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TITO FLAVIO SABINO

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Nome: Titus Flavius Sabinus
Nascita: Cittareale, 8 d.c.
Morte: Roma, 20 dicembre 69 d.c.
Gens: Flavia
Padre: Tito Flavio Sabino
Madre: Vespasia Polla
Figli: Tito Flavio Sabino
Fratello: Vespasiano
Nipoti: Tito Flavio Clemente, Tito Flavio Sabino
Consolato: 47


Tito Flavio Sabino, ovvero Titus Flavius Sabinus (ante 9 Cittareale – Roma 69) è stato un politico romano, fratello dell'imperatore Vespasiano.

Secondo alcune ardite congetture si è pensato che Sabino potrebbe essere stato il Teofilo accennato nella Bibbia sia nel Vangelo di Luca sia negli Atti degli apostoli.

Il nome Teofilo in effetti è presente nel Nuovo Testamento, là dove l'evangelista Luca indirizza il suo vangelo e il libro degli "Atti ad un uomo" così chiamato, ritenuto da alcuni un ufficiale romano, ma senza prova alcuna, sembra più logico dedurre, in virtù del suo significato. (Teofilo = che ama Dio) che sia un nome generico riferito a tutti i cristiani.

Del resto il nome Teofilo è un nome greco più che un nome romano, e comunque, non solo il greco era piuttosto diffuso a Roma, ma questo nome, non avendo un significato cristiano, era riferito a tutti gli uomini di una qualsiasi religione che fossero piuttosto pii, rispettosi degli Dei, o aspiranti a cariche sacerdotali.



LE ORIGINI

Tito Flavio Sabino nacque come figlio primogenito da Tito Flavio Sabino e Vespasia Polla, ed ebbe un figlio, anch'egli chiamato Tito Flavio Sabino. Dal nome si evince comunque una lontana discendenza sabina.

TEMPIO DI GIOVE CAPITOLINO
I sabini a Roma del resto dettero origine a diverse gentes: Clauda, Ostilia, Camilla, Valeria, Publicola, Messala, Gotta, Vtia, Cornelia, Lucrezia, Silla, Scipione, Lentula, Petronia, Manlia, Marcella, Plinia, Calpurnia, Emilia, Aurelia, Pomponia, Sertoria, Fulvia e Flavia.

I soli Claudi Regillesi diedero a Roma sette censori, cinque dittatori, ventotto consoli e tre imperatori (Tiberio, Claudio, Nerone).

Il padre era figlio di Tito Flavio Petrone (nonno di Vespasiano), che apparteneva a una nobile e ricca famiglia equestre di Reate (Rieti), e che aveva molti possedimenti terrieri nell'alta Sabina, ed è considerato il figlio del capostipite della dinastia Flavia.



TITO FLAVIO PETRONE

Fu il nonno di Vespasiano e di Tiro Flavio Sabino e visse nel I sec. a.c. Tito Flavio Petrone. Figlio di un locatore di braccianti (manceps operarum) proveniente dalla Gallia Cisalpina (Transpadana) che erano soliti emigrare ogni anno dall'Umbria alla Sabina per coltivare i campi. Evidentemente erano dei sabini emigrati in Transpadania che avevano conservato le loro terre nella Sabina.

SABINO PADRE
In seguito tornò  a Reate (Rieti), nella Sabina, dove si era sposato con Tertulla, da cui ebbe un figlio di nome Tito Flavio Sabino, futuro padre dell'imperatore romano Vespasiano e del Tito Flavio Sabino di cui sopra. 

Combatté per Gneo Pompeo Magno durante la guerra civile contro Cesare come centurione ma, fuggito dopo la battaglia di Farsalo, venne perdonato dal magnanimo Cesare che gli concedette il congedo con onore e si mise a recuperare i crediti per vendite all'asta (argentarius).

Gli argentari erano banchieri privati, non sottoposti al controllo dello stato,che esercitavano il loro mestiere nelle tabernae del foro, in negozi o in banchi di proprietà statale dove si occupavano del cambio della moneta, di operazioni bancarie e creditizie nonchè di speculazioni finanziarie.



CURSUM HONORUM


- Tito Flavio Sabino, con il suo fratello minore Vespasiano, il futuro imperatore, partecipò alla conquista romana della parte sud-occidentale dell'isola britannica nel 43, durante il regno dell'imperatore Claudio. dimostrandosi ottimo ufficiale prima e poi ottimo comandante.
- Diventò console suffetto nel 47, in sostituzione di Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico IV, che ricoprì il consolato in qualità di princeps, ma solo per sei mesi.
- Fu governatore della Mesia dal 50 al 56
VESPASIANO
- Venne nominato praefectus urbi dal 56 al 69; poiché Lucio Pedanio Secondo è attestato per questa carica nel 61, è possibile che Sabino abbia servito per due volte come praefectus.

Sabino fu un grande sostenitore di suo fratello Vespasiano, il che conferma lo spirito generoso della famiglia, che degenerò solo con Domiziano.

Infatti quando Vespasiano si trovò in difficoltà finanziarie mentre era governatore dell'Africa, Sabino gli prestò molto denaro, e mentre Vespasiano era governatore della Giudea, Sabino fu la sua fonte di informazioni e di relazioni sugli eventi che accadevano a Roma e sulla gente che contava in quegli eventi. Sabino istituì in quell'occasione una rete di informatori segreti e di corrieri postali ultraveloci e organizzati come pochi avrebbero saputo fare.

Egli da lontano raccoglieva consensi ed amicizie per il fratello con cui svolgeva una fitta corrispondenza. Sembra che in famiglia vi fosse un grande accordo tra parenti, lo dimostra la moneta qui a fianco, fatta emettere da Vespasiano in onore di suo padre, che nella moneta viene appunto citato come Padre dell'Imperatore.


LA DISTRUZIONE DEL CAMPIDOGLIO

Nel 69, l'anno dei quattro imperatori, quando Vespasiano tornò a Roma, la guerra si scatenò per le strade, con le varie fazioni che si combatterono lungo le vie della città.

VERULANA GRATILLA
Il prefetto del pretorio Flavio Sabino, sapendo che Vitellio voleva abdicare, scrisse ai tribuni delle coorti di tenere a freno i soldati, ed i senatori più autorevoli, gran parte dei cavalieri e tutti i vigili e le milizie urbane riempirono la sua casa.

Gli comunicarono il malcontento della folla e delle coorti germaniche, esortandolo ad affrontare con le armi gli avversari del partito flaviano.

Scontratosi poi con una folla di rivoltosi Sabino dovette fuggire e arroccarsi sul Campidoglio, con le sue milizie, alcuni senatori, dei cavalieri, e alcune donne, fra cui Arria, Fannia (di cui nulla sappiamo) e Verulana Gratilla.  

Tacito, nel Libro III delle sue «Historie», ci fa sapere che tra i difensori c'erano delle donne, e, tra queste, una verolana, Gracilia, la bella moglie di Giulio Aruleno Rustico, la quale si distinse per il suo grande valore: 

« Subierunt obsidium eticam foeminae inter quas maxime insignis Verulana Gratilla, neque liberos neque pro.pinquos, sed bellum secuta» 

(«subirono l'assedio anche alcune donne, fra le quali la nobilissima verulana Gratilla, dei Pomponi, che non segui né figli, nè parenti, ma la sua fazione») "

(Giuseppe Trulli, Tutta Veroli Vol. I - VEROLI, pagine di storia, eventi, personaggi)

TITO FIGLIO DI VESPASIANO
Sabino riuscì a fare giungere al Campidoglio i figli ed il nipote Domiziano, ed a fare uscire messaggeri per gli eserciti Flaviani, chiedendo aiuto, poi inviò il primipilo Cornelio Marziale da Vitellio chiedendo di non assalire il Campidoglio. 

Vitellio diede la colpa ai soldati e fece fuggire Marziale da un passaggio segreto per farlo tornare alla rocca capitolina. I Vitelliani, decisi a uccidere gli oppositori, procedettero attraverso il Clivo Capitolino. 

A destra di questo Clivo c'era un antico porticato, dal cui tetto i Flaviani colpivano con sassi e tegole i Vitelliani che risposero lanciando fiaccole sul portico per incendiare la porta di accesso, che Sabino aveva fatto però barricare barricata con le statue che aveva fatto abbattere.

Altri Vitelliani attaccarono però il Campidoglio da sud per i cento gradini della rupe Tarpea e da nord, dalla parte dell'Asylum (Piazza del Campidoglio), dove due edifici contigui erano tanto alti da raggiungere il livello del terreno sul quale sorgeva la rocca. 

Un incendio si propagò raggiungendo il tempio di Giove, si estese ai portici del tempio, e presero fuoco le aquile di legno vecchissimo del frontone; così bruciò il Campidoglio. Tacito lo descrive come l'avvenimento "più luttuoso e deplorevole per lo stato e il popolo umano" dalla fondazione della città.

I Flaviani erano sbigottiti e pure Flavio Sabino era inerte ed inebetito, incapace di prendere una decisione, si che tutti cercarono la fuga I Vitelliani ebbero la meglio e massacrarono chiunque si oppose.
DOMIZIANO
Flavio Sabino, senza armi e non intenzionato a fuggire, fu circondato con il console aggiunto di novembre e di dicembre Quinzio Attico.

Domiziano riuscì a fuggire nascondendosi presso il custode del tempio e, grazie all'aiuto di un liberto, poté nascondersi, in veste di lino, nella turba dei sacrificatori e raggiungere la casa di un cliente del padre, vicino al Velabro, dove rimase nascosto. 

Gli altri sfuggirono al massacro con vari espedienti, chi travestito da servo, chi aiutato dalla lealtà di clienti, chi nascosto fra bagagli, e chi, venuto a conoscenza della parola d'ordine nemica ne fece uso.

Flavio Sabino e Quinzio Attico vennero poi condotti in catene da Vitellio che tentò inutilmente di intercedere in suo favore. Sabino fu trafitto ed il suo corpo straziato e decapitato venne fatto rotolare nelle Scale Gemonie. Ad ogni modo Vitellio di oppose al supplizio dell'altro console, Attico, grato che si fosse addossato la colpa dell'incendio del Campidoglio. A Vitellio verrà poi fatta fare una fine molto simile a quella di Sabino, straziato e decapitato.

Sabino aveva servito onorevolmente l'impero per 35 anni, era stato per 7 anni governatore della Mesia e per 8 anni, a intervalli, prefetto dell'Urbe. Purtroppo Vespasiano non aveva fatto in tempo a soccorrere il fratello. messo a morte dai seguaci di Vitellio stesso, (imperatore dal 16 aprile al 22 dicembre del 69), per cui Flavio sabino non potè assistere, come avrebbe desiderato, all'incoronazione di suo fratello come Imperatore di Roma.


EBURONI (Nemici di Roma)

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Gli Eburoni erano una tribù della Gallia Belgica, cioè nel nord-est della Gallia, che oggi corrisponde alla Francia del nord, al Belgio e al sud dei Paesi Bassi fino Reno, quindi un territorio abbastanza esteso. Giulio Cesare narra nel De Bello Gallico che gli Eburoni, (siamo naturalmente nel I sec. a.c.,) erano un popolo di origine germanica, ma uno degli unici che praticava sacrifici umani al Dio Fonohok.

La loro capitale era Atuatuca, in seguito divenuta capitale dei Tungri, che fornirono un gran numero di soldati all'esercito romano dell'Impero come unità ausiliarie In epoca romana, la città assunse il nome latino di Atuatuca Tungorum ed ebbe un notevole sviluppo, per poi essere distrutta dai Franchi Salii nel IV sec.



ARIOVISTO

Risulta che Ariovisto, a capo degli eburoni, avesse varcato il Reno attorno al 72 a.c., insieme alle popolazioni sveve provenienti dalle vallate dei fiumi Neckar e Meno. Nel corso degli anni le popolazioni germaniche che avevano passato il Reno erano cresciute in numero fino a diventare circa 120.000 abitanti.

Gli Edui ed i loro alleati avevano combattuto contro i Germani più volte, ma sconfitti duramente avevano perduto tutti i loro nobili, il senato ed i cavalieri. Era capitato di peggio ai Sequani vincitori, poiché Ariovisto, re dei Germani, si era stabilito nel loro Paese e non solo occupò la terza parte delle terre, ma in seguito, nell'età di Giulio Cesare, ordinò ai Sequani di lasciarne un altro terzo delle loro terre con case e terreni coltivati.

L'EROE NAZIONALE AMBIORIGE
Questo perchè pochi mesi prima erano giunti da lui 24.000 Germani Arudi, un popolo che viveva a sud dei Cimbri, nel sud della Danimarca, ma originari della Norvegia, menzionati da Gaio Giulio Cesare nel De bello Gallico tra i mercenari al servizio del capo germanico Ariovisto. Quest'ultimo voleva procurare al popolo guerriero degli Arudi terre e dimore, con il rischio che in pochi anni tutti i Galli sarebbero stati cacciati dalla Gallia ed i Germani sarebbero passati al di qua del Reno.

Ora molti studiosi sostengono che Cesare avrebbe voluto solo perseguire il suo potere portando la guerra nella Gallia, mentre in realtà germani e galli non erano un problema. Che Cesare abbia voluto celebrarsi con una sequela di vittorie di cui era certissimo, data la sua grande intelligenza strategica, è fuor di questione. 

Che però la Gallia non fosse un problema sembra un'ipotesi molto azzardata, non solo perchè già due volte avevano sconfitto e saccheggiato Roma, ma perchè il pericolo germanico era sempre pronto all'invasione, e più i germani invadevano la Gallia più i galli si davano alla conquista dei territori più a sud, quindi su suolo romano. Se i romani erano affetti dal "Metus gallicus", il terrore dei galli, non era per un'ossessione collettiva del popolo romano, ma perchè il pericolo esisteva, lo sconfinamento continuo con saccheggi ed eccidi esistevano già da molti anni.

- 60 a.c. - I Sequani, in seguito alla richiesta del re germanico Ariovisto di sgomberare un altro terzo delle loro genti, avevano deciso di unire le forze ai vicini Edui e, dimenticando i passati rancori, di combattere insieme il comune nemico. Il 15 marzo 60 a.c., fu infatti combattuta una sanguinosa ed epica battaglia presso Admagetobriga tra Celti e Germani, ma furono i galli a perdere.

« ...gli Edui ed i loro alleati avevano combattuto contro i Germani più volte, ma sconfitti duramente avevano perduto tutti i loro nobili, il senato ed i cavalieri. ... gli Edui, che in passato erano stati potentissimi in Gallia, erano stati costretti a dare in ostaggio ai Sequani i cittadini più nobili... a non implorare il soccorso del popolo romano, a rimanere sotto il dominio dei Sequani in perpetuo…. Era capitato di peggio ai Sequani vincitori, poiché Ariovisto, re dei Germani, si era stabilito nel loro Paese occupandone la terza parte delle terre... ed ora ordinava ai Sequani di lasciarne un altro terzo, poiché pochi mesi prima erano giunti da lui 24.000 germani Arudi, per i quali dovevano essere procurate terre e dimore. (Diviziaco concludeva) In pochi anni tutti i Galli sarebbero stati cacciati dalla Gallia ed i Germani sarebbero passati al di qua del Reno. »
(Cesare, Commentarii de bello Gallico. i, 31, 6-10.)

Gli Edui avevano allora inviato ambasciatori a Roma per chiedere aiuto. Il Senato decise di intervenire e convinse Ariovisto a sospendere le sue conquiste in Gallia; in cambio gli offrì, su proposta dello stesso Cesare (che era console nel 59 a.c.), il titolo di rex atque amicus populi Romani ("re ed amico del popolo romano"). 



CESARE

« tutta la Gallia era divisa in due partiti: a capo di uno erano gli Edui, a capo dell'altro gli Arverni. 
Dopo una lunga guerra per il predominio, Arverni e Sequani avevano chiamato in loro aiuto dei mercenari dalla Germania. 
All'inizio ne erano giunti circa 15.000: poi ne vennero sempre di più e ora ce ne sono in Gallia qualcosa come 120.000. »
(Cesare, De Bello gallico)

Ariovisto, però, continuò a perseguitare i vicini Galli che dovettero chiedere aiuto allo stesso Cesare, l'unico che poteva impedire ad Ariovisto di far traversare il Reno a una vasta massa di Germani, e che poteva difendere la Gallia da essi. Roma temeva, e giustamente, che, una volta occupata tutta la Gallia, i Germani avrebbero invaso la provincia Narbonese e poi l'Italia stessa, come in passato era avvenuto con l'invasione di Cimbri e Teutoni.

Così il senato inviò ambasciatori ad Ariovisto, chiedendogli un colloquio a metà strada tra lui e il console Cesare (riconosciuto come l'unico console che prendesse decisioni), ma il capo germanico rispose che era Cesare a doversi recare da lui, nel caso in cui avesse avuto bisogno di chiedergli qualcosa, visto che lui era stato il vincitore dei Galli.

« Ariovisto rispose che se avesse avuto bisogno di qualcosa da Cesare si sarebbe recato di persona da lui; se Cesare avesse avuto bisogno di qualcosa da lui, egli in persona doveva venire da lui. Inoltre, si meravigliava del fatto che Cesare e Roma avessero degli affari in Gallia, che era invece sua, in quanto l'aveva conquistata con le armi»
(Cesare, De Bello Gallico, I, 34,2-4.)

Cesare allora gli diede un ultimatum, rispondendogli che sarebbe stato considerato il perpetuo amico del popolo Romano, se si fosse attenuto alle seguenti richieste:

- restituire gli ostaggi sottratti agli Edui, dando il permesso di fare ciò anche ai Sequani;
- non provocare a nuova guerra gli Edui ed i loro alleati.
In caso contrario sarebbe diventato perpetuo nemico di Roma e Cesare avrebbe difeso gli Edui. Ariovisto sfidò Cesare a battersi con lui quando lo desiderava, ricordandogli che le sue truppe non erano mai state sconfitte:

« Esiste un diritto di guerra per cui chi vince comanda sui vinti come meglio crede. Del resto, Roma dava ordini ai vinti a suo arbitrio e non secondo prescrizioni date a lei da altri. Se egli non diceva ai romani come avvalersi del loro diritto, Roma non doveva interferire nell'esercizio del suo diritto. Gli Edui, che avevano tentato la sorte in guerra ed erano stati sconfitti, ora erano suoi vassalli. Cesare gli faceva dunque torto, perché col suo arrivo aveva diminuito le tasse che lui riceveva dagli Edui. 

Inoltre, non avrebbe restituito gli ostaggi agli Edui, ma neppure avrebbe fatto guerra a questo popolo e ai suoi alleati se avessero pagato il tributo annuo e avessero rispettato i patti. Diversamente, non avrebbero tratto nessun beneficio dall'essere fratelli del popolo romano. Quanto al fatto che non avrebbe trascurato i torti subiti dagli Edui, Cesare doveva considerare che nessuno lo aveva mai sconfitto in guerra. Venisse pure a battersi quando volesse: avrebbe così conosciuto la forza e il valore dei germani»
(Cesare, De Bello Gallico)

Così, a causa di questa minaccia, tra il 58 e il 52 a.c. Giulio Cesare iniziò e portò a termine la conquista delle Gallie, cioè delle regioni che oggi formano l'attuale Francia, eccetto il suo meridione, la Gallia Narbonense, già sotto il dominio romano dal 121 a.c, conquistando inoltre il Belgio, il Lussemburgo, parte di Svizzera, i Paesi Bassi e parte della Germania, guerra da lui narrata nel De bello Gallico.

I Sequani, in seguito a tali eventi ed alla crescente minaccia di Ariovisto, dimenticando i passati rancori, si erano uniti agli Edui per combattere insieme il comune nemico, Ariovisto. Il 15 marzo 60 a.c., era stata infatti combattuta una sanguinosa ed epica battaglia presso Admagetobriga tra Celti e Germani, ma i germani avevano vinto.

Nel 54 a.c. Gaio Giulio Cesare, per approvvigionare i suoi legionari, e per far capire chi comandava, obbligò la popolazione locale degli Eburoni a consegnare una parte del loro raccolto, che in quell'anno era stato scarso. Gli Eburoni, ridotti quasi alla fame, si risentirono, si che Cesare dovette rafforzare gli accampamenti vicini ai loro villaggi, e ogni centurione controllò che gli approvvigionamenti richiesti venissero consegnati ai soldati, con le buone o con le cattive. Era si una necessità ma anche una provocazione.



L'INGANNO

Il popolo eburone cominciò a ribellarsi, anche se Cesare lo aveva liberato dal dover pagare un tributo alla tribù degli atuatuci, finchè nell'inverno del 54 Ambiorige, unitosi a Catuvolco, si ribellò ai romani guidati da Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta, legati di Cesare.
Catuvolco era un principe gallo che condivideva con Ambiorige il governo del popolo gallico degli Eburoni, stanziato tra la Mosa e il Reno.

I due sovrani, istigati da Induziomaro di Treviri, un principe gallo, capo della tribù germanico-gallica dei Treveri, provocarono un'insurrezione contro i romani, nel 54-53 a.c. e dopo aver attaccato e fatto strage di uno sparuto gruppo di romani che stavano facendo legna, Ambiorige inseguì i pochi superstiti al loro campo fortificato.

Avendo capito però di non poter combattere contro le truppe romane, seppure inferiori rispetto alle sue forze, l'eburone andò a parlamentare con Sabino e Cotta, negando di aver ucciso i romani e addebitando le loro morti ad altre tribù, che si stavano preparando ad attaccarli con l'aiuto di tribù germaniche che avrebbero attraversato il Reno. 

Ambiorige consigliò quindi loro di lasciare il loro campo e di dirigersi a un altro accampamento, così da unirsi ad altre truppe e da rafforzare la loro posizione, promettendogli che li avrebbe lasciati passare indisturbati. Dopo una lunga discussione notturna, in cui Sabino si fidava del nemico e Cotta no, i due decisero di lasciare il campo, ma furono attaccati a tradimento e massacrati dai guerrieri di Ambiorige.

I pochi superstiti si rifugiarono nell'accampamento di partenza e, nella notte, caduta ormai ogni speranza, si diedero la morte reciprocamente fino all'ultimo uomo. In seguito Ambiorige tentò lo stesso colpo con la legione affidata al legato Cicerone, che però non cadde nel tranello e si difese valorosamente dall'assedio fino all'arrivo di Cesare che ribaltò la situazione. Cicerone, che in seguito tanto avversò Cesare, avrebbe dovuto ricordare che doveva a lui la sua vita.

Quando l'anno successivo, nel 52 a.c., Giulio Cesare iniziò a devastare il territorio degli Eburoni, Catuvolco, avanti con gli anni e ormai incapace di reggere le fatiche della guerra e di darsi alla fuga, si avvelenò con i semi del tasso, dopo aver scagliato maledizioni nei confronti di Ambiorige.




LA VENDETTA

Il massacro della legione di Sabino e Cotta fu un'onta per l'esercito di Roma e per le legioni di Cesare, un'onta che Cesare doveva assolutamente vendicare. Nessuno poteva vantarsi di aver massacrato dei romani, tanto più con il tradimento.

Cesare venne a sapere che Ariovisto si era mosso dai suoi territori e puntava su Vesonzio (oggi Besançon), la città più importante dei Sequani, e non poteva concedere un simile vantaggio al nemico, accelerò il passo dei suoi legionari e percorse nel minor tempo possibile il tragitto, il che significa che fece correre all'impazzata i suoi legionari carichi come muli delle armi e delle provviste per uomini e animali.

Era una delle armi più potenti di Cesare l'incredibile velocità delle sue truppe, e quando aveva fretta faceva scaricare i carri che rallentavano la corsa caricando gli uomini del necessario rinunciando al resto. Così raggiunse l'oppidum gallico prima di Ariovisto, occupò velocemente la città e prelevato l'occorrente per il suo esercito, vi collocò una guarnigione a sua difesa.

Cesare, fatti riposare e rifocillare i suoi uomini, riprese l'inseguimento e, dopo sei giorni di marcia continua, fu informato dagli esploratori che l'esercito di Ariovisto si trovava a circa 24 miglia da loro (poco più di 35 km).

Alla notizia dell'arrivo di Cesare, Ariovisto decise di inviare suoi ambasciatori per comunicare al generale romano la sua disponibilità ad un colloquio, da tenersi dopo cinque giorni. Cesare non rifiutò la proposta, pensando che Ariovisto tentasse la pace.

Nel colloquio, nei pressi di Vesontio (odierna Besançon), scortati ciascuno dalle rispettive cavallerie (per Cesare era la X legione montata a cavallo, la famosa X equestris). Cesare esordì ricordando ad Ariovisto i benefici che questi aveva ottenuto dai romani per la loro liberalità e pure l'antica e profonda amicizia che legava Roma agli Edui. Pertanto Roma non poteva permettere che costoro fossero privati di quanto avevano e rinnovò ad Ariovisto le precedenti richieste.

Il re germano rispose che lui si era recato in Gallia su richiesta dei galli, che erano stati i galli a dargli le terre che lui possedeva e che erano stati loro ad attaccarlo e non viceversa. Sottolineò anche che il tributo gli era dovuto e che se continuava a far giungere germani era per proteggersi. Aggiunse poi che se il titolo di amico del popolo romano doveva nuocergli, lui era pronto a ricusarlo. Per ultimo chiese a Cesare perché Roma si intrometteva in un'area che non era sua, ma che invece gli apparteneva. Se dunque il proconsole non se ne fosse andato, Ariovisto l'avrebbe considerato un suo nemico.

Cesare replicò sottolineando di nuovo il legame esistente tra Roma e gli Edui e che le vicende della Gallia erano quindi affare che lo riguardava. Mentre parlavano però la cavalleria germanica attaccò quella romana. Cesare interruppe subito l'incontro, tanto più che la sua cavalleria era la fanteria della X improvvisata a cavalleria. Due giorni dopo, Ariovisto chiese un nuovo incontro a Cesare, che però inviò due suoi rappresentanti. Il suebo si adirò, li accusò di volerlo spiare e li fece gettare in catene.

Era guerra e lo scontro avvenne in una piana ai piedi dei monti Vosgi, oggi compresa tra le città di Mulhouse e Cernay.

Ariovisto spostò il suo campo base, avvicinandosi a quello di Cesare a circa 6.000 passi (circa 9 km), dai 35–36 km a cui si trovava prima dell'incontro. Il giorno dopo, passando attraverso le foreste della zona, si accampò a soli 2.000 passi (circa 3 km) al di là di quello di Cesare, per tagliare ai romani i rifornimenti che gli venivano forniti dagli alleati Edui e Sequani. Da quel giorno, e per cinque giorni, Ariovisto inviò in rapide scaramucce la sua cavalleria contro i romani, ma i romani risposero adeguatamente.

Passarono i giorni e i romani non si muovevano, finchè Ariovisto decise di attaccare, assaltando da mezzogiorno a sera il campo piccolo ma anche qui senza esito. Fu il giorno dopo che Cesare, schierate le sue truppe in modo che le ausiliarie fossero disposte di fronte al campo piccolo e poi, via via, le sei legioni su tre schiere, avanzò verso il campo di Ariovisto e lo costrinse a disporre le sue truppe fuori dal campo.

Ariovisto ordinò l'esercito per tribù:

- prima quella degli Arudi, i germanici che Ariovisto voleva stanziare a spese dei galli,
- poi i Marcomanni, germani che abitavano tra il Reno, il Meno ed il Danubio superiore,
- i Triboci, germanici abitanti sulla sinistra del Reno,
- i Vangioni, germanici di incerta provenienza,
- i Nemeti, germanici stanziati lungo il Reno fino alla zona di Mogontiacum - Magonza,
- i Sedusi, posizionati ad est del fiume Elba, mercenari di Ariovisto,
- gli Svevi, provenienti dalla zona del mar Baltico.

Ogni tribù, poi, fu circondata da carri e carrozze, affinché non ci fosse la possibilità di fuga per nessuno: sopra i carri c'erano le donne, che imploravano i loro uomini di non abbandonarle alla schiavitù dei Romani, anche se la loro condizione nella tribù era di schiavitù totale.

Lo scontro fu assai cruento, i germani furono sconfitti e massacrati dalla cavalleria romana mentre cercavano di attraversare il fiume, e lo stesso Ariovisto scampò a stento alla morte, riuscendo a guadare il Reno insieme a pochi fedeli. Si suppone però che morì in seguito alle ferite. Le sue due mogli e una delle figlie perirono, l'altra fu fatta prigioniera.

Da questo momento Ariovisto scomparve dalla scena storica. Cesare, respingendo gli Svevi al di là del Reno, trasformò questo fiume in quella che sarebbe stata la barriera naturale dell'Impero per i successivi quattro-cinque secoli. Aveva, quindi, non solo fermato i flussi migratori dei Germani, ma salvato la Gallia Celtica dal pericolo germanico, attribuendo così a Roma, che aveva vinto la guerra, il diritto di governare su tutti i popoli presenti sul suo territorio.

Cesare invitò chiunque, tra Galli e Germani, desiderasse fare razzia, nel territorio degli eburoni stessi, massacrando, sottomettendo e devastando il loro territorio. Gli eburoni scomparvero insieme ai loro capi. Scomparvero le loro città, la loro stirpe e il loro nome.

Roma era stata vendicata.

CAPITOLIUM VETUS

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LA FRECCIA INDICA IL CAPITOLIUM VETUS
"Secondo Varrone (De lingua latina): appellavasi (Capitolium Vetus) il prototipo, per così dire, del Tempio di Giove Capitolino, fabricato anteriormente sul Quirinale, imperciocchè essendo cosa dimostrata che il Capitolium Vetus fosse, secondo la opinione comune, dove oggi è Palazzo Barberini, ne segue da ciò, che dovesse stare dentro il recinto. sapendo quanto spesso gli antichi i loro Templi li edificassero fuori della città, e lo stesso ragionamento può tenersi circa il il Tempio di Quirino. 

Quindi noi vogliamo ammettere, che da Numa fosse cinta di mura la punta di Bagnanapoli, dovè la chiesa di San Domenico e Sisto, la quale si trova più vicino al monte Capitolino, e per conseguenza che da una parte il recinto di là andasse con una cortina a ricongiungersi alle mura, o per meglio dire alla rupe del monte Capitolino presso la salita odierna di Marforio, nei dintorni del sepolcro di Caio Publicio Bibulo, ma lasciandolo fuori, e coll'altro seguendo le falde del Quirinale, e la direzione delle mura di recinto, che esiste ancora, attribuito a Nerva, quantunque sembri di gran lunga a quell'Augusto anteriore, andasse a raggiungere le mura del Palatino poco più oltre dell'Arco di Tito.

In questa guisa rimarranno conciliati Dioniso e Livio, senza che la lunghezza soverchia del Quirinale, e l'esistenza in esso di Tempj sacrosanti, possa servire di ostacolo a riconoscere una parte richiusa entro il recinto di Numa. "

(Le Mura di Roma - A. Nibby)

Il Capitolium Vetus fu un santuario arcaico di Roma, situato sul colle Quirinale. Era dedicato alla Triade Capitolina (Giove, Giunone, Minerva), la triade protettrice di Roma adorata nel tempio di Giove Capitolino, che sarebbe stata celebrata qui ben prima che sul Campidoglio.

La «rocca antica» (o Capitolium vetus) aveva non solo un santuario ma pure un tempio dedicato alla Dea Fede, in cui si conservavano i trattati tra gli stati, di cui fu una copia il Campidoglio più tardo, all'epoca dei Tarquinii, col suo tempio di Giove, Giunone e Minerva e col tempio della Fede romana destinato ad archivio del diritto pubblico perchè il Quirinale era già nei tempi antichissimi il centro di un comune indipendente.

La localizzazione del santuario doveva essere all'incrocio tra le attuali via del Quirinale e via delle Quattro Fontane, sul lato verso piazza Barberini, dove si trovava anche il tempio di Quirino.

RAPPRESENTAZIONE DI UN TEMPIO ITALICO ANTICO
Dunque il culto di questa triade in età più antica era presente in un santuario situato sul Quirinale, il Capitolium Vetus, che era un sacello di Giove, Giunone, Minerva. Esso è ricordato ancora da Marziale e dai Cataloghi regionari, la sua posizione deve essere ricercata presso via Quattro Fontane; nulla possiamo dire sulla sua architettura ma in considerazione del fatto che questo santuario è definito un sacellum, si ritiene che esso non fosse a tre celle come quello capitolino. 

Se dunque l'origine del culto di questa triade è romana, o forse, come pensa la Banti, italica (ed eventualmente sabina, essendo il Quirinale abitato secondo la tradizione dai Sabini) spetta tuttavia ai re etruschi di Roma avere stabilito il tipo del tempio a tre celle per questo culto; essi probabilmente hanno, in questa occasione, introdotto in Roma un tipo architettonico già esistente in Etruria (per altre triadi, come è da supporre) e a noi documentato dal tempio del Belvedere ad Orvieto e da quello di Portonaccio a Veio e, inoltre, a quanto pare, dal tempio dell'acropoli di Ardea (incerta rimane la pianta del tempio di Celle a Civita Castellana). Non fa poi meraviglia che l'adozione di una struttura architettonica dall'Etruria abbia indotto gli eruditi antichi (Serv., Aen., 1, 7, 1, ecc.) a ritenere etrusca anche la triade Giove, Giunone, Minerva
. "

(Theodor Mommsen - Stampa Aequa Roma - 1938)

TRIADE CAPITOLINA
Il Quirinale, col Viminale, era anticamente detto "collis", in contrapposizione con gli altri montes.
Era costituito a sua volta da piccole alture, quali il Collis Latiaris (a sud, vicino ai Fori Imperiali), il Mucialis (o Sanqualis, dalla Porta Sanqualis in Largo Magnanapoli) e il Salutaris (dal tempio della Salus, a ovest dell'attuale palazzo del Quirinale).

Il Quirinalis vero e proprio era l'estremità orientale della collina, dove si trovavano il tempio di Quirino e la porta nelle mura serviane. L'altezza massima del colle di circa 57 m si raggiunge all'altezza del quadrivio delle Quattro Fontane, dove il suolo attuale è praticamente allo stesso livello di quello antico. 

Sul colle Quirinale si trovava un piccolo villaggio di Sabini, e il re Tito Tazio vi avrebbe vissuto dopo la pace con i Romani. I Sabini diedero il nome al colle da Cures, città della Sabina, e dall'altare a Quirinus, il Dio unitario di tutte le Curie (città sabine). Si racconta inoltre che, morto Romolo, una volta associato al Dio Quirino, a lui fu edificato un tempio sul colle che da lui prese il nome: il Quirinale. 

Sul colle si trovavano l'antichissimo santuario di Semo Sancus (446 a.c.) e la tomba di Quirino, che Lucio Papirio Cursore trasformò in un tempio per il suo trionfo dopo la III guerra sannitica.
Il tempio di Flora, una Dea osco-sabina, si trovava anch'esso qui. Al confine col Viminale si trovava il santuario di Diana Planciana, all'inizio del Vicus Longus. 

Lungo questa strada si allineavano vari santuari: della Pudicitia Plebeia, di Fortuna Euelpis, di Spes e di Febris. In questa zona ricca di templi sorse il Capitolium Vetus, dove il culto della Triade Capitolina (Giove, Giunone, Minerva) venne celebrato qui ben prima che sul Campidoglio.

"Un piccolo tempio, dovrebbe essere stato costruito da Numa, e dedicato a Giove, Giunone e Minerva, situato sull'Esquilino. E 'stata una piccola e umile struttura consona alla semplicità dell'epoca in cui è stato costruito, ed è stato non definito Capitolium fino a dopo la fondazione di quello di cui qui di seguito, dal quale è stato poi distinto come il vetus Capitolium ". 
(Smith, 1873)

Il tempio venne costruito sul Quirinale in quello che è ora il rione Trevi. Doveva trovarsi a nord del Quirinale e nord-ovest del Ministero della Difesa, nei pressi del quale sono stati scoperti iscrizioni dedicatorie. Questo è un tempio dedicato alla Triade Capitolina e il vetus aggettivo che è associato con il nome del tempio è per distinguerlo dal tempio costruito sul Campidoglio. Ciò significa certamente che è più vecchio rispetto al secondo ed è stato forse in origine dedicato alla triade arcaica Giove, Marte e Quirino.

E' da credere che i romani ai primordi, essendo grandi combattenti anche per i continui assalti dei popoli vicini, badassero più alla guerra che non al tempo di pace, per cui tre divinità maschili fossero meglio rappresentative dello spirito guerriero di questo popolo. Gli etruschi peraltro, navigatori e pure combattenti, ma pure amanti del lusso e della pace, introdussero a Roma la loro civiltà e pure i loro Dei, con la triade Giove, Giunone e Minerva, molto seguita nei loro territori. Ergo la prima triade del Capitolium Vetus, del resto di origine indoeuropea, si presuppone totalmente maschile.



ROMA, STRAORDINARIA SCOPERTA ARCHEOLOGICA AL QUIRINALE
(Fonte)

Sorprendente scoperta presso il colle del Quirinale di Roma: ritrovata una dimora arcaica risalente al VI secolo a.C
di Giuseppe Massari


La Casa dei Re

Roma non finisce di stupire. Una nuova straordinaria scoperta è venuta alla luce: i resti di una dimora arcaica dell’inizio del VI secolo a.c. sono stati rinvenuti sul colle del Quirinale, tra via Veneto e la stazione Termini, all’interno di Palazzo Canevari, in largo di Santa Susanna.

Questa antica abitazione situata all’interno dell’ex Istituto Geologico di palazzo Canevari” spiega Francesco Prosperetti, soprintendente per l’Area Archeologica di Roma, “si presenta come una delle più importanti scoperte archeologiche avvenute negli ultimi anni e induce a rivedere le nostre conoscenze sullo sviluppo della città tra VI e V secolo a.c.

L’importanza della scoperta della residenza arcaica sul Quirinale (coeva al circuito delle mura serviane) è legata al suo stato di conservazione e alla sua posizione, che testimonia l’estensione dell’abitato in un’area di Roma prima ritenuta di esclusivo uso funerario.

La struttura è stata rinvenuta poche settimane fa durante gli scavi di archeologia preventiva della soprintendenza condotti all’interno dell’Istituto Geologico.

Era destino che questa storica sede riservasse una sorpresa nel suo sottosuolo, ma la serie di rinvenimenti emersi è davvero eccezionale” 
aggiunge il professor Prosperetti. 
I resti di un’importante abitazione risalente al VI secolo sono stati trovati questa estate a pochi metri da quanto rimane di un immenso tempio del V secolo a.c. che era emerso negli anni scorsi”.

Un tesoro che presto potrà essere visitato dai romani e dai turisti.

Quella rinvenuta è una delle case più antiche mai ritrovate nella Capitale, e risale all’epoca di Servio Tullio. L’abitazione, unica nel suo genere se si considerano le caratteristiche dello stile arcaico e lo stato di conservazione, è stata subito ribattezzata “La casa dei re”.

FRAMMENTI RINVENUTI SUL COLLE
E’ stata poi l’archeologa Mirella Serlorenzi a spiegare i dettagli: 
I sondaggi in questo luogo erano iniziati nel 2003. Durante uno di questi era stato rinvenuto un blocco che pensammo essere parte delle mura servelliane, come la testimonianza ancora visibile oggi in largo di Santa Susanna. 
Poi, però, nel 2011 abbiamo capito che in realtà era parte di un tempio di dimensioni enormi, con almeno 25 metri di larghezza e 40 di lunghezza. Dimensioni che corrispondo alla cella interna del tempio di Giove capitolino sul Campidoglio, che era molto più grande. 
Quindi possiamo dire che quello trovato qui era uno dei tempi più grandi di Roma, la cui dedicazione e attribuzione, però, non è ancora certa. Sappiamo, però, che al Quirinale erano presenti il tempio di Quirino e il Capitolium Vetus”.

Una scoperta che stravolge la mappa di Roma antica

Poco tempo dopo”, ha raccontato ancora l’archeologa, parlando della “Casa dei re”, “E’ stato rinvenuto a poca distanza anche un edificio della Roma arcaica fino ad oggi assente tra le testimonianze portate alla luce del sole, se non per qualche frammento trovato altrove. Una scoperta eccezionale per il suo stato di conservazione e per la sua posizione. La casa e il tempio erano infatti sul vecchio profilo della collina del Quirinale. 

La casa è vicina al tempio e possiamo quindi immaginare che chi la abitava fosse connesso al culto del tempio della vicina area sacra, forse un guardiano o il custode. Ma molto importante è anche la conclusione a cui arriviamo dopo questa scoperta, che cambia la mappa di Roma antica per come la conoscevamo: fino a oggi, infatti, pensavamo che al Quirinale ci fosse solo una necropoli. Ora abbiamo capito che la zona era costruita già allora, all’epoca di Servio Tullio”.


La dimora arcaica sul Quirinale presenta una pianta rettangolare, divisa in due ambienti, uno zoccolo di blocchi di tufo, con ingresso, preceduto da un portico che si apre su uno del lati lunghi. 

Su queste fondamenta erano eretti muri di legno rivestiti con intonaco di argilla, sormontati da un tetto di tegole, come testimoniano ritrovamenti di analoghe dimore in altre zone del Lazio. 

I materiali rinvenuti indicano una destinazione domestica, mentre la posizione in una zona elevata, le dimensioni, la pianta e la tecnica costruttiva fanno ipotizzare l’appartenenza a una famiglia di rango, interessata alla gestione di un’area già destinata al culto prima dell’impianto del vicino tempio monumentale. Il suo abbandono corrisponde a un nuovo utilizzo dell’area, livellata per avviare una nuova fase costruttiva del tempio.



VILLA A PROTIRO (Baia sommersa - Campania)

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profondità media - 5 m, max: - 6 m

"Egli ideò un nuovo e inaudito genere di spettacolo, per colmare il divario tra Baia e la mole di Puteoli, una distanza di circa  3600 passi, riunendo navi mercantili prelevate da ogni parte facendole ancorare in doppia fila, per poi ricoprirle con tumuli di terra e asfaltarle allo stesso modo con cui era stata costruita la Via Appia.

PLANIMETRIA DELLA VILLA
Sopra questo ponte egli guidò avanti e indietro per due giorni consecutivi ... 

So che molti hanno supposto che Caio avesse ideato questo tipo di ponte in rivalità di Serse, che suscitò non poca ammirazione colmando l'Ellesponto in un punto molto più stretto, ma secondo altri, lo faceva per ispirare paura in Germania e in Britannia, in cui aveva avuto giardini, per la fama di questo lavoro stupendo.

Ma quando ero un ragazzo, udii mio nonno raccontarmi la ragione di quel lavoro, come rivelato in confidenza dai cortigiani dell'imperatore, che Thrasyllus l'astrologo avrebbe dichiarato a Tiberio, quando era preoccupato per il suo successore e incline verso il suo nipote naturale, che Gaio non aveva più possibilità di diventare imperatore che di cavalcare sopra il golfo di Baia con i cavalli."

(Vite dei dodici Cesari: Gaius Caligula da Suetonius)

Il sito di immersione Villa a Protiro è situato all'interno del primo nucleo del Parco Archeologico Sommerso di Baia, e, come la Villa dei Pisoni, è visitabile seguendo un tracciato sagolato (con una corda sottile che segna il percorso). 

Sotto la superficie è un'antica strada romana costeggiata da taverne che conduce fino a Villa protiro e al suo ingresso colonnato.

Il nome protiro si può tradurre con "portale colonnato" che allude al particolare piccolo portico d'ingresso della villa incorniciato da due lunghe panche di pietra.



Il termine viene dal greco "pro" davanti e "thyra" la porta di casa e indica nella casa romana il vestibolo e lo spazio di accesso esistente tra la porta d'ingresso e l'atrio. 

I marmi, i resti di affreschi ed uno splendido mosaico (tessellatum) perfettamente conservato, incantano il visitatore lungo percorso. 

È inoltre possibile ammirare anche i resti di antiche botteghe ed impianti termali con condutture tutt'ora funzionanti e manufatti di ogni genere.

Colonne marmoree, resti di anfore e di oggetti vari sono visibili in gran numero per tutta la durata dell'immersione.

Dopo il ritrovamento, su una tubazione di piombo, dello stemma della famiglia dei Pisoni si è attribuita la proprietà all'altra villa situata poco distante.

La Villa è fornita di una serie di stanze disposte attorno a un atrio centrale che fornisce loro l'aria e la luce.
Le camere appaiono fornite di splendidi mosaici, soprattutto a nord-est con tessere di marmo bianche e nere disposte come a costituire dei tappeti.
A sud dell'atrio si apre una vasta sala con un'abside di cui il semicerchio rimane estendersi su una larghezza di 10,37 m. 


Questo semicerchio non apparteneva al progetto iniziale ma è stato aggiunto successivamente, riccamente decorato con grandi e belle lastre di marmo del tardo-imperiale.

La villa disponeva di un vasto bacino occidentale (m 80 x 110) utilizzato come approdo per i natanti di discrete dimensioni e protetto a sud da una doppia fila di piloni.

Lo spezzone urbanistico prossimo al canale vede la sua emergenza più importante in una villa allungata per circa 120 metri sul fronte stradale. 

Preceduta da una fila di botteghe, la villa consta di due parti, una termale ed una residenziale, separate da un bacino rettangolare in comunicazione col mare ed ornato da statue, una delle quali (del tipo dell'Afrodite dei Giardini di Alcamene) è stata recentemente recuperata.

 L'ingresso a protiro era inquadrato da due lunghi sedili in muratura, oltrepassato il vestibolo (sul quale si affaccia l'ambiente dell'"ostiarius" o portinaio), si giunge nell'atrio dalle pareti rivestite di marmo, similmente agli ambienti adiacenti che, in diversi casi, erano pavimentati in mosaico.

In un vano nell'angolo nord-orientale dell'atrio, è tuttora visibile un mosaico in bianco e nero ornato da una trama di esagoni.

A sud dell'atrio si apre una vasta aula absidata (l'emiciclo sul fondo è ampio ben 10,37 m.), probabilmente estranea al progetto iniziale e simile, anche per il ricco rivestimento in grandi lastre marmoree, alle aule tardo-imperiali delle ricche "domus" ostiensi.

Il canale d'accesso al Lago Baiano merita una visita, non fosse altro per la sua suggestiva imponenza.

Oggi è quasi completamente insabbiato e giace tra gli 8 e i 6 metri di profondità. 

I due muraglioni che lo delimitano sono in opera cementizia spessa mediamente 8 metri: si può seguirli in tutta la loro lunghezza di circa 230 m, fino alle testate occidentali arrotondate e in più punti si possono riconoscere i fori lasciati dai pali delle cassaforme entro le quali, forse agli inizi dell'età imperiale, si effettuò l'enorme gettata.

IULIA CONCORDIA (Veneto)

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Fra le Alpi e le lagune adriatiche su una collina della pianura orientale abitata dai Veneti fin dall’età del Ferro visse un insediamento a caratteri urbani, e su questo insediamento i Romani dedussero Iulia Concordia.

Cesare vi svernò ripetutamente con le sue legioni tra il 59 e il 50 a.c. e pure nel corso della guerra civile con Pompeo, ed anche Augusto, che amava tutto ciò che amava lo zio-padre, oggetto di una autentica venerazione, soggiornò spesso nella colonia insieme alla moglie Livia, che sembrava apprezzasse particolarmente il vino Pucino, per lei il miglior vino in assoluto, a cui attribuiva il dono della longevità.

L'insediamento, sviluppato tra il IX° e VIII° sec. a.c., venne occupato definitivamente dai romani tra il 40 ed il 42 a.c., che vi fondarono la colonia di Iulia Concordia, come avamposto difensivo nord orientale.

Le date della deduzione di Iulia Concordia non sono concordi tra gli studiosi, comunque dovrebbe collocarsi tra la battaglia di Filippi (del 42 a.c. fra i triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido, da una parte, e i “repubblicani” Brutto e Cassio, dall’altra) e i patti di Brindisi tra Ottaviano e Antonio del 40 a.c.

Il nome della colonia sarebbe pertanto allusiva alla pacificazione dopo le sanguinose guerre civili dopo l’uccisione di Cesare nel 44 a.c..

L’insediamento preesistente fu naturalmente trasformato in fortezza e città, con mura larghe fino a due metri lungo tutto il perimetro della collina, munite di monumentali porte urbiche ai quattro punti cardinali.

Furono create fortificazioni, strade, percorsi fluviali e ponti, un importante teatro, templi, abitazioni e necropoli, strade dentro e fuori della città, attivando peraltro i vari percorsi fluviali e lagunari.



Di qui si dipartivano infatti ampie strade lastricate con basoli in trachite (roccia vulcanica le cui cave si trovano nei Colli Euganei, a sudovest di Padova), mentre all’interno della cinta una rete regolare di cardini (nord-sud) e decumani (est-ovest) delimitava gli isolati.

La Iulia Concordia era a cavallo tra due strade importanti: la via Postumia edificata dal console romano Postumio Albino nel 148 a.c. che congiungeva Genova con Aquileia, e la via Annia, costruita dal pretore Tito Annio Rufo, nel 137 a.c., che partiva da Adria e giungeva ad Aquileia.

Vi era stato inoltre scavato un canale artificiale con sponde attrezzate per le imbarcazioni, che nella parte meridionale dell’abitato sostituiva una delle strade con orientamento est-ovest e che, collegando i corsi d’acqua che lambivano la città, consentiva da un lato il deflusso del sistema idraulico della colonia e dall'altro lato una via d’acqua per il trasferimento di merci e persone.

Detto canale fu rinvenuto e scavato parzialmente, poi, per mancanza di fondi (come al solito), lo scavo venne non solo abbandonato ma di nuovo interrato, nonostante il canale avesse già restituito numerosi reperti romani. Una fitta rete di insediamenti rustici, taluni anche di notevole ricchezza, assicurava la produzione di grano e di vino.


Infine, Iulia Concordia disponeva di uno scalo sul mare, il portus Reatinum, localizzato nel sito dell’attuale Caorle, a cui si collegava tramite il flumen Reatinum (oggi Lemene), mantenuto navigabile con appositi interventi di manutenzione.

Le necropoli principali si distribuivano lungo le vie che uscivano dalla città ai quattro punti cardinali:

le più ricche erano quelle lungo la via Annia, sull’asse occidentale in direzione del municipio di Altinum e, ancor più, su quello orientale verso Aquileia.

COME APPARIVA
La città, coinvolta nelle guerre che contrastarono le invasioni barbariche a partire dal III sec. d.c., ebbe un ruolo attivo nell'ambito dell'impero.

A questo periodo risale la fabbrica d'armi, di sagittae dalla quale deriva il recente appellativo di Sagittaria. Nella metà del V sec. d.c. gli Unni, guidati da Attila, dopo essersi impadroniti di Aquileia, misero sotto assedio Concordia e la rasero, poi, al suolo.

Da Concordia Teodosio I emanò due leggi importantissime: la De Fide Testium e la De Apostasis, le massime espressioni dell'intransigenza cristiana, con la pena di morte per chi praticasse il paganesimo, Sempre Teodosio elesse la città a sua residenza.
ED ECCO LA POSIZIONE RISPETTO ALL'ORGANIZZAZIONE URBANA ODIERNA
La Basilica Apostolorum Maior, sotto l’attuale cattedrale, fa parte della complessa area archeologica di piazza Costantini. Essa fu eretta sopra i resti di magazzini con annessi abitativi del I sec. d.c. per accogliere e custodire reliquie di alcuni Santi cristiani.

Nell'area archeologica di via delle Terme si conservano i resti del tratto nordorientale delle mura urbiche e di una postierla di età augustea, nonché di edifici abitativi e di un complesso termale della prima età imperiale.



LE MURA

Costruite nella seconda metà del I sec. a.c., le mura sono in conglomerato cementizio rivestito in mattoni sesquipedali e poggiano su un fitto vespaio di grossi pali. Nella parte meridionale del tratto di mura si apre una delle porte minori  ad un solo vano che consentiva il passaggio di uno degli assi stradali cittadini. 

La porta era inizialmente fiancheggiata all'interno da un avancorpo in mattoni e venne in un secondo momento munita di due torrette quadrangolari cui è attribuita funzione di magazzino. Di queste ultime rimane la torretta settentrionale con alcuni gradini e la pavimentazione interna in mattoni. 

In una laterale di via Claudia si trovano i resti di un tratto della cinta muraria costruita in epoca augustea che cingeva, con profilo irregolarmente esagonale, la città. Le mura sono in robusto conglomerato cementizio rivestito di mattoni sesquipedali e poggiano su palafitte.



LE TERME

Il complesso termale conobbe più fasi di vita tra il I e il III sec. d.c. Il nucleo dell'edificio è costituito da due ambienti rettangolari absidati sul lato orientale e con ipocausto nell'area absidale, interpretati come calidarium e tepidarium.

Il calidarium, di circa 100 mq di superficie, presentava pavimentazione in mosaico prima, in lastre di marmo poi, e pareti affrescate con scene figurate.

Presso la cinta muraria, distrutta in epoca tardoantica per consentire l’ampliamento urbanistico, vi sono i resti delle terme (II-III sec. d.c.) con due sale absidate con pilastrini sotto la pavimentazione per formare l’intercapedine che garantiva il passaggio dell’aria calda. L’abside dell’ambiente maggiore mostra ancora il pilastro in mattoni che sosteneva la vasca per le abluzioni.




GLI SCAVI

La ripresa delle indagini moderne nell’area iniziò con un programma di ricerca promosso dalla Soprintendenza e dall’Università di Padova nel 1981, con una serie di prospezioni geofisiche praticate sull’intera area che venne quindi esplorata con trincee di scavo dall’anno successivo, dirette sul campo da Elena Di Filippo.

Qui vennero alla luce importanti monumenti della colonia: il ponte e il teatro, ancor oggi visibili, il foro situato all’incrocio tra cardine e decumano massimi, la presunta fabbrica di frecce.

Altri ritrovamenti importanti sono quelli in via dei pozzi romani e un grande sepolcreto sulla sinistra del Lemene, costituito di circa 260 sarcofagi d’epoca tardo-antica le cui iscrizioni, data l’impossibilità di conservarle in loco, furono segate e portate al Museo Nazionale Concordiense di Portogruaro.


Nella piazza davanti alla Chiesa ed al complesso paleocristiano sono ripresi negli ultimi anni gli scavi che hanno portato in luce un bel tratto di strada romana con basoli di trachite che recano ancor impressi i segni del passaggio dei carri, nella strada che usciva dalla porta urbica orientale è identificabile la via che raccordava Concordia alla Via Annia. Alcuni lacerti di pavimentazioni in cubetti di cotto al di sotto del presbiterio della basilica paleocristiana, che appartengono a strutture commerciali di I-II sec. d.c.

