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TERMINALIA (23 Febbraio)

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LA FESTA DELL'ERMA

IL DIO TERMINE

Plutarco ci tramanda che Termine era l’unica divinità romana che rifiutava i sacrifici cruenti e accettava in dono solo foglie e petali di fiori per ornare i suoi simulacri. La realtà è che Termine era un Dio antichissimo e che in quei tempi arcaici gli animali non venivano sacrificati agli Dei che erano percepiti tutto sommato più benigni.

Termine era il figlio della grande Madre Aer, da cui l'appellativo di Aeris dato a Giunone, La Dea aerea o celeste era spazio e tempo illimitati, eterna e infinita come il cielo, ma partorì, naturalmente da vergine, il figlio Termine, relativo quindi ai cicli stagionali poiché era il figlio-vegetazione della Madre Natura, ma in qualità di termine poneva limiti e confini, alle proprietà terriere ma pure alla vita. Del resto anche le stagioni avevano limiti che incidevano sull'agricoltura e sulla vita di uomini ed animali.

Il Dio poneva dunque un termine, ovvero dei confino alla Dea del cielo infinito, per cui doveva avere i suoi simulacri sotto al cielo. In qualità di Dio che stabilisce i confini si può comprendere l''importanza che avesse nella antica vita agricola dei latini e dei romani. Il rispetto dei limiti era dunque rispetto tanto delle leggi che dei confini, che venivano posti ritualmente in nome della divinità.

TUTTO HA UN TERMINE
Il re Numa Pompilio, come narra Dionigi di Alicarnasso, ordinò a tutti i cittadini di delimitare i confini dei propri campi ponendovi delle pietre e consacrandole a Zeus Horios (Giove Terminus), e stabilì che "se qualcuno avesse tolto o spostato i confini divenisse Sacer", cioè consacrato al Dio come vittima sacrificale. Chiunque lo incontrava poteva ucciderlo impunemente.

Ne dà conferma Festo: "Colui che, arando, abbia sconfinato nel terreno altrui sia sacro, insieme ai buoi che conducevano l'aratro ("eum, qui terminum exarasset, et ipsum et boves sacros esse"). Per giunta chi non rispettava i confini veniva perseguitato dalle Furie.

Re Numa Pompilio nelle sue leggi dichiarò che il Dio Termine vegliava sulla conservazione dei limiti e dei confini, e dopo aver distribuito la terra al popolo fissandone i confini, fece edificare un tempio dedicato al Dio sul colle della Rupe Tarpea.

Il Dio venne rappresentato nel tempio come una pietra squadrata, ma in seguito assunse sembianze umane, ma senza braccia o gambe, un'erma insomma, come quelle che si pongono sui confini, come a simboleggiare la loro inamovibilità, e che in seguito spesso raffigurarono Hermes, da cui deriva appunto la parola erma. Ma il culto sembra precedente e antichissimo.

Gellio a proposito del Dio Termine riporta un enigma tratto da Varrone: "Se una o due volte sia minore o entrambe non so, eppure mi si è detto che neppure a Giove volle far posto."
La soluzione era il Dio Termine, riferendosi ad un episodio narrato anche da Livio, secondo cui non si riuscì a rimuovere un cippo dedicato a Termine, ovvero il Dio Terminus, durante la costruzione del tempio di Giove sul Campidoglio.

Secondo Tito Livio durante la costruzione del tempio le divinità dei sacelli avevano accettato di ritirarsi, per lasciare il posto a Giove Capitolino, solo il Dio Termine rifiutò di andarsene e per quanto gli operai si adoperarono non riuscirono a svellerlo dal terreno. Allora i sacerdoti compresero che il Dio non intendeva spostarsi per cui gli fecero costruire un'edicola all'interno del tempio. Dato però che la sua effigie doveva stare a cielo aperto, fu praticata una apertura sul tetto del tempio a suo uso e consumo.

