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I PORTI ROMANI SUL FIUME

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I FIUMI COME STRADE

Uno dei criteri principali sulla scelta del sito dove fondare una città era la presenza di un fiume. Essendo le vie di terra poco praticabili a causa dei folti boschi, se non addirittura foreste, con la necessità di trascinare dietro alla gente, sia militare che di commercio, i vettovagliamenti, nonchè i carri, e gli animali da traino con relativo vettovagliamento, sia le merci ecc. ecc., risultava molto più pratico spostarsi via fiume.

Non solo risultava più veloce ed economico ma anche meno rischioso, essendo boschi e foreste piene di animali predatori che potevano assalire le carovane, per non parlare della laboriosa manutenzione dei carri. Inoltre le strade nella boscaglia non si mantenevano tali a lungo, perchè finchè i romani non costruirono strade di basolato, la foresta si riguadagnava in breve il sentiero liberato dalla vegetazione e dalle rocce.

Se una città sorgeva su un fiume non solo godeva di acqua in quantità per le necessità dei cittadini, onde bere, lavarsi e scaricare i rifiuti delle fogne, ma aveva una via di comunicazione con il mare e i vari porti con cui commerciare. Tutte le grandi città, antiche moderne, sono per questo sorte sui fiumi.

La fluitazione, cioè il trasporto lungo i fiumi di legname o di merci trasportate su zattere è più antica del trasporto navale via mare, perché riguarda acque interne e quindi più sicure.. Del resto lo stesso trasporto marittimo, in epoche passate, avveniva solo costa a costa, perchè più sicuro per l'orientamento e per le tempeste.



A 900 mt più a valle rispetto alla frazione di Stifone, in località Le Mole (Umbria), si trova il sito archeologico del cantiere navale dove un tempo i romani costruivano le loro navi che venivano condotte, attraverso il fiume Nera, fino Roma e gli altri porti.
Qui a fianco una ricostruzione esemplificata di un cantiere navale romano, che spiega così l'immagine del cantiere navale di Stifone.

CANTIERE NAVALE ROMANO DI STIFONE


TECNICHE COSTRUTTIVE 

Le tecniche costruttive ci vengono narrate da Vitruvio; le infrastrutture portuali. potevano essere costruite in tre “modi” fondamentali. Egli descrive la tecnica dell’impasto delle malte idrauliche, ottenute mediante l’impiego della calce mescolata con la pozzolana invece che con la sabbia. La qualità dell’impasto era dovuta all’utilizzo della pozzolana, pulvis puteolanus, d’origine vulcanica tipico sia dei Campi flegrei che dell'area tra Cuma e Sorrento.

Ma come costruivano i Romani in ambiente sommerso?

Abbiamo una fonte diretta fornita da Vitruvio che in un passo della sua opera De architectura (V, XII) ci illustra le modalità costruttive di opere portuali. Per completezza dobbiamo anche constare le descrizioni fornite da altri due autori, anche se più generiche, che sono quella di Flavio Giuseppe per la costruzione di Sebastos, il porto di Caesarea Maritima, e quella di Procopio di Cesarea.

Vitruvio descrive le tre metodologie fondamentali per costruire in acqua. Logicamente le maestranze si scontravano con problemi di natura diverse a seconda dei luoghi in cui si trovavano ad operare; si adattavano un po’ al contesto, logicamente.


1) Cassaforma inondata

"Quindi, in quel punto stabilito, si debbono affondare e bloccare con sicurezza delle casseforme tenute insieme da montanti di quercia e tiranti trasversali; poi, nel vano interno, [lavorando] dalle traversine si deve livellare e pulire il fondale e gettare la malta, preparata come è spiegato sopra, mischiata al pezzame di pietra, fino a che lo spazio tra le paratie non sia riempito di calcestruzzo."

Un primo tipo di cassaforma per malta idraulica veniva costruita direttamente in acqua: il iniziava col conficcare sul fondale dei pali verticali (destinae) che dovevano sostenere e ancorare la struttura al fondo fluviale. A questi pali verticali venivano collegate travi trasversali (catenae), per contenere le spinte esercitate dall’interno all’esterno dalla cassaforma mentre il cemento era ancora fresco..

Quindi, lungo il perimetro esterno di questi travi verticali e orizzontali, venivano serrati i tavolati che costituivano le pareti della cassaforma (arca), collegati alle catenae. All'esterno dei tavolati venivano posti altri travi, questa volta di quercia e obliqui, conficcati nel fondale (stipites), che fungevano da speroni per ulteriore contenimento delle spinte interno-esterno..

A questo punto, il cemento misto a pietre, calce e pozzolana, veniva gettato in acqua.dentro la cassaforma, come confermano le impronte delle assi di legno nei resti archeologici. Si procedeva poi per casseforme accostate.


2) Cassaforma stagnata 

"In quei luoghi invece, in cui non si trova la pozzolana, si dovrà seguire questo procedimento: nel punto che si sarà delimitato si impiantino delle paratie a doppia parete, tenute insieme da tavole riportate e traverse, e tra i montanti si incalchi dell'argilla in panieri fatti d'alga di palude. Quando l'argilla sarà compressa al massimo, allora con pompe a vite, ruote e tamburi acquari installati si svuoti e asciughi lo spazio circoscritto con questo recinto stagno, e tra le paratie si scavino le fondazioni".

In assenza di pozzolana, Vitruvio suggerisce la cassa-forma stagnata, realizzata da pareti a doppia paratia con l’intercapedine riempita di argilla mista ad alghe di palude. Prima di introdurre il composto, la cassaforma doveva essere svuotata dall’acqua mediante una coclea (= vite di Archimede) e ruote acquarie, poi si lasciava asciugare per quanto possibile. Si procedeva poi allo scavo delle fondazioni e si riempiva il tutto con un conglomerato di sabbia e calce. Questo metodo sostituiva le lunghe murature dei moli, con la costruzione di pilae.



3) Altri metodi

Accanto all'uso dell’opus caementicium vi fu però anche quello classico greco dei blocchi di pietra rafforzati però con la malta. Oppure venivano costruite delle casseforme in blocchi di pietra riempite con gettate cementizie. In altri siti gli impianti portuali venivano scavati direttamente in banchi rocciosi: come ad esempio nel porto di Ventotene.

Alcune strutture invece vennero costruite totalmente in legno, in ambiente fluviale e lacustre; con casseforme lignee riempite di terra e detriti, come ad esempio nel porto di Marsiglia in Francia.

Le opere in cementizio furono comunque le più utilizzate grazie alla facilità di assemblaggio delle casseforme lignee che, appoggiandosi a strutture già solide, si potevano adoperare casseforme con solo tre o due lati, a volte anche con una sola parete; praticamente una costruzione di moli a moduli.



I MOLI

Il Molo è una costruzione situata su un oceano, un mare, un lago, o un fiume, che si protende dalla terraferma verso lo specchio acqueo, la cui principale funzione è quella di fungere da ormeggio alle imbarcazioni per consentire la discesa sulla terraferma dei passeggeri e lo scarico delle merci al riparo del moto ondoso.

I moli e le banchine sui fiumi servivano per attraccare le navi e consentire di salire e scendere o caricare e scaricare.



LE BANCHINE

La Banchina portuale è quella parte del porto o della rada prospiciente all'acqua che permette di accostare in sicurezza alla terraferma navi o natanti e fissarli per l'imbarco e lo sbarco delle persone o delle merci al riparo del moto ondoso e delle correnti. Può essere realizzata in cemento armato o in legno. Per consentire l'ormeggio, la banchina è attrezzata con anelli di ormeggio.


IL FIUME TEVERE

Basilare per la fondazione e l'edificazione di Roma fu il Tevere, navigabile fin dal IV secolo a.c. con navi mercantili e barche di varie dimensioni. Sembra che dal quartiere della Magliana fino al centro dell'antica Roma vi fosse un lunghissimo porto fluviale attrezzato con banchine per l'attracco munite di rampe, nonchè di pietre forate per gli ormeggi, magazzini e accessi ai palazzi retrostanti di smistamento delle merci. Il Lanciani segnalò la scoperta di due magazzini che conservavano zanne di avorio e un deposito di cereali.

Numerose sono le testimonianze archeologiche della navigabilità del Tevere utilizzato come via di navigazione, sia ne tratto urbano che verso il mare e verso l'alto Lazio.

I proprietari di barche sul fiume erano chiamati navicularis, che esercitavano il commercio sia per conto proprio che per conto dello Stato, c'erano poi i lenunculi con imbarcazioni più modeste, però veloci, con la prora a punta e con un gran numero di remi, che trasportavano persone e carichi non pesanti.

Le scaphae erano invece delle piccole imbarcazioni a fondo piatto che servivano per i traghetti e per il trasporto da sponda a sponda del fiume. Infine le lintres avevano lo scafo allungato stretto e poco profondo, con la prua sollevata e le sponde basse, e potevano trasportare fino a 12 persone più il timoniere, adatte alla navigazione in acque poco profonde e pure con le rapide.

L'ISOLA TIBERINA

PORTO TIBERINO

Posto sull'Isola Tiberina, fu il primo e più importante complesso portuale e commerciale di Roma, si trovava all'altezza dell'attuale palazzo dell'Anagrafe e la chiesa di santa Maria in Cosmedin, ne occupava tutta l'area, in un'ansa del Tevere oggi scomparsa, era praticamente di fronte alla punta meridionale dell'Isola Tiberina, nei pressi dei Templi del Foro Olitorio e del Tempio di Portunus, che era la divinità a tutela del porto.
Il bacino probabilmente era delimitato a valle dal ponte Emilio e a monte dal ponte Fabricio, occupando quindi uno spazio di circa 8000 mq. Alle spalle del porto verso l’interno si estendeva la zona paludosa del Velabrum, che si insinuava nella valle compresa tra il Palatino e il Campidoglio fino a raggiungere la valle del Foro Romano.

Durante gli scavi eseguiti dal Lanciani si rinvennero ampi resti di argini di opera quadrata di tufo di Grottascura del 179 a.c. collegati con le strutture terminali della Cloaca Maxima. Probabilmente l'opera si deve a Servio Tullio, da reperti rinvenuti recanti la data del VI secolo a.c.

Il censore Marco Fulvio Nobiliore nel 179 a.c. fece dei lavori di sistemazione del porto Tiberino, ma con la realizzazione del porto fluviale dell'Emporium sotto l'Aventino, nella attuale zona di Testaccio, anche questo porto venne progressivamente abbandonato, e cadde definitivamente in disuso dopo le inondazioni del 98 d.c. e del 105 d.c. fino a scomparire definitivamente.

Il porto Tiberino aveva una banchina lunga quasi 500 metri e larga 90 metri, vi era un molo pavimentato ed attrezzato. vi attraccavano le navi provenienti dal mare, ed un edificio a ridosso del molo consentiva l'immagazzinamento e la vendita dei prodotti.

Il Portus Tiberinus, era situato nella zona compresa tra i tre templi sotto la chiesa di San Nicola in Carcere ed il Tempio di Portunus. Il culto di Ercole presso l’ara maxima nel foro Boario fu uno dei primissimi culti stranieri introdotti a Roma, e lo stesso Romolo incluse il santuario di Ercole (che ora è sotto la chiesa di santa Maria in Cosmedin) nel solco primigenio della città. Il santuario di Ercole sotto Santa Maria in Cosmedin inizialmente non era altro che un luogo di ritrovo dei mercanti greci, in seguito consacrato alla divinità. 

A Servio Tullio, alla metà del VI secolo a.c., si deve la sistemazione del portus Tiberinus, accanto al quale vennero come già detto costruiti i santuari di Fortuna, e di Portunus. Lo stesso Servio Tullio recinse questa parte di Roma con la sua cinta muraria serviana, lasciandone fuori solo la zona del porto.

Portunus era il Dio dei porti e delle porte, il tempio a lui dedicato è nell'area del Foro Boario, sul lato meridionale del bacino fluviale. Il tempio di Portunus era subito dopo la porta Flumentana che faceva parte delle mura repubblicane ed era separato dal porto dal vicus Lucceius, una strada che portava all'antico ponte Emilio, oggi, ponte Rotto, che fungeva da collegamento tra la città e la sponda etrusca, anche il tempio di Portunus venne danneggiato dalle inondazioni del Tevere che devastarono anche la zona portuale tra il III e il II secolo a.c.

In età imperiale avvenne lo smantellamento del porto fluviale in favore del porto di Ostia. La costruzione dell’emporio di Marmorata e soprattutto i grandi rifacimenti del porto ostiense ad opera di Claudio e Traiano svuotarono di ogni importanza commerciale la zona del foro Boario e del foro Olitorio.

Durante i lavori per la costruzione del palazzo dell'Anagrafe, tra il 1936 e il 1937 di fronte alla punta meridionale dell'Isola Tiberina, furono ritrovati numerosi horrea, magazzini costruiti in laterizio e travertino, costruiti da Traiano che reimpiegò l'area dove precedentemente c'era l'antico porto fluviale Tiberino.



PORTO DI RIPETTA

Era situato sulla riva sinistra del Tevere, nel rione Campo Marzio, ed era così chiamato in contrapposizione al porto Ripa Grande, che era più a valle. Il porto esisteva già dall'anno 300 ma venne riadattato da papa Clemente XI, Albani, che nel 1705 gli fece costruire una splendida gradinata che dalla riva Schiavonia degradava verso il fiume Tevere, usando il travertino di una delle arcate del Colosseo, che era caduto durante il terremoto del 1703 (SIG!). Venne poi demolito dopo l'unità d'Italia, per l'edificazione dei muraglioni, dei lungotevere e dei ponti, infatti era sull'odierno lungotevere in Augusta e lungotevere Marzio, presso piazza di Ripetta e ponte Cavour. 

Il porto serviva per le merci che arrivavano nella città di Roma dall'entroterra umbro e sabino, aveva un dislivello tra la riva del fiume ed il piano stradale di  7 metri e mezzo, che veniva superato con delle scalinate. Questo porto fluviale era chiamato di Ripetta per distinguerlo da quello di Ripa Grande, L'antico porto è ricordato dalla piazza di Ripetta, la piazza si raggiunge da via di Ripetta e dal lungotevere Campo Marzio.

L'approdo del porto di Ripetta serviva per lo scarico delle merci provenienti dal nord Italia, in particolare dall'Umbria e dalla Toscana, mentre l'altro porto di Ripa Grande era preposto allo scarico di merci provenienti dal mare e dal sud Italia.



PORTO DI RIPA GRANDE

Scomparso in quanto demolito dopo l'Unità d'Italia, il porto era in zona Aventino davanti all'attuale complesso del San Michele e davanti al nuovo ponte Sublicio del porto oggi è rimasta la via che si chiama "Porto di Ripa Grande", questa strada va dal Ponte Sublicio al Lungotevere Ripa, e fa parte del Rione Trastevere, era il più grande porto di Roma.

A guardia del porto c'erano due torri, anche queste scomparse, una per la costruzione dell'Ospizio di San Michele, e l'altra per la costruzione del lungotevere, il porto è ricordato da due scalinate sotto la banchina del San Michele.

Il porto Ripa Grande, già presente in epoca romana, era un piccolo porto formato da piccole banchine nella zona di Testaccio. Nel Medio Evo, però la zona si spopolò, Testaccio era troppo lontano dal centro della città, tra la fine dell'Impero e l'alto Medio Evo, ci fu anche la decadenza dei porti di Ostia e di Porto, assunse così maggiore importanza il porto nella zona di Trastevere, sul lato ed all'interno delle mura Aureliane, vicino alla Porta Portese, che si trovava più a valle rispetto all'attuale; sui due lati del Tevere, sorgevano le due Torri di guardia, alle quali si attaccavano le catene per sbarrare il fiume in caso di scorrerie saracene. 

Con lo spostamento di porta Portese, nel '600, anche lo scalo si ritirò più a monte, e le preesistenti strutture vennero usate come magazzini ed arsenale. Il Tevere poteva essere risalito solo da velieri di medio tonnellaggio, mentre le navi più grandi potevano scaricare le merci al porto di Fiumicino, che poi venivano portate a Ripa Grande per mezzo di bastimenti più piccoli, tirati verso la riva destra del Tevere mediante funi robuste, tirate o da uomini robusti o da bufali, per i quali c'era un apposito recinto subito dopo la porta Portese detto "la bufalara".
Dell'antico porto oggi rimangono solo delle moderne rampe di accesso al fiume alle quali si accede scendendo dalla riva destra del Ponte Sublicio, all'altezza del San Michele.



PORTO DI TESTACCIO (EMPORIUM)


PORTO DELL'EMPORIO

Nel II secolo a.c. l'Urbe si era decisamente arricchita e ingrandita, si che il vecchio porto fluviale del Foro Boario non era più sufficiente. Venne quindi edificato il Porto dell'Emporio, sotto il colle Aventino, nella zona del lungotevere Testaccio e accanto al nuovo ponte Sublicio, per volere dei consoli Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo nel 193 a.c., per l'insufficienza del porto Tiberino, e per le nuove esigenze dovute all'espansione e allo sviluppo della città di Roma. 

Il porto fluviale dell'Emporium aveva una semplice copertura in legno, lastricato in pietra e dotato di un grande magazzino, chiamato Porticus Aemilia, utilizzato per contenere le derrate alimentari. I resti di questo porto, detto dell' Emporio, sono visibili sul lato sinistro del nuovo Ponte Sublicio venendo da piazza dell'Emporio, a rione Testaccio.

Nel 174 a.c. l'Emporium venne lastricato in pietra e fu suddiviso da barriere con scalinate che scendevano al Tevere. Qui approdavano le merci, soprattutto  marmi, grano, vino, olio, che, arrivate via mare dal porto di Ostia, risalivano il Tevere su chiatte rimorchiate dai bufali (alaggio).

Il porto lavorò a così alto ritmo che i cocci di anfore che si rompevano nello stoccaggio, erano talmente tanti da venir accumulati a collina, formando il Mons Testaceum, il "Monte dei cocci", Il numero delle anfore accatastate è stimato attorno ai 25 milioni e la collina è alta 54 metri..

MONTE DEI COCCI (ROMA)
Sotto Traiano le strutture furono rifatte in opera mista. Il porto era principalmente costituito da banchine con piani inclinati, scale, anelli per ormeggio. Trattavasi di "ripae" costruite lungo gli argini del fiume. In correlazione ad esse si trovavano i magazzini ("horrea", "cellae") per lo stoccaggio delle merci. soprattutto nella pianura del Testaccio. Sorsero così i magazzini  annonari, per le distribuzioni gratuite di grano e altri generi alimentari alla popolazione cittadina, con l'Horrea Sempronia, Galbana, Lolliana, Seiana, e Aniciana.

Reperti archeologici vennero rinvenuti tra il 1868 e il 1870, in occasione della edificazione degli argini del Tevere, e dei muraglioni, interrati, vennero di nuovo riportati alla luce nel 1952 e poi dal 1974 e a tutt'oggi proseguono i lavori di scavo. 

I resti dell'Emporium si possono vedere, affacciandosi da ponte Sublicio, da qui si vede un edificio con file di ambienti, ed una banchina lunga circa 500 metri, e profonda 90 metri. Era un molo piuttosto esteso, con pavimento a grandi lastre in travertino, utilizzato probabilmente come piazzale per lo scarico e lo smistamento delle merci. 

Tutto il complesso è addossato ad un muraglione più antico che delimitava verso il fiume un'altra serie di magazzini coperti a volta chiamati horrea, che davano verso Testaccio, che era all'epoca la zona commerciale di Roma. L'attività dell'Emporio rimase in funzione fino alla creazione dei grandi porti di Cladio e Traiano di Ostia, e divenne solo un semplice deposito di materiali, specie di marmi, da cui il nome della via Marmorata.

Il porto fu scavato nel 1868-1870 durante i lavori di riarginatura e di nuovo per la costruzione del Palazzo dell’Anagrafe negli anni 1936-1937, che rivelarono un quartiere di magazzini di età traianea, costruiti interamente in laterizio e travertino. Resti simili sono stati scoperti sull’altro lato della strada (ancora visibili nei cortili degli edifici moderni). 

Tutto questo complesso riguarderebbe un rifacimento imperiale degli (Horrea) Aemiliana, magazzino annonario edificato da Scipione Emiliano nel 142 a.c., che dovette servire soprattutto come deposito del grano destinato alle distribuzioni gratuite alla plebe romana.

Altri scavi risalgono al 1952, poi, stranamente, più nulla. Dei resti del porto sopravvivono il "Monte dei Cocci" e alcuni tratti visibili incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio: una banchina lunga circa 500 metri e profonda 90 con gradinate e rampe verso il fiume, con blocchi di travertino sporgenti per fori dove ormeggiare le navi.



I NAVICULARIS

In epoca romana i proprietari di barche, chiamati navicularis, esercitavano il commercio sia per conto proprio che per conto dello Stato, usando
- i lenunculi, imbarcazioni di medie dimensioni, veloci, con la prora a punta e munite di un gran numero di remi, trasportavano persone e carichi non pesanti.

- le scaphae erano invece delle piccole imbarcazioni a fondo piatto che servivano per i traghetti e per il trasporto da sponda a sponda del fiume.

- le lintres, avevano lo scafo allungato stretto e poco profondo, con la prua sollevata e le sponde basse, e potevano trasportare fino a 12 persone più il timoniere chiamato gubernator ed erano particolarmente adatte alla navigazione in acque poco profonde e con le rapide.

- le naves caudicariaeer erano adibite il trasporto delle merci, ed erano imbarcazioni a due alberi, senza vela, trainate lungo la riva destra del Tevere da pariglie di buoi o di uomini con un sistema di rimorchio detto alaggio, i battelli scorrevano contro corrente con corde tirate dagli animali o dagli uomini che procedevano su strade appositamente aperte per questo "tiro".

Questo tipo di navigazione controcorrente riguardava le imbarcazioni che da Fiumicino dovevano arrivare a Ripa Grande, e poiché di notte la navigazione si fermava, dovevano esistere delle stazioni fluviali, per la sosta delle imbarcazioni dotate di un corpo di polizia e di vigili del fuoco che controllavano le navi dal pericolo di incendi e dalle incursioni dei ladri. 
Questo tipo di navigazione ed i porti sul Tevere, rimasero attivi fino all'epoca medioevale e moderna e tutto finì dopo l'Unità d'Italia, con l'edificazione dei muraglioni e dei lungotevere.


RICOSTRUZIONE DEL PORTO ROMANO DI AQUILEIA

IL PORTO DI AQUILEIA

Subito dopo la fondazione della colonia romana nel 181 a.c. di Aquileia, il suo porto svolse un ruolo fondamentale nei commerci marittimi dell’area del nord Adriatico, soprattutto grazie alla sua posizione geografica che lo collocava come naturale apertura al mare. La presenza di un fiume navigabile è stato un elemento determinante per la scelta del luogo in cui fondare la colonia di Aquileia; infatti la costruzione di punti di approdo fu pressoché contemporanea alla creazione della città.

Il canale Anfora, chiamato così dal Medioevo per le anfore ritrovatevi,  era collegato alla portualità di Aquileia poiché congiungeva la sua zona occidentale con il mare, rendendo possibile la risalita delle barche tramite l'alaggio: le imbarcazioni erano trascinate con funi lungo tragitti costruiti appositamente, le viae helciariae, qualora non fosse possibile sfruttare la forza del vento e le maree.

Il bacino del porto era formato dalla confluenza di due corsi d’acqua,  e la rete di canali artificiali unita ai corsi fluviali presenti rese facile nell'antichità il collegamento con il mare e probabilmente consentì la circumnavigazione della città.

RIVA ORIENTALE DEL PORTO DI AQUILEIA
Durante gli scavi Giovanni Brusin ha scoperto delle strutture probabilmente databili all’età repubblicana, coperte dalle costruzioni del porto monumentale: due fasce di lastricato e tre gradini che risalgono verso il fiume, la prima sistemazione delle rive, e delle tavole sostenute da pali di legno, i primi tentativi di arginare il fiume.

Si giunge al porto fluviale percorrendo la via Sacra, posta nell’alveo del fiume e lunga circa un km, creata con la terra di risulta degli scavi e lungo la quale sono stati collocati resti architettonici e monumentali. Il porto, scoperto nella parte orientale della città, ha un bacino largo 48 m e dista dal mare circa 10 km.

La sistemazione del porto monumentale risale probabilmente alla fine del I sec. d.c. Giovanni Brusin l'aveva ipotizzato studiando i moduli dei mattoni, riferibili all'età di Claudio per la struttura e anche per la fama di questo imperatore in campo di impianti portuali. La banchina della sponda occidentale del porto è lunga 380 m ed è costituita da lastre verticali in pietra d’Istria.

Vi è un primo piano di carico sovrapposto a questi lastroni e composto da blocchi con grandi anelli di ormeggio a foro passante verticale; il secondo piano di carico, 2 m più in basso, è costituito da un marciapiede lastricato largo circa 2 m e fornito di anelli di ormeggio a foro passante orizzontale.

RESTI DEL PORTO ROMANO DI AQUILEIA
Due diversi piani di carico rendevano possibile accogliere imbarcazioni di stazza grande o piccola, e l'utilizzo anche nei periodi di bassa marea. Dalla banchina partono tre vie di accesso alla città che conducono ognuna ad un diverso decumano.

La riva orientale del porto La riva orientale è stata scavata per un breve periodo negli anni Trenta e ne sono stati riportati alla luce poco più di 150 m, anche perché ad un certo punto la struttura si interrompe. La banchina è molto stretta e composta da parallelepipedi di pietra, vi si notano solo quattro scalinate inserite nel muro e alcune pietre di ormeggio; dietro sono situati degli edifici, possibili magazzini o uffici.

Probabilmente nel 361, quando la città si schierò con Costanzo II e fu assediata da Giuliano l’Apostata, il fiume fu deviato per motivi strategici e di conseguenza la portata d’acqua diminuì.
Queste opere provocarono poi un’alluvione, che fu la causa dell’abbandono del quartiere orientale.In epoca tardo-antica, verso la fine del IV secolo, furono realizzate altre opere difensive e di queste mura è stato ritrovato il lato orientale sulla banchina, costruite in grande fretta, con materiali di recupero.

IL PORTO FLUVIALE
Nel periodo che va dal IV al VI secolo d.c.., Aquileia era il porto principale dell'alto Adriatico all'inizio, mentre sembra essere del tutto scomparso alla fine di quest'epoca.

Il complesso ha forma quadrata, con il lato di circa 150 m, composto da due parti collegate tra loro con ambienti porticati, corridoi e absidi disposti intorno ad un cortile in lastre di arenaria, quadrato nella parte settentrionale, rettangolare nell’altro; si può ipotizzare che alcuni di questi ambienti fossero usati come magazzini o come uffici.

I magazzini sono situati a sud della Basilica e sono horrea, cioè magazzini di grano, in seguito al ritrovamento di alcuni strati di grano bruciato. L’edificio è rettangolare, di circa 90 m per 66, ed è costituito da due spazi allungati separati da un cortile centrale. Probabilmente la copertura del magazzino era sorretta da pilastri.

Nella parte settentrionale si trovavano gli accessi dal cortile centrale e la comunicazione tra le due ali del magazzino, mentre nella parte meridionale si trovava un corridoio trasversale. Questo edificio sottolinea anche le grandi capacità dei costruttori romani verso la fine del III secolo d.c. poiché aveva spessi muri perimetrali che raggiungevano i 2 m e profonde fondamenta, di almeno 5 metri profonde.


IL TESORO DI MISURATA (Libia)

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IL TESORO DI MISURATA

Il tesoro di Misurata è «il più grande ritrovamento monetale del mondo antico», anche se non vi sono presenti monete in oro o argento. La sua denominazione deriva dall'omonima località sulla costa libica, dove il cospicuo ripostiglio monetale fu nascosto nel IV secolo, all'interno di un edificio distrutto, e poi dimenticato, nella problematica temperie politica di un'epoca turbolenta per l'impero romano, a cavallo tra il III e IV sec.

La stessa destinazione stessa del tesoro è legata alle criticità politiche dell'impero romano, e alle difficoltà di tenuta dei suoi confini: si ritiene infatti probabile che la sua costituzione fosse finalizzata al finanziamento delle truppe mercenarie utilizzate per difendere il limes africano.

I nummi di Misurata riflettono anche le criticità politiche. In esse si può leggere traccia delle mire secessionistiche di Domizio Alessandro, che governò per un periodo la provincia d'Africa, quale vicario del prefetto del pretorio: alcune delle monete furono infatti coniate a suo nome.

La stessa vicenda della costituzione del deposito merita attenzione, per la sua capacità di evocare le difficoltà del periodo: fu necessario infatti la messa in sicurezza dell'enorme gruzzolo mediante il singolare occultamento in un edificio distrutto.

LUOGO DEL RITROVAMENTO

LA SCOPERTA

Nel Febbraio del 1981, durante i lavori per la realizzazione di una serra (Giardini del 7 Aprile) in località Suq el Kedim (Mercato Vecchio), situata a 18 Km ad Ovest dell’odierna città di Misurata, in Libia, è stato infatti rinvenuto uno dei più grandi tesori monetari dell’antichità.

La Soprintendenza Archeologica di Leptis Magna purtroppo potè intervenire solo dopo lo spianamento del terreno con una ruspa, ma con tutto ciò recuperò circa 108000 monete tardo romane in bronzo argentato, dal peso complessivo di oltre 600 kg.

UN CONTENITORE COL TESORO
Il tesoro di era di nummi di epoca imperiale, risalenti agli anni dal 294 al 333, coniati in lega di rame, piombo e stagno, arricchita da argento nella patina superficiale. Il nummo era una moneta di bronzo di piccole dimensioni (circa 8-10 mm di diametro) che aveva corso legale durante l'Impero bizantino. Alcuni di questi nummi sono di tipologie sconosciute, inedite, o rarissime.

La monetazione risale quindi alle fasi della Tetrarchia (fine III secolo) e della guerra civile di inizio IV secolo (306-324), in una fase molto turbolenta nell'età imperiale della storia romana, già segnata dall'Anarchia militare e dalla crisi del III sec.

Il tesoro si rivela infatti di eccezionale interesse non solo per la enorme quantità di monete, ma anche per l’ottimo stato di conservazione, consentendo anche studi chimico-fisici per gli aspetti composizionali, tecnologici e dei processi realizzativi delle monete.

L’attività in loco del gruppo di ricerca è stata interrotta dopo la Rivoluzione del 2011 e la situazione di instabilità successiva; verrà ripresa non appena le condizioni generali del Paese lo permetteranno in un clima di sicurezza.



IL RESTAURO

Il tesoro, conservato nel Museo archeologico nazionale di Leptis Magna, è stato restaurato e studiato in sito, con tecniche non distruttive, secondo specifici protocolli, da un'équipe italiana di studiosi dell'ITABC - Istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali del Consiglio Nazionale delle Ricerche, sotto la guida di Salvatore Garraffo, direttore dell'Istituto. 

I CONTENITORI RINVENUTI
Al progetto partecipano anche l'IBAM-CNR (Istituto per il Beni Archeologici e Monumentali) di Lecce - Potenza - Catania, l'Istituto nazionale di fisica nucleare (con il LANDIS-Laboratori di analisi non distruttive dei Laboratori nazionali del sud), e i dipartimenti di chimica delle università di Catania e di Genova.

Presso l'ITABC è stato anche realizzato un database dei pezzi monetali, con immagini 2D e in 3D: l'archivio, in fase di implementazione, copre 68.000 dei 108.000 pezzi del tesoro.Allo stato attuale tutte le monete del tesoro sono state restaurate, ad eccezione di un migliaio di pezzi, lasciati nel loro stato originario – e comunque pienamente leggibili per studi composizionali futuri.

Circa 85000 nominali sono stati sinora dettagliatamente catalogati (singolarmente e non per gruppi di emissioni), utilizzando un sistema informatico realizzato per gestire l’immensa mole dei dati eterogenei relativi a ciascuno di essi.

Rimangono da esaminare in dettaglio circa 23000 monete, delle quali è stata già eseguita una ricognizione onde tracciare un quadro definitivo della cronologia e della composizione del tesoro. 

Tenendo conto della complessità del ritrovamento, le monete sono state catalogate per contenitore anche per comprenderne il processo di raccolta. Si è capito infatti che le monete non erano state introdotte casualmente nei vasi, ma raggruppate in relazione al decrescere del peso, del modulo e, in particolare, del contenuto in fino di argento, ovvero per progressione cronologica.

MONETA DI MASSENZIO

LA COMPOSIZIONE

A parte qualche decina di antoniniani residuali di III secolo, tutte le monete del tesoro si datano tra il 294 ed il 333 d.c. Trattasi quasi sempre di nummi (folles), monete in bronzo con patina superficiale in argento, battute a partire dalla riforma monetaria di Diocleziano e pesanti in media, nella fase più antica, ca. 10 g., per scendere sino a ca. 2,50 g. in quella più tarda: pochissimi i nominali frazionari.

Tra l’enorme numero di monete del tesoro, si notano non pochi esemplari inediti o rari, quali, ad esempio, di L. Domitius Alexander, di Massenzio, di Costantino I, Licinio, e rispettivi figli.

Il tesoro di Misurata è un documento di eccezionale importanza anche per lo studio della circolazione monetaria nella Tripolitania antica nella età di Costantino il Grande, per l'individuazione delle varie tappe dello svilimento del contenuto in fino del nummus, e non in ultimo, per lo studio delle tecnologie adottate per la sua produzione.

Le monete sono state restaurate nel corso delle varie Missioni che si sono succedute presso il Museo di Leptis Magna a partire dagli anni '90 del secolo scorso.
Al Progetto interdisciplinare su 'Il Grande Tesoro Monetale di Misurata attualmente partecipano:
- CNR, Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali, Roma;
- CNR, Istituto per il Beni Archeologici e Monumentali, Lecce - Potenza - Catania;
- INFN, Laboratori Nazionali del Sud, Catania;
- Università di Catania, Dipartimento di Chimica;
- Università di Genova, Dipartimento di Chimica, Sezione di Chimica Inorganica e Metallurgia.
Le ricerche sono finanziate, oltre che dal CNR, dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, dal MIUR e dal Ministero degli Affari Esteri.
Obbiettivo del Workshop è di fare il punto sui 'lavori in corso', con la presentazione dei risultati sinora ottenuti, e di tracciare le linee di sviluppo della ricerca nel prossimo futuro.

Rimangono ancora senza sicura risposta molti interrogativi suscitati da questo straordinario ritrovamento, quali l’identificazione del proprietario e della funzione del complesso monetale, i motivi del suo interramento e del mancato recupero, la destinazione dell’edificio con il quale era connesso.

Alcune atipicità, evidenziate e discusse anche in occasione di due Convegni Internazionali (2009 e 2012), organizzati per la presentazione e lo studio del tesoro, potrebbero in effetti spiegarsi con la possibilità che le monete, in specie quelle più antiche, facessero originariamente parte di riserve immobilizzate (sottratte alla circolazione) di comunità locali municipali, o di patrimoni religiosi come templi o santuari.

M. CURIO DENTATO - M. CURIUS DENTATUS

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MANIO RIFIUTA I DONI DEI SANNITI

Nome: Manius Curius Dentatus
Nascita: 330 a.c.
Morte: 270 a.c.
Gens: Curia
Consolato: 290 a.c., 275 a.c., 274 a.c.
Professione: Generale e politico


Uno dei più grandi Romani del sec. III a.c.,
"quem nemo ferro potuit superare nec auro"
"Non fu mai vinto nè dal ferro nè dall'oro."
(Ennio in Cic., De Rep., III, 6)

Manio Curio Dentato (ovvero Manius Curius Dentatus; 330 – 270 a.c.) fu un eroe di Roma che pose fine alle guerre sannitiche. Manio apparteneva alla gens Curia o Curii era una famiglia plebea romana, non ricca e da lui mai arricchita. Il loro nomen era Curius, e non compare fino al III sec. a.c. Il solo cognomen presente durante la Repubblica, è Dentatus. Secondo alcune iscrizioni ritrovate sul sito di Lucus Pisaurensis presso Pesaro, la gens Curia sarebbe originaria della Sabina.

Manio Curio Dentato è stato il più celebre e pure il più glorioso fra i Curii. Si dice che il suo cognomen (Dentatus) derivasse dal fatto che, appena nato, egli avesse già i denti in bocca. Viene varie volte definito da Cicerone "homo novus" per le sue umili origini; sicuramente non per disprezzo, in quanto lo stesso Cicerone era un "homo novus", si diceva infatti di qualcuno che non facesse carriera perchè aveva già un nome affermato, ma perchè doveva la sua fama solo a se stesso.
Il primo incarico che assunse fu quello di tribuno della plebe, forse nel 299 a.c., ma la data non è certa. Si sa invece che durante il suo mandato si oppose strenuamente al console Appio Claudio Cieco che, non rispettando la legge, aveva deciso di non considerare i voti dei plebei.

Fu poi eletto console Publio Cornelio Rufino e, in quello stesso anno, combatté e vinse la Terza guerra sannitica contro i Sanniti e i loro alleati, ponendo fine ad una guerra che durava da ben 49 anni. Per questa importantissima vittoria gli venne concesso un grande trionfo.

Si trovò tempo dopo a guidare nuovamente il suo esercito contro i Sabini che si erano nuovamente rivoltati, da quel grande generale che era, ottimo nelle strategie, nell'allenamento dei soldati e nel farsi rispettare e amare da essi, ottenne un secondo importante successo sottomettendo definitivamente i Sabini, che da molti anni erano una costante minaccia per Roma.

Alla fine della guerra ai Sabini venne accordata la cittadinanza romana, ma non il diritto di voto, e gran parte dei loro territori fu spartita tra il popolo di Roma. L'agro sabino e quello dei Praetutii fu incorporato al romano: il più grande ampliamento del territorio romano dopo la guerra latina (più di 5000 kmq.; estensione anteriore circa 8300)

BATTAGLIA DI BENEVENTUM
Nel 284 a.c. fu eletto pretore suffectus in seguito alla morte di Lucio Cecilio Metello Denter, ucciso dai Senoni. Dentato mandò subito loro un'ambasceria per trattare la restituzione degli ostaggi, ma i legati furono uccisi. Allora Manio decise di affrontare i Senoni in guerra e in quello stesso anno li sconfisse, annettendo i loro territori fino oltre a Rimini e fondando Senigallia (Gallia Senonia).

Nel 275 a.c. fu console per la seconda volta e sconfisse l'esercito di Pirro nella battaglia di Benevento, presso cui Manio si era accampato (a quel tempo detto Maleventum, ribattezzata dopo questa vittoria Beneventum), costringendo il sovrano greco ad abbandonare definitivamente l'Italia.

I festeggiamenti che seguirono a questa vittoria, ottenuta per la grande abilità del generale romano, furono strabilianti, anche perché sfilarono all'interno della città quattro elefanti di Pirro, animali ancora sconosciuti ai romani. E anche perchè il popolo romano adorava Curio Dentato, dove arrivava lui la vittoria era certa.

Manio Curio Dentato, però, si sottrasse sempre alle onorificenze pubbliche e all'acclamazione della folla, non cercava nè fama nè gloria, ma il popolo lo amava di più proprio per questo. Manio era diventato il grande eroe dell'antica Roma: invincibile, incorruttibile, modesto, giusto e non interessato al potere.

L'anno seguente, durante il nuovo consolato che gli venne dato per la terza volta, sconfisse i Lucani e celebrò un ennesimo e meritato trionfo. Dopo ciò si ritirò nella sua fattoria per condurre una vita agreste coi suoi campi, e il lavoro della terra. Fu però sempre pronto a tornare in campo per difendere la patria se lo Stato glielo richiedeva.