LA CATTEDRALE
A sud di essa si sviluppano i resti dei magazzini romani destinati alla città, un grande edificio articolato in corpi paralleli suddivisi in ambienti pavimentati dapprima in assi di legno, poi in cubetti di cotto. In un fossato che scorreva lungo il fianco sud occidentale dei magazzini scaricava la grande cloaca originariamente coperta a volta, che usciva dalla città passando sotto le mura di cinta.

Dirigendosi dalla piazza lungo via S. Pietro si notano sulla sinistra i resti di un ponte romano costruito in epoca augustea e restaurato in epoca giulio-claudia. Originariamente il monumento era a tre arcate (ora ne rimane solo una) di cui la centrale più ampia, ed era costituito in blocchi squadrati di trachite senza legante. Si trovava sul percorso della strada che portava all’ingresso occidentale di concordia e valicava un fiume ora scomparso.

In Via dei Pozzi romani sono visibili i resti di due abitazioni signorili. La più interessante è la Domus dei Signini per la presenza di tre pavimenti in battuto a fondo bianco con tessere sparse ed emblema centrale in mosaico a motivi geometrici risalenti all’epoca di costruzione della casa (fine I sec. d.c.).

Lungo la strada sono visibili due pozzi in mattoni semicircolari che originariamente si trovavano nel cortile di due case romane. Qui era ubicato anche il teatro cittadino, monumento di notevoli dimensioni, di cui restano ora modeste tracce a causa delle spoliazioni subite in passato.



I BRONZI DI IULIA CONCORDIA

Nel Museo Nazionale Archelogico di Portogruaro si si possono ammirare i reperti provenienti dagli scavi di Concordia Sagittaria, a cominciare dai suoi bellissimi bronzetti:

- la statuina devozionale di Diana Cacciatrice, emblema del Museo, con il classico costume spartano, a clamide al ginocchio e un seno scoperto, con il quarto lunare come diadema sulla testa divina, intenta nella sua veste di cacciatrice a scoccare l'arco, seguita da due fedeli cani cirnechi.

- il piccolo cinghiale elegantemente stilizzato ha le forme armoniose arrotondate, ben piazzato sulle zampe leggermente puntate in avanti come stesse fiutando qualcosa.

- il fantastico MULO BACCHICO del I sec d.c., vale a dire una bellissima testa di mulo probabilmente ornamento del poggiatesta di un letto a triclinio. E' un po' malridotto ma di fattura molto arcaica e pregiata.

Il piede di squisita fattura di una gigantesca statua purtroppo distrutta dalla iconoclastia che ha distrutto i nove decimi dell'arte romana. Non a caso Cicerone diceva: "A Roma vi sono più statue che persone" E di persone ce n'erano almeno un milione.



SCOPERTA UNA  “PICCOLA POMPEI” a 70 KM A NORD-OVEST DI VENEZIA
Venerdì scorso un gruppo di archeologi ha annunciato la scoperta di un antico complesso funerario a circa 70 chilometri a nordest della città di Venezia. Si tratta del più grande e meglio conservato sito archeologico scoperto in Italia dal IXX secolo.

Situato a circa 70 chilometri a nordest di Venezia, L'area in questione rappresenta il più grande sito dell’antica Roma scoperto in Italia nell’ultimo secolo e, come Pompei, è stato preservato da un disastro naturale.

Il sito si trova fuori le antiche mura della colonia romana di Iulia Concordia, oggi parte del comune di Concordia Sagittaria.

VEDUTA DEL COMPLESSO FUNERARIO
In maniera simile a Pompei, sepolta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.c., o simile a Ostia Antica, anch'essa  travolta dalle acque e dal fango, la colonia romana fu colpita da una catastrofica inondazione avvenuta nel V sec. d.c., seppellendola sotto una coltre di detriti e sedimenti che ne hanno garantito la perfetta conservazione nei secoli.

Rimasto inaccessibile per quasi 1500 anni, il complesso comprende un podio alto quasi due m e largo sei, con i resti di due eleganti sarcofagi nella parte superiore. Come riporta Ansamed, lo scavo è stato finanziato dalla Regione Veneto grazie ai fondi dell’Unione Europea, sotto la direzione della Soprintendenza veneta per i Beni Archeologici.

Il sito è parte di Iulia Concordia, l'importante centro romano fondato nel 42 a.c. che in epoca romana fece parte della Regio X Venetia et Histria. Dopo le invasioni barbariche entrò a far parte del Ducato Longobardo di Cividale; nel Medioevo fu parte integrante prima della Marca del Friuli e poi del Patriarcato di Aquileia.



LEGIO III GALLICA

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La Legio III Gallica fu fondata da Gaio Giulio Cesare nel 48 a.c., per la sua guerra civile contro gli ottimati guidati da Gneo Pompeo.

Fu detta gallica perchè la milizia proveniva dalla Gallia Narbonense. Cesare fu il primo ad addestrare ed usare legionari extra-italici. Adottò come simbolo, come tutte le legioni di Cesare, il toro. La legione era ancora attiva in Egitto all'inizio del IV sec..



CESARE


Cicerone disse di Cesare: « Ecco l'uomo che dobbiamo combattere. Ha tutto, gli manca solo la buona causa» 

Viceversa la sua causa era ottima, Cesare fu l'unico, dopo tanti omicidi, a far approvare e applicare la legge agraria che dava le terre ai plebei, indebitamente tenute dai patrizi, Cicerone compreso.

Cesare e Pompeo si affrontano a Farsalo, dove Cesare vince. Pompeo fuggì in Egitto, ma lì fu ucciso (48 a.c.). 

Anche Cesare va in Egitto, riprende la guerra contro il re del Ponto Farnace II e lo vince (47 a.c.). 

Parte per l'Africa, contro i pompeiani al comando di Catone, e li vince a Tapso (46 a.c.). 

I superstiti fuggono in Spagna, dove Cesare li vince a Munda (45 a.c.) stavolta per sempre. .

La legione Gallica prende parte a tutte queste battaglie della guerra civile a fianco di Gaio Giulio Cesare, il più amato dei generali romani.

Giulio Cesare viene assassinato nel 44 a.c. e la III passa dalla parte di Marco Antonio, il generale fidato di Cesare, contro i cesaricidi. 



MARCO ANTONIO

Nel 41 Ottaviano assedia Perugia dove si è rifugiato Lucio, il fratello di Marco Antonio. Punisce i cittadini ma dà a Lucio il governatorato della Spagna per non inimicarsi Marco Antonio.

Dopo la morte di Giulio Cesare la III Gallica passò nell'esercito di Marco Antonio, ex generale di Cesare, con il quale partecipò alla grande campagna partica del 36 a.c..

Dopo la sconfitta e la morte di Marco Antonio ad Azio (31 a.c.), la legio III passa nel nuovo esercito di Augusto, l'erede di Giulio Cesare..



NERONE

Il governatore di Siria Cn. Domizio Corbulone, già esautorato per gelosia dall'imperatore Claudio utilizza la III Gallica per la sua campagna (63) contro i Parti, per conquistare il Regno di Armenia, già protettorato di Roma, insomma uno stato cuscinetto tra le due potenze. 

Anche qui però i successi ottenuti da Corbulone suscitano la gelosia di Nerone per la grande popolarità raggiunta a Roma, ma non lo esautora come fece Claudio, bensì lo costringe a suicidarsi. 

La III viene poi inviata in Mesia, a difendere il confine sul Danubio subito dopo la morte di Nerone nel 68.

Nell'Anno dei quattro imperatori, nel 69, il seggio imperiale tocca prima a Galba, successore di Nerone, in carica dal giugno 68, 

Poi a Otone, entrato in carica a gennaio, poi a Vitellio, imperatore da aprile, e Vespasiano, che ottiene l'impero a dicembre tenendolo per dieci anni, fino alla sua morte.



VESPASIANO

 La III Gallica parteggia prima per Otone, poi passa a Vespasiano che accetta senza ritorsioni e combatte al suo servizio nella decisiva II e vittoriosa battaglia di Bedriaco.

« Alla battaglia di Bedriaco, prima che iniziasse lo scontro, due aquile avevano cominciato a combattere davanti a tutti, e dopo che una era stata vinta, ne era apparsa una terza da oriente, che aveva messo in fuga la vincitrice.»
(Svetonio, Vita di Vespasiano, 5.)

Si narra che i legionari della Gallica, durante la permanenza in Siria, avessero preso l'abitudine di salutare il sole nascente, in un rito legato al culto solare, e così fecero anche a Bedriaco; gli uomini di Vitellio, credendo che la III legione stesse salutando dei rinforzi giunti da oriente si demoralizzarono e vennero così persero la battaglia. 

L'esercito di Vitellio viene pertanto sconfitto definitivamente e il potere passa ai Flavii. In quegli anni il tribunus militum della III Gallica è C. Plinio Cecilio Secondo. Alla fine della guerra, la III Gallica viene rimandata in Siria, dove nel II sec. si trova impegnata nella soppressione delle rivolta giudaica, 

Era andata così: nel 66, quando Nerone venne informato della sconfitta subita in Giudea dal suo legatus Augusti pro praetore di Siria, incaricò Vespasiano di attaccare la Giudea in rivolta. Vespasiano però inviò il figlio Tito ad Alessandria d'Egitto, per rilevare la legio XV Apollinaris, mentre egli stesso traversava l'Ellesponto a reclutare alleati, raggiungendo la Siria via terra.

Dopo aver conquistato molte città giunsero a Gerusalemme dove: 
« Dopo la morte dei sommi sacerdoti, Zeloti e Idumei si avventarono sul popolo facendone grande strage. La gente comune veniva massacrata sul posto, mentre i giovani nobili  erano incatenati, gettati in prigione, con la speranza che qualcuno passasse dalla loro parte. Ma nessuno si lasciò persuadere: vennero flagellati e torturati. Il terrore del popolo fu tale, che nessuno osava più piangere per un congiunto ucciso, né dargli sepoltura. Piangevano di nascosto chiusi in casa, poiché chi piangeva apertamente avrebbe subito la stessa sorte del compianto. Alla fine, morirono dodicimila giovani della nobiltà. »
(Giuseppe Flavio, La guerra giudaica)

Nel 69 d.c. Vespasiano è eletto imperatore; ordina di liberare Giuseppe Flavio che era in catene e torna a Roma, dove lo ospita nella sua reggia e gli dà una rendita. Ripresa delle operazioni in Giudea sotto Tito, che nel 70 d.c. espugna Gerusalemme e pone fine alla guerra giudaica. 



LUCIO VERO

Tra il 163 ed il 166 Lucio Vero viene costretto dal fratello Marco Aurelio a condurre una nuova campagna in Oriente contro i Parti, che l'anno prima avevano attaccato i territori romani di Cappadocia e Siria. 

Il nuovo imperatore, trasferitosi per quattro anni prevalentemente ad Antiochia in Siria, lascia che fossero i suoi generali ad occuparsene, tra cui lo stesso Gaio Avidio Cassio che sarebbe riuscito ad usurpare il trono imperiale, anche se solo per pochi mesi, dieci anni più tardi, nel 175.



ELIOGABALO

Nel 218 Giulia Mesa, figlia di Giulio Bassiano, sacerdote del Dio solare El-Gabal, si reca a Rafana, in Siria, dove la III Gallica stanziava al comando di P. Valerio Comazone Eutichiano, che voleva uccidere Macrino per mandare al potere Eliogabalo, e compra i legionari, con il denaro che Macrino non le aveva confiscato.

Macrino è inviso all'esercito, perchè aveva firmato una pace coi Parti dai termini molto onerosi e aveva ridotto la paga dei soldati. Il 16 maggio, la legione III Gallica, di stanza ad Emesa, proclama Eliogabalo imperatore, annientando una unità di cavalleria inviata da Macrino. L'imperatore pentitosi fa un donativo alle truppe, e con la II Parthica attacca Emesa, ma venne sconfitto, 

Macrino si ritirò ad Antiochia e i legionari acclamarono imperatore il nipote quattordicenne di Giulia, Sestio Vario Avito Bassiano, cioè Eliogabalo, che venne spacciato per figlio naturale di Caracalla per dargli una parvenza di legalità. Infine la II Partica marciò su Antiochia e Macrino venne sconfitto e ucciso.

L'8 giugno del 218 la III Gallica e altre legioni che sostenevano Eliogabalo sconfissero nella battaglia di Antiochia le forze di Macrino. Valerio Comazone entrò a far parte della corte di Eliogabalo, divenendone il prefetto del pretorio e diventando console nel 220.
Il nuovo imperatore mostrò la propria clemenza, limitandosi a rimandare in Siria le donne e i giovani della famiglia di Macrino.

Pur avendo portato al potere Eliogabalo, la III Gallica si accorse ben presto delle follie dell'imperatore per cui nel 219 la legio sostenne la rivolta di Vero, che si proclamò imperatore. Ma Eliogabalo soppresse la rivolta, fece giustiziare Vero e sciolse la legione, i cui legionari vennero trasferiti alla III Augusta, di stanza in Africa.



ALESSANDRO SEVERO

Il successivo imperatore, Alessandro Severo, ricostituì la legione e la rimandò in Siria, nei pressi di Damasco, a proteggere la strada per Palmira.

Da allora poco si sa della III Gallica, se non che nel 323 era ancora stanziata in Siria. Si sa però che una unità mista della III Gallica e della I Illyricorum venne impiegata in Egitto nel 315-316,.
anno in cui alcune vexillationes della I Gallica furono inviate in Egitto, assieme a delle sotto-unità della III Gallica. Alcune unità miste composte con soldati delle stesse due legioni vennero impiegate a Siene (Assuan) in Egitto, nel 323.



LUCIO ARTORIO CASTO

Un legionario importante della III Gallica fu il centurione Lucio Artorio Casto, la figura storica che probabilmente dette il via alla leggenda di Re Artù. Le notizie che abbiamo di Lucio Artorio Casto, ovvero di Lucius Artorius Castus, vissuto nel II sec. d.c.provengono soprattutto da un'epigrafe piuttosto lacunosa ritrovata in due frammenti a Podstrana, sulla costa della Dalmazia: certamente una lastra del sarcofago di Artorio, che essendo membro della gens Artoria, era probabilmente originario della Campania

Una seconda iscrizione più breve, una targa commemorativa ritrovata nella stessa località dalmata, riporta solo pochi dati simili a quelli del sarcofago. Una terza iscrizione, della cui autenticità non si è certi, recante il solo nome di Lucio Artorio Casto, venne ritrovata a Roma e attualmente è al Louvre. Dalle iscrizioni conservate, sembra che il personaggio risalga alla fine del II secolo.

Secondo il lungo testo dell'iscrizione del sarcofago, Artorio Casto era stato un centurione della III legione Gallica, poi passato alla VI legione Ferrata, alla II legione Adiutrice e alla V legione Macedonica, nella quale fu anche nominato primo pilo. Divenne poi preposito della flotta di Miseno (cioè la forza navale di stanza nella Baia di Napoli) e infine prefetto della VI legione Vincitrice, dislocata nella provincia di Britannia sin dal 122. Dopo essere stato alto ufficiale nella legione VI Vincitrice, ebbe un titolo, "dux", riservato a chi si era distinto per imprese eccezionali.

Casto si ritirò poi dall'esercito e divenne procurator centenarius (cioè governatore, con una provvigione di centomila sesterzi annui) della Liburnia, odierna Croazia, nel settentrione della Dalmazia, dove concluse la sua vita, facendosi seppellire nella necropoli di Salonae Palatium (nella città romana di "Spalatum", oggi Spalato. Non si sa altro di certo su di lui.

EPIGRAFE DI ARTORIUS

LE EPIGRAFI

"D(is) [M(anibus)] .
L(ucius) Artori[us Ca]stus .|
(centurio) leg(ionis) . 
III Gallicae item 
[(centurio) le]g(ionis) VI Ferra/tae item |
(centurio) leg(ionis) II Adi[utr(icis) i]tem |
(centurio) leg(ionis) V M[a]/-c(edonicae) 
item p(rimus) p(ilus) eiusdem praeposito / 
classis Misenatium [pr]aef(ectus) leg(ionis) VI / 
Victricis duci legg(ionum) [?triu?]m Britan(n)ic{i}/
{mi}arum adversus Arm[orico]s proc(urator) cente/nario provinciae Li[burniae iure] gladi(i) vi/vus ipse sibi et suis [ ex te]stamento"

La datazione dell'iscrizione dalmata (risalente a prima del 200) e la definizione di Casto nel testo come "dux leggionum .. Britaniciniarum" suggeriscono che si potrebbe trattare di un comandante militare al seguito di Ulpio Marcello, il quale nel 185 fu inviato, come narra Cassio Dione, a capo di una spedizione militare in Armorica (odierna Bretagna) e Normandia. 


Ulpio Marcello

Nel 174 venne eletto consul suffectus e inviato a governare la Britannia dall'imperatore Marco Aurelio nel 176 almeno fino al 178/180, Una volta ucciso il suo successore in Britannia a seguito di una massiccia invasione delle tribù del nord, che, secondo Dione Cassio, avevano oltrepassato il Vallo di Adriano, venne inviato nuovamente in questa provincia. Poco altro si conosce su questi eventi. Non si sa con precisione neppure quanto tempo i romani abbiano impiegato per ricacciare oltre il Vallo gli invasori. È possibile ipotizzare che Marcello abbia ottenuto importanti successi militari al 184/185, tanto che Commodo poté fregiarsi del titolo vittorioso di Britannicus


IL DUX

Se Casto partecipò alla vittoriosa campagna guidata da Ulpio Marcello (forse un suo parente, dato che la gens Ulpia era imparentata con la gens Artoria) contro i Caledoni e poi al pattugliamento e alla difesa del Vallo di Adriano, doveva essere stanziato, a Bremetenacum Veteranorum con un contingente di cavalieri sarmati. 

Quando la VI Vincitrice si ammutinò, Casto dovette restare fedele all'imperatore (un avo di Commodo era Marcus Artorius Geminus, del periodo augusteo); tanto è vero che, in base all'epigrafe, Casto, dopo essere stato alto ufficiale nella legione VI Vincitrice, ebbe il prestigioso titolo di "dux".

Secondo alcuni studiosi questa interpretazione porterebbe all'identificazione del personaggio con il "Re Artù" storico: l'ipotesi di identificare Casto con Artù fu avanzata per la prima volta da Kemp Malone nel 1924. Sebbene infatti Casto non visse al tempo delle invasioni sassoni in Britannia (V secolo), si potrebbe pensare che il ricordo delle gesta di Casto, tramandate nelle tradizioni locali, andarono crescendo col tempo fino a formare le prime tradizioni arturiane.

La prima apparizione del personaggio "Arthur", qualificato "dux" così come Artorius nell'epigrafe, nella Historia Brittonum del IX secolo, secondo lo storico Leslie Alcock, era tratta da un poema gallese, originariamente privo di un riferimento cronologico preciso, come pure di una indicazione degli avversari contro cui combatté le sue dodici vittoriose battaglie.
La Historia Brittonum venne compilata nel IX sec. dal monaco gallese Nennio, probabilmente rielaborando materiale orale precedente, tratta delle vicende dell'Inghilterra dopo la partenza delle legioni romane e nel periodo delle successive invasioni sassoni.

Recenti studi (Xavier Loriot e altri) tendono tuttavia a leggere nell'epigrafe "Armenios" in luogo di "Armoricos", modificando il quadro spaziale e temporale della vita e delle gesta di Lucius Artorius Castus, ma di tutto ciò non vi è alcuna prova.



RE ARTU'

Re Artù è un'importante personaggio delle leggende della Gran Bretagna, il re giusto e saggio sia in pace che in guerra. Figlio di re Uther Pendragon, è il personaggio principale della Materia di Britannia (anche Ciclo bretone e Ciclo arturiano), anche se non è chiaro se Artù, o la persona reale su cui poggia la leggenda, sia veramente esistito. 

Stranamente nelle citazioni più antiche e nei testi in gallese Artù non viene mai definito re, ma dux bellorum ("signore delle guerre") e il termine Dux riguarderebbe Artorio Casto. Antichi testi altomedievali in gallese lo chiamano invece ameraudur (imperatore), prendendo il termine dal latino, forse perchè Casto era ritenuto una specie di Imperator romano.

CULTO DI LEUCOTEA

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INO-LEUCOTEA (Castello di Santa Severa)
Il tempio di Leucotea fu rinvenuto nei primi anni 60 vicino al castello dagli scavi del professor Pallottino. La testa riccioluta della Dea era posta a decorazione del frontone anteriore del tempio A di Pyrgi - ( IV sec. a.c )


Molte delle straordinarie testimonianze rinvenute lungo il litorale a nord di Roma, proprio in prossimità del castello di Santa Severa, sono tornate a casa in occasione della mostra " L'antico viaggio nel mare che nutre ", un'occasione di rivedere in loco pezzi di grande importanza e che oggi sono custoditi presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

- Prima fra tutte la famosa testina di Leucotea-Thesan databile tra la metà e il terzo venticinquennio del IV sec. a.c., 
- una cornice in terracotta di una delle celle del tempio A di Pyrgi (460 a.c.), 
- due raffinate antefisse a testa di Sileno e di Menade
- altri reperti provenienti dal piccolo Museo dell’Antiquarium. 

La città di Pirgy era uno dei porti di Caere Vetus (Cerveteri) e, tra il VI e il IV sec. a.c., uno dei più importanti scali commerciali del Mediterraneo. 

Possedeva due grandi santuari celebrati in tutto il mondo antico, frequentati da Etruschi, Greci e Fenici. 

Il primo era un tempio della fine del VI secolo a.c. dedicato a Uni-Astarte (Tempio B) e il secondo un tempio della prima metà del V sec. a.c. dedicato a Leucotea-Ilizia, (l'etrusca Uni,Tempio A). 

I numerosi reperti furono portati alla luce nei primi anni 60 dagli scavi del professor Pallottino. 
Dell’immagine della Dea in terracotta che decorava il tempio rimane solo il bel volto, quasi intatto, con i capelli riccioluti esposti al vento, che volge lo sguardo verso l’approdo sicuro offerto da Eracle. 



LA DEA BIANCA

E’ proprio lei, "La Dea Bianca” cui lo studioso Robert Graves dedicò un documentatissimo libro dal titolo omonimo. 

LEUCOTEA
La Dea avrà nomi diversi, denominata anche Ino, Alba ed Aurora o in greco Leucotoe, sarà identificata con molte Grandi Madri, perchè in origine ella fu la Madre degli Dei, la Dea senza marito che si accoppia con chiunque voglia.

La Dea Bianca, o Aurora, era la Dea dell'inizio, la Sorgente del Mondo. Come l'Aurora era la luce che illuminava la tenebra al mattino, così la Dea aveva portato la luce nella Tenebra del mondo.

Spodestata dalle invasioni ariane del mediterraneo divenne ninfa o Dea minore, dando luogo a diversi miti.


I mito

La leggenda vuole che la Dea fosse approdata a Roma dopo il suicidio e la sua trasformazione in nereide, punita da Giunone per aver allevato Dioniso, figlio adulterino di Giove. Divenuta divinità del mare, sarà lei a donare a Odisseo la fascia miracolosa con la quale riuscirà a raggiungere la terra dei Feaci.


II mito

Venere, per vendicarsi di Apollo che l'aveva sorpresa con Marte, lo fece innamorare di Leucotoe, figlia di Orcamo, re degli Achemenidi. Il Dio, per possedererla, si tramutò nella madre della ragazza.

Entrato nella stanza dove Leucotoe stava tessendo insieme alle ancelle, riuscì a rimanere solo con lei. Clizia, una ninfa innamorata di Apollo, per vendicarsi del Dio che l'aveva disdegnata, rivelò lo stratagemma al padre di Leucotoa, che punì la figlia, innocente ma disonorata, seppellendola viva in una fossa profonda. Il Dio, non potendo resuscitarla, fece nascere sul luogo dov'era sepolta una pianta d'incenso.


III mito

Melicerte, figlio di Atamante, re dei Mini in Orcomeno, e di Ino, fu gettato nell’acqua bollente dal padre o dalla madre impazziti. Poi Ino, rinsavita, lo trasse fuori e si gettò con lui in mare; fu trasformata nella divinità marina Ino-Leucotea, mentre Melicerte divenne Palemone (Portunus per i Romani), Dio propizio ai naviganti. Nel tempio di Portunno a Roma, il Dio aveva una statua di lui bambino in braccio a Leucotea che era venerata nel tempio insieme a lui.


IV mito

Ovidio narra che quando Ino-Leucotea arrivò a Roma, aveva incontrato le Baccanti che celebravano i riti dionisiaci, le quali, istigate da Era, che ancora non aveva perdonato ad Ino di aver fatto da nutrice a Dioniso fanciullo, si erano scagliate su di lei e stavano per straziarla.

Alle sue grida era accorso Ercole, che si trovava proprio nelle vicinanze, e l'aveva liberata; l'aveva poi affidata a Carmenta, madre di Evandro, la quale le annunciò che a Roma le sarebbe stato tributato un culto insieme al figlio, che sarebbe stato onorato col nome di Portunno. E così fu.



LA MATER MATUTA

Lucrezio - De rerum natura (Lib. V, 656-662)

Così a un'ora fissa Matuta soffonde con la rosea luce
dell'aurora le rive dell'etere e spande la luce...
è fama che dalle alte vette dell'Ida si assista
a questi fuochi sparsi quando sorge la luce,
poi al loro riunirsi come in un unico globo

formando il disco del sole e della luna -


Leucotea fu assimilata a molte Dee, tra cui la Mater Matuta, detta anche la "Natura Naturata" cioè la Manifestazione della Dea Madre, sotto forma di Terra, piante, animali ed uomini. 

Quella che poi passò ad Eva, detta la Madre dei Viventi, in poche parole la Natura, anticamente adorata come unica Dea o Madre degli Dei.

La statua femminile, che regge sul grembo un bambino avvolto in un panno, è seduta su un trono cubico con braccioli a forma di fingi accovacciate con ali aperte.

La testa, mobile, fungeva da coperchio; ugualmente mobili sono i piedi.

Il corpo fu probabilmene ricavato da un unico blocco di pietra.

E' stata datata tra il 450 e il 440 a.c.

La statua-cinerario venne definita Bona Dea; Tujltha, Dea degli Etruschi protettrice dei morti, Proserpina; o Mater Matuta.

La discrepanza tra l'esecuzione della testa e quella del corpo, frequentissimo nell'arte etrusca, anche nelle figure dei defunti sui coperchi delle urne, fa pensare che siano stati prodotti in botteghe diverse. 

Il corpo, massiccio, si stacca appena dal blocco cubico del trono; il panneggio è reso con vivo plasticismo e senso volumetrico soprattutto sulle gambe.

Molto bella la testa, con capelli spartiti sulla fronte, trattenuti da una tenia e ricadenti sulle tempie in bande ondulate; volto ovale con grandi occhi a mandorla, palpebre pesanti, naso diritto, labbra carnose, che ne accentuano l'espressione serena e pensosa, come nella grande arte greca del V sec. a.c.



INO-LUCOTEA

Ino fu la seconda moglie di Atamante. Dalla loro unione nacquero Learco e Melicerte. Atamante aveva avuto da Nefele altri due figli, Frisso ed Elle, che Ino odiava e di cui voleva liberarsi.

INO-LEUCOTEA
Convinse allora le donne del popolo a riscaldare nel forno il grano conservato per la semina, affinché, una volta seminato, non crescesse, gettando così il paese nella carestia.

Atamante inviò i propri messaggeri all'oracolo di Delfi per chiedere consiglio, ma Ino li corruppe affinché riferissero che secondo l'oracolo il re avrebbe dovuto sacrificare Frisso sull'altare di Zeus.

Atamante fu costretto ad acconsentire, ma Frisso ed Elle chiesero aiuto alla madre Nefele, che inviò loro un ariete dal vello d'oro, in groppa al quale essi fuggirono.

Dopo la morte della sorella Semele, madre di Dioniso, Ino persuase Atamante ad allevare il piccolo Dio, nato dall'unione di Semele con Zeus.

Era, sposa di Zeus, per vendicarsi del tradimento, fece impazzire Atamante che, incontrati la moglie e i figli, li scambiò per cervi e li assalì, uccise Learco scagliandolo contro uno scoglio e lanciò Melicerte in mare. 

Nel tentativo di salvarlo, Ino si gettò a sua volta in mare, e per volere di Afrodite (la cui figlia Armonia era la madre di Ino), i due furono trasformati in divinità marine, protettrici dei marinai: Leucotea, la «Dea bianca» o la «Dea del cielo coperto di neve», e Palemone.

Come si vede i miti differiscono da regione a regione e la Grande Dea venne declassata e pure demonizzata, per aiutare a non affidarsi più al suo culto. In quanto Dea Bianca Ino divenne anche Dea delle nevi e delle montagne innevate, dove le si ergevano piccoli ma sentiti santuari.



LA DEA DEL MARE

La “dea bianca” era protettrice dei marinai, degli stranieri e dei rifugiati, detta anche "stella del mare", appellativo poi traslato alla Madonna, anch'essa protettrice dei naviganti. La sua testa è conservata al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. 
Il reperto, preziosissimo, proviene dal tempio dedicato a Leucotea e edificato intorno al 460 a.c. sulla spiaggia immediatamente a sud del castello, a Pyrgi, nell’antico porto della città etrusca di Caere, oggi Cerveteri.


ADORAZIONE DI INO-LEUCOTEA-MATER MATUTA
RAPPRESENTATA DALLA SIBILLA ALBUNEA-TIBURTINA
Lì sorgeva un vasto santuario, tra i più importanti d’Etruria, celebre e noto alle fonti greche e latine. Il complesso è stato riportato alla luce nel corso di cinquant'anni di indagini condotte dalla Cattedra di Etruscologia dell’Università La Sapienza di Roma.

LA SIBILLA TIBURTINA
Il titolo dell'affresco è "Adorazione di Ino-Leucotea-Mater Matuta, significata per Sibilla Albunea-Tiburtina", venne eseguito da Cesare Nebbia nel 1569, e si trova nella II Stanza Tiburtina di Villa d’Este, a Tivoli.

Nel dipinto la statua d’oro di Ino, seduta in trono col suo bambino, è posta in trono su un piedistallo. Ella è contemporaneamente Leucotea, la Mater Matuta, Albunea e la Sibilla Tiburtina e davanti a lei, sono posti in ginocchio, in atteggiamento adorante, a destra i Tiburtini schierati in semicerchio, e, sulla sinistra, i profeti dell'Antico Testamento, in piedi ma pur sempre adoranti.

In un paesaggio rigoglioso di vegetazione emerge la figura della Sibilla alle cui spalle fluiscono le acque della fonte che sgorga da un colle sovrastato da un tempio a pianta circolare di ordine corinzio.

L’immagine ritrae, seduta in trono, la locale Sibilla Albunea detta Tiburtina che una leggenda popolare identificava con Ino, ovvero Leucotea, cioè bianca nella lingua greca, e albunea e aurora nella lingua latina. 

Tentare di sciogliere l’enigma legato all’associazione della figura della Sibilla Albunea o Tiburtina con Ino-Leucotea-Mater Matuta, che fra l’altro sembra riscontrarsi solo a Tivoli, è impresa complessa, visto che allo stesso Pirro Ligorio, che progettò e realizzò non solo la villa, ma anche l’immenso complesso monumentale del giardino, sfuggiva il passaggio di Ino nella Sibilla Tiburina.

LA SIBILLA TIBURTINA ANNUNCIA IL CRISTO AD AUGUSTO
La profezia della Tiburtina, di genere apocalittico, è l'interpretazione di un misterioso sogno, riguardante nove soli diversi per aspetto e colore, fatto da cento senatori romani, i quali ne chiesero spiegazione alla Sibilla, che le versioni latine identificano appunto con la Tiburtina.

Fino alla metà del secolo scorso il testo era conosciuto esclusivamente attraverso le rielaborazioni medievali in lingua latina, databili tra la metà del XI e l'inizio del secolo XVI, fitte di modifiche sia riguardanti la successione, via via aggiornata, dei sovrani e degli imperatori occidentali, sia il cosiddetto Sibylline Gospel, ovvero la spiegazione del IV sole, che rappresenta l'età del mondo in cui si colloca la nascita di Cristo.

In realtà la spiegazione è semplice: poichè le sibille furono venerate dal popolo fino al Rinascimento e non ci fu verso di abolire questa pratica pagana, la Chiesa si inventò che più o meno tutte preconizzassero la venuta del Cristo. In questa versione di vaticinio cristiano esse potevano essere tranquillamente venerate senza incorrere nelle terribili inquisizioni ecclesiastiche. 

L'IMPERATORE AUGUSTO E
LA SIBILLA TIBURTINA (1435)
La Sibilla Tiburtina, nell'immaginario cristiano, avrebbe preconizzato il Cisto addirittura ad Ottaviano Augusto che di conto avrebbe avuto una visione della Madonna.

Infatti anche la figura di Augusto era rimasta molto cara agli italici, e poichè l'imperatore si era fatto divinizzare, e il suo regno era stato prospero e felice, ancora dopo secoli, i pronipoti dell'impero Romano lo adoravano come una divinità.

Ma c'è di più, perchè dietro la Sibilla Albunea si celava ancora Leucotea, la Dea Bianca, una divinità ancora seguita nelle campagne, Dea cara agli alchimisti medievali che ne accennavano come alla fase "Albedo" della Grande Opera Alchemica, riportata ancora, nel XVII sec., sulla Porta Alchemica di Piazza Vittorio a Roma (o Porta Magica), dove si fa riferimento alle "Bianche Colombe di Diana". 

La Dea Bianca venne adorata in gran segreto nelle campagne fino al sedicesimo secolo, vale a dire fino alla Santa Inquisizione che fu la tomba di qualsiasi credo pagano residuo.

I COLOMBARI ROMANI (R. LANCIANI)

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COLOMBARIO DEGLI SCIPIONI

ROBERTO LANCIANI

I COLOMBARI

Un'altra istituzione, quella dei columbaria o ossaria come dovrebbero essere più propriamente chiamati, deve la sua origine alla stessa causa. I colombari sono un’esclusiva di Roma e dell’Agro Romano e non si trovano da nessun'altra parte, nemmeno nelle colonie o negli insediamenti originati direttamente dalla città. Iniziarono ad apparire circa vent'anni prima di Cristo, sotto il regno di Augusto e l'influenza di Mecenate.

Infatti il Campus Esquilinus, fino alla loro epoca usato per le sepolture di artigiani, operai, servitori, schiavi e liberti, fu soppresso in seguito alla riforma sanitaria descritta da Orazio, sepolto sotto uno strato di terra vergine e trasformato in un parco pubblico; inoltre, la scomparsa del citato cimitero fu subito seguita dall'apparizione dei columbaria. Credo che i due fatti siano legati da un rapporto di causa effetto e che entrambi facciano parte della stessa riforma sanitaria.

Quegli illuminati uomini di Stato non avrebbero potuto trovare un'alternativa più pulita, più sana e più rispettabile degli antichi puticoli (una sorta di pozzi usati come fosse comuni, alcuni ritrovati nella II metà dell’800 all’Esquilino e riportati nella tavola della Forma Urbis del Lanciani ). Chiunque, indipendentemente dalla sua posizione sociale, poteva assicurarsi un dignitoso luogo di riposo con una minima somma di denaro.

L'iscrizione seguente, che può essere ancora vista nel colombarium scoperto nel 1838 nella Villa Pamphili,  è stata interpretata da Hülsen col significato che Paciaecus Isarguros aveva venduto a certi Pinaria e a Murtino un posto ciascuno.

Le lapidi riportano spesso transazioni di questo tipo e rendono possibile la determinazione del costo per l’acquisto di uno o più loculi o per l’intera tomba. Friedländer, nel Königsberg Programm dell’ottobre del 1881, ha raccolto 38 documenti sul costo delle tombe; poteva variare da un minimo di 200 sesterzi (8.25 $) ad un massimo di 192.000 (8000 $)(valore del dollaro nel 1892).

COLOMBARIO DI VIA TARANTO

C’erano tre tipi di colombari:

- Il primo, rappresentato da quelli costruiti da un uomo o da una famiglia per il proprio uso privato e per quello dei propri servitori e liberti;

- il secondo rappresentato da quelli costruiti da uno o più individui a scopo di lucro, nei quali ci si poteva assicurare un posto attraverso l'acquisto;

- il terzo, rappresentato da quelli costruiti da una società per uso personale degli associati e degli iscritti.

6.5 Iscrizione che descrive l’organizzazione di uno di questi, sulla Via Latina

Come buon esempio dei colombari del secondo tipo possiamo citarne uno costruito sulla via Latina da una associazione di 36 soci. Fu scoperto nel 1599, non lontano dalla porta, e i suoi reperti si dispersero in vari luoghi della città. 

Come prova della negligenza con cui venivano condotti gli scavi nei tempi passati, possiamo riferire che quando lo stesso luogo fu oggetto di nuove indagini nel 1854 ad opera di un uomo chiamato Luigi Arduini, furono scoperte altre iscrizioni di grande valore, dalle quali possiamo capire come erano strutturate e come operavano queste società di mutua assistenza funebre.

Il primo documento, un’iscrizione marmorea sopra la porta della cripta, afferma che nell'anno 6 a.c. 36 cittadini formarono una società per la costruzione di un colombario, che ognuno sottoscrisse un ugual numero di quote e che scelsero due degli azionisti come amministratori. 

I loro nomi sono Marco Emilio e Marco Fabio Felice; il loro titolo ufficiale è Curatores Aedificii XXXVI sociorum. Essi raccolsero le sottoscrizioni, comprarono il terreno, costruirono il colombario, approvarono e pagarono i conti degli appaltatori e, avendo adempiuto al loro dovere, indissero una riunione generale per il 30 settembre. 

La loro relazione fu approvata e fu sottoscritto un atto, debitamente firmato da tutti presenti, che dichiarava che gli amministratori avevano adempiuto al loro dovere secondo lo statuto. Questi procedettero quindi alla distribuzione dei loculi in lotti uguali che rappresentavano i dividendi della società. 

La tomba conteneva 180 loculi per urne cinerarie; ognuno dei soci di conseguenza aveva diritto a 5 loculi. La distribuzione, comunque, non rappresentava un problema di semplice soluzione come il numero farebbe sembrare. Sappiamo che i lotti venivano estratti, per "sortitionem ollarum", e sappiamo anche che, in alcuni casi, i soci ricompensarono i loro presidenti, amministratori e commercialisti votando per la loro esenzione dalla regola, accordandogli il diritto di scegliersi i propri loculi senza estrazione (sine sorte).

Evidentemente alcuni posti erano più appetibili di altri e, se teniamo presente come erano costruiti i colombari, non è difficile capire quali loculi fossero i più richiesti.

La pia devozione dei Romani verso la morte li portava a visitare frequentemente le proprie tombe, specialmente durante gli anniversari quando le urne venivano decorate con fiori, si offrivano libagioni e venivano celebrate altre cerimonie. Queste inferiae, o riti, potevano essere officiate facilmente se il loculo e l'urna cineraria erano vicino al terreno, altrimenti erano necessarie scale per raggiungere le file superiori. 

COLOMBARIO DI POMPONIO HYLAS
Si incontrava la stessa difficoltà quando le urne cinerarie dovevano essere poste nelle loro nicchie; di conseguenza le tavolette funerarie (tabulae ansatae) e i memoriali contenenti il nome, l'età, la condizione sociale etc., del defunto, scritte con inchiostro o carboncino o anche incise sul marmo, non potevano essere lette se posizionate a distanza troppo elevata dal pavimento. 

Per queste ragioni e per evitare ogni sospetto di parzialità nella distribuzione dei lotti, i soci si affidarono alla sorte. La cripta scoperta sulla via Latina conteneva cinque file ognuna contenente 36 nicchie. Le file venivano chiamate "sortes", le nicchie "loci". Ora, dato che ogni socio aveva diritto a 5 loculi, uno su ogni fila, i lotti erano estratti solo riguardo alla posizione del locus, non della fila. Le iscrizioni scoperte nel 1599 e nel 1854 riportano quindi tutte la stessa formula:

"Di Caio Rabirio Eschino, quarta fila, loculo ventottesimo";
"Di Lucio Scribonio Soso, quarta fila, loculo ventitreesimo".

Abbiamo in tutto 9 nomi su 36. La scelta dei loculi di Rabirio Fausto è l'unica che conosciamo interamente. Ha avuto dalla sorte il n°30 nella prima riga, il n°28 nella seconda, il n°6 nella terza, il n°8 nella quarta ed il n°31 nella quinta.

Sono occorsi almeno 31 anni ai membri della società per rientrare pienamente del loro investimento, visto che l'ultima sepoltura di cui si fa menzione nelle lapidi ha avuto luogo il 25 d.c. Quest’ultimo venuto non era un uomo ignoto; era il famoso auriga, auriga circensis, Scirto, che iniziò la sua carriera nel 13 d.c., nella squadra dei bianchi.
(Le squadre del circo a Roma erano 4: la "russata" rossa, l’"albata" bianca, la "prasina" verde e la "veneta" azzurra). 
 In tredici anni vinse il primo premio 7 volte, il secondo 39 volte, il terzo 40, oltre ad aver conquistato altri onori minuziosamente descritti nella sua lapide.

COLOMBARIO DI VIGNA CODINI

6.6 L’estensione dei cimiteri pagani fuori Roma ed il numero di tombe che contenevano


Gli scavi moderni hanno dimostrato infondata la teoria secondo la quale le tombe romane venivano costruite lungo le strade solamente su due o tre piani così che potessero essere viste da coloro che passavano. Lo spazio destinato alla sepoltura aveva caratteristiche molto più estensive. A volte si estendeva sull'intero territorio posto tra una strada e la successiva. 

E' questo il caso dei terreni tra la via Appia e la via Latina, tra la via Labicana e la via Prenestina, nonché tra la via Salaria e la via Nomentana, ognuno dei quali contiene centinaia di acri pieni di tombe. 

Nel triangolo formato dalla via Appia, la via Latina e le mura Aureliane, in tempi recenti sono state scoperte 1559 tombe senza contare la tomba di famiglia degli Scipioni. 
Vicino alla via Labicana ne sono state scoperte 994, vicino Porta Maggiore, in uno spazio lungo e 55 metri e largo 45. Il numero di lapidi pagane registrate nel volume sesto del "Corpus"è 28.180, senza contare le aggiunte che porterebbero il numero a 30.000. 
Considerando che nella migliore delle ipotesi una lapide su dieci è sfuggita alla distruzione, possiamo certamente affermare che Roma era circondata da una cintura di almeno 300.000 tombe.

Il lettore può facilmente immaginare quale sia la massa di informazioni che può derivare da questa fonte. Sotto questo aspetto, l’attenta lettura delle parti II, III e IV del VI volume del "Corpus"è più utile allo studioso di quanto non siano tutti manuali e i "Sittengeschichten" del mondo; inoltre, la lettura non è fredda e noiosa come uno potrebbe supporre.

EPITAFFIO ROMANO

6.7 Epitaffi particolari

Molti epitaffi forniscono un resoconto della vita del defunto, del suo grado nell'esercito, delle campagne in cui ha combattuto, della nave a cui apparteneva, se aveva servito in marina, del settore commerciale di cui si occupava, del domicilio dei propri interessi, del suo successo nella carriera equestre o senatoriale, nel circo o nel teatro, del suo stato civile, della sua età, luogo di nascita e così via. A volte le lapidi presentano una notevole eloquenza e addirittura senso dell'umorismo.

Riportiamo un'espressione di opprimente dolore, scritta su un sarcofago tra le immagini di un ragazzo e di una ragazza:
"Che madre crudele ed empia che sono: alla memoria dei miei dolcissimi bambini, Publilio che visse tredici anni e 55 giorni, ed Eria Teodora che visse ventisette anni e 12 giorni. O misera madre, che ha assistito alla fine più crudele dei loro bambini! Se Dio avesse avuto pietà, saresti stata seppellita con loro".

Un'altra donna scrive sull'urna di suo figlio Mario Essoriense:
"Le assurde leggi della morte lo hanno strappato dalle mie braccia! Dal momento che sono più avanti con gli anni la morte avrebbe dovuto rapire me per prima".

Le seguenti parole furono dettate da una giovane vedova per la tomba del suo defunto compagno:
"Per l'adorata anima benedetta di L. Sempronio Firmo. Ci conoscevamo, ci amavamo l'un l'altro sin dall'infanzia, ci siamo sposati, un'empia mano ci ha separato all'improvviso. O dei degli inferi, siate gentili e pietosi con lui e lasciate che mi appaia nelle silenti ore della notte. Fatemi anche condividere il suo destino così che ci si possa riunire dulcius et celerius".
Ho lasciato i due avverbi nella loro forma originale: lo squisito sentimento che trasmettono non ha bisogno di traduzione.

La frase che segue è copiata dalla tomba di un liberto:
"Eretta in memoria di Memmio Claro dal suo compagno di servitù Memmio Urbano. So che non ce n'è stata ombra di dissenso tra me e te, nessuna nuvola è passata sopra la nostra comune felicità. Giuro sugli dei del paradiso e dell'inferno che abbiamo lavorato fedelmente ed amabilmente insieme, che siamo stati liberati dalla schiavitù nello stesso giorno e nella stessa casa; nulla ci avrebbe mai separato, a parte quest'ora fatale".

Una caratteristica ricorrente dell'antica eloquenza funebre si trova nelle imprecazioni indirizzate al passante per salvaguardare la tomba e i suoi contenuti:

"Chiunque rechi danno alla mia tomba o rubi i suoi ornamenti, possa assistere alla morte di tutti i suoi parenti".
"Chiunque rubi i chiodi da questa struttura, se li possa ficcare negli occhi".

Un burlone ha scritto sulla propria lapide trovata a Vigna Codini:
"Gli avvocati ed i malintenzionati stiano alla larga dalla mia tomba".

E' praticamente impossibile rendere edotto il lettore di tutte le scoperte fatte in questo settore dell'archeologia romana sin dal 1870.
Gli esempi che seguono dalle vie Aurelia, Trionfale, Salaria e Appia, mi sembrano rappresentare sufficientemente gli scopi di un'indagine superficiale su questa tipologia di monumenti.



6.8 Gli scavi nel giardino della Farnesina

VIA AURELIA

A questo punto ricorderei la tomba di Platorino, scoperta nel 1880 sulle rive del Tevere vicino alla Farnesina sebbene, a voler essere precisi, appartiene ad una strada laterale che si dipartiva dalla Via Aurelia verso il quartiere Vaticano, correndo parallela al corso del fiume.

La scoperta avvenne nelle seguenti circostanze:
Una striscia di terra lunga 400 metri e larga 80 appartenente ai giardini della Farnesina, fu comprata dallo Stato nel 1876 per allargare il letto del Tevere. Si scoprì che conteneva diversi edifici antichi divenuti da allora famosi nei libri di topografia.


6.9 La casa romana ivi scoperta

Mi riferisco in particolare alla casa patrizia scoperta vicina alla chiesa di San Giacomo in Settimiana, i cui affreschi sono oggi esposti nel chiostro di Michelangelo accanto alle terme di Diocleziano. (Attualmente sono conservati all’interno della sede di Palazzo Massimo)

CASA DELLA FARNESINA - ALLEVAMENTO DI DIONISO
Questi affreschi sono stati mirabilmente riprodotti nei colori e nei contorni dall'Istituto Germanico di Archeologia ma non sono stati ancora illustrati dal punto di vista dei soggetti che rappresentano. Sono divisi in pannelli da pilastri e colonne colorate, ogni metà è distinta da un diverso colore: bianco (numeri 1,5,6 della pianta), rosso (numeri 2 e 4), nero (n° 3).

Il fregio sulla serie "nera" rappresenta la causa penale portata avanti da un magistrato, presumibilmente il proprietario del palazzo, con curiosi dettagli sulle deposizioni richieste e liberamente fornitegli.Vicino al fregio l'artista ha disegnato, appesi al muro, quadri con delle antine, alcune aperte, altre socchiuse.

Sono soggetti generici, come una scuola di retorica, un matrimonio, un banchetto; sebbene le figure non siano più alte di dodici centimetri sono eseguite così splendidamente che si possono distinguere persino le sopracciglia.

Esempio di disegno a contorno nell’antica casa nei giardini della Farnesina.
I quadri al centro dei pannelli sono di una dimensione maggiore.
Quelle dell'ambiente "bianco" sono dipinti secondo lo stile dei lekythoi attici, o vasi oleari. Le figure sono disegnate solo a contorno con un colore scuro e deciso, lo spazio interno ai contorni è campito con la tinta appropriata, sebbene alcune figure siano disegnate senza colore.

Uno di questi notevoli quadretti rappresenta due donne, una seduta, l'altra in piedi, entrambe volgenti lo sguardo verso un Cupido alato. Un altro rappresenta una donna che suona la lira a sette corde; ognuna delle corde è contrassegnata da un simbolo che, forse, corrisponde alle note della scala. In uno dei pannelli dell'ambiente 4 e ancora visibile quella che pensiamo essere la firma dell'artista: SELEUKOS EPOIEI (lo fece Seleuco).

E' come se Baldassarre Peruzzi, Raffaello, Giulio Romano, il Sodoma, il Fattore e Gaudenzio Ferrari, cui dobbiamo le meraviglie della Farnesina dei Chigi, avessero inconsciamente subito l'influenza delle meraviglie di questa casa romana che era sepolta sotto i loro piedi.

E' un peccato che le due ville non siano potuto rimanere in piedi entrambe.
Quale occasione di studio e paragone avrebbero potuto offrire all'amante dell'arte queste due serie di capolavori dell'epoca di Augusto e di Leone X!

Il soffitto dell’ambiente n 2, a stucco, è all’altezza degli affreschi. I rilievi sono estremamente bassi e i punti sporgenti non sono più alti di 3 mm. Sono così leggeri e delicati che sembra quasi che l’artista abbia alitato sullo stucco per modellarli. Una delle scene rappresenta le rive di un fiume, con ville, templi, santuari e capanne di pastori sparse all’ombra di palme o alberi di sicomoro, le cui foglie ondeggiano dolcemente al vento.

Le persone sono occupate in varie operazioni, alcune pescano con la canna, altre fanno il bagno, altre ancora portano sulla testa anfore per l’acqua. Il capolavoro dei rilievi è un gruppo di buoi al pascolo nei prati, di tale squisita bellezza da mettere in ombra le migliori incisioni delle monete italo-greche.


6.10 La tomba di Sulpicio Platorino

Subito dopo la casa romana, per importanza viene la tomba di Sulpicio Platorino scoperta nel maggio del 1880 sul lato opposto dei giardini della Farnesina, vicino alle mura Aureliane. Parte di questa tomba è rimasta visibile per un paio d'anni senza che nessuno vi prestasse attenzione perché, di regola, le tombe all'interno delle mura, essendo state esposte per secoli alle tentazioni dei ladri o, più in generale, del volgo e, in particolare, dei cacciatori di tesori, sono sempre state saccheggiate e trovate vuote del loro contenuto. In questo caso, comunque, siamo stati fortunati perché abbiamo con piacere trovato un'eccezione alla regola

Da un'iscrizione incisa sul marmo sopra la porta d'ingresso, sappiamo che il mausoleo fu eretto in memoria di Caio Sulpicio Platorino, un magistrato dell'epoca di Augusto, e di sua sorella Sulpicia Platorina, la moglie di Cornelio Prisco.

TOMBA DI SILPICIO PLATORINO

6.11 Il suo importante contenuto

L'ambiente conteneva nove nicchie ed ogni nicchia un'urna cineraria, di cui sei ancora integre. Queste urne sono di fattura estremamente ricercata, scolpite in marmo bianco con festoni che pendono da bucrani ed uccelli di vario tipo che mangiano frutta. Alcune delle urne sono circolari, alcune quadrate ma il motivo della decorazione è sempre lo stesso. Il coperchio di quelle tonde è a forma di tholos, un edificio che somiglia ad un alveare, con le tegole rappresentate da foglie d'acanto ed il pinnacolo da un mazzo di fiori.

I coperchi di queste urne erano sigillati con piombo fuso. La loro apertura fu un evento di grande eccitazione; si compì nellacoffee-house della Farnesina in presenza di un'ampia e selezionata assemblea. Ricordo la data: 3 maggio 1880. Furono trovate mezze piene d'acqua a causa dell'ultima inondazione del Tevere, con uno stato di ceneri ed ossa sul fondo. Furono svuotate del contenuto su un telo di lino bianco.

La prima non conteneva alcunché di valore; la seconda conteneva un anello d'oro senza la pietra che, comunque, fu trovata nel terzo cinerarium, un fatto senza dubbio straordinario. Lo si può spiegare supponendo che entrambi i corpi furono cremati nello stesso momento e che le loro ceneri furono in qualche modo mischiate.

La pietra, probabilmente un onice, è stata rovinata dall’azione del fuoco e la sua incisione è quasi scomparsa. Sembra che rappresenti un leone a riposo. Nella quarta non fu trovato nulla; la quinta restituì due pesanti anelli d'oro con cammei che rappresentavano rispettivamente una maschera e una caccia al cinghiale. L'ultima urna, iscritta con il nome di Minasia Polla, una ragazza di circa sedici anni come si evince dai denti e dalla dimensione di alcuni frammenti ossei, conteneva una semplice spilla per capelli in ottone.

Dopo aver terminato l'operazione dello svuotamento delle urne cinerarie, si riprese ad esplorare la tomba. Le incisioni presenti su parti del fregio ci hanno restituito la lista completa dei personaggi che avevano lì trovato il loro ultimo luogo di riposo; oltre ai due Platorini ed alla ragazza Minasia Polla, appena citata, abbiamo: Aulo Crispino Cepio, che svolse un importante ruolo negli intrighi di corte all'epoca di Tiberio; Antonia Furnilla e sua figlia, Marcia Furnilla, la seconda moglie di Tito.

Fu da lui ripudiata nel 64 d.c., come ci tramanda Suetonio. Gli storici si sono chiesti il perché del ripudio, senza trovare alcuna risposta, considerando la caratura morale che sappiamo essere stata propria di Tito. Se la statua di marmo trovata in questa tomba, e riprodotta nella nostra illustrazione, è veramente quella di Marcia Furnilla o almeno le somiglia sufficientemente, la ragione per il divorzio è facilmente trovata: è decisamente brutta.

Il busto riportato nella stessa illustrazione, uno dei ritratti più raffinati e meglio eseguiti trovati a Roma, è probabilmente quello di Minasia Polla e ci dà un'ottima idea dell'aspetto di una giovane e nobile signora romana della prima metà del I secolo. Un'altra statua, quella dell'imperatore Tiberio nel cosiddetto stile "eroico", fu trovata distesa sul pavimento a mosaico. Sebbene rotta dalla caduta della volta del soffitto, non mancava nessun pezzo importante.

