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MONS AEGROTORUM - MONTEGROTTO TERME (Veneto)

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Duemila anni fa esistevano le terme romane ‘Aquae Patavinae’, ovvero ‘acque di Padova’, situate lungo il fianco orientale dei Colli Euganei, ultimi rilievi di origine vulcanica, risalenti a 135 milioni di anni fa, prima dell’immensa piana che si estende verso est fino alla laguna veneta e al Mare Adriatico.

RICOSTRUZIONE DEL COMPLESSO TERMALE (INGRANDIBILE)
Le proprietà curative delle acque erano conosciute  già tra il VII e il III secolo a.c., nel territorio odierno del Comune di Montegrotto Terme, tra il Monte Castello e il Colle di San Pietro Montagnon. In questa zona si estendeva un piccolo lago alimentato da polle d’acqua calda, meta di veri e propri pellegrinaggi di devoti per offrire ‘ex voto’ e sacrifici a una divinità maschile delle acque salutifere, in seguito identificata probabilmente con il dio latino ‘Aponus’.

Più tardi, non diversamente da quanto accade oggi, i nostri antenati vissuti tra I secolo a.c. e IV secolo d.c. andavano alle Terme Euganee a prendere bagni rilassanti e curativi contro i dolori, ospiti di stabilimenti pubblici o – i più ricchi – direttamente nelle lussuose ville di proprietà, fatte appositamente costruire per godere i benefici delle acque calde naturali.

Il nome originario di Montegrotto era infatti "Mons Aegrotorum", letteralmente monte dei malati.
Quindi le antiche popolazioni che abitarono queste zone già conoscevano molto bene le proprietà terapeutiche delle acque calde e ne attribuivano la loro origine agli dei. Le piccole sculture rappresentanti parti del corpo umano, dette "ex voto", rinvenute con gli scavi, altro non erano che particolari offerte dei malati guariti dalle acque, che in segno di riconoscenza venivano gettate nei laghi.




IL PARCO ARCHELOGICO DELLE TERME EUGANEE

A Montegrotto Terme restano ancora reperti archeologici che testimoniano il ricco passato di quelle terme; merito dell’Università di Padova, della Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto e del Comune di Montegrotto che hanno trasformato l'area in zone archeologiche aperte al pubblico, nel progetto Progetto Aquae Patavinae.

L'area archeologica nella via "Viale Stazione", nel centro urbano di Montegrotto Terme, conserva i resti di un complesso monumentale di epoca romana, che comprende un teatro, delle terme e un "ninfeo". Dell'originario complesso termale sono visibili infatti i resti di tre grandi piscine con relativo sistema idrico, di un piccolo teatro, di un edificio a pianta centrale con due absidi laterali e di un altro edificio di più modeste dimensioni.

IL TEATRO


IL TEATRO

Si tratta di un teatro utilizzato per spettacoli musicali, poetici e successivamente, dopo una ristrutturazione, anche acquatici, composto da un proscenio, un'orchestra, una cavea e un tempio o tribuna.

Il sito è a tutt'oggi oggetto di scavi e studi da parte del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Padova, che ogni anno indaga nuove aree del vastissimo complesso romano.

La "cavea" del teatro (E, che può essere meglio vista dalla strada "Via degli Scavi") ha un diametro di 28 metri e ospita fino a 11 file di sedili, che possono essere raggiunti attraverso tre scale, una centrale e due laterali. L'area di fronte al palco è semicircolare; il boccascena è largo quanto la "cavea" e profondo 5,5 metri.

La "frons scaneae"è composta da due nicchie rettangolari e due semicircolari alternate da tre porte che conducono ad uno spazio largo circa 40 metri.



IL TEMPIO

Sulla cima della "cavea", e sul suo stesso asse, c'era una grande struttura rettangolare che è stata interpretata come una galleria per un pubblico molto importante o come un piccolo tempio.

Si pensa che, più tardi, il tempio sia stato trasformato in una piscina per spettacoli acquatici. Oggi la maggior parte del teatro è visibile solo nelle sue fondamenta, dal momento che i suoi sedili e tutti i rivestimenti sono andati perduti.

Grazie al lavoro di restauro del Comune di Montegrotto Terme si può visitare il luogo di culto, scoperto tra il 1781 e il 1788, dove venne sancita la natura di città d'acque di Montegrotto e Abano Terme.

Nel corso del tempo numerosi oggetti di età pre-protostorica sono emersi casualmente nel territorio comunale di Montegrotto Terme. Tuttavia, trattandosi di materiale sporadico, non è possibile rintracciare l’insediamento nel territorio all’epoca, ma la presenza di reperti attribuibili ad un ampio arco di tempo testimonia l’intensità e la continuità del nucleo abitativo.

Si tratta di numerosi reperti tra cui molti strumenti litici, attribuiti genericamente al Paleolitico Medio e Superiore (130.000 – 10.000 anni fa circa), al Neolitico (VI – IV millennio a.c.) e all’età del Bronzo (II millennio a.c.). 

Furono rinvenuti anche vasi protostorici riferibili alle età del Bronzo e del Ferro, cioè al II – I Millennio a.c. –  oggi conservati nei Musei Civici agli Eremitani di Padova; alcuni bronzetti votivi e altri reperti dell’età del Ferro (come una paletta di bronzo) uniti agli “ex voto” del santuario posto tra Monte Castello e il Colle di San Pietro Montagnon.



LE TERME

Sembra a che Montegrotto le antiche Terme Romane furono una vera e propria stazione termale, come dimostrano gli scavi romani presenti lungo la via principale della località. Riportati alla luce grazie agli scavi effettuati verso la fine del '700 e più recentemente nel 1960, essi sono parte di un ampio complesso termale della seconda metà del I secolo a.c. che prevedeva oltre a spazi adibiti a cura anche luoghi di svago, intrattenimento e riposo.

Il sito è a tutt'oggi oggetto di scavi e studi da parte del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Padova, che ogni anno indaga nuove aree del vastissimo complesso romano.

Le terme comprendono tre vasche (A, B, C, che possono essere meglio viste dalla strada "Viale Stazione"). La vasca A è lunga circa 30 metri ed è stata interpretata come vasca per l'immersione in acque termali. Ha una forma rettangolare ed è contenuto all'interno di un edificio rettangolare.

La vasca B è anche lunga circa 30 metri e presenta absidi su entrambi i lati corti e una nicchia rettangolare sul lato est. Questa vasca era contenuta in un edificio ed era collegata alla vasca C attraverso le stanze di servizio. Diversamente da quelli precedenti, la vasca C è di forma rotonda e ha un diametro di 9,40 metri.

La scoperta di contrafforti esterni suggerisce che aveva un tetto  simile a quello che è stato trovato nella località di Baia, vicino a Napoli. Un sistema di linee logistiche forniva acqua ai bagni termali e ne sosteneva lo scarico.

Infatti, oltre a tre vasche utilizzate per le immersioni e rifornite di acqua grazie ad un sistema di canalizzazione dotato di mulini di sollevamento, emerse un ninfeo (fontana monumentale) e un odeon.



