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IL TRIONFO

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Nell'antica Roma il trionfo era la più alta ricompensa militare, seguito poi dall'ovazione, un onore tributato a un generale dell'esercito romano che avesse non solo vinto, ma in modo eccezionale per la bravura e il coraggio.
Il generale in causa inoltre doveva richiederlo al Senato e questi doveva approvare la richiesta. Il richiedente doveva essere stato investito dell'imperium maius ed essere stato comandante effettivo in capo.

Se i comandanti dell'esercito fossero stati due, rivestiti di pari grado, l'onore era devoluto soltanto a quello che nel giorno della battaglia decisiva avesse esercitato l'autorità suprema, con l'auspicium e l'imperium. Le ingenti spese che la solenne cerimonia del trionfo comportava, venivano assunte dallo stato in seguito a votazione del Senato.
Se il richiedente fosse già entrato nel recinto urbano di Roma, prima di chiedere e ottenere il trionfo, ne perdeva ogni diritto. Egli doveva infatti attendere col suo esercito reduce dalla guerra, fuori del pomerium della città; doveva cioè conservare l'imperium che si deponeva appena chi ne fosse investito avesse varcato la soglia di una delle porte della cinta serviana. Nella sosta, talvolta lunga, il candidato al trionfo e il suo esercito si accampavano nel Campo Marzio.

Nella celebrazione del Trionfo il corteo si formava nel Campo Marzio ed entrava in città dalla Porta Triumphalis, traversava il Velabrum e il Circus Maximus, percorreva la via Sacra e il Forum, ascendeva il clivus Capitolinus e si fermava dinnanzi al tempio di Giove Capitolino.
Secondo Orosio, da Romolo a Vespasiano furono riportati 320 trionfi; e circa una trentina furono celebrati in età posteriore.



DURANTE LA MONARCHIA

Il trionfo era il massimo onore tributato con cerimonia solenne al generale che avesse conseguito una vittoria importante per la patria. Il primo a ottenerlo fu Romolo, il quale dopo aver ucciso il re dei Ceninensi, lo celebrò percorrendo la via Sacra fino al Campidoglio, deponendo nel tempio di Giove Feretrio le spolia opima nel 752/751 a.c: (Tito Livio - Fasti)

"Romolo, figlio di Marte, re, trionfò sul popolo dei Ceninensi, alle calende di marzo"
Però Romolo andò a piedi mentre in seguito, a partire dai Tarquini il percorso si fece su un cocchio. Tale onore rimase in auge quando un comandante romano  batteva un comandante nemico a duello, e in tal caso portava le spoglie, Spolia Opima, al Tempio di Giove Feretrio.

Il trionfo nacque dunque in epoca monarchica, infatti  poi Tarquinio Prisco celebrò il trionfo nel 598 sui Latini, nel 588 sugli Etruschi e nel 585 contro i Sabini.

Il che fa pensare che fosse anzitutto una consuetudine etrusca, visto che questo popolo amava molto i festeggiamenti. Solo per i funerali le celebrazioni etrusche duravano da una settimana a 15 giorni, e i Romani molto copiarono dagli Etruschi, che erano piuttosto guerrieri.

Il trionfo fu accordato anche per vittorie navali. Il primo esempio fu quello di C. Duilio, in ricompensa della disfatta da lui inflitta alla flotta cartaginese nell'anno 260 a.c.

Il trionfo romano,secondo alcuni studiosi, diventa prevalentemente celebrazione solenne e festa della vittoria: mentre il significato originario del trionfo era connesso ad un’idea di espiazione per il sangue versato dunque ispirato a sentimenti religiosi.
Sicuramente l'idea dell'impurità del combattimento in cui si è versato sangue umano si evidenzia anche nel rito dell'armilustrium, ma anche nel rito di ringraziamento a Giove o chi per lui, nonchè con i doni dei bottini ai templi, affinchè il sangue versato non ricadesse sui generali o sui soldati.



IL VOLTO DIPINTO DI ROSSO

Il re sfilava col viso tinto di rosso, il che lo equiparava a un Dio, (Giove capitolino aveva il volto dipinto di rosso, ma pure Dioniso a Corinto) col manto rosso, con l'alloro sul capo e lo scettro in mano.