Entrambe le statue, il busto, le urne cinerarie e le iscrizioni, sono oggi esposte nel chiostro di Michelangelo nel museo delle Terme. E difficile spiegare come questa ricca tomba riuscì a sfuggire al saccheggio ed alla distruzione, dato che rimase visibile per molti secoli in uno dei quartieri più popolari e senza scrupoli della città. Forse quando Aureliano costruì le mura che correvano accanto ad essa ed innalzò il livello di Trastevere, la tomba fu sepolta ed i suoi tesori lasciati inviolati.


6.12 Le “cornacchie divine”

Cominciando a salire sul Gianicolo, sulla strada verso Porta San Pancrazio e la Villa Pamphili devo citare una particolare scoperta fatta secoli fa vicino alla chiesa di San Pietro in Montorio: quella di un basamento delimitato da pietre terminali iscritte con la legenda:

DEVAS CORNISCAS SACRUM

(quest'area è consacrata alle cornacchie divine).

Il luogo è descritto da Festo (Ep. 64). È importante notare che a Roma non solo gli uomini ma anche gli animali dovevano rimanere fedeli alle antiche abitudini e tradizioni. Alcuni dei miei lettori avranno potuto notare come ogni giorno con regolarità, verso il tramonto, si vedano stormi di cornacchie solcare i cieli di ritorno verso le loro dimore notturne nei pini della villa Borghese. Nidificano in due o tre posti preferiti, ad esempio il campanile di Santa Andrea delle Fratte, le torri di Trinità dei Monti dove celebrano rumorosi incontri che durano fino al primo attacco dell'Ave Maria. Questo suono è da loro interpretato come un invito al riposo.

Sia che l'area delle sacre cornacchie descritta da Festo fosse piantata a pini usati come riposo per la notte o che fosse semplicemente un luogo di nidificazione, la circostanza della loro migrazione quotidiana dalle paludi della Maremma e quella dei loro incontri notturni, è nota sin dai tempi classici.


6.13 Il cimitero di Villa Pamphili

Ed ora, lasciando alla nostra destra la Villa Heyland, la Villa Aurelia, precedentemente chiamata Savorelli, costruita sui resti del monastero medievale dei SS.Giovanni e Paolo, e la Villa del Vascello, che segna la fine occidentale dei Giardini di Geta, entriamo nella Villa Doria Pamphili, importante sia per la bellezza del suo scenario che per le sue memorie archeologiche.

Pietro Sante Bartoli ci dice che quando venne per la prima volta a Roma verso il 1660, Olimpia Maidalchini e Camillo Pamphili, intenti a gettare le fondazioni del casino, scoprirono "diverse tombe decorate con affreschi, stucchi, e nobilissimi mosaici".

C’erano anche urne di vetro con resti di abiti d’oro, le figure di un leone e di una tigre che furono comprate dal Viceré di Napoli, il marchese di Leve. Alcuni anni dopo, quando Monsignor Lorenzo Corsini intraprese la costruzione del Casino dei Quattro Venti (da allora annesso alla Villa Pamphili e trasformato in una sorta di arco monumentale), furono trovate e distrutte, per reimpiegarne i materiali da costruzione, 34 splendide tombe (sig!).

Non si possono leggere i resoconti di Bartoli ed esaminare le sue 22 tavole che illustrano il testo senza provare un senso di orrore per gli atti che questi personaggi ciechi furono capaci di compiere a sangue freddo.

Ci dice che le 34 tombe formavano una sorta di piccolo villaggio con strade, marciapiedi e piazze; che erano costruite con mattoni rossi e gialli, di splendida fattura, come quelle della Via Latina. Ogni tomba conservava le proprie decorazioni ed i propri arredi funerari quasi intatti: affreschi, bassorilievi, mosaici, iscrizioni, lampade, gioielli, statue, busti, urne cinerarie e sarcofagi.

Alcune erano ancora chiuse, dato che le porte non erano di legno o bronzo ma di marmo; c’erano iscrizione sugli architravi o sui frontoni che identificavano ogni tomba. Questi resti ci dicono che in epoca romana questa parte di Villa Pamphili si chiamava Ager Fonteianus e che il tratto in pendenza della Via Aurelia, che corre vicino, era chiamato Clivus Rutarius.

Bartoli attribuisce il perfetto stato di conservazione di questo cimitero al fatto che venne deliberatamente ricoperto di terra prima della caduta dell’Impero. Sin dal XVII secolo sono state trovate e distrutte molte tombe all’interno della villa, specialmente nell’aprile del 1859.

L’unica ancora visibile fu scoperta nel 1838 ed è notevole per le sue iscrizioni dipinte e per i suoi affreschi. Originariamente c’erano 175 pannelli, ma oggi se ne può vedere a malapena la metà. Rappresentano animali, paesaggi, caricature, scene di vita quotidiana e soggetti mitologici e drammatici. Solo uno è storico, e, secondo Petersen, rappresenta il giudizio di Salomone. Questo soggetto, sebbene estremamente raro, non è unico nell’ambito dell’arte classica, essendo già stato trovato dipinto sulle pareti di una casa pompeiana.

COLOMBARIO DI VILLA PAMPHILI

6.14 Tombe sulla Via Trionfale

VIA TRIONFALE

La necropoli che costeggiava la Via Trionfale, dal ponte di Nerone vicino a Santo Spirito fino alla cima di Monte Mario, è completamente scomparsa, sebbene alcuni dei suoi monumenti gareggiassero per dimensioni e magnificenza con quelli delle vie Ostiense, Appia e Labicana. Tali erano le due piramidi sul luogo di Santa Maria Traspontina chiamate nel medioevo la "Meta di Borgo" e il "Terebinto di Nerone".

Entrambe sono rappresentate nei bassorilievi della porta bronzea di Filaretea San Pietro, nel ciborio di Sisto IV (oggi nelle Grotte Vaticane) ed in altre rappresentazioni medievali e rinascimentali della crocifissione dell'apostolo.

La piramide è descritta da Rucellai e da Pietro Mallio come emergente al centro di una piazza pavimentata con lastre di travertino e svettante per un'altezza di 40 metri dal piano stradale. Era rivestita di marmo come quella di Caio Cestio presso porta San Paolo.

Papa Donno I la smantellò nel 675 d.c. e usò i suoi materiali per costruire i gradini di San Pietro. La piramide, costruita di solido calcestruzzo, fu rasa al suolo da Papa Alessandro VI quando aprì il Borgo Nuovo nel 1495.

Il "Terebinto di Nerone"è descritto come una struttura circolare di marmo, alta come la tomba di Adriano. Fu anch'essa smantellata da Papa Donno ed i suoi materiali furono usati nel restauro e nell'abbellimento del "Paradiso" o quadriportico di San Pietro.

Vicino al Terebinto c'era la tomba del cavallo preferito di Lucio Vero. Questo meraviglioso corridore, appartenente alla squadra dei Verdi, si chiamava Volucro, "la saetta volante"; l'ammirazione dell'Imperatore per i suoi risultati era tale che, dopo avergli reso onore con statue di bronzo dorato mentre era in vita, fece erigere un mausoleo alla sua memoria nel campo Vaticano al termine della sua carriera. La scelta del sito non fu fatta a caso dal momento che sappiamo che gli stessi Verdi avevano il proprio cimitero sulla via Trionfale.

Proseguendo il nostro pellegrinaggio lungo il Clivo di Cinna che sale sul Monte Mario, dobbiamo ricordare una serie di tombe scoperte da Sangallo durante la costruzione delle fortificazioni del "Bastione di Belvedere". Una di queste è descritta da Pirro Ligorio :

"Questa tomba fu scoperta insieme a molte altre nelle fondazioni del Bastione di Belvedere, sul lato che fronteggia il Castel Sant'Angelo. E' di forma quadrata con due rientranze su ogni lato per le urne cinerarie, e tre sulla facciata. Era graziosamente decorata con stucchi ed affreschi. Vicino ad essa c'era un ustrinum dove venivano cremati i cadaveri e, dall'altro lato, una seconda tomba decorata con stucco dipinto.

Qui fu trovato un pezzo di agata a forma di noce, inciso con tale maestria che fu scambiato per una vera noce. C'era anche uno scheletro di cui si trovò il teschio tra le gambe; al suo posto c'era una maschera o calco del volto che riproduceva con estrema fedeltà i tratti del defunto. Il calco è oggi conservato negli appartamenti papali”.

COLOMBARIO DI CASTRO

6.15 Quella di Elio, il calzolaio

Ora, citerò la tomba di un fabbricante di scarpe e di stivali, scoperta il 5 febbraio del 1887 nelle fondazioni di una delle nuove case ai piedi del Belvedere. Questa eccellente opera d'arte, costruita in marmo di Carrara, mostra il busto del proprietario in una nicchia quadrata sopra cui c'è un frontone circolare. Il ritratto è estremamente caratteristico: la fronte è ampia con pochi ciuffi di corti capelli ricci dietro le orecchie, il volto rasato, se si eccettua la parte sinistra della bocca dove c'è un neo coperto di peli. L'uomo sembra in età matura ma sano, robusto e con un'espressione abbastanza severa.

Sopra la nicchia sono rappresentate due "forme", una delle quali dentro una "caliga". Sono segni evidenti del tipo di commercio esercitato dal proprietario della tomba che è esplicitato nel suo epitaffio:

"Caio Giulio Elio, calzolaio della Porta Fontinale, uso di questa tomba mentre era in vita per se stesso, per sua figlia Giulia Flaccilla, per il suo liberto Caio Giulio Onesimo e per i suoi altri servitori”.

Giulio Elio era quindi un mercante di scarpe con una bottega vicino alla moderna Piazza di Magnanapoli sul Quirinale. Sebbene la qualifica di sutor sia abbastanza ambigua ed applicabile indifferentemente ai solearii, sandalarii, crepidarii, baxearii (fabbricanti di pantofole, sandali, scarpe greche, ecc.) così come ai sutores veteramentarii (riparatori di stivali vecchi), tuttavia Giulio Elio, come mostrato dagli oggetti rappresentati sulla sua tomba, era un caligarius (fabbricante di caligae, che erano usate principalmente da soldati).

Sembra che i fabbricanti di scarpe e stivali, così come i fornitori di pellami e lacci, fossero gente piuttosto orgogliosa ai loro tempi e che amassero essere rappresentati sulle proprie tombe con gli attrezzi del loro mestiere. Un bassorilievo del Museo di Brera rappresenta Caio Attilio Giusto, uno di loro, seduto sulla panca nell'atto di aggiustare una caliga sulla forma lignea.

Un sarcofago iscritto con il nome di Attilio Artema, un calzolaio locale, fu scoperto ad Ostia nel 1877, con la rappresentazione di un certo numero di attrezzi. Il lettore probabilmente ricorda l'affresco di Ercolano che rappresenta due Geni seduti su una panca: uno di loro sta forzando una forma all'interno di una scarpa mentre il suo compagno è impegnato a ripararne un'altra.

La sala XVI del Museo Cristiano al Laterano contiene diverse lapidi di sutores cristiani con vari simboli del loro mestiere. I calzolai costituivano una potente corporazione fin dal tempo dei Re; la loro associazione chiamata "Atrium Sutorium" officiava una cerimonia religiosa chiamata "Tubilustrium" che aveva luogo il 23 di marzo di ogni anno. Sembra che fossero anche rissosi e violenti.

Ulpiano parla di una causa per danni intentata da un ragazzo, messo a bottega da un calzolaio dai parenti per impararne il mestiere e che, avendo mal interpretato le direttive del suo maestro, fu da lui colpito così pesantemente sulla testa con una forma di legno da perdere la vista da un occhio.


6.16 Le tombe della Via Salaria

VIA SALARIA

I visitatori che ricordano la Roma dei tempi passati, saranno spiacevolmente impressionati dal cambiamento che hanno subito negli ultimi dieci anni i quartieri suburbani attraversati dalle vie Salaria, Pinciana e Nomentana.

COLOMBARIO ROMANO
Precedentemente lo straniero che usciva dalle porte era impressionato dall'improvvisa comparsa di una zona di ville e giardini. Le ville Albani, Patrizi, Alberoni e Torlonia, per non parlare di altri luoghi di minore amenità, immerse in una grande foresta di alberi secolari, con il profilo della Sabina sullo sfondo, fornivano un'immagine realistica di come doveva essere la Campagna Romana in epoca imperiale.

Oggi la scena è cambiata, e non in meglio. Tuttavia, se c'è qualcuno che non ha diritto di recriminare, questi è l'archeologo, perché la costruzione di questi quartieri suburbani ha messo a sua disposizione nell'arco di un secolo una conoscenza maggiore di quella di cui avrebbe potuto disporre. Citerò solo un esempio. 

Sono famosi negli annali degli scavi di Roma quelli fatti tra il 1695 e il 1741 nella vigna della famiglia Naro, tra la Salaria e la Pinciana, alle spalle del Casino di Villa Borghese. Ci vollero quarantasei anni per portare alla luce i contenuti di quella piccola proprietà che comprendevano 26 tombe di pretoriani e 141 di civili.

Nel 1877, aprendo il Corso d'Italia che unisce la Porta Pinciana con la Salaria, furono scoperte 855 tombe in nove mesi. Il cimitero si estendeva dalla Villa Borghese al Castro Pretorio, delle mura di Servio Tullio al primo miglio. I giardini di Sallustio erano circondati da esso sui due lati: un forte contrasto tra la città silenziosa della morte da una parte, ed il gaudente e rumoroso punto di incontro dei vivi, dall'altra.


6.17 Quella dei Calpurni Licini.

Sebbene il cimitero fosse per lo più occupato da soldati, le strade che lo attraversavano erano costellate di mausolei che appartenevano a famiglie storiche, come la tomba dei Licini Calpurni, scoperta nel 1884 nelle fondazioni della casa al n° 29 della Via di Porta Salaria, la più ricca ed importante tra quelle trovate a Roma ai miei tempi. La sua storia è connessa con uno dei peggiori crimini di Messalina.

Viveva in quel tempo a Roma un nobiluomo, Marco Licinio Crasso Frugi, ex pretore, ex console (27 d.c.), ex governatore della Mauritania, marito di Scribonia, da cui ebbe tre figli.

COLOMBARIO DI VIA PORTUENSE

6.18 L’infelice storia di questa famiglia.

Non c'è mai stata famiglia più sfortunata di questa. L'origine delle loro sventure è piuttosto curiosa: Licinio Crasso, che Seneca definisce "abbastanza stupido per essere fatto Imperatore", tra tante stupidaggini commise quella di nominare il suo primogenito Pompeo Magno, dal nome di suo nonno materno; un inutile dimostrazione di orgoglio dal momento che il ragazzo aveva già di per sé sufficienti titoli per svettare sull'aristocrazia romana. 

Caligola, geloso del suo nome altisonante, fu il primo a minacciare la sua vita, ma gliela risparmiò a spese del suo nome. Claudio gli restituì il titolo come regalo di nozze il giorno del suo matrimonio con Antonia, figlia dello stesso imperatore avuta da Elia Petina. La sua splendida carriera, la sua nobiltà e delicatezza di comportamento nonché i suoi legami con la famiglia imperiale, suscitarono l'odio di Messalina, un avversario molto più pericoloso di Caligola. Estorse al debole marito la sentenza di morte contro Pompeo, suo padre e sua madre. L'esecuzione ebbe luogo nella primavera del 47.

Il secondo figlio, Licinio Crasso, fu ucciso da Nerone nel 67.

Il terzo figlio, Lucio Calpurnio Pisone Frugi Liciniano, che aveva solo 11 anni al tempo delle esecuzioni del 47, passò diversi anni in esilio, mentre il lento sterminio della sua famiglia stava avendo luogo. Lasciato solo al mondo, alla fine Galba ebbe pietà di lui, lo adottò come figlio, gli diede in eredità le proprietà sulpiciane, e, infine, nel gennaio del 69 lo nominò suo successore al trono. 

Se gli avesse risparmiato solo questo onore! Solo quattro giorni dopo fu assassinato insieme a Galba dai pretoriani ribelli; la sua testa, spiccata dal corpo, fu consegnata alla sua giovane vedova, Verania Gemina.

La storia parla di un quinto sfortunato membro della famiglia, che morì di morte violenta durante il mite e giusto governo di Adriano. Il suo nome era Calpurnio Liciniano, ex-console nell’ 87 d.c.. Avendo cospirato contro Nerva, lui e sua moglie, Agedia Quintina, furono esiliati a Taranto. Una seconda congiura contro Traiano ne comportò l’esilio su un’isola solitaria e un tentativo di fuga da questo secondo luogo, fu la causa della sua morte.

Questo fu il destino dei sette ospiti di questa camera sepolcrale. Quando vi scesi per la prima volta, nel novembre 1884, e mi trovai circondato dai nomi questi grandi uomini e donne assassinati, ho percepito più che mai la grande differenza tra leggere la storia romana dai libri, e studiarla dai suoi monumenti, in presenza dei suoi attori principali; ho realizzato ancora una volta quale sia il privilegio di vivere in una città dove scoperte così importanti capitano di frequente.

Vorrei poter dire ai miei lettori di aver toccato con le mie mani le ossa e il contenuto delle urne cinerarie di questi patrizi assassinati. Non posso, purtroppo, perché le avversità della sorte sembrano aver perseguitato i Calpurni anche nelle loro tombe e c’è motivo di credere che il loro ultimo riposo sia stato turbato dai persecutori che li hanno seguiti fin nelle loro tombe. I loro cippi sono stati trovati fatti a pezzi, i loro nomi mezzi cancellati e le loro ceneri sparse ai quattro venti.

Le iscrizioni, che non fanno il minimo cenno alle loro morti violente, usano parole di estrema dignità unita ad una triste vena di ironia. Quella incisa sull’urna di Pompeo Magno dice:—

CN · POMPeius
CRASSI F · MEN
MAGNVS
PONTIF · QUAEST
TI · CLAVDI · CAESARIS · AVG
GERMANICI
SOCERI · SVI

"[Qui giace] Cneo Pompeo Magno, figlio di Crasso, etc., questore dell’Imperatore Claudio, suo suocero".

Se ricordiamo che fu proprio la parentela con la famiglia imperiale a causare la morte del giovane, che la sua condanna a morte fu firmata da Claudio che era suo suocero, non possiamo esimerci dal pensare che i due nomi della vittima e dell’assassino siano stati messi vicini, in questo breve epitaffio, a bella posta.

In una seconda e più ampia camera furono scoperti dieci sarcofagi, preziosi come opere d’arte ma privi di importanza storica perché non c’è alcun nome inciso su di essi. Forse l’esperienza dei loro antenati ha spinto i Calpurni delle generazioni successive a non sfidare la sorte di nuovo ma a far propria la discrezione e la raffinatezza, anche nel segreto della tomba di famiglia. 

Dal punto di vista artistico, ognuna delle casse è un notevole esempio della scultura funeraria romana del II secolo della nostra era. Alcuni sono semplicemente decorati con festoni, geni alati, maschere sceniche o chimere; altri con scene ascrivibili al ciclo bacchico, come l’infanzia del dio, il suo ritorno trionfale dall’India ed il suo abbandono di Ariadne nell’isola di Naxos. 

Il sarcofago più bello, di cui riportiamo un’illustrazione, rappresenta il ratto delle figlie di Leucippo ad opera di Castore e Polluce.

La collezione di sarcofagi, iscrizioni, urne, ritratti, monete ed altri oggetti appartenenti alle tombe, nonché le stesse tombe, dovrebbero diventare di proprietà pubblica ed essere conservate come monumenti di interesse nazionale. Fino a poco tempo fa i marmi si potevano vedere al piano terra di Palazzo Maraini in Via Agostino Depretis, ma alcuni di loro sono stati trasferiti al n° 9 di Via della Mercede.

SARCOFAGO DEL RATTO LEUCEPPIDI

6.19 La tomba di un fanciullo precoce.

180 metri più avanti, sullo stesso lato della Via Salaria, troviamo il basamento della tomba del giovanetto Quinto Sulpicio Massimo; la tomba fu scoperta nel 1871, all’interno del torrione destro della Porta Salaria, quella che vediamo oggi è stata ricostruita dopo i bombardamenti del 20 settembre del 1870. La tomba aveva costituito il nucleo della torre, proprio come quella del fornaio Eurisace, trovata nel 1833, inserita nella torre sinistra della Porta Praenestina.

La tomba è composta da un basamento, costituito da blocchi di travertino, con sopra un cippo marmoreo, ornato con una statua del fanciullo e con la storia della sua vita scritta in versi greci e latini. La storia è semplice e triste.

Il 14 settembre del 95 d.c., per celebrare l’anniversario della sua ascesa al trono, Domiziano bandì per la terza volta il certamen quinquennale, una competizione mondiale di ginnastica, sport equestri, musica e poesia che era stata istituita all’inizio del suo regno. Si presentarono 52 concorrenti per la gara di poesia greca. L’argomento, estratto a sorte, era:

"Le parole usate da Giove per rimproverare Apollo di aver affidato il suo carro a Fetone"

Quinto Sulpicio Massimo improvvisò, su questo tema estremamente stringato, 43 versi estemporanei. Il significato dell’aggettivo è dubbio. Non siamo certi se il ragazzo declamò i suoi versi di getto e le sue parole furono quindi trascritte all’impronta, o se lui e i suoi 51 colleghi ebbero del tempo per riflettere sull’argomento e per scrivere la composizione, come si usa fare oggi nelle competizioni letterarie.


6.20 Gli “improvvisatori” dei tempi passati.

Gli scrittori antichi parlano di "improvvisatori" che davano prova del loro splendido dono in un’età prematura; tuttavia, sembra quasi impossibile si sia riusciti a radunare 52 prodigi in una sola competizione. Sulpicio Massimo fu incoronato dall’Imperatore con l’alloro capitolino e vinse il campionato del mondo. I versi con cui vinse la competizione sono veramente ottimi e dimostrano una profonda conoscenza della prosodia greca. La vittoria, comunque, gli costò cara: infatti la pagò con la vita. Sulla sua tomba è incisa la seguente iscrizione:

TOMBA Q. SULPICIO MASSIMO
"A Q. Sulpicio Massimo, figlio di Quinto, nato a Roma e vissuto 11 anni, 5 mesi e 12 giorni. Vinse la gara tra 52 poeti greci durante la terza celebrazione dei Giochi Capitolini. I suoi genitori infelici, Quinto Sulpicio Eugramo e Licinia Gianuaria, hanno fatto incidere questa poesia estemporanea sulla sua tomba, per provare che le lodi al suo talento non derivano solamente dal loro profondo amore per lui (ne adfectibus suis indulsisse videantur)".

Che il destino di questo ragazzo sia un monito per quei genitori che, scoprendo nei loro bambini una precoce inclinazione per qualche settore della conoscenza umana, incoraggiano e forzano questa abilità congenita per la gratificazione del proprio orgoglio invece di moderarla in accordo alle possibilità fisiche e ad un sano sviluppo dei giovani.

La gara mondiale istituita da Domiziano ha avuto una vita lunga ed un grande successo: sappiamo che venne celebrata per molti secoli, fino all’epoca di Petrarca e Tasso.

Un’iscrizione scoperta a Vasto, l’antica Histonium, descrive con le seguenti parole quella che ebbe luogo nel 107 d.c.:

"A Lucio Valerio Pudente, figlio di Lucio. A soli 13 anni, prese parte al sesto certamen sacrum, vicino al Tempio di Giove Capitolino; vinse il campionato di poesia latina con i voti unanimi dei giudici".

Queste ultime parole dimostrano che speciali giurie erano scelte dall’Imperatore per ogni tipo di gara. Nel 319 d.c. Costantino il Grande e Licinio Cesare celebrarono con grande solennità il 58°certamen. Ausonio di Burdigala, il grande poeta del IV secolo, parla di un certo Attio Delfidio, un bambino prodigio (paene ab incunabulis poeta), che vinse il premio sotto Valentiniano I. L’abitudine medievale e rinascimentale di "laureare" i poeti sul Campidoglio, deriva certamente dall’istituzione di Domiziano.

La genìa degli "improvvisatori" non è mai morta nell’Italia centro-meridionale. Uno dei più famosi nel XVI secolo, Silvio Antoniano, all’età di 11 anni era in grado di cantare, accompagnandosi al liuto, ogni argomento che gli veniva proposto, con ottimi e gradevoli risultati sia per la poesia che per la musica.
Un giorno, mentre sedeva in un ricevimento di Stato al Palazzo di Venezia, Giovanni Angelo de' Medici, uno dei cardinali presenti, gli chiese se era in grado di improvvisare "le lodi dell’orologio", il cui suono, proveniente dal campanile del palazzo, aveva appena colpito le sue orecchie. La melodiosa canzone di Silvio, su un tema così particolare, fu accolta da una selva di applausi; quando Giovanni Angelo de' Medici fu eletto Papa nel 1559 con il nome di Pio IV, elesse cardinale il giovane in riconoscimento del suo straordinario talento. 


6.21 La tomba di Lucilia Polla e di suo fratello.

Il mausoleo di Lucilia Polla e di suo fratello Lucilio Peto fu scoperto nel maggio del 1885, nella Villa Bertone, di fronte a Villa Albani, ad una distanza di settecento metri dalla porta.


E’ la più grande struttura sepolcrale scoperta ai miei tempi, paragonabile per dimensioni al mausoleo di Metella sulla via Appia e al cosiddetto Torrione sulla Labicana. Originariamente si componeva di due parti: un basamento di 33,5 metri di diametro, costruito in marmo e travertino, l’unica parte rimasta, ed un cono di terra, alto quasi 16 metri, ricoperto di alberi ad imitazione del mausoleo di Augusto di cui è contemporaneo. 

Il cono è scomparso. L’iscrizione, lunga 4,8 metri, è scolpita sul fronte verso la Via Salaria, con caratteri della miglior forma che è possibile trovare a Roma. Dice che Marco Lucilio Peto, un ufficiale che ebbe il comando della cavalleria e degli ingegneri militari in diverse campagne al tempo di Augusto, aveva costruito la tomba per sua sorella Lucilia Polla, già deceduta, e per se stesso.


6.22 La sua storia

La sorte del monumento merita di essere raccontata. Credo che non esista altro nella necropoli della Via Salaria che ha subito così tanti cambiamenti nel corso dei secoli. Il primo ebbe luogo sotto Traiano, quando il monumento fu sepolto sotto un ingente quantità di terra, insieme con larga parte del vicino cimitero. Infatti, sono stati trovati colombari, databili al tempo di Adriano, addossati alla splendida iscrizione di Lucilia Polla; la stessa iscrizione è stata sfigurata da uno strato di vernice rossa, per armonizzarla con il colore degli altri tre muri della cripta. 

COLOMBARIO DEL PIRANESI
L’intero tratto tra la Salaria e la Pinciana fu ugualmente sollevato per un’altezza di 7,6 metri; contiene, perciò, due strati di tombe, — quello inferiore appartiene all’epoca repubblicana, quello superiore al tempo di Adriano e ai successivi.

Da dove proveniva questa enorme massa di terra?

Un indizio per la risposta si può avere a pag. 87 del "Roma Antica" dove, descrivendo la costruzione del Foro di Traiano e della Colonna che si erge al centro "per mostrare ai posteri qual’era l’altezza della collina livellata dall’Imperatore" (ad declarandum quantae altitudinis monumentis et locus sit egestus),affermavo di aver calcolato la quantità di terra e roccia rimossa per far spazio al Foro pari a 68.000 metri cubi , e concludevo:

"Ho svolto indagini lungo la Campagna Romana per scoprire il luogo dove erano stati trasportati e scaricati i 68.000 metri cubi, ma i miei sforzi non sono stati, finora, coronati dal successo".

Il luogo è stato ora scoperto.

Nessuno tranne l’Imperatore avrebbe potuto osare seppellire un cimitero così importante come quello che mi accingo a descrivere; se pensiamo che questo era lo spazio libero più vicino agli scavi di Traiano e di più facile accesso, la sepoltura di un cimitero per pubblica utilità poteva essere giustificata dai precedenti di Mecenate ed Augusto descritti a pag. 67 dello stesso libro, e che tale cambiamento debba aver avuto luogo all’inizio del II secolo.

Sulla base di questi dati nonché delle costruzioni e delle tipologie di tombe che appartengono rispettivamente agli strati inferiore e superiore, credo che la mia ipotesi possa essere considerata un fatto accertato.

Di conseguenza il mausoleo dei Lucili scomparve alla vista e dalla memoria dei Romani del II secolo. Verso la fine del IV sec. i Cristiani, nello scavare gallerie per una delle loro catacombe minori in un terreno circostante, scoprirono casualmente la cripta e la occuparono. La forma di questa cripta può essere paragonata a quella del mausoleo di Adriano, era cioè un ambiente a croce greca al centro della struttura circolare ed era raggiungibile per mezzo di un corridoio. 

I Cristiani dispersero i resti dei primi occupanti, abbatterono i loro busti, costruirono arcosolia nelle tre rientranze della croce greca, e crivellarono di loculi i muri laterali del corridoio. La trasformazione fu così radicale che, quando entrammo per la prima volta nel corridoio, pensammo di aver trovato un’ala delle Catacombe di S. Saturnino. Alcuni dei loculi erano chiusi con tegole, altri con iscrizioni pagane che i fossores avevano trovato casualmente scavandosi l’ingresso verso la cripta. Due loculi, scavati vicino l’ingresso all’esterno del corridoio, contenevano corpi di neonati con cerchietti magici intorno al loro collo. 

Sono oggetti estremamente straordinari sia per i materiali che per le varietà delle forme. I pendenti sono in osso, avorio, cristallo di rocca, onice, giada, ametista, ambra, pietra, metallo, vetro e smalto; rappresentano elefanti, campane, colombe, flauti di pan, lepri, coltelli, conigli, pugnali, ratti, Fortuna, meduse, braccia umane, martelli, simboli di fecondità, timoni, palline, zanne di cinghiale, pagnotte e così via.

Le vicissitudini del mausoleo non ebbero fine con questo cambio di religione e di proprietà. Due o tre secoli fa, quando la febbre della scoperta e del saccheggio delle catacombe della Via Salaria era al suo culmine, qualcuno trovò l’ingresso alla cripta e si diede alla distruzione gratuita. Gli arcosoli furono distrutti ed i loculi profanati uno ad uno. Abbiamo trovato le ossa dei Cristiani del IV sec. sparse a terra e, tra loro, i busti marmorei di Lucilio Peto e di Lucilia Polla che i Cristiani del IV secolo avevano buttato giù dai loro piedistalli. Questa è la storia di Roma.

TOMBA DI LUCILIO PETO

6.23 La Valle della Caffarella.

Una piacevolissima escursione in prossimità della città può essere fatta nella Valle della Caffarella dal cosiddetto "Tempio del Dio Redicolo" al "Bosco Sacro" presso S. Urbano. Uscendo da Roma da Porta S. Sebastiano e girando a sinistra subito dopo aver superato la cappella del Domine quo vadis, scendiamo nella valle del fiume Almone, oggi chiamata Valle della Caffarella, dalla famiglia ducale che la possedeva prima dei Torlonia. 

Il sentiero è pieno di fascino, corre, per lo più, lungo le rive dello storico torrente, tra le pendici di colline coperte di sempreverde e immerso nel profumo dei fiori selvatici. Il luogo è ameno e quieto; il passeggiatore solitario non può non ricordare inconsciamente la stanza di Orazio (Epod. II.):

"Beatus ille, qui procul negotiis,
Ut prisca gens mortalium,
Paterna rura bobus exercet suis,
Solutus omni foenore,
.....
Forumque vitat, et superba civium
Potentiorum limina."


La Via Appia e la Campagna Romana.

In nessun’altra capitale dei nostri giorni il sentimento espresso da Orazio può essere sentito e goduto come a Roma dove è facile dimenticare le preoccupazioni e le frivolezze della vita cittadina camminando pochi passi oltre le porte delle mura. La Valle dell’Inferno e la Via del Casaletto, fuori Porta Angelica, le Vigne Nuove fuori Porta Pia, e la Valle della Caffarella, dove sto portando i miei lettori, sono splendidamente selvagge, fatte apposta per fornire ai nostri pensieri ispirazioni più pure e salutari. 

A volte, i rumori indistinti della città arrivano alle nostre orecchie portati dal vento, ma accrescono, per contrasto, la felicità del momento. Ma non è solo la naturale bellezza di questi luoghi ameni ad affascinare lo straniero: ognuno di essi presenta speciali associazioni che decuplicano il suo interesse. Alle Vigne Nuove si può circoscrivere in uno spazio di una trentina di metri il luogo dove ebbe luogo il suicidio di Nerone. La Val d'Inferno ci riporta alla memoria le due Domizie Lucille, le sue cave d’argilla e le sue fornaci di mattoni i cui prodotti erano spediti persino in Africa.


6.24 I suoi legami con Erode Attico.

la Valle della Caffarella è piena delle memorie di Erode Attico e di Annia Regilla, ricordate dalle loro tombe, dal Bosco Sacro, dal cosiddetto Ninfeo di Egeria e dai resti della loro splendida villa. 


6.25 Il suo patrimonio e le sue origini.

Erode Attico, nato a Maratona nel 104 d.c. da nobili genitori ateniesi, divenne uno degli uomini più illustri della sua epoca. Filostrato, il biografo dei Sofisti, ci fornisce un resoconto dettagliato della sua vita e delle sue fortune all’inizio del libro II.

ERODE ATTICO
A Roma sono state trovate iscrizioni sulla sua carriera, ai lati della via Appia: le più note sono le Iscrizioni Greche Triopee ora Borghesiane, pubblicate da Ennio Quirino Visconti nel 1794. Suo padre, Tiberio Claudio Attico Erode, perse il proprio patrimonio, confiscato per motivi politici. Per il proprio sostentamento fu quindi costretto a dipendere, all’inizio della sua carriera, dal patrimonio di sua moglie, Vibullia Alcia.

Improvvisamente divenne l’uomo più ricco di Grecia e, probabilmente, del mondo. Molti scrittori riferiscono di una straordinaria scoperta di un tesoro, fatta nelle fondazioni di una piccola casa che possedeva ai piedi dell’Acropoli, vicino al Teatro di Dioniso. 

Sembra che fu più impaurito che contento del ritrovamento, sapendo quanto fosse complicata la giurisprudenza su tali argomenti e quanto avidi fossero i magistrati provinciali. Si rivolse in termini generali all’Imperatore Nerva, chiedendo cosa avrebbe dovuto fare della sua scoperta. La risposta fu che poteva farne l’uso che preferiva (usane). 

Ma non fu rassicurato neanche allora e scrisse ancora all’Imperatore dichiarando che quella fortuna andava ben oltre ciò che si poteva spendere in una vita. La risposta di Nerva gli confermò enfaticamente il pieno possesso della sua ricchezza (Allora abusane!). Erode ne fece ottimo uso, come nobile rivincita sulle persecuzioni in cui era incappato negli anni della propria giovinezza; alla sua morte, suo figlio ereditò, insieme al patrimonio, anche la sua indole generosa e gentile.

La curiosità ci spinge a chiederci da dove venisse questo tesoro, chi fu che lo nascose nella roccia dell’Acropoli, quando e per quale motivo. L’ipotesi di Visconti che venne nascosto da un ricco romano durante le guerra civile e le proscrizioni che ad essa seguirono verso la fine della Repubblica, non è ovviamente corretta. Nessun generale romano, magistrato o mercante dell’epoca repubblicana avrebbe potuto raccogliere un tale patrimonio in una Grecia impoverita.

Ho un’ipotesi più probabile da suggerire.

Quando Serse spedì la sua flotta contro gli alleati greci nello stretto di Salamina, era così sicuro di vincere quel giorno che si sedette su un alto trono sulle pendici del monte Egaleo per assistere alla battaglia. 

Quando vide che la fortuna gli voltava le spalle obbligandolo ad una ritirata estremamente concitata in cui la salvezza dipendeva dalla velocità della fuga, suppongo che i fondi per la guerra, presi in consegna dal tesoriere dell’esercito, possano essere stati sepolti in una fenditura dell’Acropoli, nella speranza di un ritorno rapido e coronato dal successo. 

La somma di denaro gestita dagli ufficiali tesorieri di Serse per gli scopi della guerra deve essere stata enorme se consideriamo che si contarono 2.641.000 durante la rassegna nella pianura di Doriskos.

Qualunque sia stata l’origine della ricchezza di Attico, questa non sarebbe potuta cadere in mani migliori. La sua liberalità verso gli uomini di lettere e verso gli amici bisognosi, le sue opere di pubblica utilità eseguite in Grecia, Asia Minore ed Italia, i giochi e gli spettacoli da lui indetti nel circo e nell’anfiteatro, non gli impedirono di coltivare l’interesse per la scienza a tal punto che, al suo arrivo a Roma, fu scelto come tutore dei due figli adottivi di Antonino Pio, Marco Aurelioe Lucio Vero.

Qui sposò Annia Regilla, una delle donne più ricche dell’epoca, da cui ebbe sei figli. Ella morì di parto ed Erode fu accusato, non sappiamo su quali basi, di averne accelerato o causato la morte tramite avvelenamento o violenza. 

Il fratello di Regilla, Appio Annio Bradua, console nel 160 d.c., intentò una causa per uxoricidio contro Erode, ma non riuscì a provare l’accusa. Tuttavia, la calunnia fu dura a morire presso l’opinione pubblica. Per eliminarla e per riguadagnare la propria considerazione sociale, Erode, sebbene affranto di dolore, si diede a tributare onori alla memoria della defunta moglie quasi fino all’eccesso. 

I suoi gioielli furono offerti a Cerere e Proserpina; i terreni da lei posseduti tra la Via Appia e la Valle dell’Almone furono disseminati di edifici consacrati alla sua memoria ed a quella degli dei. Ai confini della proprietà furono innalzate delle colonne che riportavano la seguente iscrizione, in greco ed in latino:
"In memoria di Annia Regilla, moglie di Erode, luce ed anima della casa, cui questi terreni una volta appartenevano"

Da altri documenti apprendiamo che tali terreni ospitavano un villaggio chiamato Triopium, campi di grano, vigneti, oliveti, pascoli, un tempio dedicato a Faustina Minore, con l’appellativo di Nuova Cerere, un cimitero per la famiglia, posto sotto la protezione di Minerva e Nemesis e, infine, un bosco consacrato alla memoria di Regilla.

TOMBA DI ANNIA REGILLA

6.26 Il monumento per la moglie Annia Regilla.

Molti di questi monumenti esistono ancora. La prima struttura che incontriamo è una tomba di notevoli dimensioni costruita a forma di tempio, i cui gradini più bassi sono bagnati dall’Almone. Il suo nome popolare di "Tempio del Dio Redicolo" deriva dalla tradizione che indica questo punto come quello in cui Annibale tornò indietro davanti alle mura di Roma e dove, conseguentemente, i Romani innalzarono un tempio al “Dio del ritorno”.

La Campagna Romana abbonda di monumenti sepolcrali simili ma nessuno può essere paragonato a questo per l’eleganza delle sue decorazioni in laterizio, che danno la sembianza e la leggerezza di un ricamo. L’effetto policromo dato dall’uso alternato di mattoni gialli e rosso scuri è estremamente raffinato.

Sebbene non siano state trovate iscrizioni all’interno o vicino a questo heroön, ci sono motivi per provare che questa fosse la tomba di famiglia di Regilla, Erode e dei loro sei figli. E’ estremamente difficile trovare una struttura più bella ed interessante nella Campagna Romana e mi chiedo perché sia così poco visitata. Forse è meglio così, perché il suo attuale proprietario lo ha appena affittato come ricovero per i maiali. 

Risalendo la valle, su uno sperone sopra le sorgenti di Egeria, si erge il Tempio di Cerere e Faustina, oggi chiamato S. Urbano alla Caffarella. Appartiene ai Barberini che se ne prendono ottima cura al pari del bosco sacro di lecci che copre le pendici a sud delle sorgenti. 

Il vestibolo è sostenuto da quattro colonne marmoree ma, da quando gli intercolumni sono stati chiusi da Urbano VIII nel 1634, l’integrità del monumento appare compromessa. Qui Erode dedicò una statua alla memoria di sua moglie, minutamente descritta nella seconda iscrizione triopea, che ho citato prima. I primi Cristiani presero possesso del Tempio e lo consacrarono alla memoria di Papa Urbano, il martire i cui resti furono sepolti qui vicino nella cripta magna delle Catacombe di Pretestato.

Papa Pasquale I fece affrescare la Confessione della chiesa con un ciclo di affreschi che rappresentano il santo, da cui prende il nome la chiesa, con la Vergine Maria e S.Giovanni. Nel 1011 i pannelli tra i pilastri della cella furono dipinti con le vite ed i martiri di Cecilia, Tiburzio, Valeriano e Urbano e, sebbene rovinati dai restauri, questi affreschi danno un importantissimo contributo all’Arte Italiana dell’XI secolo. 

Sotto lo stesso tetto e all’interno delle quattro mura del tempio abbiamo quindi i nomi di Cerere, Faustina, Erode e Annia Regilla, insieme a quelli di S. Cecilia e S. Valeriano, di Pasquale I e di Papa Barberini; decorazioni in stucco e laterizio del tempo di Marco Aurelio; affreschi dei secoli IX e XI; la sorveglianza di tutte queste ricchezze è affidata alla cura di un pacifico vecchio eremita, i cui sogni non sono sicuramente turbati dal concorso di così tanti eventi.

Non intendo ricordare al lettore che il nome di Egeria, dato al ninfeo sotto al tempio, è di origine rinascimentale. La grotta in cui, secondo la leggenda e la descrizione di Giovenale, Numa Pompilio ebbe i suoi incontri segreti con la ninfa Egeria, era infatti all’interno delle Mura Aureliane, nei terreni sottostanti la Villa Fonseca, cioè ai piedi del Celio, vicino a Via della Ferratella. 

L’ho vista per la prima volta nel 1868 e di nuovo nel 1880 mentre raccoglievo materiale per il mio volume “Acquedotti e sorgenti dell’antica Roma”. Nel 1887 fu interrata dagli ingegneri militari intenti alla costruzione dell’Ospedale vicino Santo Stefano Rotondo. Le sorgenti sgorgano comunque ancora nello splendido ninfeo di Villa Mattei (von Hoffmann) all’angolo tra Via delle Mole di S. Sisto e Via di Porta S. Sebastiano.

Riguardo al Bosco Sacro, non c’è dubbio che i suoi attuali lecci continuino la tradizione e prosperino esattamente sul luogo dell’antico bosco consacrato alla memoria di Annia Regilla, CVIVS HAEC PRAEDIA FVERVNT.

CORPO RITROVATO NEL 1485

6.27 L’importante scoperta del cadavere di una giovane ragazza, fatta nel 1485.

Ritornando, comunque, alla "Regina viarum", tra le molte scoperte che hanno avuto luogo nei cimiteri che la costeggiano, quella fatta il 16 aprile del 1485, durante il pontificato di Innocenzo VIII, rimase insuperata.

Ci sono stati tantissimi resoconti pubblicati dai moderni scrittori su questo evento straordinario, ma può interessare i miei lettori imparare come sono andati i fatti passando in rassegna l’evidenza che emerge dalla loro semplicità originale. Citerò solo testimonianze che ci permettono di accertare cosa è realmente accaduto in quel memorabile giorno Il caso in sé stesso è talmente unico che non ha bisogno di amplificazioni o dell’aggiunta di dettagli immaginari. 


6.28 Le varie testimonianze contemporanee sul ritrovamento.

Consultiamo per primo il diario di Antonio di Vaseli:

"Oggi, 16 aprile 1485, è arrivata a Roma la notizia che è stato trovato in una fattoria a Santa Maria Nova, nella campagna vicino al Casale Rotondo, un cadavere sepolto un migliaio di anni fa.... (f. 49.) I Conservatori di Roma mandarono a Santa Maria Nova una bara di ottima fattura ed un gruppo di uomini per il trasporto del corpo in città. 
Il corpo è stato esposto nel Palazzo dei Conservatori ed una grossa folla di cittadini e nobiluomini è accorso per vederlo.Il corpo sembra essere ricoperto da una sostanza gelatinosa, un miscuglio di mirra ed altre sostanze oleose, che attraggono sciami di api. 
Il citato corpo è intatto. I capelli sono lunghi e forti; le ciglia, gli occhi, il naso e le orecchie sono immacolate, al pari delle unghie. 
Sembra essere il corpo di una donna, di buona corporatura; la sua testa è coperta da una leggera cuffia intessuta con fili d’oro, molto bella. I denti sono bianchi e perfetti; la carne e la lingua hanno mantenuto il loro colore;se però si toglie la sostanza gelatinosa, la carne si annerisce in meno di un’ora. 
Si è cercato con attenzione nella tomba in cui è stato trovato il corpo, nella speranza di trovare l’epitaffio con il suo nome; deve essere stato quello di una persona illustre, perché solo una persona nobile e ricca poteva permettersi di essere sepolta in un sarcofago così costoso, ricoperta di preziosi unguenti".

Da una lettera di messer Daniele da San Sebastiano, datata MCCCCLXXXV (1485):—

"Durante gli scavi fatti sulla Via Appia per cercare pietre e marmi, sono state scoperte tre tombe di marmo in questi ultimi giorni, sepolte 3,60 metri sotto terra. Una era di Terenzia Tulliola, figlia di Cicerone; l’altra era priva di epitaffio. 
Una di loro conteneva il corpo di una giovane, intatto in tutte le sue membra, ricoperto dalla testa ai piedi da una sostanza aromatica, spessa 2,5 cm. Rimuovendo questo rivestimento, che crediamo fosse composto da mirra, incenso, aloe ed altre preziose sostanze, è comparso alla vista un volto, così bello, così affascinante che, sebbene la ragazza fosse morta da almeno 1500 anni, sembrava essere stata deposta proprio quel giorno. 
La spessa massa di capelli, riunita in uno nodo superiore, secondo l’antico uso, sembrava essere stata appena pettinata. Le palpebre potevano essere sollevata e richiuse; le orecchie ed il naso erano così ben conservati che, dopo essere state deformate leggermente, tornavano immediatamente al loro posto. 
Esercitando della pressione sulle guance il colore scompariva come in un corpo vivo. Si poteva vedere la lingua tra le labbra rosa; le articolazioni delle mani e dei piedi conservavano ancora la propria elasticità. L’intera Roma, uomini e donne fino al numero di ventimila, visitarono la meraviglia di Santa Maria Nova quel giorno. 
Mi preme rendervi edotti su questo evento, perché voglio che sappiate quanto gli antichi tenessero a preparare per l’immortalità non solo le loro anime ma anche i loro corpi. Sono certo che se aveste avuto il privilegio di presenziare a questo avvenimento, il vostro piacere sarebbe stato pari allo stupore".

COLOMBARIO COSTANTINIANO ALLA CAFFARELLA
Da una lettera datata Roma, 16 Aprile del 1485, tra le carte di Schedel nel Codice 716 della Biblioteca di Monaco:

"Conoscendo la vostra bramosia per le nuove notizie, vi mando quella di una scoperta appena fatta sulla via Appia, cinque miglia fuori dalla porta, in un luogo chiamato Statuario (lo stesso di S. Maria Nova). 
Alcuni operai intenti a ricercare pietre e marmi hanno scoperto una cassa marmorea di grande bellezza con un corpo femminile all’interno, con uno nodo di capelli dietro la testa, secondo una moda oggi in auge presso gli Ungheresi. Era coperta con una cuffia intessuta d’oro e legata con lacci d’oro. La cuffia e i lacci furono rubati al momento della scoperta insieme ad un anello che la ragazza indossava all’indice della mano sinistra. 
Gli occhi erano aperti ed il corpo conservava ancora una tale elasticità che la carne si ritirava se premuta, riprendendo immediatamente la forma precedente. Il corpo era estremamente bello; apparentemente era quello di una ragazza di circa 25 anni. 
Molti la identificano con Tulliola, figlia di Cicerone ed io sono pronto a crederlo perché ho visto, lì vicino, una lapide con il nome di Marco Tullio e perché è noto che Cicerone possedeva dei terreni nelle vicinanze. 
Ma non importa di chi fosse figlia, era certamente nobile e di famiglia ricca. Il corpo doveva il suo stato di conservazione ad un rivestimento oleoso spesso 5 cm, composto di mirra, balsamo e olio di cedro. La pelle era bianca, soffice e profumata. 
Le parole non possono descrivere il numero e l’eccitazione delle moltitudini di persone corse ad ammirare questa meraviglia. Per facilitare ciò, i Conservatori acconsentirono a che il corpo venisse trasportato sul Campidoglio. Sembrava quasi che si potesse guadagnare l’indulgenza e la remissione dei peccati salendo sul Colle, tanto grande era la folla, soprattutto di donne, accorsa all’esposizione.
La cassa marmorea ancora non è stata trasportata in città, ma mi è stato riferito che sopra vi sono incise le seguenti parole:
’Qui giace Giulia Prisca Seconda. Visse 26 anni ed un mese. Non ha avuto alcuna colpa, se non quella di morire'
Sembra che inciso sulla stessa cassa sia scolpito anche un altro nome, quello di Claudio Ilaro, morto a 46 anni. Se dobbiamo credere alle voci che corrono, gli scopritori del corpo sono fuggiti portando con sé un grande tesoro".

Ed ora lasciamo che il lettore guardi questa misteriosa ragazza. Il disegno che segue rappresenta il suo corpo quando fu esposto nel Palazzo dei Conservatori ed è eseguito sulla base di uno schizzo originale nel Codice n° 1174di Ashburnham, f. 134.

Celio Rodigino, Leandro Alberti, Alessandro di Alessandro e Corona ci forniscono altri interessanti particolari:

- Gli scavi furono eseguiti dai monaci di Santa Maria Nova (l’odierna S. Francesca Romana) a 5 miglia dalla porta. La tomba si trovava sul lato sinistro, cioè orientale, della strada e si ergeva sopra il livello stradale. Il sarcofago era inserito nei muri di fondazione e il suo coperchio era sigillato con piombo fuso. 
Appena questo fu aperto i presenti avvertirono un intenso odore di mirra e trementina. Il corpo viene descritto come ben composto all’interno della cassa, con braccia e gambe ancora flessibili. I capelli erano biondi e tenuti insieme da una fascia (infula) intessuta d’oro. Il colore della pelle era del tutto roseo. 
Gli occhi e la bocca erano parzialmente aperti e se si tirava fuori la lingua con delicatezza, questa tornava al suo posto da sola. Durante i primi tre giorni di esposizione sul Campidoglio questa meravigliosa reliquia non diede alcun segno di decomposizione; 
Dopo un certo tempo, però, l’azione dell’aria iniziò a farsi sentire e la faccia e le mani diventarono nere. 
Sembra che la cassa sia stata posta sulla cisterna del Palazzo dei Conservatori per consentire alla folla di visitatori di girarvi intorno e di guardare la meraviglia con più facilità. 
Celio Rodigino dice che si notarono i primi segni di putrefazione al terzo giorno; egli attribuisce la decomposizione più alla rimozione del rivestimento protettivo che all’azione dell’aria. Alessandro di Alessandro dice che l’unguento che riempiva il fondo della cassa emanava un fresco profumo. -

Questi diversi racconti sono senza dubbio dettati dall’eccitazione del momento, tuttavia concordano tutti su molti dettagli della scoperta: sulla data, sul luogo della scoperta e sulla descrizione del cadavere.

Chi era dunque la ragazza di cui si era tentato di conservare i resti con estrema cura?

Pomponio Leto, l’archeologo più insigne dell’epoca, espresse l’opinione che poteva trattarsi di Tulliola, figlia di Cicerone, o di Priscilla, moglie di Abascanto, la cui tomba sulla via Appia è descritta da Stazio (Sylv. V. i. 22). Entrambe le ipotesi sono errate. La prima è confutata dal fatto che il corpo era quello di una ragazza molto giovane, mentre sappiamo che Tulliola morì di parto all’età di 32 anni. Inoltre, non c’è alcun documento che provi che Cicerone possedesse una tomba di famiglia al sesto miglio della via Appia. 

La tomba di Priscilla, moglie di Abascanto, un liberto tenuto in grande considerazione da Domiziano, è ubicata da Stazio vicino al ponte sull’Almo (Fiume Almone, Acquataccio) quattro miglia e mezza più vicino alla porta di fronte alla Cappella del Domine quo vadis dove è stata ritrovata e scavata due volte: la prima nel 1773 da Amaduzzi, la seconda nel 1887, sotto la mia supervisione. 

L’unico indizio degno di nota è quello fornito dalla lettera di Pehem, oggi alla Biblioteca di Monaco, del 15 aprile, ma anche questo non porta alla soluzione. L’iscrizione che, si disse, citava il nome e l’età della ragazza, è del tutto vera e debitamente registrata nel "Corpus Inscriptionum", al n 20.634.

E’ quella che segue:

D · M
IVLIA · L · L · PRISCA
VIX · ANN · XXVI · M · I · D · I ·
Q · CLODIVS · HILARVS
VIX · ANN · XXXXVI
NIHIL · VNQVAM · PECCAVIT
NISI · QVOD · MORTVA · EST

"Agli dei degli inferi. [qui giace] Giulia Prisca, liberta di Lucio Giulio, che visse 26 anni,un mese e un giorno; [e anche] Q. Clodio Ilaro, che visse 46 anni. Ella non commise nulla di sbagliato, eccetto morire".

Pehem, Malaguy, Fantaguzzi, Waelscapple e tutti gli altri affermano all’unisono che l’iscrizione fu trovata insieme al corpo il 16 aprile del 1485, ma sono tutti in errore. Era stata vista e copiata, almeno 22 anni prima, da Felice Feliciano di Verona, e può essere trovata nella collezione manoscritta di antichi epitaffi che egli dedicò ad Andrea Mantegna nel 1463.

Il numero di iscrizioni spurie connesse arbitrariamente all’episodio del ritrovamento è notevole. Giorgio di Spalato (1484-1545) fornisce la seguente versione di quella appena riportata nei suoi diari manoscritti, oggi a Weimar:

"Qui giace la mia unica figlia Tulliola, che non ha commesso alcun danno, eccetto morire. Marco Tullio Cicerone, il suo infelice padre, ha eretto questo memoriale"

S. URBANO ALLA CAFFARELLA - TEMPIO DI CERERE E FASTINA

6.29 La sua sorte.

La povera ragazza, il cui nome e la cui condizione sociale non si conosceranno mai ed il cui corpo era sfuggito così miracolosamente alla distruzione per 1.200 anni, fu trattato in maniera ignominiosa dai suoi scopritori del 1485. Ci sono due versioni sulla sua ultima sorte. 
Secondo la prima, Papa Inncocenzo VIII, per porre un freno all’eccitazione ed alle superstizioni dei cittadini, costrinse i Conservatori a trasportare di notte il corpo fuori dalla Porta Salaria ed a seppellirlo in gran segreto ai piedi delle mura della città. L’altra versione dice che fu gettata nel Tevere. Entrambe le ipotesi hanno lo stesso grado di probabilità.