Si racconta che alcuni ambasciatori dei Sanniti, che erano stati incaricati di consegnargli oro e argenti per la sua vittoria, lo trovarono intento a lavorare in un campo come un comune contadino. All'offerta dei doni Manio rifiutò. Diffidava dei doni perchè nascondevano sempre una richiesta sfavorevole al suo popolo.

IL TRIONFO
Era talmente onesto che dopo la vittoria sui Sabini,  nella spartizione dei territori volle ricevere come ricompensa la stessa quantità di terreno decretata per gli altri cittadini, e cioè 14 jugeri. Nel 272 a.c. lo Stato ebbe ancora bisogno di lui e lo richiamò dalle sue terre perchè il popolo lo aveva eletto censore.

Durante questo mandato iniziò la costruzione dell'acquedotto Anio Vetus, che ebbe la lunghezza di quarantatré miglia dalle chiuse poichè doveva portare le acque del fiume Aniene nella città. Quest'opera fu finanziata utilizzando il bottino di guerra della vittoria contro Pirro (purtroppo Manio Curio Dentato morì prima di vederlo compiuto).

Nel 271 a.c. ordinò la costruzione di un canale (il Cavo Curiano) per far defluire le acque stagnanti del fiume Velino, che rendevano paludosa e malsana la Piana di Rieti, in direzione della Cascata delle Marmore: da lì l'acqua precipitava direttamente nel fiume Nera, affluente del Tevere. Con questa costruzione rese coltivabili tutte le paludi che circondavano la città.

Manio Curio Dentato fu amico di molti personaggi illustri del suo tempo, sempre consultato, apprezzato e stimato da tutti. Scrisse anche alcuni testi, ma fu soprattutto il soggetto delle opere di moltissimi scrittori e storici.

Per parecchi secoli dopo la sua morte (avvenuta nel 270 a.c. mentre sovrintendeva ai lavori per la costruzione dell'acquedotto) si raccontarono le sue ardite e ben congegnate imprese militari e si elogiò la sua rettitudine morale, additandola come esempio per tutti i Romani. Catone il censore, che ne raccolse i detti, lo collocava fra le grandi figure della storia universale. In seguito alla sua grandezza lo stato romano, in segno di riconoscimento pagò la dote alle figlie di Manio.

Biblio:
- Plinio il Vecchio, Naturalis historia, VII, 16.

CUNICOLI DI CLAUDIO

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CUNICOLO MAGGIORE
In Abruzzo si estende la vasta piana del Fucino, una inattesa pianura nel cuore di un territorio montuoso e impervio.  In effetti la pianura è la conseguenza di uno degli interventi antropici più vasti e radicali mai realizzati in Italia, che portò alla cancellazione dalla geografia fisica e storica del Paese di una distesa d’acqua di oltre centocinquanta Kmq.

Il Fucino era un sistema lacustre carsico, il cui unico vero immissario è il fiume Giovenco, che entra nella piana da Nord Est, costeggiando l’abitato di Pescina. Il lago inoltre raccoglieva acque dal massiccio del Velino-Sirente a Nord e dai Monti Simbruini a Sud. Il regime idrico del bacino era regolato dall’attività degli sfiatatoi carsici, localizzati a meridione, ai piedi delle montagne. Il non avere emissari importanti ha determinato da tempo immemore un’alta variabilità del livello del lago.

COME DOVEVA APPARIRE IL LAGO FUCINO
Il lago Fucino era un sistema lacustre carsico con una difficoltosa gestione della sua portata idrica; esso era alimentato, infatti, dalle acque convogliate dai monti circostanti e dal suo unico immissario, il fiume Giovenco mentre non aveva un emissario da alimentare e su cui riversare la potenza delle sue acque.

Così, nonostante i Romani avessero scelto il Fucino come luogo di villeggiatura per il suo particolare microclima, fu proprio al loro tempo che si iniziò a parlare di bonificare il lago per farne il granaio di Roma. 

Ma pochi sanno che sotto il monte Salviano i romani 2000 anni fa hanno scavato dei cunicoli per creare una Galleria sotterranea che va dal Borgo Incile a Capistrello, dove far convogliare le acque del Fucino nel fiume Liri. 

EMISSARIO DI BORGO INCILE

IL PROSCIUGAMENTO DEL FUCINO

Il primo a tentare il prosciugamento fu Giulio Cesare, l'eclettico generale il cui progetto, stroncato anzitempo dal suo assassinio delle Idi di Marzo, evento funesto per tutta l'umanità, prevedeva la bonifica del Fucino e la creazione di una via d’acqua che traversasse l’Italia centrale per giungere fino al futuro porto di Ostia.

Il progetto di Cesare, che stranamente non venne ripreso da Augusto, fu invece ripreso più tardi  dall’imperatore Claudio che lo portò a termine nel 52 d.c., tale opera avrebbe regolato gli incostanti livelli lacustri con un limitato prosciugamento del Fucino.

Per questa imponente opera di ingegneria romana vennero utilizzati 30.000 lavoratori tra schiavi gratuiti ed operai pagati, come ci informa Svetonio, e la realizzazione dell’emissario si protrasse per 11 anni di incessanti lavori, durante i quali vennero realizzati cunicoli collaterali preparatori connessi tra loro per il tramite di numerose "discenderie" che servirono a preparare lo scavo principale.

LE CHIUSE DEL FUCINO
Terminati i lavori dopo oltre una decade si ottenne un canale di 5.6 km che attraversava il Monte Salviano da Borgo Incile a Capistrello, per drenare il Lago Fucino nel Fiume Liri. L’esito però non fu quello sperato, date le numerose frane del monte già durante la costruzione e, soprattutto nei periodi successivi, per le quali non era sufficiente la semplice manutenzione ordinaria.

Terminati i lavori Claudio volle celebrare l’opera con una naumachia, una battaglia navale sul lago, molto gradita al popolo romano. Ma quando venne aperta la diga, l’acqua non scolò a causa di una piccola frana avvenuta poco prima.

Spurgato il canale e riaperte le chiuse, un’ulteriore frana causò una grossa ondata di ritorno che si abbatté sul palco dove la famiglia imperiale banchettava. Comunque la naumachia si fece.
Di questi accadimenti vennero incolpati i liberti Narciso e Pallante, nonostante non fossero architetti, ma solo prefetti dei lavori.
Finchè Roma fu la capitale dell'Impero si ebbero lavori di manutenzione dell'opera, quando Roma decadde venne meno il controllo e ciò produsse man mano il ricolmarsi del canale di scolo e l'ostruzione dello stesso probabilmente anche a causa di un terremoto avvenuto nel 508 d.c. 



I CUNICOLI DI CLAUDIO

I Cunicoli di Claudio sono un'opera monumentale costituita da un lungo canale sotterraneo, sei cunicoli di servizio inclinati e trentadue pozzi, che l'imperatore Claudio fece costruire tra il 41 e il 52 d.c. per regolare i variabili livelli del lago del Fucino in Abruzzo, salvaguardando così i paesi di sponda dalle inondazioni e bonificando i terreni fucensi rendendoli coltivabili.

Infatti attraverso i cunicoli le acque del lago defluirono attraverso il ventre del monte Salviano dal territorio di Avezzano lungo la galleria sotterranea di quasi sei chilometri fino a confluire nel fiume Liri sul versante opposto della montagna, sotto il borgo antico di Capistrello.

Il canale sotterraneo rappresenta la più lunga galleria realizzata dai tempi antichi fino all'inaugurazione del traforo ferroviario del Frejus avvenuta nel 1871. Nel 1902 l'opera idraulica è stata inclusa tra i monumenti nazionali italiani, nell'"Elenco degli edifizi monumentali in Italia", su archive.org, Ministero della pubblica istruzione, 1902, p. 382.

Nel giugno del 1977 col fine di tutelare e valorizzare l'opera è stato istituito il parco archeologico di Claudio incluso tra gli imbocchi dei cunicoli e l'Incile del Fucino. L'opera è stata inserita fra i "Luoghi del Cuore" del FAI (Fondo Ambiente Italiano).

SI RICHIEDE PER L'EMISSARIO DI CLAUDIO LA CANDIDATURA AL PATRIMONIO DELL’UNESCO. L'emissario fu realizzato dai romani tra il 41 e il 52 d.c. ed è un'opera unica nel suo genere. Ci aspettiamo una risposta positiva dall'Unesco.

CUNICOLO DEL FERRARO

TESTO DI EZIO BURRI 

DA: 
La storia delle opere di ingegneria idraulica attuate nei secoli per svuotare il Fucino è ricca di sorprese e curiosità. (Fonte)

"Dalle descrizioni di quanti si sono occupati, nei secoli successivi, del restauro dell’originale opera idraulica sino alla sua totale ristrutturazione e dalle scarse porzioni ancora conservate, è stato possibile ricostruire la conformazione morfologica della galleria sotterranea e della sua esecuzione.

In fase di progettazione, apparve chiaro che il drenaggio si sarebbe potuto effettuare riversando le acque lacustri nel fiume Liri, posto circa 20 m più in basso di quanto ipotizzato come livello medio del fondo del lago. Il percorso più breve sarebbe passato sotto il monte Salviano ed il settore più meridionale dei limitrofi Campi Palentini, attraverso terreni eterogenei per litologia e consistenza. 

Frammenti di una decorazione, che ornavano la parte monumentale dell’incile (il punto ove le acque venivano condotte nella galleria sotterranea) ci illuminano sulla tecnica dello scavo: in coincidenza dei capisaldi determinati in precedenza sul terreno, vennero scavati circa 40 pozzi a sezione quadrata; questi raggiungevano la profondità determinata in fase di progetto, da un minimo di 18 m ad un massimo di 122 m, coincidente con il piano quotato del fondo della galleria e, successivamente, dalla base del pozzo lo scavo era diretto verso le opposte direzioni sino a saldare le varie sezioni.

SBOCCO DELL'EMISSARIO DI CLAUDIO
Il congiungimento era inizialmente ottenuto mediante esigui cunicoli esplorativi, non più larghi di 80 cm, infine allargati sino alle desiderate dimensioni del condotto finale. All’imboccatura del pozzo un’armatura lignea, dividendo in quattro la sezione, consentiva ad entrambe le squadre all’opera il movimento contemporaneo ed inverso di una coppia di secchi. 

La funzione dei pozzi era anche di agevolare l’areazione del sito ed il trasporto del materiale; oltre a questi pozzi, nelle pendici ove era troppo elevato il dislivello tra superficie esterna e il progettato percorso della galleria, oppure come supporto ad alcuni pozzi, o lungo il tracciato che attraversava i Piani Palentini, vennero create molte gallerie inclinate, denominate “discenderie”. 

Attualmente si ha la conoscenza topografica e strutturale di dodici gallerie, ma non si esclude un numero maggiore. La lunghezza della galleria risultò essere di circa 5.650 m, ai quali deve essere successivamente sommata una deviazione, tra i pozzi n. 19 e n. 20, resasi necessaria per aggirare una frana avvenuta al contatto fra le argille sabbiose ed i calcari, già in avanzato stato di realizzazione. 

Il percorso non era rettilineo, ma con deviazioni dovute ad errori nella esecuzione dei tratti di galleria e variazioni di pendenza. La sezione della galleria era varia, a tratti foderata in mattoni, malta o priva di rivestimento; quella tipica aveva una superficie di 5,02 m2, per una portata di 9,09 m3/sec; la pendenza media era di 0,15% con una differenza di quota di 8,44 m, tra l’imbocco dell’incile e lo sbocco nel fiume Liri. 

Lungo il tracciato sono state rinvenute tabelle marmoree con indicazione delle distanze nell’ordine delle centinaia di piedi. Non essendo correlazione con l’ingresso dei pozzi e cunicoli, posti a distanza irregolare, è ipotizzabile una indicazione topografica interna per agevolare operazioni di controllo e manutenzione. 

L’incile vero e proprio era costituito da un bacino trapezoidale, seguito da un altro esagonale, con una differenza di livello di m 5,48. All’esterno dell’antibacino aveva inizio il grande collettore esterno, lungo circa 4,5 km, con una pendenza dello 0,1% ed una sezione di 91,6 m2 circa; questo tracciato, per i primi 300 m, era foderato con armature in legno. "




IL PRINCIPE TORLONIA

Nel 1835 Francesco di Borbone riuscì a riaprire parzialmente l’emissario, attraverso la restaurazione dell’emissario di Claudio e dello scolo del Fucino, ma occorreva di più per cui il 26 aprile 1852, con Regio Decreto borbonico, fu accordata la concessione dello spurgo e della restaurazione del canale claudiano a una Società Anonima napoletana. Come compenso all'immane lavoro si accordavano tra l'altro le stesse terre bonificate.

CUNICOLO CLAUDIANO
Poiché nella Società figurava il banchiere romano Alessandro Torlonia (col suo ingegnere svizzero, e l’agente francese Léon de Rotrou), il re Ferdinando II fu accusato di aver concesso il prosciugamento ad “alcuni stranieri per rimeritare segreti e sinistri servigi alla propria causa”.

La Compagnia era invece composta anche dal principe di Camporeale, dal marchese Cicerale, amministratori delegati della Società di cui Torlonia era fondatore assieme ai signori Degas padre e figlio, banchieri di Napoli.

I lavori di sondaggio e progettistica durarono dal 1852 fino al 1855.

I laveri e propri per il prosciugamento iniziarono nel 1855 e terminarono nel 1876.

Ai vecchi cunicoli fu aggiunta una fitta rete di canali e sfiatatoi per una lunghezza complessiva di 285 km, 238 ponti, 3 ponti-canali e 4 chiuse. 

L’impegno, le risorse economiche e i 4.000 operai al giorno utilizzati per 24 anni è nota la frase del Principe “o Torlonia prosciuga il Fucino o il Fucino prosciuga Torlonia”, spinsero re Vittorio Emanuele a conferire a Torlonia il titolo di principe e una medaglia d’oro.

In conclusione: 
dove oggi c’è la piana più fertile d’Abruzzo, quel Fucino che fornisce patate a tutta la nazione, in passato c’era il terzo lago d’Italia, causa di inondazioni improvvise perché privo di un vero e proprio emissario, a parte alcuni inghiottitoi sotterranei che drenavano, però molto lentamente, le acque in eccesso. 

Ridurre il lago fu una seria necessità e una grande virtù architettonica. Ma a nessuno sarebbe sfiorata l'idea del prosciugamento se i romani non avessero compiuto tutta la prima parte dei lavori.




TRA FUCINO E LIRI

Nel collegamento tra il Fucino ed il Liri possiamo distinguere tre parti principali: un tratto a cielo aperto, il canale collettore; un tratto in galleria, l’emissario; un complesso di regolazione interposto tra i primi due, l’incile. I cunicoli ai piedi della montagna sono discese per il trasporto dei materiali di scavo e canali di aerazione.

- Il Cunicolo Maggiore situato sul versante orientale della montagna, il monumentale complesso strutturale è formato da tre grandi arcate esterne sovrapposte e rientranti una più sopra dell’altra;
- Il Cunicolo del Ferraro sul versante orientale della montagna, permette di conoscere da vicino il sistema delle gallerie e dei numerosi pozzi. Un primo tratto è stato pavimentato e dotato d'illuminazione. Il bypass lo mette in comunicazione con il cunicolo maggiore;
- Il Cunicolo Imperiale situato più in basso rispetto al precedente, ad esso collegato tramite il pozzo 23.
- I Cunicoli del Calderaro, della Macchina e della Lucerna sul versante occidentale della montagna.

Molto interessante anche l'Incile 2 km a valle dove c'è l'imbocco dell'emissario e l'imponente e grandiosa opera idraulica che permette lo svuotamento del lago.


FESTA DELLA FORTUNA PRIMIGENIA (13 Novembre)

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FORTUNA PRIMIGENIA

FESTA FORTUNAE MULIEBRIS PRIMIGENIA

La religione romana onorava parecchi Dei, romani, italici e stranieri, dando prova di grande tolleranza religiosa, celebrando feste religiose pubbliche (feriae) in date fisse (feriae statae) o mobili (feriae conceptivae). Queste ultime erano fissate di anno in anno dai pontefici o dai magistrati. Le feriae (tempo sacro riservato al culto degli Dei) si dividevano in publicae e privatae. Queste ultime riguardavano le grandi famiglie patrizie.

La festa della Fortuna Primigenia era fissa e pubblica, cioè finanziata dallo Stato. La Fortuna Primigenia è la prima nata, la Grande Dea Madre da cui provengono tutti gli Dei e tutte le creature del mondo. E' la Dea primigenia di nascita, vita e morte.
- Come Dea della nascita assisteva ai parti di uomini ed animali e faceva nascere le piante.
- Come Dea della crescita faceva crescere le piante e gli animali, nonchè le persone assumendo il ruolo di medica, cioè guaritrice; come accrescitrice delle piante era Dea del raccolto, da cui la cornucopia.
- Come Dea della morte era Dea della guerra e della giustizia che punisce i reati, da cui l'elmo da battaglia.
- Determinando la vita e la morte era legata agli oracoli.

Senza dubbio un'antica Dea italica prima che romana. I romani però attribuivano l'introduzione del culto a Servio Tullio, che le dedicò ben ventisei templi a Roma. Si narra che la Dea l'avesse amato, e si introducesse nottetempo nella sua stanza, per questo una statua del re Servio Tullio si ergeva nel tempio della Dea. Si ha l'impressione che Servio Tullio non volesse essere da meno di Numa Pompilio, amato dalla Dea-ninfa Egeria.

Comunque la Dea aveva anche un aspetto erotico, il che la designa come ex Grande Madre, ma era preposta al fato e alle sorti, per cui nei suoi templi si prediceva il futuro. Il suo aspetto benevolo portava la buona sorte, e quello ostile la malasorte.

CORIOLANO E LE SUPPLICI
A Roma c'era un Tempio della Fortuna Primigenia in Colle, sicuramente quello della Fortuna Muliebris Primigenia, una Fortuna legata esclusivamente alle donne. Esso è  menzionato solo due volte, in Fast. Arval. ad Id. Nov., CIL I2, p215, 335: Fortun(ae) Prim(igeniae) in c(olle), e in Fast. Ant. ap. NS 1921, 117: Fortun(ae) Prim(igeniae), ma ce n'era anche uno sulla Via Latina.

"Sulla Via Latina a man destra rimangono alcune rovine di Mausolei: Ma il più degno d'essere veduto si è un Tempio ben conservato costrutto pulitamente di terra cotta. E' egli di forma quadra con puliti cornicioni, e finestre, che davano lume aldidentro. Avendo misurata la sua distanza da Roma da piè del Celio dove si deve cominciare, fino a questo Tempio è giustamente di quattro miglia, onde può giudicarsi, che questo sia il celebre Tempio della Fortuna Muliebre, che dagli Antichi Scrittori si stabilizzò a quattro miglia da Roma nella Via Latina edificato per la nota Storia di Coriolano quivi accampato contro la Patria, e placato da Vetruvia sua Madre.
A considerare quello Tempietto lo ritrovo di ottimo disegno, e credesi che l'antico essendo dal tempo rovinato, venisse riedificato da Faustina Moglie di M. Aurelio, di cui sono medaglie con l'Epigrafe FORTVNAE . MVI.IEIBRI 
(Ridolfino Venuti Cortonese 1763)

La festa del Tempio della Fortuna Primigenia in Colle (Collis Quirinalis) si celebrava il 13 Novembre. La festa del Tempio della Fortuna Muliebris sulla via Latina si celebrava il 6 Luglio. 
Del tempio della Fortuna Muliebris in Colle narra Livio un prodigio occorso nel 169 a.c. in quanto un custode del tempio di Fortuna sul Quirinale avrebbe assistito a un albero di palma nascere miracolosamente nel tempio e a una goccia di sangue cadere in pieno giorno, mentre in un altro tempio di Fortuna un diverso custode aveva osservato l'apparizione prodigiosa di un serpente crestato (simbolo della Madre Terra).

Narra Plutarco che Gneo Marcio Coriolano fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e di aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario, e la condanna fu l'esilio a vita.

Coriolano si stabilì allora presso i Volsci incitandoli alla guerra contro Roma, guerra che avvenne e che, capitanata dallo stesso Coriolano, validissimo generale, che conquistò parecchie città del Lazio, giungendo molto vicino alle mura di Roma.

Infatti un gruppo di donne, guidato da Valeria, che per prima aveva dato l'idea dell'incursione nel campo nemico, sorella di Valerio Publicola, considerato il fondatore della Repubblica romana, primo console dopo la cacciata dei re Tarquini. Con lei c'erano la madre di Coriolano, Veturia  e sua moglie Volumnia, accompagnate da altre matrone romane che si recarono nel suo accampamento sfidando le rappresaglie dei Volsci.

« ..Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre. »

(Tito Livio, Ab Urbe condita)

TEMPIO DELLA FORTUNA PRIMIGENIA
Coriolano cedette alle donne tornando a combattere per Roma e il senato romano riconoscente, chiese loro cosa desiderassero in premio per l'opera pacificatrice, e queste chiesero un tempio alla Fortuna Muliebre, che ricordasse il loro intervento e dove poter pregare per la fine della guerra e di ogni guerra contro Roma.

Il Senato accettò, ma pose il tempio sotto il proprio controllo, e quello dei pontefici. Le donne chiesero almeno di poter donare una statua della Dea; vistosi rifiutare anche questo, ne fecero scolpire ugualmente una e nottetempo la portarono nel tempio. Così il giorno della dedicazione c'erano due statue: ma quella portata dalle matrone miracolosamente parlò, dicendo "Voi mi avete dato, o matrone, ai riti santi di Roma". 
"Fortunae Etiam Muliebris Simulacrum, Quode Est Latina Via Ad Quartum Miliarum"
(Valerio Massimo)

Il Senato dovette accogliere la statua per non inimicarsi tutte le donne di Roma, e come Prima sacerdotessa fu nominata Valeria, la sorella di Valerio Publicola. Tuttavia i pontefici sottrassero alle donne il controllo del culto, stabilendo che non potessero parteciparvi né le vedove, né donne rimaritate, ma solamente le spose novelle, escludendo perciò tanto la madre che la moglie di Coriolano.

In realtà Coriolano, che era un ottimo generale, era anche un patrizio molto egoista che negava la sopravvivenza ai plebei, in più era un traditore perchè istigò dei popoli nemici contro Roma. I romani si dice lo piangessero alla sua morte, ma aveva fatto più danni che opere di bene.

Siccome le stesse regole valgono anche per il culto della Pudicitia, venerata nel foro boario, si pensa che la Fortuna muliebre volesse essere considerata dal senato una variante della Pudicitia che aveva due templi: uno più antico nel foro boario, l'altro nel Vico lungo, edificatole da Virginia, figlia di Aulo, respinta dal padre patrizio, perché aveva sposato Lucio Volumnio, un console plebeo.
Il divieto di partecipare al rito della Fortuna muliebre e della Pudicizia per le donne rimaritate rimanda al pregiudizio secondo il quale le donne che si risposano sarebbero di indole intemperante e libidinosa.

Ma le romane non mollarono, facendone un rito per sole donne, pertanto la festa della Fortuna Muliebre Primigenia altro non era che la festa delle donne, che si riunivano nel tempio e nelle case fra di loro, invocando la loro Dea, cioè la Grande Madre più antica di Giove.

Lo Stato organizzava feste e processioni ma la vera festa avveniva nelle case dove il capofamiglia era donna, e ci partecipavano tutte le donne, sposate e non, o sposate novelle e non. Ovviamente i culti erano segreti e riservati, riti antichissimi dedicati alla Madre Terra, antiche di secoli e secoli.

PULA - POLA ( Istria)

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L'ANFITEATRO DI PULA

La città di Pola, all'estremità sud-occidentale della penisola istriana sorge, come Roma, su sette colli (Castello, Zaro, Arena, San Martino, Abbazia di San Michele, Mondipola e Pragrande), affacciandosi su un ampio golfo e un porto naturale collocato a nord-ovest con ingresso sia dal canale di Fažana.

La nascita di Pola sull'Adriatico è attribuita al mito di Giasone e Medea (Pola = Città di fuggitivi) legato alla ricerca del vello d'oro con conseguente tragedia. I romani nel 117 a.c. sconfissero gli Histri, fondando la colonia romana "Colonia Pietas Iulia Pola Pollentia Herculanea" per brevità chiamata la Pietas Iulia, da cui abbiamo tutti i motivi di credere derivi il nome della città di Pola. Essa giace a una decina di km dall'attuale città di Pola.

E' nella metà del I sec. a.c. sotto il governo di Giulio Cesare, che la città si evolve, ma sembra che
sia stata distrutta da Augusto a causa della sua adesione al partito di Bruto e Cassio, ma venne però rifondata dallo stesso imperatore con il nome di "Pietà Julia" come monumento della sua venerazione a Cesare, ma pure a se stesso perchè anche lui da adottato era diventato Cesare, e vi fece stabilire una colonia dei suoi soldati si stabilirono qui su un terreno preso agli abitanti più potenti. 

La situazione della città, che si trovava sulla rotta da Ancona a Zara, e gli insediamenti romani all'interno dell'Illiria e della Pannonia, migliorarono notevolmente aumentando la sua ricchezza ancor più durante il regno di Settimio Severus, tra la fine del II e l'inizio del III sec. d.c., e giungendo a contenere oltre i trentamila abitanti, cosi che con Salona (capitale romana della Dalmazia), Pola diventò il più grande insediamento sulla costa ovest dell’Adriatico.

Decadde miseramente, come più o meno tutte le altre città, con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente (al fine del V secolo).

STATUA DI AUGUSTO RINVENUTA NEL TEMPIO DI AUGUSTO

DESCRIZIONE

Specialmente in era imperiale, Pola si romanizza con un'urbanizzazione sul modello romano del cardo e decumano, con case regolari rettangolari, un Foro con strade e piazze lastricate, acque di scarico, insule, le mura, e i grandi monumenti dell’Anfiteatro, Campidoglio, gli Templi di Augusto e Diana, l’Arco di trionfo dei Sergi, la Porta di Ercole, la Porta Gemina, il Piccolo e il Grande teatro romano.

PORTA GEMINA


LA PORTA GEMINA (Porta Gemella) 

Pola era circondata da mura, dall'antichità fino a poco tempo fa quando furono demolite per l'espansione del centro della città. Pola aveva una decina di porte, di cui ancora visibile Porta Gemina e parte delle mura. Nel medioevo per ragioni difensive venne coperta di terra e solo all'inizio del XIX secolo fu ripulita e conservata.

La Porta risale al II - III sec., è decorata con tre mezze colonne a capitelli compositi, uniti da un architrave. Sugli archi sono ancora visibili le fessure dei cardini e conserva una targa con il nome di Lucio Menacio Prisco, consigliere comunale e senatore che aveva finanziato la costruzione di uno dei sistemi di approvvigionamento idrico della città. 

La targa fu trovata accanto al monumento ma vi venne issato sopra. Passando attraverso la porta si incontrano i resti di un mausoleo ottagonale del II-III sec., poi si sale verso il Museo Archeologico, il Castello e il piccolo Teatro Romano.

PORTA ERCULEA
Porta di Ercole a Pola è una porta molto semplice situata tra due torri che dovrebbero essere medievali, eseguita a blocchi di pietra grezzi. Nella sua parte superiore è scolpita la testa di Ercole con barba, capelli ricci e clava. Forse era simbolo della città, visto che si chiamava Colonia Iulia Pollentia Herculanea.

Molto danneggiata la targa accanto alla clava con i nomi di Lucio Calpurnio Pisone e Lucio Cassio Longino. Secondo le fonti il primo era il suocero di Giulio Cesare, il padre di sua moglie Calpurnia e il secondo fratello dell'omonimo Cassio Longino, che ha partecipato all'omicidio di Cesare.

Probabilmente vennero inviati dal Senato con un gruppo di coloni, nel 47 al 44 ac, per fondare Pola. Come la Porta Gemini, la Porta Ercole fu dissotterrata nei primi anni del XIX secolo e negli anni Trenta del XX secolo è stata pulita e conservata.

ESTERNO DELL'ANFITEATRO

L'ANFITEATRO

Venne eretto al tempo di Augusto, nel I sec. d.c., continuando sotto l'imperatore Claudio fino al tempo di Vespasiano. Una leggenda tramanda che l'imperatore Vespasiano fece edificare la magnifica Arena in onore del suo amore per la bella polesana Antonia Cenida, per far colpo su di lei. 

L’anfiteatro di Pola o l’Arena di Pola (conosciuta con il nome popolare di Divić-grad) è il monumento più grande e ben conservato dell’antichità in Croazia. Comparandolo con più di 200 anfiteatri romani, il mantello esterno dell’anfiteatro di Pola, con le sue quattro torri scalari, è il meglio conservato e raro esempio di tecniche e tecnologie singolari. Per grandezza è il sesto anfiteatro romano al mondo e l’unico al mondo con tutti e tre gli ordini architettonici completamente conservati.

L'INTERNO
In effetti l’Arena di Pola può essere paragonata ai grandi anfiteatri del Colosseo a Roma, dell'Arena di Verona, di Pompei o di Nimes e Arles in Francia. L'anfiteatro aveva forma ellittica con l'asse nord-sud lungo 130 m, e l'asse est-ovest di 100 m, con due serie di arcate, ciascuno con settantadue archi, e una serie di aperture rettangolari sopra di loro.

Era munito di quattro torri per la parte superiore del viale da dove si estendeva il velario che proteggeva il pubblico dal sole e la sua cavea poteva contenere ventimila spettatori. Lo spettacolo più atteso era comunque quello dei gladiatori.

Dopo gli spettacoli d'introduzione, che erano accompagnati con la musica che rilevava le parti più importanti dello spettacolo, cominciavano i giochi circensi. I gladiatori erano schiavi, prigionieri di guerra o prigionieri condannati a morte, ma anche persone libere che la fame aveva spinto a scommettere la vita in questo pericoloso spettacolo, che poteva dare la morte ma pure la fama e la ricchezza. Nell’anfiteatro era popolare anche la caccia alle belve (“venatio”) in cui le bestie dovevano combattere tra loro o con gli umani.

Per due volte la Croazia ha candidato l’Arena di Pola nella Lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO, ma poi, per motivi misteriosi, ha ritirato la candidatura, per cui a tutt'oggi non ne fa parte.

IL TEATRO PICCOLO


I TEATRI


Pola possedeva due teatri, il Grande teatro fuori città, sul versante meridionale della collina di Monte Zaro, che è stato completamente distrutto nel XVII secolo (le pietre erano utilizzate per la costruzione del castello veneziano), e l'altro, il Piccolo teatro romano, all'interno delle mura della città a cui si giungeva dalla strada attraverso la Porta Gemina, sulle pendici nord-orientali della collina Kaštel, di cui si sono salvati i resti della fondazione della scena e lo spazio per il pubblico.

Gli spettacoli del teatro romano inizialmente erano ispirati ai miti, con scene anche cruente, in seguito divennero più allegre e leggere con la commedia Atellana, avvalendosi di attori mascherati, cantanti, acrobati e mimi che cantavano, danzavano, e declamavano poesie con l'accompagnamento di arpa, flauto e di altri strumenti. pur essendo spettacoli piuttosto licenziosi alle donne non era consentito recitare e le loro parti venivano sostenute dai maschi.  
Del teatro popolarmente noto come "Zaro che si trovava fuori e ad ovest delle mura della città, non rimane purtroppo nulla, se non lo scavo nella collina rocciosa per le sedi dell'auditorium. Sebbene fosse stato colpito da un uragano, l'edificio rimase in uno stato discreto fino al 1636; ma in quell'anno venne distrutto e le pietre furono usate da Antony de Ville, un ingegnere francese, per costruire la fortezza sul Campidoglio."
(T.G. Jackson)

La fortezza fu costruita sulla cima della collina sul sito del Capitolio (perduto), un tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva. 

TEATRO PICCOLO

IL PICCOLO TEATRO

Pola aveva un secondo teatro all'interno delle mura, proprio sotto la fortezza; Jackson avrebbe potuto confondere i due quando fece riferimento alla fortezza costruita con le pietre del teatro.
Sebastiano Serlio (1475-1554), che ha visto il teatro nella prima metà del XVI secolo, ne ha pubblicato una pianta che rende l'idea della sua bellezza. Il teatro era adagiato sulla pendice della collina, caratteristica dei teatri greci.

Aveva una scena ed il proscenio ove si svolgevano le rappresentazioni, oltre all'orchestra e alla cavea.
Aveva colonne corinzie, ed era riccamente decorato con le sculture e due ordini di colonne. L'interno era molto rovinato, ma l'esterno era cosi ben conservato che si riuscì a farne disegni precisi.

Di esso restano le fondamenta della scena e della cavea, sebbene in età romana il teatro occupasse un' area più grande rispetto a quanto risulta visibile ai nostri giorni poiché gli scavi archeologici non vennero mai conclusi. Si suppone che potesse accogliere tra i 4 e 5 mila spettatori che all' epoca comprendeva tutta la popolazione di Pola. Oggi, come in epoca romana, si accede al teatro attraverso una doppia entrata.

IL TEMPIO DI AUGUSTO E ROMA

IL TEMPIO DI AUGUSTO E ROMA

Da Porta Aurea il Corso o Via Alta corre verso la Piazza, che occupa parte dell'antico Foro. All'estremità superiore di questo si ergevano ancora due templi romani, una volta esattamente uguali, anche se quello alla mano destra, dedicato secondo la tradizione a Diana, non può più essere riconosciuto dalla facciata come un antico edificio.

Tra il 1275 e il 1300 fu infatti racchiuso tra le mura del Palazzo Comunale di Venezia, e anche di questo palazzo rimane solo il muro laterale, il fronte è caduto e ricostruito nel 1651.
(TG Jackson)

Quando Jackson visitò Pola il Tempio e il Municipio erano uniti da una serie di piccoli edifici che furono abbattuti negli anni '20 come mostrato in un'incisione basata su un dipinto di Charles-Louis Clérisseau di cui sopra.

DETTAGLI DEL TEMPIO DI AUGUSTO E ROMA
Accanto al Tempio di Augusto e Roma c'è a destra la veduta aerea del Forum durante una campagna di scavi archeologici che mostra le basi di un certo numero di edifici antichi. 
Il tempio è quasi perfetto, e anche se non è grande, un bellissimo esempio di architettura romana stupenda come qualsiasi cosa di quell'epoca arrivata fino a noi. 

La proporzione è stretta e alta; quattro colonne di bella breccia sostengono i capitelli corinzi, che insieme agli ornamenti della trabeazione sono eseguiti con la massima delicatezza e finezza. Sul fregio c'era un 'iscrizione in lettere di bronzo in rilievo che sono scomparse, di certo  la dedicatoria del tempio ad Augusto, congiuntamente, come sempre volle, unitamente alla Dea Roma. 

La ragione per cui Augusto non dedicò mai un tempio a lui solo risiede nel fatto che la divinizzazione dell'imperatore non lo trasformava in un Dio, cosa che la religione romana non avrebbe mai permesso, ma lo innalzava un po' a superuomo, concedendogli l'onore di procurarsi un suo posto in un tempio dedicato però a una vera divinità, come ad esempio era la Dea Roma.

ARCO DEI SERGII,

ARCO DEI SERGII

Arco dei Sergii: (a sinistra) davanti a Porta Aurea, il cui sito è segnato da due pietre; (a destra) davanti alla continuazione del circuito delle mura verso ovest, dalla Porta Herculea si arriva alla Porta Aurea, o piuttosto al suo sito, poiché la porta è scomparsa, venne demolita nel 1829 per migliorare la vista dell'arco. 

Resta comunque un arco memoriale della famiglia dei Sergii, che è stato il permesso di costruire contro la porta della città, e che è sopravvissuto alla porta stessa. Oggi il legame tra Arco dei Sergi e Porta Aurea non è così facile da comprendere come lo era quando Jackson visitò Pola, perché i muri di transizione tra i due edifici sono stati rimossi. 

Il vero fronte dell'arco è verso l'interno della città, mentre il lato esterno è semplice e ha le sue
colonne solo parzialmente finite. L 'arco fu costruito, come dice l'iscrizione, in onore di tre membri della famiglia dei Sergii, le cui statue senza dubbio occuparono i tre piedistalli del solaio. Poiché nelle iscrizioni non viene nominato un imperatore, la data del monumento è incerta. Comunque oggi è datato alla fine del I sec. a.c.

ARCO E CANCELLO - (Charles-Louis Clérisseau 1760) 
Osservando l'arco si nota a sinistra una delle due vittorie alate sul fronte dell'arco verso la città. A dx in alto un rilievo nella volta in alto che mostra un'aquila che artiglia un serpente, a dx in basso invece c'è la decorazione dei lati interni con girali, uva e foglie di acanto.

Questo perché uno dei membri della famiglia dei Sergii a cui era dedicato l'arco occupava una posizione di prestigio nella XXIX legione. Questa Legione fu innalzata da Giulio Cesare nel 49 ac e fu sciolta da Augusto dopo la sua vittoria su Marco Antonio e Cleopatra ad Azio nel 31 ac. 

Nel 1944 il Tempio di Augusto fu colpito da una bomba e una parte dell'iscrizione dedicatoria fu persa. Il tempio fu studiato da Andrea Palladio che includeva un suo disegno e i dettagli della sua decorazione nel suo Trattato sull'Architettura del 1570. 

ARCO DEI SERGII - DETTAGLI
Nel 1756 il conte Francesco Algarotti, filosofo veneziano e collezionista d'arte, visitò Pola e acquistò un frammento caduto della decorazione corinzia del tempio. Alla fine lo donò a papa Benedetto XIV per le collezioni dei Musei Capitolini. I curatori romani del museo tuttavia non rimasero colpiti dal dono tanto che non lo inserirono nel catalogo del 1782 degli oggetti esposti.

Vista posteriore dei due templi; di Augusto, di Diana e la base di una statua romana con l'iscrizione: "All'imperatore Cesare (Valerio Liciniano Licinio) pio felice imbattuto Augusto. Il popolo di Pola, devoto al suo spirito divino e alla sua maestà".

VEDUTA POSTERIORE DEI TEMPLI DI AUGUSTO E DI DIANA
I cittadini di Pola si dovettero cancellare il nome del co-imperator Licinio dall'iscrizione di una statua antecedente al 317 dc. quando scoppiò una guerra tra lui e Costantino. Fu sconfitto e dovette cedere alcuni territori tra cui Pola. Nel 324, I guerra civile, fu costretto un ritirarsi come privato cittadino a Salonicco, dove fu giustiziato l'anno seguente. La formula Pio Felici Invicto (pio imbattuto felice) fu usato per la prima volta nel III secolo dc.

"Il Tempio di Augusto ora accoglie museo, anche se la sua piccola area è del tutto inadeguata all'esposizione degli oggetti per cui il cortile esterno è affollato quanto il museo. Allo stato attuale, statua, altari, iscrizioni e sarcofagi sono ammucchiati come materiali nel cortile all'esterno. Non esiste un catalogo, né si può distinguere l'opera romana, dalla bizantina e dalla medievale, tutto confuso in un guazzabuglio generale e senza speranza". 

(TG Jackson) 

Un museo è stato aperto negli anni '20 vicino a Porta Gemina, ma nell'aprile 2013 è stato chiuso per l'adeguamento. Era ancora chiuso a settembre 2014, senza un avviso che indica il momento della sua riapertura. Un certo numero di antiche iscrizioni, colonne, architravi. ecc. dei periodi romano e veneziano si trovano ammassati in un parcheggio.