IL NINFEO

Il "ninfeo" (D) è di forma rettangolare con abside su un lato. Ha una fontana nella corte interna e stanze sul suo lato meridionale. L'organizzazione del suo interno ha permesso di interpretare questo spazio come "ninfeo", ovvero una fontana monumentale, con spazi per lo studio e il relax.



LA VILLA

In un'area demaniale sono visibili i resti di una lussuosa villa costruita agli inizi del I secolo d.c., utilizzata e rimaneggiata almeno fino al III - IV secolo d.c. Il principale settore residenziale della villa è protetto con coperture permanenti evocative dei volumi originari. Le imponenti strutture della lussuosa villa realizzata agli si estendono per oltre un ettaro e mezzo.

La villa romana fu eseguita mediante un progetto ingegneristico e architettonico unitario, in cui vennero impiegate maestranze di grande abilità, consapevoli delle risorse per l'edilizia offerte dal territorio e competenti nello sfruttarle adeguatamente.

Nel 1988, in occasione di lavori di aratura, emersero i primi resti archeologici della villa romana. Successivamente, l'allora Soprintendenza Archeologica del Veneto fece eseguire prospezioni con il georadar (1989) e sondaggi di scavo (1989-1992), che dimostrarono la straordinarietà del ritrovamento.

L'area, sottoposta a vincolo (D.M. 26.06.1995), dal 2001 è in concessione all'Università degli Studi di Padova: qui si svolgono campagne annuali di scavo come tirocinio per gli allievi della Scuola di Specializzazione in Archeologia e gli studenti di corso di laurea.  



L'area termale della villa era degna delle grandi dimore coeve del Lazio o della Campania, sia nella forma dell'architettura che nell'arredo decorativo. Il che presuppone una committenza di altissimo rango, anche se non ne conosciamo assolutamente l'identità.

Le caratteristiche geotecniche del terreno da edificare, di bassura e dunque con forte tendenza all'impaludamento, imposero ai costruttori un preliminare sforzo di livellamento e la successiva bonifica dell'area tramite poderosi riporti di terreno impermeabile e l'escavo di almeno un canale perimetrale.


Dal punto di vista architettonico, la villa si articolava in due quartieri residenziali, affacciati su due, forse tre aree scoperte. Il quartiere residenziale settentrionale, il più articolato e meglio conservato, oggi protetto da coperture evocative dei volumi originari, aveva come fulcro una sala di rappresentanza di quasi 130 mq, accessibile da nord e da sud, divisa in tre navate da due file di colonne e caratterizzata da una preziosa pavimentazione in sottili lastre di pietra ("opus sectile") bianche e nere.


Tutti gli altri ambienti si disponevano intorno a questa sala secondo una rigorosa simmetria. Di alcuni di essi si conservano le pavimentazioni musive: tappeti di tessere nere bordate da fasce bianche (vani 2, 3, 8) o viceversa (vani 6, 10, 12, 22).

Il mosaico del vano 4 presenta un motivo "a zampe di gallina" bianco su fondo nero e la fascia di bordura, anch'essa bianca, risparmia da un lato una sorta di nicchia, nella quale forse era posto in origine un letto, connotando così la stanza come funzionale al riposo ("cubiculum").

Un pavimento straordinario, oggi purtroppo perduto se non per piccoli lacerti, doveva decorare il vano 5: un altro "opus sectile", stavolta policromo e tutto di lastre di marmo, con un motivo di quadrati e rombi. Anche le pitture e gli stucchi che decoravano le pareti e i soffitti di questa lussuosa dimora si conservano per piccoli frammenti, inclusi nel terreno rimaneggiato in seguito; essi tuttavia sono testimoni da un lato della raffinatezza della scelta decorativa e dall'altro della maestria dei pittori  impiegati.

La sequenza di vani simmetrici si affacciava su due corridoi (17a, 18).
Il meridionale (17a) costituisce uno dei quattro bracci di un portico (17a, 17b, 17c, 17d) che delimitava un vasto giardino. Un secondo giardino più grande, animato da vialetti e giochi d'acqua, si sviluppava a sud, oltre un lunghissimo corridoio a nicchie e con fronte porticata (H); su questo si affacciava il secondo quartiere residenziale, che comprendeva almeno una sala da pranzo (E: "triclinium") e un ulteriore vasto ambiente di rappresentanza (G), oltre ad alcuni vani di servizio (C, I, M).

Il recinto del giardino più grande formava a sud un'ampia esedra, al culmine della quale, in perfetta simmetria con la sala 1, si trovava un ambiente (b) il cui ingresso dal giardino doveva essere scandito da colonne. Si ipotizza che questo ambiente fosse funzionale allo svolgimento di un qualche culto privato, come del resto tipico nei giardini ben apparecchiati delle ville romane; tra l'altro, proprio lì vicino, appena fuori del recinto della villa, erano state deposte in una fossa alcune anfore e una brocca coricata, come una sorta di rito di fondazione.

La villa subì alcuni rimaneggiamenti nel II e ancora tra III e IV secolo d.c.; in seguito probabilmente venne abbandonata.

In questo luogo, reso suggestivo da un’illuminazione particolare ed evocativa, sono visibili i resti di un grande complesso termale di età romana (fine del I secolo a.c. - II secolo d.c. circa), scoperto nel 1996 in occasione dei lavori di ampliamento dell’Hotel Terme Neroniane.

Sono riconoscibili un'ampia sala rettangolare absidata, parte del sistema di circolazione idrica, forse un porticato e altri ambienti destinati a uso ricreativo.
Gli imponenti condotti per la circolazione dell'acqua termale, che circondavano l’ambiente principale, erano verosimilmente connessi con una grande piscina rettangolare, rinvenuta più a nord degli edifici visibili e alimentata da una sorgente termale naturale.
Le soluzioni tecniche adottate, la qualità dei materiali impiegati, l’eleganza e la ricchezza dei rivestimenti riconducono a una committenza raffinata e a una classe sociale di alto rango.




ACQUEDOTTO APPIO CLAUDIO

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AQUA APPIA
Plinio il Vecchio (23-79 d.c.) scrisse: "Chi vorrà considerare con attenzione la quantità delle acque di uso pubblico per le terme, le piscine, le fontane, le case, i giardini suburbani, le ville; la distanza da cui l'acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto il mondo è mai esistito di più meraviglioso."

L'Aqua Appia fu il primo acquedotto romano costruito nel 312 a.c. da Appius Claudius Caecus e Caius Plautius, prima di allora, Roma si serviva delle acque del Tevere, dei pozzi e delle sorgenti. Dal 312 a.c., affluì a Roma una quantità enorme di acqua potabile, come nessun'altra città del mondo antico, e che valse alla città il titolo di "regina aquarum" (regina delle acque).