Com’è diverso il comportamento che abbiamo oggi di fronte a tali scoperte!


6.30 Una scoperta simile fatta nel 1889.

La mattina presto del 12 maggio 1889, fui chiamato a testimoniare l’apertura di una cassa di marmo che era stata scoperta due giorni prima sotto le fondazioni del nuovo Palazzo di Giustizia, sulla riva destra del Tevere, vicino al mausoleo di Adriano. Di norma, la cerimonia del taglio delle graffe metalliche che sigillano i coperchi delle urne e dei sarcofagi si effettua in uno dei nostri depositi archeologici, lontano dall’eccitazione, a volte pericolosa, della folla. 

In questo caso, non si è potuta seguire questa modalità operativa, perché si accertò che la cassa si era riempita d’acqua che, nel corso dei secoli, era filtrata goccia a goccia dalle fessure del coperchio. Il trasporto in Campidoglio fu quindi evitato, non solo a causa del peso eccessivo del sarcofago, ma anche perché agitare l’acqua che era all’interno avrebbe danneggiato e mischiato i resti dello scheletro e gli oggetti che, presumibilmente, si trovavano all’interno.

Il sarcofago marmoreo era immerso in uno strato di argilla azzurra, alla profondità di 7,6 m sotto il piano di campagna e solamente 1,2-1,5 m sopra il livello del Tevere che scorre nei pressi. Era inciso semplicemente con il nome CREPEREIA TRYPHAENA ed era decorato con bassorilievi che rappresentavano la scena della sua morte. 

Non appena si ruppero i sigilli e si sollevò il coperchio, i miei assistenti, io stesso e la folla di operai del cantiere del Palazzo di Giustizia, fummo tutti inorriditi dalla scena che ci si presento davanti agli occhi: guardando lo scheletro attraverso l’acqua limpida, scorgemmo il teschio coperto di una lunga massa di capelli bruni. 

I commenti cui si diede la folla semplice ed eccitata da cui eravamo circondati, furono interessanti quasi come la stessa scoperta. La notizia del prodigio dei capelli corse come il vento tra la popolazione del circondario; di conseguenza l’esumazione di Crepereia Trifena fu portata a termine con inattesa solennità ed il suo ricordo rimarrà per anni nelle tradizioni popolari del nuovo quartiere di Prati di Castello. 

Il mistero dei “capelli” può essere facilmente spiegato. Insieme all’acqua sorgiva, erano entrati nel sarcofago anche dei germogli o dei semi di una pianta acquatica che avevano attecchito sulla superficie convessa del cranio ed avevano originato lunghi e lucidi filamenti di colore scuro.


Oggetti trovati nella tomba di Crepereia Tryphaena 

Il teschio era leggermente reclinato sulla spalla sinistra verso una deliziosa piccola bambola, intagliata in quercia, che era distesa sulla scapola. Su ambedue i lati della testa c’erano orecchini di perle. Tra le vertebre del collo e della spina dorsale c’era una collana d’oro, intrecciata come una catena con 37 pendenti di giada verde ed una spilla con un intaglio di ametista di fattura greca, che rappresentava la lotta tra un grifone ed un cervo. 

Dove doveva essere stata la mano sinistra, trovammo quattro anelli d’oro massiccio. Uno è un anello di fidanzamento, con un’incisione in giada rossa che rappresenta due mani unite. Il secondo porta inciso sulla pietra il nome PHILETVS; il terzo ed il quarto sono semplici fascette d’oro. Proseguendo nella nostra indagine, scoprimmo accanto al fianco sinistro un cofanetto che conteneva oggetti da toilette. Era fatto di sottili pezzi di legno duro, intarsiato alla Certosina, con linee, quadrati, triangoli e rombi di osso, avorio e legno di vari tipi e colori. Il cofanetto, comunque, era stato completamente sconnesso dall’azione dell’acqua. 

Dentro c’erano due pettini splendidamente conservati, con i denti più larghi da un lato rispetto a quelli dell’altro lato, un piccolo specchio di acciaio lucidato, una scatolina d’argento per cosmetici, una spilla per capelli d’ambra, un lungo pezzo di morbida pelle ed alcuni frammenti di una spugna.

La scoperta più suggestiva fu fatta dopo aver rimosso l’acqua. La donna era stata deposta in un sudario di ottimo lino, pezzi del quale furono trovati incrostati e cementati sul fondo e sui lati della cassa; le era stata inoltre messa intorno alla fronte una ghirlanda di mirto fissata con dei fermagli d’argento. La conservazione delle foglie è veramente stupefacente.

Chi era questa donna, la cui improvvisa ed inaspettata ricomparsa tra noi nel maggio del 1889 suscitò così tanto scalpore? Quando visse? A che età morì? Cosa ne causò la morte? Qual’era la sua condizione di vita? Era bella? Perché era stata sepolta con la sua bambola? L’attento esame della tomba e dei suoi contenuti ci permette di rispondere pienamente a tutte queste domande.

Crepereia Trifena visse all’inizio del III se. d.c., durante i regni di Settimio Severo e Caracalla, come dimostrato dalla forma delle lettere e dallo stile dei bassorilievi incisi sul sarcofago. Non era nobile; il suo cognome greco Tryphaena dimostra che apparteneva ad una famiglia di liberti, una volta servitori della nobile famiglia dei Creperei. 

Non sappiamo nulla delle sue sembianze se non che possedeva una dentatura bella e robusta. La sua postura, comunque, deve essere stata piuttosto imperfetta, a causa di una deformità delle costole, probabilmente dovuta a scrofola. 

La scrofola, infatti, sembra essere stata la causa della sua morte. Comunque, nonostante la sua deformità, non c’è dubbio che fu promessa in sposa al giovane uomo Fileto, il cui nome è inciso sulla pietra del secondo anello, e che i due felici amanti si erano scambiati il giuramento di fedeltà e di mutua devozione che è espresso dal simbolo delle mani giunte.

La storia della sua triste dipartita e dell’improvviso dolore che colse la sua famiglia alla vigilia di un felice matrimonio, è chiaramente indicata dalla presenza nella bara della bambola e della ghirlanda di mirto che rappresenta una corona nuptialis. Credo, infatti, che la donna sia stata sepolta con il suo vestito da sposa e quindi avvolta nel sudario di lino, perché ci sono frammenti di vesti di vari tessuti e qualità, confusi con quelli di lino bianco.

Ed ora rivolgiamo la nostra attenzione alla bambola. Questa splendida “pupa”, è essa stessa un’opera d’arte; è in quercia, ma l’azione combinata del tempo e dell’acqua gli hanno conferito la durezza del metallo. E’ stata realizzata imitando perfettamente le sembianze di un corpo femminile ed è considerato uno degli oggetti più belli trovati finora a Roma tra quelli del suo genere. 

Le mani ed i piedi sono incisi con abilità estrema. L’acconciatura dei capelli è tipica dell’età degli Antonini e differisce di poco dalla capigliatura di Faustina Maggiore. La bambola aveva probabilmente dei vestiti, perché nel pollice della sua mano sinistra erano inseriti due portachiavi d’oro come quelli portati dalle casalinghe. Questa affascinante figurina, le cui articolazioni dei fianchi, delle ginocchia, delle spalle e dei gomiti, sono ancora in buono stato, è alta quasi trenta cm.

Bambole e giocattoli non si trovano facilmente nelle tombe dei bambini. Era abitudine delle giovani donne offrire le proprie bambole a Venere o Diana nel giorno del loro matrimonio. Questa fu destinata a condividere il triste fato della sua giovane padrona ed ad essere deposta con il suo cadavere, prima che la cerimonia nuziale potesse essere officiata.


PORTA QUIRINALIS (Porte Severiane)

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DISEGNO DI DOMENICO FONTANA (1880)

PORTA QUIRINALIS 1880

La foto di cui sopra era il portale di ingresso della villa Petretti Montalto Massimo, sul Colle Quirinale, edificata nel XVI sec. per il Papa Sisto V. La villa, di stile rinascimentale, ebbe come portale un progetto di Domenico Fontana (Lugano, 1543 - Napoli 1607) che ricostruì per il Papa Sisto V una immaginaria e splendida Porta Quirinalis, ideata in stile romano, in verità uno stile ben ricostituito, cioè come poteva essere una porta romana, ma di epoca imperiale.
Successivamente la porta venne demolita (sig!) per far posto alla ottocentesca Stazione Termini.



PORTA QUIRINALIS SULLE MURA SERVIANE

  La Porta Quirinalis fu una delle tre porte d'accesso al colle Quirinale, che come il Colle Viminale era denominato colle.

Roma fu edificata su sette colli, ma gli altri cinque furono detti Montes cioè monti.

Il Colle Quirinale si suddivideva in tre sommità: il Collis Latiaris (a sud, vicino ai Fori Imperiali), il Collis Mucialis (o Sanqualis, dalla Porta Sanqualis in Largo Magnanapoli) e il Collis Salutaris (dal tempio della Dea Salus, a ovest dell'attuale palazzo del Quirinale).

Le tre porte si aprivano sulle Mura Serviane in corrispondenza degli unici avvallamenti occidentali del Colle Quirinale, e la Porta Quirinalis era la più settentrionale delle tre porte, situata nei dintorni dell'odierna piazza Barberini, verso l'incrocio tra via delle Quattro Fontane e via dei Giardini.

Poiché in origine ci fu una aspra lotta di conquista del territorio da parte dei Sabini e dei Latini, Roma con le mura Serviane si era difesa con una prima cinta muraria, e specialmente sul colle Quirinale, che in origine era abitato dai Sabini.

Nel IV sec. a.c. la cinta più antica in cappellaccio della Roma Quadrata venne sostituita con quella in opera quadrata di blocchi di tufo giallo, della quale sono conservati alcuni tratti.

Naturalmente i mattoni, ovvero l'opus lateritia, era ancora sconosciuta ai romani che edificavano tagliando le pietre. Si ritiene che la Porta Quirinalis venne edificata all'epoca della costruzione delle mura serviane, sebbene non si ritiene che in quel punto vi fossero mura di cinta.

PORTA QUIRINALE DI TERMINI

L’antica porta Quirinalis derivava il suo nome dal vicino tempio di Quirino, antichissima divinità poi identificata con Romolo. L’archeologo Rodolfo Lanciani ( 1845-1929) segnalò nel 1892 il rinvenimento di una scala in opera quadrata di cappellaccio, recentemente messa in relazione con la porta Quirinalis, nel punto, infatti, dove la strada antica aveva una pendenza ancora più pronunciata di quella attuale con un forte dislivello che, nei pressi della porta, necessitava di una scalinata.

Lo studioso proponeva la collocazione, in questo punto, della porta Salutaris, che oggi viene ubicata presso via della Dataria. Si pensa invece si trattasse della Porta Quirinalis.

LA PORTA PRIMA DELLA DISTRUZIONE DEL 1892
L'ipotetica assenza di mura deriva dal fatto che il Colle Quirinale su tutto il versante occidentale era estremamente scosceso e di conseguenza su quel lato non solo mancavano porte e strade di accesso alla città, ma non era neanche necessario ricorrere alla costruzione di una cinta muraria difensiva, essendo sufficiente, al massimo, un parapetto.

Il livello originario della valle sotto al dirupo era infatti ben 11 m sotto l'attuale piano stradale di piazza Barberini, ed il dislivello con la parte alta del colle, che in quel punto raggiungeva il valore massimo, era di circa 25 m.

La strada che conduceva su per il colle fino alla porta, circa in corrispondenza dell'attuale via delle Quattro Fontane (che presenta tuttora un notevole dislivello), era pertanto ripidissima, come hanno rivelato indagini archeologiche e geologiche.

L'apertura di tale strada, sebbene piuttosto scoscesa, era diventata necessaria  per lo sviluppo urbanistico del quartiere, onde mettere in comunicazione la valle con la sommità del colle, dove correva una via molto importante, l'Alta Semita, che conduceva fino a Porta Collina, da cui originava la Via Collina.

L'Alta Semita (che in latino significava appunto sentiero alto) corrispondeva all'ingresso in Roma della Via Salaria ( destinata a trasportare il sale dal guado del Tevere alla Sabina), percorso che era in uso sin dai tempi preistorici, e della Via Nomentana (che collegava Roma a Nomentum, grosso modo l'attuale Mentana), e il suo percorso corrispondeva grosso modo all'attuale via del Quirinale.


ALTA SEMITA - VIA DEL QUIRINALE (XIX SEC.)

L'ASPETTO DELLA PORTA

Le porte delle mura serviane non avevano alcuna struttura monumentale, come suggeriscono i pochi resti ritrovati, ma erano limitate alla semplice funzione di passaggio e di protezione dell'Urbe. Di sicuro erano costituite da grandi blocchi quasi regolari, di certo più grandi di quelli delle mura, che erano di circa 60 cm ognuna.

La pietra usata era tufo proveniente dalle cave di Grotta Oscura e in parte da quelle di Fidene, molto tufo proveniente dalle cave di Grotta Oscura e in parte da quelle di Fidene, molto più consistente del cappellaccio in uso fino a poco tempo prima. 

PORTA SANQUALIS
D'altronde le cave di Grotta Oscura si trovano presso Veio, che fu conquistata nel 396 a.c., per cui prima di quella data non erano accessibili per Roma.più consistente del cappellaccio in uso fino a poco tempo prima. 

Poichè gli etruschi conobbero prima dei romani l'uso dell'arco realizzato prima in legno e poi in pietra, sostenuto da un cuneo centrale, le porte di epoca serviana furono ad arco, molto più facile da eseguire ed anche più robusta, a parità di dimensione, della porta sostenuta da un architrave di pietra.

L'aspetto pertanto doveva essere più o meno della Porta Sanqualis che miracolosamente è giunta fino a noi essendo oggi la porta interna conservata in un ristorante romano.

Solo con i restauri di epoca augustea si procedette ad un processo di monumentalizzazione di alcune delle antiche porte e in parte, nel tempo, furono trasformate in archi di vario significato. Pertanto la porta in origine deve aver avuto un aspetto molto simile a quello della Porta Sanqualis, ma se rimaneggiata in epoca imperiale potrebbe aver avuto un aspetto simile a quella del XVI secolo di D. Fontana.

LE REGIONI DI ROMA

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Roma venne divisa amministrativamente in 14 regioni da Augusto nel 7 a.c., contrassegnandole prima solo con un numero e poi con un nome. Le regioni erano praticamente dei quartieri, oggi chiamati "rioni" da regiones.

« Divise il territorio della città in regioni e quartieri (vici) e stabilì che quelle fossero amministrate da magistrati annuali estratti a sorte, mentre per i secondi da magistri scelti tra la plebe del vicinato.»
(Svetonio, Augustus, 30.)

Conosciamo le suddette regiones attraverso i Cataloghi regionari, in due redazioni leggermente diverse tra loro. Delle due versioni la prima riporta il titolo di Curiosum urbis Romae regionum XIIII, mentre la seconda, senza titolo, è conosciuta come Notitia urbis Romae.




REGIONE I - PORTA CAPENA

"I limiti di questa regione, chiamata Porta Capena dalla porta di simil nome situata nel recinto di Servio, sono molto controversi; imperocchè si vedono da alcuni topografi protratti persino al luogo detto la Caffarella, posto distante dall'attuale porta della Città di circa due miglia, onde includervi alcuni edifizi che stanno in quel d'intorno. Ma trovandosi prescritto da Rufo il perimetro di questa regione essere stato di 13223 piedi, e da Vittore come pure dalla Notizia di soli dodicimila e duecentoventi, si deduce che dal luogo ove stava l'antica porta Capena, il quale si riconosce sotto alla villa già dei Mattei prima di giungere alle terme Antoniane, la regione non si potesse estendere più lungi dalla porta Appia o S. Sebastiano. Sembra inoltre che tale regione si trovasse interamente situata fuori dell'antico recinto delle mura di Servio, ma però contenuta in quello di Aureliano, occupando nel piano lo spazio che sta tra il luogo in cui si trovava la nominata porta Capena e la porta Appia, con parte dei due monti che costeggiano tale situazione al di là delle terme Antoniane."


PUBLIO VITTORE

- VICUS ET AEDES CAMENARUM
- VICUS DRUSIANUS
- VICUS SULPICI ULTERIORIS
- VICUS SULPICI CITERIORIS
- VICUS FORTUNAE OBSEQUENTIS
- VICUS PULVERARIUS
- VICUS HONORIS ET VIRTUTIS
- VICUS TRIUM ARARUM
- VICUS FABRICI
- AEDES MARTIS
- AEDES MINERVAE
- AEDES TEMPESTATIS
- AREA APOLLONIS
- AREA SPEI
- AREA  GALLI, SIVE THALLI
- AREA  GALLI, SIVE GALLIAE
- AREA PINARIA
- AREA CARSURAE
- LACUS PROMETHEI
- LACUS VESPASIANI
- BALINEUM TORQUATI 
- BALINEUM VECTII 
- BALINEUM BOLANI
- BALINEUM MAMERTINI
- BALINEUM  ABASCANTIANI
- BALINEUM ANTIOCHIANI
- THERMAE SEVERIANAE
- THERMAE COMMODIANAE
- ARCUS D. VERI PARTHICI
- ARCUS D. TRAJANI
- ARCUS DRUSI
- MUTATORIUM CAESARIS
- ALMO FLUVIUS
- VICI IX.
- AEDICULAE X.
- VICOMAGISTRI XXXVI.
- CURATORES II. 
- DENUNCIATORES II
- INSULAE IIII. M. CC. L. 
- DOMUS CXX. 
- HORREA XIII. 
- BALINEAE PRIVATAE LXXXII
- LACUS LXXXIII
- PISTRINA XX
- REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII. M. CC. XXII.


SESTO RUFO

- VICUS HONORIS ET VIRTUTIS
- VICUS FORTUNAE OBSEQUENTIS
- VICUS SULPICI CITERIORIS
- VICUS DRUSIANUS
- VICUS SULPICI ULTERIORIS
- VICUS PULVERARIUS
- VICUS TRIUM. ARARUM
- VICUS FABRICI
- AEDES MARTIS
- AEDES MINERVAE
- AEDES TEMPESTATIS
- AEDES MERCURII
- AEDES APOLLINIS
- AREA MERCURII CUM ARA
- AREA SPEI
- AREA GALLIAE
- AREA ISIDIS
. AREA PINARIA
- AREA CARSURAE
- LACUS PROMETHEI
- LACUS SANCTUS
- LACUS VESPASIANI
- LACUS SUDANS
- LACUS TORQUATI
- LACUS PUBLICUS
- LACUS BIVIUS
- LACUS SPEI
- LACUS GRATIAE
- LACUS MAMERTINI
- LACUS SALUTARIS
- LACUS LXXI. SINE NOMINE
- BALINEUM TORQUATI
- BALINEUM VETTI 
- BALINEUM BOLANI
- BALINEUM ABASCANTIANI
- BALINEUM MAMERTINI
- BALINEUM METTIANI
- BALINEUM ANTIOCHIANI
-THERMAE COMMODIANAE
- THERMAE SEVERIANAE
- ARCUS DRUSIANUS
- ARCUS VERI 
- ARCUS AUGUSTI 
- ARCUS TRAIANI
- ARCUS BIFRONS
- MUTATORIUM CAESARIS
- ALMO FLUVIUS
- ARA ISIDIS
- TEMPLUM ISIDIS
- TEMPLUM SERAPIDIS
- TEMPLUM FORTUNAE VIATORUM
- VICI IX.
- AEDICULAE X.
- VICOMAGISTRI XXXVI
- CURATORES II.
- DENUNCIATORES II.
- INSULAE IIII. M. CC. L.
- DOMUS C. XXI.
- HORREA XIIII.
- BALINEAE PRIVATAE LXXXII.
- PISTRINA XII.
- REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XIII. M. CC. XXIII.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- AEDEM HONORIS ET VIRTUTIS
- AEDEM CAMENAS
- LACUM PROMETHEI. 
- BALINEUM TORQUATI
- THERMAS SEVERIANAS ET COMMODIANAS
- AREAM APOLLINIS
- AREAM APOLLINIS ET SPLENIS
- VICUM VITRIARIUM
- AREAM PANNARIAM
- AREAM MUTATORIUM CAESARIS
- BALINEUM ABASCANTI ET MAMERTINI. 
- AREAM CARRUCAE
- AEDEM MARTIS
- AEDEM FLUMEN ALMONIS
- ARCUM DIVI VERI. ET TRAIANI. ET DRUSI
- VICI. X. AED. X.
- VICOMAGISTRI XLVIII. CUR. II.
- INSULAE III. M. CC. L.
- DOMUS CXX. HORREA XVI.
- BALINEA LXXXVI.
- LACOS LXXXI
- PISTRINA XX. 
- CONTINET PEDES XII. M. CC. XI.





REGIONE II - CELIMONTANA

"Il perimetro della regione Celimontana, così chiamata dal nome del monte Celio su cui era situata, viene ad essere determinato dalla forma dello stesso monte; imperocchè il giro di questo si trova incirca a corrispondere ai dodici o tredici mila e duecento piedi, che dai regionari si prescrive. Perciò rimane escluso quell'altro monte situato verso la porta Latina e considerato aver fatto parte della regione antecedente, che diversi topografi lo hanno creduto il Celiolo degli antichi; e così anche non può esser compreso in questa regione il piano posto verso l'Esquilino, nel quale il Nardini stabilisce esservi stata l'antica Subura."

ROBERTO LANCIANI

"Piazza Celimontana. 
Sono stati rinvenuti cospicui resti di due insulae della fine del 1° secolo d.c., con pianoterra gravitante su un cortile quadrangolare e con una fila di tabernae a uno o due vani che si affacciavano sul vicus capitis Africae; agli anni immediatamente successivi all'incendio neroniano del 64 d.c. va invece riferito un lungo muro di terrazzamento; le realtà più antiche rinvenute nel corso delle indagini sono alcune strutture riferibili a un ambiente con pavimento in battuto di malta e decorazione parietale geometrica, databile alla prima età imperiale.

Ospedale militare.
Sono stati effettuati scavi in relazione ai lavori di ammodernamento e ristrutturazione dell'ospedale. I saggi hanno messo in luce parte di un quartiere organizzato in isolati con caseggiati di affitto con la fronte a tabernae impiantati nella seconda metà del I sec. d.c. Uno di questi isolati risulta interamente occupato da una grande cisterna costituita da una serie di ambienti disposti su più piani e divisi da pilastri. Un altro isolato è occupato dalla basilica Hilariana, complesso costruito nella metà del II sec. d.c., suddiviso in più navate da pilastri, sede del collegio dei sacerdoti (dendrofori) addetti al culto di Cibele e Attis.

Gli scavi hanno inoltre documentato una generale ristrutturazione di questo settore del colle nell'ambito del III sec. d.c.: in particolare su uno degli isolati viene impiantata una ricca domus costituita da ambienti gravitanti attorno a un cortile centrale. Si evidenzia la trasformazione degli isolati ad abitazione intensiva in residenze di ricche famiglie aristocratiche, come viene ampiamente testimoniato dalle fonti letterarie ed epigrafiche."


PUBLIO VITTORE

- TEMPLUM CLAUDII
- MACELLUM MAGNUM
- CAMPUS MARTIALIS 
. CAMPUS LUPARIAE
- ANTRUM CYCLOPIS
- CASTRA PEREGRINA
- CAPUT AFRICAE
- ARBOR SANCTA
- DOMUS PHILIPPI
- DOMUS VICTILIANA
- REGIA TULLI HOSTILII TEMPLUMQUE QUOD IS IN CURIAM REDEGIT ORDINE A SE ANCTO IDEST PATRIBUS MINORUM GENTIUM
- MANSIONES ALBANAE 
- MICA AUREA
- ARMAMENTARIUM
- SPOLIUM SAMARIUM
- LUDUS MATUTINUS
- LUDUS GALLICUS
- COHORTES QUINQUE VIGILUM
- VICI VII
- AEDILI.VIII 
- VICOMAGISTRI XXVIII
- CURATORES II
- DENUNCIATORES II 
- INSULAE III. M.
- DOMUS CXXXIII
- HORREA XXIII
- BALINEAE PRIVATAE XX
- PISTRINA XII 
- REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII M. CC.


SESTO RUFO

- TEMPLUM BACCHI
- TEMPLUM FAUNI
- TEMPLUM DIVI CLAUDII
- CAMPUS MARTIALIS FONTINARUM
- MACELLUM MAGNUM
- CAMPUS LUPARIAE
- ANTRUM CYCLOPIS 
- CASTRA PEREGRINA
- CAPUT AFRICAE
- ARBOR SANCTA
- DOMUS VITELLIANA
- DOMUS PHILIPPI 
- REGIA TULLI CUM TEMPLO
- MANSIONES ALBANAE
- MICA AUREA
- ARMAMENTARIUM
- COELIOLUM
- SPOLIUM SAMARIUM
- LUDUS MATUTINUS
- LUDUS GALLICUS
- CAMPUS CAELIMONTANUS 
- TERMAE PUBLICAE
- DOMUS PARTHORUM 
- DOMUS LATERANI
- COHORTES V. VIGILUM
- SUBURA
- VICI VIII
- AEDES. VIII
- VICOMAG. XXXII
- CURATORES II 
- DENUNCIATORES II 
- DOMUS CXXIII
- HORREA XXIIII
- BALINEAE PRIVATAE XX
- PISTRINA XXII
- LACUS FUND. XI. SINE NOMINE
- REGIO IN CIRCUITU CONTINET PED. XII. M. CC.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- TEMPLUM CLAUDIUM
- MACELLUM MAGNUM
- LUPARIOS VEL LUPANARIOS
- ATRIUM CYCLOPIS
- COHORTES V. VIGILUM
- CAPUT AFRICES
- ARBOREM SANCTAM
- CASTRA PEREGRINA
- DOMUM PHILIPPI
- DOMUM VICTILIANA 
- LUDUM MATUTINUM
- LUDUM MATUTINUMET DACICUM
- SPOLIARUM SANIARIUM
- MICAM AVREAM
- VICI VII
- AEDES VII
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. Il
- INSULAE IIII M. DC
- DOMUS CXXVII
- HORREA XXVII
- BALNEA LXXXV
- LACOS LXV. 
- PISTRINA XV
- REGIO CONTINET PED. XII. M. CC.




REGIONE III - ISIDE E SERAPIDE

"La posizione della III regione, denominata Iside e Serapide da qualche tempio a tali divinità dedicato, di cui più non si conosce la sua posizione, sembra potersi stabilire dai monumenti che conteneva avere occupato quella parte in forma quasi triangolare del monte Esquilino, che si crede esser quella distinta dagli antichi col nome di Oppio; come pure di essersi estesa nel piano posto tra questa parte dell'Esquilino ed il Celio che dall'Anfiteatro Flavio giunge sino vicino a S. Giovanni Laterano. II giro di questa regione si determina dai Regionari essere stato di 12450 piedi, e questa misura si trova approssimativamente a confrontare nella descritta località."



ROBERTO LANCIANI

"Colle Oppio. 

Porticus Liviae. 

Scavi effettuati nell'area compresa tra via delle Sette Sale e Santa Lucia in Selce (mensa facoltà d'Ingegneria) hanno fatto rinvenire notevoli resti della porticus, a conferma dell'orientamento della pianta dell'edificio delineata nella Forma Urbis severiana, con tratti del lastricato marmoreo della piazza e vari ambienti sostruttivi. La zona nel 5°-6° secolo fu occupata da un sepolcreto. Nel corso degli stessi lavori sono venute in luce strutture pertinenti all'abside occidentale delle Terme di Traiano.

In via Giovanni Lanza, eseguendosi un cavo sotto il marciapiedi sinistro per regolare lo scolo delle acque, dinanzi al civico numero 81 si è trovato, alla profondità di m. 3,50 dal piano stradale, un grande deposito di piccole monete di bronzo.
Le monete sono tutte di minimo modulo, ed il loro diametro varia dai 12 ai 20 mm. Il loro numero ascende a 5654, ed in generale sono mal conservate. Alcune centinaia che ne sono state esaminate finora, presentano tipi notissimi di diversi principi del secolo IV da Massenzio ad Onorio.
Nel medesimo sterro è stato recuperato
- un anello di ferro, del diametro di m. 0,03,
- il braccio destro di una piccola figura in bronzo, della lunghezza di m. 0,06.
- frammento di grande lastra di travertino
- frammento di mattone col bollo circolare:
o dol anterotis severi
caesaris-n"
scarabeo

Restaurandosi il pavimento nel portico della basilica di s. Pietro in Vincoli, sono state rinvenuto tre lapidi inscritte, ch'erano messe in opera con lettere rivolte al disotto.
La prima è una grande lastra di travertino, rotta in mezzo, che conserva la seguente iscrizione copiata dal eh. comm. Gamurrini :
D M
sàcr
vitrAsiAe • fortvnXtAe ■ coNivGi ■ B • M • vixir • Ann • lxxii
e l'altra
 ■ VITRASIVS HELIX • SIBI • et ■ SVIS • POSTERISCtiEORVM

Nella via di s. Vito, lavorandosi per un fognolo, sono state ritrovate tre piccole arule in terracotta, una delle quali porta il noto rilievo di una donna alata sul dorso di un toro, le altre non hanno ornati.

Valle del Colosseo e Meta sudans.

Lo scavo ha interessato l'area compresa tra Colosseo, tempio di Venere e Roma e via Sacra (piazza del Colosseo). Sono state rinvenute le fondazioni della statua colossale di Nerone e della Meta sudans, rasate al livello stradale moderno negli anni Trenta. Le indagini si sono particolarmente concentrate sulla georgia, consentendo chiarimenti importanti sul sistema di costruzione, sulle fasi di uso (a partire dall'età domizianea) e sul funzionamento. Nel corso degli scavi si sono inoltre rinvenute altre fondazioni aventi orientamento NE-SO, tra cui quelle di una fila di ambienti paralleli pertinenti molto probabilmente all'età neroniana.

Sono stati eseguiti restauri e saggi di scavo; le ricerche si sono concentrate sull'esame delle fondazioni, che poggiano su strati di limo lacustre. L'intera zona presentava falde d'acqua sotterranee che fu necessario incanalare in una serie di collettori. Gli sterri nei collettori est e ovest hanno fornito importanti dati, che sono in relazione con le notizie delle fonti letterarie sulle fasi di abbandono e successivi restauri dell'anfiteatro. L'esame degli ipogei ha fornito precisazioni sulle fasi domizianea e teodoriciana dell'edificio.

Via Eleniana.

Durante lavori per la posa in opera di cavi elettrici sono stati rinvenuti alcuni ambienti ipoteticamente pertinenti a una domus che, in base ai resti conservati della pavimentazione e della decorazione pittorica, sono databili tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.c.

Chiesa di S. Vito.

Si sono rinvenuti tratti della cinta muraria ''serviana'', con fasi di V e VI secolo a.c. Alcune di tali strutture sono probabilmente riferibili alla Porta Esquilina.Regione VI.Terme di Diocleziano. Sono stati compiuti saggi di scavo negli ambienti delle terme ai lati di via Cernaia, nell'ambito del progetto relativo alla ricomposizione dell'intero complesso monumentale: rinvenuti pavimenti a mosaico e parti del sistema fognario, con importanti precisazioni sulla planimetria delle aule termali.

Via Cimarra.

Lavori di restauro eseguiti al n. civico 37 hanno fatto rinvenire vari ambienti pertinenti a un vasto complesso risalente al 1° secolo a.c. Si tratta di due nuclei a livelli differenti, con stanze in opera reticolata, pavimenti a tarsie marmoree e mosaico e criptoportici con resti di pitture murali."


PUBLIO VITTORE

- AMPHITHEATRUM QUOD CAPIT LOCA LXXXVII.M
- LUDUS MAGNUS. 
- LUDUS DACICUS
- DOMUS BRYTTIANA
- SAMIUM CHORAGIUM
- PRAETURA PRAESENTISSIMA
- THERMAE TITI CAES. AUG.
- THERMAE TRAIANI CAES. AUG. PHILIPPI CAES.AUG.
- LACUS PASTORIS
- SCHOLA QUAESTORUM CAPULATORUM
- PORTICUS LIVIA
- CASTRA MISENATIUM
- SUBURA
- VICI VIII. 
- AEDICULAE VIII
- VICOMAG. XXIV
- CUR. II
- DENUNCIATORES II.
- INSULAE II. M. DCC. LVII
- DOMUS CLX-HORREA XVIII
- BALINEAE PRIVATAE LXXX
- LACUS LXV-PISTRINA XII
- REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XII. M. CCC. L.


SESTO RUFO

- AMPHITHEATRUM FLAVII
- LUDUS MAGNUS
- MAMERTINUS
- DACICUS
-TRIBUS GRATIAE AREAE
- DOMUS BRYTTIANA-
- SUMMUM CHORAGIUM
- PRAETVRA PRAESENTISSIMA
- THERMAE TITI CAES.
- TRAIANI 
- NYMPHEUM CLAUDII AGU.
- LACUS PASTORIS
- SCHOLA QUAESTORUM. GALLI
- PORTICUS LIVIAE
- TEMPLUM CONCORDIAE
- CASTRA MISENATIUM
- CAPUT SUBURRAE
- VICI VIII
- VICUS ALBUS
- VICUS FORTUNAE VICINAE
- VICUS ANCIPORTUS
- VICUS BASSIANUS
- VICUS STRUCTORUM
- ASELLUS
- LANARIUS
- PRIMIGENIUS
- AEDICULAE VIlI
- BONAE SPEI
- SERAPIDIS
- SANGI FIDONI
- MINERVAE
- ISIDIS
-VENERIS
- AESCULAPII
- VULCANI
-VICOMAGISTRI XXIV CUR. Il
- DENUNC. Il
- INSULAE II. M. DCCC. VII
- DOMUS CLX. HORREA XIX
- BALINEAE PRIVATAE XXC
- LACUS XXV. SINE NOMINE. PISTRINA XXIII
- REGIO CONTINET PEDES XII. M. CCCC. L.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- MONETAM
- AMPHITHEATRUM QUI CAPIT LOCA LXXXVII. M
- LUDUM MAGNUM
- DOMUM BRITTI
- PRAESENTIS SUMUM CHORAGIUM
- LACUM PASTORUM
- SCHOLAM QUAESTORUM ET CAPLATORUM
-THERMAS TITIANAS ET TRAIANAS
- PORTICUM LIBIES SEU LIVIAE
- CASTRA MISENATIUM
- VICI XII
- AED. XII
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. Il
- INSULAE II. M. DCCLVII.
- DOMUS LX
- HORREA XVIII-BALNEA LXXX
- LACOS LXV
- PISTRINA XVI
- CONTINET PEDES XII. M. CCC. L.




REGIONE IV - TEMPIO DELLA PACE O VIA SACRA

"La regione quarta si trova essere stata denominata dagli antichi ora Tempio della Pace, ed ora Via Sacra; ed i suoi limiti sono comunemente stabiliti più ristretti di quanto si prescrive dai Regionarj. Benchè nei cataloghi di questi vi si vedano differenze nell'assegnarne la misura, e benchè per il molto fabbricato che si trovava nella regione, rendendo il giro evidentemente alquanto tortuoso, venisse aumentato il perimetro in proporzione dello spazio che occupava, conviene però supporre essere stata almeno la regione protratta dalla via Sacra o dal tempio di Venere e Roma, ove aveva principio, sino verso la moderna Subura, occupando ivi il piano posto tra l'Esquilino ed il Quirinale; come ancor estendendosi in quella parte dell'Esquilino stesso, su cui si è situato il portico di Livia col tempio della Concordia. Il giro di tale spazio si trova avvicinare di più alla misura dei tredicimila piedi, che Vittore e la Notizia dell'Impero prescrivono al perimetro di questa regione, di quello che si stabilisce comunemente."


ROBERTO LANCIANI

"Nei lavori per la fondazione del casamento Desideri, posto sulla via Cavour, fra la via dell'Agnello e quella dei Serpenti, alla profondità di circa m. 7,00 dal piano stradale, è stato scoperto un tratto di antica via romana, lastricata, secondo il consueto, a grandi poligoni di selce. La via si dirige verso il Foro, e in parte era coperta da lastroni di travertino.
Sotto al nuovo muraglione a s. Francesco di Paola si è raccolta fra le terre una lastrina marmorea di colombario con l'iscrizione:

M • LIVIVS
avgvstae lib
prYtanis
liviae • drvsi • paedag
Per i lavori della via Cavour, nel tratto che traversa la piazza delle Carrette, si è rinvenuto
- un frammento di lastrone di marmo
- un piccolo torso di statua marmorea, assai danneggiato ;
- un peso circolare in travertino, che porta la cifra X ed una linea di scrittura del tutto illegibile;
- un pezzo di fregio in terracotta, su cui è rilevata una testa virite barbata ;
- una basetta circolare di alabastro ;
- un pieduccio di busto in marmo, che porta scritto nel cartello: CLIEN^ S
- un pezzo di lapide sepolcrale cristiana.

Nei lavori per la grande fogna della via Cavour, in prossimità della piazza delle Carrette, sono tornati in luce, alla profondità di circa 4 m:
- un rocchio di grande colonna d'africano, del diametro di m. 1,20 ;
- un altro rocchio di colonna scanalata, di marmo bigio (diam. all'imoscapo m. 0,55, lunghezza m. 1,40); un capitello d'ordine ionico, ben conservato.

Dagli sterri per le fondamenta della fabbrica, di proprietà Desideri, sull'angolo fra la via Cavour ed il prolungamento della via dei Serpenti, proviene una testa di marmo bianco, alta m. 0,24. Manca soltanto di una parte del naso; e rappresenta una giovine donna con capelli alquanto crespi, discriminati semplicemente sulla fronte ed annodati all'occipite.
Per i medesimi lavori si è rinvenuta una lapide marmorea, con cornice, che conserva :
 A X I M A
ÌRDOS-CERERIS
LICA • POPVLI
lANI • SICVLA


Area del Policlinico.

Continuandosi gli sterri sul lato settentrionale dell'area destinata al Policlinico, sono stati raccolti fra le terre i seguenti oggetti :
- Piccola lucerna monolicne, di forma rotonda, senza manico, formata di lina tena rossa: nel piatto vi è rilevata un' elegante figurina muliebre di profilo, tutta nuda, e seduta in terra con le ginocchia rialzate.
- Altra lucerna rotonda, senza rilievo, che porta nel fondo il noto marchio di fabbrica: FORTIS.
- Due frammenti di altre lucerne in terracotta, con parte del rilievo di soggetto osceno.
- Manico di grande lucerna, sul quale è scolpita una figura muliebre, galeata ed alata.
- Piccola tazza di terra rossa.
- Manico di piccola patera di bronzo.
- Fondo di caraffa vitrea, che reca in cerchio le lettere VPHH3.
- Un balsamario di vetro.
- Uno spillo di osso.

Sottofondandosi la casa del sig. Kohlmann, posta fra le vie dell'Olmata e Paolina da nord a sud, e fra il palazzo Pericoli e la caserma Ravenna da est ad ovest, sono avvenute le seguenti scoperte. Si è ritrovato in primo luogo il prolungamento della strada, già vista e descritta nell'anno 1873 dinnanzi e sotto il palazzo Pericoli, strada larga m. 4,80, e profonda m. 3,80 sotto il piano attuale.

Confina col margine sinistro o meridionale di detta strada un edificio di carattere privato, composto di quattro ambienti di forma o rettangola o trapezoide. Le pareti sono di eccellente reticolato, con archivolti e piattabande di mattoni cuneati, e volte a tutto sesto. Negli estradossi delle volte si veggono i pavimenti del piano superiore, composti di doppio strato: quello più basso, di mattoncini a spiga; quello più alto di mosaico bianco e nero. Si è pure ritrovato, ma fuori di luogo, un pezzo di mosaico policromo, con parte di figura panneggiata.
Questo fabbricato, o meglio, la parte di esso scoperta nella proprietà Kulilmann poggia sopra sostruzioni di epoca assai antica, simili a quelle apparse in via dello Statuto; costruite, cioè, con cubi di tufa cinereo lamellare, messi nel senso della lunghezza, e non cementati. Questo stato di cose si verifica costantemente in tutta la zona compresa fra le vie delle sette Sale, Merulana, di s. Maria Maggiore, e la piazza di s, Pietro in Vincoli.

Nei lavori di fognatura e di sterro eseguiti in questi ultimi anni per la sistemazione stradale della zona indicata sono stati sempre trovati muri a bugna, simili a quelli dei « puticoli » sotto i pavimenti delle case laterizie reticolate, come se si trattassse di un vasto quartiere distrutto dal fuoco, nel sec. VI incirca, e rifabbricato sul finire della repubblica, o nei primi tempi dell'impero."


PUBLIO VITTORE

- TEMPLUM PACIS
- TEMPLUM REMI
- TEMPLUM VENERIS
- TEMPLUM FAUSTINAE
- TEMPLUM TELLURIS
- VIA SACRA
- BASILICA CONSTANTINI
- BASILICA PAULLI AEMILII
- SACRIPORTUS o SACRIPORTICUS
- FORUM TRANSITORIUM
- BALINEUM DAPHNIDIS
- PORTICUS ABSIDATA
- AREA VULCANI CUM VULCANALI, UBI LOTUS A ROMULO SATA IN QUA AREA SANGUINE PER BIDUUM PLUIT
- BUCCINA AUREA VEL BUCCINUM AUREUM
- APOLLO SANDALARIUS
- HORREA CARTHAREA, VEL TASTARIA, VEL TESTARIA
- SORORIUM TIGILLUM
- COLOSSUS ALTUS CII. SEMIS HABENS IN CAPITE RADIOS VII. SINGULIS XII SEMIS
- META SUDANS
- CARINAE
- DOMUS POMPEII
- AVITA CICERONUM DOMUS
- VICI VIII
- AEDICULAE VIII
- VICOMAG.XXXII
- CURATORES II
- DENUNCIATORES II.
- INSULAE II. M. DCC. LVII
- DOMUS CXXXVIII
- HORREA VIII
- BALINEAE PRIVATAE LXXV
- LACUS LXXVIII
- PISTRINA XII
-REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XIII. M.


SESTO RUFO

- TEMPLUM PACIS
- TEMPLUM REMI
- TEMPLUM DIVAE FAUSTINAE
- TEMPLUM URBIS ROMAE ET AUGUSTI
- TEMPLUM VENERIS
- TEMPLUM TELLURIS
- TEMPLUM SOLIS
- TEMPLUM LUNAE
- TEMPLUM CONCORDIAE IN PORTICU LIVIAE
- BASILICA CONSTANTINI
- VIA SACRA
- BASILICA PAULLI
- SACRIPORTICUS ALIAS SACRIPORTUS
- FORUM TRANSITORIUM CUM TEMPLO D. NERVAE
- BALNEA DAPHNIDIS
- VOLCANALE
- PORTICUS ABSIDATA
- BUCENA AUREA
- APOLLO SANDALARIUS
- HORREA TESTARIA
- SACELLUM STRENUAE
- SORORIUM TIGILLUM
- META SUDANS
- CAPUT LYNCO
- CARINAE CAPUT
- DOMUS POMPEI
- AVITA CICERONUM
. AEQUIMELIUM
- AREA VICTORIAE
- ARCUS TITI
- VICI VIII.
- VICUS SCELERATUS
- VICUS EROS
- VICUS VENERIS
- VICUS APOLLONIS
- VICUS TRIUM VIARUM
- VICUS ANCIPORTUS MINOR
- VICUS FORTUNATUS MINOR
- VICUS SANDALARIUS
- AEDICULAE VIII
- AEDICULA MUSARUM
- AEDICULA SPEI
- AEDICULA MERCURII
- AEDICULA IUVENTUTIS
- AEDICULA LUCINAE VALERIANAE
- AEDICULA IUNONIS LUCINAE
-AEDICULA MAVORTII
- AEDICULA ISIDIS
- VICOMAG. XXXII
- CUR. II
- DENUNC. II
- INSULAE II. M. DCC. LVIII
- DOMUS CXXXVIII
- HORREA XVIII
- BALINEAE PRIVATAE LXXV
- LACUS LXXIX
- PISTRINA XXIII
- REGIO IN CIRCUITU CONTINET PEDES XVIII.. M.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- PORTICUM ABSIDATAM
- AURA BUCINUM
- APOLLINEM SANDALARIUM
- TEMPLUM TELLURIS
- VIGILUM SORORUM
- COLOSSUM ALTUM PEDES CII. S. HABET IN CAPITE RADIA VII SINGULA PEDUM XXII. S.
- METAM SUDANTEM
- TEMPLUM ROMAE
- AEDEM IOVIS
- VIAM SACRAM
- BASILICAM NOVAM ET PAULI
- TEMPLUM FAUSTINAE
- FORUM TRANSITORIUM
- SUBURAM
- BALNEUM DAPHNIDIS
- VICI VIII
- AED. VIII
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II
- INS. II. M. DCLVII
- DOMUS LXXXVIII
- HORR. XVIII. BALINEA LXXV
- LACOS LXXI
- PISTRINA XV
- CONTINET PED. XIII. M.




REGIONE V - ESQUILINA

"La regione quinta, detta Esquilina dal monte su cui si trovava in parte collocata, si estendeva dal colle Viminale e dalla sommità dell'Esquilino, denominata dagli antichi Cispio, sino al recinto delle mura di Aureliano. Ma nel perimetro prescritto dai Regionari, di quindici in sedici mila piedi, non potevano esser compresi alcuni edifizj situati assai distanti dalla nominata località, i quali si trovano registrati nei cataloghi dei Regionari o per aggiunte posteriori, o perchè appartenevano per giurisdizione a questa regione."


PUBLIO VITTORE

- LACUS PROMETHEI
- MACELLUM LIVIANI
- NYMPHAEUM D. ALEXANDRI
- COHORTES VII. VIGILUM
- AEDES VENERIS ERYCINAE AD PORTAM COLLINAM
- HORTI PLANCIANI VEL PLAUTIANI, MECAENATIS
- REGIA SERVII TULLII
- HERCULES SULLANUS
- AMPHITHEATRUM CASTRENSE
- CAMPUS ESQUILINUS ET LUCUS
- CAMPUS VIMINALIS SUB AGGERE
- LUCUS PETELINUS
- TEMPLUM IUNONIS LUCINAE
- LUCUS FAGUTALIS
- DOMUS AQUILII I. C.
- DOMUS Q. CATULI, ET M. CRASSI
- ARA IOVIS VIMINEI
- ARA MINERVA MEDICA
- ARA ISIS PATRICIA
- LAVACRUM AGRIPPINAE
- THERMAE OLYMPIADIS
- VICI XV
- AEDICULAE TOTIDEM
- VICOMAG. LX
- CUR. II
- DENUNC. II
- INSULAE III. M. DCCC. L
- DOMUS C. XXX
- LACUS LXXIX
- HORREA XXIII
- BALINEAE LXXV
- PISTRINA XII
- REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XV. M. DCCCC.


SESTO RUFO

- TEMPLUM IOVIS VIMINEI
- AEDES VENERIS ERYCINAE
- HORTI PLANTIANI
- LACUS PROMETHEI
- MACELLUM LIVIANUM
- NYMPHEUM ALEXANDRI
- STATION. COHOR. VII. VIGILUM
- HORTI MECAENATIS
- REGIA SERVII TULLII
- AMPHITHEATRUM CASTRENSE
- TRES TABERNAE
- CAMPUS VIMINALIS SUB AGGERE
- CAMPUS ESQUILINUS
- LUCUS PETILINUS
- FAGUTALIS
- TEMPLUM IUNONIS LUCINAE
- DOMUS AQUILII IURECONSULTI
- ARA IOVIS VIMINEI
- ARA MINERVA MEDICA
- ARA PANTHEUM
- ARA ISIS PATRICIA
- TEMPLUM SILVANI
- TEMPLUM AESCULAPII
- THERMAE OLYMPIADIS
- LAVACRUM AGRIPPINAE
- VICI XV
- VICUS SUCUSANUS
- VICUS URSI PILEATI
- VICUS MINERVAE
- VICUS USTRINUS
- VICUS PALLORIS
- VICUS SEIUS
- VICUS SILVANI
- VICUS CAPULATORUM
- VICUS TRAGOEDUS
- VICUS UNGUENTARIUS
- VICUS PAULLINUS
- VICUS PASTORIS
- VICUS CATICARIUS
- VICUS VENERIS PLACIDAE
- VICUS IUNONIS.
- AED. XV.
- AEDES SEIAE
- AEDES VENERIS PLACIDAE
- AEDES CASTORIS
- AEDES PALLORIS
- AEDES SILVANI
- AEDES APOLLINIS
- AEDES CLOACINAE
- AEDES HERCULIS
- AEDES MERCURII
- AEDES MARTIS
- AEDES LUNAE
- AEDES SERAPIDIS
- AEDES VESTAE
- AEDES CERERIS
- AEDES PROSERPINAE
- VICOMAG. LX
- CUR. II. DEN. II
- INSULAE III. M. D. CCC
- DOMUS CLXX
- LACUS LXXXIX
- HOR. XVII
- BALINEAE PRIVATAE LXXV
- PISTRINA XXXII
- REGIO CONTINET PEDES XV. M. DCCCC. L.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- LACUM ORFEI
- MACELLUM LIVIANI
- NYMPHAEUM ALEXANDRI
- COHORTES II VIGILUM
- HORTOS PALLANTIANOS
- HERCULEM SULLANUM
- AMPHITHEATRUM CASTRENSE
- CAMPUM VIMINALEM SUB AGGERE
- MINERVAM MEDICAM
- ISIDEM PATRICIAM
- VICI XV
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II
- INSULAE III. M. DCCC. L
- DOMUS CLXXX
- HORREA XXIII
- BALINEA LXXV
- LACOS LXXIV
- PISTRINA XV
- CONTINET PED. XV. DC.




REGIONE VI - ALTA SEMITA

"La sesta regione, denominata Alta Semita da qualche piccola via posta sull'alto del monte, occupava quasi per intero il colle Quirinale e parte di quello degli Orti, con la valle sottoposta che separa l'uno dall'altro colle. In tale località si trova confrontare il giro dei circa quindicimila seicento piedi, che si prescrive dai Regionari a questa regione."


ROBERTO LANCIANI

"Fondandosi i piloni pel muro di cinta del nuovo giardino al Quirinale, nell'area già occupata dal monastero di s. Maria Maddalena, si sono incontrati avanzi di un grande mausoleo d'opera laterizia. Nel cavo poi pel primo pilone dal lato orientale, presso il muro sopra indicato, è stato scoperto, alla considerevole profondità di quasi m. 18, un tratto di antica strada, larga m. 5,00, lastricata a grossi poligoni di selce.
Fra le terre è stato raccolto un pezzo di sottile cerchietto d'oro, che doveva servire da anello ; un' anfora fìttile e due avanzi di lapidi sepolcrali cristiane.
Continuandosi le scavazioni per fondare il muro di recinto del nuovo giardino al Quirinale, sono tornati in luce:
- un trapezoforo di marmo, con due chimere alle estremità, lungo m. 0,75 ;
- un capitello di pilastro corinzio, alto m. 0,29 e largo m. 0,24;
- una basetta sagomata, di rosso antico, che misura m. 0,23 per ogni lato;
- un frammento di lastrone in travertino, con parte d'iscrizione, in caratteri anteriori all'impero di Angusto :
Presso la via della Consulta, gli sterri pel giardino suddetto hanno fatto scoprire il selciato di un'antica strada, che corre parallela alla sala a cristalli del palazzo dell'Esposizione di belle arti.

Nell'area già dell'ospizio dei sordomuti, ora dei sigg. Martinelli e Cremonesi, posta sul fianco nord delle terme di Diocleziano dietro la mostra dell'acqua Felice, fra questa ed il palazzo Cagnoni, è avvenuta una scoperta epigrafica abbastanza notevole. Demolendosi un muro di fondamento del vecchio ospizio si è ritrovata, fra i materiali di costruzione, una lastra sottile di travertino, lunga e larga in media m. 0,i35, con le seguenti iscrizioni incise sull'una e sull'altra faccia:
ALLA • '«l ESSALI. ^S • fLam MART3; OS c • REFIC • CVR EX • AVCTOR T I • C L A V D I • C AVG-GERM PONTIF • A CONSENTIVS-SATVR REFICIEND • CV

I caratteri della prima sono irregolavi e negligentemente incisi: quella della seconda hanno la forma quadrata perfetta, e conservano la rubricazione. Ambedue darebbero luogo ad importanti cementi, massime dal punto di vista della fastografia. Limitando le osservazioni alla sola relazione topografìca che le iscrizioni possono avere col luogo della scoperta, io sono d'avviso che, non ostante la lastra apparisca adoperata come materiale da costruzione nelle fondamenta dell'ospizio, sia stata ad ogni modo ritrovata sul posto - quando dette fondamenta si costruivano. La rubricazione delle lettere si mantiene ancora assai vivace, e la lastra non serba o mostra traccia dei danni anche lievi che simili monumenti soffrono sempre con l'essere trasportati da un luogo all'altro.

È probabile quindi che appartenga al substrato delle terme, ossia alla serie degli edilìzi abbattuti da Diocleziano per ispianare l'area necessaria al suo gigantesco lavoro, serie intorno alla quale sono state raccolte, in questi ultimi anni, copiose notizie. La prima lettera dell'ultima linea nella epigrafe di Messalla sembrerebbe accennare ad un portico o ad una edicola.

Facendosi il cavo per una piccola fogna sotto il marciaipiedi della via XX Settembre, dinanzi al monastero di s. Susanna, si sono incontrati avanzi di antiche costruzioni in laterizio; ed è stato ricuperato un capitello marmoreo, di rozza fattura e ridotto in cattivo stato."



PUBLIO VITTORE

- VICUS BELLONAE
- VICUS MAMURI
- TEMPLUM SALUTIS IN COLLE QUIRINALE
- TEMPLUM SERAPEUM
- TEMPLUM APOLLINIS ET CLATRAE
- TEMPLUM FLORAE
- CIRCUS FLORALIS
- CAPITOLIUM VETUS
- AEDES DIVI FIDII IN COLLE
- FORUM SALLUSTII
- FORTUNA PUBLICA IN COLLE
- STATUA MAMURI PLUMBEA
- TEMPLUM QUIRINI
- DOMUS ATTICI
- MALUM PUNICUM AD QUOD DOMITIANUS DD
- TEMPLUM GENTIS FLAVIAE, ET ERAT DOMUS EIUS
- HORTI SALLUSTIANI
- SENACULUM MULIERUM
-THERMAE DIOCLETIANAE
- CONSTANTINIANAE
- BALINEA PAULI
- DECEM TABERNAE AD GALLINAS ALBAS
- AREA CALLIDII
- COHORTES III. VIGILUM
- VICI XII-AEDICULAE XVI
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II
- DENUNC. II
- INSULAE III. M. D. V
- DOMUS CXLV
- HORREA XVIII
- BALINEAE PRIVATAE LXXV
- LACUS LXXVI
- PISTRINA XII
- REGIO IN AMBITU CONTINET PEDES XV. M. DC.