I MOSAICI

Sono stati reperiti a Pola sotto una moderna abitazione degli splendidi mosaici appartenenti ad un antica villa romana. I mosaici pur essendo di vaste dimensioni non presentano muri che possano suddividerli per cui dovevano far parte di un unica sala. Il tema principale dei mosaici è la punizione di Dirce, una figura della mitologia greca, moglie di Lico.


I MITO

Lico era stato esiliato assieme al fratello Nitteo per l'uccisione di Flegias, il figlio di Ares (Marte) e si stabilirono a Tebe, dove Lico divenne re e sposò Dirce. Poi accolse sua nipote Antiope, cacciata da Nitteo, ma la trattò come una schiava e quando lei dette alla luce due gemelli, Anfione e Zeto, ordinò di abbandonarli sul monte Citerone, affinché morissero. I neonati però, furono ritrovati casualmente da un pastore che li allevò come se fossero figli propri.

Nel frattempo la moglie di Lico, Dirce, trattò Antiope peggio di Lico fino a che scappò e giunse al rifugio dove vivevano i figli ormai adulti che la riconobbero e la vendicarono uccidendo Lico e facendo trascinare Dirce da un bue. I due gemelli si impossessarono poi del regno tebano e costruirono una nuova città ai piedi della Cadmea. (somiglia parecchio al mito di Romolo e Remo)


II MITO

Antiope venne sedotta nella notte da Zeus e per non essere uccisa scappò a Sicione dove si sposò con il re della città Epopeo. Nitteo, che sulla figlia aveva intenzioni non tanto paterne, alla notizia del matrimonio si uccise per la disperazione, lasciando il compito al fratello di andare a riprendere la figlia e vendicare la sua morte. Lico così catturò Antiope, abbandonò sul monte Citerone i figli della nipote nati dal rapporto con Zeus, Anfione e Zeto ed uccise Epopeo.

IL SUPPLIZIO DI DIRCE

III MITO

Un giorno Lico accolse sua nipote Antiope, cacciata dal fratello Nitteo. Dirce trattò Antiope come una schiava, maltrattandola e quando Antiope diede alla luce due gemelli, Anfionee Zeto (i Dioscuri tebani), Lico ordinò che venissero esposti alle belve sul monte Citerone. Un pastore però trovò i gemelli e li allevò come figli propri.

Antiope fuggì e giunse alla grotta dove abitavano i suoi figli, che la riconobbero solo successivamente. Divenuti adulti, i figli decisero di vendicare la madre e uccisero Lico e poi punirono atrocemente Dirce, attaccandola ad un toro furioso, che la trascinò via uccidendola. Dioniso ebbe pietà di lei e la trasformò in una fonte presso Tebe; in altre versioni, venne gettata in una fonte, che assunse il suo nome.


LE INVASIONI E I MITI

Con le invasioni i miti cambiano, perchè gli invasori portano nuovi Dei e nuovi eroi, per cui antiche divinità vengono declassate o a semidivinità, o a comuni mortali, o a esseri malvagi. Dirce, o Derceto, era una grande Dea dei Siri, adorata in Ascalona, con busto di donna e pesce nella parte inferiore, insomma una sirena. Nel mito greco Dirce divenne una specie di mostro che avendo offeso Venere ne fu punita ispirandole un violento amore per un giovine sacerdote con cui si giacque avendone una figlia, ma per la vergogna uccise il giovane e gettò la bambina in un lago trasformandola in pesce.




VILLA DI TRAIANO (Arcinazzo)

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RICOSTRUZIONE GRAFICA ( http://www.noreal.it )
Quale altra distensione tu infatti ti concedi se non battere pendii selvosi, cacciare dalle tane le fiere, superare immense creste di monti, scalare sommità coperte di ghiaccio senza nessuno che ti presti aiuto e ti apra la via e, nel mentre, andare nei boschi sacri in devoto raccoglimento e venerare le divinità?…. 
Egli (Traiano) si affatica nel cercare e nel catturare le fiere e la maggiore e più gradita fatica consiste nello stanarle. E quando vuole mettere alla prova la sua forza in mare, egli non si limita a seguire con lo sguardo e con i gesti le veleggianti navi, ma o si mette al timone o con qualcuno dei più valenti compagni gareggia a frangere i flutti, a domare i venti ribelli e a vincere gli avversi marosi con i remi".
(Plinio il Giovane - Panegirico a Traiano)

RICOSTRUZIONI GRAFICHE ( http://www.noreal.it )
La Villa di Traiano si trova presso gli Altipiani di Arcinazzo (Lazio, 900 m s.l.m), a circa 80 km da Roma; a cavallo delle due Valli del Sacco e dell'Alto Aniene, e non è menzionata in modo chiaro dalle fonti, ma nel Panegirico a Traiano (98-117) (vedi sopra), pronunciato nel 100 d.c. da Plinio il Giovane (61 - 114) in onore dell'Imperatore, c'è un chiaro riferimento alla villa, in quanto la descrizione del paesaggio circostante somiglia a quei luoghi, specie in epoca romana. L'imperatore fece già grandi interventi sull'Aniene presso la Villa Ad Simbruina Stagna (già di Nerone) che egli abitò e che era situata qui vicino, sull'attuale Strada dei Monasteri di Subiaco.

Plinio il Giovane, infatti, nel tessere le doti di Traiano, parla delle sue passioni alla caccia e alla pesca e infatti, verso la fine dell'800 furono rinvenute nei pressi della Villa una serie di Fistula acquaria, cioè condutture dell'acqua in piombo, con la titolatura imperiale ed il nome del procuratore Hebrus, lo stesso ricordato per la residenza di Traiano a Centumcellae (Civitavecchia). Si ritiene infatti che che la Villa sia stata costruita fra il 97 ed il 114 d.c. ( forse in due fasi costruttive separate).

Questa residenza estiva dell'Imperatore Traiano sorge sugli Altipiani di Arcinazzo, alle falde del Monte Altuino (1271 m s.l.m.), in una zona attraversata dal fiume Aniene, le cui acque pregiate erano considerate le più buone e salubri dell'antichità. La villa, i cui lavori iniziarono alla fine del I sec. d.c., occupa una superficie di circa 5 ettari, molti dei quali ancora da scavare. Il rinvenimento delle fistulae non solo ha permesso di attribuire con certezza il complesso a Traiano, ma anche per la datazione della villa.
PLANIMETRIA DELLA VILLA

Sulla prima serie di fistulae si legge
IMP(eratoris) NERVAE TRAIANI CAESAR(is) AUG(usti)
GERMANIC(i) SUB CURA HEBRI LIB(erti) PROC(uratoris) .
Grazie all'appellativo di Traiano come "germanico" si possono datare queste parti del complesso tra il 97 ed il 99 d.c. visto che l'imperatore acquisì il termine dopo la sua vittoria nelle guerre contro i Germani.

Sulla seconda serie si legge:
IMP(eratoris) CAESARIS NERVAE TRAIANI
OPTIMI AUG(usti) GERMANIC(i) DACICI
Grazie all'appellativo di Traiano come "dacico" si possono datare queste parti del complesso tra il 114 e il 115 d.c. visto che l'imperatore acquisì il termine dopo la sua vittoria nelle due guerre daciche nel 106 d.c., mentre non è presente l'appellativo Particus che riceverà soltanto nel 116 d.c. dopo la campagna militare contro i Parti. 

Dalla prima serie di fistulae emerge anche il nome del curatore dei lavori presso la Villa, e cioè Hebrus, liberto e Procuratore dell'Imperatore che risulta anche su altre iscrizioni provenienti dalla Villa di Centumcellae (CIL, XV 7770 e 7771). Non sarebbe strano che Traiano, conscio delle ottime capacità del suo liberto, avesse affidato ad Hebrus ambedue i lavori sia presso Centumcellae, sia presso gli Altipiani di Arcinazzo.




IL SITO ARCHEOLOGICO

La villa. che risale agli inizi del II sec. d.c., si erge su tre vasti terrazzamenti, quello più in basso è l'unico fino ad oggi indagato dagli scavi archeologi, che si dislocano dalla sommità del pianoro fino dalle pendici del Monte Altuino (1271 m s.l.m.) che digrada fino a valle. 

La Villa, che fungeva da ristoro al caldo clima estivo ma pure da padiglione di caccia nonchè di pesca, due attività che piacevano molto all'imperatore nei periodi di riposo, si estendeva su una superficie di circa quattro chilometri distribuiti su tre terrazzamenti e oltre a numerose stanze era dotata un impianto termale, un impianto sportivo e una enorme piscina ovale.

Il museo locale accoglie elementi architettonici e decorativi come marmi, stucchi dorati, raffinatissimi pavimenti in opus sectile, e affreschi dai colori vivaci che decoravano le sale di questa splendida villa. La Villa sorge sulla sinistra della Via Sublacense ed oggi è meta di itinerari archeologici anche grazie alla presenza del vicino Antiquarium ospitato in due casali rurali ristrutturati proprio per essere utilizzati come sale espositive dove sono alloggiati anche n bacino in marmo e alcuni vasi da giardino.





GLI SCAVI

Gli scavi iniziarono negli anni Cinquanta del '900 (1955, 1958, 1960), campagna in cui emerse un piccolo settore della Villa lungo la via Sublacense (sub lacum), il muro di contenimento che delimita la terrazza inferiore e parte di quello analogo per la terrazza superiore. Si comprese allora che la pianta fosse dotata di un peristilio e si studiò la zona di quello che fu allora considerato un ninfeo (oggi sappiamo invece che si tratta di un triclinio) nella terrazza inferiore. Furono inoltre individuate una cisterna e una vasta pianta di forma ellittica nella terrazza superiore.

Altri interventi avvennero negli anni Settanta e tra il 1980 ed il 1982 che portarono alla scoperta dell'importante area del triclinio. Il più recente cantiere di scavo è stato aperto nel 1999 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio (odierna Sopraintendenza Archeologia del Lazio ed Etruria Meridionale) sia per scoprire maggiormente il sito, sia per restaurare le aree già portate in luce. Si ebbero così nuovi ritrovamenti pittorici e ornamentali. 

PARETE MARMOREA

PLATEA INFERIORE

La platea inferiore, la parte di rappresentanza del complesso, in direzione Est-Ovest, è meno estesa della platea superiore. Essa è di struttura rettangolare fortemente allungata (100 x 40 m) è sorretta a da una sostruzione continua a massicci contrafforti. Ha un rivestimento in opus mixtum di reticolato e fasce di mattoni, mentre nelle piccole superfici ha o solo il listato o solo il laterizio.

Il centro della platea, oggi totalmente spoglia, è identificabile con il giardino, all'epoca ricco di piante ornamentali, fontane ed architetture decorative, con le varie costruzioni che gli ruotano intorno per prendere aria e goderne della vista. Infatti alle estremità del giardino sono state rinvenute due grandi vasche-fontana semicircolari, con gradini agli angoli, rivestite in marmo bianco; affiancate da una base in muratura che forse sorreggeva un bacino.

Il giardino è circondato su tre lati (Est-Ovest-Sud) da portici voltati: a Sud (lato lungo verso la strada) e ad Est (uno dei due lati brevi) si succedono grossi pilasti con applicate delle semicolonne in laterizio rivestite di stucco, ad Ovest, invece, i pilastri erano sostituti da nove colonne scanalate e architrave in marmo cipollino su basi ioniche di marmo bianco con intercolumni più larghi al centro.

Il portico Sud è l'accesso alla parte di rappresentanza, a Ovest della platea; con il portico voltato e decorato da affreschi su fondo scuro con costolature in rosso e oculo centrale, il pavimento era rivestito in lastre di marmo bianco. Delle pitture resta un clipeo con la raffigurazione di una Vittoria Alata, con spada e disco d'oro. Il portico si apriva sul giardino mentre a Sud, lungo la strada, dei grossi finestroni consentivano di ammirare il paesaggio circostante.

Nel lato Nord il giardino è delimitato dalle sostruzioni che sorreggono la platea superiore, decorate da nicchie rivestite di marmo da cui sgorgava acqua. Successivamente le nicchie-fontane furono murate, per ragioni ignote, forse di infiltrazioni. 

PAVIMENTAZIONE
Ad Ovest del giardino si apre il corpo principale della platea, la parte che ha restituito il maggior numero di reperti. Al centro c'è il triclinio (13 x 9 m), a cui si accede da quattro porte intervallate da finestroni che aprono sugli ambienti laterali. L'ingresso verso il giardino era inquadrato da una coppia di colonne. Sulla parete di fondo c'è un ninfeo con tre nicchie dalle quali fuoriusciva l'acqua che si riversava nel lacus sottostante.

Le nicchie erano incorniciate da mensole in marmo, decorate da delfini e tritoni, che servivano come appoggio per le colonnine che sostenevano l'architrave decorata. Al di sopra una fascia di un mosaico in pasta vitrea, in modo da riflettere i raggi del sole, che colpendo il sottostante specchio d'acqua, creavano un gioco di luce e colori sulle pareti circostanti in marmo e stucco dorato. Il ninfeo era dotato di un volta che garantiva armonia e grazia a tutta la struttura. 

Il pavimento era in opus sectile, ossia da lastre rettangolari di pregiati marmi policromi di provenienza africana bordate da listelli in giallo antico. Ai due lati del triclinio è presente la medesima successione di ambienti di forma, dimensioni e funzioni identiche: in primo luogo un ampio atrio rettangolare (18 x 7,20 m), inquadrato da una doppia coppia di colonne. I vani nel fondo erano destinati agli ospiti di prestigio.

Questi ambienti possedevano due ingressi distinti, uno per angolo, posti ai lati del grande finestrone che dava sull'atrio-vestibolo; il tetto era voltato a botte, mentre i pavimenti erano in opus sectile. Di estrema preziosità era la decorazione delle pareti e della volta, della quale è stata rinvenuta una grande quantità di frammenti.

All'angolo Est dello scavo c'è un avancorpo proteso verso la strada, nel quale, tra i contrafforti, si aprono quattro finestre che davano luce ad ambienti retrostanti. Nel muro ortogonale vi sono tre successive aperture; due immettono in vani rettangolari con larghe porte, di cui si conservano le soglie a massicci blocchi di calcare; la terza ospita una scala per superare il dislivello del terrazzamento, che aveva i gradini rivestiti di blocchi di calcare. È questa la zona del vestibulum della villa dotato di ambienti di servizio e magazzino, l'ingresso ufficiale che si raggiungeva salendo agli Altipiani dalla via Praenestina.



PLATEA SUPERIORE

Non ancora scavata, ma con prospezioni elettromagnetiche, condotte dall'Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Queste hanno rivelato il nucleo privato della residenza dove l'edificio privato sembra affiancato da un complesso termale ed una struttura ellittica identificabile con un vivarium per l'allevamento dei pesci. Questa platea è la parte privata dell'intero complesso e tramite le prospezioni elettromagnetiche si è ottenuta una pianta dell'area abitativa e privata.




IL SISTEMA IDRICO

La Villa era alimentata da due capienti cisterne collocate ad una quota superiore. Una, sulla collina a Nord-Est, con due lunghi ambienti rettangolari con volte a botte, collegate da passaggi aperti nel muro centrale. La seconda cisterna, i cui resti sono inglobati in casaletti rustici, sorgeva ad Ovest, più vicina alla platea superiore; e serviva ad alimentare le fontane all'interno del Triclinio. Tutta l'acqua in uscita defluiva all'esterno tramite uno speco che sbocca sotto un contrafforte del terrazzamento



LO SPOLIO

La Villa fu oggetto di spogli e demolizioni anzitutto ad opera del cristianesimo, per cui tutto ciò che era pagano doveva essere cancellato, proseguendo in epoca alto-medievale e nel corso del Seicento. Dalla fine del Settecento in poi lo spoglio riprese ancora più accanito per riutilizzare i materiali antichi, soprattutto i numerosi e preziosi marmi, ma pure i ricchi decori. Nel 1777 la distruzione riprese più intensa per la costruzione della chiesa di Sant'Andrea presso Subiaco.

Dall'analisi del carteggio tra il direttore degli scavi G. Corradi ed il Prefetto delle Antichità dello Stato Pontificio G. B. Visconti, si deduce che il rifornimento di marmi preziosi fu ingente; gli scavi si interruppero nel 1778 dal momento che i materiali per la costruzione della Chiesa erano ormai sufficienti.

Nel 1829 e fino a tutto il 1833 furono avviati ulteriori lavori nella Villa per il recupero del materiale utile per la costruzione della Chiesa di Santa Maria Assunta presso Arcinazzo Romano. Qui si dette fondo non solo ai materiali pregio, ma anche quelli di poco conto, come ad esempio il piombo.


Nuovi reperti della Villa di Traiano ad Arcinazzo Romano esposti nella mostra “Affreschi e stucchi della Villa dell’Imperatore”
( Fonte )

17/07/2017
Sarà esposta fino al 30 settembre presso il Museo Archeologico “Villa di Traiano” ad Arcinazzo Romano una selezione di stucchi e pitture rinvenuti nella villa imperiale (114-116 d.c.) in loc. Altipiani, presentati per la prima volta al pubblico e destinati, a partire dal 12 ottobre, alla grande mostra “Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa”, che si terrà a Roma, ai Mercati di Traiano, in occasione dei 1900 anni dalla morte del famoso conquistatore della Dacia. I reperti, restaurati a cura del Comune di Arcinazzo, provengono dai depositi della Soprintendenza, ove si conservano tutti i materiali restituiti dagli scavi del 1999-2011 che non hanno ancora trovato posto nel Museo e nell’Antiquarium della villa.

Gli stucchi, assemblati in circa dieci pannelli, decoravano, insieme a marmi e pitture, la lussuosa sala XVIII, che fa parte del gruppo di ambienti monumentali comprendenti il triclinio imperiale, affacciati sul giardino della platea inferiore della villa. Di eccellente qualità artistica, in quanto realizzati a stampo, ma ritoccati a stecca e impreziositi da dorature e applicazioni in oro, rivestivano la zona medio-alta delle pareti. Sono suddivisi in ricche fasce variamente ornate con motivi geometrici, floreali o figurati e racchiudenti riquadri con esili architetture prospettiche, entro le quali campeggiano figure di divinità stanti e assise o si svolgono scene ancora troppo incomplete per poter proporre un’interpretazione. 
Le architetture si segnalano per la cura della resa dei particolari di basamenti e fastigi delle colonne.Le pitture sono solo un’anticipazione della decorazione del piccolo ambiente XVI (un cubiculum o ritiro privatissimo dell’imperatore), riprodotto in scala 1:1 all’interno del Museo, rinvenuta crollata sul pavimento marmoreo. Sono esposti un segmento della fascia a fondo rosso (da una delle pareti) con la dettagliata raffigurazione di un portico colonnato visto di scorcio, posta al di sotto di una complessa scena cerimoniale ambientata davanti a un maestoso edificio, e una scena nilotica (dalla volta) con tre personaggi della sfera dionisiaca su un’imbarcazione di papiro coperta con un arco a festoni.

MONS PINCIUS - PINCIO

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LA SALITA DEL PINCIO

Il Pincio è un colle di Roma, non è compreso fra i famosi sette colli su cui Roma è stata fondata. In antico, era chiamato Collis Hortulorum, per i giardini che circondavano le importanti tombe romane ivi esistenti, come quella gentilizia dei Domitii. Il colle si trova a nord del Quirinale, e guarda sul Campo Marzio.

Il nome Pincio deriva da una delle famiglie che l'occupò nel IV secolo, i Pincii la cui villa, con quella degli Anicii e degli Acilii, occupava la parte settentrionale della collina. Il Mons Pincius, che rientrò nelle mura aureliane, non venne considerato all'epoca il centro di Roma, nè la zona più lussuosa, che era senz'altro il Palatino, dove c'era la reggia e la corte, per cui i terreni erano carissimi.

I terreni del Pincio costavano molto meno e avevano una bella posizione in qualità di collina, quindi panoramica e ventilata. In effetti, le pendici del colle cominciarono a popolarsi di ville patrizie verso la fine dell’età repubblicana: ad esempio  qui sorgeva la villa di Lucullo, costruita intorno al 63 a.c. e circondata di terrazze.

Il Pincio aveva infatti rare abitazioni, perlopiù domus, che lontane dal chiasso dell'Urbe, suggerirono non solo a Lucullo ma pure a Sallustio una soluzione urbanistica che riuniva in sè tanto la casa di città che quella di campagna.


Qui le domus albergavano nel vastissimo verde, fatto di boschi, di orti, di campi coltivati, ma pure di splendidi giardini con viali ombrosi, balaustre lavorate, statue preziose, fontane zampillanti, scalinate marmoree, terrazze sovrastate da teli ondeggianti, alberi e siepi odorose.

 « Nel monte Pincio vi era una conserva di acqua.... la quale da alcuni frati fu fatta disfare per ridurla in grotta di vino.... ma perchè erano di poca profondità riuscirono più calde ».
Le gallerie rivestite di candido stucco, con cordoni agli angoli rientranti, hanno la larghezza costante di m. 2,00 : l'altezza varia dai m. 2,00 ai m. 2,50. Frequenti vi sono gli spiraceli foggiati a cono, per attingere l'acqua in servigio della villa: e nel piano della galleria, che loro corrisponde di sotto a piombo, è scavato un pezzuole, profondo mezzo metro. Dalla parte di ponente si estendono alcune gallerie trasversali, per lunghezze che eccedono gli 80 m:, mancando le longitudinali. Tutto questo labirinto è scavato nel tufo: ma nel punto ove ora sorge il casino del Valadier eravi, e conservasi ancora in parte, una piscina manufatta, di opera reticolata con restauri di laterizio. Il Cassio, che la vide integra il 25 gennaio 1749, la descrive composta di due vani. Il maggiore era lungo m. 30,10, largo m. 10,00, alto fino al pelo d'acqua m. 4,01, rivestito di signino. Il minore era lungo m. 11,15, largo m. 4,46. Ambedue comunicavano col labirinto de' ricettacoli, mediante asole nella volta." -

(RODOLFO LANCIANI)

Questa ricchissima quantità di acque con meravigliose opere idrauliche, dai canali ai pozzi, ai tubi, alle cisterne, erano in modo efficacissimo al servizio dell'irrigazione degli Horti Pinciani, anzi, ai molti Horti che sorsero sul Pincio nell'ultimo periodo repubblicano. Il colle era infatti noto nell'antichità come il Collis Hortulorum (il colle dei giardini).

VASCA ROMANA DEL PINCIO

LA VASCA DEL PINCIO

La vasca della immagine di cui sopra è una grande e antica vasca in marmo africano che era stata portata nel giardino della villa dal Cardinale Alessandro de' Medici (poi Papa Leone X) quando era titolare di San Pietro in Vincoli. La vasca era stata ritrovata durante dei lavori di scavo nel piazzale e quindi proveniva dalla Terme di Traiano su cui la suddetta basilica era stata costruita.
Raffaello di Pagno nella Fontana voluta dal Cardinale, secondo gli esperti d'arte antica e gli storici, riuscì a realizzare “una ricomposizione corretta di una fontana romana” in quanto corrisponde alla descrizione fatta da Rucellai della grande fontana, che raccoglieva l'acqua dell'antica Fons Euripi, che si trovava davanti al Colosseo (prima che il Bramante la smontasse per riutilizzare il labra nella fontana del Belvedere in Vaticano) e che doveva somigliare alla grande fontana pubblica posta nel Comitium.

La Fontana sembra sia stata completata quando Ferdinando era già tornato a Firenze e divenuto Granduca di Toscana, il grande progetto di allineamento armonico tra il fuori ed il dentro fu abbandonato.



Toccò ad Annibale Lippi completare la fontana che alla fine risultò composta da una vasca di marmo africano montata su uno zoccolo di granito poggiante su un bacino ottagonale di granito grigio proveniente dalle cave del Mons Claudianus in Egitto. 

Al centro della vasca fu posto un giglio, fiore dello stemma della città di Firenze, ma ben presto sostituito da una sfera di marmo pavonazzetto da cui usciva un alto zampillo d'acqua, più in armonia col modello romano antico.

La fontana è anche conosciuta come Fontana di Corot per via del dipinto ad olio su tela che il pittore francese realizzò presumibilmente nel 1825; la fontana, proprio per la posizione in cui si trova è stata dipinta da molti artisti tra i quali molti pittori francesi vincitori del Grand Prix de Rome che soggiornarono all'Accademia come Fragonard, Hubert Robert, Vernet oltre Corot che della Fontana realizzò ben tre dipinti diversi, ma anche tedeschi, olandesi come Van Wittel, conosciuto come Vanvitelli, inglesi, svizzeri, danesi e moltissimi italiani.

Secondo il Brizzi il cardinale Ferdinando de' Medici acquistò la vasca antica nel 1587 per farla sistemare da Annibale Lippi. La vasca, allineata con I 'obelisco e le due fontane del giardino della 
villa, avrebbe dovuto far parte di un complesso molto più grandioso di quello effettivamente realizzato.

Un particolare della veduta della villa, realizzata dallo Zucchi (1541- 1596) in uno stanzino, rivela che in origine era stata progettata una prospettiva spettacolare, mai realizzata a causa della partenza per Firenze di Ferdinando, divenuto nell'ottobre del 1587 granduca di Toscana. 

L'incisione dello Specchi del 1699 dimostra che in quell'anno la fontana era già in funzione, con un alto zampillo. Fu l'architetto Giuseppe Valadier (1762-1839), su incarico dello Stato Pontificio, che, tra il 1816 e il 1819 (prima dell'arrivo di Corot), realizzò la passeggiata del Pincio, attinente la villa e collegata a piazza del Popolo mediante rampe carrozzabili.

(Labra di età romana in marmi bianchi e colorati - Annarena Ambrogi - 2005)

HORTI PINCIANI

LA VILLA PINCIANA


Della villa pinciana vi sono ancora visibili pochi resti, che si trovano nel convento del Sacro Cuore. La parte settentrionale del colle era occupata dalle ville degli Acilii, e da quelle più tarde degli Anicii e dei Poncii, che diedero il nome al colle: un resto delle loro costruzioni è il cosiddetto Muro Torto, eretto in età repubblicana e poi incluso nella cinta delle Mura Aureliane.

Fu chiamato anche Muro Malo perché vi venivano sepolti i defunti impenitenti e le prostitute di basso rango: era indicato anche come sepolcro di Nerone.

La sistemazione radicale del Pincio si deve all’intervento di Pio VII (1811), su progetto del Valadier. Assai interessante è l'obelisco egizio, noto come obelisco Pinciano ma che in realtà dovrebbe dirsi di Antinoo: esso fu dedicato dall'imperatore Adriano al suo giovane amico annegato nel Nilo nel 130 d.c.


LA VILLA DI AGRIPPINA

Indagini archeologiche hanno rilevato la villa di Agrippina nel sottosuolo del Pincio ove volevasi nel 2008 eseguire un parcheggio sotterraneo di ben sette piani. Ora i Romani sanno che ovunque si scavi a Roma, sia al centro che in periferia, si scoprono nuovi reperti, purtroppo mai sufficientemente apprezzati da chi dovrebbe portarli alla luce, difenderli e farli fruttare in turismo.

Il piano criminale del parcheggio è sventato ma la bella villa romana è stata risepolta coi suoi marmi, le sue colonne e le sue statue.


GENS ACACIA

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SANTO ACACIO DI BISANZIO

La Gens Acacia viene alla ribalta solo in epoca bizantina, probabilmente di origini greche e plebee.
La gens acacia ebbe una variante in gens acatia (poi acazia). In greco antico il nome era Akakios), e Akakos, femminile Akakia, mentre in latino era Acacius, Acatius, Acathius e Acacus, al femminile Acacia. Il nome non è da confondere con un altro simile, Agazio, che però ha differente etimologia e significato

Il significato del nome Acacio è "innocente", "non malvagio", "privo del male", essendo composto da κακὸν (kakon) o κακη (kake), "male" combinato con un alfa privativa (ἄ). Secondo altre interpretazioni deriva invece dall'ebraico Achazia che significa "il Signore protegge".


Membri che si sono distinti nella gens Acacia:

- Acacius di Antiochia -
noto anche come Agatangelo e Taumaturgo, (.. – 250), venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse. Fu martire sotto l'imperatore Decio.

- Acacius di Bisanzio
detto anche Agazio (Cappadocia, III sec. – Bisanzio 303) è stato un martire cristiano venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa. 
Fu un centurione romano, originario della Cappadocia, di stanza in Tracia con la coorte Marzia. 
Durante la persecuzione contro i cristiani di Diocleziano e Massimiano fu dato l'ordine ai soldati di sacrificare agli Dei pagani. 
Al rifiuto di Agazio, il tribuno della coorte Flavio Firmo lo inviò a giudizio a Bisanzio dal prefetto Bibiano, che lo fece torturare. 
Il proconsole Flacciano infine lo condannò a morte per decapitazione.

ACACIUS DI BISANZIO
Acacio di Melitene -
(... – 430 circa) è stato un vescovo cattolico e santo armeno, vescovo di Melitene nella prima metà del V sec.
Nelle controversie cristologiche combatté Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia e, nel concilio di Efeso del 431, Nestorio, essendo evidentemente propenso al monofisismo.
Il Martirologio Romano ne scrive che: «A Melitene nell'antica Armenia, sant'Acacio, vescovo, che, per aver difeso la retta fede nel Concilio di Efeso contro Nestorio, fu ingiustamente deposto dalla sua sede». 
Si parla pertanto della sua deposizione dalla carica ma non di una condanna a morte.

- Acacius di Beroea
(Siria, 322 – 432) è stato un arcivescovo siro di Beroea, campione dell'ortodossia contro le eresie che si stavano diffondendo ai suoi tempi nella Chiesa orientale. Passò gli ultimi anni della sua vita cercando di eliminare il nestorianesimo dalle sue terre. Morì alla straordinaria età di 110 anni.

- Acacius di Cesarea
(... – 366) scrittore, teologo e vescovo ariano greco, discepolo e biografo dello storico Eusebio, di cui fu successore nella sede di Cesarea dal 340. Vescovo di Cesarea in Palestina, è ricordato principalmente per la sua aspra opposizione a Cirillo di Gerusalemme e per l'importante ruolo che successivamente sostenendo l'arianesimo. Acacio dal 361 e per i successivi due anni occupò le sedi vacanti della Palestina con uomini simpatizzanti con le sue idee antinicene. All'incoronazione di Gioviano, nel 363, tuttavia, aderì ai niceni. Ma quando l'ariano Flavio Valente fu proclamato Augusto, nel 364, Acacio tornò all'arianesimo e si schierò con Eudossio di Costantinopoli. Nonostante ciò, quando i vescovi macedoni si riunirono a Lampsaco, confermarono la condanna infertagli in precedenza e di lui non si seppe più nulla. In definitiva passò la vita a sostenere le tesi ariane sia contro i fedeli di Nicea, sia contro i troppo morbidi seguaci di Ario.

Acacius di Amida -
(IV – V sec.), arcivescovo di Amida in Mesopotamia (oggi in Turchia); è venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Vendette pure i vasi della sua chiesa per liberare i persiani prigionieri nel 422: « A Diyarbakir in Mesopotamia, oggi in Turchia, sant’Acacio, vescovo, che, per riscattare dei Persiani fatti prigionieri e sottoposti a crudeli torture, persuase il clero e arrivò a vendere ai Romani anche i vasi sacri della Chiesa. »

ACACIO MARTIRE
Acacius di Costantinopoli
(.... - 26 novembre 489) fu il Patriarca ecumenico di Costantinopoli dal 472 al 489, e fu il primo prelato in tutta l' ortodossia orientale, famoso per la partecipazione alla controversia calcedoniana.
Per porre fine alla disputa sull'Ortodossia fu indetto il Concilio di Calcedonia nel 482 che affermava il Credo niceno-costantinopolitano ma senza risultato. Acacio consigliò allora all'imperatore bizantino Zenone (425 - 491) di emanare l'editto di Henotikon del 482, in cui furono condannati Nestorio ( 386 - 450), arcivescovo di Costantinopoli, ed Eutyches (380 - 456) presbitero e archimandrita di Costantinopoli.  Papa Felix III condannò e depose Acacio, comportando lo scisma acaciano che durò per tutto il regno dell'imperatore bizantino Anastasio I.

- Acacius militare bizantino -
(greco: Ἀκάκιος; Amida, ... – ...) nativo di Amida, la città turca di Diyarbakır, ex fortezza del limes romano. Acacius è stato un ufficiale militare bizantino, attivo ad Alessandria d'Egitto durante il regno di Giustiniano I (527–565).

Zaccaria di Mitilene lo definisce "Bar Eshkhofo", che sembra significare "figlio di un calzolaio", ma Acacius era pagano mentre Zaccaria era cristiano.

Zaccaria narra che dopo la deposizione del patriarca Paolo di Alessandria e la sua sostituzione con Zoilus (nel 539/540), Acacius era l'ufficiale militare incaricato di proteggere Zoilus dall'ostile popolazione di Alessandria.

Era probabilmente un militare professionista, ma con una carica minore, forse un comes rei militaris o un tribunus (comandante di un reggimento di cavalleria).

I VICUS DI ROMA ANTICA

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I Romani distinguevano il vicus dal pagus. Gli abitanti dei dintorni dell’Urbe erano detti vicini (da vicus, villaggio) fino al X miglio delle mura serviane, mentre i pagani (da pagus, borgo, cantone) erano gli abitanti delle borgate prossime alla città. Tacito parlava di vicus come di una piccola via, un borgo, mentre Orazio lo intendeva come un quartiere, un rione. In Cicerone vicus vale come villa. Forse Orazio era il più vicino alla realtà perchè Vicus era il nome per le suddivisioni delle quattro Regioni di Roma.

Il vicus era a Roma da un lato uno spazio costruito e dall'altro una via percorribile, su cui si aprivano tante strade minori. A Roma in epoca imperiale si contavano ben 424 Vicus. Il termine via era dato solo a poche strade, come la Via Sacra e alla Via Nova, le altre strade di una certa entità erano vicus, se piani, e clivus se in salita. Semitae e angiportus erano invece le viuzze senza nome, che facevano riferimento al vicus, una sottounità della regione governata da 4 magistrati propri, detti Vicomagistri. Il numero assegnato al Vicus era lo stesso dell'edicola del posto. 



ALCUNI VICI DI ROMA


Vicus Aemilianus - dedicato a Publio Cornelio Scipione Aemiliano Africano. Locato nella Regione VII di Via Lata.

Vicus Aemilinus - della regio Via Lata (attuale via del Corso). Forse è la precedente.

Vicus Aesculetumm - Conosciuto solo da un'iscrizione (CIL VI.30957) su un altare dedicato dai magistri vici Aescleti ai Lari, trovata in via Arenula a circa 100 m a nord del Tevere. (NS 1888, 498; BC 1888, 327‑339; 2889, 69‑72; Mitt. 1889, 265‑267; HJ 521‑522). Frammenti di pavimentazioni sono stati rinvenuti in Via di S. Bartolomeo, e il vicus doveva snodarsi in quella direzione. Secondo alcuni si trovava in Campo Marzio.

Vicus Africus: una via posta da qualche parte nell'Esquilino, conosciuto da Varrone (LL V.159: Esquiliis vicus Africus quod ibi obsides ex Africa bello Punico dicuntur custoditi). secondo alcuni abitato dagli africani. Secondo Varrone, dove vennero tenuti gli ostaggi originari dell'Africa durante la guerra punica.

Vicus Albus - Una via forse accanto ad un altare dedicato alla Dea Alba, o Aurora. Della VI Regione.

Vicus Alexandri - portava all'antico porto teverino, dove si caricava e scaricava la pozzolana.

Vicus Angiportus - una via a forma di galleria, quindi ricavato entro un'insula, locata nella Regione II.

Vicus Antiquus Publicum Ad Porta Trigemina - detto Vicus Porta Trigemina, una via nella Regione XI.

Vicus Argei - presso Apollo coelispex, nella Regione XI del Circo Massimo.

Vicus Apollinis - era una via sul Palatino, nella Regione X, la capitolina, menzionata solo dalla Base Capitolina (CIL VI.975), accanto al tempio di Apollo sul Palatino.

Vicus Archemorium - una via posta nella VII Regione della Via Lata. Nel Forum Archemorium detto anche Forum Arthemonium o Foro Suarium, che era il mercato della carne suina di Roma imperiale, collocato nella parte nord del Campo Marzio nella VII regio augustea, non lontano dall'attuale piazza Santi Apostoli.  (CIL VI, 3728, 31046, 9631)

Vicus Armilustri - L'Armilustrium era uno spazio aperto sulla parte nord-occidentale dell'Aventino, a sud dell'attuale chiesa di S. Sabina, dove si celebrava il festival annuale dell'Armilustrium il 19 ottobre. Il vicus Armilustri (CIL VI.802, 975, 31069, Bull. D. Inst. 1870, 88) probabilmente lo attraversò e potrebbe aver seguito la linea della moderna Via di S. Sabina (Varro, LL V.153; VI.22; Liv. XXVII.37.4; Fest. 19; Not. Reg. XIII; CIL I2 p333; HJ 161-2; Merlin, 313-315). In definitiva il vicus Armilustri corrispondeva a Via di Santa Sabina.

VICUS ARGENTARIUM

Vicus Argentarium - correva a mezza costa sulle pendici del Campidoglio, alle spalle del Foro di Cesare, caratterizzato dalla confederazione dei cambiavalute e degli strozzini, accanto all'attuale via del Velabro. Se ne conserva un tratto di basolato sul quale si affacciano una serie di tabernae e un ninfeo absidato con tre nicchie per statue, appartenenti alle costruzioni traianee addossate al perimetro sudoccidentale del Foro di Cesare che aveva uno degli ingressi proprio sulla strada.

Vicus Asellus - una via della Regione Terza di Iside e Serapide.

Vicus Bassianus - probabilmente dedicato a Gaio Giulio Bassiano, un gran sacerdote del Dio del sole di Emesa, legato alla dinastia dei Severi, locato nella Regione II.

Vicus Bellona extra numerus - probabilmente accanto a un'ara di Bellona, nella Regione VI.
Vicus Bellonae - probabilmente accanto al tempio di Bellona, ma conosciuto solo da un'iscrizione. (CIL VI.2235).

Vicus Brutianus - una via della Regione XIV, menzionata solo nella Base Capitolinea (CIL VI.975), ma probabilmente presso il Campus Brutianus.

 pVicus Bublarius - una via il cui nome è testimoniato da un frammento di una lastra di marmo, se le prime due lettere, ora cancellate, sono state correttamente dedotte. (FUR frg. 62, and p61; Mitt. 1892, 281; HJ 63, n63). La via era sul Palatino, nella Regione X, ma vi è un'ulteriore prova di questa congettura, visto che un'altra iscrizione frammentaria (CIL VI.343 =30743 mag. anni xxxII [vici] . . . ari reg. X) contiene lo stesso nome, e lo connette con il distretto Ad Capita Bubula, vicino alle Curiae Veteres.

Vicus Caesaris - una via conosciuta solo tramite un'iscrizione (CIL VI.9492) che però non indica la località, presunta tuttavia nella Regione XIII.

Vicus Caeseti - un vicus della Regione XIII (CIL VI.975), si suppone che il suo nome derivi da Caesetius Rufus, la cui bella domus che si apriva su questo vicus venne ambita da Fulvia, la moglie di Antonio, causandone la proscrizione del legittimo proprietario (App. aC iv. 29 Val.max. ix. 5. 4).

Vicus Calatus - un vicus della Regione VII, presso il Templum Solis.

