando la possibile invasione dell'Italia ai ribelli dalmati e pannoni. Per questo ricevette gli ornamenta triumphalia, e la sua legione, la XX ottenne l'appellativo di Valeria Victrix, da Valerio Messalla Messalino.

- Lucio Valerio Messalla Voleso - console 5 d.c.

- Marco Valerio Messalla Messalino - console nel 20 d.c. insieme allo zio Marco Aurelio Cotta Massimo Messalino, durante il regno di Tiberio.

Marco Valerio Messalla Barbato - padre di Messalina.

- Messalina - Costretta a sposare Claudio, un uomo più grande di lei di trent'anni, balbuziente, zoppo e al terzo matrimonio, ebbe da lui due figli. Dopo che i pretoriani uccisero Caligola, lei e suo marito Claudio furono eletti imperatori di Roma. 

- Valerio Mariano - senatore romano sotto Vespasiano (da Plinio il Vecchio) -

- Decimo Valerio Asiatico - console nel 35 e nel 46 - il più importante membro della congiura che portò alla morte di Caligola, venne da Messalina costretto a uccidersi avendolo fatto falsamente accusare per impadronirsi delle sue ricchezze.

- Marco Valerio Marziale - poeta del I secolo.

- Marco Valerio Messalla Corvino - console 58

- Valerio Paolino - procuratore della Narbonese nel 69 - Nato a Forum Julio (Fréjus) - destinatario di lettere di Plinio il Giovane, amico di Vespasiano.

- Valerio Massimo - storico (I sec.a.c.- I sec.d.c.): Nel 27 accompagnò il proconsole Sesto Pompeo in Asia e questi lo aiutò ad entrare nel circolo letterario, del quale il poeta Ovidio fece parte. Divenne famoso al tempo di Tiberio (14-37) con un manuale di esempi retorico-morali "Factorum et dictorum memorabilium libri IX", opera erudita di carattere divulgativo, in 9 libri con 95 categorie di vizi e virtù, suddivisi in romani ed esterni. Tratti per la maggior parte dalla storia romana e un po' da quella greca, gli aneddoti riportano esempi virtuosi o aberranti dei grandi uomini del passato. Nel IV secolo venne pubblicato in due compendi; uno, che ci è giunto integralmente, di Giulio Paride, l'altro, che si arresta al III libro, di Nepoziano .

- Gaio Valerio Catullo - poeta romano del I secolo a.c., uno dei più grandi di tutti i tempi.

- Gaio Calpetano Rancio Quirinale Valerio Festo - console suffecto 71 -

Gaio Valerio Flacco - poeta del I secolo, autore degli Argonautica, dedicati all'imperatore Vespasiano.

- Lucio Valerio Liciniano - avvocato I secolo d.c..

- Valerio Probo - grammatico I secolo d.c., Scrive Svetonio che Probo, nato a Berito, dopo aver a lungo aspirato al grado di centurione, si dedicò agli studi leggendo opere di scrittori ormai dimenticati, con «un ostinato amore per la letteratura arcaica». Volle «emendare, distinguere e annotare», quegli scritti, con un gruppo di amici «tra molte chiacchiere e rare letture». Così fece poche e brevi pubblicazioni su alcune «minute questioncelle», ma lasciò molte osservazioni sull'antico latino. 
Curò edizioni critiche di Lucrezio, Virgilio, Orazio, Terenzio e Persio, attento soprattutto alla letteratura latina arcaica. Gli furono attribuite le "Notae iuris" e una biografia di Virgilio. Presentano interpolazioni e aggiunte i suoi commenti alle Bucoliche e alle Georgiche di Virgilio. Tra le opere perdute, una "Epistula ad Marcellum", il "Commentarius de occulta litterarum significatione in epistularum C. Caesaris scriptura" e, in ambito grammaticale, "De inaequalitate consuetudinis", "De temporum conexione", "De genetivo graeco", "De litteris singularibus".



- Marco Valerio Bradua Maurico - console 191.

- Lucio Valerio Messalla Trasea Prisco - console 196, patrizio. Fu triumviro monetale, poi membro dei Salii e tribunus militum della Legio II Adiutrix in Pannonia inferiore, agli ordini di Sesto Quintilio Cordiano o di Sesto Quintilio Massimo, che comandavano l'esercito durante la guerra in Pannonia.
Sotto Marco Aurelio e Commodo fu questore; poi fu "adlectus inter praetorios" (guardia pretoriana), "sevir equitum Romanorum" (comandante squadrone di cavalleria), probabilmente sotto Settimio Severo. Nel 211/212 fu messo a morte per ordine di Caracalla.

- Lucio Valerio Messalla Apollinare - console 214

- Publio Valerio Comazone Eutichiano - console 220. Era un commediante e un danzatore, ma sotto Commodo iniziò la carriera militare in Tracia, come soldato semplice. Sotto Settimio Severo fece una rapida carriera e nel 218, divenne prefetto della Legio II Parthica, di stanza in Siria; si alleò con Gannys, l'eunuco tutore di Eliogabalo, nell'organizzazione del colpo di mano militare che destituì Macrino. Sotto Eliogabalo, Comazone divenne cavaliere e prefetto del pretorio, e nel 220 divenne console ordinario, con Eliogabalo come collega; nello stesso anno ricevette la prefettura del pretorio per la seconda volta.
Malgrado il suo stretto legame con Eliogabalo, Comazone sopravvisse alla caduta del giovane imperatore, ottenendo dal suo successore Alessandro Severo la prefettura per la terza volta.

Lucio Valerio Massimo - console 233, patrizio, oppositore all'imperatore barbaro Massimino Trace e per questo venne scelto nella commissione senatoriale dei vigintiviri. Fu prima "triumvir monetarum", poi "quaestor urbanus", poi questore in una provincia non nota, poi "praetor tutelaris", (giudice sulle tutele) e pure "Curator Laurentium Labinatium". Nel 233 ricevette il consolato; come comes dell'imperatore Pupieno lo seguì durante i suoi viaggi, nel 255 divenne praefectus urbi e nel 256 console per la seconda volta.

- Valerio Massimo - console 253.

Marco Valerio Romolo - console 309. figlio primogenito di Massenzio, cesare e poi usurpatore, e di Valeria Massimilla, figlia dell'imperatore romano Galerio. Nato nel 294 quando Massenzio aveva solo sedici anni, non ebbe mai rilevanza politica. Venne insignito del titolo di clarissimus puer da bambino, e in seguito di quello di nobilissimus vir. Tenne il consolato con il padre nel 308 e nel 309; sembra che morì nel 309, probabilmente affogato nel Tevere. Massenzio seppellì il figlio nel mausoleo lungo la Via Appia, presso la propria villa. Venne divinizzato, e nel Foro Romano gli fu dedicato un tempio.

Valerio Messalla Avieno - Prefetto del pretorio d'Italia (399-400). Era pagano, noto per la sua eloquenza e per la sua cultura letteraria. Tra il 396 e il 398 fu legato senatoriale. Nel 399 fu nominato Prefetto del pretorio d'Italia dall'imperatore Onorio, e tenne la carica fino al 400. Durante questo mandato ricevette diverse lettere di Quinto Aurelio Simmaco conservatesi sino ad oggi.

- Giulio Valerio Alessandro Polemio - erudito del IV secolo, sotto Costanzo II. Si pensa che la nomina di Polemio e del suo collega Flavio Urso a consoli per il 338 fosse una ricompensa all'esercito di cui erano comandanti, per il sostegno dato a Costanzo in occasione delle purghe del 337, che avevano eliminato i pretendenti al trono dopo la morte di Costantino I. Costanzo si dovette occupare della frontiera sasanide dell'impero, e in occasione di una delle campagne condotte dall'imperatore, intorno al 340, venne composto e dedicato a Costanzo l'Itinerarium Alexandri ("Il viaggio di Alessandro"), che conteneva le imprese di Alessandro Magno durante la sua campagna contro i Persiani. L'opera, un parallelo tra le imprese del re macedone e dell'imperatore romano, contiene anche una traduzione del Romanzo di Alessandro, forse dello stesso Polemio.

Valerio Publicola - senatore del IV secolo, padre di santa Melania la giovane, ricchissimo possidente con estese proprietà a Roma, in Sicilia, in Spagna, in Gallia, in Aquitania, in Bretagna e in Africa settentrionale. Costrinse la figlia a sposarsi per avere nipoti ma infine si riconciliò e le lasciò in eredità la sua fortuna.



IMPERATORI

- Cesare M. Aurelio Valerio Claudio Augusto (Claudio II), imperatore dal 268 al 270

- Cesare C. Aurelio Valerio Diocleziano Augusto (Diocleziano) - imperatore 284 - 305

- Cesare M. Aurelio Valerio Massimiano Augusto (Massimiano), imperatore 286 - 305

- Caio Galerio Valerio Massimiano Cesare (Galerio) - imperatore 305-311 con C. Cloro e Costantino

Flavio Valerio Constantino Cesare (Costanzo Cloro) - imperatore 305-306

- Flavio Valerio Severo - imperatore per pochissimo tempo nel 306.

- Marco Aurelio Valerio Massenzio (Massenzio) - imperatore 306 - 312.

- Flavio Giulio Valerio Crispo - Cesare e console nel 318, 321, 324.

- Cesare Galerio Valerio Massimino Augusto (Massimino Daia), imperatore 308 - 313

Flavio Galerio Valerio Liciniano Licinio (Licinio) - imperatore 308 - 324

Imp. Cesare Flavio Valerio Constantino Augusto (Costantino I) - imperatore 306 - 337

Imp. Giulio Valerio Maggioriano (Maggioriano) - imperatore 457 - 461.


IL MAUSOLEO DEI VALERII

MAUSOLEO DEI VALERI
Il Mausoleo, risalente al II sec. d.c., situato al centro del percorso di visita che conduce alla sepoltura di Pietro, è noto per l'importanza delle decorazioni a stucco, opere d'arte di straordinario valore che da tempo attendevano di essere sottoposte a un meticoloso restauro perché danneggiate in passato dalle instabili condizioni microclimatiche e da risarcimenti realizzati con materiali impropri.

Hypnos, il sonno, è raffigurato con ali di pipistrello da uno stucco del mausoleo "H", "dei Valerii". Altri stucchi, ai margini e dentro le nicchie, rappresentano antenati della famiglia dei Valerii e personaggi mitologici: Oceano, Minerva, Iside, Satiri, Menadi ed altri elementi che sembrano ispirati soprattutto ai culti misterici di Iside e di Dioniso.


La Repubblica:
Il Mausoleo dei Valeri
(Fonte)

"E' un mondo sterminato, oscuro. Forse tra i più densi di storia a Roma, considerata la stratigrafia complessiva, l' imponenza di ciò che lo sovrasta, il valore simbolico. Nella necropoli distesa al di sotto della basilica di San Pietro c'è qualcosa di nuovo. 

Sono i volti di Caio Valerio, con la moglie Flavia Olympia e i due figli Olimpiano e Valeria Massima, di 4 e 12 anni, incastonati nel mausoleo che porta il nome della loro famiglia. Pagani, a pochi passi dalla Tomba di Pietro, sotto la volta centrale della Basilica emblema della cristianità. 

E' stato un restauro rapido e intenso a rimettere sotto nuova luce il monumento che, nemmeno due secoli dopo la nascita di Cristo, un liberto - un ex schiavo - della famiglia dei Valerii, uomo colto e padre di famiglia, si fece costruire sotto forma di sontuoso mausoleo pagano. 

 Nella città sotterranea del Vaticano, si alternano sepolcri restaurati e altri che sono ancora coperti dall' interramento costantiniano, le facciate maestose costruite con raffinati criteri architettonici e i decori scolpiti nella terracotta tinta in vari colori, mosaici e finti marmi seguono altre zone da recuperare. 

Il Mausoleo dei Valeri si staglia chiaro, con la sua nicchia semicircolare in cui è custodita l' impronta di una perduta statua di un Dio, probabilmente trafugata già in tempi antichi. Ai lati le statue di Minerva e una Diana o forse Giunone. 

Accanto alla triade divina, i componenti della famiglia dei Valeri atteggiati come antichi filosofi e circondati da simboli della sapienza. A sorvegliare il sonno dei fratellini Olimpiano e Valeria, uccisi da un' epidemia di peste nel 166, la statua di Hypnos, il Dio del sonno. La sovrastano da due amorini che reggono una cornucopia di semi di papavero."


ALESSANDRO CAPANNARI

Della famiglia di Quinto Vegeto, oltre la madre Gomena Severina e la moglie Etrilia Afra, ci è pur noto un Mummie Nigro Valerio Vegeto il quale, possedendo una sontuosa villa detta Calvisiana, nell'agro Viterbese, la dotò di « acque a mezzo di un acquedotto parte in muratura, parte a sifone. Gli acquisti dei terreni e la concessione di far passare il detto acquedotto per "vias limitesque publicos" son registrati nel singolarissimo titolo viterbese (Lanciani, Silloge aquaria p. 378).

A questo Mummio che assai probabilmente fu figlio di Quinto Valerio e di un'altra sua moglie della gente Mummia, si riferisce forse la iscrizione di Aeca (Troia) C. /. L IX, 948:
lOVI Dolicheno EXVPERANTISSi mo L • MVMMIVS NIGr QVINTVS VALERIV5 WeGeiVS SEVERINts C • AVCIDIVS TERTVL lus COS • V S •

Dì una Valeria Vegeta che senza dubbio alcuno deve essere legata da stretti vincoli di parentela col nostro console, ci dà notizia l'iscrizione di Emerita (Lusitania) C. /. /.. II n« 500. Un L Valerius L lib. Vegetius è ricordato nel titolo sepolcrale scoperto a Petronella (Pannonia Superiore).

A quanto io mi sappia non si conoscono, oltre le addotte, altre memorie intorno ai Valerii Vegeti; di altre persone però pertinenti a varie genti e che adottarono il cognome di Vegeto, non sono rari gli esempi offerti dall'epigrafia.


BIBLIO

- Münzer - De Gente Valeria
- Plutarch - The Life of Publicola
- Briscoe - Valerius Maximus,
- Cicero - Pro Flacco, 36 - De Oratore, 38 -
Aelius Lampridius, "The Life of Commodus"
Julius Capitolinus, "The Life of Antoninus Pius
- Suetonius, De Illustribus Grammaticis,
- Valerius Maximus - Factorum ac Dictorum Memorabilium -
- Marcus Valerius Martialis - Epigrammata (Epigrams).
Priscus, quoted in the Excerpta de Legationibus.
Cornelius Nepos, "The Life of Cato

LEGIO XVII

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LEGIONI ROMANE

La Legio XVII era una legione romana, di cui non si hanno molte notizie accertate, ma si hanno le prove certe della sua esistenza e fu attiva comunque dal 41/40 a.c. al 9 d.c. Non ne è noto l'emblema.

Sia Gaio Giulio Cesare, sia Gneo Pompeo Magno ebbero nel loro esercito una legione XVII, ma se ne ignora il destino dopo la guerra civile e sembra che la legione cesariana, forse insieme alla XVIII e alla XIX, fosse stata distrutta nel corso della spedizione in Africa al comando di Gaio Scribonio Curione.



LA XVII DI GIULIO CESARE

La sua formazione è da collegarsi allo scoppio della guerra civile del 49 - 45 a.c., più nota come guerra civile tra Cesare e Pompeo e venne formata da Cesare con cittadini romani dell'Italia oppure con i pompeiani arresisi al termine dell'assedio di Corfinio. Questa legione venne infatti creata, molto probabilmente insieme ad altre quattro: la XVI, la XVIII, la XIX e la XX.

Marco Tullio Cicerone su Giulio Cesare alla vigilia della guerra civile: «Ecco l'uomo che dobbiamo combattere. Ha tutto, gli manca solo la buona causa»

GIULIO CESARE


GAIO SCRIBONIO CURIONE

Secondo Lucano, Scribonio Curione, già sostenitore di Pompeo, dal momento in cui si accorse di quanto fosse corrotta quella fazione, divenne sostenitore di Cesare, che per ringraziarlo si fece carico dei suoi debiti.

Per essere passato al partito cesariano, venne esiliato da Roma, ma raggiunse Cesare a Ravenna e portò poi lettere di lui al Senato. Tornato da Cesare con l'ordine del Senato di congedare le milizie, pena l'essere dichiarato nemico della patria, gli consigliò, date le sue esitazioni, di marciare contro Roma, passando il Rubicone.

Con il titolo di propretore fu inviato nel 49 a.c. da Cesare in Africa, per combattere Giuba I di Numidia, sostenitore di Pompeo. Sebbene avesse vinto la battaglia di Utica, in quella del fiume Bagradas fu definitivamente sconfitto e, una volta catturato, si suicidò durante la prigionia. Sembra che con lui caddero le legioni XVII, XVIII e XIX.

Secondo alcuni studiosi, dopo la sua distruzione venne ricostituita. Altri invece sostengono che fu riformata solo durante il secondo triumvirato, nella guerra civile degli anni 44-31 a.c. e che venne schierata da Marco Antonio durante la battaglia di Azio del 31 a.c., ma non sembra attendibile.



LA XVII DI MARCO ANTONIO

Una Legio XVII Classica, ossia navale, probabilmente distinta dalla precedente, faceva invece parte dell'esercito di Marco Antonio (83 a.c. - 30 a.c.), e venne certamente destituita per sempre dopo la sua sconfitta ad Azio.

AUGUSTO


LA XVII DI AUGUSTO

Non esistono menzioni della XVII nelle iscrizioni, ma la sua esistenza è certa, dato che nella riorganizzazione dell'esercito romano operata da Augusto dopo la sconfitta di Marco Antonio nella battaglia di Azio del 31 a.c. le legioni vennero numerate dalla I alla XXII.

Sembra che le legioni XVII, XVIII e XIX siano state reclutate da Ottaviano nel 41 a.c., dopo la Battaglia di Filippi del 42 a.c. per combattere contro Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo Magno che teneva sotto controllo la Sicilia e la fornitura di grano per Roma. La legione fu probabilmente composta da veterani dell'esercito di Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, gli assassini di Cesare, e da soldati provenienti dall'Italia settentrionale.



GLI STANZIAMENTI DELLA XVII

- Negli anni successivi la legione XVII dovette stanziarsi forse a Ehl, poco a sud di Argentoratae, il castrum romano che sorgeva nei pressi dell'odierna Strasburgo, in Alsazia, dove è stata rinvenuta un'iscrizione con il numero "IIVX", che potrebbe essere il numero della legione scritto al contrario.

TEUTOBURGO
- Da qui venne probabilmente spostata sul basso corso del Reno insieme alla XVI Gallica e alla XVIII. Partecipò sicuramente alle campagne germaniche di Druso maggiore (13-9 a.c.) e di Tiberio (8 a.c. e 4-5 d.c.), partecipando anche alla repressione della rivolta in Pannonia.

- Nel 9 prese probabilmente parte alla spedizione di Publio Quintilio Varo e finì distrutta nella battaglia di Teutoburgo insieme alle legioni XVIII e XIX.



QUINTILIO VARO

Con la fine della campagna di Tiberio, le nuove conquiste vennero organizzate a provincia, e Publio Quintilio Varo fu scelto come governatore. Nel 9 il capo dei Cherusci, nonché alleato romano, Arminio, che era stato allevato dai romani e presso cui aveva svolto una carriera militare, organizzò una trappola contro i Romani: informò Varo di una inesistente rivolta delle tribù occidentali, e lo consigliò di portare l'esercito sul Reno.

Varo si mosse con tre legioni, la XVII, la XVIII e la XIX, ma il tradimento di Arminio aveva preparato un'imboscata: le legioni, bloccate vicino Osnabrück, vennero sconfitte e distrutte nella battaglia della foresta di Teutoburgo, insieme a 6 cohortes di fanteria e 3 ali di cavalleria auxiliaira.

« ..Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio [caduto prigioniero], un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella... »
(Velleio Patercolo, Storia Romana, II, 120, 6.)

« ..nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste.. ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua.. »
(Floro, Epitome de T. Livio Bellorum omnium annorum)


GERMANICO


GERMANICO

Gran parte dei superstiti vennero sacrificati alle divinità germaniche, e i restanti vennero liberati o scambiati con prigionieri germanici o riscattati, tanto che nella spedizione del 15, sei anni dopo la disfatta, Germanico si fece ricondurre sul campo di Kalkriese grazie ai pochissimi superstiti della battaglia, gli unici che fossero in grado di indicare il luogo, per dare degna sepoltura ai resti dei commilitoni morti sei anni prima.

« Germanico giunse sul luogo della battaglia, ove nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse, sparsi intorno sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni»

Ecco spiegato il significato del termine barbaro, i Romani non facevano certe nefandezze che meritano sicuramente il termine di barbarie.


« La crudeltà dei nemici germani aveva fatto a pezzi il cadavere, quasi completamente carbonizzato, di Varo, e la sua testa, una volta tagliata, fu portata a Maroboduo, il quale la inviò a Tiberio Cesare, perché fosse seppellita con onore.. »
(Velleio Patercolo, Storia romana II)



MAI PIU' RICOSTITUITE

Nessuna delle legioni scomparse sembra sia stata in seguito ricostituita, probabilmente per ragioni scaramantiche e ciò spiegherebbe la mancanza di notizie sulla legione. Solo Germanico recuperò in seguito le insegne delle tre legioni durante il principato di Tiberio.


BIBLIO

- Appiano di Alessandria - Historia Romana - libro III -
- Cesare - Commentarii de bello Gallico - libri VII-VIII del Progetto Ovidio -
- Cesare - Commentarii de bello civili - libri I-III - del Progetto Ovidio).
- Plutarco - Vite parallele - Vita di Cesare e Vita di Pompeo -
- Velleio Patercolo - Historiae romanae ad M. Vinicium - libri duo -
- Cassio Dione Cocceiano - Storia romana -
- M. Rizzotto - Gaio Scribonio Curione. Una vita per Roma - Gerenzano (Varese) - 2011 -
- Svetonio - De vita Caesarum libri VIII - Cesare -
- M. Bocchiola, M. Sartori - Teutoburgo. La selva che inghiottì le legioni di Augusto - Milano - Oscar Mondadori - 2014 -

CULTO DI VOLUPIA - VOLUPTAS

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VOLUPTAS

Angerona, Dea dei silenzi e dei piaceri, non aveva templi particolari, ma solo una statua nel tempio della Dea Volupia, con cui, a volte, viene confusa. Quest'ultima era una divinità di straordinaria bellezza, nata dall'unione di Cupido, detto anche Amore o Eros, e Psiche o Anima.

Nella mitologia greca, è chiamata Edoné, anche qui figlia di Eros, divinità dell'amore, e di Psyké (Psiche), che è l'Anima.  Nella mitologia romana la storia di Amore e Psiche è narrata da Apuleio nelle Metamorfosi.

Questa Dea è conosciuta come la personificazione del piacere sensuale, che nel nome latino significa desiderio o cecità. La cecità allude al fatto che alcuni, inseguendo il piacere dei sensi commettono grandi errori e a volte si fanno del male senza accorgersene. Insomma persone per cui il piacere dei sensi funziona come una droga.

Spesso la Dea è accompagnata dalle Grazie, le tre Grazie, evocatrici di "grazia" e "armonia" conosciuta come Dea dei piaceri sensuali, "voluptas" significa "piacere" e "delizia". In ciò è nascosto un significato e cioè che anche la sessualità può avere risvolti che innalzano o abbassano l'animo dell'essere umano.

La voluttà è di per sè cosa buona e pertanto ricercata quando crea armonia col partner, cioè non è legata 
allo sfruttamento a alla denigrazione dell'altro. Deve pertanto sfuggire ai ruoli sado-masochisti e invece portare a godere del piacere dell'altro che riceve così una certa benevolenza indipendentemente dal rapporto di amore col partner abituale.