PERCORSO DELL'ACQUEDOTTO APPIO CLAUDIO (INGRANDIBILE)
Per realizzare l'acquedotto si dovevano anzitutto cercare le sorgenti e le vene acquifere da utilizzare, che dovevano essere di alta qualità, di flusso abbondante e regolare e dovevano risiedere sufficientemente in alto, per fornire la giusta pendenza alla conduttura che portava l'acqua fino a Roma.

Fu il console plebeo Caius Plautius a cercare e scoprire le sorgenti e per questo acquisì il cognomen Venox, per la sua straordinaria abilità dimostrata nel rintracciare le "venae" d'acqua. (Liv. IX.29.6; Plin. NH XXXVI.121; Frontinus, de aquis I.4‑7, 9, 18, 22). La scoperta venne descritta da Frontinus e avvenne nell'agro Lucullano, 780 passi a sinistra della via Praenestina, tra il VII e l'VIII miglio, ma le sorgenti non sono mai state del tutto identificate, probabilmente asciugate nel tempo, anche se molti ritengono che si trovassero nei pressi della località detta "La Rustica".

All'amministrazione delle acque, cioè alla "cura aquarum" durante la Repubblica vi era preposto un censore (ed il "curator aquarum" durante l'Impero), che provvedeva con i dipendenti del suo ufficio, a mantenere gli impianti efficienti, puliti e con erogazioni costanti. Questo "ufficio", denominato Statio Aquarum, aveva sede nella Porticus Minucia Vetus, oggi Area Sacra di largo di Torre Argentina.


Scaduti poi i 18 mesi della carica di censore Caius Plautius abdicò pensando che il suo collega avrebbe fatto lo stesso come di dovere. Invece il patrizio Appio Claudio rimase in carica e nonostante il progetto e la scoperta delle sorgenti fossero del collega, dedicò l'acquedotto al suo nome attribuendosene indebitamente il merito.

L'acquedotto Appio nel suo lungo funzionamento fu restaurato tre volte: nel 144-140 a.c. da Quintus Marcius Rex, in occasione della costruzione dell'acquedotto dell'Aqua Marcia; nel 33 a.c., quando Agrippa prese nelle sue mani il controllo di tutto l'apparato idrico della città; e tra l'11 e il 4 a.c., per volere di Augusto.

Per l'occasione Augusto fece edificare un canale sotterraneo parallelo al condotto principale, che captava acqua da sorgenti poste verso il VI miglio della via Prenestina e, dopo un percorso di circa 9,5 km., si univa all'acquedotto principale nei pressi dell'attuale viale Manzoni. Ne risultava un notevole potenziamento della portata, che in tal modo raggiungeva le 1.825 quinarie (75.737 m3 in 24 ore, pari a 876 litri d'acqua al secondo).

SPES VETEREM
Questo canale era quasi interamente sotterraneo, 11.190 passi di lunghezza, fino alle Saline di cui solo 60 passi vicino alla porta Capena erano portati su sostruzioni e su archi. Vicino alla Spes Vetus (Porta Maggiore) l'acquedotto venne unito ad un altro ramo chiamato Augusta perché costruito da Augusto, le cui sorgenti erano 980 passi a sinistra del VI miglio della via Praenestina, vicino alla via Collatina. Il canale dell'aqua Augusta era lungo 6380 passi, e un pezzo del suo canale è descritto in BC 1912, 232-233.
I due canali, l'Aqua Appia e l'Aqua Augusta, si univano in località detta "ad Gemellos" (evidentemente alludendo ai due canali), corrispondente alla zona oggi compresa tra viale Manzoni e via di S.Croce in Gerusalemme.

Dalla porta Capena l'acquedotto correva sottoterra, e resti del suo canale furono rinvenuti nel 1677 e nel 1887 tra l'Aventinus minor e l'Aventinus maior a sud-est della Via di Porta S. Paolo (LF 35, 41).
Quindi l'acquedotto passava sotto l'Aventino, fin sul fondo del clivus Publicius vicino alla porta Trigemina (Frontino I.5) presso il Foro Boario. 

Da qui, tramite castelli secondari, l'acqua veniva distribuita in vari punti della città, e si suppone che abbia potuto rifornire anche il vicino "Portus Tiberinus". Il condotto era costituito da blocchi di tufo connessi tra loro e muniti di cavità centrale. Ebbe il livello più basso di tutti gli acquedotti successivi.



IL CUNICOLO SEGRETO DELL'ACQUEDOTTO APPIO 
(Fonte: Repubblica.it)

Prima nove antichi pozzi romani, a distanza di 45 metri l'uno dall'altro, di due metri per due, foderati di tufo. E poi sotto, esplorati dagli speleologi, cinquecento metri di un acquedotto che riaffiora al "sesto miglio" della Prenestina, proprio davanti alla facciata di mattoncini rossi del nuovo ipermercato Esselunga. La scoperta è stata fatta dagli archeologi della Soprintendenza guidata da Francesco Prosperetti. E si tratterebbe proprio di quell'acquedotto Appio, di cui trentacinque metri di tracciato sono stati riportati alla luce a diciassette metri di profondità nelle viscere del Celio durante gli scavi per i lavori della linea C della metropolitana.

TERME TAURINE O DI TRAIANO (Civitavecchia)

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LE TERME
Il sito archeologico delle Terme Taurine sorge, molto isolato, sopra una collina immersa nel verde, a circa 5 km dal centro di Civitavecchia, in direzione di Tolfa. Dalla collina si godeva fin da allora di una stupenda vista panoramica sul mar Tirreno. 

Conosciute anche come Terme di Traiano, dal nome dell'imperatore romano fondatore della città di Centumcellae, oggi Civitavecchia, sono uno dei più importanti complessi termali di età romana di tutta l’Etruria meridionale.
(INGRANDIBILE)

Un tempo venne identificato con la Villa di Traiano, ma si tratta invece di una vasta struttura termale costruita in epoca repubblicana e notevolmente ampliata in età adrianea.

Ubicato a nord di Civitavecchia e fatto oggetto di scavi intorno alla metà del 1700, l'imponente complesso termale fu edificato in due tempi diversi.

All'epoca repubblicana è riferibile un settore che, probabilmente realizzato a integrazione della vicina fonte termale della Ficoncella, si avvale di: un peristilio di ingresso, un taepidarium, un laconicum, un calidarium e altri piccoli vani di servizio. 

Di età traianea è invece un grandioso ampliamento caratterizzato da ambienti la cui monumentalità sottolinea la particolare importanza del complesso, sicuramente frequentato fino alla fine del V secolo d.c.

Le terme vennero descritte nello struggente diario di viaggio del poeta Rutilio Claudio Namaziano nel 416 d.c., il quale narra che il nome nasce da una leggenda secondo cui un toro sacro, secondo alcuni Giove stesso trasformatosi in toro, avrebbe raspato la terra prima di iniziare una lotta, e così sarebbe scaturita la sorgente di acqua calda sulfurea dalle proprietà benefiche. 