VIA DEI MERCATI TRAIANI

Vicus Camenarum - Le Camene avevano una sorgente ai piedi dell'estremità meridionale del colle Celio, e un boschetto intorno alla sorgente, e le valli si estendevano da nord-est lungo il lato sud-est del Celio, attraversate dal vicus Camenarum (CIL VI.975, Reg. I), che si univa alla via Appia.

Vicus Canarius - menzionato negli Atti dei Martiri (S. Laur. 10 Aug. AA. SS. p518; S. Euseb. 25 Aug. 115;ºS. Xysti 6 Aug. 141; Passio S. Abundii, BCr 1883, 156), e nelle Mirabilia (10), dove era chiamato ad S. Giorgium, che è vicino infatti a S. Giorgio in Velabro. Vi sono tuttavia diversi dubbi. (Jord. II.588; LPD II.41, n61).

Vicus Capitis Africae - probabilmente un'istituzione (paedagogium) per l'addestramento degli schiavi imperiali, menzionata nel Reg. nella regione II e su diverse iscrizioni (CIL V.1039; VI.1052, 8982-8987). Il vicus che da essa prende il nome, il vicus Capitis Africae, corre probabilmente dall'estremità sud-est del Colosseo al Macellum Magnum, l'attuale chiesa di S. Stefano Rotondo, lungo il lato est del tempio di Claudio. Il nome fu conservato dalle chiese di S. Agata e di S. Stefano a Caput Africae (HCh 165, 475), la seconda delle quali esisteva fino al XV secolo (LPD II.45; DE I.350-351; Ann. D Inst. 1882, 191-220; HJ 238-239).
 
Vicus Capitis Canteri - un vicus della Regione XIII (CIL VI.975), ma per altro sconosciuto..

Vicus Caprarius -

VICUS CAPRARIUS
A due passi dalla famosa Fontana di Trevi c'è un'insula romana scoperta durante la ristrutturazione dell'ex Cinema Trevi. Il caseggiato romano, probabilmente modificato nel IV sec. riutilizzando costruzioni precedenti, sorgeva nella zona del Vicus Caprarius.

Nelle immediate vicinanze del Vicus probabilmente c'era anche un luogo di culto chiamato "aedicula Capraria". Il che riporta al Monte Caprino che si è detto così chiamato perchè vi pascolavano le capre, dimenticando la Giunone Caprotina venerata a Roma, in sostituzione di una Dea Capra più antica.

Il Vicus Caprarius è menzionato in una bolla di papa Paschal II of 1104 d.c.. (Quellen u. Forschungen XIV. (1911) 33: vicus Caprarius in regione V), e identico al viculus Capralicus della falsa false bolla di Giovanni III (Jord. II.669‑670) della fine del XII sec.. Sembra che questa strada corresse a sul south dell'aqua Virgo e del campus Agrippae, e la pavimentazione rinvenuta found in via Lucchesi fa pensare le appartenesse. (LF 22, 16, Questo nome venne erroneamente dato al vicus Capralicus; HJ 459‑460; cf. Kehr, Italia Pontificia I.71, 73,).

Vicus Capulatorum - una via dell'Esquilino, nella Regione V..

Vicus Caput Africae - tutt'ora esistente sull'Esquilino.

Vicus Caput Minervae - della regio Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Cauticarius - Esquilino.

Vicus Ceios - una via della Regione XIV (CIL VI.975). Sono dibattute sia l'iscrizione relativa che altre supposizioni (Hülsen, Nomenclator = VICUS . . . IOS; cf. CIL).

Vicus Censoriforse l'unico vicus dell'isola (CIL VI.975). È menzionata in altre due iscrizioni (VI.451, 821) e probabilmente prende il nome da un precedente membro della famiglia, il cui primo rappresentante a noi noto è C. Censorius Niger, nel II secolo (RE III.1910; Gilb III.54; HJ 638; Besnier 54-55).

Vicus Cereris - una via della Regione IX del Circo Massimo.

Vicus Collis Viminalis - una strada nota solo da due iscrizioni (CIL VI.2227, 2228), che indubbiamente correva lungo la dorsale del Viminale fino alla porta Viminalis. Il suo pavimento è stato trovato lungo una linea che va da via Napoli alla porta Chiusa (1874 aC, 199; HJ 373-374).

Vicus Columnae Ligneae - (Via della colonna lignea) una via della Regione XIII (CIL VI.975), peraltro sconosciuta. Il significato del nome è dimenticato, anche se doveva alludere a una qualche colonna onoraria.

Vicus Compiti Pastoris - una via della Regione XII (CIL VI.975), peraltro sconosciuta.

Vicus Confiuius - una via della Regione XI del Circo Massimo.

Vicus Cyclopis - una via sulle pendici meridionali del Celio.

Vicus Cyspius - nella zona di S. Maria maggiore, vi abitavano senatori, nobili signori ma anche sede di librai, biblioteche e gente colta.

Vicus Cuprius - una via dell'Esquilino, che andava dal Tigillum Sororium (Dionys. III.22.8) a nord, attraverso le pendici delle Carine fino alla Subura. Essa traversava il Clivus Orbius (q.v.) e loslargo dove la figlia di Srvio Tullio guidò il carro sul corpo del padre uccidendolo. (Liv. I.48.6; Varro, LL V.159). Il vicus sembrerebbe coincidere con le vie Vie del Colosseo e del Cardello. Varrone (loc. cit.) deriva il nome da una parola sabina Sabine e usa questa derivazione come evidenza che i sabini stanziarono qui (vicus Ciprius a cipro, quod ibi Sabini cives additi consederunt, qui a bono omine id appellarunt; nam ciprum Sabine bonum. HJ 258, 263, 322; Jord. I.3.155; RE IV.1761; cf. for an erroneous theory, Pais, Ancient Legends 273). Le chiese di S. Maria e S. Nicolao inter duo erano così chiamate perchè svano tra questo vicus e il Compitum Acilii (HCh 340, 394).

VICI DI ROMA
Vicus Curiarum - una via della Regione X (CIL VI.975), la capitolina, accanto alla Curia Veteres sul lato est del Palatino, e prendeva nome dalla Curia.

Vicus Curvus - sull'Esquilino, il cui nome è contenuto nei vicocurvenses in un'iscrizione del IV sec. (CIL VI.31893. d. 8; BC 1891, 357).

Vicus Dianae - una via da qualche parte della Regione XII (CIL VI.975), comunque sconosciuto.

Vicus Drusianus - o via di Druso, un vicus della Regione I, menzionato solo nella Base Capitolina (CIL VI.975). Probabilmente prese il nome dall'Arcus Drusi, e dovrebbe nascere da lì per andare sulla via Appia non molto a nord del suo incrocio con la via Latina. Da questo punto una strada correva da nord-est sulla collina fino all'attuale Laterano, fino a Via della Ferratella. Questo potrebbe essere il vicus Drusianus (HJ 216; LA 267-268).

Vicus Epicteti - un nome trovato in una iscrizione (CIL VI.31893, BC 1891, 356), che sembra significare coloro che vivevano in un vicus Epicteti, nella regione XIV.

Vicus Eros - una via della Regione IV.

Vicus Fabrici - I regio, all'interno di Porta Capena, evidentemente l'intersezione del vicus Fabricius (CIL VI.975) e qualche altra strada, dove c'era anche un lacus. Era vicino alla Curiae Novae (Fest. 174), e molto probabilmente sul versante occidentale del colle Celio. Si dice che abbia ricevuto il suo nome (Placidus 45, Deuerl.) dal fatto che una casa è stata data a Fabricius a questo punto "ob reciperatos de hostibus captivos". Il Fabricius menzionato è probabilmente l'ambasciatore di Pirro nel 278 a.c. (cfr Cic. Brut. 55). Il vicus Fabricii è conosciuto solo dalla Base Capitolina, dove è l'ultima via in Regio I (RE VI.1930; HJ 201).

Vicus Fagutalis - dal colle Fagutale al Colosseo.

Vicus Fannii - un vicus menzionato solo in un'iscrizione (CIL VI.7542) senza alcuna notizia di località. 

Vicus ...ionum Ferrariarum - un vicus conosciuto solo da un'iscrizione (CIL VI.9185) travata vicino S. Pancrazio sul Gianicolo. Non è stato trovato nulla su questo nome.

Vicus Fidii - una via della Regione XII (CIL VI.975), ma peraltro sconosciuta.

Vicus Flavius - forse dedicato a una statua della famiglia imperiale Flavia, comunque nell'ambito della Regione VI.

Vicus Florae - una via della Regione VI, probabilmente accanto a un sacello o Tempio di Fora.

Vicus Fortunae Dubiae - una via della Regione XII (CIL VI.975), non lontana dal tempio della Fortuna dubia (WR 262; RE VII.30).

Vicus Fortunae Mammosae - una via della Regione XII (CIL VI.975), prese il nome appunto dal tempio della Fortuna Mammosa (si pensa tra porta Capena e le terme di Caracalla)  a cui la via era evidentemente prossima.

Vicus Fortunae Obsequentis - una via della Regione I (CIL VI.975), ovviamente prende il nome dal tempio della Fortuna Obsequens.

Vicus Fortunae Respicientis - una via della X Regione, la capitolina, (CIL VI.975), forse sul lato sud, che prende nome da un tempio della Fortuna Respiciens (Not. Reg. X).

Vicus Fortunati - una via della Regione XIII (CIL VI.975), peraltro sconosciuta.

Vicus Frumentarius - una via della Regione XIII (CIL VI.975), ai confini dei magazzini sul Tevere sotto l'Aventino, adibiti alla conservazione del grano (cf. CIL VI.814: negotiatores frumentarii).

Vicus Ganimedis - della regio VII di Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Gemini - una via della Regione XIV (CIL VI.975), ma peraltro sconosciuta.

Vicus Gordiani Minor - della regio VII di Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Graecus - abitato dai Greci, della regio Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Graianarum - Accoglieva probabilmente gli addetti alla conservazione del grano, il vicus è posto nella XIV Regione.

Vicus Herbarius - della regio Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Honoris et Virtutis - una via che prende nome dal tempio di Honos et Virtus (q.v.) nella Regione I (CIL VI.975). Di essa abbiamo anche un'iscrizione su un frammento di architrave (CIL VI.449), e probabilmente scorreva tra la via Appia fino al tempio, che indubbiamente si trovava alle pendici del Celio, a poca distanza a sud della porta Capena (LA 268; HJ XXI).

Vicus Huiusque Diei (o huiusce Dei) - una via della Regione X (CIL VI.975), che si suppone abbia preso nome da un altare o da un tempio della Fortuna Huiusce Diei in questa parte dell'Urbe, per altri invece, il tempio stava nel Campo Marzio (HJ 104; WR 262; DE III.1061). La questione è dibattuta.

Vicus Ianuclensis - una via menzionata solo dalla Base capitolina (CIL VI.975), ma probabilmente stava su una pendice del Gianicolo.

Vicus Isidis - la via di Iside, collocata nella Regione II.

Vicus Iovis Fagutalis - una via del Fagutale, che prendeva nome dal tempio Jupiter Fagutalis, conosciuta solo da un'iscrizione del 109 d.c.. (CIL VI.452).

Vicus Insteius: (Livy), o Insteianus (Varro) - una via dei Colli Laziali, della parte sud del Quirinale (Varro, LL V.52), in cui si dice che un grande effluvio d'acqua eruppe nel 214 a.c. (Liv. XXIV.10.8). Probabilmente salì la collina vicino alla porta Fontinalis e alla moderna Piazza Magnanapoli, e fu reincanalata dall'edificazione dei fori imperiali

Vicus Ianus:  Ianus Geminus del Foro Romano è scomparso senza lasciare traccia, un monumento importantissimo ed antichissimo, tanto che le fonti antiche lo riportano fondato o da Romolo o dal suo successore Numa Pompilio. Sappiamo solo che stava vicino alla Curia, sulla via chiamata Argiletum, e sembra che sia stato distrutto e poi ricostruito nella piazza del Foro Transitorio da Domiziano, quando restaurò la Curia, nel 94. Pertanto i suoi resti dovrebbero trovarsi sotto Via dei Fori Imperiali. Orazio sembra riportare il Vicus Ianus al Tempio di Ianus Geminus ma non se ne ha conferme.

VICUS IUGARIUS

Vicus Iugarius - la via che passava al lato del Tempio di Saturno, al Foro Romano

Vicus Iunonis - di Giunone, sull'Esquilino.


Vicus Labicanus - ai piedi del Colle Oppio.

Vicus Laci Fundani - prese il nome da una sorgente che si apriva sulle pendici ovest del Quirinale, vicino alla Cati fons, vicino alla Porta Salutaris (CIL VI.9854; Tac. Hist. III.69; Placidus p29). La via (CIL I.i.721 = VI.1297; RhM 1894, 401‑403), corrispondeva probabilmente alla Via del Quirinale che si dipartiva dalla parte sud di Piazza del Quirinale.

Vicus Laci Miliari - via della Regione XIII, conosciuta soltanto attraverso la Base Capitolina (CIL VI.975), per la fontana che qui sgorgava.

Vicus Laci Restituti - via della Regione XIV, conosciuta soltanto attraverso la Base Capitolina (CIL VI.975), per la fontana che qui sgorgava.

Vicua Laci Tecti - via della regioni XII, conosciuta soltanto attraverso la Base Capitolina (CIL VI.975), per la fontana che qui sgorgava.

Vicus Lanarius Ulterior - abitato dai lanieri, della regio Via Lata (attuale via del Corso). Presso il tempio Ultima Spes.

Vicus Larum Alitum - una via della Regione XIII (CIL VI.975), il nome proveniva da statue o basorilievi che raffiguravano i Lari, ma secondo alcuni erano interpretati erroneamente (Rosch. II. 1885).

Vicus Larum Rurialium (o Curialum) - una via nella regione XIV, a causa di una lettura incerta delle aree rurali della Base Capitolina (VI.975 OIL). Non vi sono noti are o templi di Lari, a parte un'ara Larunda curialium rinvenuta sulla strada di Porto, con la quale può essere collegato questo vicus (NS 1907, 465; BC 1908, 42‑47; PT 61).

Vicus Libertorum - abitato dai liberti, della Regione VII di Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Licinianus - conosciuto solo per un'iscrizione trovata sulla via Tiburtina, a 4 miglia da Roma (CIL VI.9871).

Vicus Ligurum - dove abitavano i Liguri, una via posta nella Regione VIII.

Vicus Longi Aquilae - trovato solo in un'iscrizione (CIL VI.31893), e probabilmente designava quelli che vivevano nel vicus Longi Aquilae, una via della Regione XIV, menzionata solo nella Base Capitolina (CIL VI.975).

Vicus Longus - era la via che attraversava la valle tra il Quirinale e il Viminale e si univa all'Alta Semita all'interno della Colline, molto vicino a dove la strada corre in Via Quintino Sella e Via Venti Settembre. E 'menzionato per primo da John (X.23.6) in connessione con la dedica di un altare alla Pudicitia Tretogonia (Feat. 237) nel corso dell'anno 296 a.c.. In questa strada erano anche santuari per la Febris (Vol Max II.5.6..) e della Fortune (pinta di Rom Port 10), e si verifica in due iscrizioni dell'Impero (OIL VI.9736, 10023) e LP (46. pregiudizio. Innocent. 1, 6). Il pavimento di questa strada è stato trovato su una linea che attraversa via Nazionale con un angolo di venti gradi nei pressi della Banca d'Italia, in diversi punti tra la banca e le Terme di Diocleziano, alla distanza di un Km. La valle attraverso il quale corse venne artificialmente riempita (bc 1886, 186). Una parte considerevole della sezione Nord-Est è stata distrutta dalla costruzione di questi bagni (RHM 1894, 382-384 HJ 417, 428; Gilbert III.368 Vedere anche S. Agata dei Goti da Hiilsen e altri (Roma 1924.. ), 4).

Vicus Lorarius - una strada evidentemente chiamata dai lorarii, o falegnami, ma conosciuta da una sola iscrizione (CIL VI.9796), che si trovava sulla via Appia nei pressi della Torre di Selci, senza alcuna indicazione di ubicazione.

Vicus Loreti Minoris - (Bas. Cap. reg. XIII (CIL VI.975) 319; Hemerol. Vall. ad Id. Aug.). Loreto era un antico bosco di lauro posto sulla parte nord-ovest dell'Aventino, XII Regione, (HJ 162: BC 1905, 215‑216; Gilb. II.236; CI p325), vicino all'Armilustrium (Dionys. III.43; Varro, LL V.152; Plin. NH XV.138), dove Tito Tazio si dice sia stato sepolto (Varro, loc. cit.; Fest. 360). vi sono ancora di quegli alberi nell'alto impero (Serv. Aen. VIII.276), ma il boschetto aveva probabilmente lasciato il posto a un piazzale da cui si partivano i due vici.


Vicus Loreti Maioris - (Bas. Cap. reg. XIII (CIL VI.975) 319; Hemerol. Vall. ad Id. Aug.). Loreto era un antico bosco di lauro posto sulla parte nord-ovest dell'Aventino, XII Regione, (HJ 162: BC 1905, 215‑216; Gilb. II.236; CI p325), vicino all'Armilustrium (Dionys. III.43; Varro, LL V.152; Plin. NH XV.138), dove Tito Tazio si dice sia stato sepolto (Varro, loc. cit.; Fest. 360). vi sono ancora di quegli alberi nell'alto impero (Serv. Aen. VIII.276), ma il boschetto aveva probabilmente lasciato il posto a un piazzale da cui si partivano i due vici.

Vicus Lotarius - una via della Regione VII.

Vicus . . . si . . . Luc. . . - una via della Regione XIV, menzionata solo nella Base Capitolina (CIL VI.975). Per altre congetture cf. CIL e Hermes 1867, 416.

Vicus Lugarius - sotto Santa Maria della Consolazione e accanto al Campidoglio, dove nel 1977 si sono ritrovate tracce delle mura serviane.

Vicus Mancinus - una via della Regione VII di via  Lata (attuale via del Corso).

Vicus Mansuetos - una via della Regione VII di Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Materiarius - una via della Regione XIII (CIL VI.975). Prende evidentemente il nome da cortili di legname o falegnamerie e probabilmente si trova nel quartiere dei magazzini tra l'Aventino e il Tevere. (HJ 170).

Vicus Mercurii Ebrii - la sua esistenza è testimoniata da Lanciani (BC 1922, 3‑4) attraverso un frammento di papiro pubblicato da Nicole (Un catalogue d'oeuvres d'art conservées à Rome à l'époque impériale (Geneva 1906)), con le parole . . . tes a Mercurio Ebriu occur (l. 2).

Vicus Sobrius or Mercurii Sobrii - una strada a Roma menzionata in Festus (296, 297, Sobrium vicum Romae dictum putatur ... .quod in eo Mercurio lacte non vino subplicabatur). La stessa strada sembra essere indicata in due iscrizioni (CIL VI.9483: insul (arius) a Mercurio sobrio, 9714: nummularius a Mercurio sobrio). Un santuario fu rinvenuto nel 1888 sull'Esquilino presso la Torre Cantarelli (1888, 221-239 circa, Mitt. 1889, 280) dedicato a Mercurio (CIL VI.30974), ma se si tratta di Mercurius Sobrius è puramente una questione di congettura ( HJ 334; DE II.2161).

Vicus Mamuri - una via della Regione VI.

Vicus Minervi - una via della Regione VII, conosciuta solo da un'iscrizione (CIL VI.766) su un piccolo altare in onore di Stata Mater Augusta dei magistri della regione. L'altare fu trovato fuori della Porta Pinciana, e il vicolo doveva andare a nord-est dalla porta. (HJ 450, cf. KH II, III).

Vicus Mundiciei - una via della Regione XIII (CIL VI.975). Il suo nome dovette derivare dalla presenza sulla via di botteghe che vendevano articoli da toeletta e articoli di lusso.

Vicus Novus Ulterior - della regio Via Lata (attuale via del Corso) (CIL VI.975)

Vicus Pacrai. . . - una via della Regione XIV (CIL VI.975). Su di essa solo congetture (cf. CIL and Hermes 1867, 416).

Vicus Padi - una via della Regione X, menzionata solo dalla Base Capitolina (CIL VI.975). stava probabilmente sulle pendici orientali del Palatino, attraverso il Celio e l'Arco di Costantino (BC 1914, 100).

Vicus Pallacinae - un nome che si trova nella letteratura classica solo in Cicerone e nella sua scuola, in connessione con balnea e vicus (pro Rosc. Amer 18: occiditur ad balneas Pallacinas de cena rediens Sex. Roscius; ib. 132: in vico Pallacinae, e schol. Gronov. Loc loc., Or. P436: locus ubi cenaverat Sex. Roscius). Se fosse originariamente un distretto o no, è probabile ma non certo (cfr, tuttavia, Rostowzew, Sylloge 500), e la testimonianza della letteratura paleocristiana è a favore di tale ipotesi (LP vit Marci 3 : hic fecit basilicam iuxta Pallacinis in 336 (HCh 308), Inscr. Chr. I p62: Antiusa lector de Pallacine, cfr la chiesa e il chiostro di S. Lorenzo in Pallacinis, LP xcvii.71; xcviii.76; cvi.23 ; HCh 291-292; vedere anche HJ 556; BC 1914, 98-99; S. Andrea de Pallacina, Arm. 463; HCh 189-190). Nell'VIII secolo viene menzionato un portico di Pallacinis (LP xcvii. (Hadr. I) 94), di cui sono stati rinvenuti possibili frammenti in Via degli Astalli (Arm. 459; BC 1908, 280-282). In ogni caso il distretto era vicino all'estremità nord-est del circo Flaminio e il vicus potrebbe aver coinciso in generale con la Via di S. Marco (KH IV).

Vicus Palloris - Esquilino.

Vicus Panispernae - Questo nome è probabilmente derivato da quello di un'antica località vicino alla chiesa di S. Lorenzo in Panisperna sul Viminale. Il nome viene utilizzato circa dal 1000 d.c..; in precedenza, ad es. in Eins. 1.11; 5.7; 7.13, chiamato S. Laurentii in Formoso o ad Formosum, dal nome del suo fondatore (HCh 292-293, cfr HJ 376)

Vicus Parcarium (o Parcarum) - una via presso la Porta Trigemina nella Regione XI.

Vicus Pastoris - via dei Pastori - Esquilino

Vicus Patricius -  una strada che si diramava dalla Subura e correva a nord tra il Cispius e il Viminale verso la porta Viminalis (FUR n. 9), e forse oltre (cfr Isis Patricia). Sembra che abbia formato il confine tra le Regioni IV e VI e abbia avuto una stretta corrispondenza con la moderna Via Urbana. Il nome è di dubbia origine, anche se spiegato da antiquari romani (Fest. 221: patricius vicus Romae dictus eo quod ibi patricii habitaverunt, iubente Servio Tullio, ut quid molirentur adversus ipsum, ex locis superioribus obprimerentur; ib. 351). Diramava nella parte alta del rione Monti, dalle Terme di Diocleziano alla Suburra, con un percorso oggi ripetuto da via Urbana e da via Massimo D'Azeglio, costituita da domus signorili (oggi Via Urbana)

Vicus Patratilli - regio XI.

Vicus Pauli - una via della Regione XIV (CIL VI.975), altrimenti sconosciuta.

Vicus Paullinus - una via sull'Esquilinus, nella Regione V.

Vicus Peregrinus - della regio Via Lata (attuale via del Corso). Presso la VII Cohorte dei Vigili.

Vicus Piscarius - un Vicus della Regione VII. Si trovava presso il Campus Agrippa. Si ritiene vi fossero botteghe che vendevano il pesce.

Vicus Piscinae Publicae - Un vicus che prese nome da un bagno pubblico e una piscina (Fest. 213), menzionata per la prima volta nel 215 a.c. Sup. XXIII.32.4), situato nel terreno basso tra la via Appia, la parete serviana, il versante nord-est dell'Aventino, e l'area occupata in seguito dalle terme di Caracalla (Liv. Fest. Loc. Citt .; Cic. ad Q. P. III.7.1; JORD II.106-107; HJ 183-184). Questo bagno in seguito diede il nome al vicus piscinae Publicae (CIL VI.975; Amm. Marcell. XVII.4.14), che conduceva dall'estremità meridionale del circo Massimo attraverso la depressione sull'Aventino fino alla porta Raudusculana.

Vicus Platanonis - un nome menzionato un'unica volta per designare una località dell'Aventino nella Regione XIII. Platanon significa un boschetto di platani e il vicus doveva costeggiare il bosco.

Vicus Ploti - una via della Regione XIV (CIL VI.975), peraltro sconosciuta.

Vicus Pomona - una via della Regione VII, non lontano dal Templum Novum Fortuna.

Vicus Portae Collinae - corrispondente con la moderna Via del Quirinale e Via Venti Settembre da Piazza del Quirinale ad est. La parte nord-est di questa strada era chiamata Vicus portae Collinae (q.v.)º, di cui un'iscrizione trovata (CIL VI.450) trovata vicino S. Susanna (Jord. I.1.510). L'antico pavimento giace a una profondità di 1.83 m dal livello attuale. (HJ 418; BC 1889, 332; RhM 1894, 387; Mitt. 1892, 312). Della Regione IV, conduceva all'omonima porta delle mura serviane.

Vicus Portae Naeviae - una porta delle mura serviane dell'Aventino vicino alla silva (nemora) Naevia (Varro LL V.163; Fest. 168-169; Liv. II.11; Obseq. Prod. 44). Ha dato il nome al vicus portae Naeviae (CIL VI.975), di cui la via Ardeatina era probabilmente la continuazione oltre le mura. Il punto in cui questa antica strada sembra aver attraversato la linea delle fortificazioni serviane si trova sul versante est dell'Aventino, a sud della chiesa di S. Balbina (Jord I.1.233; HJ 185; Merlin 119-121; Mitt. 1894, 327; BC 1914, 81-82).

Vicus Portae Raudusculanae - una porta delle mura serviane, citata accanto alla porta Naevia di Varro (LL V.163), che dice che si chiamasse raudusculana quod aerata fuit. Festus (275) fornisce spiegazioni alternative: Rodusculana porta appellata, quod rudis et inpolita sit relicta, vel quia, raudo, id est aere, fuerit vincta, mentre secondo Val. Massimo (V.6.3) il nome deriva da corna di bronzo apposte alla porta in memoria del pretore Genucius Cipus, dalla cui fronte erano spuntate le corna mentre lo attraversava sulla via della guerra. Questo è stato interpretato come un augurio che sarebbe re se tornasse a Roma, e per evitare questo disastro al suo paese, è rimasto all'estero. La spiegazione più probabile del nome è che il cancello è stato rafforzato con piastre o cerniere di bronzo.

Vicus Proserpinauna via della Regione XI del Circo Massimo. Forse con un'edicola di Proserpina.

Vicus Pulverarius - una strada da qualche parte nella regione I (CIL VI.975). Se pulvis qui significa pulvis Puteolanus (cfr Stat. Silv. IV.3.53 e passa), questa strada potrebbe essere stata chiamata dai letti pozzolana fuori dalla porta Appia (HJ 219). Vedi Schola Calcariensium.


Vicus Putealum della regio Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Quadrati - un vicus nella Regione XIV (CIL VI.975), ma sconosciuta.

Vicus Raciliani Maioris - vicus in Regione XIV (CIL VI.975)

Vicus Raciliani Minoris - vicus in Region XIV (CIL VI.975), probabilmente connesso con Prata Quinctia: chiamata Racilia per la moglie di Cincinnato (Liv. III.26.9). Un'iscrizione registrava il dono di una statua di Ercole a un collegium iuvenum Racillanensium, recentemente notato in un negozio vicino al Gianicolo, senza dubbio della stessa provenienza (RAP IV.394, 395; Marucchi, App. Al Cat. Del Mus. Lateranense (1927), p6, n245 B.).

Vicus Rostratae - vicus della Regione XIV (CIL VI.975), probabilmente così chiamata per essere decorata con rostri.

Vicus Sabuci - nella Regione III, conosciuto solo da un'iscrizione (CIL VI.801) trovata nella via Merulana vicino S. Martino ai Monti. La forma Sabucus (Sambucus, l'albero) è stato trovato in Serenus Sammonicus (liber medicinalis) (fl. A.D. 230).

Vicus Salutaris - nome di due vicus, uno sul Palatino nella Regione X, l'altro nella Region XIV. Entrambi conosciuti solo dalla Base Capitolina (CIL VI.975).

Vicus Salutis - una via menzionata solo in Symmachus (Ep. V.54.2) e LP XLII (vit. Innoc. I.6), ma probabilmente identica al vicus Salutis o Salutaris di un'iscrizione (CIL VI.31270) trovata presso la fine della Via del Quirinale. Questa strada, chiamata dalla Collis Salutaris o il tempio di Salus, probabilmente collegava l'Alta Semita con il vicus Longus, corrispondente in generale alla Via della Consulta (HJ 405; RhM 1894, 404 ). L'antica pavimentazione è stata trovata lungo questa linea, in alcuni punti fino a 18 metri sotto il livello attuale (BC 1889, 386, 1890, 11).

Vicus Sandaliarius - una via nella Regione IV, probabilmente a nord-est del Templum Pacis, che evidentemente ha preso il nome dalle botteghe dei ciabattini (sandaliarii). In questo vicus Augusto (agosto 57) ha allestito una statua di Apollo Sandaliario. Era vicino al tempio di Tellus (Not. Reg. IV), e potrebbe forse coincidere con la parte settentrionale della Via del Colosseo (cfr Clivus Cuprius). In un secondo momento conteneva la maggior parte delle librerie di libri di Roma (Galeno de librer propr.xix p8, Kuehn, Gell. XVIII.4.1, cfr Galen de Paraenet, xiv p620, 625). Il nome si presenta in tre iscrizioni (CIL VI.448, 761, BC 1877, 162-163, 1890, 132; HJ 329). Dalla sua ascesa prese il nome la vecchia chiesa di S. Blasio di Ascesa.



 Vicus Saufei - un vicus nella Regione XIV (CIL VI.975).

VICUS SCAURI

Vicus Scauri - una via che sale dalla depressione tra il Palatino e il Celio, e corre verso est fino alla cima di quest'ultima collina, attuale Piazza della Navicella.

Si dipartiva dalla strada che collegava il circo Massimo e il Colosseo, appena a nord del Septizonium dove ora sorge la chiesa di S. Gregorio, e sembra aver coinciso con la moderna Via di SS. Giovanni e Paolo.
Il nome compare solo nei documenti post-classici (JORD II.594-595; 1 ​​LPD I.481, n. 19) e in vari documenti del decimo secolo del Reg. Sublac. (HCh 256-257), ma è probabilmente antico, e potrebbe essere il vicus Scauri di un'iscrizione (CIL VI.9940).
È stato congetturato che il vicus trium Ararum menzionato nella Base Capitolina nella Regione I (CIL VI.975), e in un'iscrizione dedicatoria trovata di fronte a S. Gregorio (CIL VI.453), possa essere stato un altro nome per il parte inferiore di questa strada (HJ 201, 231; DAP 2.x.409). C'era anche una chiesa di S. Trinitas in clivo Scauri ad ovest di S. Gregorio presso l'Arcus Stillans.

Vicus Sejus - Esquilino.

Vicua Sex Lucei una via nella Regione XIV.

Vicus  (si)mi Publici - una via nella Regione XIV, menzionata solo dalla Base Capitolina (CIL VI.975). Per congetture, cf. CIL and Hermes 1867, 416.

Vicus Sceleratus - Clivus Orbius (Urbio) era il primo nome di una via che conduceva dalle Carinae fino alla cima dell'Appia, attraversando il vicus Cuprius (Sol. I.25; Liv. I.48). In questa strada si dice che Tullia abbia ucciso suo padre, e in seguito è stato chiamato vicus Sceleratus (Liv. loc. cit.; Dionys. IV.39; Varro, LL V.159; de vir. ill. 7.18; Festa. 332, 333; Ov. Veloce. VI.609). La linea del Vicus Cuprius sembrerebbe certa, circa quella delle Via del Cardello e Via del Colosseo, e quindi il clivus Orbius probabilmente corrispondeva in parte almeno alla Via di S. Pietro in Vincoli, dove è stato ritrovato un antico lastricato (HJ 258). Pais (Leggende 273) lo colloca più a sud, all'interno della domus Aurea, ma è meno credibile.

Vicus Scipionis - forse attuale via degli Scipioni, della regio Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Sellarius - della Regione VII di Via Lata (attuale via del Corso). Sicuramente si facevano e vendevano selle.

Vicus Sergi - una via della Regione XIV (CIL VI.975), peraltro sconosciuta.

Vicus Sigillarius Minor - il che fa presupporre un Vicus Sigillarius Maior ma di cui nulla sappiamo senonchè il Siglillarius Minor fosse posto nella VII Regione di Via Lata. Il nome Sigillarius fa pensare a negozi di sigillaria, cioè di statuine di terracotta che rappresentavano divinità oppure erano giocattoli.



Vicus Signisalienti - una via della Regione XII.

Vicus Silani Salientis - una via sull'Aventino nella Regione XII (CIL VI.975), sembra prendesse nome da una fontana.

Vicus Silvani - una via posta sull'Esquilino.

Vicus Solatarius - una via posta nella regione VII.

Vicus Spes Maior - una via della Regione VII di Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Statae Matris - una via sul Celio nella Regione II, conosciuta da un'iscrizione su un altare di Stata Mater (NS 1906, 179‑180; BC 1906, 186‑197). L'altare potrebbe essere stato posto lì dopo essere stato rimosso dalla sua posizione originale nel Foro, forse da Sulla (Fest. 317; Jord. I.1.525; WR 230).

Vicus Statae Siccianae - una via della Regione XIV (CIL VI.975). Questa Stata potrebbe essere identificata con Stata Mater.

Vicus Statuae Valerianae - una via che accoglieva una statua della gens Valeria, sulla banchina destra del Tevere (Not. Reg. XIV), che dette il nome alla via (Bas. Cap., CIL VI.975: statua valerianenses, ib. 31893; BC 1891, 342, 357; HJ 647).

Vicus Suburranus Oggi Via in Selci, alla Suburra. Fino a pochi decenni fa questa era una via malfamatissima di Roma.
Si tratta di una via stretta e buia, che si diparte dalle Torri del Dazio, sempre sull’Esquilino, a poca distanza dalla basilica paleocristiana di Santa Maria Maggiore, e ridiscende fino a collegarsi con la grande via Cavour.
Sulla via affaccia la chiesa di Santa Lucia in Selci con annesso convento medievale, il quale ha inglobato un più antico edificio romano di cui si notano ancora le arcate di un portico, ormai tamponate e chiuse definitivamente.
Il Clivus Suburanus discendeva dall’Esquilino verso la valle del Colosseo, traversando la Suburra, un grande quartiere abitativo della Roma repubblicana e imperiale, storicamente considerato malfamato.

Vicus Sucusanus - una Via della Regione V.

Vicus Sulpicius - una via su cui si dice fossero collocate le Terme di Caracalla, (Hist. Aug. Elag. 17: opera eius praeter. . . et lavacrum in vico Sulpicio quod Antoninus Severi filius coeperat nulla extant; cf. the republican inscription on a round altar, CIL I2.1002 = VI.2221: magistri de duobus pageis et vicei Sulpicei; cf. 32452). Quindi costeggiava un lato delle Terme. Sulla Base Capitolina (CIL VI.975) nella Regione I sono menzionati un vicus Sulpicius ulterior e un vicus Sulpicius citerior, il che sembra indicare che nel IV secolo a un certo punto la via si divideva. Poichè le Terme stavano nella Region XII, la locazione più probabile del vicus Sulpicius è sul lato meridionale, per la maggior parte nella Regione I e parte anche nella regione XII. Se il vicus incrociava la via Appia, ulterior e citerior potevano indicare le loro due sezioni (HJ 196, 207‑209; KH II; per un'altra locazione di questo vicus, cf. LA 268).

Vicus Summi Choragii - Il Summum Choragium era il magazzino dove venivano conservati gli "scenari", le macchine, i costumi e ogni genere di attrezzi e apparati destinati alla realizzazione delle scenografie per il Colosseo; il che fa pensare che la via costeggiasse i Ludi Magni, dove si allenavano i gladiatori per gli spettacoli del Colosseo.

Vicus Suscusanus - una via della Regione esquilina.

Vicus Tabellarius - della regio VII di Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Tiberini - una via della Regione XIV, menzionata solo nella base Capitolina (CIL VI.975). Non c'è certezza sulla sua posizione, e questo nome le fu dato da Roberto Lanciani (LF 28) per una via il cui lastricato è stato rinvenuto recentemente sotto la odierna Via della Lungarina tra il Viale del Re e Piazza del Drago (BC 1913, 76).

Vicus Thurarius - una via posta nella Regione VIII.

Vicus Traegedus - Esquilino.

Vicus Triarii - o Clivus Triarius. Una via conosciuta solo da un'iscrizione (CIL XV.7178), ma forse da identificare con il vicus Triari della Base Capitolina (CIL VI.975) nella Regione XII.

Vicus Trium Ararum - una via che sale dalla depressione tra il Palatino e il Celio, e che corre verso est fino alla sommità di quest'ultimo colle, punto ora segnato da Piazza della Navicella.
Si diramava dalla strada che collegava il circo Massimo al Colosseo, poco a nord del Septizonium dove oggi sorge la chiesa di S. Gregorio, e sembra aver coinciso in generale con la moderna Via di SS. Giovanni e Paolo.
Il nome compare solo in documenti post-classici (Jord. II.594-595;1 LPD I.481, n. 19) e in vari documenti del X secolo del Reg. (HCh 256-257), ma è probabilmente antico, e può essere il vicus Scauri di una iscrizione (CIL VI.9940).
Si è ipotizzato che il vicus trium Ararum citato sulla Base Capitolina in Regione I (CIL VI.975), e in un'iscrizione dedicatoria rinvenuta davanti a S. Gregorio (CIL VI.453), potesse essere un altro nome per la parte inferiore di questa via (HJ 201, 231; DAP 2.ix.409).
C'era anche una chiesa di S. Trinitas in clivo Scauri a ovest di S. Gregorio vicino agli Arcus Stillans.

Vicus Trium Vi[a]rum - una via della Regione XIII (CIL VI.975), peraltro sconosciuta. Un'altra nella Regione IV con lo stesso nome,

Vicus Triumicus -

Vicus Troianus - una via della Regione VII, presso il sacellum Genii Sangi.

Vicus Turarius - (nel borgo etrusco) Iniziava dal Foro Romano passando tra la Basilica Giulia e il Tempio dei Dioscuri, proseguiva il percorso attraverso il Velabro tra la Cloaca Massima e il lato ovest del colle Palatino, passava tra il Foro Boario e il Circo Massimo fino alla Porta Flumentana, da lì si collegava attraverso il Ponte Sublicio alla via che portava verso le città etrusche di Cerveteri e Tarquinia. La strada era dedicata al commercio di costose stoffe e profumi d'importazione, che nel tempo gli fecero cambiar nome in Vicus Turarius (borgo dell'incenso). Vi si svolgevano anche le processioni sacre che durante i giochi circensi portavano le effigi degli idoli dal Campidoglio al Circo Massimo.



Vicus Troianus - intestato agli antenati di Roma, della regio Via Lata (attuale via del Corso).

Vicus Unguentarius - una via della Regione VIII, menzionata solo dalla Notitia (cf. Pr. Reg. 155), ma evidentemente così chiamata per la vendita di unguenti e profumi caratteristica dei negozi della via.

Vicus Unguentarius Minor - sempre nella Regione VIII, ma non sappiamo dove.

Vicus Ustrinus - Esquilino, dove si bruciavano i morti della gente povera.

Vicus Ursi Pileati - una via della regio Esquilina.