SESTO RUFO

- VICUS BELLONAE
- VICUS MAMURCI
- CIRCUS FLORAE
- TEMPLUM FLORAE
- TEMPLUM SALUTIS
-TEMPLUM SERAPEUM
-TEMPLUM FIDEI
- TEMPLUM APOLLINIS ET CLATRAE
- TEMPLUM SALUTIS IN COLLE QUIRINALI
- AEDES D. FIDII
- TEMPLUM FORTUNAE LIBERAE
- TEMPLUM FORTUNAE STATAE
- TEMPLUM FORTUNAE REDUCIS
- FORUM SALLUSTII
- TEMPLUM VENERIS IN HORTULIS SALLUSTIANIS
- STATUA MAMURI
- AEDES FORTUNAE PUBLICAE IN COLLE
- STATUA QUIRINI ALTA PED. XX.
- TEMPLUM QUIRINI
- DOMUS ATTICI
- DOMUS FLAVII
- MALUM PUNICUM
- TEMPLUM MINERVAE
- SENACULUM MULIERUM
- THERMAE DIOCLETIANAE ET MAXIMIANAE
- BALINEUM PAULI
- DECEM TABERNAE
- AD GALLINAS ALBAS
- AREA CALLIDII
- COHORTES III-VIGILUM
- VICI XII
- VICUS ALBUS
- VICUS PUBLICUS
- VICUS FLORAE
- VICUS QUIRINI
- VICUS FLAVII
- VICUS MAMURI
- VICUS FORTUNARUM
- VICUS PACCIUS
- VICUS TIBURTINUS
- VICUS SALUTIS
- VICUS CALLIDIANUS
- VICUS MAXIMUS
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II
- DENUNC. Il
- AEDICULAE XVI
- AEDICULA FORTUNAE PARVAE
- AEDICULA GENII LIBERORUM
- AEDICULA GENII LARUM
- AEDICULA DIANAE VALERIANAE
- AEDICULA JUNONIS IULIAE
- AEDICULA SPEI
- AEDICULA SANGI
- AEDICULA SILVANI
- AEDICULA VENERIS
- AEDICULA HERCULIS
- AEDICULA VICTORIAE
- AEDICULA MATUTAE
- AEDICULA LIBERI PATRIS
- AEDICULA SATURNI
- AEDICULA IOVIS
- AEDICULA MINERVAE
- INS. III. M. DV
- LACUS LXXVI
- DOMUS CXLV
- HORREA XIX
- BALINEAE PRIVATAE LXV
- PISTRINA XXIII
- REGIO CONTINET IN CIRCUITU PED. XV. M. DC.


NOTIZIA DELL'IMPERO

TEMPLUM SALUTIS ET SERAPIS-FLORAM-CAPITOLIUM ANTIQUUM-THERMAS CONSTANTINIANAS-STATUAM MAMURI-TEMPLUM DEI QUIRINI-HORTOS SALLUSTIANOS-GENTEM FLAVIAM-THERMAS DIOCLETIANAS-COHORTES III-VIGILUM. X. TABERNAS. GALLINAS ALBAS-VICI XVII-VICOMAG. XLVIII-BALINEA LXXV-LACOS LXXIII-PISTRINA XVI-CONTINET PEDES XV. D. CC.




REGIONE VII - VIA LATA

"La settima regione era chiamata Via Lata da una via larga che vi transitava, la quale stava evidentemente in principio della Flaminia, e doveva corrispondere alla parte superiore dell'attuale via del Corso; poichè la chiesa di S. Maria ivi posta ne conserva tuttora l'antica denominazione. La regione da tale luogo, posto presso al Campidoglio, si estendeva lungo la stessa via sino dove esisteva l'arco di L. Vero e di Marco vicino al palazzo Fiano, ed occupava tutto il piano tra la detta Via Lata e la parte occidentale del Quirinale. In tal modo sembra che il perimetro di questa regione verso il monte fosse prescritto dal giro che tenevano le mura di Servio per il tratto posto tra il foro di Trajano ed il circo di Flora; e verso il piano dal piede del colle Pinciano, vicino agli orti di Lucullo, giungesse sino all'indicato arco di Marco, e da questo punto arrivasse al Campidoglio seguendo la moderna via del Corso. Tale perimetro, aggiungendovi le tortuosità prodotte dal molto fabbricato che vi si trovava, poteva benissimo formare la misura di circa tredicimila e settecento piedi che si prescrive dai Regionari. Questa regione in tal modo si trovava intieramente fuori del recinto di Servio: ma per i molti vici che si vedono registrati nel catalogo di Rufo doveva essere però molto abitata."


ROBERTO LANCIANI

"Per alcuni lavori murarii, eseguiti nel casamento posto in via del Pozzetto n. 160, è tornato in luce un piccolo piedistallo marmoreo, alto m. 0,60 X 0,20, che porta scritta la dedicazione:
A V X I M V S
AVGVSTORM LIB
SANCTO SILVANO
+ SACRVM i-

In via Poli i lavori per la costruzione della fogna hanno rimesso in luce i seguenti oggetti :
- Testa in marmo, di grandezza naturale, coperta dal pileo e spettante ad una statua di Paride: manca la bocca ed il mento.
- Frammento di bassorilievo, alto m. 0,4-5 X 0,82, nel quale rimane parte di un cavallo, e sott'esso un piccolo Genio alato.
- Frammento d'iscrizione sepolcrale, cristiana, incisa su grande lastra marmorea: :
Qvi VI
nP HONOR
ODIO ve CONSS
Appartiene all'anno 386;

Per i lavori della fogna, che si costruisce avanti al palazzo del Bufalo, si è trovata un'antica condottura di acqua, formata di tubi in terracotta, ai quali furono poi aggiunti ed innestati dei tubi di piombo, del diametro di m. 0,18. Quattro pezzi di queste fistole plumbee, che non hanno veruna iscrizione, sono stati asportati e misurano la lunghezza totale di m. 5,05. Eseguendosi un cavo per condottura di gas in via Liguria, presso l'angolo con via degli Artisti, alla profondità di m. 0,60 si è trovata un' antica fontana marmorea, alta m. 0,54 X 0,62. Si compone di un masso quadrangolare, posto su di una base quadrata ed avente in ciascun lato una nicchia tagliata a scale. Vi è sovrapposto un urceolo, dal quale sgorgava l'acqua, spargendosi sui quattro lati della fontana.

Convento di Trinità dei Monti. 

Durante scavi nel complesso della villa di Lucullo, saggi stratigrafici condotti nel giardino del convento hanno fatto rinvenire un ampio tratto di un muro curvilineo in opera mista con nicchie (I sec. d.c.), che è forse possibile identificare con il grande emiciclo disegnato da Pirro Ligorio. Nel corso dei lavori sono stati indagati anche livelli stratigrafici e strutture del I sec. a.c. Ad epoca precedente l'impianto della villa di Lucullo risalgono alcuni resti in opera quadrata di peperino, che si possono forse ricondurre a un piccolo santuario."


PUBLIO VITTORE

- LACUS GANYMEDIS
- COHORTES VII
- VIGILUM ALITER PRIMORUM VIGILUM
- ARCUS NOVUS-NYMPHAEUM IOVIS
- AEDICULA CAPRARIA-CAMPUS AGRIPPAE
- TEMPLUM SOLIS
- CASTRA GENTIANA ALITER GYPSIANA
- PORTICUS CONSTANTINI
- TEMPLUM NOVUM SPEI. FORTUNAE
- QUIRINI
- SACELLUM GENII SANGI
- EQUI AENEI TYRIDATIS
- FORUM SUARIUM
- ARCHEMORIUM
- HORTI ARGIANI
- PILA TIBURTINA
- AD MANSUETOS
- LAPIS PERTUSUS
- VICI X-VICOMAG. XL
- CURATORES II
- DENUNC. II
- INSULAE III. M. CCC. LXXXV
- DOMUS CXX
- HORREA XXV
- PISTRINA XVI
- BALINEAE PRIVATAE LXXV
- LACUS LXXVI
- REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XII. M. DCC.


SESTO RUFO

- VICUS GANYMEDIS
- VICUS GORDIANI MINOR
- VICUS NOVUS ALIAS NOVOS
- VICUS CAPRARIUS
- VICUS SOLIS
- VICUS GENTIANUS
- VICUS SANGI ALIAS SANCI
- VICUS HERBARIUS
-  VICUS MANSUETUS
- SUGILLARIUS MINOR
- VICUS SOLATARIUS
- VICUS FORTUNAE
- VICUS SPEI MAIORIS
- VICUS NOVUS ULTERIOR
- VICUS LIBERTORUM
- VICUS PUBLII
- VICUS NOVUS
- VICUS CITERIOR
- VICUS STATUAE VENERIS
- VICUS ARCHEMORIUM ALIAS ARCHEMONIUM
- VICUS AEMILIANUS
- VICUS PISCARIUS
- VICUS CAELATUS
- VICUS VICTORIAE
- VICUS VICINUS
- VICUS GRAECUS
- VICUS LANARIUS ULTERIOR
- VICUS POMONAE
- VICUS CAPUT MINERVAE
- VICUS TROIANUS
- VICUS PEREGRINUS
- VICUS CASTUS
- VICUS MINOR
- VICUS PUTEALUM
- VICUS SCIPIONIS
- VICUS IUNONIS
- VICUS SELLARIUS
- VICUS ISIDIS
- VICUS TABELLARIUS
- VICUS MANCINUS
- VICUS LOTARIUS
- LACUS GANYMEDIS
- LACUS PERTUSUS
- ARCUS GORDIANI
- ARCUS NOVUS
- ARCUS VERI ET MARCI AUGG.
- NYMPHAEUM IOVIS
- AEDICULA CAPRARIA
- CAMPUS AGRIPPAE
- TEMPLUM SOLIS
- CASTRA GENTIANA
- CASTRA GYPSIANA
- PORTICUS CONSTANTINI
- TEMPLUM NOVUM SPEI
- TEMPLUM FORTUNAE
- TEMPLUM QUIRINI
- SACELLUM GENII SANGI
- COHORTES VII
- VIGILUM
- AEQUIS AENEI TYRIDATIS
- FORUM SUARIUM
- ARCHEMORIUM
- HORTI ARGIANI
- PILA TIBURTINA
- LAPIS PERTUSUS
- INS. III. M. CCC. LXXXV
- DOMVS CXX
- HORREA XXV
- CUR. II-
- DEN. II
- VICOMAG. CXX
- BALINEAE PRIV. LXXXV
- PISTRINA XXVII
- LACUS LXXVI.
- REGIO CONTINET IN CIRCUITU PED. XIII. M. D. CC.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- LACUM GANYMEDIS
- COHORTES V VIGILUM
- ARCUM NOVUM
- NYMPHEUM IOVIS
- AEDICULA CAPRARIA
- CAMPUM AGRIPPAE
- TEMPLUM SOLIS ET CASTRA
- PORTICUM GYPSIANI ET CONSTANTINI
- EQUOS TYRIDATIS REGIS ARMENIORUM
- FORUM SUARIUM
- FORUM MANSUETAS
- LAPIDEM PERTUSUM
- VICI XV
- AEDICULAE XV
- VICOMAG. XLVIII.
- CUR II
- INSULAE III. DCCC. V
- DOMUS CXX
- HORREA LXV
- BALNEA LXXV
- LACOS LXXXVI
- PISTRINA XVI
- CONTINET PEDES XIII. M. CCC.




REGIONE VIII - FORO ROMANO

"La regione VIII, chiamata Foro Romano dal nome di questo celebre foro che conteneva, abbracciava nel suo giro l'intiero monte Capitolino con il piano, che sta tra questo e gli altri due colli Palatino e Quirinale, confinando colla regione IX nella parte occidentale del Campidoglio, colla XI verso il Tevere, colla X sotto il lato occidentale del Palatino, colla IV tra l'angolo settentrionale del detto colle Palatino ed il meridionale del Quirinale, colla VI a piedi del medesimo colle Quirinale, e colla VII nel breve tratto di spazio che separa il Campidoglio dal Quirinale verso Settentrione. La misura assegnata dai Regionari di 12 in 13000 piedi si trova approssimativamente confrontare nel descritto giro. Questa regione, per la moltiplicità dei monumenti che conteneva, e per la sua centrale situazione, doveva essere certamente la più interessante. Intorno la disposizione dei suoi monumenti, e specialmente di quelli che stavano nel giro del foro Romano, insorsero in ogni tempo molte controversie, in modo che lo scoprimento solo dell'antico suolo potrà mostrare la verità. Pertanto per non trascurare questa parte interessante della città se ne indicherà quivi le principali sue disposizioni."


ROBERTO LANCIANI

"Foro Romano.

Lato occidentale e pendici del Campidoglio. Sono stati rimessi in luce il Clivo Capitolino, il basamento del tempio della Concordia (con fasi dalla prima età repubblicana all'età augustea) e i fianchi, prospicienti il clivo, del tempio di Saturno (con rinvenimento di strutture all'interno del podio riferibili alla fine del VI sec. a.c.), del tempio di Vespasiano e del Portico degli Dei Consenti; di particolare interesse è il rinvenimento presso il lato sinistro del tempio della Concordia di un edificio con pavimento in opus sectile e di un'area sacra con deposito di materiali votivi della prima metà del VI sec. ac.; nella zona retrostante il tempio di Saturno lo scavo ha interessato un vasto settore del quartiere abitativo medievale e rinascimentale che sorse sulle rovine dei monumenti antichi e che presenta fasi di vita fino al XIX sec.

S. Maria Antiqua.

Sono state identificate una parte del tracciato del vicus Tuscus a sud della Basilica Giulia e una serie di strutture tardo-repubblicane su cui s'impianta, in età augustea, un vasto edificio di carattere utilitario con pavimento in opus spicatum; a una fase successiva va assegnata la costruzione di un vasto atrio tetrastilo: tale edificio è stato identificato con l'ampliamento del palazzo imperiale realizzato da Caligola, ben noto dalle fonti letterarie.Regia.Saggi di limitata estensione sono stati condotti nell'area compresa tra la Regia e l'atrium Vestae, volti a chiarire i rapporti topografici tra i due complessi; è stata rimessa in luce una serie di tracciati stradali sovrapposti; al di sotto della pavimentazione più antica, alcuni carotaggi hanno rivelato la presenza di resti riferibili all'abitato capannicolo del Foro e inquadrabili nell'ambito dell'età del Ferro laziale.

Lacus Iuturnae.

Sono state individuate varie fasi del complesso, che vanno dal 168 a.c. all'età domizianea; per il sacello di Giuturna viene pure proposta una fase di ristrutturazione in età domizianea con un totale rifacimento nel 3° secolo d.c.; nell'area dell'Oratorio dei Quaranta martiri (curia Acculeia), la trasformazione in ampio piazzale pavimentato viene messa in relazione con la presenza della statio Aquarum nell'area del già nel 3° secolo.

Tempio dei Castori.

I saggi all'esterno del tempio hanno permesso d'individuare resti di costruzioni repubblicane distrutte durante la fase tiberiana dell'edificio e un notevole scarico di materiali sul lato occidentale, databili nell'ambito del 6° secolo a.c.; l'indagine all'interno del podio ha rimesso in luce cospicue tracce del tempio metelliano: il santuario arcaico, prostilo, tetrastilo, è in opera quadrata di tufo; la planimetria propone lo schema del tempio tuscanico.

Vicus ad Carinas.

Lo scavo ha interessato il cosiddetto Portichetto medievale e un breve tratto delvicus; sono state individuate varie strutture comprese in un arco cronologico tra il 6° secolo a.C. e il 1° secolo d.C., che consentono di escludere la presenza nella zona di un tracciato stradale trasversale alla via Sacra; all'età vespasianea, in occasione dei grandi lavori per l'impianto del Templum Pacis, va attribuita l'apertura della strada che permette il collegamento con il quartiere delle Carinae aggirando il Foro, come è rappresentato nella pianta marmorea severiana.

Fori Imperiali.

Un importante programma elaborato dalla Soprintendenza archeologica mira a restituire ai Fori Imperiali l'antica unità concettuale e urbanistica. Tale programma, noto come Progetto Fori, ha suscitato, a partire dalla sua presentazione nel 1981, grandi entusiasmi e insieme grandi polemiche, peraltro mai sopite completamente, soprattutto in rapporto all'abolizione, per lo scavo, della via dei Fori Imperiali e della definitiva sistemazione ad area archeologica della zona tra via Cavour e piazza Venezia.

In relazione al progetto sono stati effettuati alcuni saggi preliminari (1982-83) che hanno dimostrato che le demolizioni per l'apertura della via dell'Impero non avevano distrutto la stratigrafia sottostante e che dunque è certamente possibile un intervento estensivo di scavi stratigrafici.
La fase di attuazione è rimasta a uno stadio del tutto preliminare: il cantiere di scavo nell'area del Foro Nerva è oggi fermo dopo una prima campagna di scavi che ha fatto rinvenire i corpi di fabbrica e le cantine degli edifici demoliti negli anni Trenta e i tracciati delle vie Bonella e della Salara Vecchia. Due campagne di scavo (1986 e 1987) sono invece state condotte all'interno del Foro Romano nell'area retrostante la Curia e la Basilica Emilia.

I lavori hanno fornito importanti precisazioni sulle fasi cesariana e augustea del Foro di Cesare (identificazione del Chalcidicum delle fonti letterarie con il portico meridionale di tale foro) e sull'impianto domizianeo del Foro Transitorio. Nel corso dei lavori sono venuti alla luce resti appartenenti al macellum, grande mercato repubblicano nell'area retrostante la Basilica Emilia, e all'Argiletum, da intendersi non solamente come asse stradale, ma come il quartiere a nord-est del Foro Romano prima della costruzione dei Fori Imperiali.

Campidoglio.

Saggi di scavo lungo il lato sud-occidentale del tabularium hanno rivelato strati di vita dall'età del Ferro laziale alla prima età arcaica (Asylum?), un muro in opera quadrata di tufo e opere idrauliche di età repubblicana, forse in relazione con il tabularium."



PUBLIO VITTORE

- ROSTRA POPULI ROMANI
- AEDES VICTORIAE CUM ALIA AEDICULA VICTORIAE VIRGINIS DD. A PORCIO CATONE
- TEMPLUM IULII CAESARIS IN FORO
- VICTORIAE AUREAE STATUA IN TEMPLO IOVIS OPT. MAX
.- FICUS RUMINALIS ET LUPERCAL VIRGINIS
- COLUMNA CUM STATUA M. LUDII
- GRAECOSTASIS
- AEDES OPIS ET SATURNI IN VICO IUGARIO
- MILLIARIUM AUREUM
- SENATULUM AUREUM
- PILA HORATIA UBI TROPEA LOCATA NUNCUPANTUR
- CURIA
- TEMPLUM CASTORUM AD LACUM IUTURNAE
- TEMPLUM CONCORDIAE
- EQUUS AENEUS DOMITIANI
- ATRIUM MINERVAE
- LUDUS AEMILIANUS
- IULIA PORTICUS
- ARCUS FABIANUS
- PUTEAL LIBONIS
- IANI DUO CELEBRIS MERCATORUM LOCUS
- REGIA NUMAE
-TEMPLUM VESTAE
- TEMPLUM DEORUM PENATIUM
-TEMPLUM ROMULI
- TEMPLUM IANI
- FORUM CAESARIS
- STATIONES MUNICIPIORUM
- FORUM AUGUSTI CUM AEDE MARTIS ULTORIS
-TRAJANI CUM TEMPLO ET EQUO AENEO ET COLUMNA COCHLIDE QUAE EST ALTA PEDES CXXVIII HABETQUE INTUS GRADUS CLXXXV FENESTELLAS XLV
- COHORTES SEX VIGILUM
- AEDICULA CONCORDIAE SUPRA GRAECOSTASIM
- LACUS CURTIUS
- BASILICA ARGENTARIA
- UMBILICUS URBIS ROMAE
- TEMPLUM TITI ET VESPASIANI
- BASILICA PAULLI CUM PHRYGIIS COLUMNIS
- FICUS RUMINALIS IN COMITIO UBI ET LUPERCAL
- AEDES VEIOVIS INTER ARCEM ET CAPITOLIUM PROPE ASYLUM
- VICUS LIGURUM
- APOLLO TRANSLATUS EX APOLLONIA A LUCULLO XXX. CUB
.- DELUBRUM MINERVAE
- AEDICULA INVENTAE
- PORTA CARMENTALIS VERSUS CIRCUM FLAMINIUM
- TEMPLUM CARMENTAE
- CAPITOLIUM UBI OMNIUM DEORUM SIMULACRA CELEBRANTUR
- CURIA CALABRA, UBI PONTIFEX MINOR DIES PRONUNCIABAT
- TEMPLUM IOVIS OPTIMI MAXIMI
- AEDIS IOVIS TONANTIS AB AUG. DD. IN CLIVO CAPITOLINO
- SIGNUM IOVIS IMPERATORIS A PRAENESTE DEVECTUM
- ASYLUM
- TEMPLUM VETUS MINERVAE
- HORREA GERMANICA
- HORREA AGRIPPINA
- AQUA CERNENS QUATRUOR SCAUROS
- FORUM BOARIUM
- SACELLUM PUDICITIAE PATRICIAE
- AEDES HERCULIS VICTORIS DUAE
- ALTERA AD PORTAM TRIGEMICAM
- ALTERA IN FORO BOARIO COGNOMINE ROTUNDA ET PARVA
- FORUM PISCARIUM
- AEDES MATUTAE
-VICUS IUGARIUS IDEM ET THURARIUS UBI SUNT ARAE OPIS ET CERERIS CUM SIGNO VERTUMNI
- CARCER IMMINENS FORO A TULLO HOSTILIO AEDIFICATUS MEDIA URBE
- PORTICUS MARGARITARIA
- LUDI LITTERARII
- VICUS UNGUENTARIUS
- AEDES VERTUMNI IN VICO THUSCO
- ELEPHANTUS HERBARIUS
- VICI XII
- AEDICULAE TOTIDEM
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II
- DENUNCIATORES II
- INSULAE III. M. DCCC. LXXX
- DOMUS CL
- BALINEAE PRIVATAE LXVI
- HORREA XVIII
- LACUS CXX
- PISTRINA XX
- REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XII. M. DCCC. LXVII.


SESTO RUFO

- ROSTRA POPULI ROMANI
- FIDES CANDIDA
- AEDES VICTORIAE
- AEDICULA VICTORIAE
- TEMPLUM ROMULI
- CONCORDIAE
- VESPASIANI
- MIVERVAE
- VESTAE
- SATURNI
- IULII
- AUGUSTI
- IUNONIS MARTIALIS
- CASTORUM
- SENACULUM AUREUM
- PUTEAL LIBONIS
- COMITIUM
- SCHOLA XANTHA
- LIVIAE PORTICUS
- ARCUS FABIANUS
- LACUS CURTIUS
- REGIA NUMAE
- TEMPLUM DEUM PENATIUM
- TEMPLUM LARUM
- FORUM CAESARIS
- FICUS RUMINALIS
- VICUS IUGARIS ALIAS LIGURIUS
- VIA NOVA
- LUCUS VESTAE
- ALIAS LOCUTIOS
- DELUBRVM MINERVAE
- BASILICA PAULLI
- TEMPLUM IANI
- FORUM PISCARIUM. BOARIUM
- CARCER
- FORUM AUGUSTI
- TRAIANI
- CAPITOLIUM CUM ARCE
- CURIA CALABRA
- TEMPLUM IOVIS CAPITOLINI
- ASYLUM
- TEMPLUM IOVIS FERETRII
- TEMPLUM VENERIS CALVAE
- CURIA HOSTILIA SUB VETERIBUS
- DELUBRUM LARUM-AEDES IUNONIS
- AEDICULA MATRIS ROMAE
- COLUMNA DIVI IULII
- EQUUS AENEUS DOMITIANI
- COLUMN. MAGN. LUDI SAECUL
- ARA SATURNI.
- TEMPLUM VENERIS ET ANCHISAE
- TEMPLUM IANI PUBLICI
- TEMPLUM EQUA CERNENS QUATUOR SATYROS
- VICUS NOVUS
- LUDI LITTERARII
- VICUS UNGUENTARIUS MINOR
- TUSCUS .... TUSCO.
- BASIL....
- MACELL.....
- VICI XII
- VICOMAG. XLIX
- CUR II
- DENUNC. Il
- INSUL.... IL. DCCC. LXXX.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- ROSTRAS III
- GENIUM POPULI ROMANI
- SENATUM
- ATRIUM MINERVAE
- FORUM CAESARIS
- AUGUSTI
- NERVAE
- TRAIANI
- TEMPLUM TRAIANI ET COLUMNAM COCHLIDEM ALTAM PEDES CXXVII. SEMIS. GRADOS INTUS HABET CLXXX. FENESTRAS XLV
- COHORTES VI. VIGILUM
- BASILICAM ARGENTARIAM
- TEMPLUM CONCORDIAE ET SATURNI, ET VESPASIANI, ET TITI
- CAPITOLIUM
- MILIARIUM AUREUM
- VICUM IUGARIUM
- GRAECOSTADIUM
- BASILICA IULIA
-TEMPLUM CASTORUM
- TEMPLUM MINERVAE
- TEMPLUM VESTAM
- HORREA AGRIPPIANA
- AQUAM CERNENTEM. IIII.
- SCAUROS SUB EADE
- ATRIUM CACI
- PORTICUM MARGARITARIAM
- ELEPHANTUM HERBARIUM
- VICI XV
- AEDES XXXIV
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II
- INSULAE III. M. CCCC. LXXX
- DOMUS CXXX.
- HORREA XVIII
- BALNEA LXXXVI
- LACOS CXX
- PISTRINA XX
- CONTINET PED. XIIII. M. LXVII.




REGIONE IX - CIRCO FLAMINIO



"Nello spazio occupato dalla regione IX, detta Circo Flaminio da questo edifizio che conteneva, si trova ora situata la più grande parte del fabbricato di Roma moderna. Questa regione si estendeva in grandezza più delle finora altre descritte regioni; poichè il suo giro si vede stabilito da Vittore di 30500 piedi, e dalla Notizia di trentadue e cinquecento; e si trovava intieramente fuori del recinto di Servio. Abbracciava nel suo giro il celebre Campo Marzio, costeggiando da una parte il corso del Tevere, e dall'altra confinando colla settima regione, e per piccolo tratto coll'ottava sotto al Campidoglio, e colla undecima verso il foro Olitorio. È da osservarsi inoltre che tre sono principalmente le direzioni state date alle antiche fabbriche di questa regione. Quelle situate circa nel mezzo della medesima verso il Campo Marzio sono state collocate maestrevolmente a seconda della linea meridionale, quelle poste verso l'VIII regione, nel luogo denominato propriamente Circo Flaminio, inclinavano per poco verso Oriente; e quelle situate dalla parte della settima regione secondavano la direzione della via Lata, ossia della moderna via del Corso."




ROBERTO LANCIANI


"Sulla piazza di s. Crisogono, costruendosi un fognolo da immettere nel grande collettore, si è ritrovato a m. 0,50 sotto il piano stradale, un sarcofago in travertino, lungo m 1,75, largo ed alto m. 0,60. Non ha iscrizione, né ornati di sorta ; e conteneva soltanto pochi avanzi dello scheletro frammisti alla terra.

Presso s. Crisogono, facevasi un cavo per fogna lungo la via detta McazamiirelU, si è trovato, alla profondità di m. 6,00 dal piano stradale, un lungo tratto di antica via, che traversa quasi perpendicolarmente l'asse del grande collettore sulla riva destra del Tevere, e si dirigo verso il lato meridionale dell'oscubitorio della VIIcoorte dei vigili. Il selciato di questa strada è perfettamente conservato; ma non se n'è potuta riconoscere la larghezza, attesa la ristrettezza del cavo.
Nel sito medesimo sono stati rimessi all'aperto alcuni avanzi di antichi muri spettanti a fabbriche private. Una stanza, di cui è stato scoperto soltanto un angolo, aveva il pavimento battuto a mosaico, formato esclusivamente di tasselli di marmo bianco.

Portico di Filippo.

Saggi di scavo nell'area e all'interno della chiesa e del monastero di Sant'Ambrogio hanno portato alla scoperta di un tratto del portico orientale e strutture pertinenti al tempio di Hercules Musarum. I ritrovamenti confermano in pieno la struttura planimetrica del complesso quale risulta delineata nella Forma Urbis severiana.


Crypta Balbi.

Nell'area dell'esedra sono stati scavati livelli abitativi di età medievale (XII-XIV secolo). L'indagine archeologica ha permesso di precisare che il muro dell'esedra, in opera quadrata di tufo e travertino, presenta al centro una grande nicchia rettangolare, assente nel relativo frammento della Forma Urbis severiana; si è inoltre rimessa in luce parte di un porticato semicircolare connesso con il muro diametrale dell'esedra, databile nel II secolo d.c. Lo scavo stratigrafico ha interessato anche l'area relativa al giardino del conservatorio di Santa Caterina della Rosa, demolito negli anni Cinquanta, raggiungendo gli strati anteriori alla fondazione cinquecentesca del complesso.


Chiesa di San Lorenzo in Lucina.

Al di sotto del pavimento della chiesa è stato rinvenuto un grande edificio su più piani, il primo dei quali è articolato su file di pilastri cruciformi in laterizio. Il complesso, orientato sulla via Lata, si può datare alla fine del II secolo d.c. A un livello inferiore si sono trovati ambienti in opera mista con pavimenti a mosaico, forse da attribuire alla prima metà del II secolo d.c. Le strutture più tarde sono probabilmente parte di un edificio commerciale all'interno di un'insula; il rapporto tra queste e il Titulus Lucinae è problema ancora da chiarire. "



PUBLIO VITTORE

- STABULA IIII. FACTIONUM
- AEDIS ANTIQUA APOLLINIS CUM LAVACRO
- AEDIS HERCULI MAGNO CUSTODI CIRCI FLAMINII
- PORTICUS PHILIPPI
- AEDIS VULCANI IN CIRCO FLAMINIO
- MIMITIA VETUS
- MIMITIA FRUMENTARIA
- PORTICUS CORINTHIA CN. OCTAVII QUAE PRIMA DUPLEX FUIT
- CRYPTA BALBI
- THEATRUM BALBI CAPIT LOCA XXX. M. XCV. CL. CAESAR DEDICAVIT ET APPELLATUR A VICINITATE
- IUPITER POMPEIANUS
- THEATRUM MARCELLI CAPIT LOCA XXX. M. UBI ERAT ALIUD TEMPLUM IANI
- DELUBRUM CN. DOMITII
- CARCER CL. XXVIR
- TEMPLUM BRUTI CALLAICI
- VILLA PUBLICA UBI PRIMUM POPULI CENSUS EST ACTUS IN CAMPO MARTIO
- CAMPUS MARTIS
- AEDIS IUTURNAE AD AQUAM VIRG.
- SEPTA TRIGARIA
- EQUIRIA
- HORTI LUCULLANI
- FONS SCIPIONUM
- SEPULCRUM AUGUSTORUM
- CICONIAE NIXAE
- PANTHEON
- THEATRUM POMPEI
- BASILICA MACIDII
- MARTIANI
- TEMPLUM D. ANTONINI CUM COCHLIDE COLUMNA QUAE EST ALTA PEDES CLXXV. HABET INTUS GRADUS CCVI. ET FENESTELLAS LVI.
- THERMAE ADRIANI
- THERMAE NERONIANAE, QUAE POSTEA ALEXANDRINAE
- THERMAE AGRIPPAE
- TEMPLUM BONI EVENTUS
- AEDES BELLONAE VERSUS PORTAM CARMENTALEM, ANTE HANC AEDEM COLUMNA INDEX BELLI INFERENDI
- PORTICUS ARGONAUTARUM
- PORTICUS MELEAGRICUM
- PORTICUS ISEUM
- PORTICUS SERAPEUM
- PORTICUS MINERVIUM
- MINERVA CHALCIDICA
- INSULA PHELIDII SIVE PHELIDIS
- VICI XXX
- AED. TOTID
- VICOMAG. CCXX
- CURAT. II
- DEN. II
- INSULAE III. M. DCCLXXXVIII
- DOMUS CXL
- BALINEAE PRIVATAE LXIII
- HORREA XXII
- PISTRINA XX.
- REGIO IN AMBITU HABET PED. XXX. M. D.


SESTO RUFO

- CIRCUS FLAMINIUS
- AEDES ANTIQUA APOLLINIS CUM COLOSSO LAVACRUM APOLLINIS
- STABULA QUATUOR FACTIONUM
- HERCULI MAGNO CUSTODI
- PORTICUS PHILIPPI
- AEDES VOLCANI IN CIRCO FLAMINIO
- MIMITIA VETUS
- THEATRUM BALBI
- CRYPTA BALBI
- PORTICUS CORINTHIA CN. OCTAVII
- THEATRUM LAPIDEUM
- MIMITIA FRUMENTARIA
- LUCUS MAVORTIANUS
- MINERVA VETUS CUM LUCO
- LUCUS POETILINUS
- FONS SCIPIONUM .... TIS.
- SEPULC...
- AEDES APOLLINIS
- THERMAE HADRIANI
- VILLA PUBLICA
- THEATRUM POMPEII
- EQUIRIA
- STADIUM
- AMPHITHEATRUM TAURI STATILII
- IUPITER POMPEIANUS
- THEATRUM MARCELLI
- DELUBRUM CN. DOMITII
- CARCER C. VIRORUM
- HORTI LUCULLANI
- CAMPUS MARTIS
- SEPTA TRIGARIA
- AEDES NEPTUNI
- AEDES IUTURNAE AD AQUAM VIRGINEM
- TEMPLUM BRUTI CALLAICI
- LUCUS VICTORIAE VETUS.
- HORTI ET TERMAE AGRIPPAE
- DOMUS ET CIRCUS ALEXANDRI PII IMPERATORIS
- LACUS THERMAR. NERON....


NOTIZIA DELL'IMPERO

- STABULA IIII. FACTIONUM
- PORTICUM PHILIPPI
- MINUCIAM VETEREM ET FRUMENTARIAM
- CRYPTA BALBI
- THEATRA III.
- IN PRIMIS T BALBI, QUOD CAPIT LOCA XI. M. DX.
- T POMPEII CAPIT LOCA XVII. M. DLXXX.
- T MARCELLI CAPIT XX. M
- ODEUM CAPIT LOCA X. M. DC
- STADIUM CAPIT LOCA XXX. M. LXXXVII.
- CAMPUM MARTIUM
- TRIGARIUM
- CICONIAS NIXAS
- PANTHEUM
- BASILICAS NEPTUNI, MATIDIES, MARCIANI
- TEMPLUM ANTONINI, ET COLUMNAM COCHLIDEM ALTAM PEDES CLXXX. S. GRADUS INTUS HABET CCIII. FENESTRAS LVI
- THERMAS ALEXANDRINAS ET AGRIPPINAS
- PORTICUM ARGONAUTARUM ET MELEAGRI
- ISEUM ET SERAPEUM
- MINERVAM CHALCIDICAM
- DIVORUM MENSULE FELICLES
- VICI XXXV-AED. XXVV.
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II.
- INSULAE II. M. DCCLXXVII
- DOMUS CXL
- HORREA XXVII-BALNEA LXIII
- LACOS CXX
- PISTRINA XX.
- CONTINET PED. XXXII. M. D.




REGIONE X - PALATINO

"La regione X occupava per intiero il monte Palatino; e dal Palazzo che stava ivi collocato ne riceveva il nome. I suoi limiti nella parte del foro Romano, ed in quella del Circo Massimo si trovano chiaramente stabiliti dalla posizione degli edifizj situati nel confine delle due regioni. Nella parte verso l'Esquilino questa regione giungeva probabilmente sino alla via Sacra; ed in quella posta verso il Celio doveva occupare evidentemente per intiero la valle che divide i due colli con qualche piccola parte del Celio stesso, onde dare al suo perimetro la misura degli 11600 piedi stabilita dai Regionari. Sul monte Palatino, che formava la parte principale di questa regione, stava edificata la primitiva Roma. Quindi questo colle dalle più vili abitazioni che componevano la prima Città, passò nel tempo della grandezza Romana a contenere le più magnifiche fabbriche che mai si potessero eseguire, e che formavano il Palazzo Imperiale. Sotto questo aspetto viene in miglior modo considerata nel parlare delle abitazioni dei Romani in particolare nell'indicata opera dell'Architettura antica. Pertanto quivi, secondo il piano stabilito, indicherò la posizione dei principali monumenti che conteneva."


ROBERTO LANCIANI


"Palatino.


Area circostante il tempio della Magna Mater. 

I lavori si sono incentrati inizialmente sul tempio della Magna Mater, la cui fase più antica sarebbe da inquadrare tra il 204 e il 191 a.c.; una seconda fase dell'edificio (sopraelevazione del podio) risalirebbe a dopo l'incendio del 111 a.c., mentre all'età augustea si può attribuire il rivestimento marmoreo dell'interno; altri saggi hanno interessato il cosiddetto auguratorium (II sec. a.c.), preceduto da un sacello rettangolare dedicato a Giove Vincitore o a Giunone Sospita, mentre gli scavi dell'edificio in cima alle scalae Caci hanno fatto ipotizzare l'attribuzione di tali strutture al tempio della Vittoria, ricordato dalle fonti in questo settore del colle.

Domus Tiberiana.

Le indagini hanno permesso di evidenziare tre fasi ben distinte del palazzo: il primo nucleo (tra Nerone e Caligola) comprenderebbe il podio rettangolare e i criptoportici centrale e orientale oltre alla scalinata di accesso al centro della fronte nord (gradus Palatii); alla seconda fase (età domizianea) apparterrebbe la nuova facciata con la rampa monumentale di nord-ovest e il vestibolo; la parte est ha un diverso orientamento, forse in relazione con la costruzione della domus Flavia, nuovo palazzo imperiale; la terza fase costruttiva (età adrianea) sarebbe costituita dalle sostruzioni sul clivus Victoriae, dalla fronte delle taberne sulla via Nova e da ristrutturazioni nel vestibolo.


Via Nova. 

Nell'area tra la via e il clivo Palatino si sono rinvenute strutture d'incerta interpretazione in blocchi di cappellaccio di età arcaica e ambienti in opera reticolata della metà del I sec. a.c., forse attribuibili a una casa privata; su tali strutture s'impiantò, dopo l'incendio del 64 d.c., un grande portico, da mettere in relazione con le costruzioni neroniane della domus aurea.


Pendici settentrionali del colle.

Il settore compreso tra la Via Sacra e il clivo Palatino ha mostrato una complessa situazione pluristratificata: le strutture più tarde farebbero parte degli horrea di Vespasiano, noti dalle fonti; al di sotto di queste si sono rinvenuti notevoli resti di età repubblicana, appartenenti ad alcune case aristocratiche ricordate dalle testimonianze letterarie in Palatio et in Sacra Via; a una fase ancora precedente (530-520 a.c.) sono da attribuire i resti di strutture con fondazioni in cappellaccio e pareti a graticcio e la pavimentazione a lastre di cappellaccio della via Sacra; a un livello ancora inferiore resti di muri in scaglie e tracce di antistanti fossati vengono attribuiti alle fortificazioni del Palatino di età regia; le testimonianze più antiche sarebbero costituite dai resti di una palizzata lignea databili nel VII secolo a.c. (linea pomeriale?) e da un muro in scaglie di tufo (730-720 a.c.) considerato come un'eccezionale testimonianza delle fortificazioni romulee.

Cosiddette Terme di Settimio Severo.

I saggi hanno permesso di stabilire definitivamente che gli ambienti dell'angolo meridionale del Palatino non facevano parte di un impianto termale, ma in realtà dovevano appartenere a un ampliamento dei palazzi imperiali che fu progettato e iniziato in età flavia. Vigna Barberini. Scavi nell'area del tempio di Eliogabalo e degli Adonaea domizianei hanno evidenziato fasi tardoflavie e adrianee; i resti di un criptoportico con orientamento diverso dalle altre strutture sono da attribuire alle costruzioni neroniane delladomus transitoria e/o della domus aurea; a sud-ovest della terrazza, sono state messe in luce le fondazioni di un portico, abbandonato nel 5° secolo; altre indagini hanno inoltre interessato l'area della chiesa di San Bonaventura.

Settizonio.

Gli scavi hanno fatto rinvenire ampi tratti della fondazione con numerose precisazioni sull'articolazione architettonica e sulle fasi di utilizzazione e di spoliazione dell'edificio."


PUBLIO VITTORE

- VICUS PADI
- VICUS CURIARUM
- VICUS FORTUNAE RESPICIENTIS
- VICUS SALUTARIS,
- VICUS APOLLINIS
- VICUSHUIUSQUE DIEI
- ROMA QUADRATA
- AEDES IOVIS STATORIS
- CASA ROMULI
- PRATA BACCHI UBI FUERUNT AEDES VITRUVII FUNDANI
- ARA FEBRIS
- TEMPLUM FIDEI
- AEDIS MATRIS DEUM
- HUIC FUIT CONTERMINUM DELUBRUM SOSPITAE IUNONIS
- DOMUS CEIONIORUM
- SUELIA
- IOVIS COENATIO
- AEDIS APOLLINIS UBI LYCIINI PENDEBANT INSTAR ARBORIS MALA FERENTIS
- AEDIS DEAE VIRIPLACAE IN PALATIO
- BIBLIOTECAE
- AEDES RHAMNUSIAE
- PENTAPYLON IOVIS ARBITRATORIS
- DOMUS AUGUSTANA
- DOMUS TIBERIANA
- SEDES IMPERII ROMANI
- AUGURATORIUM
- AD MAMMAEAM, HOC EST DIETAE MAMMAEAE
- ARA PALATINA
- AEDES IOVIS VICTORIS
- DOMUS DIONYSII
- DOMUS Q. CATULI
- DOMUS CICERONIS
- AEDES DIIOVIS
- VELIA
- CURIA VETUS
- FORTUNA RESPICIENS
- SEPTIZONIUM SEVERI
- VICTORIA GERMANICIANA
- LUPERCAL
- VICI VI
- AED TOTIDEM
- VICOMAG . XXIIII
- CUR. II
- DENUNC. II
- INSULAE II. M. DC. XLIIII
- DOMUS LXXXVIII
- LACUS LXXX
- HORREA XLVIII
- PISTRINA XX
- BALINAEAE PRIVATAE XXXVI
- REGIO IN AMBITU HABET PED. XII. M. DC.


SESTO RUFO

Non pervenuta.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- CASAM ROMULI
- AEDEM MATRIS DEUM ET APOLLINIS RHAMNUSII. PENTAPYLUS
- DOMVM AUGUSTANAM ET TIBERIANAM
- AEDEM IOVIS.
 - CURIAM VETEREM
- FORTUNAM RESPICIENTEM
- SEPTIZONIUM DIVI SEVERI
- VICTORIAM GERMANIANAM
- LUPERCAL
- VICI XX
- AEDES XX.
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II
- INSULAE II. M. DCC. XLII
- DOMUS LXXXIX.
- HORREA XLVIII
- BALINEA XLIIII
- LACOS XC
- PISTRINA XX
- CONTINET PED. XI. M. D. X.




REGIONE XI - CIRCO MASSIMO

"La regione XI che era distinta collo stesso nome del Circo Massimo in essa contenuto, oltre lo spazio compreso fra il monte Palatino e l'Aventino, occupato quasi per intiero dal detto Circo, si estendeva ancora nel piano situato lungo il corso del Tevere e posto tra le due estremità delle mura del recinto di Servio; cioè dalla porta Trigemina alla Flumentana. In tale località veniva a formare un giro di circa 11500 piedi come si trova registrato dai Regionari."


RODOLFO LANCIANI



"Chiesa di Sant'Omobono. 

Saggi stratigrafici hanno consentito notevoli precisazioni in relazione alle fasi costruttive del tempio arcaico (dal primo venticinquennio del 6° secolo a.C. all'inizio del 5°). Un altro intervento tra le platee dei due templi gemelli ha rimesso in luce una cisterna rettangolare in opera quadrata, mentre saggi all'interno della chiesa sono stati dedicati allo studio delle fasi tardoantiche e postantiche dell'area.

Circo Massimo.

Durante campagne di scavo condotte nel settore nord-est del circo, sono stati riportati in luce tratti dell'emiciclo con ambulacri, corridoi anulari, fornici e strutture relative all'ima cavea; sono pure stati evidenziati resti dell'arco onorario di Tito a tre fornici. Sondaggi in profondità hanno infine permesso il ritrovamento del piano dell'arena e di resti pertinenti al muro di spina. 
Tali strutture appartengono alle fasi cesariana, domizianea e traianea dell'edificio."


PUBLIO VITTORE

- CIRCUS MAXIMUS QUI CAPIT LOCA CCCLXXXV. M. XII. PORTAE.
- TEMPLUM MERCURI
- AEDES DITIS PATRIS
- AEDES CERERIS
- VENERIS OPUS FABII GURGITIS
- PORTUMNI AD PONTEM AEMILI OLIM SUBLICI.
- PORTA TRIGEMINA
- SALINAE
- APOLLO COELISPEX
- AEDES PORTUMNI
- HERCULES OLIVARIUS
- ARA MAXIMA
- TEMPLUM CASTORIS.
- AEDES CERERIS
- AEDES POMPEI
- OBELISCI II IACET ALTER, ALTER ERECTUS
- AEDES MURCIAE
- AEDES CONSI SUBTERRANEA
- FORUM OLITORIUM. IN EO COLUMNA EST LACTARIA AD QUAM INFANTES LACTE ALENDOS DEFERUNT
- AEDES PIETATIS IN FORO OLITORIO
- AEDES JUNONIS MATUTAE
- VELABRUM MAIUS-VICI VIII
- AED. TOTID
- VICOMAG. XXXII
- CUR. Il
- DENUNC. II
- INSULAE M. DC
- DOMUS LXXXIX.
- BALINEAE PRIVATAE XV
- HORREA XVI
- LACUS LX
- PISTRINA XII.
- REGIO IN AMBITU CONTINET PED. XI. M. D.


SESTO RUFO

- APOLLO COELISPEX
- SALINAE
- PORTA TRIGEMINA
- LUCUS SEMELIS MINOR
- AEDES PORTUMNI AD PONTEM SUBLICII
- DITIS PATRIS
- CERERIS
- PROSERPINAE
- TEMPLUM MERCURII
- HERCULIS
- HERCULES TRIUMPHALIS
- CIRCUS MAXIMUS
- HERCULES OLIVARIUS
- ARA MAXIMA
- TEMPLUM CASTORIS .... MUR...
- BALISICA CAII ET LUCII ... PUD... IUNO ...
- AEDES CONSI
- VICUS CONSINIUS
- VICUS PROSERPINAE
- VICUS CERERIS
- VICUS ARGAEI PISCARIUS
- VICUS PARCARUM
- VICUS VENERIS
- VICUS SANCTUS
- FORUM OLITORIUM.
- COLUMNA LACTARIA
- AEDES PIETATIS
- AEDES MATUTAE
- VELABRUM MAIUS IN FORO OLITORIO
- SACRARIUM SATURNI CUM LUCO
- AREA SANCTA
- AEDES XII
- VENERIS
- IUNONIS ....


NOTIZIA DELL'IMPERO

- TEMPLUM SOLIS, ET LUNAE, ET MERCURII
- AEDEM MATRIS DEUM ET IOVIS
- CEREREM. XII PORTAS
- PORTAM TRIGEMINAM
- APOLLINEM CAELISPICEM
- HERCULEM OLIVARIM
- VELABRUM
- ARCUM CONSTANTINI
- VICI XXI
- AED.XXI
- VICOMAG.XLVIII
- CUR. II
- INSULAE II M. D. DOMUS LXXXVIII.
- HORREA XVI
- BALNEA XV.
- LACOS XX
- PISTRINA XVI
- CONTINET. PED. XI. M. D.




REGIONE XII - PISCINA PUBLICA

"La regione XII era chiamata Piscina Pubblica da un grande luogo per bagni ch'era stato fatto per comodo di esercitarsi al nuoto la gioventù; ed occupava nella sua larghezza lo spazio posto tra il Celio e l'Aventino, confinando ivi con la II e la XIII regione, che poste sui detti monti ne portavano lo stesso nome; ma però onde stabilirle un più conveniente spazio di quello che le si attribuisce, il quale si trova occupato in gran parte dalle sole terme Antoniane, doveva estendersi pure su quella parte dell'Aventino che resta disgiunta verso Oriente dal medesimo colle Aventino propriamente detto, e dove ora stanno le Chiese di S Sabina e di S. Balbina. In lunghezza poi dal Circo Massimo doveva giungere poco oltre il lato meridionale delle terme Antoniane, ove cominciava per tale parte la regione I. Il suo giro da Vittore e dalla Notizia si prescrive di 12000 piedi, e nella indicata località si trova confrontare incirca tale misura."


ROBERTO LANCIANI



"Terme di Caracalla. 

Scavi nel settore orientale del recinto esterno del monumento hanno rivelato strutture relative alla sala ottagona, ambienti sotterranei di servizio e resti del portico perimetrale. Nella stessa area si sono rinvenute ventisei tombe a fossa databili tra il 6° e il 7° secolo. Altri interventi sono stati effettuati nell'area della biblioteca di sud-ovest, e hanno portato al riconoscimento di tre diversi ambienti di servizio su tre piani."


PUBLIO VITTORE

- VICUS VENERIS ALMAE
- VICUS PISCINAE PUBLICAE
- VICUS DIANAE
- VICUS CEIOS. TRIARI
- VICUS AQUAE SALIENTIS
- VICUS LACI TECTI
- VICUS LACI FORTUNAE MAMMOSAE
- VICUS COLAPETI PASTORIS
- PORTAE RADUSCULANAE
- PORTAE NEVIAE
- VICTORIS
- HORTI ASINIANI
- AREA RADICARIA
- CAPUT VIAE NOVAE
- FORTUNA MAMMOSA
- ISIS ATHENODORIA
- AEDES BONAE DEAE SUBSAXANAE.
- SIGNUM DELPHINI
- THERMAE ANTONINIANAE
- SEPTEM DOMUS PARTHORUM
- CAMPUS LANATARIUS
- DOMUS CHILONIS
- COHORTES III. VIGILUM
- DOMUS CORNIFICI
- PRIVATA HADRIANI
- VICI XII
- AEDIC. TOTID
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. Il.
- DENUNC. II.
- INSULAE II. M. CCCC. LXXXVI.
- DOMUS C. XIIII.
- BALINEAE PRIVATAE XLIII.
- LACUS LXXX.
- HORREA XXVI.
- PISTRINA XX.
- REGIO IN AMBITU HABET PED. XII. M


SESTO RUFO

Non pervenuta.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- AREAM RADICARIAM
- VIAM NOVAM
- FORTUNAM MAMMOSAM.
- ISIDEM ATHENODORIAM
- AEDEM BONAE DEAE SUBSAXANAE
- CLIVUM DELFINI
- THERMAS ANTONINIANAS
- VII DOMUS PARTHORUM
- CAMPUM LANATARIUM
- DOMUM CILONIS
- COHORTES IIII. VIGILUM
- DOMUM CORNIFICIES
- PRIVATA HADRIANI
- VICI XVII.
- AED. XVII.
- VICOMAG. XLVIII.
- CUR. II.
- INSULAE II. M. CCC. LXXXVII.
- DOMUS CXIII.
- HORREA XXVII.
-BALNEA LXXIII.
- LACOS LXX.
- PISTRINA XXV.
-  CONTINET PED. XII. M.




REGIONE XIII - AVENTINA

"La XIII regione, oltre lo spazio che occupava sul monte Aventino, dal quale ne traeva la sua denominazione, si estendeva ancora nel piano posto verso il Tevere e contenuto entro il recinto delle mura, nel di cui mezzo s'innalza il Testaccio. Il giro di questa regione si prescrive da Vittore essere stato di 6200 piedi; e tale misura si trova confrontare nella descritta località, non però comprendendo la parte del monte, che si stende disgiunta verso Oriente, stata considerata nell'antecedente regione."


ROBERTO LANCIANI


"Lungotevere Testaccio. 

È stato scavato un esteso complesso portuale, con magazzini di età imperiale. Il complesso si articola su più livelli, risulta addossato a precedenti strutture di età repubblicana (banchine di ormeggio in opera quadrata) ed è costituito da serie di ambienti paralleli coperti a volta. Al di sopra si è rinvenuto un piazzale lastricato su cui si affacciano altri ambienti comunicanti con un doppio criptoportico."


PUBLIO VITTORE

- VICUS FIDII
- VICUS FRUMENTARIUS
- VICUS TRIUM VIARUM
- VICUS CESETI
- VICUS VALERII.
- VICUS LACI MILIARII
- VICUS FORTUNATI
- VICUS CAPITIS CANTERI
- VICUS TRIUM ALITUM
- VICUS NOVUS
- VICUS LORETI MINORIS
- ARMILUSTRI
- AEDES CONSI
- VICUS COLUMNAE LIGNEAE
- VICUS MINERVA IN AVENTINO
- VICUS MATERIUS
- VICUS MUNDICIEI.
- VICUS LORETI MAIORIS UBI ERAT VERTUMNUS
- VICUS  FORTUNAE DUBIAE
- ARMILUSTRUM
- TEMPLUM LUNAE IN AVENTINO
- COMMUNAE DIANAE.
- THERMAE VARIANAE
- TEMPLUM LIBERTATIS
- DOLIOLUM
- AEDES BONAE DEAE IN AVENTINO
- PRIVATA TRAIANI
- REMURIA
- ATRIUM LIBERTATIS IN AVENTINO
- MAPPA AUREA
- PLANTANON
- HORREA ANICETI
- SCALAE GEMONIAE
- PORTICUS FABRARIA
- SCHOLA CASSII
-TEMPLUM IUNONIS REGINAE A CAMILLO DD. VEIIS CAPITIS
- FORUM PISTORIUM
- VICI XVII.
- AED. TOTID.
- VICOMAG. LXXIIII.
- CURAT. II.
- DENUNCIATORES II.
- INSULAE II. M. CCCC. LXXXVIII.
- DOMUS CIII.
- BALINEAE PRIVATAE LXIIII
- LACUS LXXVIII
- HORREA XXVI
- PISTRINA XX
- REGIO IN AMBITU HABET PED. XVI. M. CC.