IL CALIDARIUM
Sembrerebbe invece che il termine Taurine deriverebbe dal nome dell’antico lago dal quale scaturiva la sorgente, ovvero Aquae Tauri, ma viene da pensare che il laghetto e la sorgente provenissero nella leggenda dallo stesso mito.

Alle pendici dei monti della Tolfa, infatti, in vicinanza dell'antico laghetto di Aquae Tauri, sgorgava la sorgente che ancora oggi passa per le Terme Taurine, che però per varie ragioni di conservazione del sito, sono state deviate.



RUTILIO CLAUDIO NAMAZIANO

Rutilio Namaziano fu præfectus urbi di Roma nel 414, ma poco dopo fu costretto a lasciare Roma per far ritorno nei suoi possedimenti in Gallia devastata dall'invasione dei Vandali. Il viaggio, condotto per mare e con numerose soste, perché le strade consolari erano impraticabili e insicure dopo l'invasione dei Goti, venne da lui descritto nel "De reditu suo", l'unica opera certamente sua rimastaci seppur incompleta.

IL TIEPIDARIUM
Il viaggio è una compilazione tristissima della devastazione barbarica (già c'era stata quella cristiana su tutti i santuari, statue e templi pagani) sul suolo italico già stupendo e ricco di monumenti e di opere d'arte.

Non si trattò di un saccheggio perchè questo fa danni ma non comporta necessariamente la distruzione, cosa che avvenne invece sull'impero romano: un desiderio malvagio di cancellazione di tutto ciò che di più bello e più civile vi fu al mondo.

Rutilio descrive con amarezza la decadenza morale e civile del popolo, ma soprattutto della politica imperiale e senatoria. Da un lato l'imperatore viveva nella sua corte dorata a parte dalla vita pubblica, dall'altra i senatori erano dediti a gozzoviglie e arricchimento. Nessuno più si preoccupava del benessere delle classi plebee.

Per giunta il popolo romano era stremato dagli influssi migratori del nord Europa, per le loro razzie, distruzioni, eccidi anche di donne e bambini, specie i Goti, sempre più minacciosi dopo l'invasione di Alarico.


Caduti gli ideali della patria e dell'onore per cui gli stessi imperatori scendevano in guerra a capo dei loro eserciti per difendere l'impero, c'era una depressione totale per la vigente religione che parlava solo di catastrofi, di sacrifici e di terribili punizioni nella vita ultraterrena, tanto che era gradito l'immolarsi per il nuovo credo facendosi deliberatamente perseguitare.

Terminate le persecuzioni cristiane erano iniziate poi quelle pagane con la conversione coatta pena la morte e la confisca dei beni. Ogni luogo sacro venne distrutto, ogni cosa allegra venne mortificata.

L'abbandono e la demolizione dei templi, l'incuria dei nobili e dell'imperatore, narra Rutilio, fanno apparire tutti i temi di una catastrofe in parte avvenuta ma soprattutto imminente, mentre le strade e gli edifici pubblici non sono più sicuri. Alla descrizione della decadenza, si oppongono ricordi appassionati e lontani della bellezza e della grandezza dell'Urbe. 




DESCRIZIONE

L’impianto termale era costituito da una serie di sale adibite alle più svariate attività, oltre a quelle tipiche delle terme. Nella visita al monumento si possono infatti notare delle vasche, sale massaggi, spogliatoi, camere da letto ma anche una palestra e una biblioteca, il tutto decorato con fregi, mosaici e marmi. 

Per i bagni terapeutici e rilassanti, che i romani amavano sopra ogni cosa, erano presenti il “Caldarium”, contenenti acqua notevolmente calda, le vasche di acqua fredda dette “Frigidarium” e, in ultimo, il bagno turco o “Tepidarium” con acque moderatamente calde. I romani amavano passare dal calidarium al tiepidarium e poi al frigidarium per risvegliare la circolazione del sangue e tonificare il corpo.


Le Terme Taurine, come spesso si riscontrava in queste edifici, non era solo un luogo per massaggi e bagni, ma un posto dove la gente si riuniva, dove nascevano dibattiti culturali e molto altro. Un luogo frequentato sia da ricchi patrizi che da gente comune fino agli schiavi. 

Chiunque poteva accedere alle terme, anche perchè il suo prezzo era nullo o bassissimo. Ciò che si pagava invece alle terme erano i massaggi, gli oli profumati, le parrucchiere, le truccatrici, i barbieri e così via.


Il complesso è diviso in due aree: 
- le Terme Repubblicane, risalenti al I secolo a.c ed edificate in "opus reticulatum" 
- le Terme Imperiali che risultano edificate tra il 123 ed il 136 d.c, costruite in laterizio. 

In età Sillana (90-70 a.c.) venne eretto il nuovo edificio che prese il nome di Terme Taurine ed ebbe massimo sviluppo in età Traianea, seguito da un ulteriore ampliamento verso la fine dell'impero di Adriano.

La zona termale fu notevolmente frequentata durante tutta l'età imperiale fino alla decadenza dell'impero. Tra le rovine si conservano vasche, sale massaggi, bassorilievi,  decorazioni e mosaici con motivi ornamentali.


Nella parte più antica c’è una nicchia con una stele e una scritta in greco: l’autore è Alcibiade, un liberto, ossia uno schiavo liberato. Sembra che abbia chiesto una grazia per essere guarito da alcune infermità e qui lasciato una sorta di ex voto rappresentata dalla statua di una ninfa, che però, tanto per cambiare, vista l'incuria del luogo, è stata rubata.
L'area delle terme di proprietà dello Stato Italiano, oltre che sito archeologico è teatro anche di eventi museali, musicali ed artistici. Nel 2016 ha fatto registrare 3010 visitatori.

L'impianto che si estende su due ettari accoglie un orto botanico caratterizzato dalla piantumazione di essenze antiche. Oggi nel parco archeologico non c’è più acqua, però il vicino complesso termale della Ficoncella è tuttora attivo e meta di turismo grazie alle sue proprietà terapeutiche.



NOVA TRAIANA BOSTRA - BOSRA ( Siria )

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Bosra, detta anche: Bostra, Busrana, Bozra, Nova Trojana Bostra, è un'antica città nel sud della Siria, che per un certo periodo fu capitale del regno nabateo (l'area che fungeva da confine fra la Siria e l'Arabia, dall'Eufrate al mar Rosso) e successivamente divenne capitale della Provincia Arabica (creata nel 106 da Traiano e affidata ad un legatus Augusti pro praetore di rango pretorio sotto i romani, detta Arabia Petraea.

Bosra, che in aramaico significa cittadella, è una cittadina dal prestigioso passato, caratteristica per le sue costruzioni in pietra nera di basalto. Situata a circa 140 km a sud di Damasco, nei pressi della frontiera giordana, fu nel passato un importante punto strategico all'incrocio delle vie carovaniere tra Mar Mediterraneo e Golfo Persico e tra l'Anatolia ed il Mar Rosso.

Attualmente è un importante sito archeologico con un ben conservato teatro romano e, dal 1980, fa parte dei patrimoni mondiali dell'umanità della nazione mediorientale.