Vicus V(aler)i (?) - una via posta non si sa dove nella Regione XIII (CIL VI.975).

Vicus Veneris Almae - una via della Regione XII (CIL VI.975), gli abitanti di questa via sarebbero probabilmente i Venerenses di un'iscrizione del IV secolo (CIL VI.31901; BC 1891, 357). Questo culto di Venere può essere connesso con quello della valle del Circo Massimo (cf. Ad Murciae).

Vicus Veneris Placidae - Esquilino.

Vicus Vestae - una via della Regione VIII, conosciuta solo da una frammentaria iscrizione dedicata ai Lares Augusti (CIL VI.30960; NS 1882, 235). Si pensa fosse la via che partisse dal Tempio di Vesta, passasse il Tempio di Castore, andasse nel lato nord-est del Palatino, sulla linea della rampa che ancora esiste (Thédenat 173‑174), e ciò può essere riferito a Ovidio (Fast. VI.389: qua nova Romano nunc via iuncta Foro est; cf. Asc. in Scaurian. 23; Gilb. III.413‑414; Jord. I.2.297‑298; DR 508, 509). Un'altra teoria pone la via al lato ovest dell'Atrium Vestae (Richter 88).

Vicus Viberini - una via della Regione XIV.

Vicus Vicinus - una via della Regione VII. Presso i castra Gypsiana.

Vicus Victoris - una via della Regione XII (CIL VI.975), sembra fosse vicino alla Porta Ardeatina (HJ 198).

Vicus Victoriae - una via del Palatino, accanto al tempio della Dea Vittoria e alla Domus tiberiana, e pure nella zona del Castra Gentiana (?).

Vicus Viridiarii - nome rilevato da un'iscrizione (CIL VI.2225), dove si riporta che venne trovata la via fuori Rome sulla via Praenestina (Gabina), ma si suppone fosse invece alla periferia dell'Urbe. Non se ne conosce la locazione.

Vicus Vitrarius - una via posta nella Regione I, menzionata solo dalla Notitia ma non si sa dove (HJ 219; BC 1914, 344). Vi si allocavano le botteghe dei vetrai.


C'ERANO POI LE SALITE
  • Clivus Acilii - all'epoca con relativo compitum Acilii (un crocicchio)
  • Clivus Capitolinus - la via che conduceva al Colle Capitolino.
  • Clivus Mamuri
  • Clivus Orbius
  • Clivus Scauri - ancora conservato col suo arco e le terme visitabili.
  • Clivus Suburanus - Alla Suburra, oggi rione Monti.
  • Clivus Ursi - corrispondente oggi alla Salita del Grillo.
  • Clivus Triarius -  Una via conosciuta solo da un'iscrizione (CIL XV.7178), ma forse da identificare con il vicus Triari della Base Capitolina (CIL VI.975) nella Regione XII.

ORAZI E CURIAZI - HORATII E CURIATII

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Tullo Ostilio (... - 641 a.c.), il successore sul trono di Roma, buon re e condottiero valoroso, volle conquistare Albalonga, perchè pericolosamente vicina e concorrenziale nei commerci. Siccome però i due re desideravano aumentare e non ridurre la popolazione, in quanto più gente c'era e più guerrieri c'erano, decisero di ridimensionare la guerra a un duello: tre fratelli di Roma, gli Orazi, contro tre fratelli di Albalonga, i Curiazi.

Evidentemente era rimasto un certo ricordo della madrepatria, visto che Romolo e Remo, e molti altri romani, erano di Albalonga, per cui ai due popoli di combattersi tra loro non avevano voglia. In un certo senso si consideravano parenti, e siccome all'epoca i popoli avevano, nonostante la monarchia, molta voce in capitolo, i due re capirono che non era il caso di fare una guerra che avrebbe decimato due popolazioni già scarse; insomma avevano più voglia di unirsi che di combattersi. Forse tenevano ancora in mente la battaglia, poi interrotta, tra romani e sabini, che alla fine avevano preferito unirsi.



GENS HORATIA

La gens Orazia, ovvero Horatia, fu un'antichissima famiglia romana, compresa tra le cento gentes originarie ricordate dallo storico Tito Livio, e pertanto patrizia. Anche Theodor Mommsen, il grande studioso della romanità, la annovera tra le più antiche famiglie romane, tanto più che esisté un'antica tribù rustica, di nome Horatia, che si era diffusa ad Aricia nel Lazio, a Venosa in Basilicata, a Spoleto in Umbria, e a Falerii in Etruria.

Questa nobile famiglia di ceto consolare (ascese 8 volte al consolato) produsse vari personaggi famosi, alcuni dei quali leggendari, altri storicamente certi. Fra quelli leggendari, ma non troppo, si ricordano i tre gemelli Orazi, che sfidarono e vinsero a duello i tre gemelli Curiazi di Alba Longa che dovette passare sotto il dominio romano.



GENS CURIATIA

La gens Curiatia era una famiglia distinta a Roma, con rami patrizi e plebei. I primi membri  menzionati sono in connessione con il regno di Tullo Ostilio,  durante il VII secolo a.c. Il primo dei Curiatii a raggiungere un ufficio significativo fu Publio Curiatius Fistus, soprannominato Trigemino, che tenne il consolato nel 453 a.c. Continuarono ad esistere in tutta la Repubblica, e forse nei tempi imperiali, ma raramente i suoi membri raggiunsero un qualsiasi rilievo.

L' esistenza di una gens patrizia di questo nome è attestata da Livio, che cita espressamente i Curiatii tra i nobili gentiluomini albanesi, che, dopo la distruzione di Alba, furono trapiantati a Roma, e lì accolti tra i Patres. Anche se nel 401 e 138 a.c. incontriamo Curiatii che erano tribuni del popolo e quindi plebei, potevano essere i discendenti dei liberti dei patrizi Curiatii, o che alcuni membri dei geni patrizi fossero passati a difendere i plebei, come fece d'altronde Giulio Cesare.



LA REALTA'

Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonna eretta nel Foro alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi ed il Mausoleo degli Orazi al VI miglio della via Appia.


Pila Orazia
 
Con questo nome si designa il pilastro dove furono poste da Orazio per trofeo le spoglie dei Curiazi da lui uccisi. Lo testimonia Livio, mentre Dionigi riporta che ai suoi tempi esisteva ancora il pilastro ma non le spoglie.



IL SEPOLCRO DEGLI ORAZI E CURIAZI AD ALBANO LAZIALE

IL SEPOLCRO ORAZI E CURIAZI

Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi", ma alcuni ritengono che sia la tomba di altri personaggi. C'è inoltre chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo della battaglia. La leggenda dice che si trattasse di tre gemelli contro altri tre, il che sembra un po' forzata. Che si trattasse però di tre fratelli (alcuni autori li riportano solo fratelli) o almeno della stessa gens è possibile. Il nome Curiazi dovrebbe derivare dal nome delle Curie, che però erano di origine sabina.


MEZIO FULGEZIO

Mezio Fufezio fu l'ultimo re di Alba Longa, successore di Gaio Cluilio, leggendario re di Alba Longa della metà del VII sec. a.c., contemporaneo del re di Roma Tullo Ostilio (... - 641 a.c.).
Secondo quanto riferisce Tito Livio, Mezio Fufezio, considerando sacrilego lo scontro tra Alba Longa e Roma, in quanto ambedue i popoli discendevano da Romolo, ma anche per evitare che la guerra indebolisse entrambe le città, finendo col favorire i comuni nemici Etruschi, propose il duello tra Orazi e Curiazi, per risolvere il conflitto. La sfida fu vinta dai Romani e Alba Longa si sottomise.

Però Mezio soffrì dell'esito del duello e gli albani cominciarono a tramare contro i romani: Mezio, nonostante fosse alleato di Tullo Ostilio, condusse sul campo gli albani, senza prendere parte allo scontro durante una battaglia a fianco dei romani contro Fidenae e Veio.

Dopo la vittoria dei romani, Tullo Ostilio invitò gli albani a condividere lo stesso accampamento, per i festeggiamenti. Ma quando gli albani vi entrarono disarmati, per assistere all'assemblea pubblica di ringraziamento, Tullo Ostilio li fece circondare dai propri soldati armati, e pronunciò un discorso, in cui accusò Mezio Fufezio di tradimento.

« Mezio Fufezio, se tu fossi in grado di apprendere la lealtà e il rispetto dei trattati, ti lascerei in vita e potresti venire a lezione da me. Ma siccome la tua è una disposizione caratteriale immodificabile, col tuo supplizio insegna al genere umano a mantenere i sacri vincoli che hai violato. Pertanto, come poco fa la tua mente era divisa tra Fidene e Roma, ora tocca al tuo corpo essere diviso.»
(Tito Livio, Ab Urbe Condita, I, 28.)

Così Mezio Fufezio morì squartato, Alba Longa venne distrutta, e i suoi abitanti portati a Roma, sul colle Celio, però non come schiavi ma come abitanti romani coi relativi diritti della plebe.



IL DUELLO

La contesa sembrò sfavorevole ai Romani, infatti due di loro morirono subito uccisi dagli altri tre, e il terzo Orazio si trovò a sostenere da solo tre Curiazi. Allora escogitò un espediente. Poichè era particolarmente bravo nella corsa, si dette alla fuga correndo verso Roma, e corse così a lungo e così energicamente che gli inseguitori si distanziano tra loro.

Come poi lo raggiunse uno dei Curiazi, ingaggiò il duello con lui e lo uccise con la sua spada. A piè fermo attese quindi il secondo Curiazio, in modo che ebbe tempo di riprendere fiato, come questi arrivò parimenti lo ingaggiò in duello e lo trafisse a morte. Ugualmente aspettò il terzo Curiazio sconfiggendo anche questi. Quindi corse a Roma per annunciare la vittoria.

"Nel tempo di Tullo Ostilio, allorchè guerregiando con l’Albani, scelsero li tre fratelli Curiatij dalla lor parte e li tre fratelli Oratij de’ romani acciò terminassero combattendo la differenza, ed avendo i Curiati uccisi due degli Oratii, il terzo fingendo fugire li colse tutti e tre separatamente, e l’uccise, entrando poscia vincitore e triunfante in Roma vennegli all’incontro la sua sorella, la quale come che ammogliata con uno delli Curiati, in vegiendo il fratello intriso nel sangue dello sposo, cominciò a piangere, ed urlare, del che offesosi il fratello, e mal ciò soffrendo la uccise. 

Finita così mestamente la pompa fu Orazio portato dal re per esser giudicato. Il re elesse a tale effetto due Giudici, il quale lo condannarono a morte, ma appellatosi Orazio al popolo fu assolto. Da indi in poi principiò la carica de’ Duemviri Capitali li quali avevano il giudizio delle gravi cause, e la custodia delle carceri capitali."

Tornato a casa però il vincitore si narra venisse rimproverato aspramente dalla sorella a cui aveva ucciso il promesso sposo, uno dei tre Curiazi. Il fratello, che non aveva un buon carattere, solo per questo la uccise. Venne pertanto portato in tribunale ma il padre si battè per lui facendolo assolvere. Per purificarsi, il fratello offrì poi un sacrificio a Giunone Sororia, (Giunone protettrice delle sorelle) divinità tutelare della sorella, divinità che però l'aveva mal tutelata.

Ma la versione originaria è un po' diversa:
"Orazio procedeva portando davanti a sè le triplici spoglie dei Curiazi. La giovane sorella, che era stata fidanzata di uno dei Curiazi, va incontro a lui davanti alla porta Capena, e riconosciuto sopra le amate spalle il mantello dello sposo, che lei stessa aveva fatto, scioglie i capelli e invoca flebilmente il nome del fidanzato ucciso. Il pianto della sorella durante la sua vittoria e in una così grande gioia pubblica turba l'animo dell'arrogante giovane. E così sguainata la spada, schernendo nello stesso tempo con le parole, trafigge la fanciulla:"Raggiungi quindi il fidanzato, incurante dei fratelli uccisi e di quello vivo, incurante della patria. La stessa sorte tocchi a ogni donna romana, chiunque piangerà un nemico". 
Subito fu mandato a chiamare per il sommo giudizio capitale davanti al re Tullio Ostilio, che, incerto su cosa fare, disse:"Nomino i duunviri che giudicheranno Orazio secondo la legge". Allora i giudici, esaminata la causa, secondo la severissima legge di alto tradimento, giudicarono Orazio colpevole e lo condannarono a morte."
(Tito Livio)

Roma però non volle strafare e stabilì un'alleanza con Albalonga. Finalmente Tullo Ostilio stava tranquillo su quel fronte e poteva tentare la conquista di Veio e Fidene.  

Ma il re di AlbaLonga, Mettio Fufezio, che evidentemente non aveva mandato giù i Curiazi morti, tradì e si schierò con gli Etruschi. La battaglia fu dura ma i Romani vinsero ancora e rasero al suolo Albalonga, poi deportarono i suoi abitanti e ammazzarono Fufezio squartandolo tra due carri in tiro.

"Il Celio poi, già abitato dal tempo di Romolo, fu cinto di mura da Tullio Ostilio successore di Numa, allorché dopo di aver distrutta Alba condusse gli albani ad abitare la sua città; e perchè il monte fosse più frequentato, Tullio vi pose la reggia e vi fissò la sua dimora".

Le fonti riferiscono infatti che Tullo Ostilio avesse la sua residenza sul Velia, corrispondente oggi alle pendici del Colle Oppio, accanto all'aedes deum Penatium, vale a dire il tempio dei Penati, tempio molto arcaico, ricostituito nel 167 a.c. perchè colpito da un fulmine.

Però Ostilio aveva bisogno di gente e di guerrieri, per cui non rese schiavi gli albani ma li stabilì sul Celio, allargando il pomerio in modo da includerne il colle. Fece poi costruire la Curia Ostilia, la prima sede del Senato che non si riunirà più nel Comizio, ma avrà una sede tutta sua. Si sa che subito fuori le mura di Roma fece costruire un tempio intitolato al Pallore e al Timore, probabilmente divinità dell'Ade, visto che c'era anche un Vicus, il Vicus Pallor, intitolato a lui. Successivamente Ostilio combattè anche contro i Latini riportando un altro successo.

La Curia Hostilia fu dunque il più antico luogo di riunione del Senato romano, costruito nel Comizio per ordine di Tullo Hostilio, nell'area del Foro Romano, che oggi si trova sotto la chiesa dei Santi Luca e Martina.



TIGILLO SORORIO 

(Tigillum sororium "travicello sororale"). Veniva così chiamato un travicello sostenuto da due pali che sorgeva alle falde delle Carine presso il Colosseo, vicino al colosso di Nerone. In questo culto arcaico si compivano cerimonie espiatorie, per chi doveva purificarsi rientrando a Roma. Questo culto doveva essere gentilizio, della gens Horatia; perchè qui l'Orazio superstite venne purificato, dopo aver ucciso la propria sorella.

Il carattere sacro-espiatorio, confermato da due are che sorgevano ivi presso, dedicate rispettivamente a Giunone Sororia e Giano Curiazio, rimase tale anche durante l'epoca imperiale. La confraternita degli Arvali infatti compie verso la fine del sec. II un sacrifizio Tigillo sororio ad compitum Acili, il 1° ottobre (Henzen, Acta fr. Arv., p. CCXXXVIII).

TUMULO DEI CURIAZI A SINISTRA


APPIA ANTICA SVELATI I TUMULI DEGLI ORAZI
da la Repubblica 31 luglio 2012.
Sta per essere svelata la vera natura dei Tumuli degli Orazi sull'Appia Antica. È stata scoperta la "porta" dei monumenti attribuiti dalla tradizione attribuisce agli eroici fratelli romani che sotto Tullio Ostilio, a metà VII secolo a. C., affrontarono i Curiazi per affermare la supremazia di Roma su Albalonga. E ne cambia l'interpretazione: non si tratterebbe solo di cenotafi commemorativi, ma di tombe vere e proprie. 

È stata la campagna di scavi guidata da due professori dell'università olandese di Nijmegen, Eric Moormann e Stephan Mols, appena conclusa, a riportare in luce un'imponente struttura in opera laterizia, con le sole fondamenta di 8 metri per 4, sul versante ovest del "tumulo nord". Merito dell'istituto olandese che ha ricevuto per otto anni, dalla soprintendenza, la concessione dell'area del V Miglio per uno studio sistematico con fondi propri.

"La struttura sembra attaccata al tumulo nord, dove potrebbe trovarsi l'entrata della tomba monumentale - racconta Eric Moormann - La sua presenza suggerisce che siamo davanti a una vera tomba anziché a un cenotafio". Confermata la datazione alla seconda metà del I secolo a. C. "È evidente che si tratta di un luogo di memoria, come diceva Tito Livio - sottolinea Moormann - Se i tumuli sono tombe vere, i committenti hanno scelto questo luogo per evidenziare la propria importanza o per suggerire un legame, vero o mitico, con gli Orazi". 

TUMULI DEGLI ORAZI 
L'importanza del sito è forte: qui il rettifilo dell'Appia disegna una curva, tracciata, secondo Livio, per rispettare i tumuli più antichi.
In autunno le indagini proseguiranno sulla superficie dei tumuli: "Con metodi geofisici possiamo rintracciare elementi di pietra fino ad una profondità di oltre un metro - avverte Moormann - Dovremmo stabilire se c'è qualcosa sotto il corpo di terra". 

Un'altra scoperta di rilievo riguarda il muro in tufo di età repubblicana immortalato già dal Piranesi nel '700: "La funzione non è ancora chiara - avverte Stephan Mols - Ma è troppo grande per essere il recinto di una pira funeraria dove si bruciavano i corpi di uomini illustri. Potrebbe invece essere un vero campo militare, connesso ai leggendari fratelli Orazi". Accanto allo scavo, l'équipe olandese con la direzione dell'Appia sta portando avanti il progetto "Mapping Via Appia": "Grazie ad un finanziamento del Cnr olandese - annuncia la direttrice Rita Paris - stiamo realizzando con sofisticate tecnologie di indagine una mappa archeologica del V Miglio, che vedrà una prima applicazione a ottobre".

(di Laura Larcan)



LAVINIUM - LAVINIO (Lazio)

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ENEA E LAVINIO

L'antica Lavinium, il luogo dove la leggenda vuole che Enea giunse insieme al figlio Ascanio, non coincide con l'attuale Lavinio, ma si trova invece presso la foce del fosso di Pratica di Mare, frazione di Pomezia, circa 20 km più a nord lungo la costa. Gli scavi archeologici condotti dal 1957 in poi dall'Università di Roma, hanno stabilito che nel Borgo di Pratica di Mare, sarebbe sorta l'acropoli dell'antica città latina.



LE ORIGINI

L'antica Lavinium era una città a sud di Roma che faceva parte del Latium vetus, la parte centrale dell'attuale Lazio, posta a sud del Tevere e a nord del monte Circeo, Questa zona sarebbe il luogo dove Enea avrebbe fondato la sua prima città in Italia, insieme ai suoi profughi da Troia. La teoria trova conforto in ciò che si è rilevato nei frammenti di intonaco rinvenuti nel 1969 a Taormina e appartenenti al ginnasio dell'antica Tauromenion (Taormina).

Nel VII libro dell’Eneide Virgilio descrive l’arrivo di Enea sulla costa di Roma: “Già sotto i raggi il mare arrossava quando i venti si posarono e all’improvviso ogni alito cadde… E qui Enea grande, dal mare, un bosco divino avvista. Nel mezzo, il Tevere con l’amena corrente, a mulinelli rapidi, biondo di mota arena, prorompe in mare. E sopra e all’intorno, variopinti, gli uccelli avvezzi alle rive e al greto dei fiumi con canto accarezzavano l’aria e per il bosco volavano. Quando col primo raggio le terre imbiancava, sorgendo, il giorno nuovo, città, lidi e terre del popolo esplorano per vie diverse: questi gli stagni del fonte Numico, e questo fiume è il Tevere, i forti Latini qui vivono”

Lo sbarco sarebbe avvenuto in una laguna interna, separata dal mare dalla duna costiera, grazie a un’apertura che avrebbe permesso l’attracco. Lì sarebbero apparse le due sorgenti che dissetarono Enea e i compagni. Nella laguna sfociava il fiume Numicus: risalendone il corso era facile trovare acqua e viveri nella Silva Laurentina. Lì sarebbe stata fondata Lavinium.

Il luogo della fondazione, secondo la leggenda, fu quello dove si svolse una contesa tra tre animali: un lupo, un'aquila e una volpe, oppure un picchio, interpretata da Enea come auspicio divino della futura grandezza di Lanuvio, e le cui immagini vennero riprodotte nel forum cittadino.

Il lupo e l'aquila erano simboli di Roma, il picchio di Marte e la volpe doveva corrispondere a qualche divinità locale. Un'altra versione invece, che si rifà al filone greco-argivo, è narrata da Appiano, e sostiene che la fondazione di Lanuvio fu dovuta invece a Diomede figlio di Tideo, signore di Argo.

MUSEO DI LAVINIO
Secondo il racconto di Livio, Lavinio era una città ricca e fiorente, tanto da avere popolazione in eccesso. Per questo motivo Ascanio, 30 anni dopo la sua fondazione, abbandonò Lavinio per fondare la nuova città di Alba Longa. In questi trent'anni, nessuno tra i vicini osò attaccare Lavinio.

A Lavinio nel 745 a.c. fu ucciso Tito Tazio, re di Roma insieme a Romolo. Questo accade perché i parenti di Tito avevano maltrattato degli ambasciatori di Lavinio a Roma e Tazio non aveva rimediato a questa ingiustizia. Giunto a Lavinio per un sacrificio solenne, fu assassinato in un moto di piazza.

Lucio Tarquinio Collatino, primo console della Repubblica romana con Lucio Giunio Bruto, si ritirò a Lavinio, con tutte le sue proprietà, costretto a ritirarsi dalla suprema magistratura, perché inviso al popolo per essere parente di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma.



LA TOMBA DI ENEA

Qui la tradizione colloca la tomba di Enea e Dionigi, storico greco vissuto nell’ epoca di Augusto, così la testimonia ancora esistente a Lavinio : «Si tratta di un piccolo tumulo, intorno al quale sono stati posti file regolari di alberi, che vale la pena di vedere» .

Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, Libro I, Tomo 64) scrive che dopo la battaglia tra Latini e Rutuli presso il fiume Numico che scorreva a fianco di Lavinio, non trovando il corpo di Enea, ne dedussero che fosse stato trasportato tra gli Dei, altri che fosse perito nel fiume, per cui i Latini gli costruiscono un Heroon fregiato di questa iscrizione : “del Dio padre Indigete che guida la corrente del fiume Numico”.

TOMBA DI ENEA
Ancora Dionigi : “C'è però chi afferma che fu costruito da Enea in onore del padre Anchise , deceduto l' anno prima di questa guerra. Consiste in un tumulo non grande ed intorno ad esso alberi allineati degni di essere visti” .

L' ipotesi che il tumulo sia il monumento descritto da Dionigi, che la critica moderna ammette possibile. Inoltre sotto il territorio di Lavinio è stato reperito un Medaglione di Antonino Pio con al dritto Enea che sbarca sulla costa laziale con sulla destra una nave offrendo un sacrificio, al rovescio l'immagine di Lavinio, una scrofa, Enea con il padre Anchise, le tredici Are e l' Heroon di Enea.

Il viaggio che portò Enea da Troia al Lazio durò ben sette anni. Enea va in Tracia, poi nell’isola di Delo a consultare l’oracolo del dio Apollo, poi a Creta, dove scoppia una pestilenza; poi nell’Epiro (Albania), dove incontra Andromaca, moglie di Ettore, ora schiava di Pirro, figlio di Achille. Va poi in Sicilia, dove muore Anchise e poi in Africa, a Cartagine. Di nuovo in Sicilia per onorare la memoria di Anchise, a Cuma per consultare la Sibilla e infine sulle coste del Lazio,
dove fonda una nuova città, Lavinium, dove custodisce gli Dei portati da Troia e la memoria dei nobili antenati da cui discendono la stirpe albana e la stessa Roma.



IL PALLADIO

Nell’area di Lavinium, oggi Pratica di Mare, c'è un tempio dedicato a Minerva, dove venne ritrovata, a poca distanza dal museo che la conserva, una statuina copia di un originale in legno, alta 96 cm equivalenti a tre piedi romani, l’altezza standard per le sculture dell’epoca.

PALLADIO
La figura è priva di braccia che certamente sostenevano lancia e scudo, il vestito è ornato di serpenti, il richiamo ai Lari, le statuine con serpentelli che rappresentavano le anime degli antenati custoditi nel larario in ogni casa romana. 
Enea, fuggendo da Troia, oltre a figlio e padre si porta dietro proprio la statuetta del Palladio.
Ma l’abito della statuetta trovata a Lavinium è lunga fino ai piedi, cosa molto inusuale per l'epoca.
Procopio, che sta scrivendo un resoconto degli eventi della “La Guerra Gotica”, descrive, passeggiando lungo il Tevere, una “nave antica” custodita in un hangar della riva sinistra, la nave di Enea, 
Secondo Procopio il Palladio se l’era portato sì via Diomede e se lo teneva a casa sua nel Gargano; però si era ammalato e una profezia gli aveva detto che solo restituendo il Palladio sarebbe guarito Così Diomede incontrò Enea a Benevento e glielo restituì.

L'autore, in questo frangente, descrive Minerva col braccio che “vibrava la lancia” e “vestita fino ai piedi”, dando così pieno riconoscimento al Palladio (per la veste lunga) e alla di esso copia.



SANTUARIO DEI XIII ALTARI

Nella zona sud esterna alle mura di Lavinium, sono localizzati due importanti monumenti: il c.d. Heroon di Enea ed il Santuario dei Tredici Altari.  Negli anni '60 del secolo scorso, alla foce del Numico furono rinvenuti i resti di un santuario, era il luogo dove la leggenda poneva lo sbarco. In seguito il fiume fu interrato ma nelle successive campagne di scavi vennero alla luce numerosi reperti. Un dato certo è che l?area era ritenuta sacra per via dei grandi santuari dedicati a Minerva e dei tredici altari.

Infatti nel 1968 è stato scavato un tumulo che ha restituito due strutture, di cui la più antica è una tomba a cassone con ricco corredo funerario databile al II quarto del VII secolo a.c. Il tumulo è stato ristrutturato alla fine del IV secolo a.c. inserendo la seconda struttura, dotata di una facciata monumentale e identificato con l’Heroon di Enea descritto da Dionigi di Alicarnasso.

SANTUARIO DEI TREDICI ALTARI
Il vicino Santuario dei Tredici Altari è formato da una serie di altari di tufo orientati ad est, sorti in un arco di tempo che inizia dalla metà del VI secolo e si conclude nel III secolo a.c. Notevole la quantità ed il tipo di offerte deposte che danno indicazioni significative sul rituale praticato nel santuario e sui contatti con le colonie greche dell’Italia meridionale.

Il Museo comprende 4 sale, nella prima detta Tritonia Virgo per la straordinaria statua di Minerva, dove sono esposte interessanti terrecotte votive, databili tra il V e III sec. a.c. che testimoniano la particolarità del culto praticato a Lavinium, e riproducono figure umane a grandezza naturale ritratte nelle varie fasi della vita, dalla fanciullezza all?età adulta.

La seconda è denominata "Mundus muliebris" dove sono esposte varie teste votive, con acconciature dei capelli, gioielli ed abiti che testimoniano i vari ceti sociali.

La terza sala "Hic domus Aenae", è la sala di Enea, dove è esposta la ricostruzione in scala di una nave della fine dell'età del bronzo, e vi è una mappa dell'area e degli scavi compiuti.

La quarta sala c'è il corredo miniaturizzato in lamina bronzea di un armamento completo del X sec. a.c. appartenente ad un capo religioso e militare. In questa sala è stato predisposto un teatro ottico, una realtà virtuale che ci introduce nell'atmosfera del culto e dei riti praticati nel santuario e nelle 13 are, che consente di udire direttamente attraverso le parole di un sacerdote la descrizione del celebre santuario.


EX VOTO

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EX VOTO NEL TEMPIO DI ESCULAPIO

Ex voto è una locuzione latina derivata dall'ellissi di ex voto suscepto, "secondo la promessa fatta", e indica una formula apposta su oggetti offerti nei santuari per ringraziare il destinatario del dono di aver esaudito una preghiera.


EX VOTO ORECCHIE IN ALABASTRO
Un gran numero di ex voto è connesso alla sfera della salute e quindi all'ambito corporeo; fra le varie tipologie di oggetti votivi prevalgono gli ex voto anatomici, che rappresentano nella grande maggioranza l'organo malato, gli oggetti-segno della malattia, per es., strumenti medici, attrezzi ortopedici ecc.,

Una prima suddivisione tra i vari tipi di ex voto (Morel 1992) distingue gli oggetti costruiti appositamente per essere votati.

Per esempio i tanti votivi anatomici ritrovati durante gli scavi di templi greci e romani, da quelli nati con un'altra destinazione d'uso e successivamente votati nel santuario.

LUPA VOTIVA
Per esempio le stampelle offerte per ringraziare della guarigione, o i gioielli di cui ci si priva in segno di ringraziamento, o ancora i pesi da telaio o le fusaiole, frequenti nei santuari antichi.

A volte invece si dedica alla divinità una patera o un vaso su cui in genere si incide una dedica per sacrificarlo, quindi l'oggetto viene spaccato e lasciato nel tempio affinchè nessun essere umano possa più usarlo.

Perché l'oggetto possa passare dalla sfera profana a quella sacra occorre però che sia reso tale, o attraverso un rituale, come per es. le processioni durante le quali vengono portate le offerte ai santuari, o modificandone le caratteristiche fisiche.

Per esempio tratto dal mondo antico, le monete del deposito votivo di Fondo Ruozzo a Teano, che presentano un lato con profonde incisioni.

EX VOTO DI UN OCCHIO
Inoltre gli oggetti offerti in voto sono sottratti alla circolazione ed esposti alla vista. È infatti nei templi che si ammassavano e venivano esposte le offerte.

L'esposizione serviva non solo a dimostrazione della gratitudine del miracolato alla divinità, ma il miracolato informa al mondo che la divinità che lui o lei ha pregato, proprio quella divinità, gli ha fatto il miracolo.

Pubblicare che una divinità riesce a fare miracoli non solo dimostra che è potente, ma accresce anche il suo potere, perchè vedendo la testimonianza del miracolo, molte più persone si rivolgeranno ad essa per ricevere dei miracoli, ed ogni portento effettuato aumenterà le offerte e i doni alla divinità.

EX VOTO INTESTINO
Un tempio vale per le offerte che ha, e ne ha tante di più quanti più miracoli fa la divinità. Inoltre il tempio con numerosi ex voto diventa pure una fonte di guadagno, nei tempi più antichi come oggi.

Intorno al tempio sorgono botteghe che vendono statuette della divinità, o oggetti che possono essere regalati alla divinità, come bracciali, pietre, anelli, ghirlande di fiori, stoffe preziose o gioielli.

Ma nascono pure tabernae per la ristorazione, o locande per dormire, e anche postriboli, perchè presso i romani il sesso non era peccato.

Intorno ad un tempio famoso finiva per sorgere un paese o una cittadina e vi fiorivano le fabbriche e i negozi di souvenir o di ex voto.

GAMBA VOTIVA

LA STORIA

L’offerta di doni votivi anatomici costituisce una delle più significative espressioni materiali dei culti della salute e della fertilità di area italica (soprattutto dell’Etruria, del Lazio e di alcune località della Campania e della Puglia) di epoca medio e tardo-repubblicana.

EX VOTO DEL TEMPIO DI ESCULAPIO
Affermatasi particolarmente intorno all’inizio del IV sec. a.c., essa declina sensibilmente tra la fine del II e gli inizi del I sec. a.c., con l'avvento della medicina greca e poi romana per cui ci si affida un po' di più al medico e un po' di meno agli Dei.

I devoti dell’epoca, piccoli coltivatori ed allevatori, dedicavano alle divinità soprattutto femminili, ma anche maschili, riproduzioni, per la maggior parte in terracotta, di ogni parte del corpo umano. Del resto anche oggi i fedeli chiedono la guarigione alla Madonna e non a Gesù o a Dio, perchè la divinità femminile dà l'idea di essere più disponibile.

L’individuazione delle divinità cui ci si rivolgeva e dei culti praticati nei santuari che hanno restituito votivi anatomici risulta di solito ardua, anche perchè gli ex voto italici, salvo poche eccezioni, non recano iscrizioni.

Gli ex voto erano realizzati in diversi materiali, ma i più attestati sono in bronzo, di cui si apprezzava la capacità di durare a lungo, e la terracotta, di costo minore. Variano anche per aspetti sociali e culturali, altrimenti non si spiega come nell'Etruria centrale e settentrionale interna (Orvieto, Chiusi, Volterra, Bologna) si preferisse il bronzo, mentre altrove prevalesse la terracotta, che poi conquistò tutta la penisola con la romanizzazione.

BRONZETTI VOTIVI ETRUSCHI
Ognuna delle due aree aveva un ampio raggio d'influenza: l'area del bronzo arrivò a comprendere gli Umbri, i Veneti e i popoli dell'Adriatico e dell'Appennino, mentre quella della terracotta coinvolse Latini, Campani e Ausoni.

Soprattutto nei secoli iniziali del I millennio a.c., si usava la miniaturizzazione degli oggetti offerti, dovuta al valore simbolico che si attribuiva al dono, che diveniva una sostituzione del reale. 

Ciò è evidente nella riproduzione dei cibi, vista come magica continuazione del sacrificio. Le stesse statuette antropomorfe, molto diffuse, sono state interpretate come sostituti di sacrifici umani, attestati, su base letteraria, almeno per l'Etruria e per Roma.

I donari dei templi accoglievano doni di diversissima qualità, alcuni preziosissimi, quali la famosissima Lupa Capitolina (450- 430 a.c.), il Marte di Todi (400 a.c.), la Chimera di Arezzo (400-350 a.c.). D'altronde Metrodoro di Scepsi, riportato in Plinio (Nat. hist., XXXIV, 34), informa delle 2000 statue di bronzo che i Romani avrebbero asportato dai santuari di Velzna.

La sfera cultuale più facilmente identificabile risulta quella connessa con la sanatio e la fertilità, che la presenza degli ex voto anatomici testimonia chiaramente, e che si estendeva a molte divinità.

CHIMERA D'AREZZO VOTIVA 
Uno dei culti più sentiti in ambito salutario era quello delle acque, con santuari di modeste strutture e quasi sempre posizionati in luoghi esterni agli abitati e talora isolati, ma con particolarità naturali come i fenomeni termali; qui si rinvengono ricche stipi votive. Spesso tali santuari hanno origine nella preistoria e perdurano a volte almeno sino al Medioevo.

Origini anteriori al I millennio a.c. hanno spesso anche i culti in grotta, che presentano talora caratteri di originalità: è il caso della Grotta della Poesia di Rocavecchia, dove la realizzazione di scritte diviene, a partire dal 350 a.c., l'atto devozionale principale, come suggeriscono i 400 mq di graffiti presenti sulle pareti.

La scarsità di dediche scritte e di statuette raffiguranti le divinità tributarie del culto fa ritenere che ai devoti interessasse esplicitare chi fosse l’autore della dedica e quale fosse la preghiera formulata, piuttosto che evocare la divinità destinataria.

MANO EX VOTO
Il maggior numero delle offerte votive ha infatti a che fare con l’offerente, sia sotto forma di statue, statuette e teste, che di parti del corpo umano.

Caratteristici della produzione etrusco-laziale-campana sono gli ex voto in terracotta riproducenti gli organi interni, quasi totalmente assenti tra i votivi greci. Gli organi interni riprodotti dai votivi anatomici italici rappresentano: visceri, uteri, cuori o cippetti.

Rodolfo Lanciani, che nel 1889 scavò presso il santuario delle pendici di Piazza d’Armi a Veio riferisce di numerosissimi votivi anatomici di vari o tipo.

Ad esempio rappresentano visceri, variamente configurati: tronchi umani con apertura mostrante organi interni e visceri, busti con intestini pendenti all’esterno, figure femminili con ventre aperto e intestini, poliviscerali “a piastra”, interiora che si affacciano da busti con addome aperto, e addirittura “spine dorsali con visceri”, tipologia che sembra attestata unicamente a Veio, evidentemente un particolare culto della salute tributato all’Uni-Giunone di Veio.


Teatro e santuario

Una menzione va fatta per cerimonie rituali tarde, ma pur sempre italiche, che prevedevano la presenza di un teatro annesso al santuario: esemplare è il caso di Pietrabbondante nel Molise, ma testimonianze significative vengono anche dalla Sardegna (Cagliari) e dal Lazio (Palestrina e Tivoli).

Per non parlare dei luoghi di culto pagani su cui sono stati riedificati le chiese cristiane. Questo è avvenuto ovunque, ma a volte nei luoghi di culto c'erano acque miracolose traslocate poi al culto cristiano.


Lourdes

UTERO EX VOTO
D'altronde l'attuale territorio comunale di Lourdes fu abitato in età preistorica e in epoca romana, fin dal I secolo a.c., accoglieva un oppidum sulla collina ai cui piedi sorgeva un tempio pagano dedicato alle divinità delle acque. 

Le vestigia del tempio sono venute parzialmente alla luce subito dopo la demolizione della parrocchiale di Saint Pierre (avvenuta agli inizi del Novecento), insieme a resti di ceramiche votive e di tre altari votivi.

Ma tutto è passato sotto silenzio.
Nel V secolo tale tempio fu rimpiazzato da una chiesa paleocristiana.


Chiesa di San Nicomede

Un altro esempio è la chiesa di San Nicomede (fraz. di Salsomaggiore Terme in Emilia-Romagana) martirizzato a Roma sotto Domiziano nell’85 d.c. 

Era usanza dei pellegrini, che giungevano da tutta Europa, anche perché questo luogo si trova in prossimità della via francigena, recarsi qui con un mattone in testa ad attingere e berne l’acqua benedetta che qui sgorgava, per farsi passare il male al capo. Fu proprio con questi mattoni, abbandonati in loco dai fedeli, che la pieve fu costruita e in seguito restaurata. 

La chiesa è stata così costruita sopra una fonte di culto pagano considerata sacra e guaritrice. La Chiesa, per mantenerne la venerazione, ha continuato a considerarla tale, asserendo che la miracolosità dell’acqua era dovuta alla presenza delle ossa del Santo, tanto per dare una giustificazione alla presenza del pozzo pagano.


Statuette stilizzate

OMBRE DELLA SERA - EX VOTO
A vederle si direbbero molto moderne, è straordinario che oltre un millennio fa uno stile fittile somigli a un certo stile moderno che sentì anch'esso il bisogno di rinunciare alla copia conforme a favore di una sensibilità interiore che richiedeva l'essenza della figura, il significato più che la forma.

E' il caso delle cosiddette "Ombre della Sera" come le definì elegantemente D'Annunzio, statuette votive etrusche del II sec. a.c.

Alle pendici Sud-Ovest della necropoli di Monte Tamburino, degli scavi del 1993-95, in un area esplorata di circa 110 mq,  hanno rinvenuto una stipe votiva, in fondo a un piccolo specchio d'acqua giacevano numerose offerte votive. 

 Nessun edificio nè divinità di culto, solo  195 ex voto in bronzo, schematiche figurine maschili e femminili nell'atteggiamento del devoto in preghiera del V sec. a.c.. 
Le statuette sono analoghe ai bronzetti schematici coevi dell' Appennino bolognese e modenese, e sono estremamente e stranamente stilizzate come fossero moderne.