Così il rapporto di voluttà diventa il piacere ricevuto e il piacere di ciò che è stato donato, dove appunto il piacere dell'altro provoca una nuova voluttà. Pertanto il piacere è vero solo quando è libero e reciproco.

AMORE E PSICHE

Alcuni autori romani riportano che la Dea Volupia aveva a Roma un tempio, il Sacellum Volupiae sulla Via Nova presso la Porta Romana, dove solitamente si offrivano sacrifici alla Dea Angerona. Questa divinità non possedeva alcun mito proprio, ma sembra essere stata una semplice astrazione.

Difficile da credere, perchè tutti gli Dei  hanno avuto i loro miti, in parte cancellati e in parte modificati, a seconda della mentalità umana di quell'epoca. I romani erano molto attenti alla sensualità femminile, che dava piacere da un lato ma che poteva essere fonti di tradimento dall'altro.

Per questo si raccomandava alle donne, una volta sposate, di rivolgere le loro preghiere no a avenus o a Voluptas ma alla fedele Giunone. Seneca lodò molto la moglie pudica e timida, che però non si doveva lamentare che il suo uomo cercasse la voluptas nei letti di altre donne; era il prezzo che le donne dovevano pagare per essere virtuose.


BIBLIO

- Varrone -  De lingua latina - VI -
- Macrobio - Saturnali - I,III -
- G. Dumézil - La religion romaine archaïque - Paris - Payot - 1966 -
- Apulée, Éros et Psyché - trad. di Nicolas Waquet - prefaz. di Carlo Ossola - Payot & Rivages - Paris - 2006 -
- La novella di Amore e Psiche - prefazione di Paolo Lagazzi - Medusa Edizioni - Milano - 2005 -
- Erich Neumann - Amore e Psiche: un'interpretazione nella psicologia del profondo - Astrolabio - Roma - 1989 -
- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -

VULCANAL - VOLCANALE - FORO ROMANO

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IL VOLCANALE AL FORO ROMANO

IL DIO VULCANO

Il Dio Vulcano era in origine un Dio etrusco conosciuto come Velchans a cui si ricollegavano tutte le manifestazioni connesse al fuoco come vulcani, solfatare e fulmini e che doveva essere onorato dedicandogli templi e sacrifici. Ma la sua origine era anche greca, con il nome di Efesto.

Quando dopo il ratto delle Sabine lo scontro tra Romani e Sabini si concluse con la fusione dei due popoli, il re Tito Tazio volle costruire un’ara da dedicare al Dio Vulcano proprio nel luogo dove si era svolta la battaglia.
EFESTO - VULCANO
Il Volcanale (in latino Volcanal) era un antichissimo santuario dedicato a Vulcano, Dio del fuoco terrestre e distruttore, che sorgeva nel Foro Romano, sopra il Comitium, e cioè nell'area Volcani, l'antichissima piazza sacra a Vulcano, un'area all'aperto ai piedi del Campidoglio situata nell'angolo nord-occidentale del Foro.

Nel santuario si trovavano un'ara dedicata al Dio e un fuoco perenne, e Tito Livio lo menziona due volte in merito al prodigium di una pioggia di sangue avvenuto nel 183 a.c. e nel 181 a.c. e si pensa che il santuario risalisse all'epoca in cui il Foro era ancora fuori della città.

L'area Volcani era circa 5 metri più alta rispetto al Comitium, dove si svolgevano le più antiche assemblee dei cittadini (comizi curiati), e che occupava l'angolo nord-orientale del Foro, tra la basilica Emilia, l'Arco di Settimio Severo e il Foro di Cesare. Proprio quest'ultimo ne invase gran parte della superficie per l'edificazione della nuova Curia Iulia. 

Dall'Area Volcani i re e i magistrati della prima repubblica, prima che fossero costruiti i rostra (le tribune nel Foro Romano dalle quali i magistrati tenevano le orazioni), si rivolgevano al popolo per i loro comizi.



L'UMBILICUS

L'Umbilicus Urbis Romae è una costruzione conica in laterizio di epoca severiana, un tempo rivestita di marmi bianchi e colorati, oggi spogliata ma ancora esistente, situata tra i Rostra e l'Arco di Settimio Severo, ed era l'ombelico di Roma, ovvero il centro dell'Urbe, l'equivalente dell'omphalòs greco.

Sicuramente il luogo sacro era preesistente all'epoca severiana, quando però venne decorato e abbellito. L'umbilicus corrispondeva anche al Mundus e quindi al mondo dei morti, un edificio che ben si accordava con l'ara del Dio oscuro Vulcano, che operava nella sua fucina agli ordini di Giove per fabbricargli i fulmini, ma che non vedeva mai la luce del giorno, collocato, insieme ai suoi aiutanti ciclopi, all'interno afoso e nebbioso dei vulcani dove non giungeva la luce del giorno.

LA POSIZIONE DEL VOLCANALE

Sembra che i resti del Volcanale, dove sorgeva l'altare del Dio, siano da ricercarsi proprio dietro l'Umbilicus Urbis, la costruzione conica in mattoni che segnava il centro ideale della città di Roma, annoverato nei Regionari costantiniani dopo il tempio della Concordia, a tre ripiani e rivestito con lastre di marmo bianco e colorato.

Infatti dietro l' Umbilicus, sotto una tettoia moderna di legno, si vedono a tutt'oggi i resti di antichissime costruzioni assai antiche che potrebbero riferirsi al Volcanale, uno dei santuari più antichi di Roma, dedicato secondo la tradizione da Romolo, il quale vi aveva posto una quadriga di bronzo dedicata al Dio, preda di guerra dopo la sconfitta dei Fidenati (ma secondo Plutarco la guerra in questione fu contro Cameria, sedici anni dopo la fondazione di Roma), e una propria statua con un'epigrafe in greco che celebrava le sue vittorie.

Secondo Plutarco, Romolo era rappresentato incoronato dalla Vittoria (equivalente di Nike greca) e avrebbe piantato in loco un albero di loto, che Plinio il Vecchio riferisce vivesse ancora ai suoi tempi, più vecchio della città stessa, e le cui radici si diramavano fin sotto il Foro di Cesare, passando sotto le "stationes municipiorum", dove si riunivano in assemblea i notabili delle città principali dell'impero.



L'ALTARE DI VULCANO

Dietro l'Umbilicus dunque, sotto una tettoia di legno, giacciono oggi i resti di un altare di Vulcano, situato a sud-est del Campidoglio, nell'angolo nord-occidentale del Foro Romano, che sorgeva in una piazza scoperta, sacra al Dio e detto Volcanal in suo onore, a suo tempo dedicato da Romolo che vi aveva anche posto una quadriga di bronzo dedicata al Dio e che era considerato uno dei santuari più antichi dell'Urbe.

Plinio Il Vecchio (circa 70 d.c.) narra che ai suoi tempi accanto al Volcanal, posto fuori dal pomerio della Roma antica, affinchè non avesse a danneggiare coi suoi vulcani la città stessa, sorgeva un albero di loto, che si diceva più vecchio della città stessa e le cui radici si allungavano fin sotto il Foro di Cesare, passando sotto le stationes municipiorum, cioè i locali dove si riunivano i rappresentanti delle principali città dell' impero.

L'area Volcani era lo spazio destinato all'ara, al santuario e alle feste ed era circa 5 metri più alta rispetto al Comitium. Da qui i re e i magistrati della prima repubblica, prima che fossero costruiti i rostra, si rivolgevano al popolo. Sul Volcanal c'era anche una statua in bronzo di Orazio Coclite, che era stata qui spostata dal Comizio, dopo essere stata colpita da un fulmine, un' altra di un istrione  durante i giuochi circensi, e la quadriga di bronzo dedicata da Romolo dopo la sua vittoria sui Ceninati.

L'ALTARE DI VULCANO SOTTO LA TETTOIA GRIGIA

Sulla statua dell'eroe Orazio Coclite Aulo Gellio narra che furono chiamati alcuni aruspici (senz'altro etruschi) per espiare il prodigio, ma questi, in malafede, fecero spostare la statua in un luogo più basso dove non batteva mai il sole. L'inganno fu però scoperto, gli aruspici vennero giustiziati e poi si scoprì che la statua doveva essere posta in un luogo più alto e per questo venne posta nell'area Volcani.

Il Volcanal è menzionato due volte da Tito Livio (Ab Urbe Condita libri - XXXIX) per lo straordinario "prodigium" di una pioggia di sangue avvenuto nel 183 a.c., anno in cui muoiono Publio Cornelio Scipione ed Annibale, e nel 181 a.c. (Ab Urbe Condita libri - XL) anno in cui non accadde nulla di notevole a parte la morte di Prusia re di Bitinia.

Poi presso l'altare di Vulcano venne costruito un santuario dove si riuniva il consiglio dei padri curiali e nei pressi si costruì il Comitium dove si svolgevano esclusivamente le assemblee delle tribù dei due popoli.

Il culto di Volcano nell'area Volcai continuò anche nel periodo imperiale, come attesta l' iscrizione di una grande tavola di marmo, dedicata a Volcano dall'imperatore Augusto nel 9 a.c., rinvenuta nelle vicinanze nel 1548 ed ora conservata nel museo Archeologico Nazionale di Napoli. 

Pur non essendo rimasto alcuno di questi antichissimi monumenti, il culto di Volcano si era mantenuto anche in epoca imperiale, come attesta l' iscrizione di una grande tavola di marmo, dedicata a Volcano dall' imperatore Augusto nel 9 a.c. reperita nel 1548 ed ora conservata nel museo archeologico di Napoli. 

L' area del Volcanale era stata, nel tempo della monarchia, un luogo destinato ai pubblici discorsi, ma venne poi ridimensionata nella sua estensione, nel 304 a.c. vi venne infatti costruito un tempio alla Concordia dedicato dall'edile curule Gneo Flavio e in epoca imperiale, dall'ampliamento del tempio della Concordia voluto da Tiberio, e poi dall'Arco di Severo.

Infatti nei primi del 900 furono ritrovate, proprio dietro l'Arco di Settimio Severo, alcune antiche fondazioni in tufo che probabilmente appartenevano al Volcanale e tracce di una specie di piattaforma rocciosa, di m 3,95 X 2,80, che era stata ricoperta di cemento e dipinta di rosso. 

La sua superficie superiore è scavata da varie canaline e di fronte ci sono i resti di un canale di drenaggio fatto di lastre di tufo. Si pensa possa trattarsi dell'ara stessa di Vulcano. Dietro le fondamenta del supposto altare si scorgono i gradini della scalinata con cui si saliva al tempio della Concordia, tagliati in parte nella viva roccia del Campidoglio, il che confermerebbe l'attribuzione. 


BIBLIO

- Samuel Ball Platner - Volcanal - in A Topographical Dictionary of Ancient Rome - Londra - Oxford - University Press - 1929 -
- Plutarco - Vita di Romolo - XXIV -
- Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - II -
- Plinio il Vecchio - Naturalis Historia - XVI -
- Tito Livio - Ab Urbe Condita - XL -
- Rodolfo Lanciani - Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità - Roma - 1902 -


IL MATTONE CRUDO ROMANO

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COSTRUZIONI DI TERRA

Un "mattone di terra"è un termine che indica un mattone che non è stato cotto nella fornace, ma che è stato fatto asciugare al sole per almeno 25 giorni. In realtà non è fatto di terra ma di una miscela di argilla, terra, sabbia e acqua, mescolato con un materiale legante come paglia, fibre di riso, canne o canapa. Il composto viene poi versato in forme  rettangolari che vengono lasciate asciugare al sole per 25 giorni.

Mescolando l'erba secca con il fango crea la giusta consistenza, la grande resistenza alle intemperie ed evita che i blocchi si spacchino solidificandosi. Per non farli seccare troppo, i mattoni vengono avvolti in un involucro di crine di cavallo. Le giuste dimensioni sono quelle che il bracciante riesce maneggiare con una sola mano.

Poi i blocchi vengono fatti aderire tra loro con del fango per innalzare muri, talvolta combinati col cemento. Oggi si usa un rapporto del 15% di argilla, 10-30% di limo e 55-75% di sabbia, senza aggiunta di paglia o altro.



DAVIDE FRASCA

"Generalmente in una casa vissuta si identificano subito i problemi dovuti all’acqua e si può intervenire prima di arrivare a manutenzioni di una certa rilevanza. Detto ciò ci tengo a precisare che una casa di terra ben protetta dall'acqua può dimostrare di essere estremamente longeva perché la terra, al contrario di un pilastro in cemento armato, non dovrebbe subire alcun degrado chimico-fisico nel tempo, la stessa cosa invece non la si può dire per i ferri di armatura e il legante cemento. 

Ad Auroville ho potuto toccare con mano la possibilità di costruire archi, cupole e volte utilizzando mattoni in terra compressa, buona parte dell’istituto è proprio costruito con questa modalità. La cosa che mi ha impressionato di più è la semplicità con cui riescono a costruire le loro volte senza alcuna centina o supporto grazie alle proprietà adesive dell’argilla.

( Auroville è una città "sperimentale", basata sulla visione di Sri Aurobindo, sorta in India presso la città di Puducherry, e disegnata dall'architetto Roger Anger, intesa per essere una città universale, dove uomini e donne di ogni nazione, di ogni credo, di ogni tendenza politica possono vivere in pace ed in armonia)

Per la normativa italiana la terra non esiste come materiale da costruzione, cioè non è menzionata tra i vari materiali, quindi non è normata."

MATTONE IN TERRA CRUDA

IL MATTONE CRUDO

Il mattone crudo, cioè di fango, detto anche adobe, fu il passo successivo alla parete di frasche raccolte nel bosco su cui si gettava e si batteva la terra bagnata, il tutto con una base di sassi o pietre, come ad esempio fecero gli Etruschi sul suolo italico (vedi Populonia). 

Il mattone è maneggevole e rapido per costruire, ma venne usato soprattutto nelle regioni calde e secche dei deserti e delle steppe, dove esiste poco legname sia per le costruzioni che per alimentare il fuoco di una fornace per mattoni, pertanto i mattoni vengono cotti al sole. 

In queste terre pioveva raramente ma vennero usati anche in zone temperate dove in inverno la pioggia è frequente, così la vita di questi edifici è di circa 30 anni, dopo di che cominciano a sbriciolarsi ed è allora necessario coprirli con nuovi mattoni cotti in fornace oppure con un intonaco ricco di calce, dalle proprietà idrorepellenti. 

Così la calce divenne preziosa, perchè era sufficiente coprire la superficie superiore di un edificio con la calce perchè non si sgretolasse con la pioggia. Questo tipo di abitazione tende a rimanere fresca in estate e tiepida in inverno.

ADOBE CHE SI ASCIUGA AL SOLE

ADOBE

L'adobe o adobo (in arabo = cotto) è l'impasto di argilla, sabbia e paglia essiccata al sole utilizzata da molte popolazioni in ogni epoca per costruire mattoni di terra utilizzati anche oggi per il risparmio di energia e sono un modo ambientalmente sicuro per isolare una casa. Sulle testimonianze di Plinio (Nat. hist. L. XXXV, 14, 48) e di Vitruvio {Architect. II, e. VIII) sembra che le costruzioni di terra vennero usate presso tutte le più antiche civiltà. 

La città più antica ad oggi conosciuta, Çatalhöyük, in Anatolia, del VII millennio a.c., aveva case costruite in adobe, come nelle regioni semidesertiche dell'Africa e dell'America Centrale. La Mesopotamia utilizzava mattoni formati in uno stampo quadrato e arrotondato in modo che il centro fosse più spesso rispetto alle estremità, così una volta seccati al sole erano molto stabili sui piano-convessi e dunque ottimi per edificare città.

In Spagna è caratteristica delle zone secche sud-orientali e In Italia è stato usato in Sardegna e in Sicilia, portato dai Cartaginesi e poi dagli Arabi. Annibale fece innalzare torri di terra in Spagna per le segnalazioni di guerra, ancora ammirate ai giorni di Plinio. 

Nella civiltà minoica a Cnosso sull'isola di Creta, gli archeologi hanno appurato che i mattoni seccati al sole vennero utilizzati fin dal Neolitico. Ma si usarono pure nell'Antico Egitto, nell'epoca tolemaica ma pure durante la colonizzazione romana. 

Anche i Romani fecero grandi costruzioni di terra, come dimostrano alcuni tumuli lungo l'antica Via Appia, e la descrizione del mausoleo di Augusto lasciataci da Strabone e pure il ricordo di un contrafforte o aggere alle falde dell'Esquilino verso le carine, "murus teneus carinarum" (Varrone L LV, 48).

La casa di Re Attalo in Traili, in Turchia,  e quella di Creso in Sardi, capitale del regno di Lidia nel VII secolo a.c. (oggi Turchia) furono di terra. In Grecia a fianco degli splendidi monumenti marmorei innalzati da Ictino e da Fidia e decorati da Zeusi e da Apelle, sorgevano solitamente delle semplici costruzioni di terra. Re Mausolo in Alicarnasso edificò la sua dimora con la terra, e di terra fece ricoprire il suo sepolcro. 



GLI ETRUSCHI

I mattoni crudi nei muri di fortificazioni e in edifici sacri si usavano in Etruria già dal VII a.c., come si vede nei resti di muri di terrazzamento nell’area della collina Nord a Roselle. L'opus isodomum, derivata da modelli greci e seguita da etruschi e romani, presenta ogni fila di mattoni sfalsata rispetto a quella su cui si appoggia, in modo da non avere linee di frattura continue, pericolose soprattutto per i terremoti.

I templi tuscanici, del III - VI secolo a.c., sono descritti da Vitruvio  con alzati in pietra per quelli maggiori, ma in mattoni crudi per quelli più antichi. A Roselle, nell’area del foro di età romana, si trova la “Casa con Recinto” con funzione pubblica e sacrale, con strutture interne in mattoni crudi.
 
A Gravisca, il primo edificio sacro del santuario, del 580 a.c., era costruito con fondazioni a ciottoli ed alzato in mattoni crudi e tetto a doppio spiovente. A Tarquinia, sulla Civita, un edificio di VI secolo a.c., con valenze sacrali ma non monumentali, aveva fondazioni in pietrame ed alzato in mattoni crudi intonacati (Bonghi, Chiaramonte Trerè 1997, 199). 

A Bologna in Viale Aldini si è scoperto un muro etrusco del V secolo a.c. in mattoni crudi di notevoli dimensioni e a Gonfienti a nord dell’Arno, è documentato il mattone crudo (Poggesi et. al 2010, 129). Nell'insediamento del Lago dell’Accesa (Massa Marittima, GR) alcuni edifici arcaici del quartiere A (Complessi VIII e X) hanno murature in mattoni crudi (Giuntoli 1997, 28). 

Ad Acquarossa, tra la fine del VII e la seconda metà del VI secolo a.c., è documentato l’utilizzo del mattone crudo. Nell’abitato costiero di Pyrgi le case del VI secolo a.c. hanno uno zoccolo a ciottoli ed elevato in mattoni crudi, disposti di testa nei muri portanti e di taglio in quelli divisori e sono rivestiti da intonaco (Bellelli Marchesini 2001, 402). 

OSTIA ANTICA

I ROMANI

A partire dal III secolo a.c. aumenta in Italia centrale l’utilizzo del mattone crudo come materiale da costruzione su fondazioni in pietra, soprattutto nell'edilizia privata. Nel II secolo a.c., Catone ne raccomandava l’uso nelle ville per gli alzati dei muri con fondamenta alte un piede, probabilmente in opus caementicium (Cato, agr. 14,4-5). 

In epoca romana i mattoni crudi (lateres) erano composti di argilla, sabbia e materiale organico e, secondo i dettami di Vitruvio, dovevano essere fabbricati in appositi stampi, in autunno o in inverno in modo da asciugare lentamente fino all'estate successiva. 

La fase di essiccazione era cruciale per eliminare in modo uniforme l’acqua ed acquisire la resistenza alla compressione, al punto che Vitruvio consiglia di aspettare due anni per utilizzarli (2,3,1). Le strutture in mattoni crudi, sempre secondo Vitruvio (2,8,9), hanno grande stabilità e durata.

A Roma, il mattone crudo, come documentato da Vitruvio (2, 8, 17-18), veniva sicuramente impiegato ma fu presto abbandonato perché l'Urbe era sottoposta a frequenti inondazioni, come quella del 54 a.c., che causò diversi crolli di edifici realizzati in questa tecnica (Cassio Dione 39,61). 



OPUS FORMACEUM (PISE')

Invece, Vitruvio ne raccomanda la protezione dalle infiltrazioni di acqua piovana, ottenute anche con spioventi del tetto aggettanti (2,8,18). Tra il II e il I secolo a.c., si diffonde la tecnica della muratura in terra cruda pressata entro casseforme, identificata nell’opus formaceum o formatum, che corrisponde al pisé. 

La terra cruda pressata nel III secolo a.c. la troviamo a Cosa, Fregellae, sull’acropoli di Populonia e a Pompei. Anche nella villa di Settefinestre, il cui impianto è del III quarto del I secolo a.c., i muri interni sono realizzati in argilla cruda e mattoni crudi (Carandini 1985, 64- 66). 
 
FORNACE ROMANA

LE FORNACI

Naturalmente, tra II e I secolo a.c., l’impianto di fornaci andò diffondendosi per i mattoni e per il vasellame materiale da costruzione, ma anche per quelle di vasellame. Ma il mattone crudo con funzioni strutturali sopravvive come elemento costruttivo di fornaci, perché le temperature di cottura avrebbero danneggiato i mattoni già cotti, ma soprattutto perché il mattone crudo ha una capacità di isolamento termico migliore di quello cotto. 

Le strutture in terra cruda, una volta messe in opera, venivano cotte a temperature più basse rispetto a quelle necessarie per la cottura dei manufatti, che avveniva intorno agli 800°-900°, in modo da renderle stabili. Queste fornaci in mattoni crudi, sono tutte a tiraggio verticale con doppia camera, di combustione e di cottura, separate da un piano forato sostenuto da archi, con una cottura a fiamma indiretta. 

In Toscana, due fornaci circolari a Massa, datate tra la metà e la fine del II secolo a.c., sono costruite interamente in mattoni crudi e pietre. (Volpi et. al. 2016, 35- 48).  La seconda fornace, parzialmente scavata e forse di datazione più recente, era a pianta circolare, e come la prima, con muri perimetrali in mattoni crudi così come i setti degli archi di sostegno (Volpi et. al. 2016, 45 fig. 17). 

L’utilizzo di tecniche murarie miste ovvero del laterizio per la camera di combustione ed elevato in mattoni crudi, si trova nella fornace di Fiesole (FI) datata 200-150 a.c. (Fabbri et. al, 2008, 304). Nella fornace del Vingone, presso Scandicci (FI), datata tra 20 a.c. - 20 d.c., a pianta rettangolare, sono stati impiegati mattoni crudi per le pareti interne della camera di combustione e per i pilastri che formavano le basi degli archi, con base in blocchetti di arenaria. 

Nello scavo sono emersi numerosi mattoni crudi rettangolari di impasto grossolano mescolato a vegetali di cui sono conservati i resti carboniosi (Shepherd 2008, 185). Anche nel grande impianto produttivo di anfore ad Albinia (GR - II sec. a.c. I sec. d.c.), che era composto da quattro fornaci affiancate a pianta rettangolare, sia nei muri divisori delle fornaci che nelle camere di combustione delle stesse si sono impiegati mattoni crudi. 

I mattoni crudi continuano ad essere impiegati fino almeno al IV secolo d.c. inoltrato, fatto di cui il grande complesso di fornaci di Montelabate risulta un esempio emblematico e piuttosto unico nel suo genere sia per la persistenza dell’impiego strutturale della terra cruda, che per la continuità produttiva.



ALESSANDRO CAPANNARI

"In Italia come esempio di un tal genere di costruzione si ricordano da Vitruvio le mura di Arezzo e quelle di Mevania. In tali opere però debbonsi riconoscere piuttosto costruzioni di mattoni crudi, che lavori di terra propriamente detta. Vitruvio infatti a designarle si serve dell'appellativo di laterizie, il che include l'idea del "later" o mattone di forma regolare.