LA STORIA

Il nome di Bosra è citato nelle preziose tavolette di Tell el-Amarna in Egitto, che risalgono al XIV secolo a.c. e rappresentano la corrispondenza reale scambiata tra i faraoni e i re fenicio e amorrei.
Qui la città viene citata per la prima volta negli archivi del Faraone Akhnaton esattamente nel 1334 a.c.

Dopo la conquista della regione da parte di Alessandro Magno (365 a.c. - 323 a.c.), Bosra fece parte del regno della Dinastia seleucide. Nel 163 a.c., la città venne conquistata da Giuda Maccabeo, l'eroe della ribellione ebraica contro l'oppressione del re Antioco IV Epifane, sovrano di Siria e dell'area palestinese, che, salito al trono nel 176 a.c., aveva tentato di ellenizzare il mondo ebraico e di abolire il monoteismo, nominando sommi sacerdoti greci, obbligando gli Ebrei ad abiurare, pena la morte, proibendo la circoncisione nonché l'osservanza del sabato.

Inoltre consacrò a Zeus un altare del tempio di Gerusalemme. Fece insomma quello che gli ebrei fecero per mezzo di Ezechia (716-687), distruggendo tutti i culti cananei, uccidendo i cittadini o obbligandoli a convertirsi pena la morte. Nel I secolo a.c., la città venne dominata dal regno nabateo e, tra il 70 e il 106 d.c. divenne capitale dei Nabatei sotto il re Rabbel II.

IL DECUMANO
Dopo una lunga campagna Aulo Cornelio Palma Frontoniano, un generale dell'imperatore Traiano, nel 106, sconfisse i Nabatei e per questo fu nominato governatore d'Arabia, dove godette di una forte popolarità.

Traiano nel 105 conquistò la nuova provincia d'Arabia, posta tra il fiume Giordano ed il Mar Morto, zona desertica e povera di risorse, ma fiorente per i commerci con Persia, India ed altri prosperosi centri quali Petra e Bosra, che divenne capitale della Provincia Arabica, col nome di "Nova Traiana Bostra", nonchè sede stanziale della Legio VI Ferrata e poi, dal 123, della Legio III Cyrenaica.

In questo periodo la città assunse importanza strategica e aumentò la sua importanza dal punto di vista economico. Nel 129, la città venne visitata dall'imperatore Adriano. 

Nel III secolo ebbe il periodo di massimo splendore, poi Alessandro Severo (208 -235) il buon imperatore dal motto:«Quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris» (Non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te) la rese colonia per cui si chiamò "Colonia Bostra". 

Infine Filippo l'Arabo (204 - 249), successore di Gordiano III, la dichiarò metropoli cambiando il suo nome in "Colonia Metropolis" ovvero "Filippopoli" per la quale l'imperatore fece coniare una moneta speciale. (244-249). Con i Bizantini fu sede arcivescovile.
RESTI DEL PALAZZO DI TRAIANO
Nel 260, la cerchia di mura fu rinforzata per difesa dagli eventuali assalti dei re sasanidi, ma, nel 269, la città venne conquistata dall'esercito di Palmira della regina Zenobia (240 - dopo 275), che distrusse il tempio di Giove Ammone, nume tutelare della Legio III Cyrenaica.

La base della Legio III Cyrenaica, occupava circa 17 ettari; nel 115 fu colpita da un terremoto e venne ricostruita soprattutto mediante il lavoro di questa legione. La III Cirenaica la ritroviamo ancora a Bosra all'inizio del V secolo.

Fin dal II secolo la città era divenuta sede episcopale; dopo varie vicissitudini Bosra conobbe ancora un periodo di prosperità, nel VI secolo, sotto il regno di Giustiniano I, arricchendosi di nuovi palazzi e nuove chiese, purtroppo molto a spese dei vecchi edifici romani e soprattutto pagani, visto che ormai il cristianesimo era obbligatorio per tutti.

Ma nel 634 verrà conquistata da Khalid ibn al-Walid (592 - 642) considerato il miglior uomo d'armi del periodo islamico classico, tanto da essere normalmente ricordato come la "Spada dell'Islam" (Sayf al-Islām).e da questa data rimase sotto il dominio arabo.

PORTA OCCIDENTALE DEL VENTO

I RESTI ARCHEOLOGICI

Il glorioso passato dell'antica Bosra si evince dai numerosi e splendidi resti archeologici, che possono rivaleggiare con Jerash, Palmyra, e Apamea. Tra questi il monumento più importante è il teatro romano del II secolo d.c., numerose chiese cristiane sorte sui monumenti romani, le strade e le mura. 

La città è stata inserita nella lista dei siti di importanza mondiale dell'UNESCO nel 1980.
Certamente le sue opere d'arte si accrebbero soprattutto quando divenne la capitale della appena fondata Provincia di Arabia, l'Arabia Felix, in seguito alla conquista romana della fertile regione di Hauran nel 106 d.c.

Di certo una nuova era si aprì per la città quando fu integrata nell'impero romano, data l'abitudine degli imperatori romani di abbellire, ingrandire e arricchire le proprie province e soprattutto le proprie colonie. Riedificarle sullo stile romano era il miglior modo per romanizzarle.

Durante il periodo bizantino, la Bosra ebbe un ruolo importante come mercato di frontiera per le carovane arabe. I suoi vescovi hanno preso parte al Concilio di Antiochia. Bosra è la prima città bizantina a cadere nelle mani degli arabi nel 634, durante la fase di espansione islamica. 


Oggi, Bosra è un importante sito archeologico in cui convivono rovine di epoca romana, bizantina e musulmana. La città ha anche monumenti nabatei e romani, chiese cristiane, moschee e madrase.
Vennero edificati nel II secolo: il teatro, diverse cisterne, le terme e forse un ippodromo; risale agli inizi del III secolo l'arco della porta centrale. 

Di questa città, che una volta contava 80.000 abitanti, oggi rimangono importanti resti di edifici nabatei, romani, bizantini. I monumenti più caratteristici rimasti a Bosra testimoniano l'eccezionale valore universale del sito. 

La loro ambientazione, tuttavia, pone problemi perché un villaggio moderno si è sviluppato in mezzo alle rovine. Una politica di reinsediamento istituita dalla Direzione Generale delle Antichità e dei Musei (DGAM) consente alla maggior parte delle famiglie di trasferirsi in nuove case al di fuori delle vecchie mura cittadine. 

Alla fine di questa operazione, la città vecchia sarà nuovamente abbandonata per essere completamente portata alla luce e diventare una città morta che rinascerà come museo all'aperto.
IL TEATRO

IL TEATRO

Il suo monumento più caratteristico è il teatro romano del II secolo, probabilmente costruito sotto Traiano, che è stato completamente preservato. E 'stato fortificato tra il 481 e il 1251.

Il teatro romano del II secolo, eccezionalmente intatto e completo con la sua galleria superiore, fu incorporato nelle successive fortificazioni per creare una potente cittadella a guardia della strada di Damasco, costituendo così un risultato architettonico unico.