VILLA DOMIZIA (Giannutri)

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Giannutri, l'isola più meridionale dell'Arcipelago Toscano, si trova a circa 8 miglia a sud-est dell'Isola del Giglio. L'isola che i Greci chiamavano Artemisia e i romani Dianium, vide il suo massimo splendore in epoca romana, quando furono realizzati il porto e una splendida villa lungo la costa occidentale dell'isola, quest'ultima costruita dalla famiglia degli Enobarbi che aveva acquistato l'intera isola.
Gli accenni più antichi dell'isola li troviamo nella Naturalis Historiae di Plinio il Vecchio che, in una nota sulle isole, cita Artemisia come isola primitiva:

"Amplior Urgo et Capraria, quam Graeci Aegilion dixere, item Igilium et Dianium, quam Artemisiam, ambae contra Cosanum litus, et Barpana, Menaria, Columbaria, Venaria, Ilva cum ferri metallis, circuitus C, a Populonio X, a Graecis Aethalia dicta. ab ea Planasia XXVIII. ab iis ultra Tiberina ostia in Antiano Astura, mox Palmaria, Sinonia, adversum Formias Pontiae
(C. Plinii "Naturalis Historiæ" Liber III [81] )

Un altro accenno si trova nell'opera "De chorographia" di Pomponio Mela, geografo latino, che cita Dianium come prima isola passata la bocca del Tevere:
"Sed Pithecusa, Leucothea, Aenaria, Sidonia, Capreae, Prochyta, Pontiae, Pandateria, Sinonia, Palmaria Italico lateri citra Tiberina ostia iacent [106]. Vltra aliquot sunt parvae Dianium, Igilium, Carbania, Urgo, Ilva, Capraria, duae grandes fretoque divisae, quarum Corsica Etrusco litori propior, inter latera tenuis et longa, praeterquam ubi Aleria et Mariana coloniae sunt a barbaris colitur
(Pomponius Mela "De Chorographia Liber Secundus)

Presso Cala Maestra si trovano infatti i resti di villa romana del II secolo d.c., edificata dai
Domizi Enobarbi, antica famiglia senatoria di importanti commercianti della quale faceva parte
Gneo Domizio, marito di Agrippina, madre dell'imperatore Nerone.  Giannutri fu abbandonata improvvisamente nel III sec. d.c. per motivi ancora sconosciuti, probabilmente per un sisma che ne danneggiò irreparabilmente le strutture, o forse per un'invasione di topi, che, come narra il poeta Rutilio Namaziano nella sua opera "De Reditu Suo" del 416 d.c., è stata causa di abbandono di molti antichi insediamenti.


Nonostante la rilevanza artistica e storica dei resti, la villa fino al 2004 apparteneva a dei privati, esattamente al conte Gualtiero Adami (noto come Il Garibaldino), A lui si devono i primi scavi della villa romana, di cui utilizzò i locali di una antica cisterna dell'acqua per ricavarne la sua misera dimora. Al suo interno, oltre a numerosi libri, dicono custodisse gelosamente, a capo a letto, solo una bandiera italiana, di quelle senza lo stemma sabaudo, e una pistola.

L'Adami, che era giunto a Giannutri malato di polmoni ed in precarie condizioni di salute, guarì miracolosamente e visse fino oltre 80 anni. Alla sua morte l'isola con la sua villa venne messa all'asta e salvata da Regione e Ministero dell'Ambiente che esercitarono il diritto di prelazione.



GUALTIERO ADAMI

Gualtiero Adami, capitano garibaldino, sbarcò sull’isola insieme al fratello Osvaldo nel 1882. con il programma di avviare coltivazioni e altre attività produttive legate principalmente alla pesca e all’estrazione di minerali, ma ben presto si arresero all’inospitalità dell’ambiente e forse a contrasti personali. Osvaldo abbandonò l’isola ma Gualtiero, sofferente di malattia polmonare non solo restò ma guarì e visse fino oltre 80 anni. 

Furono proprio il sole ed il mare di Giannutri a garantirgli un’insperata lunga vita, e visse in compagnia della sua amatissima Marietta, che abbandonò tutti i familiari per trasferirsi anch'ella sull'isola e vivere con Gualtiero il suo sogno d'amore.

Marietta e Gualtiero, 21  anni lei e 46 anni lui, scelsero infatti di vivere soli nell'isola disabitata fino alla morte:  «Mentre balliamo voi mi declamerete una poesia di Baudelaire, peccaminoso poeta, così tanto amato da noi giovani e io mi dimenticherò di essere cresciuta», dice Marietta a Gualtiero. coppia felice fino alla morte sopraggiunta per lui nel 1922 e per lei nel 1927. 

L’Adami morì nel 1922, e fu sepolto al Giglio. La povera Marietta restò sola a Giannutri e secondo alcuni tornò a vivere in continente, secondo altri morì nell'isola. Fu proprio Gualtiero Adami, l’epico abitante di Giannutri, ad effettuare i primi scavi della villa romana che si trova presso Cala Maestra.



LA VILLA OGGI

Per lunghi anni è stata chiusa per restauro, nonostante il tempo e i vandali la stessero rovinando.
Sui fondali davanti all'isola ancora oggi giacciono dimenticati alcuni relitti di navi mercantili, che testimoniano però gli antichi traffici marittimi con la terraferma. I romani hanno anche lasciato in eredità agli irriguardosi posteri i resti di un antico porto a Cala dello Spalmatoio e i resti di una villa costruita a Cala Maestra nella prima metà del II secolo d.c..

Villa Domizia fu costruita dalla famiglia imperiale dei Domizi Enobarbi che possedeva Giannutri e non risparmiarono le finanze per edificare la loro dimora con una vista mozzafiato sulla costa. La piccolissima Giannutri, la più appartata ed arida isola dell'Arcipelago Toscano, fu sede dunque, a partire presumibilmente dalla fine del I sec d.c, o nella prima metà del II secolo d.c., di una della più belle e sontuose villae maritimae che i Domizi Enobarbi abbiano fatto erigere sulle coste dell'allora verde Tuscia coronata dalle isole antistanti.
GIANNUTRI
La villa infatti copriva una superficie di circa 5 ettari di terreno ed aveva un’enorme terrazza accessibile direttamente dal mare tramite una scalinata piuttosto articolata.

Dagli scavi effettuati all'epoca vennero alla luce resti di pavimenti decorati con marmi di delicata fattura e con mosaici in bianco e nero.

Il complesso comprendeva gli alloggi della famiglia imperiale,
dove tre saloni erano provvisti di impianto di riscaldamento, quartieri per gli schiavi e le immancabili terme.

La Villa Domizia, con un’enorme terrazza accessibile direttamente dal mare tramite una stupenda scalinata, conserva infatti a tutt'oggi il sistema di condutture e cisterne che distribuiva in tutta l’isola
l’acqua piovana raccolta, probabilmente, date le dimensioni, senza dover ricorrere ad importarla dalla terra ferma.

Finalmente, dopo un lunghissimo oblio, dal 2 luglio 2015 il sito è nuovamente aperto ai visitatori con Guide Parco specializzate. Il
personale è stato formato dal Parco e dalla Soprintendenza archeologica. Da giugno a settembre
le Guide, incaricate dal Parco, accompagnano quotidianamente i visitatori nel percorso
archeologico in turni di massimo 25 persone.

La scelta di un tale sito per gli Enobarbi era evidentemente motivata dal desiderio di crearsi un eremo sul mare, ovviamente con tutti i confort dell'epoca che non erano pochi, per estraniarsi dal chiasso e la folla dell'Urbe per dedicarsi al famoso otium perseguito più o meno da tutti i patrizi romani, in una "Tranquilla dimora degli Dei".

E dimora degli Dei doveva apparire, perchè la villa sorgeva nella zona centrale dell'isola sul versante fronteggiante il Giglio con un mare azzurro e limpido come pochi.

Come tutte le ville di villeggiatura dell'epoca, essa consisteva in un articolato complesso di edifici tra cui alcuni distribuiti su una vasta area del litorale.

Essa si estendeva infatti tra Punta Scaletta, dov'era il nucleo residenziale vero e proprio, e Cala Maestra, dov'era l'approdo principale della villa ed un nucleo di costruzioni adibite all'attività portuale.



 1- La Villa (A)

La villa era edificata su un lieve pendio degradante a mare con locali e terrazze realizzate su livelli sfalsati. Ciò permetteva una scenografia notevolissima, in cui si poteva godere della facciata e dei giardini con un sol colpo d'occhio. Sul livello più alto, raggiungibile mediante un'ampia scalinata, si trovavano le stanze che potevano godere del massimo spettacolo. 

Di queste alcune erano sicuramente destinate ad uso abitativo, ed erano provviste di un sistema di riscaldamento ad intercapedine, altre erano adibite agli ospiti o a servizi di vario genere. Sullo stesso livello un grande terrazzo consentiva una visione panoramica della costa dell'Argentario. Non essendosi conservati purtroppo nemmeno in parte i piani rialzati, non ne abbiamo alcuna notizia.

L'estremità inferiore della scalinata si estendeva in un peristilio in cui alcune colonne, rimesse in posizione eretta grazie all'opera di Bice Vaccarino Foresto, archeologa innamorata di Giannutri, dal 1930 svettano nel panorama della villa. Due rampe di scale monumentali si distaccavano dal peristilio conducendo ad altre costruzioni sottostanti ed all'approdo di Cala Maestra.



2- Il Conventaccio (B)

Poco dietro il nucleo residenziale si trovano i resti malandati di un vasto fabbricato composto da un'ampia terrazza e di 7 od 8 piccole stanze allineate lungo un lato di questa.

Si è supposto trattarsi dell'alloggio per gli schiavi (ergastulum), o più probabilmente per manodopera servile, liberti, o magari per ospiti della villa. Avendo la villa terreni coltivabili sembra probabile che l'alloggio riguardasse gli schiavi che ci lavoravano, sia sulla terra che sui manufatti.

Sembra che la struttura sia stata utilizzata in epoca molto posteriore da alcuni monaci, forse benedettini, che l'hanno trasformata in un piccolo convento eremitico. Da qui il nome di Conventaccio.



3- Le Terme (E)

A metà strada tra la villa e Cala Maestra si trovano i resti dell'impianto termale, che non poteva mancare in una villa romana di cotale bellezza. Essa era infatti fornita di un calidarium, una stanza rettangolare con pareti formate da mattoni cavi per il passaggio dell'aria calda e pavimento staccato da terra con sospensori e riscaldato attraverso il forno.

La vasca per il bagno caldo era scavata in parte nel pavimento ed era separata da questa da un lungo parapetto. Nella parete sopra la vasca si apriva una grande nicchia da cui scendeva, probabilmente da una statua o altro decoro di bronzo o di marmo, l'acqua calda per il bagno.

Subito dietro la nicchia si trovava una bassa e stretta costruzione a volta con camino dove si trovava il forno. La stanza era riccamente ornata di marmi e di stucchi dorati. Notevoli i pavimenti a mosaico tra cui, famoso, quello rappresentante due delfini. Oltre al calidarium, le terme ospitavano ovviamente anche il tepidarium e il frigidarium.



4- La Passeggiata archeologica (G-E-D-C-A)

La passeggiata ripercorre quella che una volta era il viale di accesso alla villa.
Questo consisteva in in un lungo corridoio pavimentato con mosaico bianco, ai cui lati si affacciavano, verso il mare, ampie stanze signorili decorate da mosaici ed affreschi, e, verso terra, l'impianto termale ed altri locali.

Proseguendo verso la villa il corridoio affiancava altri locali e manufatti di difficile interpretazione e, separati da questi da uno stretto corridoio, una serie di locali a volta, comunicanti tra loro, costituenti probabilmente magazzini e cisterne.

In quattro di questi locali Gualtiero Adami nel 1882 stabilì la propria dimora e visse per 40 anni insieme a Marietta Moschini.


Nucleo portuale 1- L'approdo di Cala Maestra

La piccola baia di Cala Maestra, sebbene poco agevole per la manovrabilità delle grosse imbarcazioni ed esposta al Maestrale, era decisamente più comoda di Cala dello Spalmatoio, dall'altra parte dell'isola, per il raggiungimento della villa.

Gli Enobarbi vi fecero costruire un approdo con una banchina ed un'ampia darsena (M), tuttora utilizzata, tagliando un notevole strato di roccia sulla costa per ricavare lo spazio necessario alla darsena. Successivamente i tre lati della darsena così ricavati furono rivestiti in muratura.



L'Esedra (L)


A fianco della darsena si apriva una esedra, dotata di parapetto, sicuramente ornata con rocce, statue e marmi vari, che formava una piccola terrazza a mare con due scalette laterali che scendevano direttamente a pelo d'acqua.

Essa veniva evidentemente utilizzata per i bagni di mare, e da essa si poteva anche controllare l'attività portuale con i suoi traffici.

Dietro l'esedra sorgevano, probabilmente su più piani, delle costruzioni identificate da alcuni come locali per i bagni e per l'imbarco e lo sbarco dei proprietari ed ospiti della villa.
Altre costruzioni, non identificate, si trovavano dietro la darsena.


La scalinata

L'ampia e suggestiva scalinata che attualmente risale la costa a fianco della darsena, ricalca probabilmente una rampa di epoca romana che conduceva agli edifici sovrastanti e veniva utilizzata per l'attività portuale di carico e scarico delle merci.
L'accesso privato alla villa avveniva invece mediante una scalinata, oggi non più visibile, sul lato orientale della cala, in prossimità dell'esedra.


LA TORRE TRONCOPIRAMIDALE
La Torre

Sulla sinistra della piccola baia, a picco sul mare, si erge tuttora una enigmatica costruzione a forma di torre tronco piramidale.

La sua funzione di allora è difficilmente definibile: forse una torre di osservazione, la spiegazione più plausibile è che accogliesse un faro per l'accesso all'approdo per illuminare, quando occorresse, l'approdo stesso e la darsena.


La Cisterna

Un po' dietro la darsena, una grande cisterna per la raccolta dell'acqua piovana era in grado di rifornire tutti gli edifici dell'area portuale.

Essa era composta di cinque locali rettangolari con copertura a volta comunicanti fra loro mediante aperture arcuate e fori.

La posizione ad una certa altezza da terra delle aperture consentiva, evidentemente, il passaggio dell'acqua da un locale all'altro solo dopo una certa purificazione per decantazione. Data la solitudine dell'isola, molto poco abitata sicuramente l'acqua era pulita e potabile.

Ogni ambiente comunicava con l'esterno alternativamente per mezzo di una o due aperture sul soffitto.


LA DARSENA

2- Il Cisternone

L'acqua, che si introduceva nella cisterna per mezzo di condotti di piombo o di terracotta, si innalzava fino al livello di un foro di troppo pieno posto all'inizio della volta nell'ultimo vano della cisterna rivolto verso il mare. Attraverso questo l'acqua in eccesso veniva riversata all'esterno.

LA CISTERNA
La presenza del troppo pieno fa pensare che l'acqua piovana non scarseggiasse ma anzi poteva essercene d'avanzo per le coltivazioni in caso di necessità.

L'ultimo locale della cisterna verso il mare comunicava tramite un'apertura a volta, con un basso atrio con soffitto a volta probabilmente utilizzato dagli schiavi per le operazioni di pulitura e manutenzione. 

La cisterna, validissima come tutti i manufatti romani di questo tipo, è tuttora utilizzata per soddisfare il fabbisogno idrico dei residenti nell'isola. 

Riceve acqua da un impianto di desalinizzazione dell'acqua di mare e, tramite pompe, la fornisce alle utenze.


3- Le Stanze

Poco entroterra, sulla destra di Cala Maestra, vi sono consistenti resti di strutture murarie di un grande edificio rettangolare. Questo, da sempre indicato dagli abitanti dell'isola con il nome "Le Stanze" si divideva in due parti distinte separate da uno stretto corridoio porticato che correva parallelamente alla costa.

MOSAICO DEL MINOTAURO
Dalla parte verso terra un grande locale con soffitto a volta a crociera (horreum), diviso in due nel senso della lunghezza da una fila di grossi pilastri, era verosimilmente destinato alla conservazione ed allo stoccaggio delle merci e delle derrate alimentari. E' probabile che in esso trovassero alloggio comune anche gli schiavi. 

Dall'altra parte del corridoio vi era invece un edificio, forse a due piani, in cui i locali erano disposti intorno ad un vano centrale.
Di questi, quelli dalla parte del mare si affacciavano su un corridoio che correva lungo un lato dell'edificio. 

Essi avevano rifiniture notevoli, come testimoniato dal pavimento in mosaico bianco e nero ancora visibile in alcune e dall'accuratezza delle murature. 

I locali di questo secondo edificio erano con grande probabilità strettamente funzionali all'attività portuale: tabernae per il ristoro e l'alloggio di marinai e persone in transito, ma anche domicilio di addetti alle funzioni dell'approdo.

In entrambi gli edifici costituenti il complesso delle Stanze, Gualtiero Adami nei primi anni del suo soggiorno eremitico sull'isola stabilì la residenza per sè e la sua compagna e per i braccianti che convinse a seguirlo per la colonizzazione del poco territorio sfruttabile. Per adeguare le strutture esistenti a tale funzione egli apportò alcuni interventi di modifica che alterarono purtroppo la loro conformazione originaria.



4- Cala dello Spalmatoio

Con la notevole profondità delle sue acque, la maggiore capienza e il riparo completo dal Maestrale l'approdo di Cala dello Spalmatoio era decisamente più funzionale di quello di Cala Maestra, e ad esso preferibile tranne che per la vicinanza alla villa Domizia e nelle giornate di forte Scirocco o Libeccio. 

Esso consentiva l'approdo e l'ormeggio di ogni tipo di naviglio. Le maestranze romane costruirono, tagliando quando necessario la roccia della costa, due banchine sui lati della baia ed un'ampio piazzale in fondo a questa. E' verosimile anche la costruzione di una diga foranea a partire dalla banchina meridionale. 

Una serie di edifici circondavano la cala sui tre lati: abitazioni, botteghe, magazzini (horrea), cisterne e quant'altro fosse connesso con le attività portuali. Un'ampia strada lastricata collegava l'approdo di Cala dello Spalmatoio con quello di Cala Maestra. Di tutte le opere realizzate in epoca romana ben poco è attualmente visibile. Dove non è riuscito il tempo hanno provveduto i contemporanei.

GIANNUTRI

LE ULTIMISSIME

La visita di Giannutri è condizionata da diverse limitazioni. Solo chi possiede una residenza o se ne procura una in affitto può ottenere il pass che permette di accedere a tutta l’isola. Altrimenti, il visitatore occasionale, che si reca sul posto con il traghetto di linea o con uno dei numerosi battelli turistici in partenza dai porti dell’Argentario, non può allontanarsi dal centro abitato, vale a dire dai trecento metri di strada che uniscono Cala Maestra a Cala Spalmatoio.

Fra l’altro anche la Villa romana è chiusa per restauri e quindi anche qui non sono permesse le visite. Il metodo più pratico per vedere Giannutri è di rivolgersi alle guide autorizzate del Parco, che sono le uniche persone alle quali è consentito accompagnare i visitatori lungo i sentieri dell’isola.



PEDERASTIA TRA I ROMANI

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IL BACIO DI PHILETOR AL KLEINOS

PEDERASTIA CRETESE

Strabone ce ne parla riportando gli scritti di Eforo di Cuma, per cui questa usanza si sviluppò all'epoca della civiltà minoica (1700 - 1450 a.c.), nel "rituale del rapimento" di un ragazzo aristocratico da parte di un maschio adulto dell'aristocrazia guerriera, con il consenso del padre del ragazzo.

Il pederasta (philetor), conduceva l'adolescente (kleinos) in luoghi desertici o montuosi fuori dai centri abitati, dove trascorrevano insieme diversi mesi andando a caccia e "dormendo" assieme. Se il giovinetto, al termine del periodo di convivenza, si dimostrava soddisfatto di come l'adulto lo aveva trattato, cambiava il suo titolo da "kleinos" a "parastates". In seguito, divenuto "colui che combatte in battaglia accanto all'amante" poteva vivere pubblicamente il proprio rapporto erotico amoroso.

Si dice che la funzione sociale di questo costume servisse a riconoscere gli uomini migliori per il buon funzionamento della società. L'età in cui i ragazzi entravano in tali rapporti è la stessa delle ragazze greche concesse in matrimonio, i cui mariti erano molto spesso uomini assai più anziani. I ragazzi però, a differenza di quanto accadeva per le donne, di solito dovevano essere corteggiati ed erano liberi di scegliere il compagno.

Invece i contratti matrimoniali delle ragazze venivano organizzati nella stragrande maggioranza dei casi per ottenere un vantaggio economico o politico a favore delle relative famiglie, a completa discrezione del padre della sposa e del futuro marito.

Aristotele afferma che fu il re Minosse a stabilire che la pederastia venisse utilizzata come mezzo di controllo della popolazione, ritardando l'età media del matrimonio per gli uomini fino ai trent'anni. Il filosofo afferma, nel II° libro della sua Politica che gli uomini "hanno segregato le donne ed istituito rapporti sessuali tra maschi di modo che non vi fosse mai il pericolo d'una eccessiva sovrappopolazione" la quale sarebbe stata rischiosa per l'intera società minoica costretta in una così limitata porzione di territorio.

Ci sono tuttavia situazioni che non quadrano: la religione minoica era incentrata su divinità femminili, con officianti femminili. Nel palazzo di Cnosso la stanza della regina è sontuosa forse più della stanza del re. 
Le statue delle sacerdotesse o delle Dee nella cultura minoica non danno affatto l'idea di segregazione, le donne hanno anzi i seni di fuori coi capezzoli evidenziati col rossetto. Negli affreschi poi uomini e donne partecipano agli stessi esercizi ginnici come la taurokathapsia (acrobazie sopra i tori), per questo molti archeologi hanno creduto che l'uomo e la donna avessero lo stesso status sociale. E così doveva essere.
L'eredità si è supposto fosse matrilineare. Gli affreschi includono molte figure umane, con il genere distinto per mezzo del colore: la pelle degli uomini rossiccia scura, mentre le donne bianca, esattamente come negli etruschi, però maschi e femmine hanno pettinature simili.
I Cretesi, uomini e donne, tenevano i capelli molto lunghi e ondulati. Gli uomini portavano gonnellini di lana o di lino e li fermavano con una cintura, come gli etruschi. Ai piedi indossavano sandali o stivaletti fatti di pelle di camoscio. Le donne si vestivano con delle gonne balze e corsetti molto scollati, si truccavano gli occhi e le labbra e portavano gioielli molto eleganti. La segregazione greca delle donne comportò velo in testa e veste lunga fino ai piedi.
Si presuppone pertanto che i periodi della pederastia e della segregazione delle donne siano di molto successivi, nulla di ciò che si vede a Creta nel periodo minoico parla di sottomissione della donna.

Strabone:
« l'usanza peculiare cretese nei riguardi delle storie d'amore è di non vincolare l'oggetto d'amore a sé con la costrizione, bensì con la persuasione attraverso un rapimento rituale. Qualche giorno prima l'amante va ad informare la famiglia del ragazzo che questi sarà presto rapito... la cosa più indecorosa per un giovane è difatti quella di essere indegno d'acquisire un amante. »

Secondo alcuni studi recenti di William Percy vi è la probabilità che l'usanza possa essere stata adottata molto tempo dopo (all'incirca verso il 630 a.c.) anche dai Dori, diffondendosi così da Creta verso la polis dorica Sparta ed in seguito nell'intera Grecia antica. Questa è la conseguenza dell'invasione ariana, dove decade la donna, il sacerdozio femminile, il vaticinio femminile e il rispetto per la natura, per diventare sopraffazione, prigionia della donna, pederastia e pedofilia.

Strabone:
« È vergognoso per coloro che sono di bell'aspetto o discendenti di antenati illustri di non riuscire ad ottenere un amante... mentre ai parastathentes (coloro che stanno a fianco dell'amante in battaglia) vanno tutti gli onori. »
Strabone indica poi anche che è proprio la decisa mascolinità del ragazzo a conquistare l'amante:
« I giovani più desiderabili, in base alle convinzioni cretesi, non sono quelli eccezionalmente belli, bensì quelli che si distinguono per il coraggio virile e il comportamento ordinato e compunto. »

Quindi i due andavano a vivere in luoghi appartati fino ai limiti del deserto e ad un certo punto, durante il periodo iniziale del corteggiamento, facevano offerta d'una tavoletta votiva e di un sacrificio animale al santuario congiuntamente in onore di Hermes ed Afrodite che sorgeva sul Monte Ditte.

Al loro ritorno l'amante cominciava a fare al ragazzo dei costosi regali, tra cui un abito militare, un bue da sacrificare a Zeus ed una coppa, simbolo di realizzazione spirituale.
 A questo punto, secondo Strabone, il giovane può scegliere se continuare o troncare la relazione
« Il giovane sacrifica il bue ricevuto dall'amante a Zeus e dà una festa. Dichiara poi, per quanto riguarda il suo rapporto con l'amante, che la relazione ha avuto luogo col proprio consenso; se così non fosse, o fosse stata usata violenza contro di lui durante il sequestro, può ristabilire il suo onore e troncare la relazione. Le convenzioni vigenti a Creta incoraggiavano quest'ordine.»
Un commento tardo proveniente dallo storico romano Cornelio Nepote il quale sostiene che i giovani cretesi potessero benissimo avere anche più di un amante: "i giovani a Creta venivano lodati per l'aver ottenuto più amanti che potevano". Insomma una specie di etèra-maschio, ma le donne le tenevano sotto chiave.

NOBILDONNE O REGINE MINOICHE

PEDERASTIA GRECA

« Un amante è il miglior amico che un ragazzo potrà mai avere. »
(Platone, Fedro)

La pederastia era in Grecia una relazione idealizzata e contemporaneamente codificata fra un maschio adulto; detto erastes-amante ed un ragazzo adolescente chiamato eromenos-amato, solitamente nella prima adolescenza.

Alcuni studiosi pensano derivi dal rito di iniziazione della pederastia cretese, quella vigente all'interno della strutturazione sociale della civiltà minoica e dove era associata con l'ingresso nella vita militare.
La "paiderastia" in Grecia venne altamente idealizzata, seppure anche criticata nella letteratura greca e della filosofia greca. Non sembra abbia invece avuto esistenza formale durante la civiltà micenea, almeno sulla base dei poemi di Omero, che fa solo accenni fugaci alla stretta  tra Achille e  Patroclo nell'Iliade e Telemaco che viene invitato a dormire sullo stesso letto con Pisistrato, il figlio del re di Pilo Nestore (nonché l'unico non ancora sposato); cosa che accade per ben due volte, all'inizio dell'Odissea.

La pederastia non veniva praticata allo stesso modo in tutta la Grecia, perchè in alcune regioni, come nella Beozia, i due potevano convivere come una coppia. Ad Atene invece, il giovane era convinto con vari doni a mantenere un relazione, nella Ionia questi rapporti erano quasi vietati.

A Sparta sembra si praticasse la pederastia quasi sempre in modo casto. L'erastes comunque diveniva sempre una sorta di mentore e amico o protettore del ragazzo. Senofonte tuttavia nella sua Costituzione di Sparta specifica chiaramente che le abitudini e consuetudini spartane rendevano del tutto inadatta la vera e propria "pederastia fisica": un uomo poteva pertanto liberamente puntare a cercare un'amicizia idealizzata con un ragazzo, ma un autentico rapporto sessuale assieme a lui sarebbe stato considerato "un abominio" equivalente all'incesto.

Socrate, o almeno come si riflette il personaggio socratico negli scritti del discepolo Platone, sembra essere stato a favore della relazione pederastica casta, il giusto equilibrio tra desiderio e autocontrollo.

Tuttavia, ciò non sembra avergli impedito la frequentazione dei bordelli in cui i ragazzi praticavano la prostituzione maschile, dove ha acquistato, per liberarlo dalla condizione di schiavitù in cui era costretto, il suo futuro amico e allievo Fedone di Elide, quindi descrivere la propria eccitazione sessuale quando intravedere il bel corpo nudo di Cármide sotto la tunica aperta.

Platone svaluta fino a condannare i rapporti sessuali con i ragazzi amati, valorizzano invece l'autodisciplina dell'amante che si è astenuto dal consumare il rapporto. Per la stragrande maggioranza degli storici antichi comunque, se un uomo non avesse avuto un ragazzo come amante, ciò veniva indicato come essere un difetto o una mancanza di carattere.

Nell'antica Grecia s'ipotizza che il costume della pederastia possa essersi sviluppato nel tardo VII secolo a.c. con molte implicazioni amorose e pure romantiche, addirittura nel Sinposio di Platone viene descritto come l'amore più puro e superiore, rimandando a Venere Pandemia (terrena) l'amore eterosessuale, e a Venere Urania (celeste) quello pederastico.

Oggi un tale comportamento ricadrebbe nel diritto penale, ma l'antico diritto penale ateniese, che riconosceva il diritto consenso (in opposizione alla violenza sessuale), non specificava quale fosse l'età del consenso, nè si parla di punizione del violentatore aldilà del risarcimento pecuniario.



I RUOLI SESSUALI

Il fatto è che i comportamenti sessuali non erano classificati sulla base della diversità sessuale o dell'identità di genere dei partner, bensì in base al ruolo attivo e passivo nel sesso secondo la condizione sociale delle persone coinvolte.

KOUROS (530 A.C.)
Sulla base del libro del filologo Kenneth Dover "L'omosessualità nella Grecia antica" nel 1978 i due termini erastes ed eromenos (dal verbo "erò, eràn" = amare, da cui pure il Dio Eros). sono divenuti per definizione i due ruoli della relazione pederastica.

Sia la ceramica che la letteratura greca mostrano che l'eromenos doveva avere dai tredici ai vent'anni, e diviene incarnazione della giovinezza idealizzata.

Il kouros è la prima raffigurazione nella scultura greca del corpo maschile nudo in posizione eretta e immobile. Come si nota nell'immagine è la gamba sinistra a sopravanzare la destra, segno che la destrizzazione di mano e gamba non è ancora avvenuta.

Un tempo la mano preminente era la sinistra e non la destra (segno che l'encefalo più usato era il destro, mentre oggi è il sinistro che incrociando gli assoni neuronali si rapporta con la mano sinistra), si ragionava meno ma si sentiva di più.

Nel modello di transizione tra mano sinistra e mano destra, ci doveva essere ancora una sensibilità istintiva che poi si è persa con la maggiore stratificazione della corteccia cerebrale, cioè con la preponderanza della mente sull'istinto.

La filosofa statunitense Martha Nussbaum in "The Fragility of Goodness", descrive l'eromenos ideale:

« Un bel ragazzo, consapevole del proprio fascino e del tutto assorbito nel rapporto esistente con coloro che lo desiderano. Egli sorriderà dolcemente rivolto all'amante che lo sta ad ammirare; mostrerà pertanto apprezzamento per l'altrui amicizia, per i consigli e l'assistenza ricevuti.

Consentirà all'amante di salutarlo, toccandogli affettuosamente i genitali ed il volto, mentre con gli occhi guarda pudicamente verso terra... L'esperienza interiore di un eromenos sarebbe caratterizzata, possiamo immaginare, da un sentimento di orgogliosa autosufficienza.

Anche se venisse sollecitato in modo alquanto importuno, lui non ha bisogno di nulla oltre che di se stesso. Egli non desidera lasciarsi esplorare dalla curiosità dei bisogni altri, avendo egli stesso poca o nessuno curiosità verso gli altri. E' qualcosa di molto simile ad un dio, alla posa statuaria di un dio greco
. »

Nella scena tratta da un vaso ateniese del V sec. a.c. si raffigura una tipica scena di corteggiamento e seduzione pederastica. Qui non sembra trattarsi di un eromenos adolescente ma di un giovane più sviluppato, di aitante aspetto, palestrato e con in mano un anello che dovrebbe essere uno strumento di ginnastica, coi lunghi capelli sciolti e una lunga collana sul petto.

Un uomo barbuto con capelli più corti, anch'esso nudo, come si trovassero appunto in una palestra a fare esercizi, gli fa il classico gesto di "su-e-giù", cioè piega le ginocchia per carezzargli i testicoli e contemporaneamente con l'altra mano gli afferra con gesto autorevole il mento per costringerlo a guadarlo negli occhi.

Se l'eromenos non è un ragazzino però l'erastes non è molto giovane, anzi dà l'idea, per la differenza di età, di poter essergli padre, e qui sta in effetti l'eccitazione del rapporto.

L'erastes sembra giocare col giovane dall'alto della sua autorità stuzzicandone i genitali. Il giovane dal suo canto subisce quell'autorità che gli piaccia o meno, con l'obbligo del rispetto dell'età da un lato e del contegno dall'altro.

L'eromenos pertanto non può rifiutare l'approccio ma non può nemmeno lasciarsi andare troppo alla provocazione perchè sarebbe poco contegnoso. Insomma non deve disgustarlo ma nemmeno piacergli troppo, deve essere grato dell'attenzione senza eccitarsi troppo, questo richiede il bon ton.

Secondo il grecista Karl Otfried Müller, la pederastia sarebbe stata introdotta dalle tribù guerriere che conquistarono la Grecia intorno al 1200 a.c., cioè dai Dori, che si sono poi velocemente stabiliti nel Peloponneso, oltre che nelle isole di Creta, Santorini e Rodi, cacciandone gli Ioni che vi abitavano.

Ci sembra un'ipotesi molto probabile, essendo Omero un poeta ionico infatti poco compare nelle sue opere questa pratica dorica. Aristotele però dice che fu il re Minosse a stabilire la pederastia come controllo delle nascite per la comunità dell'isola.

APOLLO, GIACINTO E CLIPARISSO

LA PEDERASTIA ROMANA

Di tutte le opere greche, e pure romane, il cui tema principale fosse l'amore omosessuale, pochissimo è sopravvissuto; perchè il cristianesimo, che molto si adoperò per distruggere le antiche opere di filosofia, di storia e di letteratura, con molta più diligenza si adoperò per cancellare delle opere che, già scandalose in quanto parlavano di sesso, erano addirittura diaboliche se trattavano di omosessualità.
Comunque sappiamo che nel periodo repubblicano, prima della conquista della Grecia i rapporti omosessuali erano osteggiati e giudicati riprovevoli. La pederastia era chiamata "il vizio dei Greci" Mentre però nella mentalità greca il giovinetto non contava solo per le prestazioni fisiche ma anche per la raffinatezza, l'audacia e le virtù, a Roma si badava alla bellezza e alle grosse dimensioni del membro, anche se nelle statue, a imitazione di quelle greche, il pene veniva raffigurato sempre molto piccolo, perchè essendo simbolo dell'istintualità prorompente, non doveva prevalere per guastare l'armonia della persona.

Con la conquista della Grecia le cose erano cambiate e i cittadini romani praticavano largamente l'omosessualità ma solamente con gli schiavi e con i liberti. L'unico modo corretto per un maschio romano di cercare gratificazione sessuale era quello di inserire il suo membro nel/nella partner, senza mai lasciarsi penetrare.

Un uomo romano nato libero poteva avere esperienze sessuali con entrambi i tipi di partners, ma solo con schiavi, prostitute e prostituti. Era invece immorale avere una relazione con la moglie di un altro uomo nato libero, con una ragazza in età da marito o con un ragazzo minorenne di buona famiglia, o con lo stesso cittadino libero adulto. 

Secondo il filosofo Jeremy Bentham ciò che i greci condannavano non era la relazione omosessuale, ma semmai la mancanza di moderazione che poteva esservi, ma pure in relazione alle donne:

"Dovevano vergognarsi di quello che era considerato eccessivo e pertanto un'espressione formale di debolezza, vergogna causata da una consuetudine che tende a distrarre gli uomini da occupazioni ben più preziose e importanti, dovevano vergognarsi dei loro eccessi e della loro debolezza con le donne".

A Roma il problema riguardava solo in parte il principio della continenza molto caro alla vecchia repubblica, il problema maggiore era in effetti il proseguimento di rapporti omosessuali in età adulta, e soprattutto che l'eromenos giovinetto potesse diventare il kinaidos, adulto, cioè il partner passivo/penetrato.

Teniamo conto che i Romani avevano un'alta concezione di sè, loro erano i dominatori del mondo, e i maschi erano i più grandi guerrieri della terra, si diceva che in battaglia un legionario romano valesse per 10 combattenti barbari.

Insomma il romano era e doveva essere sempre vincente, e un vincente doveva sempre dominare la situazione, mai essere dominato... o penetrato. Si dice però che nella pratica sessuale la modalità preferita fosse quella intercrurale. Per preservare la sua dignità e soprattutto l'onore, l'eromenos pertanto limitava all'amante la concessione della penetrazione tra le cosce chiuse e da dietro.
La penetrazione anale veniva vista dai romani come disonorevole o almeno vergognosa, ma solo per il partner che sceglie di assumere il ruolo di penetrato. Il romano poteva penetrare ma mai essere penetrato, per cui la penetrazione anale o orale sembra fosse riservata per le prostitute o gli schiavi.
Era altrettanto disonorevole dedicarsi al sesso orale, ma non solo rispetto ai maschi, ma pure rispetto alle donne. Si diceva di colui che praticava il cunilinguo o la fellatio avesse l'alito puzzolente.
Ma c'era un altro intoppo, il ragazzo non doveva innamorarsi perdutamente dell'erastes, perchè divenuto adulto doveva andare con le donne, sposarsi e fare figli. Se si innamorava di un uomo invece era kinaidos cioè gay, e i gay a Roma andavano bene come prostituti, cioè da schiavi, ma non come cittadini romani.
Dunque l'eromenos non era tenuto a provare un forte desiderio così "poco virile" nei confronti dell'erastes, ma doveva essere più che altro una forma di omaggio e riconoscenza verso il suo mecenate e mentore.

L'erastes, dal suo canto, non doveva dar prova di si tanto poco autocontrollo da innamorarsi tanto da essere geloso o soffrire visibilmente. Tanta debolezza, se era appena perdonabile in un giovinetto, sarebbe stata molto disdicevole per l'onore di un adulto.

Di ciò non tiene conto Tibullo, che si scaglia contro il suo amante efebo e contro chi glielo ha rubato coi regali, maledicendo mezzo mondo, con poco self control ma con grande poesia:

ERASTES ED EROMENOS

IL TRADIMENTO DI MARATO

Se volevi tradire il mio amore infelice,
perché mai invocando gli dei giuravi,
per poi ingannarli di nascosto? Infame!
anche se sul momento si può celare lo spergiuro,
alla fine il castigo arriva con passo felpato.
Fategli grazia, celesti: per una volta è giusto
che impunemente alla beltà sia lecito
offendere il vostro volere.

Per lucro il contadino aggioga i buoi
a un agevole aratro e affretta
il lavoro opprimente della terra;
per lucro attraverso le onde navi malsicure
in balia dei venti da stelle fisse si fanno guidare;
e sedotto dai doni è il mio ragazzo.

Ma un dio quei doni li converta in cenere e in acqua che scorre.
Tra breve me ne pagherà la pena:
la polvere gli toglierà bellezza,
al vento si scompiglierà la chioma,
al sole si bruceranno faccia e capelli,
un viaggio interminabile gli logorerà i piedi troppo teneri.

Quante volte io l'ho ammonito:
'Non contaminare con l'oro la bellezza:
nell'oro si celano spesso molti mali.
Con chi, preso dalle ricchezze,
ha tradito l'amore Venere diventa ispida e ostile.