Il volto dipinto di rosso richiamava il sangue dei nemici uccisi, sicuramente un'antica usanza tribale per spaventare gli avversari, qualcuno però sostiene avesse anche un aspetto espiatorio, cosa che non concordiamo molto, dato l'aspetto apertamente cruento, tanto cruento che era proibito entrare nel pomerio con la pittura rossa sul viso, nè tanto meno incontrarsi in seduta coi Senatori.

Alcuni autori hanno sostenuto che il colore rosso ricordava il colore di Giove nelle antiche statue di terracotta. A noi sembra alquanto improbabile, primo perchè tutte le statue antiche erano in terracotta e non solo quella di Giove, secondo occorre tener presente che a seconda delle zone la terracotta era gialla anzichè rossa, e quarto perchè il rosso era una tinta decisamente squillante, molto simile al colore del sangue. Insomma il colore rosso era una dichiarazione di guerra.

Era uso inoltre che il trionfatore portasse al collo una bulla con amuleti per scongiuro, contro l'invidia e la magia degli invidiosi.



L'ARCO TRIONFALE

Il significato d’espiazione sembra sottolineato dal passaggio dell’arcus e della porta triumphalis. Nel passaggio sotto l’arco e la porta si compirebbe un rituale di espiazione e quindi di purificazione da una condizione precedente di impurità: di questo rituale di espiazione esemplificato da “un passar sotto” abbiamo testimonianza nell’episodio narrato da Livio a proposito del Tigillum Sororium, che però non riguarda il trionfo.

Si trattava di un trave sostenuto da due pali che sorgeva a Roma alle falde della Velia, accanto agli altari di Giunone Sororia e di Giano Curiazio. Vi si compivano cerimonie di carattere espiatorio. Il culto era in origine gentilizio, della gente Orazia: qui, infatti, l’Orazio superstite del duello con i Curiazi sarebbe stato purificato, dopo aver ucciso la propria sorella. Anche se di altro genere l'arco rudimantale fa da passaggio dall'impuro al puro, come porta di espiazione.

L'arco tuttavia più che una purificazione sa di celebrazione e testimonianza dell'eroe vincitore per l'eternità. Era molto viva tra i romani l'idea che il rimanere eterni dipendeva dal rimpianto dei cari prima e dei posteri poi. Anche se la loro religione non lo stabiliva c'era l'idea greca dell'eroe che accedeva al mondo dei beati nei Campi Elisi.

Immortalarsi nei monumenti pertanto non solo era un'opera di propaganda presso i vivi ma pure un viatico di eternità presso i morti.



L'ONORE DELLE ARMI

Ma l'arco aveva pure una connotazione di riconoscimento, era la porta sotto cui solo gli eroi potevano passare. Ad esso coincide un po' o almeno lo richiama, l'onore delle armi, che pare che sia stato preteso ai Romani da truppe degli sconfitti Iberi; i legionari lo avrebbero poi adottato come regola d'onore, applicandolo in parte ai trionfi.

All'armata sconfitta, seppur disarmata ma con i propri vessilli, si concedeva di passare in rassegna una rappresentanza dell'esercito vittorioso, come fosse stata la vincitrice.

L'esercito vittorioso, al passaggio del valoroso avversario sconfitto, alzava le armi come spesso si usava per osannare un capo o un eroe..Poichè le armi alzate erano inclinate verso i vinti ma aldisopra delle loro teste, queste formavano una specie di arco, da cui probabilmente derivò l'uso dell'arco, prima di legno e poi di pietra.



LA CORONA D'ALLORO

Il giurista Masurio Sabino nei Fasti o i Commentarii de indigenis, che illustrano antiche consuetudini e cerimonie, collegi sacerdotali, riti e trionfi militari, riporta a detta di Plinio, che esisteva la celebrazione dell’alloro, perché, brandito anche dai nemici armati, è simbolo di pace:

"Ipsa pacifera, ut quam praetendi etiam inter armatos hostes quietis sit iudicium.Romanis praecipue laetitiae victoriarumque nuntia additur litteris et militum lanceis pilisque, fasces imperatorum decorat".

e lo mette in relazione l’alloro con pratiche espiatorie, come riferisce ancora Plinio:
"Ob has causas equidem crediderim honorem ei habitum in triumphis potius quam quia suffimentum sit caedis hostium et purgatio, ut tradit Masurius."