Venne costruito con pietra basaltica, risalente alla prima metà del II sec. e poteva contenere seduti fino a 15.000 spettatori che potevano essere accomodati o evacuati in soli 15 minuti. La scena e il frontescena sono ben conservati, mancano però i marmi policromi che lo rivestivano, e delle colonne corinzie che lo decoravano, è rimasto solo il primo ordine.
CHIESA A TRE NAVATE DELLE TERME SUD

LA BASILICA

I resti della basilica del VI secolo, i martiri Sergios, Bacchos e Leontios, che divenne la cattedrale di Bosra, rappresentano un esempio estremamente significativo di una chiesa con un piano centrato che ha segnato l'evoluzione delle prime forme architettoniche di chiese.

Non dimentichiamo che Bosra, a circa 140 km a sud di Damasco, nei pressi della frontiera giordana, fu nel passato un importante punto strategico all'incrocio delle vie carovaniere tra Mar Mediterraneo e Golfo persico e tra l'Anatolia ed il Mar Rosso.

LE TERME

LA SOFFERENZA DEL SITO

Il sito ha sofferto di atti di vandalismo e negligenza e non ci sono piani completi per la sua conservazione. Le risorse finanziarie e tecniche sono estremamente necessarie per lo sviluppo e l'attuazione di un piano generale di conservazione per questa meraviglia classica.

Il bombardamento ininterrotto nella campagna orientale di Daraa ha inflitto danni sufficienti all'anfiteatro romano nell'antica cittadella Bosra al-Sham, nel sud della Siria.

Ahmad al-A'dawi, capo dell'Ufficio delle Antichità di Bosra, ha dichiarato a Enab Baladi che le forze aeree siriane e russe hanno preso di mira la cittadella con quattro raid aerei il 28 giugno, causando un enorme danno al luogo.

Ha aggiunto che i raid aerei hanno in gran parte influenzato il secondo e il terzo piano del teatro romano, oltre al danno "serio" del cortile dell'orchestra della Cittadella.

In effetti le città e i paesi di Daraa stanno subendo un'escalation di azioni militari da parte del regime siriano e del suo alleato russo, iniziato nove giorni fa, in un notevole progresso delle forze del regime nelle parti rurali orientali e occidentali di Daraa a spese del fazioni di opposizione.

I DANNI DEL TEATRO
Le fazioni dell'opposizione hanno avuto il controllo totale sulla città di Bosra al-Sham nel marzo 2015 e hanno formato un corpo noto come "Ufficio delle Antichità di Bosra", per proteggere, restaurare e documentare i monumenti e i musei della città.

Questa non è la prima volta che il regime siriano prende di mira le rovine di Bosra, perché questo è stato preceduto da un'altra offensiva che ha seguito il controllo della fazione di opposizione sulla città, che si è conclusa con la deturpazione del sito archeologico.


Necessità di protezione e gestione (2009)

La proprietà è protetta dalla legge 222 sulle antichità, modificata nel 1999. Non ha un piano di gestione e sorgono problemi di conservazione a causa di controversie con la comunità e mancanza di fondi e risorse così come la mancanza di manodopera qualificata.

La Direzione Generale delle Antichità e dei Musei cerca di risolvere questi problemi con l'aiuto di istituzioni nazionali e internazionali e di esperti stranieri.


Il governo siriano ha recentemente lanciato una bozza di piano generale per riconoscere l'importanza del sito e supervisionare l'uso futuro della città di Bosra. Nel 2007 è stato istituito un comitato di protezione per sostenere questo progetto.

La Direzione Generale delle Antichità prepara una serie di specifiche per l'implementazione di un sistema di informazione geografica (GIS) sul sito; il progetto è iniziato nel 2009 e durerà un anno. La struttura della proprietà dovrebbe essere protetta creando una zona cuscinetto definita e concordata.



QUINTO FABIO PITTORE - QUINTUS FABIUS PICTOR

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TRIONFO DI QUINTO FABIO MASSIMO

Nome: Quinctus Fabius Pictor
Nascita: 270 a.c. circa
Morte: 190 a.c.
Gens: Fabia
Professione: Politico e storico romano

"Udiamo ciò, che intorno ad essa ne narra Plinio, l’unico tragli antichi Autori, che 225 abbia stesamente trattato di tale argomento. Presso i Romani ancora, egli dice, quest’arte (della Pittura) salì presto ad onore; perciocché i Fabj, famiglia d’illustre lignaggio, da essa il soprannome ebbero di Pittori; e il primo, che lo avesse, dipinse egli stesso il tempio della Salute l’anno di Roma 450, la qual pittura fino alla nostra età si mantenne, in cui quel Tempio sotto l’Impero di Claudio fu consumato dal fuoco."

(Girolamo Tiraboschi - Storia della letteratura italiana - 1787)



LE ORIGINI

Quinto Fabio Pittore ovvero Quinctus Fabius Pictor (260 a.c. circa – 190 a.c.) nato all'incirca nel 270 a.c., di famiglia patrizia, appartenente alla ricca e sfortunata gens Fabia, fu uno dei primi storici romani in prosa, il primo degli annalisti, un'importante fonte per gli scrittori successivi. Egli fu figlio di Gaius Fabius Pictor, console nel 269 a.c. e nipote di Gaius Fabius Pictor, il pittore. Secondo alcuni nacque nel 26. Il suo cognome deriva dall'attività esercitata dal nonno, il patrizio Gaio Fabio Pittore (Gaius Fabius Pictor), autore nel 304 a.c. di pregevoli pitture nel tempio della Salute, al Quirinale.

Fabius da bravo romano fece la sua parte in battaglia e combatté prima con i Galli Insubri (popolazione celtica o celtiligure stanziata nell'Italia nord-occidentale) nel 225 a.c. e contro i Cartaginesi nella Seconda Guerra Punica (218-201), ovvero contro Annibale Barca (247 a.c. - 183 a.c.). dove si dovette distinguere tanto che divenne senatore.

Fu in tale carica che venne inviato in missione all'oracolo di Delfi dopo la disastrosa sconfitta romana a Canne (216) (sede del più importante e venerato oracolo del Dio Apollo) per cercare consigli da Apollo dopo la sconfitta dei Romani a Canne nella II guerra punica. e forse anche per sollecitare l'aiuto della lega etolica contro la minaccia della Macedonia.

A causa del responso di Apollo vengono celebrati i Ludi del 212; ma anche a Roma vigono le predizioni, e quelle di un indovino chiamato Martius sono ritenute “degne” di entrare a far parte della raccolta sibillina, poiché una di esse annunciava con precisione la disfatta di Canne.

Quinto Fabio comunque sconfisse i Messapi, alleati di Annibale, ponendo fine alla loro autonomia e fu l'autore della presa di Ozan, l'odierna Ugento. Durante l'Impero Romano, Ugento entrò a far parte del grande disegno espansionistico di Roma, divenendo municipio alleato. In occasione delle guerre puniche contro Cartagine, cercò di opporsi alleandosi con Annibale, nella vana speranza di riconquistare l'antica autonomia.