Marchiami prima col fuoco la fronte,
feriscimi di spada, solcami la schiena a colpi di frusta;
se ti accingi a peccare, non illuderti di rimanere nascosto:
v'è un dio che impedisce agli inganni di restare celati.
Un dio che permette allo schiavo, per legge tenuto al silenzio,
di parlare liberamente nell'ebbrezza del vino;

un dio che fa parlare chi è in preda al sonno
e suo malgrado gli fa dire fatti che avrebbe voluto celare'.
Questo gli dicevo: ora mi vergogno di aver parlato fra le lacrime,
mi vergogno d'essergli caduto ai giovani piedi.

Allora mi giuravi che mai, mai avresti venduto la tua fedeltà
per gemme o somme ingenti di denaro,
nemmeno se in compenso t'avessero offerto
le terre di Campania o l'agro Falerno, prediletto da Bacco.
Con quelle parole m'avresti strappato di mente
che in cielo splendono le stelle,
che vivide sono le vie del fulmine.

Anzi piangevi; ed io, incapace d'inganni,
nella mia credulità, di continuo
ti tergevo le guance umide di pianto.
Che mai farei, se anche tu non ti fossi
innamorato di una fanciulla?
Mi auguro che, sul tuo esempio, sia frivola anche lei.

Quante volte, perché nessuno conoscesse i vostri segreti,
portandoti il lume, nel buio della notte
ti sono stato io stesso compagno!
Grazie a me, quando piú non lo speravi,
quante volte è venuta lei da te,
nascondendosi, col capo velato,
dietro i battenti della porta!

Allora, sventurato, mi sono perduto,
fidando ciecamente d'essere riamato:
davanti ai tuoi lacci, potevo almeno usare cautela maggiore.
Invece, con la mente ottenebrata, cantavo le sue lodi,
e per me, per le Pièridi ora provo vergogna.
Come vorrei che Vulcano bruciasse nell'impeto della fiamma
quei canti e la corrente di un fiume li cancellasse.

Tu, che pensi di vendere la tua bellezza
e di ricavarne a piene mani un gran prezzo, sta' lontano di qui.
E di te invece, che con doni hai osato corrompere il ragazzo,
rida senza rischi tua moglie tradendoti continuamente,
e dopo aver sfiancato un giovane in amplessi furtivi,
giaccia spossata con te, ponendo tra voi la veste.

Sempre ci siano nel tuo letto impronte di persone estranee
e resti sempre la tua casa spalancata alle voglie altrui;
né si possa mai stabilire se tua sorella in un delirio di lussuria
beva piú coppe o sfinisca piú maschi.
Si sa come spesso fra i brindisi prolunghi i suoi banchetti
finché il cocchio di Lucifero levandosi non riconduce il giorno.

Nessun'altra meglio di lei saprebbe trascorrere le sue notti
o variare in mille modi gli amplessi.
L'ha imparato tua moglie, e tu, balordo come pochi,
neppure te ne accorgi, quando con arte inconsueta eccita il tuo corpo.
Credi forse che per te si acconci la chioma,
che per te con pettine fitto ravvii i suoi capelli sottili?

Forse è il tuo volto che la induce a cingere d'oro le braccia,
a uscire avvolta in abiti di Tiro?
Non è certo per te, ma per un giovane che vuole apparire graziosa,
un giovane per il quale manderebbe all'inferno il patrimonio e la tua casa.
E non lo fa per vizio: è il tuo corpo sformato dalla gotta,
è l'amplesso di un vecchio che quella giovane raffinata rifugge.

Eppure è con lui che il mio ragazzo s'è steso:
di congiungersi con belve feroci, di questo posso crederlo capace.
A un altro hai osato vendere carezze, ch'erano mie,
ad altri offrire, insensato, i baci ch'erano miei.
E allora piangerai, quando un altro giovinetto
mi terrà avvinto e regnerà superbo su un regno ch'era tuo un tempo.

Gioia saranno allora per me le tue pene,
e appesa in onore dei meriti di Venere
una palma d'oro rammenterà la mia ventura: '
Questa palma Tibullo, liberato da un amore bugiardo,
ti dedica, pregandoti, o dea, di gradirla'.

(Tibullo)

Ma pure Marziale si scandalizza e fa ironia, perchè è vero che un romano doveva essere solo attivo, ma nella realtà esistevano anche tra i cives romani gli appassionati del ruolo passivo, si faceva ma non si diceva:

« Se al tuo schiavetto fa male l'uccello; mentre tu, Nevolo, hai il culo dolorante
Non è necessario essere un mago per indovinare quel che è accaduto. »
(Marziale - Epigrammi)


Il cursum honorum sessuale

I romani davano grande valore alla continenza "continentia", tutto poteva essere praticato ed esperito ma senza esagerazione.

L'esaltazione, l'esasperazione, l'infatuazione e tutto ciò che poteva alterare l'obiettivo discriminare della mente, cioè la razionalità, era guardato piuttosto male.

Pertanto la mania di avere molte donne o molti efebi, come lo star troppo a pregare gli Dei, o mangiare smodatamente, o seguire troppo la moda nelle vesti rendendole troppo preziose, come il supplicar troppo ai piedi di una donna, o dimenticare i propri doveri per lei, era un comportamento indegno per un vero romano.

Quindi un romano poteva avere un'amante o più amanti ma senza far soffrire la moglie, e cercando se possibile di tenerla all'oscuro, poteva pertanto avere l'efebo del cuore ma doveva trattare con generosità e rispetto la sua sposa.

Un evidente esempio di ciò fu l'imperatore Adriano che viaggiò sempre coi suoi amanti, in particolare Antinoo, ponendo però ufficialmente in evidenza sua moglie Vibia l'imperatrice. Lei era sempre al suo fianco e veniva immortalata insieme a lui si che il popolo la adorava.

Dunque tra i romani, al contrario dei Greci, non era d'obbligo avere l'amate maschio adolescente. Si poteva averlo o meno, l'importante era però dimostrare di fare sesso con qualcuno e sempre in modo attivo. Che avesse rapporti con efebi o con donne, il romano doveva essere colui che penetrava e che mai era penetrato.

L' impudicitia maschile peraltro esisteva, ed era molto deprecata, era la voglia di essere penetrati sessualmente. Ballare era espressione, di impudicitia, perchè danzavano solo la prostituta e l'effeminato. Lucio Anneo Seneca il giovane (il tutore di Nerone) decretò che "l'impudicitia era un crimine per colui che era nato libero, una necessità in uno schiavo, e un dovere per il liberto". Quest'ultimo infatti, se voleva mantenere la protezione del suo ex padrone, doveva fornirgli ancora quel piacere che gli aveva fornito da schiavo, stavolta per pura riconoscenza.

In quanto agli imperatori, la maggior parte di loro non disdegnava i fanciulli, a parte Cesare che si rivolgeva alle donne e agli uomini adulti.



CESARE

Avere partner coetanei a Roma era assolutamente riprovevole, perchè significava poter essere anche penetrati. Per un romano era uno scandalo. Restò memorabile per questo Giulio Cesare che era decisamente bisessuale ma che non gradiva gli efebi, bensì preferiva amoreggiare coi suoi generali.

Nelle sue avventure sessuali non si escludono neppure i soldati, visto che Cesare stesso dichiara che questi si profumavano ma che nonostante ciò combattessero bene.

I soldati profumati fanno pensare che nell'accampamento ci fossero parecchi amori omosessuali che Cesare non riprovava usandone sovente egli stesso. Ciononostante Cesare amava molto le donne, anzi era un libertino, e aveva pure l'amante fissa, la famosa Servilia cui regalava gioielli da capogiro.

Amico e sostenitore di Gneo Pompeo Magno, Gaio Giulio Cesare, Marco Antonio e Cicerone, Gaio Scribonio Curione fu famoso per la sua arte oratoria, ma pure per aver avuto molti amanti maschi. Con Cicerone ebbe una ricca corrispondenza che in parte ci è pervenuta e fu proprio Cicerone, a cui forse l'amico aveva fatto confidenze, a insultare Marco Antonio per essere stato in gioventù "la sgualdrina" di Gaio Scribonio Curione e di aver "stabilito con lui un vero matrimonio."

Marco Antonio, infine, insinuò, nel tentativo di diffamare il suo avversario durante la guerra civile, che Cesare avesse avuto un rapporto anche con il nipote Ottaviano, e che la causa della sua adozione fosse stata proprio la loro relazione amorosa. Viene da pensare che anche tra Cesare e Marco Antonio ci fosse stato del tenero. C'era del resto una grande confusione perchè alla morte del suo amante e marito Gaio Scribonio Curione, Marco Antonio sposò la sua vedova che tra l'altro, a quel che si diceva, era grandemente innamorata di lui. Insomma le relazioni omosessuali non scandalizzavano nemmeno le donne.
La cosa curiosa è che il comportamento di Cesare era giudicato molto sconveniente, mentre sarebbe stato ineccepibile se avesse rivolto le sue attenzioni sessuali ai ragazzini. Ci si passava sopra perchè era un grande generale e conquistatore, ma i senatori torcevano il naso a guardarlo, accusandolo di essere "una donna".

La bisessualità di Cesare scandalizzò molto Cicerone che lo definì "il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti"; Plutarco narra che a causa della relazione avuta col re di Bitinia, in cui lui era il giovinetto e il re l'adulto, non vi fu nemico o personaggio pubblico che non lo deridesse in merito. Cesare venne definito "rivale della regina di Bitinia", "stalla di Nicomede", "bordello di Bitinia".

Marco Campurnio Bibulo, collega di Cesare nel consolato del 59, temendo l'ambizione di Cesare che l'avrebbe sicuramente scalzato, come in effetti fece, lo accusò pesantemente lagnandosene in senato: "Questa regina, una volta aveva voluto un re, ora vuole un regno".

I legionari, il giorno del trionfo di Cesare sui Galli, seguendo il costume che consentiva ai soldati di indirizzare il giorno del trionfo versi piccanti e scurrili al proprio comandante, intonarono un canto che suonava più o meno così:
"Cesare ha sottomesso le Gallie, ma Nicomede ha messo sotto lui. Oggi trionfa Cesare che le Gallie ha sottomesso, non trionfa Nicomede che ha messo sotto lui."

In Senato, mentre Cesare per perorare la causa di Nisa, figlia di Nicomede, ricordava i benefici ricevuti da quel re, Cicerone lo interruppe col suo solito humor, anche se un po' acido: “Lascia perdere questi argomenti, ti prego, poiché nessuno ignora che cosa egli ha dato a te e ciò che tu hai dato a lui”.

Cesare aveva una grande intelligenza e autostima per cui non se la prese mai per certe accuse, consentendo perfino ai suoi soldati di irriderlo benevolmente per questa sua debolezza, d'altronde sapeva benissimo del grande attaccamento che avevano per lui le sue truppe. Non si offese mai per certe accuse, che lo facevano ridere perchè ci riconosceva la debolezza e la presunzione maschilista dei suoi detrattori.

Cesare invece rispettava le donne, non ripudiò la prima moglie anche a costo della vita per questo rispetto, non portò in tribunale la moglie fedifraga limitandosi a ripudiarla, e non abbandonò mai Capurnia che pure non gli aveva dato figli neppure per i begli occhi di Cleopatra. Cesare che era bisessuale, fu un uomo estremamente virile.

Non la pensò così il giovine Catullo, il grande innamorato di Lesbia, ma pure innamorato di qualche efebo giovinetto, come il quattordicenne Giovenzio che oltre tutto non è nè schiavo nè liberto:

Carmen IIL

Se i tuoi occhi di miele, Giovenzio,
mi fosse lecito baciare,
migliaia di volte io li bacerei
e non potrei esserne mai sazio,
anche se più fitta di spighe mature
fosse la messe dei miei baci.


Catullo ebbe a sostenere che Cesare e il suo ufficiale Mamurra avessero avuto una relazione, definendoli per questo "invertiti", ma più tardi si scusò e Cesare dimostrò tutta la sua clementia, lasciandogli perfino frequentare la sua corte. Ma all'epoca ebbe parole di fuoco per Cesare;

Carmen LVII

Una bella coppia di canaglie fottute
quel finocchio di Mamurra e tu, Cesare.
Non è strano: macchiati delle stesse infamie,
a Formia o qui a Roma, se le portano
impresse e niente potrá cancellarle:
due gemelli infarciti di letteratura
sui vizi comuni allo stesso letto,
l'uno più avido dell'altro nel corrompere,
rivali e soci delle ragazzine.
Una bella coppia di canaglie fottute.


Cesare però, che era uomo di carattere e di spirito, una volta acquisito il potere, non solo non si vendicò su Catullo che lo aveva chiamato "invertito" ma lo accolse nella sua reggia, conscio del valore del poeta.


OTTAVIANO

Marco Antonio ebbe modo in seguito di accusare Ottaviano di essersi guadagnato la sua adozione da parte di Cesare attraverso favori sessuali, anche se occorre dire che Svetonio descrive l'accusa rivoltagli contro da Antonio come pura calunnia politica.

Cesare a quanto si sa non amava i giovinetti e soprattutto rispettava i parenti, nè Ottaviano avrebbe mai accettato un rapporto del genere, teso com'era, anche con la moglie, a fare la parte del maschio comandante.

Il discorso però cambia se era lui l'adulto dell'amplesso.

Dopo che Marco Favonio fu catturato e giustiziato a seguito della Battaglia di Filippi Ottaviano ne acquistò uno degli schiavi, un certo Sarmento, mentre tutte le altre proprietà del nemico sconfitto vennero mese in vendita: è stato affermato poi ch'egli divenne il catamite preferito del futuro imperatore
Quinto Dellio letterato romano e militare al fianco di Marco Antonio nella guerra contro i Parti, poco prima della battaglia di Azio (31) passò dalla parte di Ottaviano.

Confesserà poi che, mentre lui e gli altri dignitari venivano trattati come vino acido da Antonio, Ottaviano si stava gustando il catamite a Roma.



TIBERIO

Tiberio visse poco a Roma, preferendo la sua villa di Capri dove poteva godersi indisturbato i suoi vizi. Infatti prediligeva i ragazzini appena puberi raccolti tra i figli della comunità locale e li chiamava i suoi "pesciolini", spiandoli mentre nuotavano nudi in piscina. Si narra pure che l'anziano imperatore avesse addestrato dei fanciulli in tenerissima età, nella residenza di Villa Jovis, a scherzare tra le sue gambe mentre nuotava e a risvegliare i suoi sensi con baci e morsi.



TRAIANO

Cassio Dione:
".......Io naturalmente so che gli piacevano i ragazzi e che era dedito al bere, ma non esiste nessun fatto che possa indicare che abbia dato scandalo per questo: beveva infatti tutto il vino che gli piaceva senza ubriacarsi e nelle sue relazioni con i ragazzi non danneggiò mai nessuno di loro......".
Elio Sparziano narra che l'imperatore manteneva un piccolo harem di giovanetti che faceva sorvegliare da ben scelti pedagoghi. Si sospetta inoltre che Traiano non fosse bisessuale ma solo omosessuale.
Pertanto Plotina fu frustrata come studiosa, come donna, come moglie e pure come madre. Traiano non si separò mai da lei, in parte perchè la stimava, in parte perchè qualsiasi altra donna avrebbe accampato le sue esigenze, creandosi una vita propria e facendosi degli amanti.


ANTINOO

ADRIANO

Nella relazione d'amore tra Adriano e Antinoo, il giovinetto non era l'unico amante dell'imperatore ma di certo il suo preferito, e seguiva ovunque il suo imperatore insieme alla moglie Vibia da cui Adriano non si scostò mai. Ma quando Antinoo morì Adriano fondò un culto su di lui che si diffuse per tutto l'impero giungendo a intitolargli una città: Antinopoli



LA LEGGE SCANTINA

Lo storico Plutarco (45 - 125 d.c.) narra che il padre di Marcello, che all'epoca era edile, accusò il collega Scantinio Capitolino davanti al Senato di aver importunato suo figlio. Livio così narra l'accaduto:

« Non essendoci però alcun testimone delle parole fatte da esso (Scantinio Capitolino) al fanciullo, parve bene al senato di citare il fanciullo medesimo. Quando egli compare, i senatori, vedendone il rossore, le lagrime e la vergogna, unita ad una grandissima collera, senza cercar altre prove sentenziarono contro Capitolino, e lo condannarono in denari, dei quali Marcello fece fare una tavola di quelle usate dai cambiatori, e la consacrò agli dei.»
(Plutarco, Vita di Marcello.)

A questo evento ne conseguì la Lex Scantinia (149 a.c.), che prese nome dal reo Scantinio, condannava chi avesse rapporti omosessuali tra un adulto e un puer o praetextati (da praetexta, la toga bianca orlata di porpora che portavano i ragazzi che non avevano ancora raggiunto l'età della piena maturità sessuale (fino ai 15-17 anni).

Invece nel rapporto omosessuale tra cittadini liberi adulti la legge puniva solo quello che tra i due assumeva il ruolo passivo, con una multa che poteva ammontare fino a 10.000 sesterzi. La Lex Scantinia, di cui non ci è pervenuto il testo ma di cui ci hanno riferito Cicerone, Ausonio, Svetonio, Giovenale, Tertulliano e Prudenzio, è un'importante testimonianza a dimostrazione del fatto che l'omosessualità veniva praticata in tutti gli ambienti sociali.

In questa legge, emessa al tempo di Gaio Giulio Cesare e quindi col suo consenso, lo stupro, definito come un forzare al rapporto sessuale un ragazzo o una donna, veniva punito con l'esecuzione capitale, una sanzione abbastanza rara nel diritto romano.

Secondo questa legge gli uomini che erano stati stuprati non perdevano lo status giuridico e sociale come quelli che concedevano volontariamente il proprio corpo (soprattutto attraverso il sesso anale e la fellatio); un giovane libero che si dedicava alla prostituzione maschile era sottoposto a infamia e pertanto escluso dalle protezioni concesse a tutti gli altri cittadini.

Viceversa uno schiavo o una schiava non avrebbero potuto essere violentati dai loro padroni in quanto di loro proprietà, ma se un estraneo osava violentarlo, il proprietario dello schiavo poteva perseguire il violentatore per danni alla proprietà.

TRE ERASTES CORTEGGIANO UN POSSIBILE EROMENOS

LE LEGGI SABINE

Ma c'è un particolare cui pochi hanno dato risalto, i romani erano pederasti ma non pedofili. Per capire ciò occorre risalire alla fusione del popolo romano con quello sabino ai tempi del famoso ratto.
Plutarco narra che nella guerra che ne conseguì al rapimento, le donne accorsero si con i figli per separare i contendenti, ma fecero i versi della guerra minacciando sia mariti che padri, mentre altre cercarono di rabbonire i padri mostrando i pargoli. Il popolo dei sabini rispettava le sue donne che erano molto fiere e indipendenti, tanto è vero che per accettare i romani posero delle condizioni.

I Romani dovettero infatti stabilire per contratto il trattamento delle donne: non dovranno mai lavorare per i loro mariti, salvo filare la lana; per la strada gli uomini dovranno cedere loro il passo; nulla di sconveniente sarà detto a loro o in loro presenza; nessun uomo potrà mostrarsi nudo davanti a loro; i loro figli avranno una veste speciale (praetexta) e un ciondolo d'oro (bulla aurea).

Le sabine chiesero pertanto la veste senatoriale, quella bianca con le bande rosse, la veste dell'inviolabilità per i bambini e pure la bulla che consacrava il bambino e la lunula che consacrava la bambina. I due cosiddetti amuleti consacrati nel tempio comprovavano agli adulti che i bambini erano stati consacrati ed erano quindi intoccabili, tanto che i romani fecero portare la bulla fino ai 16 anni ai maschi e la lunula fino al matrimonio alle femmine.

La veste praetexta, nonchè la bulla e la lunula erano baluardi di protezione insormontabili, per cui chiunque li violasse, o facendo loro del male, ma soprattutto facendoli oggetto di stupro, veniva condannato a morte.

Pertanto, anche se i romani praticarono la pederastia, furono l'unico popolo antico che non solo vietò la pedofilia, ma ne emanò le leggi che punivano il pedofilo con la morte. I romani consideravano lo stupro su un "ingenuus" come uno tra i peggiori crimini che potevano essere commessi, assieme col parricidio, la violenza su una ragazza ritenuta vergine e il furto all'interno di un tempio romano.



L'ABUSO DI POTERE

Gli storici romani narrano di ufficiali che abusavano del loro potere per costringere i propri sottoposti a compiere atti sessuali. Agli ufficiali più giovani si consigliava pertanto di rinforzare le proprie qualità maschili e non usare profumi, né tagliarsi i peli alle narici e non radersi le ascelle, al contrario di Cesare che si profumava e si depilava interamente anche in guerra.

Narra Plutarco nella biografia di Gaio Mario, di un giovane soldato di nome Trebonio che aveva subito molestie sessuali per un certo periodo di tempo dal suo ufficiale superiore, tal Gaio Luscius. nipote di Gaio Mario. Una notte Trebonio venne convocato di nuovo alla tenda di Luscius. non poteva esimersi pur sapendo che avrebbe dovuto difendersi dalle insistenze dell'altro. Ma poichè stavolta le insistenze stavano trasformandosi in violenza sessuale, Trebonius, sfoderata la spada uccide Luscius.

Portato a processo, il ragazzo, che rischiava la condanna a morte per questo gravissimo reato, riuscì però a produrre testimoni per dimostrare che aveva ripetutamente dovuto respingere Luscius, e che "non aveva mai prostituito il suo corpo a nessuno, nonostante le profferte di regali costosi". E' evidente che i legionari poterono testimoniare liberamente perchè conoscevano il senso di profonda giustizia del generale Gaio Mario. Questi infatti, non solo liberò Trebonio dall'accusa di aver assassinato un suo parente, ma lo adornò di una corona sul campo una corona per il coraggio dimostrato.


COLONIA ULPIA TRAIANA RATIARIA (Bulgaria)

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La città di Ratiaria si erge su un alto terrazzamento con una superficie di 60 ettari, che si affaccia sul fiume Danubio, a circa 30-40 m.s.l del fiume, mentre da est e sud è circondata dal fiume Archaritsa.

Alcuni studiosi ritengono che Ratiaria sia stata fondata per la prima volta dalla tribù tracia dei Moesi nel IV sec. a.c, vicino a una miniera d'oro, ma sicuramente con altro nome, peraltro ignoto.  Nel 29 a.c., i Moesi furono sconfitti sotto Augusto dal generale romano Marco Licinio Crasso (60 - ... a.c.) che estese la conquista romana all'attuale Bulgaria nord-occidentale.

Tutta la Tracia antica a sud del Danubio, cioè il nordest della Grecia, il sud della Bulgaria e la Turchia europea, vennero poi conquistate dall'impero romano nel 46 d.c. ad opera dell'Imperatore Claudio sotto il comando di un procurator Augusti di rango consolare. Il nome “Ratiaria” vine interpretato come derivante da “ratis”, un tipo di Vascello.

POSIZIONE DELLA COLONIA
Dunque l'antica città di Colonia Ulpia Traiana Ratiaria (Ratsiaria), il più importante centro romano e bizantino del basso Danubio, nell'attuale Bulgaria nord-occidentale, nel distretto di Vidin, vicino al villaggio di Archar, fu fondata nel I sec. d.c. come campo militare attorno al quale si sviluppò un insediamento civile molto sviluppato.

Si estese infatti per un'area di circa 35 ettari, un grande accampamento militare che divenne la capitale di una provincia romana, e di tutto ciò che si trovava sulle colline che si affacciano sulla Curva del Danubio.

Durante il II - III sec. Ratiaria divenne una città prospera con popolazione romanizzata e governo autonomo, organizzata secondo il modello romano. La città crebbe anche come centro portuale, commercio di transito, centro artigianale, e centro agricolo. Fu un avamposto dell'area di frontiera dell'impero romano sul Basso Danubio, e oltre a tutto una città dell'Arsenal, cioè produttrice di armi.



LE CITAZIONI

Ratziaria venne citata:
-  dal geografo greco-egiziano Claudio Tolomeo ( 90-168 d.c.) che nella sua opera "Geografia" nel II secolo dc, la definisce come “Ratiaria Moesian” (Ptolem., III, 9, 3)
- nel III sec. come Ratiaria vine riferita alla XIII Legio Gemina che è lì ospitata,

- dalla Tabula Peutingeriana (la mappa di Peutinger che mostra cursus publicus, la rete stradale nell'impero romano, che copre l'Europa, il Nord Africa e parti dell'Asia) nel IV secolo d.c. , 
- nel cosiddetto Itinerario Antonino (Itinerarium Antonini Augusti, "L'itinerario dell'imperatore Antonino"), un registro romano antico di stazioni stradali,
- il nome Colonia Ulpia Traiana Ratiaria è menzionato per la prima volta in un'iscrizione romana del 125 d.c. 
- Altre iscrizioni scoperte dagli archeologi bulgari e italiani che hanno scavato il sito negli anni '80 indicano che la città di Ratiaria aveva molti coloni residenti nella penisola italiana e aristocratici di origine orientale. Uno dei reperti è una rara iscrizione dedicata alla divinità romana Pales, patrona di pastori, greggi e bestiame.
- Il nome intero della città "Colonia Ulpia Traiana Ratiaria" lo ritroviamo su un'iscrizione del 125 d.c. (CIL, III, 14 499). 

Ratiaria divenne insomma un punto di partenza per l'espansione militare in Dacia sotto Traiano (98-117 d.c.). Dopo la II Guerra Dacica (106 d.c.) l'imperatore fondò 5 colonie, tra le quali Ratiaria. Le colonie ebbero larga autonomia, un po' sul modello di Roma. Nel II - III sec. Ratiaria divenne una città importante e ricca di beni e di cultura, grazie anche al porto che vi costruirono i romani.



GLI SCAVI

I resti del sito di Ratiaria si trovano nella località di Kaleto, alla periferia settentrionale del villaggio di Archar, distretto di Vidin, vicino al Danubio. Nel 1860 Ratiaria fu visitata in tale locazione dal geografo e archeologo austro-ungarico Felix Kanitz che iniziò a scrivere su di essa. 

Egli comprese che Ratiaria ebbe (ed ha ancora oggi, se valorizzata) un valore culturale non inferiore a città come Serdica (Sofia moderna), Philipopolis (Plovdiv), Nicopolis ad Istrum (vicino al villaggio di Nikyup, distretto di Veliko Tarnovo), Ulpia Oescus (,Comune di Gulyantsi, distretto di Pleven, alla foce del fiume Iskar), Viminacium e Singidunum - nell'attuale Serbia.

Gli archeologi hanno trovato più di 50 diversi tipi di gioielli in oro e argento nel 1986 (Giorgetti, 1988), più di qualsiasi altro sito archeologico in Bulgaria (Velkov, 1965, 7, Velkov, 1980, 65). Sui gioielli venne organizzata la mostra "Oro di Ratiaria" di grande interesse pubblico (Dimitrova e Milcheva, 1987). 

Nel 1890 fu esplorato dall'archeologo ceco-bulgaro Vaclav Dobrusky e nel 1900 dall'archeologo bulgaro Boris Dyakovich. Il primo documento sulla storia di Ratiaria fu pubblicato nel 1911 da Nikifor Nedelev, e nella prima metà del XX secolo la sua parola fu costruita dagli archeologi Ivan Velkov, Georti Katsarov e Bogdan Filov.

Si sostiene che negli anni '90 la città romana fu rasa al suolo dalla mafia locale con la presunta partecipazione di alcuni funzionari governativi, mentre i clan Rom locali sono stati prelevati a mano nel sito archeologico per decenni. Il danno fatto a una delle più grandi città romane fuori dall'Italia non può essere calcolato. Gli scavi archeologici di Ratiaria sono stati ripresi nel 2011 dall'archeologa Krasimira Luka dell'Università di Sofia "St. Kliment Ohridski", e nel 2013 da Assoc. Prof. Dr. Zdravko Dimitrov dell'Istituto nazionale e Museo di archeologia dell'Accademia delle scienze bulgara.

L'anfiteatro della città è stato localizzato durante gli scavi di salvataggio tra il 2009-2011, quando è stata rivelata parte della strada principale (decumdnus maximus), la cui posizione indica che l'area occupata da Ratiaria era due volte più grande di quanto ipotizzato fino ad allora. Ci sono prove che in Ratiaria avesse operato una miniera d'oro e c'era una scuola orafa.


Gli scavi archologici veri e propri però, mirati alla ricerca di Ratiaria iniziarono nel 1958 sotto la guida di Velizar Velkov e Boris Gerov, e continuarono nel 1991. Negli anni '60, emersero la porta orientale della città, alcune parti del muro orientale, le imponenti strutture della residenza del Governatore della provincia di Dacia Ripensis. L'antico porto è stato individuato vicino alla località di Kaleto, i.e. a nord della fortezza cittadina. (Brizzi, 1984, p. 81).

Negli anni '80, Ratiaria fu scavata da una spedizione archeologica congiunta italo-bulgara guidata dal Prof. Dario Giorgetti e dalla Prof.ssa Maria Bollini dell'Università di Bologna, che portò alla pubblicazione di un libro in quattro volumi Ratiariensia . Sempre negli anni '80, l' archeologo bulgaro Georgi Kuzmanov ha scavato la residenza del governatore della provincia romana di Dacia Ripensis . Sfortunatamente, il crollo del regime comunista in Bulgaria ha influenzato negativamente la ricerca e la sicurezza della città romana.

Le condizioni critiche del sito archeologico di Ratiaria  derivano dalla mancanza di qualsiasi azione di conservazione degli scavi archeologici nel 1991. Una politica governativa inadeguata che non valuta quanto lo sviluppo del sito possa trasformarsi in turismo e prosperità economica.

Comunque nel 1991 venne scavata solo una parte molto piccola di Ratiaria, le strutture monumentali non sono ancora state esplorate. Ad esempio, una fotografia aerea mostra che in Ratiaria erano le più grandi strutture termali (termi di tipo imperiale) nei Balcani (Giorgetti, 1987, 43-44, tav. B), ma mai indagate.

Nel corso dei nuovi scavi archeologici effettuati tra il 2001 e il 2009, emersero due distinte località archeologiche lungo il Danubio: una necropoli romana in località "La Ruptură" e un vasto edificio con una lunghezza di 32 m e un colonnato in località "Castravita".

Vennero infatti rinvenuti ricchi sarcofagi decorati, statue, sculture, varie lapidi decorate e frammenti architettonici e lussuose case private con mosaici colorati. Recenti scoperte (decorazioni architettoniche monumentali) indicano che l'architettura pubblica di Ratiaria era più monumentale e più abbondante di quella di Oescus.

Nel 2010 nei dintorni della città è stata trovata un'iscrizione di Aurelio Prisco:
AURELIUS PRISCUS - DUX DACIAE RIPENSIS
(governatore della Dacia costiera) (Luka, 2011a, p.533, 2br). Questo è il secondo dux della provincia dei tre conosciuti fino ad ora, registrato nell'iscrizione.

Tra le strutture tardoantiche più interessanti vi sono un edificio con attrezzi agricoli, lampade di argilla, oggetti per la casa e monete bizantine della metà del VI secolo dc , un edificio con un pavimento a mosaico che probabilmente era una basilica paleocristiana e tubi dall'acquedotto principale di Ratiaria. 

Sono state trovate ossa di un totale di 18 specie di animali selvatici e domestici . Secondo il paleo-ornitologo bulgaro Prof. Zlatozar Boev, i più interessanti di questi sono il fagiano comune ( Phasianus colchicus colchicus ) e l'ormai quasi estinto in Bulgaria grifone ( Gyps fulvus ).


AFFIORANO I RESTI SOTTO POCHI CENTIMETRI DI TERRA

I COLLEGAMENTI

Due antiche arterie principali attraversavano Ratiaria nell'antichità: la Via Danubiana e la via per l'Adriatico, che univano Roma alla frontiera del Danubio. Nonostante la sua importanza i suoi resti giacciono in condizioni pessime.

La strada romana Lissus-Naissus-Ratiaria traversava i Balcani centrali collegando la costa adriatica e il bacino del Danubio, e poichè già si disponeva di una rotta marittima tra il porto di Brundisium e Lissus, era il tragitto più breve tra Roma e il limes danubiano. 

Infatti attraverso la Via Appia che portava da Roma a Brindisi, si facevano salpare le navi verso la penisola balcanica, dove una rotta via terra da Lissus proseguiva lungo la valle di Drim e attraverso gli altipiani dell'Albania e della Serbia i romani giungevano fino al Niš Basin, con l'antica città di Naissus al centro.

Da Naissus, la strada correva lungo la valle del fiume Timok, poi attraverso Kadibogaz, un passaggio su Stara Planina nella catena montuosa dei Balcani, per giungere a Ratiaria, la colonia romana (l'attuale Archar su il fiume Danubio, Bulgaria).

Nel periodo di espansione e consolidamento dell'Impero sul confine con il Danubio, la strada fu utilizzata prevalentemente per scopi militari, per il trasporto di truppe e approvvigionamenti al limo danubiano. Con l'inizio delle attività minerarie in Alta Mesia, questa importante strada cominciò ad essere utilizzata per esportare minerali e quindi assumeva importanza economica, cioè commerciale.




LA STORIA

29 a.c. - Ratiaria venne dunque fondata all'inizio del I sec., come campo militare della Legio IV Flavia e della VII Legio Claudia. Secondo Cassio Dione (Cass.Dio, LI 23, 2-27) nel 29 a.c. Marco Licinio Crasso giunto in Moesia, catturò le fortezze più poderose, da cui si suppone si sia sviluppata la futura Ratiaria.

46 d.c. - Tutta la Tracia antica a sud del Danubio (nordest della Grecia, il sud della Bulgaria e la Turchia europea) fu conquistata dall'impero romano nel 46 d.c. ad opera di Claudio sotto il comando un procurator Augusti di rango consolare.

69-79 - L' arsenale romano di Ratiaria venne fondato durante il regno dell'imperatore Vespasiano (69-79) per esigenze militari e pure commerciali e fu il quartier generale di Classis Moesica, la flotta del Danubio inferiore dell'impero romano fondata tra il 20 a.c. e il 10 d.c., che controllava il Danubio dalle porte di ferro al Mar Nero del nord-ovest come pure la Crimea (Taurica). In diversi momenti, ebbe sede a Noviodunum (vicino a Isaccea, l'odierna Romania ).


87 - Nell'87 d.c., l'imperatore Domiziano (81-96 d.c.) organizzò la regione della Mesia nelle province romane della Mesia Superiore (nell'odierno nord-ovest Bulgaria e Serbia orientale) e la Mesia inferiore (nell'odierna Bulgaria centro-settentrionale e nord-orientale e nella parte rumena della regione di Dobrudzha). Tra il II e il III sec. la città divenne un centro commerciale con il più grande emporium del distretto

Le tombe scavate e  numerosi reperti scoperti, come lastre, statue (tatua di marmo di Ercole a riposo) e sarcofagi, fanno arguire che Ratiaria fosse centro di arti, agricoltura e artigianato, e che molte delle proprietà fondiarie intorno alla città fossero coltivate con lavori forzati (cioè schiavi).
101 - 106 - La legione romana Legio IV Flavia Felix ("La quarta legione di Flavio Fortunato") era basata a Ratiaria almeno fino alla conquista romana della Dacia con Ratiaria, Sexaginta Prista (l'odierna città bulgara di Ruse) e con basi secondarie a Novae (vicino a Bulgaria Svishtov) e Ulpia Oescus (vicino a Bulgaria Gigen) e Tomis (l'odierna Constanta in Romania).
107 - Dopo la vittoria romana dei Daci (tribù Traci a nord del Danubio) nel 107 d.c., Ratiaria divenne una colonia nella Mesia Superiore sotto il nome di Colonia Ulpia Traiana Ratiaria, prendendo nome dall'l'imperatore Traiano (98- 117 d.c.).

II - III sec. d.c. - Nel II- III secolo d.c., divenne il più importante centro urbano romano antico non solo nella provincia della Mesia Superiore ma anche in tutta la parte settentrionale della penisola balcanica.
271 -   Nel 271 d.c., l'imperatore Aureliano (270-275 d.c.) trasformò la provincia della Mesia Superiore nella provincia della Dacia Aureliana con capitale a Serdica (l'odierna Sofia ), dopo aver lasciato la Dacia Traiana oltre il Danubio. Molte delle statue in bronzo e pietra provenienti dalla Ratiaria riproducevano gli originali classici di Poliklet, Preksitel o Lizip.
272 - Dopo il 272, Ratiaria divenne la città principale della provincia costiera della Dacia. I governatori militari e amministrativi della provincia si stabilirono a Ratiaria.

283 - Intorno al 283 d.c., la Dacia Aureliana fu divisa in due province, Dacia Mediterranea , con la sua capitale a Serdica , e Dacia Ripensis ("Dacia dalle rive del Danubio") con  capitale a Ratiaria (Colonia Ulpia Ratiaria).

IV sec. - Nel IV sec. d.c. Ratiaria divenne un centro episcopale e i nomi dei vescovi che la dominarono sono noti da fonti scritte. Tra questi ci fu Sylvester, che fu coinvolto nel famoso consiglio Serdekiyski nel 343 d.c., e un altro fu Palladius che fu un famoso teorico e difensore dell'Arianismo (Dinchev, 2002, p.15).

IV - V sec. - Per il periodo compreso tra il IV e il V secolo, Ratiaria è nota come uno dei maggiori produttori di armi in base alle descrizioni delle note di viaggio. Qui c'era una delle seste armerie imperiali.
540 - Nella seconda metà del V sec. Ratiaria era ancora un grande centro molto popolato, e sotto Anastasius I (491-518) la città venne restaurata divenendo Anastasiana Ratiaria, finchè nel 540 venne saccheggiato dagli Unni. Come capitale della provincia tardoromana di Dacia Ripensis, Ratiaria serviva come sede del governatore militare e base della Legio XIII Gemina (la tredicesima legione gemella) ed era la patria di molti patrizi romani

586 - Secondo lo storico bizantino Teofilatto Simocatta del VII secolo, furono gli Avari a distruggerla nel 586 cancellandola totalmente.


LA SPOLIAZIONE
Ratiaria divenne uno degli obiettivi principali dell'intervento di cacciatori di tesori e il traffico di antichità negli ultimi 20 anni, invece di essere scavato dagli archeologi e seriamente preservato dal paese, e rimane ancora il sito archeologico più danneggiato in Europa. 

La storia della distruzione da parte dei cacciatori di tesori di Ratiaria è avvenuta a seguito dei 18 anni di assenza di studi archeologici o storici della Ratiaria approvati dal governo.

La piaga della caccia al tesoro di Ratiaria (e in Bulgaria, per quella materia) è stata documentata in un documentario del 2009 di Dateline sulla TV australiana SBS intitolata "Il saccheggio del passato".

Nell'agosto 2011 è stata fondata un'associazione senza scopo di lucro "Ratiaria" nel villaggio di Archar, il cui obiettivo principale è proteggere e promuovere l'antica città di Colonia Ulpia Traiana Ratiaria. Speriamo che le nuove ricerche e gli sforzi della nuova generazione di archeologi in Bulgaria garantiranno che "il caso Ratiaria" non accadrà più.

APOTEOSI ROMANA

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APETEOSI DI GERMANICO (FIG.1)

L'immagine della fig. 1 rappresenta l'apoteosi di Augusto, illustrata in tre fasce. Nella fascia inferiore si trovano barbari prigionieri. Al centro i personaggi all'epoca viventi della dinastia giulio-claudia: Tiberio al centro, con scettro e lituo, a fianco la madre Livia e la moglie Giulia Livia. Di fronte a lui vi è Nerone Cesare, figlio maggiore di Germanico, e alle sue spalle vi è Claudia Livilla, con il giovanissimo Caligola in uniforme militare.
Ai piedi del trono imperiale un barbaro seduto afflitto dalla sconfitta. Alle spalle di Tiberio e Livia ci sono Druso Cesare secondogenito di Germanico e la madre Agrippina maggiore che guardano l'avo Augusto.