Plinio (op. cit. XXXV, 14, 48) descrive graficamente il procedimento che si teneva in Àfrica ed in Ispagna per la costruzione delle pareti di terra che quei due popoli, i quali a preferenza ne usarono, designavano col nome di "parietes formacei" perchè la terra veniva posta e pigiata fra due tavole siccome in una forma.
« Quid?» scrive Plinio « Non in Africa Hispaniaque ex terra parietes quos appellànt formaceos, quoniam'in forma circumdatis utrinque duabus tabulis inferciuntur verius quam instruuntur, aevis durant, incorrupti imbribus, ventis, ignibus, omnique caemento firmiores?.... »

Il passo di Plinio testé riferito, troppo chiaramente si conviene alla parete da noi rinvenuta nel 1881 perchè vi debba spendere altre parole in dimostrarlo. Aggiungerò solo che io, presente alla fortunata scoperta, ebbi la cura di trasportare diligentemente sopra una lastra di lavagna, il prezioso frammento; e questo, per gentile concessione del sig. marchese De la Penne colonnello direttore del Genio Militare, conservo adesso gelosamente presso di me, siccome l'unico esempio fino ad ora apparso fra le rovine romane di una di quelle pareti formacee menzionate da Plinio.

Credo assai malagevole il rendere ragione del perchè una tal parete sia stata impiegata in una casa romana costruita interamente di opera laterizia. Economia di tempo o di danaro non poterono al certo consigliarla; che l'apparecchiare la forma di tavole, il riempirla di terra a piccoli strati per facilitarne la coesione, l'attendere il prosciugamento prima di togliere la forma, e finalmente l'applicazione dell'intonaco, doveva senza alcun dubbio richiedere tempo lunghissimo.

Torna inutile il dimostrare che neppure per inferiorità di peso la parete formacea poteva prevalere sulla laterizia. Si potrebbe forse pensare che i Romani, riconosciuta nella terra la proprietà di essere cattiva conduttrice del calorico, si fossero serviti di questo muro, come di parete isolatrice in un qualche ambiente dove la temperatura poteva essere artificialmente ad alto grado elevata.

Un'altra ipotesi vorrei però permettermi su tal proposito e questa varrebbe insieme, come dissi più sopra, a confermare che la casa dove avvenne il trovamento del muro formaceo avesse appartenuto a Q. Valerio Vegeto. Ecco senz'altro gli argomenti che a mio avviso potrebbero consolidare la nostra congettura.

Iliberris (Municium Plorentinum: cf. C. /. L II p. 285 e Bull, di C. A. ISl p. 173 e segg.) è il posto più avanzato de' popoli montani celtiberi e risponde all'attuale Oranada. Nel 1755 alcuni falsificatori di oggetti antichi, praticarono diverse escavazioni sul colle Albaizin di rimpetto all'Alhambra, ove sorgeva un castello arabo, allo scopo di riporvi e poi estrarne le anticaglie da loro stessi fabbricate.

Per tale occasione si fecero invece delle scoperte di grande interesse archeologico, essendo tornate alla luce le vestigia di un edificio romano di cui l'architetto Sanchez rilevò accuratissima pianta. Tra le rovine della fabbrica si scopersero a varie riprese molte iscrizioni delle quali torna al caso nostro il ricordare soltanto quelle della madre e della moglie di Q. Valerio Vegeto e quella di un Caio Vegeto nota però fino dal 1588.

La prima epigrafe è dedicata a Cornelia Severina, figlia di Publio, Flaminica, madre di Valerio Vegeto console, per decreto dei decurioni dei Fiorentini Iliberritani. La seconda per decreto dei decurioni stessi fu dedicata ad Etrilia Afra moglie di Valerio Vegeto (cf. C. I. L II 2074, 77).

Da tali scoperte avvenute a Granada mi sembra potersi trarre argomento che Quinto Valerio Vegeto avesse avuto rapporti strettissimi con la Spagna dove indubbiamente aveva esercitato una qualche magistratura e dove aveva saputo accattivarsi per modo l'animo degli Iliberritani da meritare per la madre, per la moglie, e certo anche per sé, il perenne ricordo decretato da quei decurioni.

Si è appunto in questi stretti rapporti che legarono Q. Vegeto alla Spagna che io crederei ritrovare la ragione dell'esistenza di una parete formacea nella casa urbana di quel console. Questa costruzione spagnola ricordava forse a Valerio Vegeto nella sua casa di Roma una delle caratteristiche di quei luoghi che a lui dovettero rimanere sempre carissimi."

(Alessandro Capannari)



IL MATTONE COTTO

La cottura del mattone fu comunque un grande traguardo raggiunto tra il I sec a.C e il I secolo d.C. che svolse un ruolo cruciale per superare i problemi inerenti alla lunga tempistica in termini di essicazione dei mattoni crudi e, allo stesso tempo, aumentava la loro resistenza.

La scomparsa del mattone crudo in epoca romana fu anche dovuta ad una piena del Tevere che portò ad un’alluvione nel 54 a.c. provocando un’azione erosiva sulle strutture. Il mattone crudo fu proibito proprio per questa fragilità.


BIBLIO

- L. Crema - L’architettura romana - Torino - 1959 -
- Procopius - De Aedificiis - 3.5.8.11. -
- James C. Anderson - Architettura e società romana - Baltimore - Johns Hopkins Univ. Stampa - a cura di Martin Henig - Oxford - Oxford Univ. - Comitato per l'archeologia - 1997 -
- L. Quilici, S. Quilici Gigli - Architettura e pianificazione urbana nell'Italia antica - L'Erma di Bretschneider - 1997 -
- Tecniche di stabilizzazione dei leganti in terra cruda: reattività pozzolanica e forze di coesione capillare - M. Bellotto, S. Goidanich, D. Gulotta, R. Fiore, A. Losini, F. Ongaro.
- F.M. Butera - Dalla Caverna alla casa ecologia - Edizioni Ambiente - Milano - 2007 -

BATTAGLIA DI NICOPOLI SUL LICO

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La battaglia di Nicopoli al Lico fu combattuta tra il generale romano Gneo Pompeo Magno e le forze del re del Ponto Mitridate VI nel 66 a.c., e venne vinta dai Romani. Il dittatore Silla (138 a.c. - 78 a.c.) aveva lasciato a Mitridate VI la podestà sul suo regno, il Ponto, ma il generale Murena, col pretesto che il re pontico stesse riarmando il suo esercito, di sua iniziativa invase il Ponto, provocando lo scoppio della II Guerra Mitridatica. 

Murena venne sconfitto da Mitridate nell'81 a.c., e se ne tornò indietro a leccarsi le ferite, ma la vittoria di Mitridate però ebbe vaste conseguenze, rafforzando l'ambizione e le speranze del già ambiziosissimo re pontico, perchè si riteneva figlio di un Dio, e perchè se era stato in grado di vincere un generale romano, era pure in grado di creare un grande regno asiatico che potesse contrastare i Romani sul Mediterraneo. 

MITRIDATE
Nell'80 a.c. Mitridate nominò generale dell'esercito suo figlio Macare e lo spinse a conquistare le colonie greche intorno al Ponto Eusino. 

L'esito però fu disastroso, Macare era un pessimo generale, vennero perduti due contingenti armati e toccò inviare ambasciatori a Roma per chiedere una nuova pace di certo più favorevole per Roma.

Intanto il re Ariobarzane I nel 78 a.c. lamentò a Roma che la maggior parte dei territori della Cappadocia, non gli fossero stati riconsegnati da Mitridate, come era stato promesso dal senato romano, ma Silla si era ritirato dal potere ed era pure morto e il Senato romano non gli dette ascolto.

Mitridate allora spinse il genero, Tigrane II d'Armenia, ad invadere la Cappadocia e questi eseguì ottenendo un grosso bottino e 300.000 prigionieri, che portò nella nuova capitale del suo paese, Tigranocerta (città di Tigrane) che voleva popolare unitamente ai suoi cittadini.

Attorno all'80 a.c. il re del Ponto, seguendo ancora i suoi sogni di grandezza, decise poi di riconquistare tutte le popolazioni delle colonie greche intorno al Ponto Eusino e di nuovo nominò generale del suo esercito il figlio Macare. 

Nuovamente fu un gesto avventato, visto che le precedenti prestazioni del figlio erano state pessime; infatti la campagna di nuovo fu un disastro, poiché vennero perduti ben due contingenti armati, e si dovette chiedere una nuova pace a Roma che naturalmente la fece pagare a caro prezzo.

In quanto a Macare, qualcuno afferma che si suicidò temendo la vendetta del padre su di lui, altri affermano che fu il padre stesso a farlo uccidere. Intanto nel 78 a.c. il re Ariobarzane I, lamentò a Roma che molti dei territori della Cappadocia non gli fossero stati consegnati da Mitridate, come da accordi di pace. 
QUINTO SERTORIO

QUINTO SERTORIO

Intanto Sertorio (126 a.c. - 72 a.c.) il governatore della Spagna, sobillava le popolazioni ispaniche contro i Romani per destabilizzare Silla essendo lui stato dalla parte di Gaio Mario che tra l'altro era un suo parente. Uomo coraggioso, grande combattente e grande oratore raccolse in torno a sè molti rivoluzionari.

Creò un Senato ispanico di 300 senatori di cui due dei suoi membri, Lucio Magio e Lucio Fannio, proposero a Mitridate di allearsi con Sertorio per una guerra antiromana su due fronti: in Asia per l'oriente e in Spagna per l'occidente.

Strinsero così un patto di alleanza, in cui Sertorio cedeva al re del Ponto tutti i territori romani d'Asia, il regno di Bitinia, la Paflagonia, la Galatia e la Cappadocia, inoltre gli inviava il suo ottimo generale Marco Vario e due consiglieri, Magio e Fannio Lucio, per assisterlo militarmente e diplomaticamente.

Sertorio vinse tutte le battaglie che ingaggiò contro i romani ma venne ucciso da sicari mandati da gneo Pompeo che aveva fatto porre una grossa taglia sulla sua testa, tanto che venne ucciso a tradimento durante un banchetto. 



LUCIO LICINIO LUCULLO

Nel 74 a.c., Mitridate marciò contro la Paflagonia per invadere anche la Bitinia, da poco provincia romana, poichè alla sua morte il re Nicomede IV l'aveva lasciata in eredità ai Romani. Il governatore provinciale, Marco Aurelio Cotta, fuggì a Calcedonia. Mitridate, che non riusciva ad espugnare le città con le guarnigioni romane, andò a Cizico dove fu sconfitto dai legionari del console Lucio Licinio Lucullo 73 a.c. 

Fuggito sulla sua flotta, Mitridate, fu assalito da una terribile tempesta perdendo circa 10.000 uomini e sessanta navi, e il resto della flotta fu dispersa. Egli abbandonò la nave che stava affondando, e salì in un'imbarcazione di pirati che lo sbarcarono a Sinope. 

Da lì raggiunse Amiso, chiedendo aiuti al genero, Tigrane II d'Armenia, e a suo figlio, Macare, re del Bosforo Cimerio, poi ordinò a Diocle di prendere una grande quantità di oro e altri regali presso gli Sciti, ma Diocle poi si rifugiò presso Lucullo consegnando il bottino. 

Lucullo traversò Bitinia e Galazia, sottomettendo i vari territori già romani e raggiungendo la pianura di Themiscyra, il fiume Termodonte. Secondo Plutarco, invece, il generale romano chiese aiuto al vicino al regno di Galazia, che gli fornì 30.000 uomini portatori di grano. Nel 70  conquistò Amiso dopo lungo assedio, ed affrontò di nuovo le truppe di Mitridate presso Cabira sconfiggendolo. 

Alla fine del 70 a.c., Lucullo lasciò Sornazio con 6.000 armati a guardia del Ponto, mentre Appio Claudio fu inviato da Tigrane II ad Antiochia, per chiedere la consegna del suocero, Mitridate VI. Tigrane non solo negò ma con Mitridate decise di invadere Cilicia e Licaonia, fino all'Asia, senza ancora aver dichiarato guerra. 

LUCIO LICINIO LUCULLO
Nel 69 a.c. Lucullo, si diresse allora con sole due legioni e 500 cavalieri piuttosto riluttanti mentre a Roma i tribuni della plebe l'accusarono di cercare la guerra solo per arricchirsi. 

Lucullo attraversò l'Eufrate, poi il Tigri ai confini dell'Armenia, e presso la capitale Tigranocerta assediata da Sestilio, affrontò Tigrane con un numero molto esiguo di uomini rispetto all'avversario ma vinse in modo strabiliante.

Plutarco narra di 100.000 morti armeni, quasi tutti fanti, e cinque morti più un centinaio di feriti tra i Romani. 

Tito Livio commenta che mai prima d'ora i Romani erano risultati vincitori con forze pari a solo un ventesimo dei nemici, grazie alle grandi doti tattiche di Lucullo, che aveva sconfitto Mitridate temporeggiando, e invece aveva sconfitto Tigrane grazie alla rapidità.  Infine anche Tigranocerta fu espugnata dai romani. 

Per le sue vittorie durante l'inverno del 69-68 a.c., Lucullo ricevette diversi sovrani orientali che gli chiesero alleanza ed amicizia. 

Nel 67 Tigrane II e Mitridate VI raccolsero una nuova armata, al comando di Mitridate che intanto chiese aiuto al re dei Parti Fraate III, ma Lucullo, che già gli aveva inviato i suoi ambasciatori, si accorse che il sovrano partico  aveva promesso la sua alleanza a Tigrane, in cambio della cessione della Mesopotamia.

Pertanto pensò di combattere il re partico, ma il rischio di un ammutinamento delle sue truppe  stanche della lunga guerra, lo fecero rinunciare e marciare sulla seconda capitale, Artaxata. Tigrane si accampò di fronte allarmata romana, sulla riva opposta del fiume Arsania, a protezione della città poco lontana. 

Narra Plutarco, che la battaglia venne iniziata da Lucullo traversando il fiume con 12 coorti, mentre le altre rimanevano a protezione dei fianchi. Gli si avventò la cavalleria armena, ma dovettero cedere alla fanteria romana, e fuggirono inseguiti dalla cavalleria romana. Per tutta la notte vi fu strage dei nemici, cattura di prigionieri e raccolta di bottino. Questa volta la morte o la schiavitù toccò, come narra Livio, anche a più alti dignitari.

Lucullo a questo punto voleva conquistare il regno armeno ma i legionari iniziarono a lamentarsi per il freddo intenso e il terreno insidioso, umido, paludoso e ghiacciato per cui iniziarono a ribellarsi costringendo il generale a tornare indietro. Però nel paese della Migdonia assediò e conquistò la grande città di Nisibis già tolta dagli Armeni ai Parti. 

Le lamentele delle truppe di Lucullo giunsero a Roma e il Senato decise di sostituire il proconsole romano e di congedare buona parte dei suoi soldati. Lucullo si era anche inimicato la fazione degli usurai e pubblicani, per averli tenuti a freno. 

VILLA DI LUCULLO
Mitridate ne profittò per attaccare i Romani, anzitutto contro un legatus di Lucullo, di nome Fabio, che sarebbe stato massacrato con tutto l'esercito, se Mitridate non fosse stato colpito da una pietra ad un ginocchio e da un dardo sotto l'occhio, costringendolo a sospendere i combattimenti. 

Fabio venne assediato in Cabira ma un secondo legato, Gaio Valerio Triario, che si trovava in marcia verso Lucullo lo liberò e sconfisse il nemico. Poi Triario, deciso ad inseguire Mitridate, lo sconfisse presso Comana, ma giunse l'inverno e i combattimenti vennero sospesi.

In primavera ripresero i combattimenti e Mitridate si accampò presso Gaziura di fronte a Triario cercando di provocarlo. Ci riuscì e lo sconfisse pesantemente nei pressi di Zela. Mitridate si ritirò nel paese Piccola Armenia nei pressi Talauro, distruggendo tutto ciò che non era in grado di trasportare, in modo da evitare di essere raggiunto da Lucullo nella sua marcia. 

Poi Mitridate invase nuovamente la Cappadocia, riconquistando quasi tutti i vecchi domini. Intanto sempre nel 67 a.c. Gneo Pompeo Magno riusciva a ripulire l'intero bacino del Mediterraneo dai pirati, dalla Creta alle coste della Licia, della Panfilia e della Cilicia. 

Pertanto il Senato lo incaricò di muovere guerra contro Mitridate VI re del Ponto, in Oriente nel 66 a.c., grazie alla lex Manilia, proposta dal tribuno della plebe Gaio Manilio, appoggiata da Cesare e Cicerone. 

POMPEO MAGNO

Pompeo richiamò la legione Valeriana e Mitridate, che disponeva di un numero di armati inferiore, non ingaggiò il suo avversario, ma si diede al saccheggio, obbligando Pompeo a corrergli dietro, cercando inoltre di bloccargli i rifornimenti soprattutto dell'acqua. 

Il re del Ponto, che disponeva ancora di un esercito di 30.000 fanti e 3.000 cavalieri, si era posto lungo la frontiera del suo regno, ma poiché Lucullo aveva devastato quella regione, vi erano poche risorse di approvvigionamento si che molti dei suoi armati disertarono.

Il re allora preferì ritirarsi sperando che anche Pompeo patisse della scarsità dei rifornimenti, ma            questi aveva già fatto costruire una serie di pozzi per l'acqua lasciando poi dietro di sè nuove                  postazioni fortificate a 25 km l'una dall'altra. Disegnò quindi una linea di circonvallazione che gli          permettesse di assediare il re del Ponto ed approvvigionarsi senza difficoltà. 

Mitridate, avendo scarsi approvvigionamenti fu costretto a macellare i suoi animali da soma,                  risparmiando solo i cavalli e infine decise di scappare nella notte con i le truppe migliori, lasciando        morire i più deboli, cavalcando verso l'Armenia di Tigrane, per raggiungere l'Eufrate.

LA REGINA PSICRATE MOGLIE DI MITRIDATE

PSICRATE

La regina Psicrate, o Ipsicratea, moglie di Mitridate VI, donna piena di coraggio e dedizione, era talmente innamorata del marito da tagliare i suoi capelli, apprendere le arti militari, imparare a combattere, vestirsi da uomo e seguirlo in battaglia fino all'esilio.

Secondo Ispicratea il suo regno si trovava ovunque fosse il marito, che seguì in battaglia combattendo al suo fianco con l'arco, la spada, la lancia e l'ascia. Anche dopo la sconfitta per mano di Pompeo, Ipsicratea fu una delle tre persone che rimasero fino all'ultimo fedeli a Mitridate.

RESTI DI NICOPOLIS


LA BATTAGLIA DI NICOLPOLIS

APPIANO D'ALESSANDRIA

La mattina dopo i comandanti schierarono le truppe, mentre le avanguardie romane iniziarono i primi attacchi. Appiano aggiunge che un gruppo di cavalieri pontici, per aiutare l'avanguardia, abbandonati i cavalli nell'accampamento, si precipitarono in loro soccorso a piedi.

Ma altra cavalleria romana si era intanto gettata sul nemico, che dovette tornare al campo e risalire sui cavalli. Allora i militari dell'accampamento, vedendo correre i cavalieri appiedati pensarono a una fuga per cui gettarono le armi e fuggirono all'impazzata cadendo nei precipizi circostanti. 

Così l'esercito di Mitridate subì una nuova sconfitta, Pompeo uccidere ben 10.000 soldati e il campo fu preso e saccheggiato. 

(Appiano d'Alessandria - Guerre Mitridatiche)


CASSIO DIONE COCCEIANO

«Pompeo gli tenne dietro, desiderando di venire a battaglia. Ma non poté fare ciò prima che il nemico raggiungesse i confini della regione. Infatti di giorno non riusciva ad attaccarlo, poiché non uscivano dall'accampamento, di notte non osava, poiché non conosceva i luoghi. Quando si accorse che Mitriadate stava per sfuggirgli, si vide obbligato ad attaccarlo di notte

(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVI, 48.3.)

Cassio Dione invece si racconta che lo scontro avvenne di notte (e così Tito Livio e Plutarco, che parla di mezzanotte) e probabilmente non distante dall'Eufrate. Pompeo si mise in marcia di nascosto verso il luogo dove il re del Ponto ed il suo esercito sarebbe dovuto passare, e giunto in una valle stretta tra le colline, fece accampare i suoi soldati sulle vette ed attese il nemico. 

Quando le armate mitridatiche penetrarono nella gola, Pompeo piombò su di loro nel buio. I Pontici non avevano fiaccole e in cielo non c'era la luna, i pontici tra il frastuono e il buio si terrorizzarono temendo una collera divina. Intanto i Romani dalle alture colpivano con pietre, frecce e dardi, colpendoli con sicurezza tanto erano accalcati anche con le donne, i cavalli e i cammelli. 

Quando poi i Romani cominciarono ad attaccare, piombando dall'alto sulla colonna, quelli ai margini dello schieramento furono massacrati, anche perché molti erano privi di armature. 

(Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XXXVI)


PLUTARCO

 Secondo Plutarco, lo scontro avvenne durante la notte, presso l'accampamento pontico, prima che           con la luce del giorno seguente, le truppe di Mitridate potessero mettersi in marcia e trovare la loro         salvezza oltre l'Eufrate. Così molti armati morirono e molti altri furono fatti prigionieri dai Romani.         Lo stesso re riuscì a fuggire a stento.   

(Plutarco, Vita di Pompeo, 32.6-7.)

PORTA TRIONFALE DI MITRIDATE


IL SEGUITO

Ancora una volta Mitridate fu costretto alla fuga, attraverso un territorio impervio e roccioso con al seguito un limitato gruppo di cavalieri mercenari e circa 3.000 fanti, i quali lo accompagnarono fino alla fortezza di Simorex, dove il re vi aveva depositato un'ingente somma di denaro. Qui distribuì a tutti un ricco premio pari ad un anno di paga. 

Prese poi i restanti 6.000 talenti e marciò verso le sorgenti del fiume Eufrate, per raggiungere la Colchide. Dopo quattro giorni attraversò l'Eufrate, tre giorni dopo entrò nella Chotene Armenia, dove i suoi abitanti, insieme agli Iberi tentarono di fermarlo con dardi e fionde, per impedirgli di entrare, ma lui riuscì ad avanzare fino al fiume Apsarus.


BIBLIO                                                                                                                                                 

- Appiano di Alessandria - guerre mitridatiche - 
- Cassio Dione Cocceiano - Storia romana - XXXVI -
- Plutarco - Vita di Pompeo - 
- Livio - Periochae - ab Urbe condita libri - 97 - 
- Plutarco - Vita di Lucullo -
- John Leach - Pompeo - il rivale di Cesare - Milano - 1983 -
- G. Antonelli - Mitridate, il nemico mortale di Roma - Il Giornale - Biblioteca storica - Milano -            1992 -
- G.Brizzi - Storia di Roma - 1 - Dalle origini ad Azio - Bologna - 1997 -
- A.Piganiol - Le conquiste dei Romani - Milano - 1989.-5

NICEFORO I IL LOGOTETA

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NICEFORO I

Nome: Niceforo I, in greco: Νικηφόρος Α΄, Nikēphoros I, detto il Logoteta                                            Nascita: Pisidia, nel 750 circa (secondo le fonti orientali la sua famiglia era di origine araba)    
Morte: Pliska, 26 luglio 811                                                                                                                          Figli: Stauracio, che gli succedette alla guida dell'impero e Procopia, che sposò Michele I, imperatore dall'811-813.
Regno: 802-811   


LA PRESA DEL POTERE

Fu un patrizio della città di Seleucia Sidera, probabilmente di origine araba, che venne nominato sovrintendente alle finanze dall'Imperatrice Irene, da cui il soprannome Logoteta (logothetēs tou genikou). Con l'aiuto di alcuni eunuchi di corte e di alcuni patrizi progettò la detronizzazione di Irene, che aveva grande fiducia in lui.