L'epilogo della guerra in favore di Roma fu pagata a caro prezzo per opera del Console Romano Numerio Fabio Pittore eletto nel 266 a.c., che con le sue legioni attaccò e conquistò la Città. Fu l'ultima città messapica a resistere alle truppe romane.

NUMERIUS FABIUS PICTOR

LA LINGUA GRECA  

Fabius la scrisse in greco, sia perchè era la lingua delle persone colte (nelle famiglie patrizie o plebee facoltose tutti i ragazzi studiavano greco per poter leggere i trattati greci di filosofia, di letteratura e di storia) sia perché cercava di far conoscere ai greci la storia romana che aveva anch'essa, come quella greca, una sua gloria. In fondo greci e romani avevano un'affinità non condivisa con altri popoli. La civiltà greca aveva profondamente inciso su Roma, nella politica e nell'arte, del resto metà del suolo italico era greco.

Pertanto T. Quinzio rimarcò l'affinità di stirpe tra Greci e Romani, giustificando in parte l'espansionismo dei romani e cercando di rappresentare la potenza di Roma. Del resto diversi secoli più tardi la Grecia, dovendo scegliere tra la dominazione persiana e quella romana scelse la seconda arrendendosi totalmente ai romani purchè li salvassero dal dominio orientale, ritenuto barbaro e crudele.

Per i tempi più antichi Quinto Fabio attinse non soltanto alle narrazioni storiche greche, ma anche a monumenti pubblici, a documenti familiari e a carmi latini epici ed epico-lirici. L'esposizione relativa ai primi secoli della repubblica fu ovviamente più sommaria e lacunosa disponendo di poco materiale; interessante è la versione della leggenda troiana che rimase poi tradizionale.

Per le guerre sannitiche lo erudì la tradizione familiare, ma quella della Prima Guerra Punica era molto particolareggiata, attingendo agli atti degli archivi e ai ricordi dei vecchi, e della Seconda fu scrittore contemporaneo oltre che attore-spettatore. Per le due Guerre Puniche fu infatti una fonte importante per le notizie romane di Polibio; mentre per i tempi più antichi sono dubbi i suoi rapporti con Diodoro.

Indubbiamente la sua storiografia fu ispirata alla storiografica ellenistica contemporanea, soprattutto alla produzione di Timeo di Tauromenio. Egli stesso rielaborò numerose fonti, attingendo molto dalla documentazione costituita dagli Annales pontificum, raccolte stilate dal pontifex maximus e comprendenti testimonianze sugli eventi occorsi nell’arco di un anno.

La sua storia, ora perduta, era un resoconto dello sviluppo di Roma fin dai primi tempi della sua fondazione, che noi conosciamo in parte solo tramite gli autori che a lui hanno fatto riferimento. Il resoconto storico andava dalle origini dei Romani, considerati come discendenti di Enea, sino alla fine della seconda guerra punica (il frammento più recente si riferisce alla battaglia del Trasimeno).
La sua opera si concluse con i ricordi della Seconda Guerra Punica, di cui diede la totale colpa a Cartagine, in particolare alla famiglia Barca di Amilcare ed Annibale. Si trattò dello scontro di due potenze che esigevano il dominio del Mediterraneo per i proficui scambi commerciali prima e per l'assoggettamento delle genti dopo. Roma faceva alle altrui terre quello che già aveva fatto Cartagine sulle stesse terre. Fabio datò la fondazione di Roma nel "primo anno dell'ottava Olimpiade" o 747 a.c., secondo Dionigi di Alicarnasso.

GENS FABIA

FONTE PER GLI ANNALISTI

Fabio attinse agli scritti degli storici greci Diocle di Peparethus, che avrebbe scritto una prima storia di Roma, e Timeo, che aveva scritto di Roma nella sua storia dei greci occidentali. A sua volta, Fabio fu usato come fonte da Plutarco, Polibio, Livio e Dionigi di Alicarnasso. Al tempo di Cicerone la sua opera era stata tradotta in latino.

Anche se Polibio lo ha usato come fonte, egli accusa Fabio di essere parziale verso i Romani e con una certa incoerenza, ma comunque, sotto il nome di Pictorinus, fu uno degli storici greci che venne inserito nell'antica scuola di Taormina, in Sicilia.

Praticamente l'unico esempio di pittura a Roma e nel Lazio di essere sopravvissuti prima del I secolo è un frammento di una tomba storica con scene delle guerre sannitiche, rinvenute in una tomba di famiglia sull'Esquilino e risalente probabilmente al III secolo a.c., oggi conservato ai Musei Capitolini nel Palazzo dei Conservatori.

Oltre a Metrodoro e Demetrio, antichi scrittori menzionano i nomi di tre pittori, ognuno dei quali lavorava in un tempio: Fabius Pictor, nel Tempio di Salus a Roma alla fine del IV secolo; Marcus Pacuvius, drammaturgo e nativo di Brundisium, nel Tempio di Ercole nel Foro Boario di Roma nella prima metà del II secolo, Lycon, un greco asiatico, nel Tempio di Giunone ad Ardea tra la fine del III e l'inizio del II secolo. Non si sa nulla del lavoro di questi artisti.

La ricerca e la scrittura storica erano fiorite a Roma all'incirca dal 200 ac., cioè dal primo storico romano Quinto Fabius Pictor. Vi erano state due principali ispirazioni a motivarle: l'interesse antiquario e la motivazione politica. Già dopo il 100 ac, si era sviluppato un interesse diffuso per le antiche cerimonie, le genealogie familiari, costumi religiosi e simili.

Questo interesse ha trovato espressione in una serie di opere accademiche: Tito Pomponio Attico, amico e corrispondente di Cicerone, scrisse sulla cronologia e sulle famiglie troiane; altri compilarono lunghi volumi sulla religione etrusca; Marcus Terenzio Varrone, il più grande studioso della sua epoca, pubblicò l'enciclopedica Divina e Umana Antiquities.

LA FONDAZIONE DI ROMA

Il livello degli elaborati non era sempre elevato, e potevano esserci pressioni politiche o desiderio di ingraziarsi i potenti, come per derivare la famiglia giulia di Giulio Cesare dal leggendario Enea e dai Troiani; ma i Romani erano molto consapevoli e orgogliosi del loro passato, e certe storie infiammavano gli animi.

Fabius Pictor era stato un pretore, il maggiore Catone era stato console e censore, e Sallustio era un pretore. Così anche eminenti uomini di stato come Silla e Cesare si occuparono di scrivere la storia.  Livio era unico tra gli storici romani in quanto non faceva parte della politica.

Questo era uno svantaggio in quanto la sua esclusione dal Senato e dalle magistrature significava che non aveva alcuna esperienza personale su come funzionasse il governo romano, e questa ignoranza si mostra di volta in volta nel suo lavoro. Inoltre questo svantaggio lo aveva anche privato dell'accesso di prima mano a molto materiale (verbali delle riunioni del Senato, testi di trattati, leggi, ecc.) che era conservato nei quartieri ufficiali.