Plinio aggiunge che veniva deposto sulle ginocchia di Giove Ottimo Massimo, ogni volta che una nuova vittoria ha apportato gioia: "In gremio Iovis Optimi Maximi deponitur, quotiens laetitiam nova victoria adtulit". Pertanto il trionfatore cinto d'alloro era in un certo senso equiparato a Giove.

Inoltre venne usato nei trionfi, perché sacro ad Apollo a cui anche i primi re di Roma avevano l’abitudine di inviare doni. Riferisce ancora Plinio che l’alloro era sacro anche perchè, unico tra tutti gli alberi, non viene mai colpito dal fulmine.



DURANTE LA REPUBBLICA

Eutropio - Breviarium ab Urbe condita:
"Ma contro Camillo sorse un'aspra invidia, col pretesto di ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l’esercito romano a dieci miglia dall'Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono la città. Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l'assedio e si ritrassero. Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l'oro, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato "secondo Romolo" come fosse egli stesso fondatore della patria."

All'epoca della prima Repubblica la consuetudine del trionfo rimase, ma per celebrare il trionfo il console o il generale che vi aspirava lo chiedeva al Senato e doveva dimostrare di aver ucciso almeno 5.000 nemici.

Si narra che le teste dei 5.000 uccisi venivano infisse sui pali e venissero fatte sfilare prima davanti alla casa del vincitore e poi nel Foro, dove i pali venivano infissi nel terreno e le teste lasciate a decomporsi.

Si denominava la Negatio Capitis, consuetudine oltre che sanguinaria anche pericolosa, perchè la decomposizione poteva portare anche il colera, e il fetore doveva rendere inagibile mezza città, oltre al foro.

Sicuramente le teste venivano bruciate dopo il primo giorno, ma si ha notizia che una cerimonia di questo genere fu celebrata dal sanguinario Silla, che il mattino del 2 novembre dell'82 a.c. fece sfilare di fronte alla sua casa le teste di 6.000 soldati mariani, quasi tutti sanniti, uccisi nella Battaglia di Porta Collina il giorno prima. Comunque ufficialmente Silla ottenne il trionfo per la vittoria su Mitridate, e anche perchè il senato non osava opporsi a lui.

Uno dei trionfi più spettacolari fu il trionfo celebrato nel 61 a.c. da Pompeo, vittorioso su Mitridate, del quale abbiamo una lunga e dettagliata testimonianza di Plinio, che non nasconde la sua ironia su alcuni eccessi, come il ritratto di Pompeo, composto di perle.

Anche il quinto trionfo di Cesare, nel 45, fu concesso per la vittoria sui pompeiani di Spagna che non potevano essere considerati alleati di aggressori stranieri.

Ma  il senato poteva rispondere sui requisiti richiesti per il trionfo con una certa elasticità, tanto che nelle fonti si scrive di un "Numero giudicato adeguato" di nemici uccisi, senza un riferimento preciso, e pure sulla qualità dei nemici, specie quando temeva per la sua incolumità.



IL PRIMO TRIONFO 

Il primo trionfo in epoca repubblicana e decretato dal popolo romano venne deciso nel 449 a.c., quando da soli tre anni Roma si era liberata dall'oppressione dei Decemviri che, eletti per emanare le leggi, assunsero un potere violento e dittatoriale che sfociò in una rivolta contro Appio Claudio.

Sotto i Decemviri l'esercito romano non aveva brillato nelle battaglie contro i nemici che minacciavano Roma, violando tra l'altro il patto di soccorso ai Sabini, cosa che fece credere alle popolazioni circostanti che Roma fosse sul punto di crollare.

Il suicidio di Appio Claudio e di Spurio Oppio mise fine all'oppressione dei Decemviri sulla plebe e Lucio Valerio Potito partì contro l'esercito di Equi e Volsci uniti, mentre Marco Orazio Barbato fu inviato a combattere i Sabini.