Salì al potere con una congiura con cui depose l'Imperatrice Irene (802) che aveva perso popolarità per le trattative con il re dei franchi Carlo Magno per organizzare un matrimonio fra i due sovrani; ciò avrebbe permesso di riunire l'Impero romano d'Oriente con il neo-proclamato Impero Carolingio.


IRENE

Irene di Atene, (752 circa - 803) è stata un'imperatrice bizantina, dal 797 all'802. Fin dalla sua incoronazione aspirò a regnare da sola sull'Impero. Dopo la morte del marito Leone IV, divenne reggente per l'erede Costantino VI, di appena nove anni, dal 780 al 790; in seguito governò assieme al figlio per poi detronizzarlo, farlo uccidere e ottenere così il potere assoluto sul trono di Bisanzio.

Si autoproclamò "Autocrate dei Romani", ma una donna sul trono romano era inaccettabile per Papa Leone III pertanto il trono era vacante, e potè incoronare "Imperatore dei Romani" il re dei Franchi e dei Longobardi Carlo Magno, il giorno di natale dell'anno 800, mentre Irene fu declassata dall'Occidente a "Imperatrice dei Greci". Irene però non accettò mai il titolo di imperatore a Carlo Magno, considerando l'incoronazione un'usurpazione di potere.

Ella regnò sull'Impero dal 780 all'802, quando venne deposta dal suo sovrintendente alle finanze (logothetēs tou genikou), Niceforo I il Logoteta. Fu l'unica donna ad assumere anche il titolo imperiale maschile facendosi "basileus dei romei": Zoe, Teodora ed Eudocia Macrembolitissa saranno infatti "solo" imperatrici regnanti.

Nell'864 fu canonizzata dal patriarca Fozio I di Costantinopoli nonostante fosse l'assassina di suo figlio; ed è venerata dalle Chiesa ortodossa come una santa col nome di Santa Irene la Giovane il 7 agosto.

NICEFORO E IL FIGLIO STAURACIO

LA CONGIURA

Mentre Irene si trovava per una villeggiatura nel palazzo di Eleuterio i congiurati si presentarono al Sacro Palazzo con ordini contraffatti dell'Imperatrice, che nominavano imperatore Niceforo per avere il suo aiuto nel combattere Ezio. I soldati consegnarono il palazzo ai congiurati, che divulgarono la proclamazione a imperatore di Niceforo I, mentre Irene veniva imprigionata.

Intanto il popolo e il clero che erano favorevoli ad Irene si presentarono alle porte del Palazzo  chiedendo Irene sul trono ma questa, fidandosi delle promesse di Niceforo, che le avrebbe concesso di stabilirsi nel Palazzo dell'Eleuterio a Costantinopoli, si ritirò dal governo. Invece Niceforo la esiliò prima sulle Isole dei Principi e poi a Lesbo, dove morì in povertà nell'803.

Niceforo venne scelto come imperatore al suo posto il 31 ottobre dell'802, senza rivolte nè militari nè popolari, legando in matrimonio suo figlio Stauracio con Theofania, patrizia ateniese parente dell'imperatrice deposta. Dovette combattere la resistenza di alcuni generali dell'esercito tra cui i futuri imperatori Leone V e Michele II, ma ebbe la meglio.



POLITICA INTERNA

Niceforo, che aveva condiviso con l'imperatrice la scelta iconodula, aveva anche seguito la sua morbida linea fiscale. Non appena preso il potere però Niceforo invertì la rotta:
- nell' 809 organizzò un censimento generale per la nuova fiscalità imperiale dopo il governo di Irene;
- costrinse gli abitanti dei temi dell'Asia Minore a vendere i possedimenti e a trasferirsi nelle Sclavinie;
- fece pagare gli abitanti dei villaggi una tassa per comprare l'equipaggiamento ai soldati poveri;
- fece pagare una tassa per l'iscrizione nell'elenco dei contribuenti; annullò gli sgravi fiscali concessi da Irene;
- fece pagare le tasse ai monasteri e agli istituti di beneficenza;
- fece tassare ed esaminare attentamente i nuovi ricchi esaminati dagli ufficiali e oppressi;
- tutti quelli che nei precedenti 20 anni avevano scoperto tesori vennero privati del loro denaro;
- pose tasse sull'eredità e sugli schiavi;
- impose ai soldati dei temi marittimi di comprare della terra "per tassarli";
- costrinse gli armatori di Costantinopoli a contrarre prestiti con lo stato con un tasso elevato.
- Rivendicò il primato del potere imperiale sulla chiesa.
- Il villaggio contadino divenne il centro dell'economia del governo e dell'organizzazione territoriale, sotto il profilo economico, produttivo e ovviamente fiscale mentre scomparve il tardo latifondo romano.



POLITICA ESTERNA

- Niceforo non riconobbe assolutamente il titolo imperiale a Carlo Magno e rivendicò per sé, in forma esclusiva, il titolo di "basileus ton romaion", di 'imperatore dei romani'. Per giunta vietò al patriarca ogni relazione diplomatica con il Papa di Roma che aveva incoronato Carlo, dichiarando un tradimento e un'illegalità l'incoronazione del natale 800.
Con vari trattati nell'803 e nel 812 definì i confini tra l'Impero bizantino e quello carolingio, assegnando a Costantinopoli gran parte delle coste della Dalmazia e del Ducato di Venezia, oltreché alcune regioni dell'Italia Meridionale (Calabria, Salento, costa della Campania fino all'Agro nocerino-sarnese e Gargani nell'Apulia) e le isole maggiori (Sicilia, Sardegna e Corsica), mentre a Carlo Magno rimasero Roma, Ravenna, la Pentapoli, l'Italia settentrionale e l'Istria, oltre all'interno della Dalmazia.

- Riconquistò con alcune battaglie dei territori balcanici occupati precedentemente dagli Slavi.  

Invece contro Bulgari e Arabi Niceforo venne duramente sconfitto nell'806 ed obbligato a pagare altissimi tributi al califfo abbaside Hārūn al-Rashīd. Morto il califfo nell'809 smise di pagare e iniziò una nuova campagna contro i Bulgari, che venne perduta. 

- Nel maggio dell'811 Niceforo, dopo avere riunito un esercito enorme mosse nuovamente contro i Bulgari per riprendere Pliska, che, nel frattempo Krum aveva riconquistato. Il Khan si ritirò, secondo la sua abituale tattica, sulle montagne dei Balcani e Pliska, così, fu di nuovo espugnata dai Bizantini. A Pliska, però, avvennero massacri indiscriminati, contrari alla tradizione bellica e in genere alla storia militare bizantina: donne inermi e bambini anche in fasce subirono un terribile massacro, spesso operato attraverso l'uso di mazze chiodate.


LA COPPA DI KRUM


LA MORTE

Ma pochi mesi dopo, il 26 luglio 811 nella battaglia di Pliska l'esercito bizantino venne massacrato dai Bulgari e Niceforo venne catturato e decapitato. Le cronache narrano che dal teschio di Niceforo I fu tratta una coppa per il re bulgaro Krum.



STAURACIO

Gli succedette alla guida dell'impero il figlio Stauracio, che aveva seguito il padre nell'impresa bulgara, e che riuscì a sfuggire al massacro ma, durante la battaglia, fu ferito gravemente ed ebbe la schiena spezzata. Fu trasportato in condizioni disperate a Costantinopoli, dove, dal momento che il suo matrimonio con Teofania era stato infecondo, prese i voti e si ritirò in un monastero.

Era il 2 ottobre dell'811 e Stauracio indicò nel cognato, fratello di Teofano, Michele Rangabe, il suo successore. Tre mesi dopo, agli inizi dell'812, Stauracio, per la gravità delle ferite patite moriva.


BIBLIO

- Anonimo - Historia imperatorum -
- Teofane - Cronaca -
- Georg Ostrogorsky - Storia dell'Impero bizantino - Milano - Einaudi - 1968 -
- Gerhard Herm - I bizantini - Milano - Garzanti - 1985 -
- Giorgio Ravegnani - I bizantini in Italia - Bologna - il Mulino - 2004 -
- Ralph-Johannes Lilie - Bisanzio la seconda Roma - Roma - Newton & Compton - 2005 -
- Giorgio Ravegnani - Bisanzio e Venezia - Bologna - il Mulino - 2006 -
- Giorgio Ravegnani - Introduzione alla storia bizantina - Bologna - il Mulino - 2006 -
- Giorgio Ravegnani - Imperatori di Bisanzio - Bologna - Il Mulino - 2008 -

CULTO DI VIRBIUS

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TESEO RINGRAZIATO DAI GIOVINETTI CHE HA SALVATO

Virbio (in latino: Virbius) è secondo alcuni un personaggio della mitologia greca trasposto in quella romana, secondo altri è un'antica divinità italica a cui venne sovrapposta una divinità ellenica. Nella mitologia greca corrisponde ad Ippolito, figlio di Teseo e di un'Amazzone (Antiope o Ippolita o Melanippe o Glauce). Secondo alcuni autori romani sposò una donna di nome Aricia e divenne il padre di un figlio omonimo, Virbio.

Alcuni lo credevano un Dio solare, o un demone protettore delle nascite, un Dio a forma di cavallo, una divinità fluviale di Aricia, un demone delle querce, l'eroe greco Ippolito il cui culto sarebbe stato portato in età arcaica dalla Laconia a Roma, ma la maggioranza lo identificò con l'eroe greco Ippolito, forse perché nel recinto di Aricia non dovevano penetrare i cavalli.



TESEO

Teseo fu l'eroe mitico che uccise il Minotauro salvando i sei fanciulli ateniesi che dovevano essergli immolati, ma lo fece con l'aiuto di Arianna, principessa di Creta, figlia di Minosse e Pasifae nonchè sorella del Minotauro, che gli consegnò un gomitolo di lana per svolgerlo nel labirinto e ritrovare la via del ritorno.

IPPOLITO - ERCOLANO
Ma Teseo, tornando ad Atene per sedere sul trono, fa addormentare Arianna sull'isola di Nasso e l'abbandona, sola e disperata, perchè intanto si è innamorato della di lei sorella, Fedra, che intende sposare. Giunto a casa infatti ripudia la moglie amazzone che si ripresenta con una turma di guerriere che però Teseo fa sconfiggere e uccidere da una turma di guerrieri, e anche la sua moglie amazzone vi trova la morte.



IPPOLITO

Il figlio di Teseo, Ippolito non si interessa minimamente alle vicende di Teseo nè alla reggia in generale, egli ha appreso l'abilità nella caccia dal centauro Chirone e la esercita ogni giorno con grande passione al seguito della vergine Diana mantenendosi anch'egli casto e lontano dalle donne.

Narra il mito che la cosa non piacque a Venere che in qualità di Dea dell'amore se ne sentì oltraggiata, pertanto operò la sua vendetta facendo innamorare follemente Fedra del figliastro. Naturalmente Ippolito ricusa la profferta amorosa sia perchè si tratta della matrigna sia perchè non è interessato.

Ma Fedra impazzisce, si suicida e lascia al marito una lettera in cui accusa Ippolito di aver provato a sedurla. Teseo addolorato e infuriato prega il padre Poseidone di vendicarlo e questi mentre Ippolito corre col suo carro sulla riva del mare, gli fa uscire dalle onde un toro inferocito che terrorizza i cavalli e li fa imbizzarrire.

Così i cavalli rovesciano il carro e Ippolito è tratto nella folle corsa restando impigliato nel carro. Diana impietosita rivela a Teseo la calunnia di Fedra e il padre va a riconciliarsi col figlio morente. Poi Ippolito muore ma Diana chiama Asclepio che lo resuscita con le sue cure meravigliose.

ARTEMIDE - DIANA

DIANA

Chi non è contento della cosa però è Giove che non tollera ritorni dagli inferi, pertanto scaraventa lo stesso Ascepio negli inferi per aver osato la resurrezione di un morto e poi cerca Ippolito per fare altrettanto, ma interviene la provvida Diana che avvolge Ippolito in una nube per renderlo invisibile, poi lo trasforma in un vecchio e infine lo trasferisce dalla Grecia a Nemi nel Latium vetus.

Qui Ippolito assume il nome di Virbio e fonda il santuario di Diana Nemorense, dove si pensa che Oreste fuggitivo con sua sorella Ifigenia porti qui il simulacro di Diana Taurica, la Dea che salvò la principessa Ifigenia dall'essere immolata dal proprio padre Agamennone che l'avrebbe sgozzata sull'altare.

Tantum religio potuit suadere malorum” commenta Lucrezio sulla superstizione religiosa portatrice di grandi mali, e non gli si può dare torto. Naturalmente i miti cambiano nel luogo e nei tempi ed Euripide crea un finale positivo sostituendo la fanciulla, mentre il caro padre le sta affondando il pugnale, con un cerbiatto (positivo per Ifigenia ma non per il cerbiatto).

SACRIFICIO DI IFIGENIA

Oreste fuggitivo sarebbe stato dunque il primo sacerdote di Diana nemorense, come Ifigenia sua sorella, e da allora ci fu un fuggitivo che lo sostituì attraverso un combattimento. In genere il fuggitivo era uno schiavo che doveva spezzare un ramo dell'albero sacro per ingaggiare la lotta per la vita col "Rex Nemorensis", cioè il vecchio sacerdote.

Questa sfida avveniva ogni 5 anni entro i quali il sacerdote-re era intoccabile, dopodichè o moriva per mano del nuovo aspirante o regnava indiscusso per altri cinque anni. Questo costume durò molto a lungo, tanto che l'imperatore Caligola che non aveva un buon animo si lamentò del fatto che nessuno riuscisse ad uccidere il Rex nemorense e manifestò l'intenzione di inviargli uno schiavo abilissimo combattente per il gusto di farlo fuori.

In questo santuario dove la Divinità maggiore era Diana, venivano onorati anche Egeria, la ninfa delle acque che ispirò le leggi al re Numa Pompilio e Virbio

SACRIFICIO A DIANA

Così Virbio venne onorato nel tempio che sorgeva sullo Specchio di Diana, cioè sul lago di Nemi dove affluivano pellegrini da ogni parte perchè qui si operavano miracoli rendendo fertili le donne, facilitando il loro parto, ma pure curando malati, come è testimoniato da i numerosi exvoto rinvenuti, con la forma di un organo umano.

Del resto la strada che saliva da Bovillae (oggi Frattocchie) ad Aricia era chiamata clivus Virbi ed era nota per i numerosi mendicanti che chiedevano l'elemosina ai pellegrini che si recavano al tempio. Virbio era descritto come un uomo anziano e la sua immagine di culto non poteva essere toccata, non solo dai pellegrini ma neppure dal sole e nel suo recinto non potevano entrare i cavalli, forse in memoria della morte di Ippolito.

Ci sono alcune tracce della sua adorazione al di fuori del santuario di Aricia ed un'altra testimonianza del culto corrisponde ad un'iscrizione che menziona un Flamine Virbialis come sacerdote di Virbio. ma un flamen Virbialis è ricordato anche in una iscrizione di Napoli (Corpus Inscriptionum Latinarum, X, 1493).

SANT'IPPOLITO

Il fatto che non potesse venire toccato dai raggi del sole fa pensare a un Dio degli Inferi, una specie di Dio del tempo visto il suo aspetto anziano, probabilmente una specie di Saturno. anch'esso anziano e sepolto in un posto segreto del Lazio nel buio di un sepolcro.

Il 13 di agosto, nel periodo più caldo dell’anno, il boschetto di Nemi era illuminato da una miriade di torce il cui bagliore riverberava nelle acque del lago; e in tutto il territorio italico ogni famiglia celebrava quel rito sacro. Statuette bronzee ritrovate nel recinto, raffigurano la Dea che regge una torcia nella mano destra alzata, e le donne le cui preghiere erano state esaudite, si recavano inghirlandate, e con una torcia accesa, al santuario per sciogliere il voto.

Oggi il 13 Agosto il calendario cattolico celebra San'Ippolito che subì il martirio, guarda caso, squartato da quattro cavalli legati a braccia e gambe, quindi anche lui morto a causa dei cavalli. Evidentemente il culto di Ippolito-Virbio era molto seguito se la Chiesa credette bene di sostituirlo nel medesimo giorno di festa con un Santo dallo stesso nome e morto sempre a causa dei cavalli.


BIBLIO

- Igino - Fabulae - 40 251 -
- Plutarco . Vita di Teseo - 27 -
- Publio Ovidio Nasone - Le metamorfosi, XV -
- Euripide - Ippolito Coronato -
- L. Morpurgo - La rappresentazione figurata di Virbio - in Ausonia - IV - 1909 -
- Ovidio Fasti - VI -
- Aulo Persio Flacco - Saturae -
- Servio Mario Onorato - Commentarii in Vergilii Aeneidos libros - VII -
- Corpus Inscriptionum Latinarum - X - 1493 -

SOTTO SANTA MARIA MAGGIORE

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La basilica di S.Maria Maggiore, situata nella piazza omonima sulla sommità del Cispio, una delle tre cime del colle Esquilino, è detta anche "Liberiana" dalla leggenda che tradizionalmente la collega a papa Liberio e secondo la quale, nel 352, il pontefice, unitamente a una nobile coppia romana, sognò la Madonna che gli indicava di costruire una chiesa là dove avesse trovato la neve.

Il marito della coppia, un certo Giovanni, si recò dal Papa per chiedere di poter erigere a sue spese una chiesa dedicata alla Vergine e il Papa, che aveva fatto lo stesso sogno, il mattino dopo, il 5 agosto, nel mezzo di una torrida estate romana, recatosi sull' Esquilino, trovò un terreno rettangolare innevato su cui fece costruire la chiesa appunto detta "S.Maria della Neve". 

Sembra che la Madonna avrebbe predetto un miracolo per mostrare il luogo dove la chiesa doveva essere edificata. Il miracolo della neve viene ricordato ogni anno, il 5 agosto, in una funzione durante la quale petali bianchi vengono fatti cadere dal soffitto della Cappella Paolina.

LA CHIESA NEL 1700

Peccato che non risulti alcuna antica chiesa precedente alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Gli scavi furono condotti esclusivamente lungo le navate laterali. Rimosso l'interro che li colmava, vennero rinvenuti numerosi ambienti di un edificio composto da vari locali intorno ad un grande cortile porticato lungo 37 metri e largo 30, molto probabilmente una costruzione romana la cui struttura muraria, i pavimenti e le basi delle colonne ritrovate permettono di attribuirlo al II - III secolo d.c.. 

Della presunta chiesa precedente non ci resta nulla se non un passo del Liber Pontificalis (una raccolta di biografie dei pontefici, presentate in serie cronologica a partire da San Pietro, e compilate in vari tempi e da vari autori) dove si afferma che papa Liberio "Fecit basilicam nomini suo iuxta Macellum Liviae", di cui non si conosce ancora l’esatta posizione e del quale si ipotizza la localizzazione presso il Forum Esquilinum, fuori ma parallelo alle Mura Serviane.

Insomma la basilica liberiana non esiste. Invece l'area archeologica posta sotto la Basilica papale di Santa Maria Maggiore, ove sono stati rinvenuti una casa abitata dal I al IV secolo d.c., un raro calendario ad affresco con scene di lavori agricoli (fine II sec. d.c.) e alcune testimonianze della Basilica Paleocristiana fondata da papa Sisto III (432-444).

A fine Ottocento vennero eseguiti ulteriori lavori di ristrutturazione, dove vennero documentate e catalogate 14.000 tegole in terracotta bollate, provenienti sia dalla navata settentrionale sia da quella meridionale. Per mezzo di questi marchi si poterono datare alcune di esse: del I secolo d.c., del II secolo, del IV secolo, appartenenti all’epoca di Diocleziano, del V secolo, con marchi del re Teodorico e del VI secolo, riportanti la scritta “in nomine Dei”.

LA CHIESA NEL 1400


IL TEMPIO DI LIBERO E LIBERA

Dunque cade l'ipotesi della "basilica Liberiana" dovuta a un edificio di culto fatto erigere da Papa Liberio, smentita da tutte le indagini effettuate sotto la pavimentazione. Sembra invece possibile l'ipotesi che almeno nei pressi sorgesse un tempietto innalzato agli Dei Libero e Libera, il che avrebbe dato origine al nome.

Gli scavi arrivarono ad una profondità di sei metri dal pavimento della basilica portando in luce numerosi ambienti romani del II sec a.c. fino al IV d.c., di molti spazi sistemati attorno ad un cortile a vari livelli e di non facile interpretazione.
 
GLI AMBIENTI SOTTERRANEI

IL CALENDARIO

L’ambiente principale è di età augustea o ancor più antica, e venne in gran parte ricostruito in epoca Adrianea e Costantiniana, circondato da un muro lungo il quale rimangono tracce di un calendario stagionale, ritenuto “uno straordinario-menologio, corredato, mese per mese, da una serie di grandiose scene di paesaggio che, per quanto è possibile leggere nelle parti conservate, illustrano i lavori campestri propri per ogni stagione”.

Il menologio però è una raccolta di testi liturgici e agiografici usata nella Chiesa ortodossa che contiene le vite e gli uffici dei santi in dodici volumi corrispondenti ai dodici mesi dell'anno. Ma qui non si vedono santi, ma solo lavori e paesaggi agricoli. 

Teniamo conto che gli Dei Libero e Libera erano divinità dell'agricoltura, e che forse la basilica liberiana si chiamò così in quanto ricostruita su un tempio dedicato ai due Dei. Un po' come la chiesa di Santa Maria sopra Minerva che stava sopra al tempio di Minerva.


Lungo il percorso sotterraneo si incontrano anche tracce di un piccolo stabilimento termale, resti di un pavimento in opus sectile su suspensurae, con mosaici ed intercapedini per il riscaldamento, tracce di affreschi geometrici, un piccolo ambiente semicircolare con nicchie, e una parete libera con graffiti romani. 

Tra questi spicca un’incisione del famoso quadrato palindromo del sator, simile a quello di Pompei. Si tratta di un'iscrizione latina, in forma di quadrato magico, composta dalle cinque seguenti parole: SATOR, AREPO, TENET, OPERA. Insomma un luogo popolato e frequentato dove non poteva mancare almeno un tempio.

La costruzione attuale della Basilica patriarcale comunque, non è anteriore a Sisto III che la dedicò alla Maternità divina di Maria, definita dal Concilio di Efeso del 431 d.c.. 
Solo dopo il X secolo la basilica prende il nome di “ad Niven” poiché della leggenda della neve se ne trova traccia solo dopo il 1000; essa viene nominata nella bolla di papa Niccolo IV del 1288. 