SESTO RUFO

Non pervenuta.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- ARMILUSTRIUM
- TEMPLUM DIANAE ET MINERVAE
- NYMPHEA III.
- THERMAS SYRES ET DECIANAS
- DOLOCENUM
- MAPPA AUREA
- PLATANONIS
- HORREA GALBES ET ANICIANA
- PORTICUM FABARIAM
- SCALAM CASSII
- FORUM PISTORUM
- VICI XVIII
- AED. XVIII
- VICOMAG. XLVIII
- CUR. II.
- INSULAE II. M. CCCC. LXXXVII.
- HORREA XXXV.
- BALNEA XLIIII
- LACOS LXXXIX
- PISTRINA XX
- CONTINET. PED. XXIII. M.




REGIONE XIV - TRANSTIBERINA

"L'ultima regione denominata Transtiberina dal luogo in cui stava posta al di là del Tevere, avendo un perimetro di circa 30000 piedi, come si trova registrato nel catalogo di Vittore, non poteva perciò essere contenuta nel solo spazio del Trastevere, che era circondato dal recinto Aureliano: ma sembra che si estendesse ancora verso il Vaticano, e che occupasse incirca quanto si trova ora rinchiuso dalle moderne mura."


ROBERTO LANCIANI



"Via Anicia. 

Lo scavo di una serie di ambienti (magazzini?) con fasi edilizie riferibili alla tarda età repubblicana e al II - IV secolo d.c. ha consentito il ritrovamento di una lastra marmorea in cui è delineata la pianta di una zona tra il Circo Flaminio e il Tevere, di straordinaria importanza per gli studi di topografia romana. Tale lastra documenta infatti l'esistenza di altre piante dell'urbe antecedenti alla Forma severiana, redatte con lo stesso metodo, con la stessa scala e con medesime finalità. In particolare il documento conferma l'ubicazione del tempio dei Castori e ne precisa l'originario rapporto strutturale con il Circo Flaminio.

Costruendosi una fogna sull'area, ove sorgeva la chiesa di s. Bonosa, in Trastevere, si è recuperato un vaso di terracotta in forma di boccale, mancante di una piccola parte: sotto il becco vi è in rilievo una testina. Si è pure rinvenuta una lucerna, di terra grezza e di grossolano impasto, che porta sul piatto la figura di una pecora.

Alveo del Tevere.

Nello espurgo del letto del fiume per mezzo della draga fu estratta presso il ponte Cestio un'urna marmorea di m. 0,55 X 0,34 X 0,32. Vi si legge
DlS VOLCASIA MAN PSAMATHE jiatera VIX • ANN • LXXX Q_: VOLCASIVS HERMES PATRONAE -B • M • F-
 I primi tre versi sono incisi superiormente; gli altri due inquadrati nel prospetto. Nel medesimo punto dell'alveo fu cstratta un'altra urna marmorea di m. 0,55 X 0,37 X 0,28 nella cui fronte è rilevata una testa gorgonica circondata da encarpio, e al disotto la lupa lattante i gemelli. Nei fianchi dell'urna sono scolpiti, a basso rilievo, rami di alloro con bacche. Negli angoli sono sfingi alate. Metà della fronte dell'urna è spezzata, e dell'epigrafe, incisa entro cartello listato, rimane solo il frammento seguente:
 F • SVAE ■ VXOhrr^ ET • VIBIDIO • THALETlX
Nella cornice della base dell'urna medesima è inciso:
 MEMORIAE • SEX • APPVLII FVMVSI
Presso il sito medesimo la draga restituì queste altre lapidi iscritte.
Frammento marmoreo di m. 0,42 X 0,28 X 0,23:
Frammento di epigrafe sepolcrale cristiana, alta m. 0,80, larga 0,25:
Presso il ponte Garibaldi, fu rinvenuto il seguente titolo sepolcrale, alto m. 0,18, largo 0,17, inciso su lastra marmorea:
D M FELICI -FÉ • CERVNT-RE PENTINVS- .ET SATYR
Dagli scarichi delle barche nella ripa transtiberina, incontro alla basilica di s. Paolo, provengono i seguenti frammenti epigrafici, pescati pure dalle draghe nell'alveo del Tevere, Frammento di lastra marmorea, di m. 0,20 X 0,21.

Via Salaria.

A sinistra della porta Salaria facendosi il cavo per continuare la fogna parallela alle mura della città, è stato scoparto un antico sepolcro costruito a grandi massi rettaugoli di tufo, eoa graude cornice sagouiata. Sulla prima fila superiore dei predetti massi, è inciso con bellissime lettere, alte m. 0,17, il nome: Q^TERENTILIVS- C

Nello sterro per costruire un fognolo, che immette nel collettore destro del Tevere presso la chiesa di s. Dorotea, si sono trovati due capitelli dì marmo bianco, guasti in parte e danneggiati. Uno è di piccole proporzioni e d'ordine corinzio; l'altro conserva un pezzo di voluta ionica."


Prati di Castello

Nei lavori di sterro per la costruzione del muraglione sulla riva destra del Tevere, di fronte al palazzo Menotti, sono stati recuperati dei frammenti epigrafici.
Un sepolcro in muratura, rimesso in luce nel sito predetto, si trovo coperto con embrici, quattro de' quali portano il bollo :
o OP DOL EX R AVG N FIGLIN
DOMITIANA MAIOR
Altri frammenti di mattoni, trovati fra le terre presso il medesimo luogo, sono improntati coi marchi di fabbrica.

Sulla riva destra del Tevere, di fronte alle case di proprietà Antaldi e Menotti, è stata scoperta una notevole serie di antichi cippi in travertino, relativi alla terminazione della sponda del fiume. I cippi sono in numero di 13, dei quali 5 anepigrafi ed 8 inscritti. Sette di questi ultimi appartengono alla terminazione fatta da Augusto nell'anno 747 di Roma, ed uno ricorda quella fatta da Traiano nell'anno 101 dell'era nostra. Sono stati tutti rinvenuti al loro posto, sopra im'estensione di circa cento m: onde è manifesta la speciale importanza del trovamento, il quale ci permette di studiare e di riconoscere, per un buon tratto della riva destra del Tevere, le circostanze della provvida operazione compiuta da Augusto per la tutela dei diritti spettanti allo Stato.

Oltre le descritte particolarità dei cippi, è ancora da osservare come sui fianchi si riscontrino sempre incavati ove uno, ove due buchi, delle dimensioni medie di m. 0,05 di diametro per m. 0,03 di profondità. Nei primi cinque cippi tali buchi sono anche più profondi ; e si riconosce che gli spazi interposti furono già chiusi da
cancelli ferrati, come ne fanno testimonianza le grappature impiombate che si riscontrano tanto sui fianchi dei cippi stessi, quanto sul suolo frapposto, che è lastricato di una platea di lastroni di travertino, grossi m. 0,30. Ho per altro potuto riconoscere, per mezzo di speciali raffronti istituiti dopo la scoperta del 13° cippo, che i primi rinvenuti e da me distinti coi n. dall'I al 5 non appartengono alla terminazione del Tevere, quantunque si trovino sull'allineamento dei cippi ripali. Infatti la distanza dal prossimo cippo, che si è trovata notata sul cippo n. 13, è di piedi 148 '/z e perciò il più prossimo cippo doveva trovarsi a circa m. 8,30 più a monte del gruppo dei primi 5 cippi ritrovati.

Del resto, la ragione dell'essersi praticati cotesti buchi sui fianchi dei cippi, parmi potersi congetturare dal fatto (ora per la prima volta osservato), che nella zona testé esplorata lo spazio interposto ai cippi era chiuso da una barriera di legno, simile forse alle nostre odierne stecconato, la cui tessitura faceva testa ai cippi: e ciò non per fatto dei privati proprietari limitrofi, ma ex auctoritate jìublica e per motivi speciali e propri del sito. Potrebbe anche supporsi che fosse stato concesso ai proprietari dei terreni posti a confine, di appoggiare le loro siepi ai cippi stessi.

Passando ora a confrontare l'attuale scoperta con le altre per l'addietro avvenute, è a ricordare come dei cippi relativi alla terminazione delle ripe del Tevere fatta da Augusto, se ne conoscevano nove, tutti dell'anno 747 di Roma, determinato dalla indicazione della XVII potestà tribunizia di Augusto (C /. L. VI, 1236 a-i). Provengono tutti dalla sponda destra, e propriamente dal tratto che corre fra i Prati di Castello e la Traspontina ; la maggior parte furono trovati nelle vicinanze di Castel S. Angelo."


PUBLIO VITTORE

- VICUS CENSORI
- VICUS GEMINI
- VICUS ROSTRATI
- VICUS LONGI AQUILAE
- VICUS STATUAE SICCIANAE
- VICUS QUADRATI
- VICUS RACILIANI MAIORIS
- VICUS RACILIANI MINORIS
- VICUS JANICULENSIS
- VICUS BRUCTANUS
- VICUS LARUM RURALIUM
- VICUS STATUAE VALERIANAE
- VICUS SALUTARIS
- VICUS PAULI
- VICUS SEX. LUCEI
- VICUS SIMI PUBLICI
- VICUS PATRATILLI
- VICUS LACI RESTITUTI
- VICUS SAUFEI
- VICUS SERGI
- VICUS PLOTI
- VICUS VIBERINI
- VICUS GAIANUM
- IN INSULA AEDES IOVIS ET AESCULAPII ET AEDES FAUNI
- NAUMACHIAE
- CORNISCAE
- VATICANUS
- HORTI DOMITIAE
- IANICULUM
- MANIAE SACELLUM
- BALINEUM AMPELIDIS
- BALINEUM PRISCILLIANAE
- STATUA VALERIANA.
- STATUA SICCIANA
- SEPULCRUM NUMAE
- COHORTES VII. VIGILUM
- CAPUT GORGONIS
- TEMPLUM FORTIS FORTUNAE
- AREA SEPTIMIANA
- HERCULES CUBANS
- CAMPUS BRUTANUS
- CAMPUS CODETANUS
- HORTI GETAE
- CASTRA LECTICARIORUM
- VICI XXII.
- AED. TOTID.
- VICOMAG. LXXVIII.
- CUR. II
- DENUNC. Il.
- INSULAE IIII. M. CCCC. V.
- DOMUS CC.
- BALINEAE PRIVATAE LXXXVI.
- LACUS CLXXX.
- HORREA XXII.
- REGIO IN AMBITU HABET PEDES XXXIII. M. CCCC. LXX. VIII.


SESTO RUFO

Non pervenuta.


NOTIZIA DELL'IMPERO

- GAJANUM ET FRYGIANUM
- NAUMACHIAS V. ET VATICANUM
- HORTOS DOMITIES
- MOLINAS
- BALINEUM AMPELIDIS, ET DIANES
- COHORTES VII. VIGILUM
- STATUAM VALERIANAM
- CAPUT GORGONIS
- FORTIS FORTUNA
- CORARIAM SEPTIMIANAM
- HERCULEM SUBTERRAM MEDIUM CUBANTEM SUB QUEM PLURIMUM AURUM POSITUM EST
- CAMPUM BRUTTIANUM ET CODETANUM
- HORTOS GETES
- CASTRA LECTICARIORUM
- VICI LXXVIII
- AEDES LXXVIII.
- VICOMAG. XLVIII.
- CUR. II.
- INSULAE IIII. M. CCCC. V.
- DOMUS CL.
- HORREA XXII.
- BALNEA LXXVII.
- LACOS CLXXX.
- PISTRINA XXIIII.
- CONTINET PED. XXIII. M.

VILLA PETRARO (Stabiae - Campania)

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DIO FLUVIALE SARNO
Gli scavi archeologici di Stabia hanno fatto emergere i resti dell'antica città di Stabiae, oggi Castellammare di Stabia, presso la collina di Varano, dal lontano 1749, sotto Carlo di Borbone.

PLANIMETRIA DELLA VILLA
Questi hanno fatto emergere un diverso aspetto della vita dei romani: Stabiae era in epoca romana un luogo di villeggiatura, con numerose ville residenziali decorate con pitture e statuaria, oltre a squisite suppellettili.

Ma non mancavano grandi e curatissimi giardini, ornati di statue, ringhiere di marmo, alberi, siepi, aiuole, oscilla, belvedere, fontane, erme e panchine lavorate.

Però  in loco c'erano pure le ville rustiche, adibite a business per i ricchi romani, insomma delle fattorie con coltivazioni pregiate soprattutto di uva per i preziosi e ricercatissimi vini campani, orgoglio della Campania Felix, così chiamata dai romani per la straordinaria fertilità della sua terra.

BROCCA DI VETRO
Spesso le ville campane erano per metà rustiche e metà di otium, nel senso che i proprietari, che risiedevano in genere a Roma, usavano l'edificio come casa di villeggiatura non disdegnando però di farne una proficua fattoria che rendeva ottimamente per la fertilità straordinaria di quelle terre.

Naturalmente la parte padronale era ben distinta da quella aziendale, soprattutto poi si distingueva non solo per la migliore dislocazione, ma per le meravigliose decorazioni di cui si fregiava.

Una delle ville più preziose è Villa Petraro, cosiddetta perchè posta in località Petraro, al confine tra Castellammare di Stabia e Santa Maria la Carità. Come si nota nella cartina, la parte scavata è meno della metà della villa stessa, che può riservarci pertanto ancora molte sorprese.

PUGILE
Anticamente invece la villa si trovava nella piana del Sarno, in una zona boscosa costeggiante una antica strada lastricata tra Stabia e Nuceria. Questo spiga perchè in uno dei pannelli della villa sia rappresentata la divinità del fiume Sarno, circondata da amorini.

La villa venne scoperta casualmente nel 1957 per alcuni lavori di estrazione di lapilli proseguendo fino al 1958, quando dopo averla spogliata di affreschi ed elementi decorativi di maggior importanza venne nuovamente interrata.

Villa Petraro era una villa rustica, come testimonia un torchio olearium, con una lunghezza di 37 m e una larghezza di 29 m e si estendeva su di una superficie di circa 1000 mq,

Essa era composta da due livelli come testimonia la presenza di una scala e al momento dello scavo risultava già crollata la parte occidentale

La Villa, edificata in origine durante la prima età augustea, era evidentemente in fase di ristrutturazione per il terremoto del 62 d.c., inoltre la si stava trasformando da villa rustica a villa d'otium, come testimoniano alcuni cumuli di materiali edili e progetti di decorazioni. L'eruzione del Vesuvio la seppellì insieme a tutta Stabiae nel 79 d.c.



DESCRIZIONE

AMORINO CON CESTO
L'edificio che si affacciava a pochi metri dal mare sullo splendido golfo di Napoli, disponeva di un ampio cortile centrale con un criptoportico al nord per proteggerla dal sole, colonne realizzate in opus vittatum al sud, mentre nella parte est erano in via di realizzazione delle nuove colonne.

Sempre nel cortile sono presenti  un bancone per il focolare, un forno, un larario, un pozzo e un triclinium nonchè vari cubicula che affacciavano sul cortile porticato. 

Vi erano inoltre numerosi locali adibiti a depositi agricoli (horreum) e almeno 6 celle (ergastula) per gli schiavi addetti al lavoro nei campi, un torchio oleario e un grosso cortile.



LE TERME

Con i lavori di ampliamento la villa era stata dotata, nella parte orientale, anche di una zona termale, con una scala che portava al piano superiore.

Le terme avevano un calidarium, così come gli altri ambienti, un frigidarium, nel quale erano in costruzione nuove vasche, un tepidarium, fornito di tubi fittili per il riscaldamento della stanza, un praefurnium (forno per l'ipocausto) e un apodyterium, lo spogliatoio. 

STUCCO DI CANDELABRO
Tutti con copertura a botte decorate a stucchi.

In effetti numerosi stucchi, rari e di grande bellezza, erano in fase di finitura per tutta la villa, specie nella zona termale.

Gli stucchi (almeno 25) sono gli elementi artistici di maggior pregio. Ritrovati bassorilievi tra cui:

- Narciso che si specchia nell’acqua,
- Psiche,
- pannelli di oltre 2 m. con pugili dal volto sereno, incorniciato in una folta barba, con nelle mani stringhe e cesti,
- Pasifae, a cui viene presentata la vacca in legno,
Satiro con capro,
- Satiro con rhyton,
- scene bucoliche,
divinità fluviali, come il fiume Sarno, considerato una divinità,
- uccelli in volo,
amorini vari.

I pannelli, provenienti per lo più dalle terme, vennero asportati e conservati nell'Antiquarium stabiano; la maggior parte delle pareti della villa però erano state rivestite di intonaco bianco prossime alla decorazione oltre a venticinque bassorilievi in fase di rifinitura.
Tra i reperti più importanti emersi dalla villa, ricordiamo:

- gli oggetti di vetro soffiato tra i quali brocche, bicchieri, bottiglie e candelabri,
- brocche in terracotta,
- brocche in ceramica aretina,
- balsamari,
- vetri colorati
- lucerne artistiche di vari tipi.
- un torchio oleario

Oltre alla villa, è stata ritrovata una “necropoli”, una vera e propria città dei morti, in località Madonna delle Grazie.

Circa 400 reperti archeologici, ritrovati a Santa Maria la Carità, stanno facendo il giro del mondo, tra mostre e musei americani, russi e cinesi. Chissà se torneranno mai in Italia      


Satiro con ryton:
SATIRO CON RYTON

Lo stucco era una decorazione del calidarium di Villa Petraro e si trovava nello stesso ambiente di cui facevano parte anche gli stucchi del Satiro con capro e di Psiche: anche questo, così come gli altri, era posizionato al centro di un cassettone della volta a botte della stanza.

Il pannello raffigura un giovane satiro nudo, nell'atto di correre verso destra, il quale regge con la mano destra un rhyton (versatoio spesso con forme di animali), mentre con la sinistra afferra un lembo di pelle di una fiera che gli scende da una spalla.

Tutta l'opera, conservata quasi completamente nella sua interezza, è racchiusa in una doppia cornice, una a fascia, l'altra a linguette.


SATIRO CON CAPRO
Satiro con capro:

Sul pannello è raffigurato un giovane satiro nudo, con il capo coronato e un mantello poggiato sulle spalle.

Il satiro reca nella mano sinistra un recipiente colmo di frutta, mentre con la destra si poggia al collo del capro sul quale è seduto e che sta correndo verso sinistra. 

Il pannello è posto in una cornice a linguette, caratterizzata, in basso a sinistra, dal profilo di una testa di un satiro


Psiche

Questo rilievo era la decorazione di uno dei cassettoni della volta a botte dell'ambiente termale e raffigurava Psiche, rappresentata nuda e di prospetto, con le braccia aperte e le ali spiegate, che regge nella mano destra un fiocco.

PSICHE
Invece nella mano sinistra, alzata, tiene un mantello agitato dal vento che copre in parte le spalle e la gamba sinistra. 

Tutta l'opera è racchiusa in una doppia cornice, una linguette, l'altra con bordo ad ovoli, che presenta nell'angolo sinistro il profilo di una testa maschile, modellato a stecca.

L'impianto termale faceva parte dell'impianto originario della villa, come dimostrano le sporgenze dell'abside e del calidario nel muro perimetrale, come pure l'uso dell'opus incertum e la presenza delle suspensurae con colonnine fittili, sistema di riscaldamento più antico di quello che poi farà ricorso
a pilastrini in laterizi.

ULPIA OESCUS TRAIANA (Bulgaria)

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GLI ORNAMENTI

Oescus era un'antica città della Moesia (Serbia Bulgaria), a nord-ovest della moderna città bulgara di Pleven, vicino al villaggio di Gigen della Moesia inferiore (da non confondere con Sarmizegetuza Ulpia Traiana in Romania). Claudio Tolomeo la definisce una città triballiana, cioè trace, ma fu romanizzata, raggiungendo lo status di colonia sotto Traiano, con il nome di Colonia Ulpia Oescus, concessa ai veterani della legio I Italica e V Macedonica. Così Oescus fu tracia, romana e bizantina.

In questa città, localizzata alla confluenza tra i fiumi Danubio e Iskar, ebbe il suo campo la Legio V Macedonica da Augusto a Traiano. Oggi l'Iskar dista 300 m dal sito archeologico dell'Ulpia Oescus, a causa della sezione paludosa che aveva causato lo spostamento del Danubio negli ultimi secoli, ma che probabilmente esisteva anche nell'antichità.

I primi edifici dell'Ulpia Oescus venero eretti durante la campagna dell'imperatore Traiano (106–109 d.c.), sulle rovine del precedente campo permanente della V Legio Macedonica (10 d.c.), che prese parte alla soppressione della rivolta dei Traci a sud dei Balcani, e alle operazioni militari nelle guerre partiche di Nerone, e più tardi nella guerra romano-giudaica del 66-67..

La V Macedonica prese parte alle guerre daciche di Domiziano nel 85-86, e a quelle daciche di Traiano nel 101-106. Il Pyasutsite and Prez Livada localizzano a east-northeast di Oescus una necropoli del I-II sec. da cui sono emerse le più antiche epigrafi e monumenti di veterani.

Tra le rovine di Ulpia Oescus, restano visibili i resti delle mura difensive del campo legionario, fette di terra e pietra (71–101 d.c.), come Ratiaria (dal villaggio sul danubio di Archar, distretto di Vidin, Bulgaria) in Moesia Superior, Poetovio in Pannonia Superior, colonia Ulpia Traiana in Germania Inferior e Thamugadi in Numidia.

Al di fuori delle rovine della cinta muraria romana di Ulpia Oescus, sono ancora visibili i resti del muro di difesa del campo della legione, fatto di terra e pietra (71-101). Poco dopo la Legio V Macedonica lasciò il suo campo permanente a Oescus nel 102 d.c., la città fu riconosciuta come colonia fondata da Traiano, così come la Ratiaria (dal villaggio danubiano di Archar, distretto di Vidin, NW Bulgaria) nella Mesia Superiore, Poetovio in Pannonia Superior, colonia Ulpia Traiana in Germania Inferiore e Thamugadi in Numidia.
I RESTI DELLA FORTEZZA
Era ormai consuetudine affermata spedire soldati esperti di origine italica dalle coorti pretoriane come centurioni a diverse legioni, per volere del lungimirante di Traiano, usanza in seguito ripetuta. Nel 167 dc, Oescus divenne colonia ottenendo un nuovo nome, Colonia Ulpia Oescensium ("Ulpia" dal secondo nome di Traiano, Ulpio).

I suoi cittadini erano per lo più legionari in pensione e la colonia fu chiamata per il reinserimento dei soldati in pensione nella società civile. Dopo il 271 d.c., la legione V Macedonica tornò in questo luogo evi costruì un secondo sistema di fortezza (Oescus II).
C'erano 150 città coloniali romane, ma l'Ulpia Oescus era particolare perché gli erano stati concessi tutti i diritti romaniin qualità di colonia romana. L'Ulpia Oescus proteggeva la strada del Danubio Limes ed era un'importante strada militare verso l'odierna Plovdiv (Philippopolis greca, Trimontium latino) perché passava vicino alla stazione stradale e, in seguito, alla possente fortezza di Storgosia (nell'odierna Pleven).
MOSAICO "GLI ACHEI", OPERA GRECA PERDUTA IN MENANDRO DI ATENE (342-291)

I RESTI

Gli scavi archeologici sono iniziati in Ulpia Oescus 1904-1905, e indagini archeologiche effettuate finora sull'estensione orientale di Oescus II mostrano che vi erano case risalenti all'epoca del Principato, alcune delle quali piuttosto imponenti e decorate con mosaici datati al tempo di Settimio Severo. Un acquedotto forniva Oescus di acqua sorgiva proveniente da fonti poste a 20 km di distanza, e un muro di pietra lo proteggeva dagli invasori e dalle alluvioni del Danubio.

IL TIMPANO
Il piano completo di scavo e ricostruzione del sito di Ulpia Oescus intende comunque ripristinare completamente gli edifici di Oescus I che forniranno ai visitatori un'impressione completa di questo antico centro commerciale, culturale e militare di epoca romana.
Le maestose rovine della città coprivano infatti circa 280.000 m², testimoniando la ricchezza delle dinastie Antonina e Severana, con, vicini all'entrata, edifici amministrativi e un pozzo romano perfettamente ricostruito di fronte a un grande complesso di bagni pubblici.

I DECORI
Ulteriori scavi hanno fatto emergere tre bagni pubblici (terme) e una strada perfettamente conservata che va dalle terme al notevole edificio del Tempio della Fortuna. Lungo la strada c'erano tabernae (negozi) che esercitarono il loro lavoro fino al VI secolo. Il Tempio di Fortuna, costruito nel 190-191 d.c., era dedicato alla protettrice della città, appunto la Dea della Fortuna, ovvero Dea Fortuna(in parte equivalente ad Ananke e Fatum), la cui statua è ora esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Sofia. 
CARIATIDE ROMANA DI OESCUS
Proprio dall'altra parte della strada, il famoso mosaico degli Achei, del III sec. dc., fu scoperto nel 1948. Ora è esposto nel Museo storico regionale di Pleven, con altri reperti di Oescus e Storgosia. Nel sono stati rinvenuti gli imponenti edifici del Tempio della Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva) e della basilica.
Il 5 luglio 328 d.c., l'imperatore Costantino I inaugurò personalmente il Ponte di Costantino, il più grande e famoso ponte in pietra sul Danubio, che collegava Oescus sulla sponda sud con il castrum Sucidava a nord. 
Oggi, le sue rovine possono essere viste solo sulla sponda settentrionale del Danubio, a Celei, una volta fortezza romana Sucidava, in Romania.

Il ponte fu in uso solo per un breve periodo e venne smantellato prima delle invasioni dei Goti nel 376–378. Nel 411 Oescus venne distrutta dagli Unni. 
L'imperatore Giustiniano I tentò di ristabilire Oescus con un sistema di difesa posto sul Danubio, ma tutte le sue fortezze vennero fermate dagli Avari nel 585.
Un altro tentativo di stabilirsi nel sito avvenne per opera di un villaggio bulgaro, costruito sulle rovine romane (X-XIV secolo), prima che Oescus svanisse totalmente e divenisse storia segreta, poi riportata alla luce.

MEDICO DELLA MUTUA ROMANA

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MEDICO ROMANO

L'ARCHITETCTER

Pochi lo sanno, ma nel 142 d.c., venne istituita, in tutto l'Impero Romano, per ordine di Antonino Pio, la professione del medico municipale, chiamato architecter, ovvero il medico pubblico cittadino, insomma il medico della mutua degli antichi romani. Naturalmente il medico stava in città, per i villaggi invece i cittadini malati dovevano raggiungere la città più prossima, il municipio più vicino. Il medico privato invece era chiamato medicus.

Ne ebbero diritto tutti i cives romani, pertanto esclusi gli schiavi e gli stranieri, ma vigeva per tutto l'impero romano, da occidente all'oriente, dal settentrione europeo al meridione africano.
Mai stato fece opera tanto grandiosa. L'architecter faceva diagnosi, dava le erbe e le medicine, operava chirurgicamente, curava i denti e e le ossa rotte.

I Romani infatti avevano medici, medicine, chirurghi e dentisti, anche se non si conoscevano nè batteri nè virus, scoperti solo nel 1800, per cui erano sconosciuti il contagio e le cause di molte malattie, tuttavia i medici romani, anche se non sterilizzavano, tenevano in gran conto la pulizia, tanto che avevano bende pulite e cofanetti e cassette ove tenevano gli attrezzi ben puliti e, se erano di ferro, ben oliati con puro olio di oliva.

Anticamente la medicina proveniva dalle erbe, e la loro ricerca era affidata alle donne. Anche se teoricamente doveva essere il pater familia a prendersi cura della famiglia e pure degli schiavi, in realtà erano le romane a prendersi cura dei familiari con impacchi, decotti, impiastri e tisane dei malati in famiglia, ed erano sempre le donne a fare le levatrici.

Catone si irritò molto per l'uso di valersi dei medici, soprattutto quelli greci che avevano invaso Roma, trascurando i buoni usi antichi e ci ha tramandato che la medicina domestica si basava essenzialmente sull'uso del cavolo, del vino e sul pronunciamento di filastrocche magiche (formule o invocazioni). Egli sintetizza così la cura del pater familiae:
 "Forniti di una canna verde, si reciti la formula motas uaeta daries dardaries, asiadarides una te pes e si canti ogni giorno haut haut istasis tarsis ardannabon e si guarirà così ogni male"
(Marco Porcio Catone, "De agri coltura", 160)

Per fortuna però c'erano le donne della famiglia e poi i medici, e per ciò che riguardava invece le malattie più gravi o la chirurgia, gli uomini che ne avevano possibilità andavano a studiarla nei paesi più progrediti in materia, in Grecia e in Egitto, ma esisteva anche una progredita medicina etrusca.

Nell'ambulatorio veniva attrezzata una piccola farmacia dove le sostanze semplici erano collocate in scatole di legno o vasi di terracotta o di ceramica sigillata (aretina) con l'indicazione del contenuto.
Anche nelle case si attrezzarono minuscole farmacie, con cofanetti in metallo, osso o avorio, con diversi scomparti, con bende e medicinali di base per un pronto soccorso.



IL MEDICO DI AUGUSTO


Augusto assunse come medico personale un giovane liberto, Antonio Musa, che salvò l’imperatore, gravemente malato al fegato (23 d.c.), da morte sicura. Quando il medico curò Augusto, che, dopo aver conquistato la Cantabria, era gravemente malato e prossimo alla morte. Avendo constatato l'inefficacia delle fomentazioni calde, Musa sperimentò quelle fredde, salvando l'imperatore. 

Quando Augusto guarì, fece erigere una statua di Antonio e la pose accanto all'altare privato di Esculapio, poi lo elesse cavaliere, con il diritto di portare l’anello d’oro, e gli donò 400.000 sesterzi. Le terapie di Antonio Musa erano basate sull’impiego della Fecola Aminea e formule magiche.

Oltre agli onori, Musa riscosse fama e fiducia, divenendo il medico più importante del tempo. Le proprie terapie a base di bagni freddi indussero malati di ogni genere a recarsi nelle località dove potevano usufruirne, trascurando ad esempio, come fece Orazio, le acque termali di Baia. Antonio Musa non ebbe uguale fortuna quando tentò di guarire Marco Claudio Marcello, il primo marito di Giulia, l'unica figlia di Augusto.

In famiglia, Antonio non era l'unico a interessarsi di medicina. Anche suo fratello, Euforbo, fu medico di una casa reale, quella di Giuba II, re della Numidia: pare che i due fratelli insieme sperimentassero una idroterapia a bassa temperatura.

A Roma già vigeva all'epoca di Augusto la figura del Medico di corte (Medicus palatinus), dell’Archiatra sacii palatii, il medico dell’imperatore, ma pure un servizio pubblico di assistenza medica nei seguenti campi:

- Assistenza medica ai gladiatori
- Assistenza nei giardini pubblici, nelle biblioteche, nelle Terme
- Assistenza al personale del porto di Ostia
- Assistenza per le Vestali

Il tutto pagato dallo Stato.

Dal 142 d.c. il medico della mutua poteva redigere certificati, prestare assistenza ai poveri, o ai meno abbienti, però poteva esercitare anche privatamente.




IL PRONTO SOCCORSO

A Roma, e negli altri municipi dell'impero, non esistevano gli ospedali ma c'erano botteghe-ambulatorio sulla strada, con scaffali, cassapanche, tavolini  e cassette per le attrezzature, riposti negli appositi armadi con uno o più lettini. Se l'ambulatorio era per i poveri le attrezzature venivano appese con ganci alle pareti o poggiate sulle mensole.

Comunque queste botteghe, modeste o lussuose, fungevano pure da posti di soccorso per un incidente stradale o avvenuto in una casa non distante. Si potevano fermare le emorragie, bendare e legare le ossa, somministrare calmanti o eccitanti, fare brevi anestesie,  intervenire su attacchi di cuore o ictus, per svenimenti e ferite varie.

Non era infrequente, non esistendo i frigoriferi, il caso di avvelenamento da cibo: per prima cosa il medico provocava il vomito e successivamente passava ai depuratori o, se si trattava di vero e proprio veleno, agli antidoti, anch'essi preparati nelle farmacie.

Alcune botteghe, più grandi e attrezzate fungevano pure da cliniche private, dove i pazienti, dopo l'intervento chirurgico, potevano essere seguiti e curati. Il medico preparava personalmente le pomate, gli infusi, gli impiastri sulle ferite ecc., a volte con segreti del mestiere riservati solo a lui.

Se il medico era famoso, fuori delle botteghe si formava la fila e il passaparola faceva la fortuna o la sfortuna del medico. Per farsi pubblicità infatti sovente il medico, dopo aver aperto l'ambulatorio, offriva gratis le sue prestazioni per un certo periodo, trascorso il quali iniziava a scrivere in bella calligrafia i prezzi per le sue prestazioni, in strada e ben visibili, in modo che gli utenti non dovessero disturbare per chiedere informazioni.

L’onorario di un medico non è certo: Plinio ci dice che guadagnavano moltissimo, così come le altre professioni sanitarie (paramedici, fisioterapisti, massaggiatori…), mentre Seneca afferma che i medici ricevevano una ben misera remunerazione (mercedula), tenuto conto della loro fondamentale opera salutare; Plauto diceva medicus/mendicus (intendendo che non si arricchiva con il proprio lavoro).




LA SALA CHIRURGICA

La sala chirurgica dei medici della mutua erano accanto o molto vicine agli ambulatori dei medici della mutua, e qui disponevano di attrezzi chirurgici molto simili a quelli moderni. Gli strumenti chirurgici di ferro venivano avvolti in bende imbevute di olio per impedirne la ruggine, quelli di bronzo venivano lavati con aceto per il verderame. Tra i reperti di ferro e di bronzo si contano:
  • astuccio aperto pieghevole con ferri chirurgici cioe' bisturi, e una leva per le ossa.
  • astuccio con cardini per strumenti chirurgici.
  • bisturi, a spatolae e a lancetta.
  • un attrezzo lenticolare che veniva introdotto nel cranio del paziente dopo che questo era stato perforato con un altro strumento.
  • piccole forbici.
  • cauterio bronzeo a piastrina.
  • cauterio a lancetta.
  • forceps (forcipe) a semicucchiaio.
  • attrezzo di ferro usato per estrarre le punte delle frecce dalle ferite.
  • pinze.
  • scalpelli.
  • sonde.
  • bottiglietta di ceramica a forma di piede che di solito conteneva olio o acqua calda per il chirurgo callista.
Esistevano infatti pure le cure dei piedi, per togliere i calli, le verruche o curare le piaghe, nonchè per le unghie incarnite.

Pur non conoscendo virus e batteri i medici detergevano le ferite con una spugna o un batuffolo di lana imbevuti nell'aceto o nel vino, di per sè disinfettanti, o in mancanza nell'acqua fredda, poi decideva se intervenire con strumenti chirurgici o dare punti di sutura.

Una specie di disinfettante erano gli "empiastri" che si mettevano sulle ferita con una spatola, nonchè sostanze cicatrizzanti delle quali la più usata era l'argilla rossa. Per calmare il dolore esistevano preparazioni applicate attorno alla ferita o pozioni da ingerire. Talvolta le ferite venivano ricoperte da una fasciatura. Dopo alcuni giorni, in genere due, si toglievano le bende e si disinfettava nuovamente.
La stanza delle operazioni era molto simile ai moderni ambulatori, con il tavolo e una sedia dallo schienale alto dove si sedeva il dottore, e un lettino per il paziente.

LA FARMACIA ROMANA

LE FARMACIE

I primi farmaci realizzati a Roma venivano prodotti dai medici con l'aiuto dei loro discepoli che andavano a raccogliere le erbe o i minerali, li depuravano, essiccavano, sminuzzavano, mescolavano e altro, fino a raccoglierle nei vasetti, o in sacchetti, o diluirli nelle bottiglie di vetro ecc.
Solo a partire dal II secolo a.c. ebbe inizio la prima farmacia romana, che non solo vendeva le medicine ma era un laboratorio in cui se ne fabbricavano dalle materie prime.

L'istituzione dei medici della mutua contribuì non poco all'apertura delle farmacie, perchè il compito dei medici era incessante, vista la vastità della clientela, e per quanto i medici della mutua fossero dislocati nei vari quartieri, non avevano certo il tempo di creare prodotti di farmacia, per cui attrezzarono ognuno una propria farmacia che si riforniva a sua volta nelle farmacie di stato.

I farmacisti si servivano di cucchiaini in bronzo per polveri e paste, ampolle per i liquidi, vasi in bronzo o in terracotta, pestelli in pietra per sminuzzare, e bilance a uno o due piatti. I farmaci erano complessi, dovuti a una mescolanza di sostanze semplici per cui i medici facevano ricette o ne inventavano di nuove, a volte valendosi anche di pratiche magiche.

Però le farmacie di stato, quelle che dovevano rifornire le piccole farmacie dei medici di stato, cioè i medici della mutua, non erano molto raffinate, anche perchè non dovevano vendere prodotti nè convincere qualcuno. Si limitavano pertanto ai prodotti essenziali ma in grande quantità, e ne tenevano precisi resoconti per i controlli statali esercitati su di loro.



GLI SCHIAVI

Dunque il medico della mutua non valeva per gli schiavi, e difficilmente i padroni si rivolgevano ai medici privati per curare gli schiavi, per cui spesso li portavano nel Tempio di Esculapio a Roma sperando nell'intervento del Dio. Infatti Augusto, che era molto clemente con i suoi schiavi e che per lo più li trasformò in liberti, promulgò una legge per cui lo schiavo che non veniva curato dal medico, se era portato nel tempio di Esculapio e guariva, diventava automaticamente libero.

C'erano però delle tenute agricole che servivano a curare gli schiavi, e potevano essere tenute sia da uomini che da donne. Le donne infatti conoscevano tutti segreti delle erbe e si prodigavano per curare gli schiavi consentendo loro anche lunghe degenze non gradite nelle domus padronali.

Lo schiavo riceveva cibo sano e dietetico, respirava aria pura, se era il caso passeggiava e riceveva puntualmente le sue medicine. Se invece doveva giacere su un letto poteva farlo, naturalmente in camerate, ma con fasce, bende stecche e quant'altro.

Il soggiorno naturalmente costava poco, così i romani, per non avere l'ingombro in casa e per avere chi li assistesse, portavano gli schiavi nelle "case di cura" extraurbane, dove si praticava l'agricoltura con orti e frutteti, dove si allevavano gli animali e soprattutto dove c'erano gli orti dove crescevano le più svariate erbe curative.

VALETUDINARIUM ORIGINALE E RICOSTRUITO A CARMENTUM

L'ESERCITO

Si sa che l'esercito romano si portava sempre inservienti per curare le ferite di guerra e steccare le ossa ma fu Giulio Cesare che ordinò le prime scuole di medicina, e fu anche il primo a portare i medici specialistici nell'esercito per curare i feriti.

Dalle scuole di alto livello internazionale, visto che disponevano di insegnanti etruschi, greci, libici, egizi e romani,  nacquero veri e propri ospedali militari dove venivano praticate la chirurgia e la medicina per la cura delle ferite in guerra

Qui, oltre a studiare sui libri, si imparava anche a livello pratico. Il maestro portava gli alunni nelle visite dei pazienti, come avviene nei moderni ospedali: ci si esercitava a tastare il polso, a toccare la fronte per la temperatura, ad esplorare occhi e bocca, a sentire il battito del cuore appoggiando l'orecchio sul petto, a osservare il colorito del paziente, e ad ascoltare la descrizione dei suoi sintomi per la diagnosi.

Possiamo dire che la vera medicina romana nacque nelle scuole romane e si diffuse negli ospedali da campo. Cesare sapeva che certe ferite se curate presto e bene potevano guarire in breve tempo, se trascurate potevano invalidare e pure uccidere. Poichè le guerre di Cesare duravano anni, si era munito di piccoli ospedali da campo dove si provvedevano le prime cure e si facevano le prescrizioni. Al primo centro amico il soldato poteva essere affidato alle cure locali, salvo poi rimettere il legionario a cavallo per fargli raggiungere l'esercito.

I medici usavano pure gli assistenti, spesso i legionari stessi, soprattutto negli interventi chirurgici, istruendoli quindi un po' nel campo. Così gli assistenti diventavano medici legionari e a loro volta potevano prestare un primo soccorso ai caduti prima di trasportarli negli ospedali da campo.

Gli ospedali da campo erano detti "Valetudinaria".

Furono costruiti lungo l'intero limes fin dal tempo dell'imperatore Augusto, quali ospedali militari all'interno di ciascun castrum legionario o ausiliario.
Ne restano importanti vestigia in Svizzera, Inghilterra, Germania ma esistevano in tutto il territorio di conquista. Erano rettangolari con al centro un ampio cortile e lungo i quattro lati erano posizionati i vari settori: sale operatorie, stanze di degenza, latrine, ambulatori dei medici, la farmacia, accettazione dei malati, uffici amministrativi.

IL MEDICO MUNICIPALE

LE RESPONSABILITA' MEDICHE

- L’assistenza andava erogata anche ai criminali e ai nemici.
- Il medico doveva rifiutare l’aborto (anche se si sa che lo si praticava nascostamente)
- Di fronte alla legge il medico aveva responsabilità giuridiche ed era passibile di sanzioni (secondo un’antica legge del 286 a.c., la Lex Aquilia) ed era tenuto al risarcimento del danno
- Secondo la Lex Cornelia, dell’ 81 a.c., i medici erano penalmente responsabili per eventuali avvelenamenti, se procuravano o vendevano veleni a qualcuno. 
- Era punita la castrazione a scopo di piacere. 
- Veniva punito il medico che seduceva la moglie di un cliente.

Vi erano anche donne-medico nel mondo sanitario romano, soprattutto in campo ostetrico, ma anche al di fuori di questo. Vi erano medici specializzati, anche se la specializzazione era molto criticata. In teoria la chirurgia doveva essere impiegata in estrema-ratio (per ragioni veramente urgenti e gravi). Come anestetico si usavano l’oppio, il giusquiamo, la belladonna e altro.




LE PALESTRE

Anche nelle palestre, c'erano medici per traumi e ferite: dalle lussazioni alle distorsioni muscolari, ai traumi ossei, intervenendo con medicine, esercizi e diete. Anticamente era il pater familias ad occuparsi dell'addestramento ginnico dei figli maschi, ma in seguito furono gli stessi proprietari delle palestre ad occuparsene.

Così le palestre non solo fornivano i medici in caso di incidenti, e non erano inusuali perchè i ragazzini dovevano prepararsi per diventare futuri soldati, ma fornivano pure i personal-trainer, spesso legionari in congedo e pure di una certa fama.

Ippocrate influenzò molto la medicina romana, infatti in alcuni libri romani si descrive il comportamento che il medico deve tenere durante la visita: deve esser discreto, parlare a bassa voce, essere sorridente, esprimere fiducia e ottimismo per la guarigione, e se il paziente è agitato, deve calmarlo con persuasione e dolcezza.

Così il personal trainer divenne una specie di secondo padre consigliando e incoraggiando il suo allievo, senza penalizzarlo per i suoi errori, e anzi guidandolo verso l'addestramento più efficace per farne un vero legionario.

TEMPIO DELLA FORTUNA EQUESTRE

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NEL PLASTICO NON VIENE RIPORTATO MA E' ALTAMENTE PROBABILE CHE SI
TROVASSE NEL PUNTO EVIDENZIATO

Il Tempio della Fortuna Equestre venne promesso e dedicato nel II sec. a.c., e collocato secondo i più, tra il Circo Flaminio e il Teatro di Pompeo nel Campus Marzio; Non ne esistono resti archeologici e la sua posizione esatta è una questione piuttosto dibattuta ancora oggi.



QUINTO FULVIO FLACCO

Questi nel 185 a.c. fu designato come edile curule senza mai ottenerne la carica. Diventato finalmente pretore nel 182 a.c. ottenne la Spagna Citeriore dove riuscì a scacciare i Celtiberi (popolo celtico) dalla città di Urbicua, che avevano conquistato e subito dopo li sconfisse in una grande battaglia, uccidendone 23.000 e facendone prigionieri 4.000 (Liv. 40,40,10, 44,9). 

Quindi riconquistò la città di Contrebia Belaisca, sconfisse nuovamente i Celtiberi, i quali in maggior parte si sottomisero ai Romani. Quando, però, stava per lasciare la Spagna, i Celtiberi lo attaccarono mentre passava attraverso una gola. Flacco, nonostante la posizione disperata, e grazie soprattutto alla sua valorosa cavalleria, mise alla fuga i Celtiberi che fuggirono dopo aver perso circa 17.000 uomini. Flacco aveva promesso in questo frangente di indire giochi in onore di Giove e di costruire un tempio alla Fortuna Equestre, quindi tornò a Roma.

Nel 180 a.c., al suo ritorno, gli fu concesso il trionfo, i giochi promessi a Giove furono deliberati dal Senato e quindi celebrati a spese dello stato. Flacco, nominato intanto console, marciò contro i Liguri, li sconfisse di nuovo e conquistò il loro campo, tanto che, al suo ritorno a Roma, gli fu concesso un secondo trionfo.

Nel 174 a.c. fu impegnato nella costruzione del tempio promesso in Spagna, per il quale fece rimuovere il tetto del tempio di Giunone Lacinia a Crotone, che si trovava nel Bruzio, per poter riutilizzare le lastre in marmo per il nuovo tempio. Il senato però gli fece riconsegnare il marmo nel Bruzzio e gli ordinò di compiere sacrifici riparatori da offrire a Giunone. Dedicò il tempio alla fine del suo mandato come censore il 13 agosto del 173 a.c.. (Livy 42.10.5, Degrassi, Inscr. Ital. 13.2, 494-95).

Dopo la censura Flacco divenne pontefice, ma dette segni precisi di disturbi mentali e i romani ritenevano fosse la punizione di Giunone per il sacrilegio. Quando poi gli giunse notizia che dei suoi due figli, che combattevano in Illiria, uno fosse morto e l'altro gravemente malato, si impiccò nel sua camera da letto (173 a.c.).



LA LOCALIZZAZIONE

Vitruvio ((3.3.2) localizza il tempio vicino al teatro edificato in pietra "Fortunae Equestris aedis ad theatrum lapideum", e lo menziona come esempio di tempio "sistilo" (con l'intercolumnio, o spazio tra due colonne, pari a due volte il diametro di una colonna). Dal momento che ciò venne scritto prima della metà degli anni 20 a.c., il tempio vicino a quello della Fortuna Equestre potrebbe essere stato solo il Theatrum Pompeium, il Teatro di Pompeo.

Fu infatti nel 55 a.c che Pompeo aveva eretto questo teatro, che da lui prese il nome. Era in affetti il teatro più grande e nessuno dopo poteva uguagliarlo. Vi si scorgono le grandi scale che portano al tempio di Venere, così come lo stadio, composto da una serie di gallerie accatastate. In realtà, per sfuggire ai censori che vietavano questo tipo di intrattenimento, la formula del tempio teatrale permise di eludere il divieto includendo un tempio.

Pietilä-Castrén, seguendo Coarelli (1981), teorizza che questo tempio fosse invece a nord del teatro di Pompeo e che fu distrutto quando Agrippa costruì lo "Stagnum Agrippae". Richardson offre una diversa teoria: nel 22 d.c. l'Ordine Equestre chiese a Tiberio di edificare un Tempio della Fortuna Equestre dove potessero fare offerte votive per la salute di Livia (TAC, Ann 3.71.1).

A Roma edificare un tempio era un problema non tanto per il costo quanto per il luogo; la città era edificata in ogni suo mq e non rimanevano posti liberi tranne che distruggendo qualcos'altro. D'altronde l'imperatore non poteva ignorare la richiesta degli equites, un ordine così importante sia per l'enorme apporto nelle battaglie, sia perchè questi militari provenivano in genere da ottime famiglie.

TEMPIO DELLA FORTUNA EQUESTRE
Era importante perciò accontentare una tale richiesta sia per non scontentare gli equites, sia perchè chiedevano di poter fare sacrifici alla Fortuna Equestre per la salute di Livia, la madre di Tiberio. L'anziana augusta, vedova di Augusto era molto cara alla popolazione e pure agli equites. Era invece meno cara a Tiberio che non vedeva di buon occhio le sue intromissioni nella sua politica.

Richardson suggerisce che in quel momento la mancanza di un appropriato santuario a Roma sembrò diventare un problema, perchè il tempio era stato distrutto di recente, forse nell'incendio del 21 d.c. che gravemente danneggiò il Teatro di Pompeo (Tac., Ann 3.72. 4, 6.45.2). Non sappiamo però se fu ricostruito sopra al vecchio o rifatto ex novo, tuttavia gli equites ottennero il loro tempio.

Infine, una nota di Obsequens indica che questo tempio sorgeva ad una estremità di un portico collegato al Tempio di Iuno Regina, che si trova a sud est del Teatro Pompei; Supponendo che il portico seguisse la linea del fiume e / o il Circo Flaminio, potremmo trovare tranquillamente il Tempio della Fortuna Equestre anche a sud del teatro. Su questa prova, quindi, il tempio si suppone che non sia stato situato a nord del teatro, dove lo Stagnum lo avrebbe sostituito nell'ultimo quarto del I sec. a.c, ma a sud di esso, dove fu distrutto nel 21 d.c.



CENTUM CELLAE - CIVITAVECCHIA (Lazio)

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Per la prima volta il nome di Centumcellae, letteralmente cento camere, appare in una lettera in cui Plinio il Giovane avverte l'amico Corneliano di essere stato chiamato dall'imperatore Traiano per il "Consilium Principis" non a Roma, ma presso la sua villa, situata a Centum Cellae, una «Villa pulcherrima cingitur viridissimis agris», come descritta da Plinio.

Questo luogo era prossimo al cantiere dove erano in corso grandi lavori per la costruzione di un nuovo porto sul Mar Tirreno a nord di Roma, ai piedi dei monti della Tolfa nel 107 dc. 

Ivi giunto Plinio poté ammirare i grandi lavori, destinati a far sorgere il porto che avrebbe conservato in eterno, come Plinio auspicava, il nome del suo fondatore. 

L'imperatore Traiano vi aveva infatti trasferito la propria residenza per controllare e accelerare la costruzione del porto.

Dopo l’eruzione del Vesuvio (79 d.c.) e il lento insabbiamento del porto di Ostia (che oggi si trova a 8 Km. dal mare) Roma si sentì costretta a trovare una soluzione.

Così 'Imperatore Traiano inviò qui il suo fidato architetto Apollodoro di Damasco che progettò e gettò le basi del nuovo porto di Roma. 

Le esigenze portuali di Roma spinsero in effetti per la costruzione di un nuovo bacino che supplisse all’uso non più conveniente del Tevere, di Ostia e degli scali campani. 

I lavori per il nuovo approdo vennero affidati si ad Apollodoro di Damasco, ma seguiti direttamente dall’imperatore Traiano.

Il significato di Centum Cellae per anni è stato luogo di discussioni, alcuni ritengono che esso si riferisca al numero di insenature naturali presenti sulla costa, oppure ai numerosi ambienti costruiti nella darsena per la raccolta merci, ma è stato ritenuto più probabile che centum, aggettivo latino che indica un numero grande ma indefinito, si riferisca alle stanze della Villa di Traiano, la quale, dicono, è ancora da collocare... e da scoprire.

Ma non è vero, è stata già trovata e ampiamente fotografata, ma nessuno ne vuol sapere perchè nella zona navigano a vista troppe speculazioni edilizie. 




LA VILLA DELL'IMPERATORE
(Fonte)

"la costruzione era imponente e comprendente gli elementi che caratterizzano il rango imperiale del luogo. 

Si possono vedere la base del peristilio, la probabile piscina, l’abside circolare e probabili ambienti termali, visto che si trovava a metà strada fra Terme e porto come descritto da Plinio il Giovane. 

TERME TRAIANE
Tali elementi sono evidenti, dall’alto e da vicino. 
 In quei terreni sino al 1996 non esistevano costruzioni. 

Le foto attuali dimostrano, invece, che molte case son state costruite anche a ridosso della Villa di Traiano e altre se ne vorrebbero edificare intorno”. 

In parole estremamente povere, si tratta di un altro tesoro di Civitavecchia la cui esistenza viene ignorata dalla maggior parte della popolazione e dalle varie classi dirigenti che si sono succedute, come i resti romani sotto Corso Marconi o sotto Piazza Vittorio Emanuele, o come quelli della Mattonara e della località Casaverde. 

Ebbene, Traiano fu l’imperatore che ingrandì, più di tutti gli altri, l’impero romano e la nostra città ne seppellisce ogni ricordo. 

E’ superfluo ricordare che l’antichità di Roma è un unicum nella storia mondiale, Civitavecchia ne possiede alcuni frammenti e non solo non li valorizza a livello turistico, ma cerca anche di farli passare del tutto inosservati, altrimenti qualcuno potrebbe cercare di lottare per far finire questa vergognosa speculazione edilizia che affigge da decenni la città.

Passino le situazioni in cui il danno è ormai irreparabile, nessuno dice di buttar giù le case dei cittadini, ma per la Villa di Traiano il discorso non vale: la zona è immersa nel verde circostante, abbandonata a sé stessa e con il cemento delle costruzioni sempre più vicino, troppo pericolosamente vicino. 

Nessun intervento per preservare e valorizzare reperti storici di valore, senza nessuna esagerazione, inestimabile.

“Credo che  bisognerebbe impedire ulteriori speculazioni ed informare gli organi interessati di ciò che in questi anni è avvenuto in barba a vincoli e buon senso, ed eventualmente predisporre una fruizione da parte di cittadinanza e circuito turistico”.



L'IMPIANTO ROMANO

Pertanto Civitavecchia dovrebbe essere stata fondata intorno al 107, quando iniziarono i lavori del porto, terminati poi nel 110, in soli 3 anni... Naturalmente la città ebbe un'urbanistica romana, con un Foro, Cardo Massimo, l'attuale Corso Marconi e un Decumano Massimo.

TERME TRIANE TAURINE
La città fu edificata su progetto dell’architetto di Traiano, Apollodoro di Damasco, insieme al grandioso Porto, ed ebbe vita prospera per tutta l’età imperiale e ancora oltre fino all’inizio del IX secolo, quando fu distrutta dai Saraceni. 

La città romana era dotata di basiliche, magazzini, acquedotto, terme. Centumcellae, già municipio poco dopo la sua fondazione, divenne municipio successivamente all’editto di Costantino.

Col declino dell'Impero decaddero città e porti, anche se Centum Cellae, come riferisce il poeta Rutilio Namaziano verso l'inizio del V secolo ancora esisteva.

Infatti Namaziano, tornando via mare in Gallia, si fermò presso Centocelle e ne descrisse sia la bellezza del porto che delle Terme di Traiano.

Queste infatti, seppur lontane tre miglia dalla riva, erano di facile accesso al viaggiatore che stanco dei viaggi voleva rinfrescarsi e divertirsi un po'.