Equi e Volsci si erano radunati al Monte Algido dove, già nel 458 a.c.aveva vinto Cincinnato, ma due anni i Romani erano stati sconfitti dagli Equi. Il console Valerio si accampò a poca distanza dal nemico vietando qualsiasi risposta alle scaramucce nemiche.

Gli Equi e i Volsci, visto che i Romani non accettavano la battaglia, si allontanarono per saccheggiare il territorio circostante che era in parte degli Ernici e in parte dei Latini, lasciando il loro campo presidiato da un contingente limitato.

Allora i Romani attaccarono il campo nemico, Equi e Volsci uscirono per dare battaglia, ma prima che potessero schierarsi, furono investiti dall'esercito romano che ne fece strage. Quando il resto dei nemici tornò l'esercito romano attaccò di nuovo con successo.

Durante la battaglia Valerio inoltre inviò i cavalieri attraverso lo schieramento nemico ad attaccarne le retrovie, mentre la fanteria attaccava frontalmente sia Equi che Volsci.

(Tito Livio) "La fanteria e il console stesso assieme ad ogni altra forza si proiettano negli accampamenti, menando gran strage e impadronendosi di un grandissimo bottino"

Il secondo console Marco Orazio Barbato, appresa la vittoria di Valerio, scatenò i suoi:

(Livio) "La battaglia fu degna di due eserciti molto motivati, il primo, dall'antica e gloriosa tradizione, il secondo, dalla fierezza conseguita grazie alla recente e inusitata vittoria."

Durante la battaglia i cavalieri romani non disdegnarono di scendere da cavallo e combattere insieme alla fanteria contro i nemici sabini:
Livio: "I Sabini, allo sbando nella campagna, lasciarono i loro accampamenti al saccheggio del nemico."

I Consoli chiesero il Trionfo: "il Senato, perfidamente, decretò un solo giorno di ringraziamento agli Dei. Il popolo, pur senza il decreto senatorio, anche il giorno dopo si trovò numeroso a celebrare i riti di ringraziamento"

I consoli convocarono il senato al Campo Marzio proprio in quei due giorni, ma i senatori rifiutarono di convocarsi fra le truppe ancora in armi.

Allora i consoli, obbedendo alla tradizione, riconvocarono il senato ai Prati Flamini, ma anche stavolta i senatori negarono il trionfo. Era una prova di forza del Senato che temeva forse un eccessivo delirio del popolo per i due consoli, tanto era forte la paura di una monarchia o dittatura.

Allora Lucio Icilio, uno dei più famosi tribuni della plebe che molto si era messo in luce nella cacciata dei Decemviri, propose che fosse il popolo a decretare il trionfo ai consoli vincitori.

Il patriziato, con Gaio Claudio si oppose perchè:
"Sempre era stata una prerogativa del Senato la valutazione e il giudizio sull'attribuzione di questo onore. Neppure i re avevano osato sminuire l'autorità del Senato."

Si andò allora ai comizi tributi e le tribù votarono a favore della proposta di Icilio e fu questa la prima volta che il trionfo venne decretato dal popolo, senza il consenso del senato, anzi contro di questo.
Tanto grande era a quei tempi il potere del popolo, tanto grande che oggi, in tempi di apparente democrazia, ce lo potremmo solo sognare.



DURANTE L'IMPERO

Spesso ciò che gli studiosi non criticarono durante la repubblica romana, lo criticarono in epoca imperiale. L'arco per esempio è stato anche oggetto di critiche ideologiche, contro la 'vanità' del trionfalismo imperiale:

"Tali grandiosi giocattoli, invenzioni tanto grandiose quanto irrilevanti nella loro vanità ma purtuttavia con le loro dediche austere, nitidamente scolpite, costituiscono un aspetto di quel culto della personalità che stava alla base dell'idea imperiale. Hanno quindi il loro posto nella storia, un posto insigne."
(Mortimer Wheeler, Arte e Architettura romana)

In età imperiale, quando l'imperatore era il capo supremo dell'esercito e i generali, semplici legati, combattevano sotto i suoi auspici, era soltanto a lui che apparteneva, in caso di vittoria, il titolo di imperator e il trionfo. Tutto ciò venne stabilito da Ottaviano e mantenuto dagli imperatori successivi

Agli autori reali della vittoria si usò concedere l'uso della toga ricamata, della corona d'alloro e dello scettro (ornamenta triumphalia); Agrippa per il primo rifiutò il trionfo, ma accettò gli ornamenti del trionfatore. Immediatamente Augusto ne fece legge.