In alto vi sono gli Dei, cioè Augusto al centro vestito da pontifex maximus, con Iulo, figlio di Enea e nipote di Venere quale capostipite della gens Giulia; alle sue spalle Druso minore, figlio di Tiberio, e  in groppa a Pegaso tirato da un Amorino, vi è Germanico, figlio adottivo ed erede di Tiberio morto in Siria nel 19.



APOTHEOSIS

L'apoteosi, o deificatio, era non solo l'esaltazione dei pregi di un individuo nell'espletazione di un suo compito o nell'intera vita, ma una vera e propria remunerazione a questi pregi e meriti che provocava  l'ascesa di un mortale fra gli Dei.

Per i Romani in particolare, significò l' elevazione di un imperatore defunto agli onori divini. Bisogna distinguere, perchè l'imperatore divinizzato non era un  Dio a tutti gli effetti, solo Augusto fece eccezione e divenne una divinità con i suoi templi e i suoi sacerdoti, ma Augusto fu amatissimo dai contemporanei e dai posteri, tanto amato che nemmeno il cristianesimo osò demonizzarlo come fece con quasi tutti i principali personaggi romani. Anzi lo cristianizzò inventando una sua visione cristiana di stampo miracolistico.

Questa pratica, che era comune in occasione della morte di quasi tutti gli imperatori, sembra che fosse originata dalla credenza dei romani che le anime o Mani dei loro antenati diventassero divinità, si che tutti i romani adoravano i Mani dei loro antenati.  Pertanto era logico che venissero pubblicamente conferiti gli onori divini ad un imperatore defunto, che era considerato, quando addirittura dichiarato pubblicamente, il "Pater patriae", il padre della patria.

L'apoteosi aveva in realtà origini orientali, o almeno era da lungo tempo già usata in oriente, dove i re o addirittura i "Re dei re" erano adorati come divini si che il popolo si prostrava di fronte al monarca. I romani al contrario non si prostravano nè di fronte all'imperatore nè di fronte agli Dei, la dignità del cives romanus era in tal senso adamantina, solo in epoca cristiana ci si piegò di fronte a imperatori e divinità avendo il cristianesimo attinto non alla religione romana occidentale ma da quella ebraica orientale, dove il singolo non contava di fronte al potere, fosse esso spirituale o temporale.

APOTEOSI DI GERMANICO (FIG.2)

CONSECRATIO

Quest' apoteosi dell' imperatore era solitamente chiamata Consecratio; e dell'imperatore oggetto dell' apoteosi si diceva "in deorum numerum referri", o che era stato consacrato "consecrari". Tale onore toccò per primo a Romolo, ammesso tra le divinità, ma dopo la sua morte, sotto il nome di Quirino (Plut., Rom. 27, 28; Liv., I, 16; Cic., de Rep., II, 10); ma nessun altro re di Roma ottenne lo stesso privilegio e nemmeno nel periodo repubblicano avvennero apoteosi, a parte quella di Giulio Cesare.

Giulio Cesare fu deificato dopo la sua morte per volere di Augusto che ne giustificò l'apoteosi attraverso le origini divine della gens Iulia a cui lui stesso apparteneva. Così vennero istituiti da Augusto giochi in onore del defunto divinizzato (Svet., Iul. Caes., 88); e altrettanto fu fatto per altri imperatori. L'apoteosi di un imperatore era anche un atto politico del successore dell'imperatore che appoggiava così l'operato del predecessore.

Così descrive la cerimonia  Erodiano (V, 2)

"È costume dei Romani deificare gli imperatori che muoiono lasciando successori; e chiamano questo rito apoteosi. In questa occasione si vedono per la città forme di lutto unite a celebrazioni e riti religiosi. 
Onorano il corpo del morto secondo il rito degli uomini, con un sontuoso funerale; e dopo aver modellato un' immagine di cera il più possibile somigliante, la espongono nel vestibolo del palazzo, su un alto letto d' avorio di grandi dimensioni, ricoperto da un lenzuolo d' oro. La figura è pallida, come quella di un uomo malato. 
Durante buona parte della giornata i senatori siedono attorno al letto sul lato sinistro vestiti di nero; e le donne nobili siedono sulla destra, vestite con semplici abiti bianchi, come prefiche, senza ori o collane. Questo cerimoniale continua per sette giorni; e i medici si avvicinano uno ad uno spesso al letto, e guardando l' uomo malato, dicono che peggiora sempre di più. 
E quando ritengono che sia morto, i più nobili tra i cavalieri e giovani scelti dell' ordine senatoriale tirano su il letto, e lo trasportano lungo la Via Sacra, e lo espongono nel Foro antico. 
Palchi come gradini vengono costruiti su ogni lato; su uno sta un coro di giovani nobili, e su quello opposto un coro di donne di alto rango, che cantano inni e canzoni di encomio del defunto, modulate in una solenne e dolente melodia. In seguito portano il letto attraverso la città fino al Campus Martius, nella parte più larga del quale viene costruita una catasta quadrata di legname della misura più grande, a forma di camera, riempita di fascine e all' esterno ornata con tende intrecciate con immagini d' oro e d' avorio. 
Sopra questa una camera simile ma più piccola, con porte e finestre aperte, e sopra ancora, una terza e una quarta, sempre più piccole, così che si può compararla ai Phari. Al primo piano mettono un letto, e raccolgono incenso e ogni sorta di aromi, frutta, erba, succhi; perché tutte le città e le persone eminenti gareggiano nel contribuire con questi ultimi doni ad onorare l' imperatore. 
E quando è stato radunato un grande cumulo di aromi, c'è una processione di cavalieri e carri attorno alla catasta, con gli aurighi che indossano maschere per assomigliare ai generali e imperatori romani più insigni. 
Quando è stato fatto tutto questo, gli altri appiccano ad ogni lato il fuoco, che prende facilmente grazie alle fascine e agli aromi; e dal piano più alto e più piccolo, come da un pinnacolo, un' aquila viene lasciata libera di volare in cielo mentre il fuoco sale, aquila che i romani credono porti l' anima dell' imperatore dalla terra ai cieli; e da quel momento viene adorato con gli altri Dei."

APOTEOSI DI SABINA (ARCO DI PORTOGALLO FIG.3)
A conferma del racconto, sovente si osservano sulle medaglie coniate in occasione di un' apoteosi un altare con del fuoco sopra, e un' aquila, l' uccello di Giove, prendere il volo nell' aria. Le medaglie con questa raffigurazione sono sono state di grande aiuto per ricostruire la cerimonia dell'apoteosi, dove appare spesso la parola Consecratio mentre su alcune monete greche la parola ΑΦΙΕΡΩϹΙΣ.

Sul rilievo del basamento della Colonna di Antonina è rappresentata l'apoteosi di Antonino Pio e di sua moglie Faustina mentre ascendono verso gli Dei sorretti da un genio alato, Aion, simbolo dell'eternità. Il genio regge in mano i simboli del globo celeste e del serpente ed è affiancato da due aquile, che alludono all'apoteosi. Ai due lati, in basso, assistono alla scena la Dea Roma, in abito amazzonico e seduta presso una catasta di armi, e la personificazione del Campo Marzio, rappresentato come un giovane che sorregge l'obelisco importato da Augusto da Eliopoli ed utilizzato per la grandiosa meridiana del Campo Marzio.

Su un altro lato sono raffigurati i membri del rango equestre intenti a celebrare il decursius, la giostra a cavallo durante la cerimonia funebre, coi relativi vessilliferi, all'esterno, e un gruppo di pretoriani all'interno. Questo rito, che doveva aver avuto luogo attorno all'ustrinum dove si era svolta la cerimonia di cremazione, si era svolta in due tempi (prima la processione a piedi, poi la giostra a cavallo), ma nella raffigurazione è usato l'espediente della contemporaneità, collocando una parata dentro l'altra.

APOTEOSI DI ANTONINO PIO E FAUSTINA (BASE COLONNA ANTONINA)

L'Apoteosi dunque non era un processo automatico, soprattutto all'inizio dell'era imperiale. Gli imperatori che non erano ricordati con benevolenza o non erano graditi ai loro successori, generalmente non venivano divinizzati.

Gli imperatori che venivano divinizzati, venivano chiamati con l'appellativo di divus, titolo che precedeva tutti i loro nomi. Ma il divus, cioè il divino, non era però sinonimo di divinità. Attraverso la cremazione all'aperto dei resti mortali o di un simulacro dell'imperatore si simboleggiava la sua ascensione tra gli Dei della religione romana, ma solo in qualità di semidei. Tanto è vero che per onorare Cesare come divinità Augusto fu costretto a erigere un tempio a Quirino e inserirci la statua di Cesare.

D'altronde anche Romolo divinizzato fu associato al Dio Quirino per poter ricevere dai posteri la "devotio" riservata agli Dei. Perfino Augusto dovette associarsi per essere divinizzato addirittura da vivo alla Dea Roma condividendone onori e culto.

Nel tardo impero, questo onore divenne invece associato in modo automatico agli imperatori defunti, si che diventò quasi un sinonimo della moderna espressione "fu". Il fatto che divus avesse perso molto in pratica il suo significato religioso lo si capisce dal fatto che venne attribuito anche ai primi imperatori cristiani dopo la loro morte (p.es., divus Constantinus), cosa inammissibile dato il culto dell'unico Dio.

Il contrario dell'apoteosi dell'imperatore era la Damnatio Memoria, dove non solo l'imperatore non veniva divinizzato ma veniva cancellato nelle immagini e nelle iscrizioni pubbliche incise sulla pietra. Gli si toglieva così il privilegio non solo di venire onorati come Dei, ma di venire ricordati dai posteri e ricevere così il privilegio di essere annoverati tra i Mani, sia di Roma che dei congiunti. Pertanto essi non ricevevano più nè preghiere, nè offerte, nè sacrifici, e restavano soli e dimenticati dal mondo presente e futuro nel buio regno dell'Ade.

FAUNALIA RUSTICA (5-8 Dicembre)

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TESTA DI FAUNO


IL DIO FAUNO

Fauno è raffigurato in forma umana e ferina insieme, con riferimento pertanto all'origine naturale dell'uomo, come figlio cioè della Dea natura. Amato ma pure temuto perchè amante dei folti della foresta e dei lupi che vi vagano. Marco Terenzio Varrone, tramandato da S. Agostino, racconta di un rituale notturno che i Romani svolgevano per impedire al demone Fauno, in occasione della nascita di un bimbo, di insidiare la puerpera.

Tre uomini impersonavano i guardiani della soglia, costoro percorrevano i limiti della casa, si recavano alla porta principale; il primo, rappresentante di Picumno, demone del mortaio e della scure, colpiva la soglia con una scure, il secondo, in veste di Pilumno, demone della lancia e del pestello, colpiva la soglia con un’arma da lancio, e il terzo, che impersonava Stercutius, demone dell’immondizia e per contrasto della purificazione, ripuliva la soglia dalle schegge con una scopa (nelle antiche culture certi utensili quotidiani avevano valenze magiche) invocando Deverra, divinità inserita nell’elenco degli “Indigitamenta” (invocazioni alle divinità).

Con questi atti rituali si sarebbe esorcizzata l’intromissione di Fauno o più tradizionalmente di Silvano. Varrone infatti afferma che vengono assegnati tre Dei come custodi alla donna che ha partorito, affinché il dio Silvano non entri di notte e le usi violenza. E per simboleggiare i tre custodi, tre uomini debbono girare attorno alla casa di notte, colpirne il limitare prima con la scure, poi con il mortaio e infine ripulirlo con la scopa: con questi segni di culto il Dio Silvano non potrà entrare.

Il Dio Fauno viene successivamente identificato con Pan e in età classica i Fauni diventano tanti, creature campestri equivalenti dei satiri greci. Come questi, hanno il corpo metà d’uomo e metà di capra, corna e zoccoli. Secondo la tradizione il culto di Fauno fu introdotto a Roma da Numa Pompilio (754 - 674 a.c.) che era di origine sabina, per cui si presuppone che questo Dio fosse anch'esso sabino: "E (Numa) divise l'anno in dodici mesi seguendo prima di tutto il ciclo della Luna; … Distinse poi i giorni in fasti e nefasti, perché in certi giorni non si dovessero prendere decisioni pubbliche."



LA FAUNALIA RUSTICA

Nel calendario romano il 5 dicembre era il primo giorno di festa delle Faunalia Rustica, era indicato come dies faustus, giorno di buon auspicio, ed era particolarmente adatto allo svolgimento di attività commerciali.

In realtà le Faunalia venivano celebrate in onore del Dio Fauno, divinità italica di origine pastorale, protettore del bestiame e della fecondità, per lo scopo di incentivare la prolificità e la salute del bestiame. In questo senso Fauno era contrapposto al Dio dei boschi Silvano protettore dei luoghi selvaggi. 

DEI FAUNA E FAUNO
Nelle Faunalia Rustica, le cui celebrazioni avevano luogo all’aperto e nei campi, si innalzavano dalle are fuochi e profumi propiziatori, e la festa si protraeva durante le ore notturne, in cui si tenevano danze, utilizzate anche dai sacerdoti di Salii per invocare la protezione di Fauno sul raccolto e sul bestiame. In suo onore si sacrificava un capretto o una pecora, le cui carni erano distribuite ai presenti, insieme a grandi boccali di vino.

Caratteristica soprattutto delle zone rurali, la celebrazione aveva luogo in inverno e in primavera: le Faunalia invernali, conosciute anche come Faunalia Rustica, si svolgevano dal 5 all’8 dicembre (none di dicembre) e chiudevano l’anno dei lavori nelle campagne, mentre le Faunalia Primaverili, meglio conosciute come Lupercalia, precedevano il risveglio primaverile della natura invocando la protezione sulle greggi, e ricorrevano il 15 febbraio. L

In definitiva erano le Faunalia Invernali, conosciute anche come Faunalia Rustica e le Faunalia Primaverili, per celebrare l’inizio della primavera e della natura e invocarne la protezione sui greggi, che avevano luogo il 15 febbraio, dapprima a se stanti, in seguito spesso associate ai Lupercali. Di notte si usava dar luogo a una danza particolare, che veniva compiuta anche dai sacerdoti Salii, attraverso la quale veniva invocata la protezione di Fauno sul raccolto e sul bestiame.

Erano giorni in cui i buoi non erano sottoposti al giogo, perché anche gli animali avevano diritto di riposarsi e partecipare all'allegria, anzi per l'occasione venivano incoronati di ghirlande e di nastri avvolti sulle corna. Si festeggiavano pertanto gli animali e il lato animale dell'uomo, infatti in epoche remote i Lupercali era l'accoppiamento delle sacerdotesse Lupe con i pastori, trasformato poi nella fustigazione delle donne ad opera dei sacerdoti e nel timore che un Dio misterioso violentasse la moglie partoriente. Insomma una riedizione molto elaborata del libero sesso preromano.

TEMPIO DI FAUNO CAPRIPEDE - ALOISIO GIOVANNOLI


I TEMPLI

A Roma, che noi sappiamo, l’unico tempio dedicato al Dio Fauno si trovava sull’Isola Tiberina e un altro fuori dalle mura, presso un bosco situato nelle vicinanze della fontana Albunea, dove esisteva un celebre oracolo dedicato al Dio, ma la fontana prendeva nome dalla Sibilla detta Albunea o TIiburtina, antica divinatrice  poi divinizzata, protettrice della città di Tivoli e artefice dei leggendari Libri Sibillini.

La Sibilla Tiburtina era anche prediletta dalla Dea Venere, si sospetta anche che in epoche più arcaiche le Faunalia Rustica oltre ai banchetti e al vino prevedessero anche gli accoppiamenti sessuali. Orazio non considera il Dio molto tenero e nella sua ode invoca Fauno chiedendogli di mostrare il suo aspetto più tenero, mitigando soprattutto le creature che vagano nella foresta, in particolare i lupi, il pericolo maggiore per i greggi.

DOMUS SOTTO CHIESA DI S. PIETRO IN VINCOLI

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SAN PIETRO IN VINCOLI

Sulla cima del Fagutal, una delle tre alture del Colle Esquilino, presso la Suburra, è posta la Basilica di San Pietro in Vincoli, eretta per custodire il culto delle catene di S. Pietro, reliquie note sin dal 419.
La chiesa fu ricostruita su una preesistente dedicata agli apostoli Pietro e Paolo che crollò parzialmente intorno al 440. La ricostruzione si deve alla moglie dell’Imperatore Valentiniano III, e figlia dell’Imperatore Teodosio, Eudossia Licinia, da cui derivò l’altro nome della chiesa come Basilica Eudossiana.


Negli anni 1956-1960, sotto la direzione di Antonio Maria Colini, il pavimento della navata centrale della chiesa fu smantellato, per procedere a degli scavi archeologici che hanno riportato alla luce tutte le fasi precedenti al V secolo. Qui infatti si rinvenne il complesso archeologico situato a poche decine di cm sotto il pavimento della chiesa. Si tratta di diverse domus sovrapposte, di età repubblicana e pure imperiale. Purtroppo le strutture più superficiali sono state in gran parte tagliate e utilizzate come fondazioni della chiesa.

La sistemazione delle numerose tombe interrate nel pavimento, nonché la rimozione del piano pavimentale nel corso di un restauro del 1765, hanno causato la parziale distruzione delle strutture antiche e l’asportazione di gran parte delle decorazioni marmoree utilizzate certamente per guarnire i palazzi dell'epoca. Del resto il bellissimo colonnato che divide la basilica in tre navate è costituito da venti colonne doriche scanalate provenienti da un edificio romano, forse la Prefettura urbana. E anche in fondo alla chiesa, l’arco trionfale è sorretto da due colonne corinzie di granito, anche esse materiale di spoglio.

Le numerose fabbriche antiche rinvenute sotto la chiesa sono parte di un quartiere situato all’estremità di un’ampia platea artificiale predisposta come base per la costruzione delle Terme di Traiano, che terminava da questa parte in corrispondenza della valle della Suburra.

LA DOMUS
Il I strato


- Nella zona sottostante la navata, partendo dagli strati più antichi, si incontrano prima di tutto resti di abitazioni medio-repubblicane del IV-III sec. a.c., preziosi documenti sulle case dell'epoca.


Il II strato 

- Sopra queste sono state rinvenute due case della fine del II sec. a.c. con splendidi mosaici policromi figurati; il che conferma l’esistenza di abitazioni dell’aristocrazia repubblicana nella zona tra la Velia e l’Esqulino, come riportato dalle fonti.


Il III strato

- Lo strato più superficiale, fortemente danneggiato dalle sepolture e dai rifacimenti del pavimento della chiesa, testimonia di una grande domus databile inizialmente al periodo neroniano e di cui restano tre bracci di un criptoportico che chiudeva un cortile rettangolare con una vasca centrale e giardini.

Data la sua posizione è possibile facesse parte delle propaggini più settentrionali della Domus Transitoria o della Domus Aurea. Nel III secolo fu sacrificato il cortile a giardino, che fu chiuso per ampliare la sala maggiore dell’edificio che fu così dotata i un’appendice composta da un ambiente quadrato con delle trifore sui tre lati liberi.

ANTICHI MARMI RITAGLIATI
Successivamente, al vano aggiunto fu innestata un’abside di 34 metri per 10, in corrispondenza dell’asse longitudinale della sala, che fa presupporre alla trasformazione in una domus ecclesiae. In più punti dell’intero complesso sono visibili dei pregiati pavimenti in mosaico.

I sotterranei che si sviluppano al di sotto del portico a cinque arcate che precede la chiesa hanno un orientamento differente da quelli precedentemente descritti. Una scala in ferro introduce all’interno di un ambiente nel quale si riconosce un peristilio - con murature in opus reticulatum e opus latericium - dotato di una canaletta di scolo per le acque piovane.

Tali strutture, come avviene di frequente, hanno condizionato la realizzazione delle strutture sovrastanti, in particolare dell’abside della chiesa primitiva, che risultò non in asse rispetto alla navata, che sfruttò invece la domus del III secolo.

La successiva copertura dell’area archeologica effettuata con una struttura portante in acciaio, permette di poter visitare, anche se con difficoltà e solo per motivi di studio, tali ambienti sotterranei. In alcuni punti, infatti, lo spazio a disposizione fra il pavimento delle domus e quello della chiesa è di soli 50 centimetri. Una campagna di scavo sistematica del 1956, sulla navata centrale e il transetto, ha riportato in luce una serie di edifici succedutisi nell’area.

  • «Domus in opus quadratum» del II - III sec., per le massicce pareti perimetrali a blocchi di tufo, dove un corridoio centrale immette su due ambienti laterali di cui uno scavato e dotato di mosaico a tessere marmoree alternate in giallo e grigio celeste. Le pareti hanno uno zoccolo rosso con riquadri e colonne dipinte che incorniciano figure maschili e femminili, un pavone, una pecora, uno stambecco ecc. Il pavimento ha un bel mosaico biancoe nero a losanghe, con fiori, svastiche, croci e stelle.
  • Domus dei pavimenti a mosaico», enorme domus di ben 1400 mq, accanto all'acquedotto claudio, con grandi soglie di travertino e pavimenti musivi con motivi floreali e figure, con impianto termale e due vasche absidate, oltre ad un ambiente porticatum. La domus fu realizzata in tre fasi successive, in opus mixtum. poi in opus vittatum per ampliamenti e opus testaceum nel portico e nelle terme, con mattoni bipedali nella parte all'aperto e due basi di colonne. Rinvenuta anche parte di pavimentazione musiva a preziose tessere di porfido e marmo grigio di 3 cm per lato. All'esterno tracce di intonaco rosso.
  • Domus dei pavimenti in opus signinum, con cortile a cielo aperto, mosaici a grandi tessere, fontana semicircolare a tessere di marmo, soglie in travertino, lastre marmoree al centro dei mosaici. Sopra di queste venne costruito un altro edificio non identificato.                                                                   
  • Domus ecclesiae, Successivamente, in epoca imperiale, una grande domus orientata nello stesso senso dell’attuale chiesa. La domus, costruita in età adrianea, aveva un ampio giardino-cortile con al centro una fontana, sul quale si apriva una grande sala di ben 160 mq con altri ambienti minori. A quest’aula principale fu aggiunto, nel III secolo d.c., un altro vasto ambiente munito di un’abside. È probabile che, prima della costruzione della chiesa ad opera del papa Sisto III, la grande casa sia servita come domus ecclesiae, cioè un centro liturgico privato per le riunioni della comunità cristiana.


ARIMINUM - RIMINI (Emilia Romagna)

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La storia di Rimini iniziò nel 286 a.c. esattamente alle foci dell’attuale fiume Marecchia, allora chiamato Ariminus, quando i Romani fondarono una Colonia di Diritto Latino, che prese il nome dal fiume Ariminum. La zona era stata già abitata da Etruschi, Umbri, Greci, Piceni, Sanniti e Galli, pertanto pronta ad evolversi attraverso la più ricca ed evoluta civiltà romana.
Il titolo di Colonia Latina conferiva ad Ariminum prestigio ed autonomia data la sua posizione geografica, strategicamente importante come presidio della pianura padana per controllare una eventuale avanzata dei Galli insediati a Nord della città.

Infatti Ariminum divenne punto nevralgico del sistema viario romano in quanto vi convergevano la via Flaminia, proveniente da Roma, la via Emilia, che partendo da Rimini giungeva a Piacenza e la via Popilia-Annia che conduceva a Ravenna ed Aquileia. Inoltre il porto, collocato alla foce del fiume, contribuì con gli scambi commerciali allo sviluppo dell’economia cittadina.

Al termine dell’età repubblicana, Arinum, per la sua fedeltà a Roma, ricevette la cittadinanza romana ed il rango di Primo Municipio Cispadano. Ma Rimini conserva un punto importante della storia, quando Cesare, nel 49 a.c. passò il Rubicone pronunciando la celebre frase “alea iacta est” (il dado è tratto) dando inizio alla guerra civile contro Pompeo. Esiste in loco infatti un'epigrafe che lo ricorda.

Sotto Augusto, Tiberio e poi Adriano Rimini prosperò e venne arricchita di importanti monumenti quali il teatro, l’anfiteatro, l’arco d’Augusto, il ponte di Tiberio oltre a diverse domus tra cui la celebre la domus del chirurgo, che ci anche reso edotti della ricca strumentazione chirurgica della quale si servivano i medici romani.

PONTE DI TIBERIO

PONTE DI TIBERIO

In pietra d'Istria, si sviluppa per una lunghezza di oltre 70 m su 5 arcate che poggiano su massicci piloni. Il ponte, che rappresenta il punto di partenza della via Emilia e della via Popilia, si impone per il progetto ingegneristico e per il disegno architettonico che coniugano funzione utilitaria, armonia delle forme ed esaltazione degli Imperatori.

L'ANFITEATRO

ANFITEATRO ROMANO

Secondo alcuni fu eretto da Augusto, con cavea autoportante, sostenuto da murature in malta con laterizi a vista. I corridoi di accesso erano coperti da volte a botte e portavano alle scale che a loro volta davano sulle gradinate. Delle strutture scenografiche restano solo un fusto di colonna e poche decorazioni marmoree.

Secondo altri invece venne eretto sotto Adriano nel II secolo d.c., come attesta il ritrovamento  di una moneta con l'effige dell'imperatore, rivenne alla luce in seguito agli scavi del 1843-44 a cui seguirono quelli più importanti del 1926 e del 1935. Come sempre di forma ellittica, aveva l'asse maggiore nord-est - sud-ovest. L'arena dove avevano luogo i giochi misurava 76,40 x 47,40 metri, come sempre di forma ellittica, con asse maggiore nord-est - sud-ovest e venne utilizzato essenzialmente per spettacoli gladiatori. Come da tradizione fu costruito alla periferia della città, favorendo così le visite dai paesi vicini che non dovevano invadere il centro cittadino. Era composto di 60 fornici (accessi arcuati a volta).

Nei quattro ordini di anelli concentrici ed ellittici, potevano prendere posto circa 10.000 spettatori, secondo altri 12.000, che entravano e uscivano da due ingressi principali posti in corrispondenza del giro più stretto dell'ellissi e venivano smistati in una serie di corridoi e scale che permettevano di raggiungere e lasciare le gradinate.

La sua funzione di combattimenti gladiatori non durò a lungo, perchè già nel tardo impero venne incorporato nelle mura e adattato a forte per resistere alle invasioni barbariche. La facciata esterna che fronteggiava il mare ebbe chiuse le arcate per un fronte di ben 63 metri. Del resto gli spettacoli in genere vennero colpiti dall'austerità dell'avanzante cristianesimo che demolì usanze e monumenti instaurando un clima depressivo in cui i barbari ebbero buon gioco.

Successivamente l'anfiteatro venne trasformato in lazzaretto e in epoca medievale era già ridotto a un immane cumulo di rovine, nonchè "cava" di pietre e laterizi ben squadrati, ottimi per la costruzione di nuovi edifici e per la cancellazione dei vecchi.
Documenti inediti del 1763, custoditi nell'Archivio Storico Comunale di Rimini, parlano di scavi condotti da un muratore, Stefano Innocenti, spinto dallo speziale Angelo Cavaglieri, che chiese "di poter aprire un muro della Città sotto la Clausura de' Padri Cappuccini". In settembre iniziarono gli scavi, in dicembre le lamentele per il materiale di risulta e dei frati Cappuccini già premevano per chiudere i lavori. Lo speziale chiese sei mesi di proroga perché la ricerca "non tende ad altro che a liberare la Città da un'impostura, che corre su questo Anfiteatro". Qual'era l'impostura che correva sull'anfiteatro? Era il fatto che fosse stato costruito dai romani, popolo di impostori che credevano ai falsi Dei.
Nel 1843, per opera dello storico della città Luigi Tonini i resti della costruzione furono nuovamente riportati parzialmente alla luce. Cento anni dopo, durante la II guerra mondiale Rimini subì pesanti bombardamenti per cui l'area dell'anfiteatro fu destinata a deposito di macerie e su gran parte di essa sorse il CEIS (Centro Educativo Italo Svizzero).

L'ARCO DI AUGUSTO

ARCO D'AUGUSTO

L’Arco di Augusto eretto dal Senato romano nel 27 a.c., come porta urbica alla confluenza della via Flaminia nel decumanus maximus, onora la figura e la politica di Ottaviano, ad iniziare dall'iscrizione che lo celebra per il restauro della via Flaminia. 

COME DOVEVA APPARIRE
L'Arco fu consacrato all'imperatore Augusto dal Senato romano nel 27 a.c. ed è il più antico arco romano rimasto nel suolo italico. Segnava la fine della via Flaminia che collegava la città romagnola alla capitale dell'impero, confluendo poi nell'odierno corso d'Augusto, il decumano massimo, che portava all'imbocco di un'altra via, la via Emilia.

Al fornice centrale, di particolare ampiezza, si affiancano due semicolonne con fusti scanalati e capitelli corinzi. I quattro clipei posti a ridosso dei capitelli rappresentano le divinità romane. Verso Roma, Giove ed Apollo; rivolte verso l'interno della città troviamo Nettuno e la Dea Roma.  

Secondo alcuni la sua funzione principale fu quella di sostenere la grandiosa statua bronzea dell'imperatore Augusto, ritratto nell'atto di condurre una quadriga. Secondo un'altra ipotesi, del riminese Danilo Re, il monumento sarebbe stato coronato dai Bronzi dorati di Cartoceto (PU), che rappresenterebbero in questo caso Giulio Cesare, Ottaviano Augusto, la madre di Augusto Azia maggiore e infine Giulia minore, madre di Azia e sorella di Cesare. Alla presenza di tali statue sarebbe dovuto il nome di Porta Aurea, usato fin nel Medioevo.
I BRONZI DI CARTOCETO
La peculiarità di questo arco è che il fornice era troppo grande per ospitare una porta, almeno per quei tempi. La spiegazione è dovuta al fatto che la politica dell'Imperatore Augusto, volta alla pace, la Pax Augustea, rendeva inutile una porta civica che si potesse chiudere, non essendovi il pericolo di essere attaccati.
La merlatura presente nella parte superiore risale invece al Medioevo (circa X sec.). Nel periodo fascista vennero demolite le mura e l'arco rimase un monumento isolato, perché si riteneva fosse un arco trionfale, ipotesi smentita più volte da numerosi studiosi. Insieme al ponte di Tiberio, è oggi uno dei simboli di Rimini, tanto da comparire nello stemma della città. Al di sopra dell'apertura dell'arco si trova il muso di un toro, che rappresenta la forza e la potenza di Roma, paragonata appunto a quella di un toro (ma  che soprattutto era il segno zodiacale di Cesare). Nell'arco di Augusto è raffigurata anche la dea Roma.

L'iscrizione, ora mutila, era la seguente:

SENATUS POPVLVSQVE ROMANVS
IMPERATORI CAESARI DIVI IVLIO FILIO AVGVSTO IMPERATORI SEPTEM
CONSOLI SEPTEM DESIGNATO OCTAVOM VIA FLAMINIA ET RELIQVEIS
CELEBERRIMEIS ITALIAE VIEIS ET AVCTORITATE EIVS MVNITEIS

Ovvero:
“Il Senato e il popolo romano (dedicarono) all’imperatore Cesare, figlio del divino Giulio, Augusto,
imperatore per la settima volta, console per la settima volta designato per l’ottava, essendo state
restaurate per Sua decisione e autorità la via Flaminia e le altre più importanti vie dell’Italia."

PORTA MONTANARA

IL FORO ROMANO

Il Foro Arimino si apriva all'incrocio tra cardo e decumanus maximi in corrispondenza dell'attuale piazza Tre Martiri, ed era il cuore della vita pubblica ed economica della città, con il capitolio, la curia, la basilica, i templi, i portici e i giardini.



PORTA MONTANARA

La costruzione della Porta Montanara, detta anche di Sant'Andrea, risale al I secolo a.c. L’arco a tutto sesto, in blocchi di arenaria, costituiva una delle due aperture della porta che consentiva l'accesso alla città per chi proveniva dalla via Aretina. Il doppio fornice agevolava la viabilità, incanalando in passaggi paralleli il percorso in uscita da Ariminum, attraverso il cardine massimo, e quello in entrata.

Viene attribuito al sistema difensivo cittadino attribuito a Silla. La porta rientrerebbe nell’ambito delle ricostruzioni che nei primi decenni del secolo, seguirono alle rappresaglie nei confronti della città, già sostenitrice di Mario, suo avversario nella guerra civile.

L’arco a tutto sesto, in blocchi di arenaria, costituiva una delle due aperture della porta che consentiva l’accesso alla città per chi proveniva dai colli lungo la via aretina, percorrendo la valle del Marecchia. Il doppio fornice agevolava la viabilità, incanalando in passaggi paralleli il percorso in uscita da Ariminum, attraverso il cardo massimo, e quello in entrata.

Indagini archeologiche hanno appurato l’esistenza di un’ampia corte di guardia con una controporta interna, a conferma del sistema difensivo.

Già nei primi secoli d.c., l’arco volto a Nord venne tamponato e la porta, così ridimensionata ad un solo fornice, continuò a segnare l’ingresso alla città fino alla seconda guerra mondiale.

Al termine del conflitto, nella convulsa fase ricostruttiva, il monumento fu distrutto nella parte rimasta in vista per tanti secoli, mentre fu recuperata la parte occultata nelle murature delle case adiacenti. L’arco “riscoperto” venne rimontato dopo varie vicissitudini lontano dal luogo originario, a fianco del Tempio Malatestiano, prima di essere ricomposto nella zona originaria.



DOMUS DEL CHIRURGO

La 'Domus del Chirurgo' venne edificata nel corso della seconda metà del II secolo d.c. Trattavasi dell'abitazione e lo studio professionale di un importante medico, una specie di "Taberna medica domestica," la grande Domus appartenne ad un chirurgo, che aveva la propria dimora vicino al mare. 

Sono ancora visibili parte degli ambienti e dei mosaici che decoravano questa lussuosa abitazione romana.  Venne scoperta scoperta nel 1989 in piazza Luigi Ferrari. Al suo interno è stata rinvenuta una delle serie più complete di strumenti chirurgici di età romana esistente al mondo.


Il nome del chirurgo è Eutyches, nome graffiato sul muro nel cubiculum da un paziente ricoverato dentro la casa del chirurgo. Quest'ultimo possedeva un’attrezzatura particolare, senza strumenti ginecologici, ma evidentemente specializzato in traumi ossei con strumenti atti ad estrarre le punte di frecce dalle carni, il cosiddetto cucchiaio di Diocle. Non ne esistono altri esemplari al mondo, l’unico modo per vederlo è quello di recarsi al Museo della città di Rimini.

Le stanze della domus si affacciavano tutte su un lungo corridoio che serviva da disimpegno e raccordo tra i diversi vani, e che a sua volta dava su un cortile. All'interno c'era una stanza che serviva al medico per visitare e operare i pazienti, più una taberna medica che fungeva da ambulatorio e che dava sul cortile.


Tra i vani è stata identificata anche la sala da pranzo, il triclinio, e la camera da letto, cioè il cubicolo. La cucina e la piccola dispensa erano invece situate al secondo piano della domusAll'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti archeologici: ferri chirurgici, vasellame da cucina e monete, oltre a una lunga serie di decorazioni e mosaici.

La ristrutturazione della domus risale agli ultimi anni del II secolo o ai primi decenni del III. Venne abbandonata repentinamente, e mai più occupata, in seguito a un incendio che la distrusse completamente; in mezzo alle macerie formatesi col crollo del secondo piano furono trovate circa 80 monete romane, quasi tutte d'argento, la più recente delle quali è databile tra il 253 e il 258; la distruzione si può far risalire a questi anni, o di poco posteriori.


Durante la rimozione di una pianta l'escavatore che stava operando andò per errore troppo a fondo e scoprì un mosaico a 1,5 metri sotto terra. Successivamente lo segnalò al Dipartimento di Storia Culture Civiltà di Bologna e si procedette agli scavi. 

L'attuale struttura che contiene i resti della domus e che consente al pubblico di vederla camminando su piattaforme sospese, è stata aperta nel 2007. I lavori hanno subito le critiche da parte di associazioni ambientalistiche, contrarie all'abbattimento di alberi per consentire gli scavi archeologici, che arrivarono a consegnare il "Premio Attila" all'amministrazione comunale. 



Premio Attila

"Ancora una volta i cittadini assistono impotenti all’ ennesimo scempio compiuto dai politici e piazza Ferrari, ex giardini Ferrari. Quando sono i cittadini a pagare, come in tutte le opere pubbliche, i politici non hanno limiti e pretendono di fare grandi opere, anche quando sarebbe conveniente limitarsi a progetti semplici e in sintonia con l’ambiente. Unito a questo c’ è una totale mancanza di conoscenza scientifica in campo ambientale. Così assistiamo alla distruzione di una parte dei giardini Ferrari, all’ abbattimento di alberi e giardinetti per far posto alle rotonde – vedi via Coletti e Rivabella- , alla segmentazione del parco Sacramora, per fare posto ad una strada, senza intaccare terreni edificabili, al taglio delle alberature nelle vie cittadine,vedi via Dardanelli, per fare nuovi posti alle auto. "

IL COMPLESSO...
In effetti la nuova costruzione è un obbrobrio, realizzata da qualche pseudo innovatore architetto che ha trasformato una piazza in un incubo. I quattro ciuffi d'erba piazzati sui tetti confermano la poca fantasia e il pessimo gusto di chi li ha ideati.

All'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti archeologici: ferri chirurgici, vasellame da cucina e monete, oltre a una lunga serie di decorazioni e mosaici. 

Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca collezione chirurgica antica al mondo, per varietà e numero degli oggetti: si tratta infatti di circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. 


Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per esportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era specializzato in professione medica militare.

Uno dei ritrovamenti più importanti è stato quello del Cucchiaio di Diocle (così chiamato per il suo inventore, Diocle di Caristo,  medico greco del IV secolo a.c.), un pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia conficcate nel corpo umano.


Si tratta di un arnese composto da un manico di ferro che termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo da bloccare ed estrarre la freccia. Veniva utilizzato in particolare dai medici che operavano sul campo di battaglia.

Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca collezione chirurgica antica al mondo, per varietà e numero degli oggetti: si tratta infatti di circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. 

Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per esportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era specializzato in professione medica militare.


Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce una lunga serie di mosaici ancora intatti e di affreschi policromi.

Tra i mosaici spicca quello di Orfeo tra gli animali, ritrovato nella taberna medica, che vede al centro dell'opera il celebre musico circondato da animali in ascolto. I mosaici sono stati realizzati prevalentemente con la tecnica dell'opus tessellatum e dell'opus reticulatum.

Nel triclinium è stato invece ritrovato un pannello di pasta di vetro dove su sfondo blu sono stati raffigurati 3 animali marini: un delfino, un'orata e uno sgombro.

I STRUMENTI CHIRURGICI RITROVATI NELL'OMONIMA VILLA
I numerosi mosaici ritrovati sono oggi conservati nella sezione archeologica del Museo della città di Rimini. Si suppone che il nome del medico fosse Eutyches (Eutiche) grazie all'iscrizione sul muro della sua Taberna Medica "Eutyches Homo Bonus", e che fosse un medico militare di origine orientale, quasi certamente greco.

Lo conferma il piede della statua di Ermarco, filosofo discepolo di Epicuro, ritrovata nel suo giardino, ma anche le numerose scritte in greco ritrovate sul vasellame della sua casa.



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