Poiché poi il Dio Termine era stato in grado di opporsi persino all'autorità di Giove, alcuni auguri predissero che i confini dello stato romano non sarebbero mai receduti. Termine fu dunque una divinità indipendente che vegliava sui confini dei poderi e sulle pietre terminali, ma non solo di ogni terreno, bensì pure sui limes dell'Impero Romano.

Termine divenne così un epiteto di Giove, come protettore di ogni diritto e di ogni impegno, ma non fu così all'inizio del culto, come molti pensano, bensì fu una sua evoluzione che non ebbe però molto seguito.

FESTE TERMINALIA

LE TERMINALIA

La festività dei Terminalia era celebrata il giorno prima del Regifugium, l'ultimo giorno dell'antico anno romano, termine dell'anno romano e, anche quando fu aggiunto il mese intercalare di Mercedonius, gli ultimi cinque giorni di febbraio furono aggiunti al mese intercalare, rendendo il 23 febbraio l'ultimo giorno dell'anno.

Quando Cicerone in una lettera ad Attico dice: Accepi tuas litteras a.d. V Terminalia ("ricevetti la tua lettera il 19 febbraio), egli definisce così la data, poiché, trovandosi in Cilicia, non sapeva se in quell'anno fosse stato inserito il mese intercalare.

Il 23 febbraio, ultimo mese dell'anno nell'antico calendario, si celebravano le feste Terminalia,  cioè delle pietre terminali, su cui si ponevano una corona e una focaccia offerta al Dio.
La festa chiudeva infatti l'anno permettendo l'arrivo dell'anno nuovo, ma pure ribadiva i vecchi confini sia dello stato romano sia del privato possessore di terre.

Durante le feste Terminalia si consacravano ritualmente le pietre di confine, e i sacerdoti ne prendevano nota riportando il tutto negli archivi. Durante la festa i partecipanti ponevano corone e offerte presso i cippi che delimitano i confini. Come già si è detto, non venivano eseguiti sacrifici cruenti perchè in era primitiva e matriarcale non se ne facevano, come fa notare lo stesso Erodoto.

Mentre anticamente gli venivano offerte, durante le feste, di frutta, di latte e di vino, in seguito però gli vennero offerti agnelli o porcellini da latte. Per santificare il confine si strofinava sul cippo il sangue della vittima sacrificata. I proprietari di terreni limitrofi ponevano ghirlande sul cippo, vi ponevano un altarino su cui accendevano un fuoco che veniva poi spento col vino bruciandovi una piccola parte del cibo della festa.

Durante la festività, tutti i proprietari di due terreni adiacenti incoronavano la statua che separava le loro proprietà con ghirlande e innalzavano un altare grezzo, in genere di pietre sovrapposte o in legno, sul quale offrivano grano, miele e vino e sacrificavano un agnello o un lattonzolo (cucciolo del maiale). La cerimonia si concludeva con il canto delle preghiere al Dio. Ciò contribuiva pure a rinsaldare i rapporti tra i confinanti.



LA FESTA PUBBLICA

Una festa pubblica in onore di Termine, a spese dello stato, veniva celebrata presso la pietra miliare del VI miglio sulla via Laurentina (via che portava a Laurentum), limite originario dell'estensione del territorio di Roma in quella direzione, dove sorgeva il tempio dedicato alla divinità.

Le libagioni sacrali e pubbliche per il Dio Termine si erano usate anche indipendentemente da ogni altro sacrificio, e consistevano in vino non mescolato, ma anche latte, miele e melassa diluiti con acqua, che venivano offerti alla folla che ne riempiva i propri bicchieri per partecipare alla libagione pubblica. Nei tempi più antichi si bruciavano vari tipi di legno profumato, come cedro, fico, vite e legno di mirto, sugli altari del Dio. Successivamente a questi profumi si usò bruciare anche gli incensi provenienti dall'oriente.

Nella festa pubblica non mancavano le danze e le musiche con le bancarelle cariche di cibi e dolci. Anche il tempio del Dio e gli incensieri ai sue lati sopra la scalinata venivano addobbati con ghirlande, festoni e nastri con scritte augurali.


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