Nell'828, in seguito all'invasione distruttiva dei Saraceni, la popolazione abbandonò la città rifugiandosi prima sui monti, poi in un nuovo sito chiamato "Cencelle" (per distinguerla dal primitivo), fino a quando non fece definitivamente ritorno nel 889 nella città d'origine, cambiandone il nome in Civitas Vetula (Città Vecchia) per distinguerla da Cencelle.




LE TERME

L’impianto moderno si è quasi completamente sovrapposto alle strutture antiche, di cui si conservano i resti del porto, con due moli e torri con funzioni di faro, e il complesso delle Terme Taurine, già di età sillana, ma risistemate in età traianea.

Nella parte di età repubblicana si trovano il calidarium, il laconicum (sauna), il tepidarium (ambiente tiepido di passaggio dopo il bagno caldo), l’apodyterium(spogliatoio) e il frigidarium.

La zona imperiale consiste in un raddoppio degli ambienti esistenti, oltre ad una biblioteca, a una sala di rappresentanza e a una serie di piccoli ambienti (cubicula), usati come camere da letto (forse le famose cento celle).

Le terme sfruttavano tre sorgenti distinte. 

La prima è situata su un colle e viene chiamata di Sferracavalli; le altre due sono poste a nord-est e distano dalla città non più di 5 chilometri: una sgorga dentro le rovine delle Terme Taurine e l’altra è quella della Ficoncella, l’unica sorgente attualmente sfruttata.


L'edificio, in eccellente stato di conservazione, si estende su una superficie di due ettari.
Il primo nucleo del complesso risale ad età tardo-repubblicana o augustea mentre gli impianti successivi sono d’età flavia e adrianea.

L’impianto è di forma rettangolare, in opus reticulatum, imperniato intorno ad un grande peristilio.

Tutto l’edificio ruota in realtà attorno alle strutture termali: vi sono un taepidarium, unlaconicum, un calidarium e altri piccoli vani di servizio; notevole il secondo piano con terrazza coperta a padiglione costruito sopra il calidarium. 

Sul colle detto "La Ficoncella", ad un chilometro circa in linea d'aria dalle Terme Taurine, esisteva un altro piccolo centro denominato Aquae Tauri, di origini molto antiche. 

In età Sillana (tra il 90 ed il 70 a.c.) fu eretto un nuovo edificio che prese il nome di Terme Taurine, data la vicinanza con il predetto centro abitato, ed ebbe il massimo sviluppo in età Traianea, subendo un ulteriore ampliamento verso la fine dell'impero di Adriano. 

La zona termale fu notevolmente frequentata durante tutta l'età imperiale, ma perse progressivamente di importanza con la decadenza dell'impero fino all'abbandono causato dalla guerra tra Goti e Bizantini.

MARMI PREGIATI
Le terme erano stupende, decorate con marmi pregiati di varie qualità e colore, con pavimenti musivi a tessere bianche e nere che ricoprivano i pavimenti come tappeti arricchiti di disegni fantasiosi e diversi, non c'erano due mosaici uguali. 

Inoltre i marmi ricoprivano pareti, archi, si innalzavano i molteplici colonne e fontane, in statue e bassorilievi, epigrafi e decorazioni raffinate.

Ogni zona delle terme aveva le sue colonnette, le sue erme, i suoi vialetti, i suoi alberi, siepi, erme e cornicioni scolpiti, con stanzette di relax e di svago, per mangiare, leggere, fare salotto o fare affari.



GLI SCAVI

Le prime indagini sull'area archeologica risalgono alla metà del 1700, ad opera del governo pontificio. 

Agli inizi del 1900 si operarono i primi interventi sistematici, a spese dello Stato, che portarono alla scoperta delle Terme Repubblicane, delle quali sino ad allora si ignorava l'esistenza. 

MURA ROMANE DEL PORTO
Per anni sono proseguite le indagini che hanno messo in luce buona parte del complesso termale, permettendo di identificarne diversi settori. 

Il complesso cessò di funzionare durante la guerra tra Goti e Bizantini, tuttavia le prodigiose acque continuarono a sgorgare nell'edificio abbandonato ed ormai in rovina. 

Alla metà del secolo scorso si studiarono progetti per riattivare le Terme mediante il restauro dell'edificio antico, ma poi l'idea venne abbandonata. 

Attualmente l'intero complesso è visitabile, e si consiglia di iniziare il percorso dalla zona delle Terme Repubblicane, presso la casetta del custode.

Nelle vicinanze del sito archeologico, tra le colline della campagna laziale, si trova lo stabilimento delle Terme di Finconcella. 

Le Terme hanno conservato la loro antica struttura, fatta di cinque vasche in pietra all'aperto da cui si può ammirare il panorama delle vallate sottostanti e del mare da una parte, dei Monti della Tolfa dall'altro.



L’ACQUEDOTTO

Contemporaneamente alla costruzione del porto traianeo e alla fondazione della città di Centumcellae, tra il II e il III secolo d.c., venne costruito un acquedotto per l’approvvigionamento idrico della popolazione che si stava stabilendo alle spalle del porto, lungo i due assi viari, il Cardo Massimo e il Decumano di cui restano ancora numerose testimonianze nel sottosuolo della città. 

TERME
La città romana, già notevolmente ingranditasi dopo solo qualche anno dalla fondazione del porto, dato i numerosi traffici via mare che procuravano guadagni e lavoro, fece si che l’imperatore Traiano decidesse che, accanto alla costruzione del suo grandioso scalo portuale dovesse essere messa in cantiere anche l’edificazione di un grandioso acquedotto che provvedesse alla fornitura di acqua potabile.

Una città senza acqua non sarebbe mai stata nè civile nè bella. I romani tenevano alle acque come nessun popolo al mondo. 

Si consideri che un romano a Roma consumava di acqua pro capite tre volte quello che può consumare un cittadino romano di oggi.

Un romano degno di tale onorevole cittadinanza doveva essere pulito e profumato. Perfino i soldati lo erano. Ricordiamo che Giulio Cesare disse dei suoi soldati: - Si profumano ma combattono bene. -

Poi coll'avvento del cristianesimo la nudità e la pulizia divennero peccato, il corpo diventò una cosa spregevole e curarlo troppo divenne segno di tendenze demoniache e peccaminose. 

Pertanto il colera, da tanti anni debellato a Roma dalle numerosissime terme, tornò ad essere di casa tra la popolazione, letteralmente sterminandola durante tutto il medio eco.

Per iniziare i lavori dell’imponente ed impegnativa struttura furono aperte cave di pietra e di vari materiali, fornaci per produzione di mattoni e strade di servizio per il passaggio degli uomini e dei carri, ancora oggi percorribili e giunte fino a noi grazie al recupero che, alla fine del XVII secolo, venne fatto dell’intera struttura da Papa Innocenzo XII.

Se infatti oggi abbiamo memoria tangibile di tutto il percorso dell’acquedotto di Traiano è grazie alla perfezione dell’antico tracciato romano, talmente funzionale ingegnoso da essere recuperato e restaurato dopo oltre quindici secoli per dotare la città di Civitavecchia di acqua fresca e abbondante.

Il ritrovamento di numerosi mattoni in laterizio con bollo PORT-TRAI nell’aerea della sorgente delle Trinità e in varie parti dell’acquedotto, conferma la presenza di fornaci presso le quali venivano prodotti direttamente i mattoni per valorizzare, attraverso l’acquedotto e le terme, l’area di Centumcellae.

Gli stessi mattoni sono stati infatti rinvenuti sia presso le Terme Taurine che nel cimitero dei Classiari a Prato del Turco. Stando ai ritrovamenti, sembra che l’acquedotto sia stato edificato su una struttura preesistente, sicuramente etrusca.

CISTERNA ROMANA


LA CISTERNA ROMANA

E' stata aperta al pubblico l’antica cisterna romana, di Civitavecchia, situata all’interno della Caserma Giorgi.

Lo ha annunciato il Centro Simulazione e Validazione che ha spiegato: 

ACQUEDOTTO SOTTERRANEO
«La cisterna è stata scoperta alla fine degli anni ‘80 dall’archeologo civitavecchiese Ennio Brunori che, sulla base di piante e documenti di fine XVII secolo, ha rinvenuto un locale utilizzato per la misura di portata dell’acqua che immetteva, tramite due stretti e separati ingressi con scale di pietra, in due ampie cisterne ancora intatte»

Con il contributo della Fondazione Cariciv sono stati effettuati, a cura del Centro, lavori per rendere più agevole l’accessibilità alla cisterna, così da rendere possibile la visita al manufatto.


LUCREZIO CARO

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TITUS LUCRETIUS CARUS

Nome: Titus Lucretius Carus
Nascita: 98 a.c., Campania
Morte: 55 a.c., Roma
Professione: Poeta e filosofo


Lucrezio - Inno a Venere - (De rerum natura 1-49)

- Madre di Enèadi, piacere di uomini e Dei, Venere vivificante,
che sotto le mobili costellazioni celesti ravvivi il mare portatore di navi,
la terra che reca le messi, poiché grazie a te ogni genere di esseri animati
è concepito e vede la luce del sole:
te, dea, fuggono i venti e le nuvole del cielo,
per te la terra industriosa fa crescere fiori soavi,
per te sorridono le distese marine, e,
rasserenato, brilla di luce il cielo.
Infatti, non appena la bellezza della primavera si svela,
ed il soffio di Zeffiro prende forza,
per prima cosa gli uccelli del cielo annunciano te e il tuo arrivo,
o dea, colpiti in cuore dalla tua potenza.
Quindi le bestie feroci balzano per i pascoli rigogliosi
e attraversano i fiumi vorticosi: così prese dal fascino,
ti seguono desiderose ovunque tu voglia condurle.
Infine per mari e monti e fiumi impetuosi
e frondose dimore di uccelli e campi verdeggianti,
ispirando a tutti nel cuore un soave amore,
fai sì che con desiderio perpetuino le stirpi.
Tu puoi bastare da sola a reggere il mondo,
e solo per le tue grazie a noi è dato ammirare
tutto quello che esiste di dolce ed amabile. -

(Lucrezio - De Rerum natura - libro III)

- E spesso per la paura della morte, l'odio della vita
e della vista della luce colpisce a tal punto gli uomini
che essi si danno la morte con animo straziato,
non ricordando che è questo timore la fonte degli affanni,
che questo distrugge il pudore, che questo rompe i legami d'amicizia,
e, insomma, convince a distruggere la pietas. -

Lucrezio a Venere:
"Quando tu vieni, fuggono i venti e si dileguano le nuvole; 
per te la terra la fiorire il leggiadro ornamento dei fiori, 
per te sorride lo specchio delle acque del mare, 
e gli spazi lucenti del cielo splendono in silenzio ".

Tito Lucrezio Caro (in latino Titus Lucretius Carus) nacque in Campania, nel 98 a.c. o secondo altri nel 96 a.c. e morì a Roma, nel 55 a.c. o secondo altri nel 53 a.c.. Fu un grande poeta e filosofo romano.

Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana né sembra esistere negli scritti dei contemporanei in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la lettera di Cicerone "ad Quintum fratrem II", contenuta nella sezione "Ad familiares", dove dà notizia dell'edizione postuma del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando.

Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo Chronicon, in cui ci dice che circa nel 94 a.c.
"Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, sua manu se interfecit anno 44"
("nasce il poeta Tito Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto alcuni libri negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò all'età di quarantaquattro anni").

Questo dato però non concorda con Elio Donato (IV d.c.), maestro di San Gerolamo, secondo cui Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato nel 70 a.c.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Si crede dunque che Lucrezio nacque nel 98 a.c. per poi morire nel 55 a.c., all'età di quarantaquattro anni. Si sa inoltre che Gerolamo era poco obiettivo con i pagani, e di certo un Lucrezio che non crede negli Dei è peggiore di quelli che ci credono, in quanto questi ultimi sono pagani ma il primo è ateo, pertanto molto più biasimevole, e sembra logico che un ateo si suicidi.

Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere la Campania e più precisamente Pompei o Ercolano, per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città. Si ignora pure la sua condizione sociale, sebbene i tria nomina e il suo anelito pacifista facciano optare nascita aristocratica. Non si conoscono neppure le sue idee politiche in quanto il suo desiderio di pace prima non rievoca il rimpianto rancoroso aristocratico che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma più il desiderio dell'epicureo, che vede nella pace e il benessere di tutti una vita serena.

« Oh misere menti degli uomini, oh animi ciechi! [alla dottrina di Epicuro]
In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi pericoli
si trascorre questa breve vita! »
Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera un "placida pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine.

LUCRETIUS (Brughes)

LE IPOTESI

Il latinista Luca Canali ha avanzato una tesi piuttosto bizzarra (per alcuni da intendere come provocazione) ripresa da un'affermazione di San Girolamo, secondo la quale l'autore del De rerum natura sarebbe un Cicerone giovane, mentre Lucrezio non sarebbe mai esistito.

Tale tesi ha il difetto di non tenere nel dovuto conto gli aspetti stilistici, non ciceroniani, dell'opera.

Si ipotizza che Cicerone, poco convinto dell'opera, l'avrebbe pubblicata sotto lo pseudonimo di "Lucrezio", in una specie di rinnegamento dei suoi scritti giovanili.
La tesi si basa principalmente sul fatto che Cicerone è l'unico contemporaneo a parlare di Lucrezio. Inoltre: fu Cicerone a pubblicare il De rerum Natura per primo, con una nota introduttiva che disprezzava l'opera, proponendola come esempio da non imitare, anche se, nel 54 a.c. in una lettera al fratello Quinto cicerone scrisse:
"Lucretii poemata, ut scribis,ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis"
(le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e pure di molta arte).

Il prestigio del nome di Cicerone come autore, sostenuto da San Girolamo, avrebbe così salvato l'opera in quanto ritenuta, appunto, di Cicerone. C'è anche da aggiungere che l'ecclesiastico San Girolamo,  cercò di denigrare Lucrezio che era pagano, non credeva tanto negli Dei, ed essendo un atomista, non credeva nell'immortalità dell'anima.

Secondo Lucrezio, e non solo, le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe.

VENERE
La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinati, critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. Alcuni teologi cristiani come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi impropriamente alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante.. Strano che nessun psicoanalista abbia invece diagnosticato la follia dell'Apocalisse di San Giovanni che è chiaramente psicotica.

In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio potrebbe essere un tentativo di mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni. Del resto si disse che anche Cesare era epilettico senza averne una prova.

Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di San Girolamo si fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione Luc., impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione Luc. potrebbe così aver prodotto lo scambio dei due personaggi.

L'intento di Lucrezio nel De rerum natura, è di divulgare la filosofia epicurea, invitando il lettore alla pratica di essa, nonchè il tentativo di spingerlo a liberarsi dall'angoscia della morte e degli Dei. Nel contempo Lucrezio è ottimista, vi sono guerre e conflitti ma nel futuro la situazione politica migliorerà.

Egli dunque si prospettava di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che aveva declinato in favore dello stoicismo. La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più propriamente romana: non c'era un dovere romano di civilizzare il mondo; egli crede in un mondo che non è unico nell'universo, che peraltro è infinito, anzi esso stesso è uno dei possibili mondi tutti esistenti o che esisteranno.

Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile come utile ma falsa. Egli afferma fin dal I libro del De rerum natura:

« Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti Dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori!»
( De rerum natura, vv. 101-106)

Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli Dei latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli Dei, seppur esistenti e anche loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la Divina Voluptas: il piacere, la vita stessa intesa come animazione regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra.

Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo affine ai poeti delle origini, soprattutto ad Empedocle (secondo per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità prettamente umana, universale e per tutti, che diventerà ben presto per la salvezza di Roma.

Il dedicatario dell'opera è il Claris Memmiadis Propago, ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si fa indicare con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è proprio il giovane aperto e pronto ad ogni esperienza che un giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con così tanto fervore da Lucrezio.

Ma, almeno con Memmio, egli fallì. Questi infatti da adulto divenne un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e fu allontanato dal Senato "Probi Causa", ovvero per immoralità. Dopo di ciò si riparò in Grecia, dove scrisse poesie licenziose, e dove lo cita anche Cicerone (Ad Familiares), pronto a voler distruggere la casa e il giardino dove proprio Epicuro risiedette, suscitando lo sdegno degli epicurei che fecero istanza a Cicerone di intervenire per impedirglielo, cosa in cui anche Cicerone fallirà.

In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua), lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, per quanto proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia.

Dovette affrontare il problema di tradurre i termini filosofici greci in latino, evitando la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος), usando invece termini latini dandogli altra accezione, o ricorrendo all'arcaico neologismo. Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un razionale scritto filosofico, ma attraverso un poetico mondo di immagini.



DE RERUM NATURAE

EPICURO
Poema didascalico, di natura scientifica-filosofica, in esametri, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi), dedicato a Gaio Memmio, sul modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle.
Secondo i filologi l'opera corrisponderebbe ad un gusto alessandrino.

L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade comincia con un inno ad Epicuro e l'ultimo libro termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il II libro inizia con un inno alla scienza e il III libro con l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.

Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo ed Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.


Critiche

Per molti critici il De Rerum Natura sia un libro incompiuto. Infatti se Lucrezio voleva trasmettere un'etica, egli non ne rese note le leggi o le caratteristiche. Questa fu invece la grandezza di Lucrezio: trasmettere, attraverso l'analisi del cosmo, un'etica implicita che proponesse valori predefiniti, ma l'arte del pensare e dell'avere dubbi, cercando non solo le verità ma cosa sia più onesto credere.


La Legge sui Corpi

Sul piano teorico l'opera di Lucrezio è geniale perchè più che assicurare teorie si fa domande:
« Perciò è sempre più necessario che i corpi deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce. Infatti è evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna deviazione dalla linea retta del loro percorso?»
( Lucrezio, La natura delle cose)

E aldilà delle leggi della fisica:
« Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro percorso non in un momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra. »


Anima e Corpo

Geniale anche l'intuizione che nella separazione tra corpo e anima vi può essere solo morte. Non è un caso che gli psicotici gravi tendano sempre al suicidio.
« Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi. »
(De rerum, vv.329-336 )


La Religione

Ancora fuori degli schemi è il suo concetto sulla religione:
Secondo Lucrezio, che riprende Epicuro, la religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente e, soprattutto, di poter accedere alla felicità.

Il poema osserva la lacerante antinomia fra ratio e religio. La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo, quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza, che lo stesso Lucrezio denomina spesso "superstitio", come insieme di credenze e comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degli Dei.

Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa, Lucrezio denuncia le nefaste conseguenze della religione  portando ad esempio esempio Ifigenia, ed afferma che il mito è una rappresentazione falsata della realtà (cfr. Evemerismo). La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini.

« Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti Dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori! Giustamente, poiché se gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli, in qualche modo potrebbero contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo occorre che non i raggi del sole né i dardi lucenti del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la scienza... E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi. »


La Dottrina Epicurea

Epicuro è per lui il sommo che non ha paragoni:
E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo. "

Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono:
- l'aggregazione atomistica
- la parenklisis (che egli ribattezza clinamen),
- la liberazione dalla paura della morte,
- la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici.

Vi associa però un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, dovuto probabilmente a un suo stato depressivo.

Per Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. il che in un certo senso è vero, anche se alcune specie si estinguono non perchè malformate ma perchè sono cambiate le condizioni dell'ambiente.


Il Progresso dell'Uomo

Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura. Tuttavia il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, è da condannare.


Anima e Animus

Lucrezio chiarisce nel III libro del De rerum  il concetto di animus in rapporto a quello di anima:
« Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo, che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura dell'animo e dell'anima - quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto d'altrove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il corpo. »
(De rerum natura, III, vv. 130-146)

Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con l’ultimo respiro". L’"animus" invece è identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino con mens. Dunque animus e mens paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell’unità mentale. L’indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la sensibilità umana, centro dell’emozione e del sentimento. Parrebbe allora che l’animus sia insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima è soffio vitale.

VIA OSTIENSE

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I Romani nella costruzione delle strade, prendevano in considerazione i tre principi di Vitruvio: la solidità, l'utilità e la bellezza. Le strade servivano per spostare rapidamente le truppe verso la conquista dell'Italia e delle nuove province, per i commerci e per il sale delle saline.

La via Ostiense, il cui tracciato costituiva un naturale prolungamento della via Salaria, fu iniziata nel IV sec. a.c., esattamente nel 335 a.c., con lo scopo di ricollegare l'Urbe con le saline poste lungo la foce del Tevere.

La Via Ostiensis fu un'importante arteria, con un percorso di circa 30 km che collegava l'Urbe al suo porto più importante, quello di Ostia antica, dal quale porto la via prende il nome.
Essa fu un'opera di raffinatissima ingegneria, più rara tra le strade romane dell'epoca, infatti fu realizzata in modo tale da superare il dislivello della collina di Dragoncello e sollevare il piano stradale dagli acquitrini circostanti.

A partire dal Km.17 dell'odierna strada statale (che segue grosso modo il medesimo tracciato), proseguendo verso il fosso di Malafede, ne sono stati riportati alla luce tratti per una lunghezza di 400 m.


Il basolato della pavimentazione, nelle zone in cui è scampato alle asportazioni dei secoli antichi, ma pure a quelli del '900, è perfettamente conservato e la carreggiata è larga quasi 5 m. La consolare è fiancheggiata da tombe semplici, non monumentali, oltre a necropoli e ville rustiche. Solo nel territorio del XIII Municipio, tra il fosso di Malafede, Via C. Colombo, Via di Acilia e l'attuale Via Ostiense, sono state rinvenute tre di queste ultime, ma chissà quante sono ancora sepolte

La Via iniziava presso il Forum Boarium, usciva dalla porta Trigemina delle Mura serviane, percorreva le pendici occidentali dell'Aventino da nord a sud e riceveva un ramo che partiva dalla porta Lavernalis e un secondo, poco dopo la Piramide Cestia con la quale si allineava, che si dipartiva dalla porta Raudusculana.



PIRAMIDE CESTIA -  VEDI

Dopo circa due km, si giungeva ad una vasta area cimiteriale, utilizzata tra la fine della Repubblica e il V sec. d.c. Un tratto di quest'ultima strada è stato ritrovato nel fosso che corre attorno al Cimitero degli Inglesi nel 1824. Questo cimitero monumentale, detto anche Cimitero del Testaccio, o Cimitero degli artisti e dei poeti, si trova nel quartiere di Testaccio, vicino a Porta San Paolo, a lato della Piramide Cestia. A 6 km (4 miglia) da Roma, all'altezza del vicus Alexandri, dalla via Ostiense si separava la via Laurentina, verso Lavinio.

Con la costruzione delle Mura aureliane, la via Ostiense fu fatta passare attraverso la Porta Portuense, oggi porta San Paolo. Nel tardo impero i commerci si impoverirono ed Ostia decadde. Contemporaneamente perse d'importanza anche la Via Osiense, soppiantata dalla via Portuense, fin dai tempi di Costantino. La via Ostiense e la via Campana erano entrambe sotto un curator appartenente all'ordine equestre.

OSTIA ANTICA

OSTIA ANTICA  -  VEDI

Proseguendo sulla via Ostiense si incontrano le catacombe di Commodilla, Felice ed Adautto che sono state in gran parte utilizzate tra il IV e il V sec. a.c. Superato il raccordo anulare, dopo circa un km, c'è un ponte romano situato sotto il fosso di Malafede, un ponte a tre fornici costruito in blocchi di tufo quadratum. La via Ostiense porta poi all'entrata degli scavi di Ostia antica, città  fondata da Anco Marzio (Livio, Ab urbe condita, I, 33, 9 ), nella seconda metà del VII secolo a.c., ma che oggi si suppone posteriore: forse del IV sec. a.c. 

Sicuramente edifici più antichi giacciono ancora sepolti in zone inesplorate, ma per ora il nucleo più antico che conosciamo di Ostia è il "castrum":  un avamposto con la flotta che doveva garantire il controllo delle vie di traffico lungo la foce del Tevere. Questo nucleo, costituito sui due assi viari principali, ebbe una enorme crescita economica, demografica ed urbanistica, insieme agli impianti portuali posti lungo il fiume.

Sappiamo, inoltre, che dal 277 d.c. furono istituiti ad Ostia i questori "classici" (della flotta), o più propriamente "Italici", i quali sorvegliavano le attività marittime nella regione di loro competenza. Il porto di Ostia era la via fondamentale di approvvigionamento di Roma, ma anche del sale delle saline.

Verso la metà del III sec. d.c. iniziò il declino per la crisi economica e sociale dell'Impero romano. Ostia, nel Medioevo, come tutti i monumenti romani, divenne una grande cava di marmi che venivano saccheggiati per abbellire altre città.



LA CAPPELLA DELLA SEPARAZIONE 

Tra il numero civico 106 e il 108 della via Ostiense si possono vedere una lapide ed un bassorilievo che ricordano la cappella della Separazione oggi demolita per l'allargamento della strada e sorta dove Pietro e E Paolo si abbracciarono l'ultima volta prima di avviarsi al martirio. Una lapide altrettanto interessante che ricorda questo episodio si può vedere nella Chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini dove si legge:

CAPPELLA DELLA SEPARAZIONE
"In questo luogo si separarono  S. Pietro et  S. Paulo.
Andando al martirio et disse Paulo a Pietro
La luce sia con teco fundamento della chiesa
et pastore di tutti gli agnelli di Christo
et Pietro e Paulo va in pace predicator
de' buoni et guida della salute de' giusti"

Nel punto dove avvenne l’ultimo saluto, fu in seguito eretta una cappella, poi una chiesetta, detta della "Separazione", che sopravvisse fino al novecento; oggi, esiste una lapide posata nel corso dell’Anno Santo 1975 che contiene in pochissime parole il ricordo dell’avvenimento:

"Nei pressi di questo sito
una devota cappellina
in onore del Santissimo Crocifisso
demolita agli albori del secolo XX
per l’allargamento della Via Ostiense
segnava il luogo
dove secondo una pia tradizione
i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo
vennero separati nell’avvio
al glorioso martirio"

A coronamento di questa lapide un semplice bassorilievo rammenta i due Apostoli nell’atto dell’estremo abbraccio. Ora in detto luogo vi era il Praedium Lucinae. Si ritiene da alcuni che la sepoltura di S. Paolo sia avvenuta in un’area cimiteriale lungo la via Ostiense, in un podere, secondo la tradizione, di proprietà di una certa Lucina (praedium Lucinae); ci è testimoniata per la prima volta dal passo di Gaio, già citato a proposito di Pietro, che alla fine del II secolo, al tempo del pontificato di papa Zefirino (198-217), dice: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa» (in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, II, 25, 6-7). 

e poi:

"A m. 50 a valle dalla cappellina della Separazione, sul lato sinistro orientale della via Ostiense, in vicinanza del primo termine chilometrico, è stato scoperto un muraglione costruito a massi di tufo, lungo almeno 22 m.x m. 0,50. Sembra estendersi a maggior distanza da un lato e dall'altro del cavo. Contro di esso viene ad intestare un'altra parete, a pie della quale corre un canalone di scolo.
Il muraglione forma un'angolo di circa 70° con l'asse della via Ostiense moderna; e tale sua inclinazione giova a riconoscere entro certi limiti la topografia e l'andamento della antica. In secondo luogo perchè, fra la sommità del muraglione ed il piano della via moderna sono stati scoperti molti pentagoni basaltini spettanti ad una via forse dell' VIII forse del XII sec., sull'asse della quale è orientata la Cappellina (cfr. Armellini Chiese p. 743).

VIA OSTIENSE

Sul PRAEDIUM LUCINAE

Nella relazione della Direzione dei Musei Vaticani sulle attività della Santa Sede del 2009, nelle
Indagini archeologiche eseguite a San Paolo alla fine della prima pagina si legge: “L’intervento 
edilizio ha creato un forte impatto ambientale sull’area in origine adibita a parco e non ha reso 
possibile l’auspicata conservazione e valorizzazione in loco di tutti i resti archeologici, per la 
maggior parte demoliti dopo i rilievi e il recupero dei mosaici -  e ancora - L’intervento edilizio, se 
da un lato ha creato un forte impatto visivo sull’ambiente circostante (Basilica, Monastero e orto di 
San Paolo) ed ha interrotto la visione e l’unità interpretativa d’insieme del complesso monumentale 
basilica-monastero altomedievale, dall’altro renderà interamente fruibile l’area archeologica 
all’interno di un grande ambiente sotterraneo. Dalla relazione, dunque, si evince come ci siano 
stati danni irreparabili al patrimonio archeologico e paesaggistico anche se si cercherà 
di musealizzare ciò che è rimasto". 

Ma cosa era stato trovato negli ormai sotterranei dell’ospedale? Una villa romana, forse appartenuta
alla famiglia dei Calpurnii Pisones, come testimonia un’epigrafe ritrovata, che si estendeva, quasi
sicuramente per più di 1100 mq con una datazione che andava dal I secolo a.c. al III d.c. La villa
sorgeva in una posizione particolarmente favorevole per i collegamenti fluviali e terrestri, su un
modesto terrazzamento naturale con orientamento nord-sud prospiciente la riva del Tevere. C’erano
le terme, gli ambienti residenziali, i giardini e non era molto distante dal complesso Basilica e
Tomba dell’Apostolo Paolo (tradizione del praedium Lucinae).

La nuova sede del Bambin Gesù di San Paolo, operativa dal 10 settembre, è una struttura di
eccellenza - dichiara Andrea Catarci, Presidente del Municipio Roma XI - Nel celebrarne i fasti non
si può ignorare quanto ad essa è stato però sacrificato. Nel sottosuolo di quell’area in cui il cardinal
Bertone ritiene di aver portato dignità e decoro era segnalata la presenza di un’antica villa romana
di età imperiale e del cimitero di San Paolo, così come la presunta armonia tra la millenaria Basilica
e il nuovo complesso nella realtà si traduce nell’impossibilità di vedere la Basilica da più di un lato,
proprio per i palazzi appena costruiti”.

BASILICA DI SAN PAOLO

BASILICA DI SAN PAOLO

Si arriva finalmente alla Basilica di S. Paolo. S. Lucina, nobile matrona e discepola dell'Apostolo, possedeva qui una villa, ove seppellì il cadavere del Maestro. Papa Anacleto vi edificò un oratorio, convertito più tardi in basilica dall'imperatore Costantino. Restaurata più volte nel corso dei secoli, essa prese fuoco la notte del 15 luglio 1823. La riedificazione della basilica sulla forma dell'antica, cominciò da Leone XII.

Il fatto è che santa Lucina non è mai esistita
"Lucina, martire, santa, plausibilmente è da considerarsi più come simbolo della pietà femminile cristiana in generale, che non persona realmente esistita. Una reliquia non insigne era a S. Cecilia in Trastevere. A Roma santa Lucina, discepola degli Apostoli, la quale, provvedendo colle sue sostanze alle necessità dei Santi, visitava i Cristiani chiusi in carcere, e attendeva a seppellire i Martiri, presso i quali anch'essa, in una cripta da lei fabbricata, fu sepolta."

Per giunta il praedium, tradotto in genere come podere, era in  realtà un suolo occupato non per diritto naturale ma per diritto acquisito, come ad esempio un bene immobile acquisito per usucapione o come bottino di guerra. Il Predium Lucinae fa pensare all'aedes di un tempio o un'edicola della Dea Lucina (in genere di Giunone Lucina) occupato dalla chiesa cristiana e, come usò spesso all'epoca, demolito in ogni statua o reperto di ordine religioso e risantificato con un tempio o emblema cristiano.

RESTI DEL TEMPIO IN LUCINA
A SAN PAOLO
Anche della Chiesa di S. Lorenzo in Lucina si scrisse che Lucina era una matrona romana che aveva concesso il terreno e la costruzione a sue spese. Così per la Basilica di S. Paolo; in realtà la Dea Lucina era in genere Venere Lucina, oppure Giunone Lucina, ambedue protettrici dei parti.

Evidentemente c'erano dei templi in zona, lo testimoniano le colonne di recupero dell'esterno in cipollino e in fondo alla Basilica le 80 colonne di granito, e i pilastri di cipollino e i numerosi architravi in marmo pario, tutti pezzi romani di recupero.

I fondi delle pareti sono tutte incrostate di ricchissimi marmi, quali il porfido, il verde antico, il rosso sanguigno, ecc. Il pavimento è composto di splendidissimi marmi anch'essi provenienti da templi pagani. Le tre porte che danno sulla grande navata sono ricchissime, e quella di mezzo ha due stupende colonne di alabastro giallo orientale, donate a Gregorio XVI con quelle dell'altare maggiore dal vice-re d'Egitto.
Il grande Arco detto di Placidia perchè fatto adornare da lei, è sorretto da due grosse colonne di granito.
L'altare papale è sostenuto da quattro colonne di porfido, e coperto esso stesso da un altro baldacchino che si appoggia su quattro colonne, di alabastro orientale coi piedistalli incrostati di malachite e di lapislazzuli.

Gli altari della crociera dedicati a S. Paolo e a S. Stefano sono ricchi di malachite e di lapislazzuli, donati con quelli dell'altare maggiore a Gregorio XVI da Nicolò I imperatore di Russia. L’ultima cappella è dedicata a S. Benedetto; riproduce la cella di un tempio pagano e le dodici colonne di marmo grigio provengono dall’antica Veio.

Nel chiostro sono disseminati monumenti, iscrizioni, bassorilievi, sarcofagi che per la maggior parte provengono dall’attigua necropoli della via Ostiense, databili dal I sec. a.c. al III sec. d.c., oltre a un sarcofago del IV sec. di Pietro di Leone sui cui fianchi è rappresentata la “sfida di Marsia” e il “Supplizio di Marsia”; su di un fronte sono raffigurate “Le muse” e sull’altro tre barche sulle quali vi giocano bimbi alati.

NECROPOLI A SAN PAOLO

LA NECROPOLI 

Presso la basilica, si estende un'area sepolcrale utilizzata dal II sec. a.c. fino al V sec. d.c., sviluppatasi su diversi piani sovrapposti, testimonianza del passaggio dal rito funerario dell'incinerazione a quello dell'inumazione che comunque in parte a Roma c'era sempre stata. La zona fu scavata nel sec. XX ma molte tombe vennero distrutte con la costruzione della strada. Alcuni sepolcri sono stati posti sotto un'area recintata restaurata in occasione del Grande Giubileo, ma naturalmente non sono visibili.

Infatti gran parte della necropoli ancora conservata nel sottosuolo ha un'estensione che deve ancora essere indagata e perimetrata, Nel’700 durante i lavori condotti nella vigna di fronte al monastero, emersero alcune tombe, altre furono scoperte successivamente; altre ancora negli anni 1859 e 1872 nella vigna Villani, all’angolo tra la via Ostiense e la via delle Sette Chiese. 

NECROPOLI A SAN PAOLO
Le scoperte più consistenti furono, però, quelle relative agli anni 1897/98, quando nel versante orientale della via Ostiense si operò un vasto sterro per la posa in opera di un grande collettore di scarico, portando alla luce numerose sepolture, purtroppo distrutte e non documentate, che restituirono un ingente materiale epigrafico.

Solo negli anni 1917/18 nell'allargamento della via Ostiense si è proceduto ad una documentazione della necropoli ancora conservata, un ulteriore allargamento del 1933 portò lo scavo fino alle pendici della Rupe mettendo in luce i sepolcri attualmente visibili. Le tombe seguono l’andamento nord/sud dell’asse della via Ostiense e dimostrano una continuità d’uso dal I sec.a.c.. al IV sec.d.c., con riti funerari di incinerazione e inumazione, tra la fine dell’età repubblicana, il I secolo dell’impero ed il successivo II secolo.

I più antichi edifici funerari sono in prevalenza "colombari" a pianta quadrangolare nelle cui pareti interne erano ricavate piccole nicchie, in file di più piani, per la deposizione delle urne cinerarie.
Nel 2000, il settore del sepolcreto è stato annesso all'area verde del Parco Schuster.

NECROPOLI A SAN PAOLO
Sul lato destro dell’Ostiense in direzione Piramide, vi sono ancora notevoli sepolcri purtroppo in cattivo stato di conservazione, come il colombario n. 30 costruito nel I. sec. d.c. dalla gens Pontia, una struttura rettangolare con tre livelli di nicchie poste sui lati maggiori. Su un lato breve situato a nord-est è stato ritrovato un ambiente dove con un podio finemente decorato da pitture che rappresentano una gazzella sbranata da due fiere, motivi floreali e piccoli uccelli posti su due esili pilastri.
Continuando la Via Ostiense e pigliando nell'incontro di un bivio la via a sinistra, detta Ardeatina, dopo un Km e mezzo si giunge a S. Paolo alle tre Fontane: Il pavimento ha nel suo mezzo un bellissimo mosaico, trovato negli scavi di Ostia, rappresentante le quattro stagioni.

VILLA DI BRUTO E CASSIO (Tivoli - Lazio)

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STAMPA DEL 1700 RAFFIGURANTE I RESTI DELLA VILLA DI BRUTO


LA VILLA DI BRUTO

E’ lui, il retore Cicerone, a fornirci l’indizio per quel mastodontico cumulo di rovine, sospese tra gli ulivi, che si coglie scendendo lungo la via Tiburtina, tra questa e la sovrastante via di Pomata, non lontano da Tivoli. Ci suggerisce il nome di Bruto, del cospiratore e congiurato di Cesare, meglio noto come Marco Giunio Bruto Capione che si macchiò del cesaricidio nelle infauste idi di marzo.


La via di Pomata

BRUTUS
Lunga circa 5 Km, è un antichissima strada di controllo degli acquedotti romani. L'Anio Vetus e l'Aqua Marcia procedono quasi sempre sotterranei; dell'Aqua Claudia, III sec. d.c., si incontrano lunghi tratti in laterizio severiano con contrafforti. Più significativi sono i resti dell'Anio Novus.

In questa zona si possono ancora ammirare i resti di ville di epoca repubblicana e imperiale, quali la villa c.d. di Bruto, la villa c.d. di Cassio, quella degli Arcinelli e la villa di Grotta Papale. I giardini di queste dimore erano abbelliti da splendide fontane, copiose e stupende statue. magnifici ninfei, alberi secolari, tempietti, siepi e vasi in marmo e in pietra..

“Ma in qual luogo fu concepito il Piano terribile di si strepitoso avvenimento? Bruto aveva la sua Villa in Tivoli, pervenuta ad esso da Marco Bruto il giurista, padre di Bruto l'oratore suoi ascendenti; e Cassio non meno aveva nello stesso territorio una Villa più nobile, e magnifica di quella di Bruto. Ora se dobbiamo prestar fede alle patrie memorie, i due Capi della congiura nella solitudine di queste loro Ville, e di questi luoghi appartati, e, dalla Capitale distanti, deliberarono di pugnalare il tiranno della loro Patria “(Sante Viola, Storia di Tivoli dalla sua origine fino al secolo XVII, 1819, 223)


"Ma l’enigma resta e già da tempo appare sospeso in una sorta di limbo decifratorio a cui l’archeologia ancora oggi non dà conforto, incamerando, in questa sospensione di nomi e proprietà la vicina villa di Cassio, anch’essa di incerta attribuzione.


I RESTI OGGI
Questa villa già di M. Bruto il giurista si fa comunemente passare in proprietà di M. Bruto il congiurato per ragioni ereditarie, senza verun fondamento, anzi contro il fatto; poichè è verissimo, che M. Bruto il giurista aveva in Tibur un suburbanum menzionato da Cicerone nell’ orazione pro Cluentio ‘Cap. Ll; ma è vero altresi, che M. Bruto l’oratore, il quale l’ereditò dopo la morte del giurista, lo vendè con la villa Privernate, colla villa Albana, colli bagni, e coll’intiero patrimonio non avendo perdonato neppure alla sedia del padre, ove dava risposta a suoi clienti, come gli viene rinfacciato da M. Grasso nell’ oratore di Cicerone leggansi il numeri 223 a tutto il 226 del libro II. Se dunque la villa tiburtina era stata venduta da Bruto l’oratore, in qual modo mai poteva pervenire in eredità a Bruto uccisore di Cesare , come suppone il sig. Nibby, e qualche patrio scrittore?
(Filippo A. Sebastiani - Viaggo a Tivoli, antichissima citta' latino-sabina, fatto nel 1825: lettere, 1828, 235).

Ma nel dedalo di ipotesi la villa resta, e la si coglie dal basso nel suo gigantesco basamento in reticolato bicromo in tufo e palombino, nel gioco di linee e triangoli. Il suburbano, databile intorno alla metà del I sec. a.c., si arrampica su due ampie terrazze, spinte da tre muraglioni in un vasto e scenografico respiro sulla campagna tiburtina.
Era servito dall’Anio Novus e dal Vetus, per disporre al meglio delle acque, anticipando uno di quegli aspetti caratterizzanti la migliore tradizione delle ville di Tivoli. Dotato di ambulacri e lunghi criptoportici, pare disponesse pure di un teatro, di cui oggi purtroppo non restano tracce, a testimonianza di un’idea già compiuta, in età tardo repubblicana, di fasto e spettacolarità delle architetture dell’otium. Inutile sottolineare l'opera secolare di spoliazione senza alcun riguardo per l'are e la bellezza.


STAMPA DEL 1700 CON I RESTI DELLA VILLA DI CASSIO


LA VILLA DI CASSIO

Definita come una splendida villa a più piani, sembrerebbe a tre piani, al km 29,5 della Tiburtina, con potenti sostruzioni di cui una crollata recentemente a causa della pioggia. E ti pareva, quando mai si fanno opere di mantenimento per le zone archeologiche in Italia? D'altronde lasciamo crollare Pompei, la Domus Aurea, il Colosseo ecc. ecc.
CASSIUS
Negli scavi del 1773-75 fu portata avanti una campagna di scavi dal tiburtino Domenico De Angelis e Antonio de Matthias in cui si rinvennero ben 33 opere fra statue, erme, colonne e pure un celebre mosaico policromo di Flora finito in Russia. All'epoca i papi vendevano le statue all'estero, il che ha riempito i musei di tutto il mondo, sempre meglio comunque di quando le statue le facevano a pezzi.

Tra le statue il famosissimo Apollo Citaredo oggi in Vaticano. Nel 1779 altri scavi fecero emergere altri 39 pezzi, tra cui la splendida statua di Thalia, tutti finiti ai Musei Vaticani. Databile tra fine repubblica e inizi impero, appartenne al famoso assassino di Cesare, con una pianta di base di m 200 x 50 a più piani. Le volte a botte conservano tracce di stucchi.

Una villa che accoglieva ben 72 statue e tutte di valore doveva essere eccezionale, purtroppo tanto gusto e tanta bellezza non impedì a Cassio di occuparsi dell'omicidio di Cesare, cambiando forse il corso della storia.

Peccato che si taccia delle mura poligonali, dette pure "Mura Pelasgiche" su cui poggiava la villa, mura molto più arcaiche della villa stessa, visto che dette mura risalgono fino al 1500 a.c. e che dovevano pertanto essere pertinenti a un'arcaica cittadina, ma non ne ho trovata menzione.

Invece vi si accenna sulla villa di Bruto, evidentemente ambedue le ville, del resto contigue, poggiavano sulle antiche mura pelasgiche di una cittadella perduta:

ALCUNE DELLE PREGEVOLI STATUE RITROVATE NELLA VILLA
"Nel 1810 Carlo Sickler erudito sassone che dimorava in Roma, per aver visto a Tivoli, presso la
strada di Carciano, nel luogo ov’era la villa di Bruto, un muro di maniera ciclopica sorgere, a suo dire, sopra un basamento di costruzione romana a calce, s’indusse a credere che anche il muro sovrastante di grossi massi fosse opera dei Romani. 

Mala stima però egli faceva di ciò che osservava; e come anche allora avrebbe dovuto parergli contro ogni ragione d’arte che si fosse incominciato un muro con piccoli sassi e calcina, per seguitare a fabbricarlo con smisurati massi a secco, così ora è ben riconosciuto che quel muro antichissimo, rimasto in aria nel dinanzi, per essere il suolo stato corroso dalle alluvioni; i Romani, che edificarono la villa, sostituirono al mancato terreno quell’appoggio di muro cementizio. 

Non essendo ciò stato ben considerato dal giovane sassone, egli entrò in una via di errori, che percorse insino alla fine. Era in quegli anni la ricerca e lo studio delle antiche costruzioni in grandissima voga; e Marianna Dionigi, colta e gentil donna romana, andava a diletto ritraendo i monumenti di questa specie, sparsi per le città del Lazio, col pensiero di mettere in luce, come fece, questi suoi lavori. Incominciatane la pubblicazione, e venuta alle mani del Sickler la incisione nella quale si vede sorgere il vescovato di Ferentino sopra muri antichi, credette di aver trovato in quelli la prova evidente della falsità del sistema del Petit - Radel. 
Allora, senza por tempo in mezzo, diede alla stampa uno scritto, nel quale, esposte le sue considerazioni sopra i monumenti di Tivoli, dove scambia per sostruzioni di case, e per sostegni di terrapieni gli avanzi di muri e di ieroni pelasgici; pose a suggello del suo discorso la novella osservazione fatta sul detto muro di Ferentino. 


CALLIOPE
Affermava vedersi quivi una costruzione di maniera ciclopica, terminata con opera quadrata orizzontale, e leggersi in questa una iscrizione latina, che ricorda come A. Irzio e Marco Lollio fecero edificare tutta quanta quella muraglia dalle fondamenta. 
Ecco dunque il sistema, che attribuisce ai soli Pelasgi le costruzioni dette ciclopiche, essere evidentemente falso; avendo di queste fatto uso gli stessi Romani. La novità levò grande romore, ma l’inganno fu breve; imperocchè essendo allora in Roma Edoardo Dodwell, celebre viaggiatore inglese, e facilmente il maggiore e più autorevole conoscitore di siffatti monumenti, al quale il muro di Ferentino era benissimo noto; sia per amore al vero, sia perchè a ciò richiesto dal Petit - Radel, che era in Francia, fece alla Dionigi stringentissime istanze, perchè palesasse al pubblico, che cosa si dovesse pensare del lavoro da lei divulgato. 
Questa signora dichiarò allora lealmente di aver disegnato il muro con libertà di paesista, esagerando ad arte, per ottenere maggiore effetto, la irregolarità delle pietre della parte inferiore, le quali, nel vero, erano disposte a filari quasi perfettamente orizzontali. E il Dodwell poi, con un diligente disegno del muro, mostrò che quello, a malgrado di alcune irregolarità accidentali, che si possono notare anche nel colosseo, era un’opera romana, che nulla aveva che fare colle costruzioni ciclopiche."

"La villa (detta di Cassio sulla strada di Calciano) è a tre grandi ripiani . . . conteneva fonti, peschiere, tempio, e teatro . . . Dal card. Ferdinando de Medici, che fu poi granduca di Toscana nel 1580, vi furono scavate statue, colonne ed altri fini marmi  (Bulgarini, p. 109). Il cardinale ebbe anche marmi scritti tiburtini, fra i quali il piedistallo di C. Aemilius Antoninus CIL. tomo XIV, n. 3650, e quello della vestale Saufeia Alexandria, n. 3877."

La presenza a Villa Adriana di un ciclo di Muse cd. Thespiades è accostabile a quelle rinvenute nel 1774 presso la Villa tiburtina di Cassio, a non molta distanza da quella imperiale, e nel 1829 presso la Villa dei Bruttii Praesentes a Monte Calvo, in Sabina, non deve stupire anzi deve portare alla conclusione che proprio il ciclo adrianeo sia stato alla base delle scelte decorative degli altri complessi residenziali.

D'altronde è logico, erano gli imperatori che dettavano la moda. Viene da chiedersi però chi usufruisse ormai della villa ai tempi di Adriano, visto che sicuramente dopo la battaglia di Azio i possedimenti di Cassio dovevano essere stati confiscati da Augusto per donarli ad altri. I tradimenti verso l'imperatore coinvolgevano l'intera famiglia del traditore, provocando almeno l'esilio di tutta la famiglia.

"Uscendo (da Tivoli) dalla porta S. Croce, e prendendo la via di Carciano, così denominata dal fundus Cassianus, del quale si trova menzione fino all'anno 945, come dal codice riportato dall'Ughelli rilevasi, dopo breve tratto di cammino si giunge agli avanzi di questa stessa villa. Il suo nome dimostra apertamente, che ella appartenne dal celebre Cajo Cassio uno de' cospiratori, anzi uno de' principali uccisori di Cesare. 

Si veggono ancora avanzi magnifici delle sostruzioni, sopra le quali questa villa si ergeva, le quale estendendosi di molto, provano quanto questa villa fosse grande. La sua costruzione reticolata è curiosa per la mescolanza, che vi si vede di pietra calcarea, e vulcanica, cosa, che non ho osservato in alcun altro edificio costrutto in quella maniera. 

Ma se le rovine sue mostrano la grandezza di questa villa, le scoperte preziose, che in varie epoche si sono fatte, dimostrano quanto questa villa medesima fosse decorata di marmi, e di sculture. Oltre le cose preziose scopertevi dal Cardinale Ferdinando de' Medici, oggi esistenti in Firenze; oltre le colonne, e gli altri marmi, che ivi furono trovati ai tempi degli antiquarj Tiburtini Cabral, e Del Re, nell'anno 1774, e negli anni seguenti vi furono trovate otto delle Muse, che oggi danno nome alla famosa sala del Museo Vaticano, l'Apollo Citaredo, un Fauno, un giovanetto dormiente in piedi, una Pallade, tre ermi di Savii della Grecia, sei colonne di granito, ed un mosaico; meno questo ultimo oggetto, il resto si trova tutto nel Museo Vaticano. 

Ai tempi del Zappi, antico storico Tiburtino, si riconoscevano ancora dieciotto spaziose camere per abitazione, che formavano l'edificio principale della villa, il quale era decorato esternamente da colonne doriche. Si pretende, che in questa villa si ordisse la famosa congiura contro Cesare."

I LUDI VOTIVI

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Rovescio della moneta, con i Ludi Votivi in onore della vittoria di Silla, dove la Dea Vittoria incorona Roma seduta sugli scudi. E' la prima moneta che cita Ludi votivi. L'iscrizione cita:
SEX NONI PR (praetor) L ( ludos) V ( victoria) P ( primus ) F (fecit).



LUDI VOTIVI DI GUERRA

I Ludi Votivi erano i giochi che i generali romani facevano celebrare quando partivano per le guerre o che promettevano di celebrare in caso di un pericolo imminente. Erano sia di natura privata che pubblica.

I voti pubblici, durante la Repubblica, appaiono per la prima ed unica volta su un denario della Gens Nonia. M. Nonius Sufenas. denario, zecca di Roma 59 a.c., il cui rovescio ha per iscrizione SEX NONI PR L V P F (Sexius Noniius Primus o Praetor Ludus Votivus Publicos Fecit).

Alla vigilia di una guerra importante i Romani cercavano di rendersi propizi gli Dei offrendo loro, in cambio della vittoria sperata, voti solenni: piuttosto frequenti risultano essere, a partire dal III sec. a.c., quelli aventi per oggetto la celebrazione di ludi magni.

I voti per i ludi potevano essere: pubblici (ordinari o occasionali) oppure privati:

- I voti erano Pubblici, quando chi assumeva l’impegno nei confronti degli Dei era, tramite il console, la città intera: i magistrati cum imperio, infatti, pronunciando le parole di rito, vincolavano la repubblica e non se stessi, tanto che il voto in seguito veniva per lo più adempiuto da soggetti diversi dai promittenti, ossia dai magistrati eletti per gli anni successivi, i quali assolvevano l'impegno per l’intero popolo nei confronti della divinità.

- I Ludi Magni detti anche Maximi o Romani, che si celebravano annualmente nel mese di settembre, venivano indetti ogni anno dai consoli con voti ordinari. Questi voti venivano pronunciati dai consoli al momento di entrare in carica, per assicurarsi la prosperità corrente e normale dello stato.

- Oppure i voti erano Occasionali, perché tali voti, diversi da quelli ordinari, avevano carattere eccezionale, essendo offerti per impetrare il favore degli Dei per la buona riuscita di un’impresa che ci si accingeva a compiere, in genere, neanche a dirlo, una guerra. I ludi magni votivi, promessi agli Dei in situazioni di imminente e grave pericolo, erano dunque più rari dei voti ordinari e quindi dei ludi maximi.



I LUDI MAXIMI (ordinari)

I Ludi Maximi, o Magni, o Romani erano una festività che ebbe inizio nel 366 a.c. e andavano dal 12 al 14 settembre, connotati come Ludi Ordinari (quindi annuali), che poi furono estesi dal 4 al 19 settembre e con cadenza sempre annuale. Detti Ludi Magni in quanto erano i principali, erano dedicati a Giove e, secondo la tradizione, furono istituiti dal re Tarquinio Prisco per la conquista della città latina di Apiolae, ma per altri autori per la vittoria sui Latini nella battaglia del Lago Regillo (496 a.c.).


DENARIO DELLA GENS NONIA SUFENIA
Inizialmente i Ludi Romani duravano un giorno solo, ma un secondo giorno fu aggiunto per celebrare l'espulsione dei re da Roma, nel 509 a.c., e un terzo dopo la secessio plebis del 494 a.c. Dal 191 al 171 a.c. ebbero una durata di dieci giorni, mentre poco prima della morte di Gaio Giulio Cesare duravano probabilmente quindici giorni, dal 5 al 19 settembre. Dopo la morte di Cesare fu aggiunto un ulteriore giorno, probabilmente il 4 settembre, e infatti in epoca augustea, in cui i giochi si tengono dal 4 al 19 settembre.

I primi voti votivi vennero effettivamente istituiti, come dice Cicerone per la guerra latina (ma potevano essere antecedenti e se ne erano perdute le tracce:

"Questo episodio lo raccontano tutti gli storici, come Fabio, come Gellio, ma per ultimo Celio: durante la guerra latina, mentre avvenivano per la prima volta i ludi votivi massimi, improvvisamente tutti i cittadini furono chiamati alle armi; perciò, essendo stati interrotti quei ludi, furono celebrati i "ludi sostitutivi". 

Prima che essi incominciassero, quando già gli spettatori si erano seduti, uno schiavo fu strascinato per il circo, costretto a portar la forca, mentre intanto lo si percuoteva con le verghe, Poco dopo un romano del contado vide in sogno presentarglisi un tale che gli disse che nei ludi il capo dei danzatori sacri non gli era stato ben accetto, e gli ordinava di far noto ciò al senato. 

Quel tale non osò obbedire al sogno. Una seconda volta egli ricevette in sogno quest'ordine e fu ammonito a non sfidare la potenza di colui che gli appariva; ma nemmeno allora osò obbedire. Dopo di ciò suo figlio morì, e in sogno per la terza volta si ripeté quell'ammonizione. 