Con Traiano però, con quella giustizia e generosità che lo contraddistinse sempre, la legge fu revocata e tutti i consoli ebbero il diritto di assumere nelle cerimonie ufficiali gli ornamenti trionfali.



LE SPOGLIE DI GUERRA

Alla vigilia del ritorno dalla Sicilia di Marcello nel 211 a.c. si scatenò a Roma, come riferiscono Polibio (IX 10) e in Plutarco (Marcello 21), un acceso dibattito sulle prede di guerra riportate dal generale.

La decisione di trasferire a Roma le opere d’arte della Sicilia, non piace a Polibio, per lui una città non è adornata da splendori esterni, ma dalla virtù dei suoi abitanti: «per lo più si ritiene che Marcello ed i suoi non si comportarono in modo conveniente. Aumentando il loro progresso determinarono, però anche l’abbandono di quello stile semplice di vita che li aveva condotti a superare popolazioni dal tenore di vita più raffinato del loro».

Insomma l'arte è un pericolo per il romano, è una tentazione dell'anima, trasferire a Roma le opere d’arte greche rischia di snaturare l’austero stile di vita romano, come sottolinea Plutarco, in Marcello 21, Secondo l'autore Marcello prese con sé le più belle opere d’arte di Siracusa con l’intenzione di farne mostra nel suo trionfo e di abbellire la città. 

IL TRIONFO DI TITO
Fino ad allora, nota Plutarco, Roma non possedeva nulla di così raffinato, in essa non c'era leggiadria nè delicatezza, anzi « piena di armi barbare e di spoglie insanguinate, adorna di monumenti trionfali e trofei non era uno spettacolo né gaio, né rassicurante né adatto a spettatori ignavi e delicati » .

Infine c’era l’aspetto più patetico dello spettacolo trionfale, rappresentato dai prigionieri di guerra, uomini comuni e sovrani con i loro familiari ed amici, che sarebbero stati gettati in prigione o addirittura uccisi, secondo un crudele rituale, non appena la quadriga del triumphator avesse deviato verso il Campidoglio, come ci attesta, tra gli altri Cicerone (in Verrem):

Moltissimi sovrani si sottrassero con il suicidio alla prospettiva di un’infamante sfilata nel corteo trionfale: questo destino, come è noto, scelse anche Cleopatra, con disappunto, secondo Plutarco, di Ottaviano che non rinunciò, però a far sfilare nel trionfo un’effigie della regina, mentre si faceva mordere dall’aspide.



LA CERIMONIA

Il trionfo era  legato a tutti quei rituali che permettevano al miles di ritornare sia dalla guerra sia dallo stato militare a quello civile, sia di purificarsi dal sangue versato.

Esso avveniva al termine della stagione di guerra, e si eseguiva nella zona della Carinae, tra San Pietro in Vincoli e Colle Oppio, passando sotto al Tigillum Sororium, il primo arco trionfale di Roma dove passavano i combattenti al rientro. Infatti i generali che chiedevano il trionfo non potevano entrare dentro al Pomerium per fare la richiesta, nè potevano entrare nell'urbe i soldati in armi.

Il trionfo doveva celebrare l'imperator, proclamato da tutti popoli del gruppo umbro-osco-sabino come il vincitore che tornato dal campo di battaglia restituiva le armi e l'imperium, si che tutto l'esercito dei miles tornassero cives.

Dunque il trionfo non si poteva celebrare in caso di guerre civili, occorreva essere Consoli o Pretori, i nemici vinti dovevano essere di un certo numero, gli onori andavano soprattutto a Giove Ottimo Massimo che aveva garantito la vittoria, ma sopra ogni cosa la guerra doveva aver corrisposto a precisi rituali, rite inductum, e contro il giusto nemico, contra iustum hostem.