COLONNE DI RECUPERO

Di Madonne della neve in Italia se ne trovano parecchie, solo per dirne alcune:

- Alpe, frazione di Vobbia (GE) - Alpe di Mera, frazione di Scopello (VC) - Ariano nel Polesine (RO) - Arzachena (SS) - Atella (PZ- Bastia di Rovolon (PD) - Boara Pisani (PD) - Bocchigliero (CS) - Boffalora sopra Ticino (MI) - Bousson, frazione di Cesana Torinese (TO) - Borgo Carillia, frazione di Altavilla Silentina (SA) - Buttero, frazione di Olgiate Molgora (LC) - Boves (CN) - Brittoli (PE) - Brossasco (CN) - Calabritto (AV) - Cartigliano (VI) - Carzano (TN) - Casalbore (AV) - Casaluce (CE) - Castel Campagnano (CE) - Castel Ruggero, frazione di Torre Orsaia (SA) - Castella, frazione di Villafranca d'Asti (AT) - Castellazzo, frazione di Reggio nell'Emilia (RE) - Catipignano, frazione di Tramonti (SA) - Castiglione in Teverina (VT) - Castroregio (CS) - Celle di Bulgheria (SA) - Chiesina Uzzanese (PT) - Crespino (RO) - Crispiano (TA) - Codroipo (UD) - Conco (VI) - Copertino (LE) - Cucciago (CO) - Cuglieri (OR) - Cura Carpignano (PV) - Flussio (OR) - Francofonte (SR) - Gazzo Veronese (VR) - Giarratana (RG) - Givoletto (TO) - Illorai (SS) - Lepona (Marche) - Mesiano, frazione di Filandari (VV) - Monforte d'Alba (CN) - Neviano (LE),  - Novi Ligure (AL) - Nuoro - Nuvolento (BS) - Orsara di Puglia (FG) - Pabillonis (SU) - Penna in Teverina (TR) - Piscinas (SU) - Podenzana (MS) - Prizzi (PA) - Predore (BG) - Pusiano (CO) - Roccaromana (CE) compatrona - Romentino (NO) - Rovereto (TN) - Sala di Serino, frazione di Serino (AV) - Sangineto (CS) - Santa Maria Maggiore (VB) - Sanza (SA) - Sasseta, frazione di Vernio (PO) - Sirmione (BS) - Strudà (LE) - Suni (OR) - Susa (TO) - Teti (NU) - Tiriolo (CZ) - Torre Annunziata (NA) - Torre d'Isola (PV) - Vignepiane, frazione di Arpino (FR) - Villamassargia (CA) - Vilanofrazione di Cantiano (PU) - Villanovetta, frazione di Verzuolo (CN) - Zaccanopoli (VV).

COLONNE DI SPOLIO NEL BATTISTERO


LE PARTI DI SPOLIAZIONE

La chiesa è stata supportata e ornata da vari pezzi di recupero:

- Le 40 colonne in stile ionico con cui fece ornare l’interno a suddivisione delle navate, in parte ornavano già il tempio che dominava l’Esquilino, dedicato a Giunone Lucina.

- Sisto V nel 1585, incaricò Domenico Fontana della costruzione della cappella Sistina per cui vennero impiegati materiali di spoglio provenienti dal Septizodium, che Settimio Severo innalzò quale facciata-ninfeo sull’Appia Antica per colpire chi sopraggiungeva a Roma.

EPITAFFIO SULL'IMMAGINE DELLA COLONNA
- Le colonne del battistero sono tutte di recupero.

- Al centro della navata centrale sorge l’altare maggiore, formato da un’urna di porfido rosso che si dice fosse la vasca da bagno di una ricca abitazione romana.

- Proseguendo verso l’ingresso della Basilica vi è la celeberrima cappella Sistina voluta da Sisto V per contenere anche la sua tomba. Per questa cappella venne utilizzato in parte materiale del Vecchio Palazzo Lateranense che in quel periodo era in rovina oltre che materiale di spoglio dell’antica Roma.

- Dieci colonne di porfido decorano l’altare della Cappella Sistina, tutte di recupero.

- Item sulla piazza di rimpetto alla porta di mezzo (di s. M. maggiore) uno vaso di porfido di uno pezzo, ritratto a modo di tazza in su colonnette, che il diametro suo può essere braccia 4 in 5. 

- Sulla piazza della Basilica di Santa Maria Maggiore c'è una fontana, e sembra che la vasca superiore al vascone sottostante sia di epoca romana, probabilmente derivata da una sala termale.

- Il pavimento cosmatesco è ricavato da una pavimentazione marmorea romana, contenente marmi preziosi di porfido rosso e di verde serpentino.

- A chi ricordi la leggenda del cippo collocato accanto l'altar grande di s. Maria maggiore : 

INGRATAE VENERI SPONDEBAM MVNERA SVPPLEX-EREPTA
COIVX VIRGINITATE TIBI
PERSEPHONE VOTIS INVIDIT PALLIDA NOSTRI.
ET PRAEMATURO FUNERE TE RAPUIT.
SUPREMUM VERSUS MUNUS DONATUS EST ARAM,
ET GRATAM COEPIT DOCTA PEDANA CHELYM.
ME NUNC TORQUET AMOR, TIBI TRISTI CURA RECESSIT,
LAETHALEOQUE IACES CONDITA SARCOPHAGO.

(epitaffio di un uomo che si duole della morte della moglie, di non essere stato più lungamente con lei, nonostante tutti i voti e le preghiere fatti all'ingrata Venere).

SALUS AUGUSTA


SALUS POPULI ROMANI

Di fronte alla cappella Sistina, sul luogo dell’antica sagrestia, è quella Paolina o Borghese, a croce greca. L’altare ricchissimo dedicato alla Madonna e realizzato da Pompeo Tardoni, famosissimo orafo dell’epoca è impreziosito da materiali rari e pregiati quali malachite, lapislazzuli, oro, diaspro e bronzo. 

MADONNA DI SANTA MARIA MAGGIORE
L’icona contenuta in questa preziosissima cornice rappresenta una Madonna Bizantina che la tradizione fu risalire alla vera immagine di Maria, dipinta dal vivo da S. Luca evangelista. “Essa è detta “Salus Popoli romani”; veneratissima è ritenuta miracolosa e durante le pestilenze era portata in processione.

Peccato che Gian Luca è vissuto tra il 9 e il 93, mentre l'impero bizantino c'è stato tra il 395 e il 1453, per cui la Madonna, di stile decisamente bizantino non ha nulla a che vedere con l'apostolo. Ma non ha niente a che vedere neppure con la Salus che era una Dea pagana.

Per ordine di Ottaviano Augusto, dal 10 a.c. si celebrò ogni anno nell'Impero Romano la Salus Publica Populi Romani, Concordia et Pax, divinità personificazioni della salvezza dello Stato Romano, della concordia dei cittadini e della pace nel mondo.

Certamente questa immagine non era cupa come la Madonna bizantina con manto scuro, gli occhi statici e il viso severo. Del resto si sa che per far dimenticare le vecchie divinità la Chiesa dovette allestire santi e Madonne con le stesse prerogative degli antichi Dei pagani.


BIBLIO

- G. Wissowa, Liber - in Roscher - Lexikon - II - Libera -
- Marco Tullio Cicerone - De natura deorum -
- Renato Del Ponte - Dei e miti italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica - ECIG - Genova - 1985 -
- Philippe Borgeaud - Avec Doralice Fabiano - Perception et construction du divin dans l'Antiquité - Genève - Droz - 2013 -

HORTI GALBANORUM - HORTI GALBANI

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RICOSTRUZIONE DEGLI HORTI GALBANORUM

Come gli Horrea Galbana prendevano nome dall'Impertore Galba, così gli Horti Galbani prendevano il nome dalla gens Galbana. Su questi horti sorgeva la grande e ricca Domus Galbana che si elevava per quattro piani nella zona dell'ex antiquarium del Celio a Roma.

L'intera zona dell'Emporium era caratterizzata da edifici legati alla familia dei Galba, come dimostrano alcuni horti e i famosi Horrea Galbana. La costruzione di questi enormi magazzini, destinati alla conservazione delle derrate alimentari, sarebbe da attribuire a Servio Sulpicio Galba proprietario della suddetta tomba, di cui anche viene ricordato un restauro dell'imperatore Galba, altro membro di questa illustre gens."

EX ANTIQUARIUM DEL CELIUM A ROMA


L'IMPERATORE GALBA

Servio Sulpicio Galba Cesare Augusto ( 3 a.c. – 69 d.c.) è stato un imperatore romano che da giovane percorse l'intero cursus honorum fino al consolato per diventare poi governatore della Germania superiore, poi dell'Africa proconsolare e infine della Hispania Tarraconensis. 

Galba sostenne la rivolta di Giulio Vindice (25-68), il ribelle all'imperatore Nerone e alla morte di questi e di Nerone ascese al trono, divenendo il primo regnante durante l'Anno dei quattro imperatori. Ma dopo appena sette mesi di governo, il 15 gennaio del 69, fu deposto e assassinato dai pretoriani che elevarono alla porpora Otone.

Pur con l'assassinio di Galba la gens galbana continuò ad esistere e a mantenere le sue enormi ricchezze nonchè la sua splendida domus che sembra si ergesse non molto distante dal Colosseo, e dall’Arco di Costantino, sul lato opposto degli scavi sul Palatino, su un verde colle ancora pieno di resti affascinanti ma perennemente abbandonati e chiusi al pubblico. Fu qui, proprio negli Horti Galbanorum, che si decise verso la fine dell'800 ad erigere un Antiquarium comunale.

ANTIQUARIUM E FONTANA


ANTIQUARIUM COMUNALE DEL CELIO

L'Antiquarium comunale del Celio era un museo archeologico di Roma creato per la mostra dei reperti rinvenuti negli scavi successivi alla proclamazione di Roma come capitale del Regno d'Italia nel 1870. L'edificio, situato appunto sul Celio, fu progettato dall'architetto Costantino Sneider (1844-1932) secondo le indicazioni del grande archeologo Rodolfo Lanciani (1845 – 1929) e completato nel 1890, ma inaugurato nel 1894 come Magazzino archeologico.

Solo nel 1929 il magazzino fu riorganizzato come Antiquarium comunale di Roma, destinato ad accogliere i reperti che non potevano essere collocati nei Musei Capitolini ma nel 1939 subì gravi lesioni per gli scavi sotterranei della metropolitana (linea B). L'edificio venne abbandonato trasferimento e i reperti furono trasferiti altrove.

L'accesso all'area è oggi interdetto al pubblico e l'edificio da allora versa in stato di abbandono, visibile attraverso la vegetazione dalla sottostante via di San Gregorio (tracciata nel 1929 e chiamata via dei Trionfi durante il ventennio fascista); in seguito sono stati approvati progetti finalizzati al suo recupero.

Quasi ad immediato contatto con i resti cadenti di quella struttura, soffocata dalla vegetazione infestante e da alcuni antichi alberi di ailanthus, c’è una recinzione metallica. In più punti cartelli che segnalano il pericolo di crolli.

Nonostante i nobili intenti e vari cartelli che lo promettevano, l'area non venne mai ristrutturata, e non vi alloggia nemmeno un cartello che indichi la posizione dell'antica Domus Galbnorum che, da quel che si sa, giaceva in cima alla collinetta, dove oggi sorge, ormai fatiscente, un vecchia casa di ottimo gusto ma in pessimo stato di conservazione, che certamente ha sfruttato varie spoglie della gloriosa domus.


BIBLIO

- Tito Livio - Storia di Roma - VII - Mondadori - Milano -
- Ancient Roman villa gardens - Washington - DC: Dumbarton Oaks Research Library and Collection
Patrick Bowe - Gardens of the Roman World - Los Angeles: J. Paul Getty Museum -
- P. Gros, M. Torelli - Storia dell'urbanistica. Il mondo romano - Bari - 2007 -
- Maria Stella Busana, Oderzo - Forma urbis - Roma - l'Erma di Bretschneider - 1995 -

COLOMBARIO DI LARGO PRENESTE

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Il Colombario di Largo Preneste, posto nel territorio del Prenestino-Labicano è una tomba che ospitava le ceneri di diversi defunti anche se qualche studioso pone dubbi sulla sua funzione. Esso risale al II o III secolo d.c. ed è costruito in opera laterizia con mattoni gialli e rossi come venne largamente usato specie negli edifici di Ostia o nel paramento bicromo del tempio del Dio Ridicolo sull' Appia, e nei monumenti funerari presenti lungo la via Latina e la via Appia.

INTERNI
Il sepolcro era qualcosa di ben diverso, simile alle tombe di via Latina o al cosiddetto cenotafio di Annia Regilla, alla Caffarella: un edificio funebre familiare a due o tre piani, con quello centrale utilizzato per i banchetti funebri per celebrare i defunti, l’inferiore, dedicato alla sepoltura vera e propria e il superiore, a scopo puramente decorativo.

Sul fronte sono ancora visibili degli archetti pensili che è presumibile sorreggessero un balcone, probabilmente simile a quelli esistenti nella case di Ostia Antica, mentre sul lato ovest sono ancora visibili i resti di una scala che portava al piano superiore, oggi non più esistente, che in parte furono sostituiti intorno al XVIII secolo dai muri moderni di un casale di campagna.

Essendo all'epoca più frequente la cremazione (bruciatura dei cadaveri) che non l'inumazione (sepoltura dei corpi integri), per accogliere le ceneri dei defunti si edificavano dei sepolcri a camera unica o con più camere nelle cui pareti venivano ricavate delle nicchie rettangolari o ad arco dove si ponevano delle ollette cinerarie contenenti appunto i resti inceneriti dei defunti.

Le nicchie venivano ricavate su ogni lato dell’interno della struttura, costruita esattamente come un colombario che ospitasse colombi e da qui il loro nome. I colombari, come tutti i sepolcri, venivano posti sulle vie consolari subito fuori città, essendo proibito porli all'interno dell'abitato.


La via consolare, in questo caso la via Prenestina, consentiva di transitare con i carri su una via basolata e pertanto percorribile senza difficoltà, sia per l'edificazione del colombario sia per le future visite dei parenti. Accanto al colombario sono stati rinvenuti i resti di un’area sepolcrale allineata alla struttura.

L’attuale tetto a spiovente, che comporta la classica forma a tempietto, venne ricostruito a seguito del restauro della struttura intorno alla fine degli anni ’50 che lo riportò il più possibile alla forma originale. Nelle foto più antiche il Colombario appare completamente collocato nell'aperta campagna dell’Agro Romano, al contrario di oggi dove la zona è ampiamente edificata.

COME APPARIVA NEL 1887 PRIVO DEL TETTO
Solitamente il colombario accoglieva le ceneri dei componenti di una stessa famiglia, ma non era infrequente che accogliesse anche le ceneri di estranei. Infatti talvolta l'edificazione di un colombario poteva costituire un business finanziario, frutto dell'iniziativa di una o di più famiglie, un vero e proprio investimento finanziario. 

Infatti uno o più imprenditori facevano costruire e attrezzare il colombario attribuendo un valore alle varie file di nicchie: quelle ad altezza d'uomo erano le più care perchè non abbisognavano di scale per ornare con fiori o ghirlande la nicchia, quelle più alte costavano meno.

Così poi parte delle nicchie venivano affittate ad altre famiglie o altre persone per costituirsi una piccola rendita, si che venne un po' l'usanza di costruire colombari di molti piani, a volte altissimi, per guadagnare più soldi. Talvolta il colombario possedeva anche più di una stanza, magari aggiunta successivamente. Ignoriamo totalmente il possessore o i possessori del colombario di Largo Preneste.


BIBLIO

- Rodolfo Lanciani - Roma pagana e cristiana - Colombari romani - Cap. VI -
- Antonio Nibby - Roma antica di Fabiano Nardini - Stamperia De Romanis - Roma - 1818 -
- Filippo Coarelli - Guida archeologica di Roma - Arnoldo Mondadori Editore - Verona - 1984 -
- L. Quilici, S. Quilici Gigli -  Opere di assetto territoriale ed urbano - L'Erma di Bretschneider - 1995 -

LE DOMUS DI ROMA

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LA COSIDDETTA DOMUS DI LIVIA

Le case romane erano costruite molto bene, perchè i romani erano ottimi ingegneri. Tuttavia le insule, cioè i palazzi, erano spesso oggetto di speculazioni edilizie, per cui erano a volte eccessivamente alte e costruite con materiali scadenti. Per questo i crolli non erano così eccezionali. Ma più dei crolli erano frequenti gli incendi, perchè molti tramezzi erano di vimini e i travi di legno.

Calcolando che più o meno Roma imperiale potesse occupare la superficie del centro storico, cioè di quasi 1.280 kmq, di certo non poteva bastare ad una popolazione 1.200.000 - 1.500.000 abitanti. Un notevole spazio era occupato dalle vie, dalle piazze, dagli edifici pubblici, dai templi, basiliche, teatri, circhi, magazzini, caserme, poi dal Tevere, dai parchi, dai giardini, dalle palestre, dai portici, dai bagni pubblici, dalle scuole e dalle terme. Il rimedio all'insufficienza dello spazio fu lo sviluppo in altezza delle case romane, cioè le insule.

Solo con gli studi pubblicati ai primi del Novecento sugli scavi archeologici di Ostia e sui resti trovati sotto la scala dell'Ara Coeli, nonchè su quelli vicini al Palatino in via dei Cerchi, ci si è accorti che la casa romana non poteva esser presa a modello dalle case di Pompei ed Ercolano dove prevaleva la classica domus indipendente perchè a Roma prevalevano le insulae, insomma più palazzi che ville.

Le insulae avevano appartamenti molto diversi, mentre al piano terra avevano botteghe, al primo piano avevano appartamenti di lusso, in genere dotati di acqua corrente. poi più si saliva e più erano piccoli e poveri. Del resto fino al XX secolo il primo piano era il più bello, detto "piano nobile", visto che non esistevano gli ascensori e che scappare da un incendio era più difficile ai piani superiori.

La maggior parte degli appartamenti non aveva bagni in quanto senza acqua, però ogni condominio aveva al centro una fontana a cui attingerla. Inoltre non c'erano bagni per cui utilizzavano i bagni pubblici, che tuttavia erano usati un po' da tutti i maschi.

Sembra strano ma i bagni pubblici, riservati solo agli uomini, erano un salotto dove tutti si incontravano, parlavano e discutevano, e dove spesso, come fa notare Marziale, si ottenevano inviti a cena o si incontravano gli amici. 

Spesso la gente, anzichè cucinare, si serviva del cibo pronto sulle bancarelle, o del cibo cucinato per strada, o delle locande locali, poiché c'era poco tempo per cucinare. Pertanto i romani vivevano molto per strada e poco in casa.

Le domus invece erano le case delle famiglie ricche, con un giardino e un piano costruito intorno ad un atrio. Le stanze si affacciavano sull’atrio, dove una fontana raccoglieva l’acqua piovana che scendeva dal tetto aperto. Un ulteriore spazio aperto era il peristilio, una zona che comprendeva un giardino e camere che si aprivano su di esso. 
Le decorazioni delle stanze principali avevano pareti in gesso colorato e, spesso pavimenti con mosaici. I mobili più comuni erano sedie e divani reclinabili, sgabelli, tavoli da appoggio, credenze per riporre stoviglie e vasi, bauli e cassaforti. I letti avevano cinghie di cuoio che incrociavano il telaio del letto, con lenzuola, coperte, materassi e pellicce.

Le case dei ricchi possedevano condotte d’acqua, portata attraverso dei tubi di piombo, sui quali era prevista una tassa in base alla grandezza. Spesso, un archeologo è riuscito a stabilire il livello di ricchezza del proprietario di una casa osservando la grandezza dei tubi. Le domus venivano inoltre scaldate con l'ipocausto: forni e intercapedini sotto ai pavimenti, nonchè mediante bracieri vari.

DOMUS ROMANE DEL CELIO

LE DOMUS SCOPERTE A ROMA

La Villa detta "Ad Duas Lauros" posta sulla via Casilina 700, ovvero al IV miglio dell'antica via Labicana, presenta diverse fasi costruttive, dall'età repubblicana fino all'epoca tardo antica (V-VI sec. d.c.). L'impianto successivo subisce nel tempo modifiche ed ampliamenti. La villa, nel suo periodo di massima espansione, occupava un'area di oltre un ettaro ed ha vissuto per più di 1000 anni. 

- Domus Annii Veri -
Casa di Annius Verus, avo di Marco Aurelio, ove questi fu allevato; sorgeva "iuxta aedes Laterani" (Capital. Marc. Ant. 1), e innanzi ad essa si ergeva fine all'anno 1583 la statua equestre di lui, ora sul Campidoglio.

Domus Augustana -
Augusto era nato sul Palatino e lo scelse come residenza fin dall'inizio della sua carriera politica. Acquistò la casa dell'oratore Ortensio, accanto alla cosiddetta "casa di Romolo", nel 31 a.c., la ampliò con l'acquisto di case vicine e vi dimorò senza tuttavia farne un palazzo vero e proprio. La sua costruzione fu il risultato di un raggruppamento di diverse abitazioni tra le quali quella di Caio Lutazio Catulo. La Casa di Augusto fu innalzata nel corso del 36 a.c. poco dopo il giorno in cui l’imperatore riportò a Roma una vittoria conquistata nelle terre sicule insieme a Sesto, il figlio di Pompeo.

- Domus Aurea -
La Domus Aurea, la "Casa Dorata", fu costruita dall'imperatore Nerone dopo il grande incendio che devastò Roma nel 64. Aveva già fatto costruire la Domus Transitoria, che però bruciò interamente. Per la nuova reggia si avvalse degli architetti Celere e Severo, che la edificarono in soli quattro anni, e del celebre pittore Fabullo. Quando Nerone inaugurò la casa disse che finalmente cominciava ad abitare "in una casa degna di un uomo". Aveva un'estensione di 2,5 kmq., circa 80 ettari, con giardini e padiglioni per feste o di soggiorno per gli ospiti. Al centro dei giardini c'era il laghetto su cui sorse più tardi il Colosseo.

All’interno di un edificio moderno di largo Arrigo VII, si conserva parte di una ricca domus tardo repubblicana situata lungo l’antico Clivus Publicius. Gli ambienti si trovano a 12 m di profondità ed erano al piano ipogeo della domus. Della ricca domus romana, situata in parte sotto la costruzione moderna, in parte sotto il relativo giardino ed in piccola parte sotto la strada, si conservano una porzione del piano seminterrato e le tracce di alcuni ambienti del piano superiore.

Il palazzo imperiale di Caligola, situato nell’angolo nord-ovest del Palatino tra Tempio dei Dioscuri, Vicus Tuscus, Horrea Agrippiana e Domus Tiberiana, si innalzava su più piani. Il gusto sobrio di Augusto era ormai un ricordo e la reggia già raddoppiata da Tiberio fu successivamente ampliata da Caligola verso il Foro Romano. Era formato in gran parte dal palazzo che fece già costruire l’Imperatore Tiberio, con una facciata sul Foro ed una sul Velabro, a cui Caligola aggiunse alcune infrastrutture sul lato del Foro, che vennero chiamate ‘Palazzo di Caligola’.
Purtroppo nulla infatti rimane dell’alzato dell’edificio, i cui piani erano forse collegati da gradini in legno oggi scomparsi. Forse il piano terra aveva funzione di servizio e magazzini, mentre al primo piano, nell’Hermaeum, stavano le stanze principali. Il palazzo comprendeva un atrium e una piscina, a cui era associata, si pensa, un triclinium posto a sud o ad est, in cui l’imperatore svolgeva tutte quelle attività legate alla sfera sociale.

L’insieme delle strutture antiche chiamate «domus di via Eleniana» si trova all’interno dell’area della centrale ACEA nella via omonima. I resti sono venuti alla luce per la posa di cavi elettrici nel 1980, e sono costituiti da quattro ambienti di un edificio privato, che si affacciava su una strada antica corrispondente all’odierna via Eleniana. Si pensa fosse prima un edificio adibito alla manutenzione dello stesso acquedotto, trasformato successivamente in domus. Della residenza vera e propria, il Sessorium delle fonti cristiane, restano l’aula adibita a cappella per la conservazione della Croce, la grandiosa sala absidata impropriamente definita “Tempio di Venere e Cupido”, cospicui resti di domus affrescate e mosaicate.

Tra via Amba Aradam e via dei Laterani durante la costruzione della nuova sede dell'INPS sono venuti alla luce, nel 1959, a una decina di metri di profondità, un gruppo di edifici su terrazzamenti digradanti verso sud e verso ovest, di età giulio-claudia, con muri in opera reticolata, e con restauri del II sec. d.c., oltre a un completo rifacimento del IV sec.. Era una vasta villa costeggiata dalle mura aureliane, quindi ai limiti di Roma antica. Aveva naturalmente un grande cortile interno con grandi ali laterali, e vasti giardini ricolmi di piante e statue. Nel corso dei secoli, per ragioni di livellamento edilizio, tutte le strutture superiori furono rase al suolo mentre si conservarono quasi interamente quelle più in basso.