Allora egli, già indebolito, riferì il fatto agli amici, e per loro consiglio fu portato in lettiga nella Curia; e dopo che ebbe raccontato ai senatori il sogno, poté tornarsene a casa a piedi sano e salvo. Accertata la veridicità del sogno, il senato indisse da capo quei ludi: così si narra. 

Un altro esempio: Gaio Gracco raccontò a molti - lo riferisce il medesimo Celio - che nel periodo in cui aspirava alla questura gli apparve in sogno il fratello Tiberio e gli disse che indugiasse pure quanto voleva, ma sarebbe morto della stessa morte che era toccata a lui. Celio scrive che, prima che Gaio Gracco fosse eletto tribuno della plebe, egli aveva sentito dire ciò da lui stesso, e che lo aveva detto a molti altri. Che sogno si può citare più sicuro di questo?"
(Cicerone - lib I)

Sempre i comandanti partendo per il campo e talvolta anche nel cuore della battaglia si obbligava con voto alla celebrazione dei giochi in onore degli Dei se loro concedessero la vittoria, perché intimamente persuasi che la Divinità reggesse tutti gli avvenimenti.

Quando il popolo romano decretò che si facesse guerra ad Antioco re della Siria il console Acilio al quale era toccata in sorte una tale spedizione fece per ordine del senato il voto seguente di cui il gran pontefice gli dettava le parole (Liv l 56 c 1): 
"Se la guerra che il popolo romano ha ordinato che si faccia ad Antioco riesce e si terminerà secondo i desideri del senato e del popolo romano allora o sommo Giove il romano farà festeggiare i grandi giochi per dieci giorni continui e si offriranno doni a tutti gli altri Dei e s impiegherà per tali cerimonie la somma di denaro che sarà determinata dal senato."




ALTRI GIOCHI ORDINARI, CIOE' ANNUALI:



LUDI VICTORIAE CAESARIS

duravano dal 20 al 30 luglio (dal 27 al 30 al circo). Furono i giochi indetti da Cesare  e dedicati a Venere Genitrice, presunta ava e fondatrice della dinastia di Cesare, si svolsero nel circo e proseguirono per tutto l'impero.



- LUDI VICTORIAE SULLANAE

duravano dal 26 al 31 ottobre e 1 novembre, dedicati alla Dea Vittoria. Indetti da Silla vennero proseguiti anche da Augusto, nonostante Silla fosse stato il nemico di suo padre Cesare. A questi ludi allude la moneta della gens Nonia di cui sopra.

"Ludi Victoriae Sullanae primum anno 81 a.c..n. celebrati sunt per septem dies a 26 Octobris usque ad 1 Novembris ut proelium iuxta Portam Collinam die 1 Novembris 82 a.c. bono successu pugnatum ad honorem deae Victoriae commemoreretur. 

Qui ludi etiam Augusto imperatore annuatim celebrabantur. De eis a denario iussu M. Nonii Sufenae anno 63/62 a.c. incuso (incavato) discimus ".



LUDI ESPIATORI (straordinarii)

Se si propagava un'epidemia o dopo la perdita di una battaglia si celebravano giochi solenni per calmare la collera dei Dei a cui si attribuivano tali disgrazie. Non era importante la ragione per cui gli Dei fossero in collera.  I romani, da buoni razionalisti, pur essendo molto religiosi non erano fanatici per cui non cercavano mai i responsabili della collera divina.

Questa poteva dipendere da un rito omesso o fatto male, o da un generale che si era macchiato di colpe, o dal popolo che non aveva onorato sufficientemente gli Dei. Su tutto questo non si indagava evitando così le persecuzioni, cosa che spesso non facevano e non faranno altre religioni, anche più moderne.



VOTO DI VER SACRUM (straordinario)

Il Ver Sacrum veniva celebrato in occasione di carestie e in momenti difficili, o per scongiurare un pericolo grave. Spesso il pericolo era l'eccessiva popolazione che avrebbe portato carestia, per cui tramite questo rituale si favorivano i processi migratori.

Questo rituale era diffuso presso i Sabini e, sporadicamente, praticato anche dai Romani; traeva origine da una promessa al Dio Mamerte (il Dio Marte presso gli Osci) per cui si offrivano, come sacrifici, tutti i primogeniti nati dal I marzo al I giugno (oppure, nel caso dei Sabini, quelli nati dal I marzo al 30 aprile) della seguente Primavera.

Gli animali venivano effettivamente sacrificati, mentre i bambini venivano invece sacrati (consacrati agli Dei) per poi, giunti all'età adulta, dover emigrare per fondare nuove comunità (colonie). La migrazione era guidata secondo una procedura totemica: si interpretavano i movimenti ed il comportamento di un animale-guida, per trarne auspici e indicazioni sulla direzione del viaggio. Ogni tribù aveva un animale sacro agli Dei; per i Sanniti era il toro, per i Lucani il lupo, per i Piceni il picchio ecc.



VOTI EX CERTA PECUNIA

Da Liv. 31,9,10 apprendiamo che le offerte votive dei grandi ludi a Giove erano state fatte, prima del 200 a.c., in ben otto occasioni, "de certa pecunia", ossia con l’inserimento nella formula da pronunciare, predisposta dal collegio pontificale, di una clausola contenente l’indicazione esatta della somma di denaro da accantonare e, eventualmente, da spendere per la celebrazione dei giochi, nel caso di esaudimento della richiesta da parte del Dio.

Abbiamo ampia documentazione del voto del 217 del dittatore Tito Manlio Torquato, che aveva tuttavia offerto dei ludi magni anche prima di quell’anno, e che ne indisse ancora  nel 208. Il problema della formula della certa pecunia riguardò i ludi votati nel 217, insieme ad un Ver Sacrum, durante il pontificato massimo di Lucio Cornelio Lentulo Caudino.

In quell’occasione i grandi ludi, che avevano un carattere anche espiatorio, non solo propiziatorio, come sarà nel 200, erano stati prescritti dal collegio dei decemviri sacris faciundis; e non sappiamo se i pontefici fossero stati interpellati per la formula del rito, perchè Livio scrive di una sententia del collegio sulle formule da osservare, ma la riferisce genericamente a tutte le cerimonie prescritte dai sacerdoti in quell'epoca.

Di solito si richiedeva ufficialmente il parere dei pontefici, in caso di novità o di incertezza: ma non era questa la circostanza, visto che voti "ex certa pecunia" per i ludi erano già stati pronunciati in passato.

Ma non si può escludere che il decreto pontificale relativo alla formula del ver sacrum non sia stato applicato anche ai ludi, come sembra suggerire il fatto che la condizione apposta ai due voti era molto probabilmente la stessa (eiusdem rei causa), ovvero la sopravvivenza della repubblica nel successivo quinquennio.

La somma da mettere da parte per la celebrazione dei giochi venne immediatamente fissata e ammontava a 333.333 e 1/3 di asse, secondo quanto attesta Livio; è evidente che il tre ripetuto fosse un numero simbolico che ben si adattava a un tema sacro (probabilmente allusivo alla trinità della Grande Dea arcaica).

L’importo indicato da Livio equivaleva a circa duecentomila assi, che probabilmente era il totale delle somme stanziate per l'investimento nei giochi votati in precedenza, che venne ricompreso nella formula, alla quale il magistrato si sarebbe poi dovuto attenere nella nuncupatio (dichiarazione orale) del voto.


La  consultazione del collegium pontificum

La procedura di consultazione nelle materie di diritto sacro pubblico, mirava a ottenere la pronuncia del collegio pontificale su problemi nuovi circa le regole da applicare o i procedimenti da seguire.
Per le questioni di routine, invece il senato si avvaleva dell’esperienza passata.

Il senato, con un suo primo provvedimento, incaricava il magistrato di consultare ufficialmente il collegio dei pontefici, i quali si riunivano, prendevano la decisione, la formalizzavano in un decreto e la comunicavano, tramite il pontefice massimo, alle autorità.

Ed erano ancora i patres che, mediante un senatoconsulto che non va confuso con il primo, ordinavano al magistrato di provvedere anche all'esecuzione del responso pro collegio. La necessità di questo secondo senatoconsulto derivava dal fatto che l'esecuzione del decreto, che imponeva la celebrazione di pubblici riti secondo particolari solennità, avrebbe poi comportato, nella maggior parte dei casi, l'assunzione di vincoli di natura religiosa a carico dell'intera cittadinanza.

Un pontefice incaricato dal collegio poteva anche intervenire alla celebrazione della cerimonia; in particolare, ove si trattasse di procedere alla nuncupatio di un voto, e ne dettava al magistrato la formula "praeire verbis" (a voce alta).

I "verba" (le parole) del voto erano suggeriti dal pontefice massimo o da un altro membro del collegio a seconda che il rito si svolgesse a Roma o sul campo di battaglia, o comunque in luogo lontano dalla città. Infatti fino a tutto il III sec. al pontefice massimo, che doveva accudire ai sacra, era fatto espresso divieto di allontanarsi da Roma, o almeno dall’Italia.

Nel caso dei ludi maximi il luogo della pronuncia del voto era sempre Roma e il procedimento sopra descritto fu certo durante tutta l'età arcaica, e risulta ancora osservato fra il III e il II sec. a.c.


La riforma del 200

Nel 200 a.c. la repubblica, già estenuata dallo scontro contro Cartagine, si apprestava a combattere un'altra guerra, quella con Filippo V di Macedonia, che all'inizio appariva forse più impegnativa di quanto poi non si sarebbe rivelata.

Per procurarsi il favore degli Dei, prima ancora che la guerra cominciasse, nel giorno stesso del suo insediamento, le idi di marzo, il nuovo console P. Sulpicio Galba, il quale apparteneva ad una fazione allora avversa a Scipione l’Africano, riferì al senato circa la guerra contro Filippo. Così venne approvata una delibera che ordinava ai magistrati supremi di compiere un sacrificio di vittime adulte e di rivolgere agli Dei una precatio, nel cui testo, riportato da Livio, compare un riferimento esplicito al conflitto che si stava per iniziare.

Le formalità rituali furono quindi correttamente adempiute e dall’esame delle viscere, eseguito dagli aruspici etruschi, si evidenziò l’assenso degli Dei alla guerra: "laetaque exta fuisse et prolationem finium victoriamque et triumphum portendi".

Più oltre si dice che ai consoli furono assegnate le province: la Macedonia toccò in sorte a Galba, il quale presentò ai comizi la rogatio per la dichiarazione di guerra. Ma questa venne respinta dal popolo, che era evidentemente stanco delle continue battaglie, ed era stato sobillato in tal senso dal tribuno Bebio, che, forse alleato di Scipione, avversava allora il console.

Dai fatti che seguono la discussione in senato, si evince che il partito favorevole alla guerra fece ricorso a tutti gli strumenti a sua disposizione per convincere il popolo; e quindi anche alla religione, cercando di diffondere la convinzione che sarebbe stato sacralmente inopportuno non approfittare subito del favore degli Dei, ai quali bisognava anzi ora rivolgersi con più particolare devozione e zelo.

Seguì infatti il voto "ex senatusconsulto" da parte dei consoli di una supplicatio di ben tre giorni e di implorazioni presso tutti i templi degli Dei affinché la guerra che il popolo aveva intimato avesse esito favorevole (bene ac feliciter eveniret).

La "supplicatio" era un rito greco, che si svolgeva al di fuori della tradizione pontificale, caratterizzato dalla partecipazione indifferenziata di tutto il popolo alla cerimonia, in un clima di forte coinvolgimento emotivo.

I LUDI

VOTI EX INCERTA PECUNIA

L'opinione pubblica, che a Roma aveva grandissimo peso, presa da suggestioni e scrupoli religiosi, esercitò una forte sollecitazione sul console affinché si procedesse in modo analogo alle cerimonie che si rivelarono tanto efficaci contro Annibale. Per cui si avanzò la richiesta del voto dei ludi magni e del dono da parte della intera civitas.

Il console dovette chiamare in causa il senato, a cui però egli doveva rendere conto, investito di una competenza sia religiosa che finanziaria. Il problema della somma da utilizzare per il voto, attingibile solo dall’erario, veniva amministrata dal senato, dal quale dipendevano i questori urbani.

Sorse però, da parte del pontefice massimo Publio Licinio Crasso, alleato di Scipione, il problema della inaccettabilità di un voto ex incerta pecunia. Licinio era molto famoso per la sua eloquenza, con cui espresse le sue perplessità, poichè la formula del voto, contrariamente alla tradizione, non indicava la somma di danaro da spendere per  i giochi, qualora gli Dei avessero accordato a Roma la vittoria.

Tale somma non poteva, secondo il pontefice, essere confusa con gli altri fondi destinati alla guerra, ma subito determinata e accantonata (seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri).
Neppure per Crasso un voto ex incerta pecunia sarebbe stato di per sé invalido: ma avrebbe comportato un grave rischio, quello della perpetua obligatio, ossia dell’effettiva assunzione di un impegno magari non adempibile, da parte del populo romano, nei confronti degli Dei, dei quali sarebbe potuta venire meno la benevolenza, o peggio, sollevare la collera.

Dunque se l'oggetto della promessa votiva era indeterminato, tale poteva essere anche la "risposta" degli Dei, ed anche nel caso in cui la condizione si fosse avverata, vi sarebbe stato poi il rischio di un adempimento irrituale. Il voto si fondava su una contropartita, e quello che si offriva doveva essere determinato tanto quanto quello che si chiedeva.

La repubblica, finita la II guerra punica, era in una situazione finanziaria precaria, e non poteva permettersi di accantonare e non utilizzare parte del denaro stanziato per la nuova guerra macedonica. Questo denaro, se il voto fosse stato ex incerta pecunia, sarebbe interamente finito nelle mani del console P. Sulpicio Galba, incaricato delle operazioni, che con quella impresa avrebbe cercato di accrescere il prestigio dei Servilii, cui apparteneva, tanto più che dopo la battaglia di Zama questa gens si era molto allontanata dalla fazione scipioniana.

Gli interessi dei Sulpicii Galba erano contrapposti a quelli dell'Africano. Il pontefice massimo, alleato di quest'ultimo, se fosse riuscito a far mettere da parte il denaro, avrebbe reso più difficoltose le operazioni di guerra e far sì che fossero rinviate ad un momento successivo, in cui non P. Sulpicio, ma un uomo politicamente più vicino agli Scipioni avrebbe potuto gestirle.

Il parere di Crasso non era comunque vincolante per gli altri pontefici, si che al console venne ordinato di interpellare il collegio pontificale, proponendo quindi un'impugnazione  contro il parere del pontefice massimo.

Nel 200,  i pontefici erano:

Pontefice massimo (plebeo): P. Licinio Crasso
Membri patrizi:
- M. Cornelio Cetego;
- Cn. Servilio Cepione;
- Ser. Sulpicio Galba;
-  C. Sulpicio Galba
Membri plebei:
- Q. Cecilio Metello;
-  C. Livio Salinatore;
- C. Servilio Gemino;
- C. Sempronio Tuditano (o ancora Q. Fulvio Flacco?).

Di questi, in particolare:


P. Licinio Crasso: esponente di un'antica gens tornata alla ribalta verso la metà del III sec., primo di quella famiglia ad essere insignito dell'epiteto Dives, era nato intorno al 235, cooptato nel collegio prima del 216, forse nel 218, e fu pontefice fino al 183, ma anche censore nel 210, pretore nel 208 e console nel 205..

Sulla sua edilità, per alcuni sarebbe da collocarsi nello stesso anno 212, in cui fu eletto pontefice massimo, così che egli fu il primo capo del collegio, dai tempi di P. Cornelio Calussa, ad essere investito della carica senza aver mai occupato magistrature curuli; secondo altri invece, Licinio Crasso era già stato edile l'anno prima, ed aveva acquisito attraverso i ludi da lui suntuosamente organizzati, grazie anche alla sua ricchezza personale (cfr. Plin. nat. 21,4,6) quella popolarità che poi gli fruttò l'elezione.

In realtà fu determinante la fama di esperto giurista (cfr. Liv. 30,1,4-6) che, già così giovane, egli si era guadagnato, oltre all'appoggio ricevuto dai suoi alleati politici. Crasso fu sempre molto amico di Scipione di cui era pressappoco coetaneo; le loro carriere politiche furono anzi parallele.
Ma contrariamente ad altri scipioniani, egli non fu mai coinvolto in scandali e processi, tanta era la stima che si era meritato per la serietà con cui esercitò il pontificato massimo.


M. Cornelio Cetego: forse già investito del flamonium Diale, era stato costretto ad abdicarvi nel 223 per un errore commesso nell'esercizio delle sue funzioni; ma a partire dal momento, in cui viene cooptato all'interno del collegio pontificale, nel 213 (cfr. Liv. 25,2,2), egli inizia la sua brillante carriera politica: pretore nel 211, censore nel 209, console nel 204.

Per imporsi sulla scena pubblica si avvalse anche della sua capacità di convinzione e della sua abilità oratoria: Ennio, nei suoi Annales (v. in Cic. Brut. 14,58), lo elogia come "suaviloquenti ore". A L. Cornelio Lentulo Caudino, nel 213, sarebbe potuto subentrare, nel collegio dei pontefici, anche Scipione, futuro Africano, ma gli venne preferito Cetego, appartenente ad una famiglia meno influente della stessa gens: forse perchè si oppose Q. Fabio Massimo, che allora dominava il collegio ed era avversario degli Scipioni; anche se non poté impedire la cooptazione di Cetego, che comunque era loro alleato.


Cn. Servilio Cepione: cooptato nel 213 (cfr. Liv. 25,2,1-2), appartenente al ramo patrizio dei Servilii, fece parte del collegio fino al 174; fu anche pretore nel 205 e console nel 203 . Il suo avvicendamento a Caio Papirio Masone non turbò gli equilibri interni del collegio: in quel momento i Servilii, come i Papirii, erano legati al gruppo emiliano-scipioniano, anche se poi, come già detto, cercarono di ritagliarsi uno spazio autonomo, costituendo, in collegamento coi Claudii e forse coi Fulvii, una forte coalizione a sé stante.
Secondo Cassola, op. cit., p. 415-416, 419, egli aderì alla linea dell'imperialismo estremista già sostenuta da Lentulo Caudino, differenziandosi forse in questo anche dai Servilii Gemini.

Ser. Sulpicio Galba: cooptato nel collegio nel 203, fu anche edile nel 209; fece parte della legazione inviata a raccogliere la Magna Mater in Asia. Era forse fratello di Publio, console del 200. La sua cooptazione all'interno del collegio fu probabilmente imposta dai Servilii, di cui i Sulpicii Galba erano alleati e che in quegli anni si erano molto rafforzati (ben due Servilii erano consoli nel 203, Cn. Cepione e C. Gemino, entrambi pontefici).


C. Sulpicio Galba: cooptato nel collegio nel 202 (Liv. 30,39,6), forse pretore nel 211, certamente parente di quel Ser. Sulpicio Galba divenuto pontefice l'anno prima e del Publio console nel 200 . Anche nella cooptazione di Caio giocò sicuramente un ruolo determinante l'appoggio degli alleati Servilii, ormai tanto forti da imporre nel collegio la compresenza di due membri di una stessa famiglia amica.


Q. Cecilio Metello: divenuto membro del collegio nel 216, era figlio del pontefice massimo Lucio, in onore del quale pronunciò una commossa orazione funebre (cfr. Plin. nat. 7,43,139); fu anche edile nel 209, console nel 206 senza aver rivestito la pretura, dittatore nel 205. Di parte scipioniana, Metello divenne in seguito il vero braccio destro dell'Africano, dopo la cui morte - avvenuta nel 183 - si avvicinò forse agli Emilii.


C. Livio Salinatore: pontefice dal 211 al 170, fu anche pretore nel 202 e nel 191, console nel 188 . Figlio del vincitore del Metauro, coetaneo di Catone (cfr. Cic. sen. 3,7), era ancora molto giovane quando nel 211 fu cooptato all’interno del collegio.
Pur appartenendo al partito emiliano-scipioniano, come gli altri Livii, egli qui forse assunse orientamenti diversi, come già in passato aveva fatto il padre.


C. Servilio Gemino: subentrato a T. Otacilio Crasso nel 210, fece parte del collegio pontificale fino al 180; negli ultimi tre anni di vita ricoprì anche la carica di pontefice massimo, succedendo a P. Licinio Crasso. Fu inoltre pretore nel 206, console nel 203 e dittatore nel 202.


C. Gemino apparteneva al ramo plebeo della gens Servilia, ed infatti nel collegio sostituì un plebeo. Nel 210, anno della sua cooptazione, e nel 209, quando rivestì l'edilità, C. Gemino era ancora legato al gruppo scipioniano, come tutti i Servilii. Questi però negli anni successivi abbandoneranno i vecchi alleati.


Q. Fulvio Flacco: cooptato nel 216, fece parte del collegio fino a dopo il 205, non se ne conosce la data di morte. Fu console nel 237, 224, 212 e 209, pretore nel 215 e 214, censore nel 231, dittatore nel 210. Si tratta di una delle più grandi personalità di quell'epoca, noto per il suo valore militare, che manifestò soprattutto nella riconquista di Capua passata al nemico.
Certo i Fulvii non sostenevano gli Scipioni, e forse appartenevano ancora, addirittura, al partito conservatore, il più avverso a Scipione e ai suoi alleati.


C. Sempronio Tuditano: Livio non riferisce del suo avvicendamento a Q. Fulvio Flacco, ma esso quasi certamente avvenne tra i due, dato che Flacco è l’unico pontefice di quell’epoca di cui non si conosce la data di morte e, corrispondentemente, Tuditano l’unico di cui non si conosce la data di cooptazione.

Era probabilmente fratello del Publio console nel 204 o del Marco console nel 185. Nel 197 fu eletto pretore e venne inviato in Spagna; l'anno successivo gli fu prorogato il comando, ma di lì a poco morì (Liv. 33,42,5). Non vi è accordo circa gli orientamenti politici assunti dai Sempronii Tuditani in quel periodo: vi è chi li ritiene senz’altro membri del gruppo claudiano-serviliano, chi addirittura del partito scipioniano.

IL TRIONFO

Le fazioni

Come si vede, al partito del console appartenevano, quanto meno, i due Servilii (Cn. Cepione e C. Gemino), i due Sulpicii Galba (Servio e Caio, che erano addirittura suoi parenti), e Q. Fulvio Flacco (ammesso che fosse ancora vivo), tutti in qualche modo legati al gruppo claudiano-serviliano. Il pontefice massimo invece poteva teoricamente contare, forse, soltanto sull’appoggio di Q. Cecilio Metello e M. Cornelio Cetego.

Comunque il collegio si pronunciò a favore della "nuncupatio" di un "votum ex incerta pecunia", nel corso di una seduta alla quale, non sappiamo quanti e quali pontefici abbiano effettivamente preso parte. Cicerone informa che le decisioni del collegio venivano adottate anche con tre soli voti favorevoli, per cui fossero sufficienti, per la validità delle sedute, anche quattro pontefici.


Il responso collegiale

Ne conseguì che il voto di una somma indeterminata era consentito ed anzi preferibile. L'orientamento tradizionale era rovesciato, ma il cambiamento si diceva ispirato ad una applicazione più coerente, rispetto a prima, del ius divinum al singolo caso.

Si potrebbe ipotizzare che solo una formula siffatta avrebbe potuto poi salvaguardare la corrispondenza della quantità da spendere con l’entità del beneficio, conseguito col favore di Giove, della vittoria e della pace per il quinquennio: l’adempimento sarebbe stato così, in un certo senso, più rituale.

Se quest’ipotesi fosse fondata, gli avversari di Crasso avrebbero rovesciato la posizione del pontefice massimo. I pontefici approfittano qui dell'occasione per affidare al senato il compito di fissare la spesa al momento dell'esecuzione: incombenza, questa, che, essendo il senato organo competente nell’amministrazione dell’aerarium, non poteva che gravare sui patres, i quali vi ottempereranno senz’altro.


L’esecuzione del decreto

Il decreto pontificale fu trasmesso al senato, che con sua delibera lo rese esecutivo. All’attuazione del voto partecipa lo stesso P. Licinio Crasso che, pur costretto a dettare al console le parole di quella formula che aveva avversato, conservò intatto il suo prestigio, che gli derivava soprattutto dalla profonda conoscenza del ius pontificium e della tradizione, di cui era ancora una volta garante.

Nella pronuncia solenne di un voto pubblico, che coinvolgeva l’intera comunità, il pontefice massimo era tenuto a praeire verbis, ossia a suggerire, precedendolo, le parole della formula al magistrato, il quale le doveva declamare con assoluta esattezza.

La cooperazione del pontifex maximus era indispensabile: la nuncupatio del voto, (noncupatio è l'esperessione solenne a voce)  richiedeva attenzione, perché un errore di forma, come saltare una parola o sbagliarla, poteva comportare l'invalidità e la necessità della ripetizione, ma magari anche la assunzione di un impegno non preventivato e difficilmente soddisfacibile dallo stato.

Il pontefice massimo dettava ad alta voce le parole del voto, perché il magistrato le pronunciasse senza commettere errore, non interrompendosi né balbettando. Le formule dettate dal pontefice, la cui versione definitiva era conservata in archivio, come pure i libri pontificii, erano redatte in latino arcaico, ed anche nella redazione di nuove formule, o di nuove clausole di esse, si cercava di rispettarne lo stile.
La formula del voto del 200  è ancora un voto quinquennale, quindi condiziona l'adempimento dell'obbligo alla sopravvivenza della repubblica nei successivi cinque anni, ma si differenzia da quella dei ludi magni pronunciati in precedenti occasioni anche per l'aggiunta della promessa a Giove di un dono.


L’adempimento del voto del 200

Nel 194 il senato, con il medesimo provvedimento con cui dispose la instauratio del ver sacrum, irregolarmente celebrato l’anno prima, ordinò la celebrazione dei ludi magni, che erano stati offerti in voto a Giove nel 200.

Con la vittoriosa conclusione della II guerra macedonica si era avverata la condizione del voto del 200, che ne rendeva doverosa ora l'esecuzione. La spesa implica lo stanziamento di una somma di pari valore a quella del 217, un terzo di un milione di assi, ma dimostra che essa non era già stata fissata nella formula, bensì determinata nell’atto in cui il senato decise di adempiere al votum.

Così la novità del ritenere ammissibile un votum ex incerta pecunia consisteva, più che nell’introdurre la facoltà di fissare successivamente una somma diversa da quella consueta, nel non “immobilizzare” da subito la pecunia destinata all’esecuzione del rito, come invece era nelle intenzioni di Crasso.

I PONTEFICI

Il voto del 191

All’inizio del 191, alla vigilia della guerra contro Antioco III di Siria, il senato dispose per assicurare alla città il favore degli Dei: l’offerta in voto di ludi magni e doni. Così alla vigilia della guerra contro Filippo V di Macedonia, ai consoli fu rivolto l’invito a procedere ad un sacrificio di vittime adulte e ad una solenne precatio agli Dei.

Tali riti sortirono gli effetti sperati, e gli aruspici risposero che quella guerra avrebbe fruttato l’allargamento dei confini, la vittoria e il trionfo (terminos populi Romani propagari, victoriam ac triumphum ostendi).

Subito dopo aver riferito della sortitio delle province, Livio menziona il senatoconsulto con cui si ordinava ad entrambi i consoli di indire la supplicatio e al solo Marco Acilio Glabrione di offrire in voto ludi magni e doni.

Per procedere alla nuncupatio del voto di ludi magni e doni a Giove, cui pur assistette il pontefice massimo che ne dettò le parole al console Acilio, non vi fu bisogno di interpellare il collegio dei pontefici, del quale non si fa menzione.

Sostanzialmente analogo appare il contenuto della richiesta fatta a Giove, ossia la conclusione vittoriosa della guerra: ma mentre in precedenti occasioni si era fatto espresso riferimento alla sopravvivenza della repubblica nel quinquennio successivo, qui più semplicemente si auspica un andamento della guerra conforme ai divisamenti del senato e del popolo romano.

Sulla repubblica romana non gravava più né, sotto il profilo militare, la minaccia di Annibale nè il rischio di rimanere senza mezzi, dato che la vittoria di T. Quinzio Flaminino a Cinoscefale aveva apportato grandi vantaggi finanziari, come in particolare risulta dalle fonti relative al suo trionfo, oltre che al pagamento di un’indennità di guerra.

Riguardo poi all'oggetto della promessa votiva sono riscontrabili differenze, nell'esatta indicazione della durata dei giochi da celebrare, ben dieci giorni, e nell’aggiunta dell'offerta di doni ai templi di tutti gli Dei; mentre nel 200 era stato promesso, più modestamente, un solo dono, forse anche a causa della crisi finanziaria in cui si dibatteva allora la repubblica.

Il voto congiunto dei ludi e dei doni, cui dopo la vittoria con Antioco si doveva adempiere, non era stato personalmente offerto da Acilio come generale, ma come console su disposizione del senato, e quindi non personalmente. E' il nuovo console in carica, Marco Acilio, destinato al comando della guerra, a pronunciare le parole del voto, che il pontefice massimo gli detta. Anche questo del 191 è un voto ex incerta pecunia, che avrebbe dovuto essere stabilita in un secondo momento dal senato.

La clausola prometteva che questa sarebbe stata correttamente adempiuta (ludi recte facti donaque data recte sunto) qualunque fosse il magistrato il tempo e il luogo in cui vi provvedesse.


Marco Fulvio Nobiliore ed il voto di Ambracia

Altra significativa applicazione della riforma attuata nel 200 si ebbe nel 187, in occasione del voto di ludi magni offerto agli Dei da M. Fulvio Nobiliore, una delle più grandi personalità di quel periodo.

Oltre ai voti ordinati dal senato nell’imminenza di gravi pericoli, esistevano anche quelli promessi dai generali di propria iniziativa, "inconsulto senatu", affermatasi da poco tempo, ma destinata a diffondersi con gli atteggiamenti individualistici dei comandanti romani che pronunciavano i voti lontano da Roma, prima di ingaggiare battaglia, chiedendo di vincere in cambio della dedicazione di un tempio o della celebrazione di giochi.

Occorreva l'autorizzazione successiva del senato, in mancanza di quella preventiva alla sua nuncupatio, per verificare la validità del voto e quindi la sua idoneità ad impegnare lo stato, ma anche perché vi era il rischio che i comandanti vittoriosi, per rendere più sontuosa la celebrazione del rito, impiegassero somme eccessive e attingessero comodamente al bottino di guerra.

Il magistrato cum imperio ripartiva la preda bellica: una parte andava all’erario, una parte distribuita fra i soldati, una parte trattenuta dal magistrato stesso, anche per diverso tempo (si trattava delle c.d. manubiae), utilizzandola per scopi sacrali o di pubblica utilità, ma col passar del tempo fiorirono gli abusi.

Sulle ripartizioni del bottino si dovevano spiegazioni al senato, che poteva anche non concedere il trionfo. Per i voti offerti dai comandanti e i fondi da utilizzare per essi, non sempre, per ragioni appunto di ordine finanziario, il senato procedeva alla ratifica del voto: ciò costringeva il magistrato a ricorrere, anziché ad una parte del bottino già versato all’erario, ai suoi fondi personali, oppure alle manubiae.


M. Fulvio Nobiliore, il giorno stesso della conquista di Ambracia, aveva offerto in voto ludi magni a Giove Ottimo Massimo, costringendo poi gli Ambraciesi e gli abitanti delle altre città vinte a contribuire al finanziamento raccogliendo cento libbre d'oro (circa quattrocentomila assi), che erano confluite nel bottino di guerra e che ora, nel 187, egli pensava di utilizzare per il suo voto.

Al senato la somma parve eccessiva ma si temeva che, attenuando la magnificenza dei ludi, si potesse mancare di rispetto agli Dei, non ottemperando alla stessa promessa votiva che il senato riconosceva valida. Il voto era ex incerta pecunia, altrimenti non  c'erano discussioni sul destinare o meno le cento libbre d’oro alla celebrazione dei giochi.

Si trattava di stabilire se l’impiego della somma fosse sacralmente vincolante, come il Nobiliore sosteneva, non soltanto per gli interessi politici ed elettorali connessi, ma anche per la formula del voto, che pur contenendo la fissazione successiva della somma da parte del senato (tantam pecuniam quantam senatus decreverit, o simile), tuttavia forse qui ne menzionava anche la fonte (ex auro coronario, per esempio).

Ciò spiega la decisione del senato di interpellare il collegio pontificale da S. Sulpicio Galba, a cui in qualità di pretore urbano, spettava di presiedere il senato, come di norma quando i consoli erano assenti.

Al collegio viene posta la questione se per la celebrazione dei giochi dovesse essere speso "omne id aurum", contando sul fatto che l’oroera stato pur sempre raccolto dopo il voto. Il responso pontificale, rimise al Nobiliore la determinazione della spesa, purché questa non eccedesse gli ottantamila assi (una somma principesca, anche se di circa cinque volte inferiore a quella che il Nobiliore avrebbe voluto, e di molto anche rispetto a quella di 333.333.333, che veniva tradizionalmente impiegata per l'organizzazione dei ludi magni in onore di Giove).


Il voto del 172

Nel 172, alla vigilia della guerra contro Perseo, il senato, analogamente a quanto era avvenuto nel 200 e nel 191, ordinò al console di pronunciare un solenne voto di ludi magni e doni a Giove Ottimo Massimo. La data in cui si tennero i comizi consolari, ossia il 18 febbraio, fu posticipata a causa del ritardo del console C. Popilio Lenate nel tornare a Roma.

Il senato prescrisse ai consoli il solito sacrificio accompagnato dalla precatio (di cui si riporta la formula consueta, priva dell’indicazione dell’avversario): ciò sarebbe dovuto avvenire in seguito, comunque, nel giorno della loro entrata in carica. Livio riferisce poi del buon esito della celebrazione e il solito responso degli aruspici circa gli effetti della guerra, naturalmente vittoriosa.

La celebrazione di ludi magni votivi, probabilmente, finì per diventare una sorta di accessorio dei trionfi, pur restando da essi formalmente distinta.
Più precisamente si trattava di ludi atletici, secondo il modello greco, ancora rari in quei primi anni del II sec. Sebbene infatti del processo di ellenizzazione del costume e dei riti certamente risentissero anche i giochi, occorre tuttavia ricordare che Roma disponeva, già dal tempo degli Etruschi, di una propria autonoma, assai significativa, tradizione ludica.

ARLES - ARELATE (Francia)

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ARLES ROMANA
La città ha un passato glorioso: emporio commerciale greco-massaliota, assunse caratteristiche propriamente urbane in età romana, divenendo una delle metropoli più fiorenti delle Gallie. Fu tra i massimi centri religiosi dell'occidente romano e, di fatto, una delle capitali dell'Impero in età costantiniana.

Nel 407 divenne sede della Prefettura del pretorio delle Gallie. I suoi più prestigiosi monumenti romani sono: l'Anfiteatro, il Teatro antico, Le Terme di Costantino, la necropoli degli Alyscamps.

Ad Arles arriva un acquedotto, detto del Barbagal, dalle alture delle le Alpilles, distanti una quindicina di km, l’acquedotto è ancora in buona parte in piedi ed è possibile seguirne il rettilineo percorso nei campi girando con la macchina.
 

ARLES OGGI

LA STORIA

La Arles romana nasce come città dei veterani della VI Legione con il privilegio di avere un muro di cinta fortificato e, al proprio interno, un foro, diversi templi, il teatro, una basilica e l'acquedotto che portava acqua dalle Alpilles. Nel V sec. Arles visse il suo secolo splendente che la rese città ricca e conosciuta: la "Piccola Roma di Gallia" esportava olio, salumi, carne, riso e aveva una propria moneta.

Divenne così bella da diventare la seconda casa dell'Imperatore Costantino e capitale della Gallia, che comprendeva Spagna, parte della Francia e la Bretagna. Nell'VIII secolo la lotta tra Franchi e Saraceni trasformò Arles in un cumulo di macerie.

RICOSTRUZIONE DELLE TERME

LA FONDAZIONE

Furono i Focesi (greci ionici), fondatori della città di Massalia (oggi Marsiglia, in Provenza ), nell'antica colonia greca della Gallia Narbonense (corrispondente Linguadoca-Rossiglione e Provenza-Alpi-Costa Azzurra,) a costituire, attorno al VI sec. a.c., un grande emporio commerciale.

VENERE DI ARLES
Per la sua importanza non solo commerciale ma anche strategica, trovandosi all'incrocio del percorso che collegava l'Italia alla Spagna con il corridoio formato dalla valle del Rodano, divenne via di transito di commercianti greci, fenici ed etruschi. Di conseguenza vi si stabilì un villaggio.

Nel IV secolo a.c. il villaggio era ancora sotto controllo della città di Massalia, cui era sempre rimasto unito da legami storici, commerciali e di sangue. A partire dal II secolo a.c., in età ancora preromana, la presenza italiana ad Arles si fa molto forte sotto il profilo economico e forse culturale.

I Romani si installarono stabilmente in Provenza nel 122 a.c., e con ogni probabilità alcuni anni più tardi, al momento della costituzione della Narbonense (118 a.c. circa), l'emporio arlesiano fu incorporato nella nuova provincia. Nel 104 a.c. Mario (157-86 a.c.) fece scavare un canale nei pressi di Arles, che congiungeva il Rodano al golfo di Fos per facilitare e ampliare la navigazione nella regione. 

In questa prima epoca romana l'abitato dovette svilupparsi notevolmente acquisendo connotazioni pienamente urbane ed assumendo il nome di Arelate, toponimo di probabile origine gallica, con il significato di luogo presso (are) lo stagno (late); con tale denominazione sarà menzionata da Giulio Cesare nel De bello civili. 


Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo si schierò a fianco di Cesare riuscendo ad armare in un solo mese dodici navi da guerra che egli stesso aveva richiesto e dopo la vittoria di quest'ultimo ottenne buona parte del territorio dell'antica madrepatria, la pompeiana Massalia. 

CRIPTOPORTICI
Nel 46 a.c. divenne colonia romana accogliendo i veterani della legio VI Ferrata (una legione romana reclutata nell'agosto del 47 a.c. da Cesare prendendo le leve dalla Gallia Citeriore e dall'Illyricum). e ottenendo il privilegio di dotarsi di una cinta muraria che racchiudeva un'area urbana di 40 ettari. In questi anni il suo porto fluviale conobbe un ulteriore sviluppo, così come lo sfruttamento sistematico del fertile territorio che circondava la città.

Agli inizi del IV sec. fu una delle residenze preferite dell'imperatore Costantino I (274 - 337) e nel 314 vi si tenne il concilio di Arles a cui parteciparono 44 Chiese occidentali, provenienti dell'Italia, della Gallia, della Britannia, della Hispania e dell'Africa romana, e dove fu sancita la condanna degli eretici donatisti. 

A partire dal 328 ebbe il nome ufficiale di Constantina, datole da Costantino I in onore del proprio figlio Costantino II che vi era nato; nel 340, tuttavia l'uso cessò con la morte e la damnatio memoriae di Costantino II. 

L'altro figlio di Costantino I, Costanzo II (317-361), mutò nuovamente il nome ufficiale della città in Constantia nel 353, in occasione della celebrazione nella città dei propri tricennalia (una celebrazione di dieci anni di regno di un imperatore romano, originatasi durante il regno di Augusto). Tuttavia il nuovo nome venne poco utilizzato e la sua ultima attestazione risale al 423, anno in cui si ha l'ultima emissione monetaria, per Giovanni Primicerio (usurpatore dal 423 al 425), ancora recante il segno di zecca col nuovo nome.

A partire dal 328, la città, sostituendosi a Nemausus (Nimes) e a Burdigala (Bordeaux) come il centro più popoloso ed importante della Gallia meridionale, venne dotata di una zecca imperiale. Nel 407 divenne sede della Prefettura delle Gallie al posto di Treviri (Augusta Treverorum) e nel 473 fu, per la prima volta, espugnata e occupata da una popolazione barbara, seppure parzialmente romanizzata, quella dei Visigoti, con il crollo definitivo dell'Impero romano d'Occidente,
LE MURA

LE MURA

La conoscenza del tracciato della prima cinta muraria, eretta poco dopo fondazione della colonia, alla fine del I sec. a.c., è in gran parte incerta. 

PIAZZA DEL FORO

FORO (criptoportici)

Del foro vero e proprio, la piazza centrale della città romana, restano solo alcuni pezzi architettonici che permettono di ipotizzare la sua costruzione poco dopo la fondazione coloniale del 46 a.c. Fa parte dei monumenti inseriti nella lista dei Patrimoni mondiali dell'umanità.

La piazza, disposta su un terreno in pendio, era in parte sostenuta da sostruzioni: tre gallerie sotterranee disposte ad U e chiuse al pubblico. Una quarta galleria con elementi in mattoni appartiene probabilmente ad un rimaneggiamento di epoca tardoantica.

A partire del V sec. il foro era in abbandono e alcune parti dei criptoportici furono chiuse per essere utilizzate come cantine e si perse la memoria della natura dei resti, che furono prima interpretati come catacombe e riconosciuti di origine romana, ma solo in seguito al ritrovamento di un fregio scolpito nel 1737. 

ESEDRA DEL FORO
Lo scavo di queste gallerie sotterranee a partire dal 1951 permise di ritrovare un deposito di marmi asportati da antichi monumenti, tra cui alcune iscrizioni che testimoniano l'esistenza nel Foro di un culto dedicato all'imperatore Augusto.

Attualmente ai criptoportici del Foro si accede dalla cappella dei Gesuiti, costruita nel 1654. 
I crypto portici erano immense gallerie sotterranee che servivano a sostenere la struttura della piazza del foro. Essa infatti fu installata sul fianco ovest della collina di Arles e per essere sostenuta ebbe bisogno della costruzione di un'ampia piattaforma. 

La parte nord dei cryptoportique costruiti all'uopo passano sotto la "Place du Forum" e la parte sud sotto l'"Hôtel de Ville". Dell'antica piazza romana restano oggi solo due colonne e parte del frontone di un tempio.



IL TEATRO ROMANO

Poco distante dall'anfiteatro c'è una grande testimonianza della Arles romana: è il Teatro Antico. Edificato sulla cima della collina dell'Hauture, inserito nel suo tracciato urbano regolare, venne iniziato nel 27 0 25 a.c., per volontà di Augusto e venne terminato e inaugurato nel 12 a.c. . 

Insieme al foro e all'Arc du Rhone costituisce l'impianto monumentale della colonia in epoca augustea. 

Fa parte dei monumenti inseriti nella lista dei Patrimoni mondiali dell'umanità.
Nel corso dei secoli ha avuto un destino sfortunato che lo ha prima trasformato in cava, poi in fortezza fino alla sua scomparsa sotto case e giardini. 

Recuperato nel 1855, oggi mostra tutto il suo splendore. 
Si può ammirare il portico su cui era appoggiato, le colonne che facevano parte del muro di scena, il palcoscenico e il fossato per il sipario e l'orchestra.

Attualmente restano pochi gradini della cavea del Teatro, l'orchestra, il proscenio e due colonne della scena, con un frammento della trabeazione. 

In origine la cavea si appoggiava su tre ordini di arcate e poteva accogliere circa 10.000 spettatori. 

Nell'orchestra, pavimentata in marmi colorati, si trovava l'altare dedicato ad Apollo, rinvenuto negli scavi ottocenteschi. La scena era una piattaforma di 50 metri per 6 ed era ornata di ricche statue.

Aveva in origine tre ordini di colonne ancora in marmi colorati e una notevole decorazione scultorea, di cui rimane la celebre "Venere di Arles" e la testa di una statua colossale di Augusto. 

L'orchestra è separato dalla cavea da un muro, il balteus, di fronte alla quale, un grande spazio di 1m e 20 era riservato ai notabili della colonia. Il muro di separazione tra l'orchestra e il palcoscenico era ornato con nicchie decorate, tra cui l'altare di Apollo trovato nel 1828. In molte altre parti del sito sono stati reperiti i resti della sontuosa ornamentazione. Due scale mettevano l'orchestra in comunicazione con la scena.

Gli scavi e gli studi scientifici hanno scoperto le disposizioni essenziali della stessa.
Circa 6 metri di profondità, la scena venne rivestita da un grande parascenia (dietro le quinte). Il muro di scena venne molto decorato.

Aveva tre file di colonne e un grande statuaria, tra cui la colossale statua di Augusto, che è attualmente al museo della contea antica di Arles. Il muro esterno del teatro consisteva di 27 archi sorretti da pilastri forti. 

Iniziò ad essere fortificato nel V sec. d.c. ("Torre di Rolando", inserita nella cinta fortificata della città). Parte dei materiali fu riutilizzata per nuove costruzioni nelle vicinanze. 

Nel Medioevo altre costruzioni vi furono edificate e si perse memoria della sua originaria funzione, che venne nuovamente riconosciuta solo alla fine del XVII sec. I lavori di scavo e restauro iniziarono nel 1823. Nuovi restauri sono iniziati nel 2004.

L'ANFITEATRO

ANFITEATRO

Conosciuto con il nome di les Arènes, l'anfiteatro fu edificato intorno all'80 d.c., addossato al fianco settentrionale della collina dell'Hauture, con orientamento diverso rispetto a quello del tracciato urbano. Le sue dimensioni, 136 x 107 m, sono di pochissimo superiori a quelle della vicina Arena di Nîmes e lo rendono uno dei più imponenti anfiteatri romani ancora esistenti. Fa parte dei monumenti inseriti nella lista dei Patrimoni mondiali dell'umanità.

Circa 21.000 spettatori potevano essere ospitati nella cavea, suddivisa in quattro maeniana (suddivisioni orizzontali) e sostenuta da due ordini di 60 arcate, sormontate da un attico oggi perduto. Come in molti altri anfiteatri il sistema di accesso era articolato per mezzo delle scale e dei corridoi anulari ricavati nelle strutture di sostegno. L'arena era pavimentata con un tavolato in legno sostenuto da risalti nella parte inferiore del podium (il muro che limitava la cavea, rivestito da grandi lastre in pietra): nello spazio sotto il tavolato trovavano posto i macchinari utilizzati per gli spettacoli.

Nella loro elevazione iniziale, le gradinate potevano ricevere circa 21.000 spettatori, i cui flussi erano sapientemente organizzati da una rete di porte, gallerie e scale, su diversi piani.

Con un asse maggiore di 136 metri di lunghezza e un asse minore di 107 metri, l’anfiteatro di Arles è leggermente più grande rispetto a quello di Nîmes e occupa il ventesimo posto tra quelli del mondo romano. Presenta una forma di ellisse.

La facciata comprende due livelli di sessanta arcate a tutto sesto, separati da piedritti, a blocchi di sezione rettangolare.

Un’apertura più ampia sottolinea le estremità dei due assi del monumento.
L’ingresso principale non si trovava a nord come oggi, bensì dal lato ovest, dove si vedono le vestigia di una scala che dava sulla città.


La cavea, spazio riservato agli spettatori, comprendeva 34 gradinate, divise in quattro serie: i maeniana, dove gli spettatori erano ripartiti secondo il loro rango sociale. Per consentire agli spettatori di accedere alle differenti gradinate, era stato sviluppato un dispositivo ingegnoso di gallerie circolari, di passaggi orizzontali e di scale disposte alternativamente.

Al pianterreno, la galleria esterna è particolarmente degna di nota, soprattutto per la sua copertura con grandi pietre monolitiche. Dava accesso ad una galleria interna, con volta a tutto sesto, la quale si apriva sul primo maenianum e sulla parte inferiore del secondo. 

Dalla galleria esterna, le scale consentivano altresì di raggiungere il primo mezzanino, da cui si aveva accesso sia al secondo maenanium, sia alla galleria esterna del primo piano. Questo sistema di circolazione verticale e orizzontale permetteva, in questo modo, di raggiungere il livello più elevato dell’edificio. 

Un attico, oggi scomparso, sormontava la facciata: qui erano fissati gli alberi che servivano a tendere un velario destinato a proteggere gli spettatori dal sole. La parte centrale riservata ai giochi e ai combattimenti (l’arena propriamente detta) era separata dalle gradinate da un muro accuratamente allestito: il muro del podio rivestito con grandi lastre di pietra. 

Il terreno della pista era più elevato di circa 2 metri rispetto al livello attuale. In effetti, era formato da un pavimento di legno, le cui lamine poggiavano su un bordo rinforzato di pietra, alla sommità della parte inferiore del podio. I macchinari necessari agli spettacoli alloggiavano tra i muri e i basamenti che assicuravano la stabilità dell’arena.

Nel Medioevo divenne una fortezza e poi una piccola città, chiusa e fortificata. Sotto le arcate, nei sotterranei e nella pista furono costruite abitazioni con i materiali presi dalle antiche pietre dell'Arena. Una parte dell'Anfiteatro di Arles è mutilata. Il recupero della struttura originaria iniziò nel 1825. Per molti secoli l'anfiteatro è stato sede di combattimenti dei gladiatori, vietati nel 404 dal Cristianesimo, di cui restano le gabbie delle belve e i macchinari per l'entrata in scena dei combattenti.

Restauri del monumento, ora esposto agli agenti atmosferici, furono condotti a più riprese e alla fine del XIX sec. fu instaurato un regolare programma di manutenzione. Nuovi grandi restauri sono iniziati nel 2000.



CIRCO ROMANO

Fu edificato nel 149 d.c., sotto l'imperatore Antonino Pio (86 - 161), fuori dalle mura, lungo la riva del fiume. Fa parte degli edifici inseriti nella lista dei Patrimoni mondiali dell'umanità. La sua costruzione non ha dovuto essere agevole. Tenuto conto della natura instabile del terreno, il circo ha dovuto essere edificato su migliaia di pali di legno. Serviva essenzialmente alle corse di cavalli e di carri, ma altresì, talvolta, a combattimenti di cavalleria e alle venationes, una sorta di caccia a inseguimento.

OBELISCO CHE SI TROVAVA NELLA SPINA DEL CIRCO
Nel IV sec. la spina venne ricostruita con un nuovo rivestimento in lastre di marmo e l'erezione di un obelisco. Nel V sec. quando vi si svolgono ancora delle corse, inizia una parziale occupazione delle strutture. Il monumento sarà utilizzato come cava di materiale nel VI sec. in occasione della costruzione delle nuove fortificazioni. Le alluvioni del fiume ricoprirono le rovine di sedimenti e il monumento venne riscoperto solo nel XVII e nel XIX secolo, con scavi più approfonditi nel XX sec.

Dei suoi materiali e delle sue decorazioni, disperse alla fine dell’Impero, rimangono soltanto pochi pezzi. Alcuni sono stati riutilizzati, altri sono oggi esposti presso il Museo dipartimentale della Arles Antica. Il suo ornamento più sontuoso è, tuttavia, molto celebre: si tratta dell’obelisco collocato nel XVII secolo dinanzi al municipio.

Il circo misurava 450 metri di lunghezza e 101 metri di larghezza. La pista era circondata da un muro (il podium), sufficientemente alto per proteggere gli spettatori. Le gradinate poggiavano su una struttura architettonica modulare di camere chiuse da volte rampanti, abbastanza simile a quella di un anfiteatro. In ragione dell’instabilità del suolo argilloso, furono necessarie sapienti fondamenta. Esse si componevano di 30.000 pali di legno lunghi da 2 a 3m50.

La cavea poteva accogliere 20.000 spettatori ed era sorretta da un sistema di volte rampanti terminanti in facciata con un ordine di arcate. A causa della natura argillosa del terreno le fondazioni dovettero essere rinforzate con palificazioni in legno. Sono attualmente visibili solo alcuni resti delle costruzioni della cavea sul lato corto curvilineo.

Dotata di una vasta arena in terra battuta, con una lunga separazione centrale, la spina, che, decorata con sculture e vasche, terminava alle due estremità con limiti (o metae) che i concorrenti si sforzavano di sfiorare, il più vicino possibile.

Oggi, rimangono visibili soltanto, a un livello inferiore del museo, resti delle fondamenta della cavea (gradinate), dell’esterno della spendone, parte arrotondata del circo. Gli scavi hanno mostrato che la spina era stata parzialmente distrutta, poi ristrutturata con un nuovo decoro di rivestimento di marmo e un obelisco. Piccole abitazioni apparivano attorno al circo e negli alveoli nel V secolo, mentre si svolgevano ancora delle corse. A metà del VI secolo, il monumento venne distrutto, utilizzando le sue pietre soprattutto per le mura della città.

TERME DI COSTANTINO

TERME DI COSTANTINO

Forse sul sito di un simile edificio più antico, sulle rive del fiume, l'edificio termale venne costruito nel IV sec., epoca in cui la città era divenuta sede della corte imperiale di Costantino.

TERME DI COSTANTINO (INTERNI)
Nel Medioevo la costruzione fu occupata da abitazioni private che ne fecero perdere il ricordo: nel XVI sec. i resti visibili erano identificati come quelli del palazzo imperiale di Costantino e venivano chiamati palazzo della Trouille, con allusione a sale circolari e voltate. 

Degli scavi nel XIX sec. permisero di identificare i resti con un edificio termale.

Ad un palazzo o alla sede della prefettura delle Gallie potrebbe appartenere una sala basilicale, visibile nel vicino palazzo d'Arlatan.

I resti dell'edificio sono tuttora in gran parte compresi nelle case circostanti, mentre è stato liberato il settore settentrionale con gli ambienti caldi e altri spazi di servizio.

ALYSCAMPS

ALYSCAMPS

Gli Alyscamps (in provenzale: Campi Elisi) sono un'antica necropoli situata presso Arles in Francia.
La necropoli, situata lungo l'antica via Aurelia fu utilizzata per tutto il periodo romano e acquistò importanza in epoca paleocristiana per la sepoltura qui avvenuta del martire san Genesio.

Gli Alyscamps sono stati, dall'epoca gallo-romana alla fine del Medioevo, una delle più prestigiose necropoli occidentali. Il loro grande sviluppo è avvenuto al momento della cristianizzaione della necropoli, intorno alle reliquie di San Trofimo e della tomba di Genesio. 

SARCOFAGO DI ALYCAMPS
Il declino avvenne quando le reliquie di  San Trofimo vennero trasferite nella cattedrale, nel 1152. La necropoli viene così spogliata dai signori, che si regalavano e regalavano ai loro amici sarcofaghi romani di gran pregio, come ormai nessuno sapeva più scolpire, mentre i monaci utilizzavano le pietre tombali come materiali da costruzione per edificare i loro conventi.

BASILICA PALEOCRISTIANA

BASILICA PALEOCRISTIANA

La prima cattedrale, sorta nel IV sec. era conosciuta solo dalle fonti fino al rinvenimento dei resti dell'abside, avvenuto nel 2003 durante lavori di costruzione sulla collina dell'Hauture.

I resti comprendono una vasta abside, poligonale all'esterno e a pianta semicircolare all'interno, che racchiude un deambulatorio pavimentato a mosaico policromo, intorno ad un'abside più piccola, con pavimento rialzato e rivestito in marmo.

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