Le procedure del rite inductum erano la rerum repetitio, la denuntiatio e l’indictio, cioè tutti tentativi di evitare la guerra o dimostrare che fosse inevitabile. Solo allora la guerra diventava giusta e da farsi: bellum istum.

Pertanto il nemico era iustus quando non apparteneva alla comunità romana, a meno che non fossero latrones, i ladroni, che Gellio definisce nomen humile: i servi e i pirati.  Nelle Filippiche infatti Cicerone definisce Antonio e i suoi militari latrones.

Come descrive Tertulliano, il Trionfo consisteva in un corteo formato dalle truppe vittoriose con alla testa il triumphator,  che, partendo da Campo Marzio, entrava in corteo, portando al seguito i nemici prigionieri e le spoglie di guerra,  attraverso l'Arco di trionfo.

Guidava il corteo l'intero Senato, poi un gruppo di suonatori di corni e di trombe che annunciava una lunga serie di carri carichi delle spoglie del nemico e del bottino di guerra.

Gli oggetti più notevoli per valore e pregio artistico erano portati, isolati o in gruppo, su apposite portantine. Subito dopo erano condotti gli animali sacri destinati al sacrificio con i relativi sacerdoti

Seguivano i vessilli, gli emblemi e i trofei delle armi prese al nemico, i principi e le notabilità dei vinti con le loro famiglie; venivano poi gli altri prigionieri di minore rango con le mani legate. 

I littori, con la fronte e i fasci ornati da ghirlande di alloro introducevano poi il trionfatore ritto sul carro trionfale, tirato da quattro cavalli affiancati.

Il triunphator vestiva la toga picta, e la corona d' alloro, e con la destra recava un ramo di alloro. Dietro di lui uno schiavo teneva sospesa sul suo capo una corona d'oro, ornata da gemme, imitante le foglie di lauro. 

I suoi figli minori avevano posto con lui sul carro; quelli che avevano raggiunto l'età virile procedevano a cavallo subito dopo. Dietro al trionfatore venivano gli ufficiali superiori tutti a cavallo. Seguiva l'interminabile sfilata dell'intero corpo delle legioni. I legionarî recando in mano un ramoscello d'alloro, con sul capo ghirlande della stessa pianta, gridavano: Io triumpe!, o cantavano le canzoni composte in onore del loro duce e di quando in quando lanciavano frizzi, anche salaci, al suo indirizzo (v. trionfali, carmi).

Il triumphator avanzava su una quadriga trainata da cavalli bianchi sul cui predellino erano aggrappati figli e parenti.

Uno schiavo gli teneva alzata aldisopra della testa una corona d'alloro sussurrandogli:
"Memento mori, memento te hominem esse, respice post te, hominem te esse memento."
Cioè: "Ricordati che devi morire, ricordati che sei un uomo, guardati attorno, ricordati che sei solo un uomo".
Il richiamo rivolto al trionfatore era un invito a non montarsi la testa, visto che il trionfatore veniva paragonato a Giove e psannato fino al delirio dalla folla plaudente che gli lanciava fiori.

In Plutarco, nella vita di Emilio Paolo, ci descrive il suo trionfo, con il popolo che si era costruito dei palchi sia negli ippodromi, sia attorno al foro ed aveva occupato le restanti parti delle città, in ogni luogo ove passasse il corteo e fosse possibile scorgerlo dall'alto.

Giunto al Campidoglio il trionfatore offriva a Giove Ottimo Massimo il lauro che teneva in mano e quelli che avevano decorato i fasci dei littori, quindi compiva il sacrificio. A chiusura dei festeggiamenti un banchetto riuniva i magistrati e i senatori, mentre venivano distribuiti cibi e vino ai soldati e al popolo.