Il complesso occupò tutta la parte centrale del Palatino verso la fine del I sec., sostituendo edifici preesistenti,  le dimore imperiali di Augusto, Nerone e Tiberio, nonchè di alcune ville di epoca repubblicana, di cui restano testimonianze nei livelli stratigrafici inferiori. Sorgeva sulla sella  fra i due rialzi del colle Palatino, posizione un po' problematica per l'edificazione. A ovest e a sud-ovest era limitata da monumenti già esistenti, nonchè dalle differenze di livello del terreno, con la necessità di due facciate opposte asimmetriche, una a nord verso la valle del Foro, e una a sud verso il Circo Massimo.

Domus (villa) Farnesina -
La Casa della Farnesina è una costruzione signorile antica di Roma, collocata in Trastevere, in parte sotto i giardini di villa Farnesina (dalla quale prende il nome). Fu rinvenuta casualmente durante gli scavi per la costruzione degli argini del Tevere, nel 1880. Finora è stato possibile scavare solo una metà posta sotto i giardini, mentre è sconosciuta la parte sotto le costruzioni di via della Lungara. Tra le ipotesi sui proprietari di questa "villa" urbana c'è quella che fosse stata costruita per le nozze tra Giulia maggiore e Agrippa.

DOMUS AUGUSTANA

- Domus Grifi -
La casa dei Grifi è un'antica abitazione romana sul colle Palatino, al di sotto dell'ala settentrionale del palazzo di Domiziano (in particolare del Larario), che la seppellì. Si tratta dell'esempio di casa di epoca repubblicana meglio conservato a Roma. Il nome deriva dalla decorazione a stucco di una lunetta con grifoni.
La casa, che non doveva essere molto grande, venne tagliata dalle massicce fondazioni dei palazzi di Nerone e di Domiziano, ed oggi se ne vede solo una parte.
L'edificio venne costruito in opera incerta, con rifacimenti in opera quasi reticolata, è famoso per le pitture che lo decorano, databili tra la fine del II e l'inizio del I secolo a.c. (mentre la casa è più antica). Le parti migliori di queste decorazioni vennero staccate ed oggi sono conservate nell'Antiquarium del Palatino.
Tra i mosaici, una stanza rettangolare ha il pavimento decorato con al centro una zona quadrata con pietre e marmi policromi che costruiscono un disegno di cubi in prospettiva. Questa tipologia di decorazione si chiamava opus scutulatum, il più antico pervenutoci a Roma, che aveva come modello originario quello del tempio di Giove Capitolino, composto tra il 149 e il 146 a.c.; altri esempi sono stati rinvenuti a Pompei (tempio di Apollo e casa del Fauno) databili attorno al 120 a.c. 
In quel periodo infatti si assiste alla progressiva sostituzione pittorica di elementi strutturali, già usati nella decorazione parietale col più costoso stucco, con un maggior uso di elementi architettonici probabilmente desunti da vere architetture e forse influenzati dai pittori di scenografie. Questo stile dominò la decorazione in ambito romano fino agli ultimi decenni del I secolo a.c.

- Domus Laterani -
i cui avanzi si trovano sotto la chiesa di s. Giovanni in Laterano: "egregiae Lateranorum aedes", come la chiama Giovenale (10, 17). Sotto Nerone apparteneva alla famiglia dei Plautii Laterani, di cui essendo stato allora giustiziato il console designato dello stesso nome, la casa divenne proprietà imperiale (Tac. ann. 15, 49. 60).
Settimio Severo la donò di nuovo a un Lateranus (Aur. Vict. epit. 20). Costantino ne fece la propria residenza, l'adornò e vi costruì una chiesa (Niceph. 7, 49).

- Domus Licinii Surae -
La domus di Lucius Licinio Sura, generale e intimo amico dell’imperatore Traiano, venne edificata alla fine del II sec. d.c. ma sopra ad un’estesa parte del complesso fu costruito un edificio a due navate (forse il titulus paleocristiano) su cui sorge l’attuale chiesa. Che si tratti della casa di Sura sarebbe anche confermato dalla Forma Urbis Severiana, che in quest’area, adiacente al Tempio di Diana, indica la presenza delle Terme Surane. Lucio Licinio Sura, politico e generale molto influente sotto Traiano, di cui era amico, consigliere e forse anche qualcosina di più, considerato che Traiano nonostante la moglie e il suo affetto per lei, era decisamente omosessuale. Per giunta Sura appare di belle fattezze.

- Domus Liviae - Casa di Livia -
La cosiddetta "Casa di Livia"è una delle poche abitazioni repubblicane rimaste sul colle Palatino, nella zona occidentale, la più importante perché conserva le testimonianze più significative della fondazione e della storia dell'Urbe. Nel 1869, per incarico di Napoleone III, l'archeologo Pietro Rosa mise in luce una casa di epoca repubblicana con murature databili tra il 75 e il 50 a.c. che erroneamente, interpretando un passo di Svetonio, venne detta casa di Livia.

L’attribuzione si poggia sulle fonti, che ricordano un grande praedium appartenuto a Livia proprio in quella zona, in una località definita Ad gallinas albas; oltre a un’iscrizione d’età traianea, che menziona tra i centri amministrativi di quella zona un praetorium denominato Gallinarm albarum. La villa venne costruita tra il 30 e il 25 a.c., e fu abitata fino ad età severiana, quando, divenuta proprietà del fisco imperiale, ebbe una generale risistemazione specialmente nel settore delle terme. Bolli laterizi dell’età di Teodorico ne attestano la sopravvivenza fino ad epoche successive.

DOMUS DELLA FARNESINA

- Domus Mamurra -
famiglia originaria di Formiae; un Mamurra, partigiano di Cesare, fu il primo che avrebbe usato le incrostazioni marmoree nelle pareti (Pin. nat. hist. 86, 48 cf. Catul. 42. 4).

Sotto la chiesa di S. Cecilia c'è un importante complesso di edifici romani, parti del primo edificio di culto e un battistero. La domus più antica risale al II secolo a.c., accanto alla via Campana-Portuense, con pareti in opera quadrata e in reticolato. Vi si individua un atrio delimitato da colonne di tufo e altri ambienti con pavimenti a mosaico geometrico e a cocciopesto, ancora in gran parte conservati nei sotterranei della chiesa. Annesso alla casa, ma successivamente costruito, c'è un magazzino con otto grandi vasche cilindriche inserite nel pavimento, con un rivestimento interno a cortina e fondo in opera spicata.

Con la denominazione di Domus Severiana si intende un prolungamento della Domus Augustana, realizzato tra la fine del II e gli inizi del III sec.. Lo splendido edificio si erge sul lato sud del colle Palatino e di esso, purtroppo, oggi restano soltanto costruzioni in laterizio completamente spogliate di qualsiasi ornamento, tipico di questa zona del Palatino. Per molti secoli infatti i papi fecero a gara a spogliare i monumenti romani, in parte per abbellire chiese e palazzi patrizi, in parte per cancellare ogni traccia di un passato pagano che suonava come satanico e blasfemo, da cancellare e dimenticare. La Domus severiana fu l'ultimo ampliamento dei palazzi imperiali sul Palatino, realizzato a sud-est dello Stadio palatino, nella Domus Augustana, da Settimio Severo.

La Domus Tiberiana doveva avere uno sviluppo planimetrico di 150 m di lunghezza e 120 di larghezza, per un'altezza di oltre 20 m, fu la sede preferita degli imperatori Antonimi, con una biblioteca e l'archivio imperiale, che bruciarono durante il regno dell'imperatore Comodo (176-192 d.c). Era uno splendore di giardini con statue, ninfei e fontane all'esterno, con terrazze, balconate contenute da grate scolpite nel marmo, da scalinate, da viali alberati, da aiuole, e all'interno era decorata con affreschi e pavimenti musivi, portali preziosi, colonne e decorazioni. Si ritiene sia stato il primo palazzo imperiale eretto sul colle Palatino e sembra che fosse stato eretto sulla casa natale di Tiberio, inglobando abitazioni vicine del periodo tardo-repubblicano.

La Domus Traiana, costruita probabilmente su un terreno di proprietà familiare, era più raffinata di quella fatta edificare da Caracalla pochi decenni prima, essendo destinata agli illustri personaggi dell'epoca, come dimostrano alcune iscrizioni rinvenute in loco che attestano anche il suo uso almeno fino al V sec. L''ultimo restauro avvenne nel 414, dopo l'incursione gotica. La pianta dell'edificio è conosciuta da un disegno del Palladio, scoperto dal Rodolfo Lanciani nella collezione Devonshire. In essa si nota uno sviluppo simmetrico dei vari ambienti: ninfei, palestre e spogliatoi, ai lati di una grande sala centrale comprendente il frigidarium o il tepidarium. Le sue rovine erano ancora visibili all'epoca del Nolli che le disegnò in una pianta nel 1748.

L'imperatore Nerone, prima di far erigere la Domus Aurea, aveva già fatto costruire la Domus Transitoria, per collegare le tenute imperiali del Palatino con gli Horti Maecenatis sull'Esquilino, che però bruciò interamente nel grande incendio del 68. Ne sono stati rinvenuti dei resti sotto la Domus Flavia sul Palatino. Lo storico Svetonio racconta come già fece scandalo a Roma il grande impegno di soldi e maestranze che Nerone aveva dedicato all'edificazione del suo magnifico palazzo privato: la Domus Transitoria, che permetteva di “transitare" dal Palatino all’Esquilino, seguita, dopo l’incendio del 64 d.c., dalla Domus Aurea. E infatti le pitture, gli stucchi e i marmi che la decorano furono un'anticipazione dello splendore e munificenza che profonderà nella Domus Aurea.

La Casa dei Valerii ( Domus Valeriorum ), grande famiglia di origine Sabina, occupava una grande superficie sul Celio e fiancheggiava l’Acqua Claudia con vasti giardini in pendio. La storia dei Valerii iniziò nel 509 a.c. con Publius Valerius Poplicola che partecipò alla caduta dei Tarquini e diventò il secondo console della Repubblica romana. La ricca domus della Gens Valerii giaceva ai piedi della Velia, la terra che connetteva il Palatino col Colle Oppio ed era l'unica domus di Roma dove le porte si aprivano direttamente sulla strada. Secondo la tradizione, una casa sub Veliis (Asc. in Pison. 52, ubi aedes Victoriae=Vicae Potae), o in Velia (Cic. de Har. resp. 16), fu concessa a Valerius come un onore speciale (cf. Plin. NH xxxvi. 112, ).

Le proprietà degli Annii e di Domizia Lucilla, membro della famiglia di Marco Aurelio e la proprietà dei Quintilii, entrarono a far parte della domus Vectiliana di Commodo. Nel 192 d.c. la cospiratrice Marcia, concubina di Commodo, fece entrare Narcisso nella camera da letto dell'imperatore forse in preda all'ebbrezza o al torpore dovuto a un veleno, ma il vomito sopravvenuto, o un antidoto precedentemente assunto, rischiò di far fallire tutto per cui il sicario Narcisso lo strangolò nella vasca da bagno. L'omicidio avvenne nella domus Vectiliana che l'imperatore possedeva sul Celio, una domus così amata da aver spostato in essa la sua residenza palatina. Poichè non si conosce una familia Victelia o Vectelia, si è supposto che la domus provenisse dall'imperatore Vitellio (Victellius), oppure di suo padre Lucio Vitellio, che era stato console e governatore in Siria sotto Tiberio, ma non ve ne sono prove. Certamente i beni di Vitellio dopo la sua cruenta fine devono essere stati confiscati a beneficio dell'imperatore.

Il complesso archeologico di S. Paolo alla Regola, scavato, restaurato e attualmente visitabile è ubicato nel primo e secondo livello sottosuolo del cinquecentesco Palazzo degli Specchi, occupato al primo piano dalla Biblioteca comunale per i ragazzi e nei piani superiori da abitazioni private. L'insula è prospiciente a via di S. Paolo alla Regola, strada che ricalca quell'antico tracciato stradale che fin dall'età repubblicana collegava il Circo Flaminio con la pianura del Campo Marzio.
Fu un complesso residenziale di epoca imperiale, iniziato dall'imperatore Settimio Severo e terminato dall'imperatore Elagabalo (o Eliogabalo), situato nella zona sudest della Regio V Esquiliae, presso l'Acquedotto Claudio. L'imperatore Settimio Severo, agli inizi del III secolo, costruisce una grande villa con giardino, gli Horti Spei Veteris, uno dei diversi horti costruiti nell'area esquilina a partire dall'epoca e dall'esempio di Mecenate. La residenza viene ampliata da Caracalla e, soprattutto, da Elagabalo (Sesto Vario Avito Bassiano), che fa completare il circo ed erige un piccolo anfiteatro, però dotato di sotterranei, noto come anfiteatro castrense. C'era anche un grande atrio (poi trasformato nella chiesa).
Si trattava di una villa a nuclei monumentali, articolati in un vasto parco e collegati tra loro da un corridoio carrabile, conosciuta anche come Horti Variani.

RICOSTRUZIONE DEGLI INTERNI DELLA DOMUS VALENTINI

Trattasi di due ville romane di epoca imperiale e di grande bellezza. Le due ville, che misurano circa 20.000 piedi, erano locate presso il Foro Traiano, zona anche allora di grande prestigio.
Nella ricostruzione virtuale, si apre una finestra con vista sulla colonna traiana. Non altrimenti doveva essere per la villa, dotata certamente di varie finestre, e non poteva mancare quella su uno dei maggiori capolavori dell'epoca traiana. 

Secondo le antiche fonti, tra cui i testi di Seneca e Filone, sulle pendici settentrionali del colle Gianicolo, nella zona compresa tra il monte di Santo Spirito e la riva destra del fiume Tevere, si trovavano gli Horti di Agrippina Maggiore, sede delle residenze private di Agrippina, nipote di Augusto e madre di Caligola. Il fastoso apparato decorativo della dimora che sorgeva tra i giardini affacciati sul Tevere, i suoi pregiati marmi colorati lavorati a capitelli, lesene, cornici e lastre di rivestimento, le raffinate decorazioni parietali e i vari rinvenimenti, ricostruiscono idealmente il lusso della dimora lungo il percorso espositivo e nella "mise en scène" allestita nel Teatro di Palazzo Altemps. 

CULTO DI VOLTURNO

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VOLTURNO A CAPUA

"Volturno suo deo sacra faciebant cuius sacerdotem Volturnalem vocabant"
(Festo, De Verborum Significatu)

Volturno (latino Volturnus o Vulturnus) è il nome di una divinità prima etrusca e poi romana, secondo l'uso romano di importare gli dei stranieri della popolazione che aveva dato loro filo da torcere, adottato pertanto alla fine delle guerre contro i popoli etruschi. La divinità era venerata a Roma, nel Velabro, il quartiere etrusco della città, dove gli era stato dedicato anche un tempio.
Ma Volturno veniva venerato anche in Campania nella zona di Capua, ove veniva considerato come fiume, e dove un tempo erano giunti gli etruschi cacciati poi dai Sanniti, che furono poi cacciati dai romani.

Un tempo era considerato dagli studiosi un Dio romano, a Roma patrono del vento caldo di sud-est (lo scirocco). In realtà dopo la conquista di Volsinii l'immagine del Dio li venerato fu portata a Roma per evocare la sua protezione a favore dei romani togliendola agli etruschi.

I Volturnalia si celebravano a Roma il 27 agosto con un flamine preposto al culto di Volturno e chiamato Flamen Volturnalis. Questo sacerdozio a detta di Varrone sarebbe stato istituito da Numa Pompilio, il secondo re di Roma.

FIUME - DIO VOLTURNO


IL FLAMINE VOLTURNALE

Al suo culto era preposto un flamine minore, il flamine volturnale; le sua festività erano denominate Volturnalia e si celebravano il 27 agosto. Secondo lo scrittore cristiano Arnobio ( 255 - 327), Volturno era ritenuto il padre di Giuturna.

Secondo i miti Giuturna fu una donna amata da Giove che le offrì l'immortalità ed il dominio sui corsi d'acqua dolce del Lazio. Secondo un'altra versione era invece la Cea sposa di Giano, dal quale ebbe Fons, il Dio delle fonti. Come figlia di un Dio Giuturna non poteva essere mortale comunque era una ninfa delle fonti.



SUL NOME
  1. - Si pensò un tempo che Volturno essendo un Dio fluviale fosse collegato con il Tevere e che Volturnus fosse stato un antico nome del Tevere, forse il nome datogli dagli Etruschi, ma i vari nomi dati al Tevere furono l'arcaico Albula e i successivi Thybris e Tiberis.
  2. - Per Theodor Mommsen, che riconosceva la natura fluviale del Dio, il nome veniva dalla radice "uoluere".
  3. - Altri hanno proposto un collegamento con il nome dell'avvoltoio.
  4. - Altri ancora con il nome del monte Voltur nei pressi di Venosa, ricordato già da Orazio.
  5. - Per Kurt Latte, potrebbe avere un'origine etrusca per il nome proprio etrusco Velthurna.

MOSAICO DI VOLTURNO


SULL'IDENTITA'

1 - Secondo l'archeologo Mario Cristofani conosciamo questo Dio solo da testimonianze letterarie ed epigrafiche latine del Fanum Voltumnae, il santuario federale degli etruschi ove avvenivano le assemblee annuali delle città etrusche, sottolineando le identiche radici di vert o volt (che significa cambiare), per Voltumna, Volturnus e Vertumnus, e pure Volsinii. Quindi il nome deriverebbe dal mostro Volta, il drago che, nell'Historia Naturalis di Plinio, distruggeva con il fuoco le campagne vulsiniesi e che il re etrusco Porsenna, conoscendo l'Arte Fulgorale, convinse gli Dei a distruggere con un fulmine il suddetto drago Volta.

2 - Secondo l'archeologo Francesco Nicosia “Volta era una creatura mostruosa, mezzo uomo e mezzo-bestia”, che nelle campagne vomitava materiale incandescente ma che “acquietatosi, diventò amico della razza umana, donò fertilità alla terra, creò il bacino lacustre, le forme delle cose viventi e di quelle inerti, lo stupendo paesaggio ricco di foreste, popolato di animali”, Insomma Volta era il Voltumna, o Vertunna, il mutevole, principe degli Dei etruschi e dell'etrusca Velzu (nome originario di Volsinii) che aveva il suo tempio ove ogni anno si riunivano i dignitari della Confederazione, "re sacerdoti detti lucumoni, insieme a folle di pellegrini e si deliberavano interessi comuni di pace e di guerra, si tenevano i giochi gladiatori, sacri misteri e altre manifestazioni religiose”.

3 - Il filologo Kurt Latte invece non ritenne Volturno un Dio del fiume ritenendolo invece una "forza del vento".

4 - Per Georges Dumézil il Dio Volturnus a Roma era il vento di sud-est, nocivo ai vigneti e agli alberi da frutto, e scongiurato con i Volturnalia.

5 - Per il filosofo Favorino, citato da Aulo Gellio, era il terzo vento, quello che viene dal punto in cui il sole si alza al solstizio d'inverno, che i Romani chiamano Vulturnuus, e i graci Eurónotos, perché si situa tra il Noto e l'Euro.

6 - Per Columella anche in Betica (Spagna meridionale) i contadini chiamavano Volturnus il vento caldo che devastava le viti all'inizio della Canicola, se non venivano coperte da stuoie di palma.

URNA CINERARIA ETRUSCA RAPPRESENTANTE
IL MITO DI VOLTA
7 - Properzio e Ovidio informano che era il “Dio confederale” dei 12 popoli etruschi ed essendo il patrono di tutta l'Etruria ed in particolar modo di Volsinii, era stato loro ostile, perciò l'avevano “indotto” con la evocatio a cambiare sede, trasportandone l'immagine a Roma ed edificandogli un tempio verso il Tevere, tra Aventino e Palatino, fuori dal pomerio delle mura serviane, trattandosi di divinità straniera.

8 - Varrone ricorda che già era stato introdotto da Tito Tazio col nome di Vertumnus o Volturnus ed aveva un sacerdote, il “flamine volturnale”, e conferma l'esistenza di una statua lungo il “Vicus Tuscus”, tra Palatino e Velabro, che veniva addobbata dai commercianti etruschi con fiori, frutta, strumenti e vesti tipiche delle attività agresti. Varrone, che lo considera il principale Dio degli etruschi, fa derivare il suo nome da “vertere”, cambiare, pertanto il Dio dell'Annus Vertens, con la facoltà di cambiare le cose, o il suo stesso aspetto, o il corso del Tevere, evitando le inondazioni. Poneva Vertunno, con Quirino, Ops, Flora, introdotti a Roma da Tito Tazio, tra gli Dei protettori delle colture di stagione, sino a darsi il cambio con Autumnus che giungeva subito dopo “ai grappoli della prima uva”.

9 - Lo storico Sesto Pompeo Festo, del II secolo, ricorda il tempio di Volturno nei pressi dell'Aventino ove era collocata la statua togata di M.F. Flacco, il conquistatore di Vulsinii. 

10 - Il poeta Propezio nella IV Elegia fa parlare Volturno che dice di vedere, dal suo tempio collocato presso l'ansa del Tevere, il Foro Romano e di recare in mano i frutti dell'orto e sulla fronte una ghirlanda di fiori. Dice poi di potersi trasformare in ragazzo o in uomo, falciatore o soldato, mietitore, Apollo, Bacco, Fauno, auriga, pescatore, mercante, pastore, fioraio.



VOLTURNO CAMPANO

Lo testimonia una protome d'arco proveniente dall'anfiteatro dell'antica Capua, infatti Volturnum era l'antico nome della città di Capua, prima ancora di Casilinum, e secondo il linguista Massimo Pittau avrebbe origine etrusca.

Secondo l'etruscologo Giulio Mauro Facchetti, il nome della città (e quindi del Dio-fiume) si riferirebbe al falco avvistato il giorno della fondazione e interpretato come segno divino di buon auspicio.

Il poeta Stazio descrive la statua del Dio collocata sul ponte costruito da Domiziano sul fiume Volturno: lo rappresentava sdraiato come ad un banchetto con in testa una corona di canne palustri intrecciate e lo immagina lamentarsi per il peso delle arcate del ponte, rimpiangendo il lieve peso delle antiche zattere.


BIBLIO

- Columella - De Re Rustica - V -
- Aulo Gellio - Notti Attiche - II -
- Corpus Inscriptionum Etruscarum - 426 -
- Papinio Stazio - Silvae - IV -
- Lucano - Farsalia - II -
- Calendario Maffei in Giulio Vaccai - Le feste di Roma Antica - Roma - Mediterranee - 1986 -
- Jean Bayet, La religione romana -Torino - Bollati Boringhieri - 1959 -
- Georges Dumézil - Feste romane -. Genova - Il Melangolo - 1989 -

STAURACIO - STAURACIUS

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NICEFORO E STAURACIO


Nome: Stauracio, in greco: Staurakios, in latino: Stauracius
Nascita: 775 circa
Morte: Costantinopoli 11 gennaio 812 
Padre: Niceforo I
Madre: sconosciuta
Sorella: Procopia
Regno: per pochi mesi, dal 26 luglio al 2 ottobre dell'811.


Figlio di Niceforo I il Logoteta, venne allevato per un futuro glorioso di regno attraverso le varie campagne militari in cui si dovette cimentare accompagnando il padre o i vari generali in battaglia.
Ben presto di distinse per la bravura e il coraggio si che il padre lo volle al suo fianco in ogni offensiva, facendosi benvolere dai soldati e dai superiori. 

Nell'811 come al solito prese parte alla campagna di Niceforo contro i Bulgari di re Krum. Niceforo riunì un esercito immenso per vincere i Bulgari attraverso la superiorità numerica, infatti i Bulgari ormai consci della loro inferiorità « abbandonarono tutto quello che avevano con loro e cercarono rifugio sulle montagne».

L'esercito bizantino raccolto da Niceforo per la spedizione venne così descritto da Teofane, cronista a lui ostile: «Raccolte così le sue truppe, non solo dalla Tracia, ma anche dai themata asiatici, come pure molti uomini poveri che si erano armati a proprie spese con fionde e bastoni e lo maledicevano, insieme ai soldati, egli mosse contro i Bulgari»

I temi di cui scrive Teofane erano quelli degli Ottimati, Opsiciani e Bucellari, visto che gli altri temi dell'Asia Minore restavano in loco e all'erta per affrontare eventuali incursioni arabe. Invece secondo la Cronaca bizantina dell'anno 811 Niceforo portò nella sua spedizione «tutti i patrizi e i comandanti e i dignitari, tutti i tagmata e anche i figli degli archontes che avevano almeno quindici anni, con cui costituì un corteggio da destinare al proprio figlio, cui diede il nome di hikanatoi (i più degni).»

I BIZANTINI


LE VITTORIE

Le prime battaglie furono vinte dai Bizantini, al punto che Krum richiese più volte la pace ma Niceforo, un po' troppo sicuro di sè, rifiutò sempre. Così l'esercito proseguì la sua avanzata giungendo a occupare la capitale dei Bulgari, Pliska, saccheggiandone il palazzo reale. 

Teofane riferisce che Niceforo tenne tutto il tesoro di Krum per sé, invece la Cronaca ne vanta la generosità: «Trovò grandi spoglie, che ordinò fossero distribuite tra l'esercito, secondo l'orario dei turni di servizio. Quando aprì i depositi in cui si conservava il vino lo distribuì in modo che tutti potessero berne

Distrutta la capitale, i cui palazzi erano in legno e quindi facili da bruciare, l'esercito bizantino proseguì la sua marcia e il suo saccheggio, seguito dalle implorazioni del re: «Vedete, avete vinto. Quindi prendete tutto quello che volete e andate in pace



LA BATTAGLIA DI PLISKA

Ormai la lungimiranza del popolo Romano che non infieriva mai, o quasi mai sul nemico vinto era svanita, Niceforo rifiutò la pace e Krum fu costretto ad ingaggiare gli Avari e gli Slavi con gli ultimi soldi rimasti. Poi fece innalzare infinite palizzate di legno chiudendo tutti i punti di accesso e di uscita dalla Bulgaria, palizzate che inoltre proteggevano i soldati bulgari che tiravano frecce attraverso le fessure del legno.

I mutati costumi dell'esercito procurarono un grande disastro. I romani costruivano a tempo di record i loro accampamenti che vigilavano con corpi di guardia bene addestrati, appostando vedette e spedendo spie a sorvegliare i dintorni. Invece i Bulgari sorpresero il campo bizantino quasi incustodito, molti soldati bizantini vennero massacrati nel sonno e il resto tentò la fuga.

Tentarono di attraversare un fiume paludoso ma molti annegarono nella traversata, formando con i loro corpi una sorta di "ponte" che permise ai Bulgari di guadare il fiume. I fuggitivi tentarono poi di scavalcare la palizzata ma i Bulgari vi avevano scavato un fossato molto profondo in cui i Bizantini caddero spezzandosi le gambe.

Niceforo fu ferito, imprigionato e decapitato, Stauracio fu ferito a sua volta, con lancinanti dolori alla schiena. Riuscì a tornare a Costantinopoli, e si fece incoronare, ma la schiena, sicuramente con una o meglio con più ernie del disco, gli dava dolori insopportabili, un peccato perchè aveva tutte le doti di buon generale e buon imperatore. Dovette allora nominare un altro erede ed abdicò in favore del cognato Michele I, che era stato l'unico illeso della famiglia imperiale nella battaglia di Pliska. 

La tradizione vuole che il Khan Krum abbia preso il corpo di Niceforo, lo abbia fatto decapitare per poi fare infilare la testa in cima ad un palo. Infine pare abbia fatto ricavare dal teschio, ricoperto d’argento, una coppa in cui bere con i suoi ospiti. Ciò a dimostrare la barbarie orientale che aveva comunque inquinato quella bizantina.

Questo fece pensare che Michele fosse benedetto da Dio, per cui senato e popolo accettarono facendogli però promettere prima dell'incoronazione, di continuare le trattative di pace con Carlo Magno, la cosiddetta "pax Nicephori", iniziata dal padre. 



LA MORTE

Per le varie ferite riportate, Stauracio morì l'11 gennaio dell'812. Michele si affrettò a concludere la pace con Carlo Magno riconoscendogli il titolo di Imperatore (ma non quello di Imperatore dei Romani) per poter concentrare le sue forze sul fronte bulgaro.


BIBLIO

- Teofane Confessore - Cronaca -
- Cronaca dell'anno - 811 -
- Edward N. Luttwak - La grande strategia dell'Impero bizantino - Rizzoli - 2009 -
- John Julius Norwich - Bisanzio - Milano - Mondadori - 2000 -
- Alexander P Kazhdan - Bisanzio e la sua civiltà - Bari - Laterza - 2004 -
- Giorgio Ravegnani - La storia di Bisanzio - Roma - Jouvence - 2004 -
- Ralph-Johannes Lilie - Bisanzio la seconda Roma - Roma - Newton & Compton - 2005 -

TEMPIO DI APOLLO SOSIANO

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TEMPIO DI APOLLO SOSIANO

APOLLO

"Apollo” scrive Luciano “pretende di saper tutto, tirar d’arco, suonare la cetra, fare il medico e l’indovino e, messe su delle botteghe di mantica, una a Delfi, oltre a Claro, a Colofone e a Didima, imbroglia chi gli chiede un oracolo, dando responsi oscuri e ambigui rispetto all’alternativa posta dalla domanda, per poter sbagliare senza pericolo. E si arricchisce con questo sistema, perché son molti gli sciocchi che si lasciano ingannare.”

In effetti Apollo è il Dio che con le sue frecce scatena la pestilenza e pertanto è pure in gradi di toglierla. Quella che usa le frecce per cacciare era Febe, Dea da lui (ovvero dai suoi seguaci) detronizzata usurpandone il nome Febo.

Ma è pure Dio suonatore di Cetra, strumento che ha fregato a Tersicore relegando lei e le sorelle Muse a suo perenne corteo. Le nove Muse erano nel culto delle Dee primordiali, passate poi sotto al potere di Giove ma in posizione molto elevata, poi vennero ancora declassate epassate sotto il servizio di Apollo.

IL TEMPIO DI APOLLO

In quanto all'arte medica, l'ha usurpata a suo figlio Esculapio, figlio di Arsinoe, che
a Sparta aveva un tempio per cui era una Dea (della Medicina forse?) e in territorio italico a Minerva medica o a Igea, Dea anch'essa della medicina.

Per non parlare dell'oracolo che ha fregato alla Madre Terra, ce ne informa Plutarco Nei suoi "Dialoghi Delfici", dopo averne abbattuto il tempio e obbligato le sacerdotesse a vaticinare per lui dentro il suo tempio.

In realtà Apollo fu un Dio del Sole che ampliò man mano il suo potere, divenendo il protettore della città e del tempio di Delfi. Gli studiosi concordano che il culto del Dio si sia sovrapposto al culto della Grande Madre e che a lei fosse dedicato antecedentemente il santuario di Pito, come racconta Eschilo nelle Eumenidi, per cui Apollo aveva ricevuto il santuario in dono da Gea, Febe e Temi e quindi avrebbe ucciso il serpente Pitone, appunto il serpente sacro alla Madre Terra..
 
PROCESSIONE AL TEMPIO DI APOLLO

IL TEMPIO DI APOLLO SOSIANO

Il tempio di Apollo Sosiano sorge su un’area dove, a partire almeno dal 449 a.c., esisteva un santuario all’aperto con un altare, dedicato al Dio del Sole Apollo, che veniva chiamato Apollinare. L’introduzione del culto nell’Urbe risalirebbe al periodo regio ed esattamente a Tarquinio il superbo.

Il tempio venne promesso nel 433 a.c. da un console della gens Iulia e fu allora che il Dio venne celebrato come Apollo Medico. Nei primi decenni della Repubblica, durante le lotte di Roma per il predominio sul Lazio, si scatenarono carestie e pestilenze, per cui si invocò l’aiuto divino per sanare la popolazione.

Il Dio accorse e vanificò la peste per cui il nuovo tempio venne dedicato due anni dopo ad Apollo Medico, il cui culto proveniva probabilmente da Cuma. Restauri e rifacimenti furono realizzati nel 353 a.c. e nel 179 a.c.. 

PARTICOLARE DEL TEMPIO

Il tempio venne poi ricostruito nei primi del II secolo a.c. quando i nuovi rapporti con la Grecia portarono a Roma nuova cultura e nuova arte. Roma passò dagli elementi decorativi di legno o di terracotta, alla pietra e al marmo. 

Sorsero i lunghi porticati, e uno di questi collegò nel 179 a.c. il tempio di Apollo con quello di Spes nel foro Olitorio. Marco Fulvio Nobiliore fece giungere nel tempio una statua di Apollo, opera di Timarchide, e un mosaico di cui rimangono ancora oggi i resti.

Il tempio era caro a Giulio Cesare in quanto votato da un suo avo, cosi vi fece erigere a fianco un enorme teatro. Non potè però portare a termine il suo progetto perché fu assassinato nel 44 a.c., ma il teatro fu fatto proseguire da Augusto, che lo dedicò al nipote Marcello.

AMAZONOMACHIA

Mentre Ottaviano costruiva un nuovo tempio di Apollo sul Palatino, Gaio Sosio, console fedelissimo di Antonio, ricostruì e abbellì il tempio di Apollo da cui il termine "Sosiano" a partire dal 34 a.c.. Quando Ottaviano Augusto si impadronì del poteresi riappacificò con Gaio Sosio e lasciò il suo nome al tempio.

L’edificio ospitava frequenti riunioni del Senato, spesso destinate a concedere l’autorizzazione per i trionfi, le parate militari a seguito di importanti vittorie. 

IL TEMPIO

DESCRIZIONE

Nel podio attuale del tempio di Apollo Sosiano sono inglobate strutture più antiche con un’iscrizione in mosaico. Il podio è costruito in cementizio, blocchi di tufo e travertino alternati a terra di riempimento, e misura 5,5 metri di altezza, 21,32 in larghezza e 40 in lunghezza.

Le tre splendide colonne, rialzate dopo lo scavo, sono di ordine corinzio e sono alte poco più di 14 m con scanalature alternativamente più larghe e più strette. Il fregio soprastante è ornato a bucrani (crani di buoi) e ghirlande di olivo. 

Il tempio era pseudo periptero, cioè con semi-colonne, 7 in questo caso, addossate ai muri laterali della cella, mentre le colonne erano sei sulla fronte e tre sui lati. L’interno della cella era ornato a marmi policromi e il pavimento era anch’esso realizzato in marmo.


L'interno del tempio aveva preziose opere d’arte, con pitture di Aristide Tebano, sculture di Philiscos di Rodi, di Scopas e di Prassitele. La stessa decorazione del frontone era un’ opera d’arte sottratta ad un tempio greco, reinserita nel tempio di età augustea ed oggi conservata al Museo della Centrale Montemartini, un'amazzonomachia, lotta tra amazzoni e greci, alla presenza di Atena.

La fase Augustea del tempio contempla nel frontone una scena di Amazzonomachia proveniente da un tempio greco di età classica. Di questo frontone si è proposto un tentativo di ricostruzione ora esposto alla Centrale Montemartini, dove si trovano anche parti della cella e il fregio, che mostra il corteo del triplice trionfo celebrato nel 29 a.c.. 

Di età Augustea sono anche le tre colonne con i capitelli corinzi compositi, rialzate ma non ricollocate nella loro posizione originaria, per non coprire la visuale del Portico di Ottavia.



BIBLIO

- Giovanni Vitucci - Linee di storia romana - Roma - 2007 -
- Filippo Coarelli - Roma - Bari - 1980 -
- Piere Gros, Mario Torelli - Storia dell’urbanistica - Il mondo Romano - Bari - 2010 -
- aa.vv. - Storia dell’architettura italiana. Architettura Romana - Milano - 2009 -

LA SECONDA TEUTOBURGO

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"Marcomero, Sunno e Gennobaude invasero le provincie romane di Germania e di Gallia Belgica. Ruppero le difese del limes uccidendo molte persone, distruggendo terre molto fertili e spargendo il panico nella città di Colonia. Dopo questo raid, il grosso dei Franchi tornò oltre il Reno con il bottino. Alcuni Franchi, invece, rimasero nelle foreste belghe. Quando i generali romani Magno Massimo, Nannino e Quintino appresero la notizia a Treviri, attaccarono le forze franche rimaste uccidendone la maggior parte. Dopo la battaglia Quintino attraversò il Reno per invadere la terra dei Franchi, ma venne circondato e sconfitto dalle tribù dei Franchi riunite sotto il comando di Marcomero. Alcuni soldati romani annegarono nelle paludi, altri vennero uccisi dai Franchi, pochi riuscirono a tornare nei territori dell'impero."
(Gregorio di Tours - Historia Francorum)

GREGORIO DI TOURS


LA HISTORIA FRANCORUM

Sappiamo che nel 288 l'imperatore romano Diocleziano (244 - 313) ricevette per la quarta volta l'appellativo di Germanicus maximus, grazie ai successi ottenuti dall'altro Augusto, Massimiano (Marcus Aurelius Valerius Maximianus Herculius 250 - 310), sulla federazione germanica dei Franchi Salii,  che vivevano a nord del limes, lungo la costa a nord del Reno nel territorio del Salland (dal nome dai Salii), oggi regione di Twentw nei Paesi Bassi.

Nel Liber Historiæ Francorum, si narra che un popolo, discendente dai troiani, in Pannonia, era stato sconfitto dall'imperatore Valentiniano I, che li chiamò Franchi (selvaggi) e impose loro un tributo. In seguito però i Franchi si ribellarono, lasciarono la Pannonia, si stabilirono presso il Reno, e si posero a capo re Faramondo, il figlio del Duca Marcomero.

Gregorio, vescovo di Tours, nella sua Historia Francorum, che cita l'opera ormai perduta di Sulpicio Alessandro e  quella di Renato Profuturo Frigerido, narra infatti che i Franchi Sali, guidati dai loro re, chiamati duchi (da dux) dai francesi: 

- Gennobaude, principe dei Franchi Salii,
- Marcomero condottiero franco (dux = duca) di fine IV secolo che invase l'impero nel 388, quando Magno Massimo, usurpatore e capo della Gallia romana, era circondato ad Aquileia da Teodosio I,
- Sunno, un altro duce gallico, anche lui invase l'impero nel 388, quando Magno Massimo era circondato ad Aquileia da Teodosio I.
Questi regnanti, dopo aver invaso la provincia della Germania inferiore, fecero una strage di cittadini romani, devastarono intere regioni depredandole, fino ad arrivare  a Colonia Agrippina che depredarono e devastarono.

MARCOMERO


LA VENDETTA ROMANA

Subito dopo i Franchi si diressero verso il Reno per attraversarlo  e tornare alle proprie terre con l'ingente bottino ottenuto. Non appena la notizia giunse a Treviri dove erano di istanza, Nanneno e Quintino, a cui Massimiano aveva affidato la difesa della Gallia e pure suo figlio, radunarono l'esercito e marciarono su Colonia, piombando sui Franchi che cercavano di attraversare il Reno.

Nanneno e Quintino, ufficiali di Massimo, adunate delle Truppe in Colonia li assalirono, uccisero tutti quelli che non avevano ancora passato il fiume e inseguirono quelli che si erano rifugiati nella foresta di Carborniere,  ai piedi delle Ardenne tra la Schelda ed il Reno, facendone strage.

Massimiano, al termine della campagna ormai vinta riuscì a catturarne il re Gennobaude, che sembra appoggiasse Carausio, che nel 286 aveva usurpato il potere, proclamandosi imperatore della Britannia e della Gallia settentrionale, e si fece restituire tutti i prigionieri romani.



LA NUOVA TEUTOBURGO

A questo punto Nanneno si divise col suo esercito, dall'esercito di Quintino e cercò di tornare a Mogontiacum (Magonza). Quintino passò il Reno presso a Nuitz (presso Colonia Agrippina) e commise una grande leggerezza inoltratosi per due giorni oltre il fiume, dove trovò solo case e villaggi disabitati. Credendo che ciò fosse dovuto alla paura dei nemici in fuga proseguì il viaggio fino alle selve.

I Franchi che si nascondevano all'interno delle selve, avevano usato il sistema della "terra bruciata" affinchè non potessero approvvigionarsi e fossero costretti a inoltrarsi fino alla boscaglia, e così, come era accaduto a Teutoburgo tre secoli prima, attesero i Romani costruendo barricate ai bordi di zone paludose e boscose.

In questo modo dalle torri di avvistamento e dietro una lunga palizzata i Franchi colpirono i romani con le frecce avvelenate, la cavalleria si impantanò e i legionari non potettero mettersi in formazione difensiva. Come a Teutoburgo a fine giornata molti soldati ed ufficiali romani persero la vita sul campo, e solo in pochi si salvarono fuggendo nella notte per riguadagnare il Reno.

Massimiano dispose comunque, malgrado la disfatta, di stanziare alcuni dei Franchi catturati nei territori circostanti Treveri e Bavai, e forse lo stesso re, Gennobaude, che aveva fatto prigioniero. Poi rimpiazzò Nanninus e Quintinus con Charietto e Syrus, che a loro volta dovettero fronteggiare i Franchi.


BIBLIO

- Gregorio di Tours - Storia dei Franchi - Academiae Litterarum Germanicae - libro II -
- Corpus Inscriptionum Latinarum - a cura di Herbert Nesselhauf - 1955 -
- Chris Scarre - Chronicle of the roman emperors - New York - 1999 -
- Edward James - De Franken - Ambo - 1990 -

MARCO GAVIO APICIO - M. GAVIUS APICIUS

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MARCUS GAVIUS APICIUS

Nome: Marcus Gavius Apicius
Nascita: intorno al 25 a.c.
Morte: ?
Professione: Gastronomo, cuoco e scrittore romano


Egli fu un gastronomo, cuoco e scrittore romano, descritto come amante dello sfarzo e del lusso dalle fonti, egli costituisce la principale fonte sulla cucina romana. Non sappiamo nulla sulla famiglia di Apicio. 

Sappiamo però che il suo trattato, “De re coquinaria” non solo influenzò se non dominò la cucina romana, ma fu tramandato nel corso dei secoli e ristampato alla fine del 1400, influenzando i professionisti e gli amanti della cucina rinascimentali.

Sappiamo tuttavia che nel 161 a.c. visse un altro Apicio che, al contrario del nostro cuoco scrittore, si batteva contro lo sperpero alimentare; e vi fu pure un omonimo che visse sotto l’impero di Traiano e che viene ricordato per essere stato lo scopritore di un metodo per conservare fresche le ostriche. Ciò fece pensare che il cognomen non fosse familiare, ma fosse un soprannome che si dava a certi personaggi per il loro amore per lo sfarzo.

La fama di Apicio è giunta fino a noi grazie ai suoi libri di curiose e fantasiose ricette, ma pure per l’elaborazione spesso complicata degli alimenti, come per la cura nella decorazione e presentazione dei piatti, una cura che venne colta con la stessa esaltazione e scenografia dai cuochi rinascimentali. 

Apicio insegna infatti l'uso del cibo come dimostrazione di uno status symbol: con la ricerca di pietanze originali e sorprendenti, funzionale ad esprimere la ricchezza e il potere delle classi più abbienti. Vedi il banchetto di Trimalcione nel Satyiricon di Gaio Petronio Arbiter.



GLI ANEDDOTI

Il più antico è quello trasmessoci da Marziale, secondo il quale Apicio avrebbe cenato a casa di Mecenate, dove si sarebbe inoltre abbandonato a delle pratiche sessuali con un giovane di nome Seiano, prostituitosi per denaro.

- Ebbe un forte rapporto con la famiglia imperiale, specialmente con Tiberio. Sembra infatti che Apicio e Druso minore, figlio dell'imperatore, fossero in amicizia o che almeno si conoscessero. Infatti Plinio il Vecchio ci dice che una volta il gastronomo convinse Druso a non mangiare delle cymae (semi o cime di cavolo) in quanto cibo popolare.

- Apicio viveva molto tempo in una villa di Minturno, città di mare famosa nell'antichità per le dimensioni dei gamberi che vi si pescavano, più grandi di quelli di Alessandria d'Egitto o di Smirne e di cui Apicio era molto orgoglioso di quelli che si trovavano nel mare della sua villa. Un giorno, colto da dubbio, andò in Libia, poiché qualcuno gli aveva raccontato che li si potevano trovare dei gamberi molto più grandi di quelli di Minturno. 
La traversata fu lunga e scomoda, a causa del tempo pessimo, ma Apicio riuscì comunque a giungere in Libia dove già si era sparsa la voce della sua ricerca. Così i pescatori della zona gli portarono i loro gamberi più grandi ma nessuno che eguagliasse i suoi per grandezza, per cui Apicio soddisfatto se ne tornò alla sua Minturno.


- Un'altro aneddoto riguarda le triglie di scoglio che nell'antica Roma avevano un prezzo elevatissimo, perché non si riusciva a farle vivere nelle vasche di stabulazione. L'imperatore Caligola aveva pagato una grossa triglia addirittura 8000 sesterzi. 
Il costo di quella triglia aveva battuto il record precedente realizzato quando l'imperatore Tiberio decise di vendere all'asta una triglia che gli era stata regalata, la più grossa che si fosse mai vista, si dice che pesasse addirittura 2 Kg e mezzo. 
Tiberio aveva previsto che soltanto due potevano essere gli acquirenti: Marco Gavio Apicio e Publio Ottavio, e difatti i due si contesero il pesce per un intero pomeriggio. Alla fine Publio Ottavio vinse e si aggiudicò la triglia per la somma di 5000 sesterzi, con grave scorno di Apicio.

- Si dice che nutrisse le murene con la carne degli schiavi e i maiali con mosto dolce per ottenerne un fegato dal gusto particolare; secondo Plinio il Vecchio, Apicio sarebbe l’inventore del foie gras, sembra infatti che il cuoco romano alimentasse le sue oche con abbondanza di fichi per rendere il loro fegato più grasso e quindi più gustoso. 

- Famosa era la salsa di Apicio, o esca Apicii, un condimento molto diffuso e in voga ai suoi tempi, da cui sarebbe derivata la moderna scapece, termine con cui si indicano oggi pietanze di vario tipo condite e marinate nell’aceto.

- Secondo alcune fonti Apicio avrebbe aperto addirittura una sorta di scuola di cucina, dove i figli dei patrizi imparavano e conversavano di prelibatezze passeggiando come nelle accademie dei grandi filosofi.

- Sulla sua morte ci informa il morigerato e vegetariano Seneca, secondo cui Apicio morì suicida quando s'accorse che il suo patrimonio, ridotto a soli dieci milioni di sesterzi, non gli avrebbe più consentito il tenore di vita a cui era stato abituato.

APICIO

DE RE COQUINARIA

Nel III o forse IV sec. d.c. fu compilata una raccolta di ricette a nome di Apicio, il De re coquinaria (Su ciò che concerne la cucina, o L'arte culinaria), in dieci libri, un manuale di cucina con 478 ricette, forse un rimaneggiamento di un antico ricettario di Marco Gavio.

Secondo altri l'autore di tale opera sia stato un certo Celio (il cui nome compare in alcuni codici dopo quello di Apicio), ma probabilmente il nome Celio appare una fantasia di epoca umanistica. Si tratta di appunti frettolosi e disordinati che costituiscono, tuttavia, la principale fonte superstite sulla cucina nell'antica Roma.

Secondo la versione più accreditata, l’opera deriverebbe dalla fusione di due unità distinte, solo successivamente unite: un testo dedicato interamente alla preparazione delle salse, e un libro di ricette illustrate.