LE TAVOLE


Dal canto suo Properzio immagina il passaggio, fra la folla plaudente sulla via Sacra, del corteo trionfale, mentre egli, con atteggiamento distaccato, leggerà appoggiato sul seno della sua fanciulla i nomi delle città conquistate scritte sulle tavolette:

IL TRIONFO DI MARCO AURELIO
"ante meos obitus sit, precor, illa dies, qua videam spoliis oneratus Caesaris axes, ad vulgi plausus saepe resistere equos, inque sinu carae nixus spectare puellae incipiam et titulis oppida capta legam ".

L’uso di far sfilare tavole non solo con i nomi ma anche con le rappresentazioni delle città conquistate e le fasi salienti della guerra divenne canonico nel trionfo, come attesta App.Lyb. 66, quando descrivendo la forma del trionfo di Scipione nel 201 a.c., in cui appunto c’erano tavole di quel tipo, sottolinea che lo stile rimase invariato.

Livio narra del trionfo di Tito Sempronio Gracco nel 176 a.c. sulla Sardegna, quando fu fatta sfilare la tavola con la riproduzione dell’isola. Analogamente, durante l’impero, Tacito (Annales) ricorda il trionfo di Germanico sui Cheruschi e i Catti e gli Agrivari e su tutte le altre genti fino all’Elba e menziona simulacra montium, fluminum, proeliorum..

Questa pratica coinvolgeva gli spettatori, trasportandoli idealmente nei territori teatro delle operazioni militari e della vittoria, con una funzione didascalica di conoscenze geografiche.

Accanto a questi pannelli, analoghi all’orbis pictus di Agrippa, le prede di guerra, oggetti e prigionieri rappresentarono gli altri aspetti “spettacolari” del trionfo.

Dopo la riforma di Gaio Mario il trionfo perse un po' dell'aspetto religioso privilegiando l'aspetto sociale, portava infatti prestigio a tutta la sua famiglia, stabilendo un rapporto privilegiato con le proprie truppe.

I TROFEI DI MARIO
I trionfi, simboleggiati da armi e armature mescolate, vennero scolpite nel marmo col nome del trionfatore, i cosiddetti trofei, che spesso troviamo sui portali romani, in particolare famosi quelli di Mario a Piazza Vittorio o quelli sul Campidoglio accanto ai Dioscuri.

Importanti erano le armi del bottino, che sappiamo, in occasione del trionfo di T. Quintius Flaminius, nel 194 a.c., vennero affisse all'esterno della casa del vincitore, e nel trionfo di Emilio Paolo nel 167 a,c, le armi vennero fatte sfilare su ben 2700 carri che sfilarono in tre giorni, carichi di armi, scudi e armature. Queste armi venivano poi affisse sui templi, usanza che perdurò fino al principato di Ottaviano.

Augusto concesse il trionfo soltanto ai membri della sua famiglia. Ai suoi generali concesse, a partire dal 12 a.c., le ornamenta triumphalia, per cui sfilavano con le vesti del triumphator insieme all'Imperatore.

Plinio nella sua Historia narra che Augusto superò chiunque altro facendo porre nel suo foro due quadri, non sappiamo se dipinti o in mosaico, ma propendiamo per il primo, molto più suggestivo, che riproducevano la guerra e il trionfo:
"Super omnes divus Augustus in foro suo celeberrimo in parte posuit tabulas duas, quae Belli faciem pictam habent et triumphum".

Belisario fu l'ultimo generale a ricevere un trionfo a Costantinopoli in nome dell'imperatore Giustiniano, come riconoscimento della sua vittoria sui Vandali.



IL TRIONFO A GIOVE LAZIALE

Se il Senato avesse rifiutato a un generale l'onore del trionfo pubblico, questi poteva, senza altra autorizzazione, celebrare un trionfo salendo al tempio di Giove Laziale, sul monte Albano. Il primo che usò di questa facoltà fu C. Papirio Masone nell'anno 231 a.c.



L'OVATIO

Altra forma di trionfo era l'ovatio che ne costituiva una forma minore. In questo caso il generale vittorioso entrava in Roma non su una quadriga, bensì a piedi con la semplice toga praetexta, senza lo scettro, ed una corona di mirto al posto di quella d'alloro. La processione spesso coinvolgeva la folla, ma non comprendeva una parata di soldati, ed al termine della processione veniva sacrificata una pecora, non un toro.


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