Nel trattato di Apicio si trovano le informazioni più disparate: dalle ricette vere e proprie alle indicazioni su come conservare i cibi, come distinguere un alimento cattivo da uno buono, o come preparare la cacciagione, ma pure ricette assurde, come ad esempio i talloni di dromedario, creste di volatili vivi, usignoli, o “pasticci di lingue di pappagalli parlanti”.

In questo caso una cucina ideata per stupire nella ricercatezza di animali particolari che solo i ricchi possono offrirsi, ricette che consumano una parte esigua degli animali per mettere in evidenza la costosità dei piatti che solo pochi fortunati, e cioè i ricchi, potrebbero concedersi.insoliti ed esotici, una specie di culto snob del cibo. D'altronde i commerci erano prosperosi e Roma poteva importare prodotti da ogni parte del suo vasto impero.


 
IL CONDIMENTO

I commensali di Roma antica disponevano di numerosi condimenti e spezie provenienti da ogni parte dell'impero. Le cene dei ceti abbienti prevedevano carne, pesce e verdura condite da salse dolci, agrodolci e salate.

Non variava granchè la cottura degli ingredienti se non per l'enorme varietà dei condimenti, dei quali trionfavano:
- la salsa base di pesce (garum o liquamen), Apicio ne riporta ben 20 ricette.
- l mosto cotto e rappreso (defrutum),
- il miele, verdure, spezie, venivano usate in abbondanza come condimenti, sia singolarmente che mescolate tra loro, generando un'infinità di gusti diversi.

In realtà non si conosce nè la composizione nè la modalità di preparazione del garum, che magari essendo così popolare, non aveva spinto alcun cuoco a scriverne la ricetta.



RICETTE DI APICIUM

Per il garum 
“ Si prendono pesci grossi come salmoni, anguille, sardine: quindi a tali pesci si uniscono sale, erbe aromatiche secche come l’aneto, la menta, il levistico, il puleggio, il serpillo. Di queste erbe si deponga un primo strato sul fondo di un grande vaso. Si faccia quindi un altro strato di pesci interi se piccoli, a pezzi se grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione dei tre strati fino a quando il vaso sia colmo. Si chiuda il vaso e si lasci macerare per sette giorni. Poi per altri venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola”.

Le scaloppine di Apicio 
- (per 4 persone): "lasciare a riposo una notte 200 g di pinoli e 200 g di noci sgusciate nel Garum; schiacciarli poi ammorbidendoli con altro garum. Aggiungere sale, pepe, timo, olio e aceto " In questo condimento cuocete le scaloppine di carne.

Struzzo lesso (di Apicio)
- Metti a bollire in una pentola il pepe, la menta, il cumino abbrustolito, i semi di sedano, i datteri comuni o carioti, il miele, l'aceto, il passito, il garum e un po' d'olio. Fai addensare con l'amido, poi disponi in un piatto lo struzzo tagliato a pezzi, coprilo con la salsa ottenuta e cospargilo di pepe.

Pancetta e fave (di Apicio) 
- Far soffriggere la pancetta poi aggiungere i semi aromatici, il timo e le fave. Allungare con acqua e cuocere. 

- Gru o anatra lessata (di Apicio) 
- lessa insieme a pepe, ligustico, cumino, coriandolo, menta, origano, pinoli, carota, garum, olio, miele, senape, e vino.

Esicia Amulata (di Apicio) 
- Mettere la coda vaccina a pezzi nell'acqua fredda con le erbe, la cipolla prima soffritta, lo zenzero grattugiato, miele, colatura e pepe. Far cuocere schiumando ogni tanto. Scaldare il burro, aggiungere mescolando la farina e lasciar riposare. Filtrare il brodo e farlo ancora bollire con la carne e salare.

- Pesce salato senza pesce (di Apicio)
- Cuoci il fegato, di lepre o di capretto o di agnello o di pollo, poi pestalo unendoci pepe o garum o sale. Dagli la forma di un pesce e ponilo in uno stampo con olio sotto e sopra.

- Polpette di carne di Apicio -
- (x4 persone): amalgamare 5 etti di carne trita di maiale (o manzo) con 1,5 hg di mollica di pane ammorbidita nel vino. Unire con pepe, un cucchiao di garum e 500 g di pinoli. Cuocere le polpette in un bicchiere di vino.

Esicia de cauda eius -
(polpette di coda di gambero, di Apicio) code lessate e sgusciate, pepe macinato, uova, mollica di pane sbriciolata. Passarle nella farina e poi nel forno forno.

- Terrina Tyrotaricha di pesce salato (di Apicio)
- Pulisci e cuoci in olio il pesce, poi uniscilo a cervella cotte, fegatini di pollo, uova sode, formaggio tenero, e scalda in terrina. Pesta pepe, ligustico, origano e una bacca di ruta unendoli a vino, mulso e olio cuocendo a fuoco lento. Poi unisci il tutto mescolando uova crude e spruzza con cumino.

- Locustas-scillas (Cavallette-gamberoni - di Apicio) 
- Mescolare pepe verde macinato, semi di sedano, ligustro, aceto, liquamen e tuorli d'uovo sodo. Versare sui gamberetti già lessati e servire. (il nome cavallette è solo per il colore verdolino che assumono i gamberi col condimento)

- Terrina Tyrotaricha di pesce salato (di Apicio)
- Pulisci e cuoci in olio il pesce, poi uniscilo a cervella cotte, fegatini di pollo, uova sode, formaggio tenero, e scalda in terrina. Pesta pepe, ligustico, origano e una bacca di ruta unendoli a vino, mulso e olio cuocendo a fuoco lento. Poi unisci il tutto mescolando uova crude e spruzza con cumino.

Pesci ai porri (di Apicio)
- Prendi i pesci lavali e sistemali in padella. Metti olio, garum, vino, un mazzetto di porri e coriandoli; fai cuocere. Polverizza pepe, origano, ligustico e il mazzetto allessato; tritura e tempera con salsa piccante. Lega; e quando sarà ben soda, servila con una spruzzata di pepe.

Frittata di ortiche (di Apicio) 
- "Prendi le ortiche, lavale, scolale, falle asciugare su una tavola e poi tagliale a pezzetti. Trita 10 scupoli di pepe, bagna con il liquamen e frega bene contro le pareti di mortaio il composto. Poi aggiungi 2 manciate di liquamen e sei once d’olio e fa bollire in pentola. Dopo che ha bollito mettila a raffreddare. Ungi d’olio una teglia, sbatti 8 uova e aggiungi le ortiche. Si sistema nella teglia e si pone con cenere calda sia sotto che sopra (il coperchio)."

- Dulcia domestica (di Apicio) 
- Farcisci con un composto di noci, pinoli e pepe tritati i datteri snocciolati. Sala il tutto e scalda nel miele cotto.


BIBLIO

- M. Gavio Apicio - De opsoniis et condimentis - Amstelodami, apud Janssonio-Waesbergios - 1709 -
- Bevande e condimenti - da Obsoniis et condimentis - ad opera di di G. Baseggio - ed. G. Antonelli - Venezia - 1852 -
- Opere di Marco Gavio Apicio - su digilibLT - Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro -
- De re coquinaria libri decem - Chr. Theophil. Schuch (a cura di) - Heidelbergae, in libraria academica Caroli Winter -1874 -
- De Re Coquinaria - Walter M. Hill - in penelope.uchicago.edu - Chicago - 1936 -
- Opere di Caelius Apicius - PHI Latin Texts - Packard Humanities Institute -

BASILICA SS. QUATTRO CORONATI

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LA BASILICA


" (Mons Caelius) E' il nome che prende una delle XIV regioni, la II, in cui Augusto divise la città di Roma. La regione è tutta dentro quel tratto di cortina, che va dalla porta Capena (s. Gregorio) alla Caelimontana (ss. Quattro coronati); la strada che dal centro della città conduceva a questa seconda porta (Via dei ss. Quattro), divideva la II dalla III regione"

(Rodolfo Lanciani, BM. 1890)

La basilica venne costruita alla metà del IV secolo d.c. sui resti di una residenza aristocratica di età tardoantica che era collocata lungo l'antica via Tuscolana, nel percorso corrispondente all'attuale via dei Santi Quattro sul colle Celio, e fu ricostruita da papa Leone IV (847-855) in un grande edificio a tre navate, cripta, e quadriportico con torre in facciata.

L'ESTERNO

L'edificio sorge sull'omonima via dei SS.Quattro, che corrisponde al tratto iniziale dell'antica "Via Tusculana", la quale proveniva dal Colosseo, fiancheggiava a sud il "Ludus Magnus", usciva dalle Mura Serviane dalla "Porta Querquetulana" (situata proprio all'altezza dei Ss.Quattro) e, dopo essersi incrociata con la "Via Caelimontana", usciva da una posterula presso S.Giovanni in Laterano e si dirigeva verso Tuscolo (Frascati).

La chiesa oggi ha l'aspetto di una rocca medioevale, circondata da imponenti mura e sormontata da una torre. Il nucleo originario fu costruito nel IV secolo ed era una ricca residenza aristocratica, ristrutturata da papa Melchiade con il nome di "titulus Aemilianae" o "titulus Ss. Quattuor Coronatorum", del quale sopravvive ancora l'abside ed alcuni resti situati al di sotto dell'attuale basilica.


L'aula absidata fu convertita in luogo di culto cristiano da prima del 499, quando si ebbe la prima attestazione del "titulus Aemilianae". Lungo le pareti del chiostro Antonio Munoz realizzò un antiquarium costituito dai reperti. 

Sulla parete ovest si notano frammenti di recinzioni liturgiche e di altari cosmateschi appartenenti al periodo basso-medievale della basilica, oltre a resti di cornici romane, e di sarcofagi classici che erano stati riutilizzati come altari. 


Infine a nord, sulla parete di ingresso, si trova una collezione dei tipici bolli che venivano impressi sui mattoni romani, una lapide sepolcrale quattrocentesca e frammenti di trabeazione marmorea classica.

All'interno della chiesa i capitelli delle colonne sono di spoglio, provenienti da altre costruzioni antiche. Negli affreschi compaiono figure umane che si stagliano su un prezioso sfondo blu realizzato in azzurrite e che rappresentano i dodici mesi. a

Al di sopra dei mesi sono raffigurate le Arti, nei costoloni della volta le quattro stagioni e sulla vela i segni zodiacali, oggi in parte perduti. Comunque di epoca medievale, forse del periodo iconoclasto in cui era proibito raffigurare immagini sacre.

PAVIMENTO COSMATESCO

La chiesa insiste sull'area precedentemente occupata dalla navata sinistra della chiesa antica e il suo splendido pavimento cosmatesco in marmo policromo è stato ricavato dal mosaico del tempio originario. 

A pianta rettangolare, presenta reperti paleocristiani e romani alle pareti e quattro gallerie divise in due campate da pilastrini sui quali sono scolpite paraste scanalate e rudentate. Le campate sono formate da una serie di otto archetti nei lati lunghi e di sei nei corti.


BIBLIO

- L. Rendina - I chiostri di Roma -
- E. Marino - Santi Quattro Coronati - Roma Sacra -
- S. Vistino - I Santi Quattro Coronati - Roma ieri, oggi e domani -
- Lia Barelli - The Monumental Complex of Santi Quattro Coronati in Rome -

EROI ROMANI DELLA RIVOLTA GIUDAICA

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IL CENTURIONE (by Tomas Duchek)

Nel II e I secolo a.c., soprattutto gli ultimi anni della Repubblica romana, vi furono continue campagne militari. Prima le guerre di conquista, come quelle di Pompeo in Oriente e di Giulio Cesare in Gallia; poi le guerre civili di cui furono protagonisti gli stessi Cesare e Pompeo. Le fonti letterarie abbondano di azioni militari in cui i centurioni si mostrarono valorosi e e perfino temerari. 

Qualsiasi legionario volenteroso e capace poteva diventare centurione, era una carriera aperta a tutti, anche ai plebei e molti erano disposti a rischiare molto per ottenere la qualifica di Primus Pilus, nonostante i centurioni morissero in battaglia più spesso di tanti altri.

I centurioni erano i sottufficiali di più alto rango dell’esercito di fanteria legionaria. Erano militari di carriera, cioè iniziavano come soldati semplici e salivano di grado per anzianità ma soprattutto per merito, scalando la struttura della legione.

«I romani riguardo alla loro organizzazione militare, essi hanno questo grande impero come premio del loro valore, non come dono della fortuna. Non è infatti la guerra che li inizia alle armi e neppure solo nel momento dei bisogno che essi la conducono, al contrario vivono quasi fossero nati con le armi in mano, poiché non interrompono mai l’addestramento, né stanno ad attendere di essere attaccati. 

Le loro manovre si svolgono con un impegno pari ad un vero combattimento, tanto che ogni giorno tutti i soldati si esercitano con il massimo dell’ardore, come se fossero in guerra costantemente. Per questi motivi essi affrontano le battaglie con la massima calma; nessun panico li fa uscire dai ranghi, nessuna paura li vince, nessuna fatica li affligge, portandoli così, sempre, ad una vittoria sicura contro i nemici. Non si sbaglierebbe chi chiamasse le loro manovre, battaglie senza spargimento di sangue e le loro battaglie esercitazioni sanguinarie

(Giuseppe Flavio, La Guerra Giudaica, III)

GERUSALEMME


LA RIVOLTA EBRAICA

Sotto il procuratore Gessio Floro, la cui amministrazione non fu forse delle migliori, scoppiò la rivolta, nel 66 d.c., sia perchè Caligola cercò di installare i suoi ritratti nel tempio di Gerusalemme, sia per l'’obbligo dei tributi, per i sacrifici all’imperatore, per il presidio romano, per l’investitura del sommo sacerdote, per l’amministrazione della giustizia che in ultima istanza era affidata al governatore romano, ma fu soprattutto a causa degli zeloti.

Nel maggio del 66 Gessio Floro confiscò parte del tesoro del tempio come contributo alla tassazione romana, provocando la ribellione di tutta la Giudea, nonostante i tentativi di riconciliazione di alcuni giudei come quello dello stesso re Agrippa II.

«Quando divampò questo immane conflitto i romani attraversavano un periodo di difficoltà, mentre il partito rivoluzionario dei giudei era allora al culmine delle forze e dei mezzi e approfittò di quel momento di confusione per insorgere, sì che per la gravità degli sconvolgimenti la situazione in Oriente destò negli uni speranza di acquisti, negli altri timore di perdite.» 

(Giuseppe Flavio, La Guerra Giudaica, I, 4, 2)

Nel 67, Vespasiano assediò la quasi inespugnabile fortezza di Iotapata, dove si era rinchiuso Giuseppe, divenuto poi Flavio. I romani costruirono un terrapieno e massacrarono con ben 160 macchine d’assedio i difensori della fortezza:

«…tra gli uomini che si trovavano sulle mura attorno a Giuseppe un colpo staccò la testa facendola cadere lontano tre stadi. All’alba di quel giorno una donna incinta, appena uscita di casa, fu colpita al ventre e il suo piccolo venne scaraventato a distanza di mezzo stadio, tanto era la potenza della balista. Tutto il settore delle mura, dinanzi al quale si combatteva, era intriso di sangue, e lo si poteva scavalcare attraverso una scalata sui cadaveri

(Giuseppe Flavio, La Guerra Giudaica, III)

Dopo diversi anni di duri conflitti i romani riuscirono a cingere d’assedio Gerusalemme. Le operazioni erano guidate da Tito, mentre il padre Vespasiano si era recato ad Alessandria per seguire la guerra civile (si era negli anni dei 4 imperatori e gli eserciti orientali e danubiani marciavano verso l’Italia). 

L'assedio sembrava un'operazione molto difficile, sia per la strenua resistenza dei difensori, sia per la natura di Gerusalemme, cinta da più anelli di mura. Giuseppe Flavio racconta di un ausiliario che si offrì per primo di scalare la torre Antonia durante l’assedio di Gerusalemme:



SABINO IL SIRIANO

«Tutti restavano paralizzati dalla gravità del pericolo; soltanto un uomo delle coorti ausiliarie, un certo Sabino nativo della Siria, si dimostrò un soldato di straordinario valore per forza e coraggio. Fu lui il primo a levarsi dicendo: “Io ti offro volentieri la mia vita, o Cesare (Tito); sarò il primo a dar la scalata al muro" sollevò con la sinistra lo scudo sopra la testa e, sguainata con la destra la spada, si avventò verso le mura: era esattamente l’ora sesta di quel giorno. 

Non lo seguirono che solo undici uomini, emuli del suo coraggio, ma egli precedeva tutti di molto. I difensori dall’alto del muro li bersagliarono con giavellotti e tirarono un’infinità di frecce e fecero rotolare giù degli enormi macigni; ma Sabino, affrontando i proiettili e ricoperto di dardi, non frenò il suo slancio prima di essere arrivato in cima e di aver sbaragliato i nemici. Infatti, i giudei, sbigottiti dalla sua forza e dal suo coraggio, e anche perché credettero che a dar la scalata fossero stati di più, si diedero alla fuga [Sabino] mise un piede in fallo e, urtando contro una roccia, vi cadde sopra con un gran colpo. 

I giudei si voltarono indietro e, avendo visto che era solo e per di più caduto, si diedero a colpirlo da tutte le parti. Quello, levatosi su un ginocchio e riparandosi con lo scudo, dapprincipio si difese e ferì molti di quelli che gli si avvicinavano; ma ben presto per le molte ferite non poté più muovere la destra e alla fine, prima di spirare, fu sepolto sotto un nugolo di dardi Degli altri undici, tre che erano già arrivati in cima furono colpiti e uccisi a colpi di pietra, mentre gli altri otto vennero tirati giù feriti e ricondotti nell’accampamento. Quest’azione si svolse il terzo giorno del mese di Panemo (giugno).»

(Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VI)

Infine Tito, seguendo le indicazioni di un disertore, riuscì a guidare una incursione notturna che permise alle legioni di penetrare in città non visti. I romani, esasperati dai duri scontri, si daranno a un massacro, mentre Giuseppe, nascosto in una grotta, si salverà dal suicidio collettivo con l’inganno, dandosi poi a Vespasiano cui avrebbe predetto l’impero, ricevendo poi da lui la cittadinanza e il nome di Flavio. Grazie alla sua salvezza conosciamo molti degli eventi bellici della guerra.



IL CENTURIONE

In tutto l’impero dovevano esserci costantemente all’incirca 1.800 centurioni. Uomini simili al Giuliano di cui andiamo a scrivere: energici, valorosi e spietati, capaci di incutere rispetto e ammirazione ai loro sottoposti e terrore nel nemico.  Una legione era formata da 10 coorti, numerate dalla I alla X, e ogni coorte si suddivideva in sei centurie di 80 soldati ciascuna. La promozione del centurione culminava con l’accesso al comando di una centuria della I coorte, la più importante di tutte. 

A capo di tutti i centurioni di una legione c’era il cosiddetto primus pilus, ovvero la “prima lancia”. Era il primo centurione della I coorte, e i suoi compagni formavano il rango dei primi "ordines", ossia quello dei centurioni di maggior grado e riconoscimento nella legione. Quando si ritirava, il primus pilus riceveva una ricompensa e il titolo di primipilare (cioè di ex primus pilus). I primipilari erano tenuti in particolare considerazione e potevano ottenere cariche come, per esempio, quella di prefetto dell’accampamento o di tribuno delle coorti di stanza a Roma. 

In epoca imperiale si poteva anche diventare centurioni dopo essere stati pretoriani, ossia membri della guardia personale dei sovrani, o grazie a una nomina diretta da parte dell’imperatore stesso, come accadeva nel caso di alcuni membri dell’ordine equestre. Alla fine di ogni battaglia facilmente rimanevano sul campo i centurioni, praticamente tutti eroi, coraggiosi e spesso temerari.

LA PRESA DI GERUSALEMME


IL CENTURIONE GIULIANO

I romani riuscirono a prendere la fortezza dell’Antonia, dove prima della guerra risiedeva la guarnigione romana, ma non riuscivano ad avanzare ulteriormente nel piazzale sottostante, che portava al tempio. Fu allora che intervenne il centurione Giuliano che:

« Grande esperto nell’uso delle armi, con una prestanza fisica ed una forza d’animo superiore a tutti quelli che io conobbi nel corso di questa guerra, egli, vedendo che i Romani stavano ormai cedendo e opponevano una resistenza sempre più debole, trovandosi sull’Antonia al seguito di Tito, saltò giù e da solo respinse i Giudei che stavano avendo la meglio fino all’angolo del piazzale interno. Davanti a lui tutti scappavano, poiché appariva come un uomo di forza e coraggio superiori. 

Mentre i nemici fuggivano in ogni direzione, uccideva tutti quelli che raggiungeva, sotto lo sguardo ammirato di Tito Cesare e il terrore dei Giudei. Egli come gli altri soldati aveva i sandali con sotto numerosi chiodi e, mentre correva, scivolò sul pavimento e cadde con un gran rumore dell’armatura, tanto che gli avversari ormai in fuga, si voltarono indietro a guardare. Si alzò dall’Antonia un urlo dei Romani, in ansia per la sua sorte, mentre i Giudei lo circondarono e lo colpirono da ogni parte con lance e spade. 

Egli riuscì a ripararsi da molti colpi con lo scudo e più volte cercò di rimettersi in piedi, ma non vi riuscì poiché gli assalitori erano troppo numerosi, e pur rimanendo disteso riuscì a ferirne molti con la sua spada. Ci volle non poco tempo per ucciderlo, poiché aveva tutti i punti vitali difesi da elmo, corazza e teneva il collo incassato fra le spalle. Alla fine con tutte le membra amputate, e senza che nessuno provasse ad aiutarlo, morì.»

(Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VI)

La sua morte non fu però vana. I romani riuscirono ad arrivare al tempio, ultimo baluardo di resistenza. Il 7 settembre del 70 d.C. cadeva il palazzo di Erode a Gerusalemme: Tito completava la conquista della città. Presa dopo un lungo assedio, con gli assediati che furono costretti anche ad atti di cannibalismo per sopravvivere, vide anche la distruzione del Tempio, incendiato accidentalmente durante gli scontri, e da cui i romani cercarono di recuperare tutti i tesori possibili prima che crollasse. 

Al termine dell’assedio di Gerusalemme Tito assegnò i premi ai soldati:
«Dette ordine a chi era preposto a farlo, di leggere i nomi di tutti quelli che avevano compiuto particolari gesti di valore durante la guerra. E quando questi si facevano avanti, egli, chiamandoli per nome, li elogiava, si congratulava con loro delle imprese compiute quasi fossero le proprie, li incoronava con corone d’oro, distribuiva poi collane d’oro e piccole lance d’oro e vessilli d’argento. 

A ciascuno poi concesse di essere promosso al grado superiore. Distribuì anche dal bottino una grande quantità di argento, oro, vesti e altri oggetti. Quando tutti furono ricompensati Tito scese tra grandi acclamazioni e si recò a compiere i classici e rituali sacrifici per la vittoria. Presso gli altari vi era un gran numero di buoi ed egli, dopo averli sacrificati, li distribuì all’esercito affinché banchettasse. Passò poi con i suoi generali a festeggiare per tre giorni.»

(Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VII)

Flavio Giuseppe aggiunge che il futuro imperatore rimase profondamente commosso quando dalla torre vide morire colui che un attimo prima era al suo fianco. Il centurione Giuliano, come Sabino il Siriano,  entrò nei Campi Elisi degli eroi, cadendo con orgoglio e onore non solo davanti ai suoi compagni, ma anche di fronte ai nemici.


BIBLIO

- Giuseppe Flavio - La Guerra Giudaica - III IV -
- Giulio Firpo - Le rivolte giudaiche - Bari - Laterza - 1999 -
- Giovanni Brizzi - 70 d.c. La conquista di Gerusalemme - Roma-Bari - Laterza - 2015 -
- Martin Goodman - Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche - Roma-Bari - Editori Laterza - 2009
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