Così, se fosse stato un prete o un augur, avrebbe acquisito informazioni privilegiate di grande valore storico e avrebbe potuto consultare le copiose documenti e documenti dei collegi sacerdotali. Ma Livio non ha cercato spiegazioni storiche in termini politici, ma in termini personali e morali. Lo scopo è chiaramente indicato nella sua prefazione.

Si invita l'attenzione del lettore a considerare molto più seriamente il tipo di vite vissute dagli antenati, chi erano gli uomini e quali fossero i mezzi, sia in politica che in guerra, con cui il potere di Roma venne prima acquisito e successivamente ampliato, volendo anche mettere in luce il successivo declino morale.

Sebbene Sallustio e gli storici precedenti avessero osservato che la moralità fosse in costante declino per Livio ciò era un dolore. Era difficile in quel tempo ritrovare in un singolo individuo la modestia, l'equità e la nobiltà della mente che a quei tempi appartenevano a un intero popolo. Augusto tentò con la legislazione e la propaganda di inculcare ideali morali. Orazio e Virgilio nella loro poesia sottolineavano lo stesso messaggio: che erano le qualità morali che avevano fatto e potevano mantenere grande Roma.

La storia perduta di Fabius di Roma fu in seguito citata da Livio ( Ab Urbe Condita Librii ) come fonte per il suo mito fondatore di Romolo e Remo, come eredi di Enea di Troia, e della linea dei re pre-repubblicani che regnarono dopo di loro. Un retaggio che non sarà mai dimenticato e per cui tutti i romani divennero "figli di Marte".


LE OPERE


ANNALES

L'aristocratico Quinto Fabio Pittore si assunse il compito di scrivere in prosa una storia di Roma in greco, anziché in latino. L'opera, conosciuta come "Annales" o "Rerum gestarum libri", era nota anche in versione latina, probabile frutto di una traduzione fatta in seguito da altri.

POLIBIO
La scelta di scrivere nella koiné greca (linguaggio comune), la lingua greco ellenistica del Mar Mediterraneo, serviva a rivolgersi ad un pubblico più ampio e poter così contrastare altri autori, come Timeo, che aveva scritto, ma con accento sfavorevole, una storia di Roma fino alla II Guerra Punica.
Del resto Filino di Agrigento, allievo di Timeo, aveva scritto la storia delle guerre puniche con un atteggiamento filocartaginese. Lo stesso Annibale, durante la sua discesa in Italia, era stato accompagnato da due storici, Sosilo e Sileno, che avevano l'incarico di stilare il resoconto delle sue imprese.
Per il principio dello "Justum Bellum" (la guerra giusta) si doveva dare una valida giustificazione della politica espansionistica di Roma dimostrando la bona fides (la buona fede, il principio della legislatura romana) del popolo romano e la natura esclusivamente difensiva delle guerre combattute.
Così, pur scrivendo in difesa dello Stato romano, Quinto Fabio Pittore scrisse in greco, usando la cronologia greca basata sulle celebrazioni olimpiche nello stile espositivo ellenistico. 
Egli esaminò i varie testimonianze e documenti storici, Annales pontificum, degli "elogia", storiografie ellenistiche, tra cui quella dello storico greco di Sicilia Timeo di Tauromenio (350 a.c. - 260 a.c.). 
Usò grande accuratezza nell'esposizione di dati e notizie sugli spiegamenti di forze, con attenzione agli aspetti cultuali e cerimoniali.
Dedicò inoltre ampio spazio alla ricerca sulle loro origini, a cui egli si applicò da raffinato erudito.
Lo stile di Quinto Fabio Pittore, nello scrivere la storia difendendo lo Stato romano e le sue azioni, con evidenti fini propagandistici, gli procurò il rimprovero di Polibio (206 - 124 a.c.) per il trattamento riservato alla I guerra punica, ma divenne una caratteristica della storiografia romana. Secondo Polibio, ad esempio, attribuì al solo Annibale la responsabilità della II guerra punica.
Tuttavia egli non fu tendenzioso o in mala fede, ma semplicemente applicò, con intenzioni oneste, un metodo storiografico corretto ad un repertorio di documenti e testimonianze di impronta e provenienza soprattutto romana.

Inoltre pose molta enfasi, ancora più di quanto si usasse nel modello greco, sugli avvenimenti meno remoti, non solo per la maggiore disponibilità di documentazione più vicina, ma anche per il pubblico romano, più interessato alla concretezza dell'attualità rispetto ai trascorsi meno recenti della storia romana, spesso con un'aureola mitica e leggendaria.

DIONIGI DI ALICARNASSO
Come ci informa Plutarco, anche Fabio Pittore, nella narrazione dell'età delle origini, si profuse in ampiezza espositiva, ampiezza di dettagli e stile drammatico e fantastico, ma questo fece di lui anche il precursore dell'arte della letteratura in prosa. Insomma non fu solo cronista ma pure scrittore.

L'opera, di cui rimangono alcuni frammenti, narrava l'intera storia romana includendo il mito di Enea, la fondazione di Roma, datata da Pittore al 747 a.c., e i re albani, per arrivare all'epoca della II guerra punica. La narrazione si concludeva con il resoconto della battaglia del Trasimeno (217 a.c.) o con quello della battaglia di Canne (216 a.c.).

Pittore scrisse dunque gli "Annales" verso la fine del III secolo a.c. e narrò la storia di Roma dal tempo di Enea fino al 217, anno precedente la battaglia di Canne, ponendo la fondazione di Roma al 747 a.c. 

Il testo, Ῥωμαίων πράξεις, è scritto in lingua greca e confuta le accuse di espansionismo imperialistico lanciate in quel periodo dagli storiografi greci parteggianti per Annibale. Dell'opera esisteva anche, per i meno eruditi, una versione in lingua latina, la "Rerum gestarum libri", non si sa però se la scrisse lui stesso.

Nell'opera di Pittore si dice domini un punto di vista aristocratico, per il grande nazionalismo e il gusto eroico della descrizione delle origini di Roma, dell'età regia e degli inizi della Repubblica romana, che dettero vita a molte istituzioni religiosi e civili.

Nazionalismo più sconosciuto alle classi plebee, strano a dirsi, visto che erano la maggior parte dei soldati in tempo di guerra. L'opera di Pittore ottenne comunque a Roma una grande considerazione presso gli intellettuali romani.
Sia Polibio (206 a.c. - 124 a.c.), che Tito Livio (59 a.c. - 17 d.c.) e Dionigi di Alicarnasso (60 a.c. - 7 a.c.) attinsero a questa fonte, e le poche notizie che abbiamo di essa ci sono state tramandate da Dionigi di Alicarnasso. 

TITO LIVIO

DE JURE PONTIFICIO

A Fabio Pittore fu attribuito anche un De iure pontificio, citato da Nonio Marcello, che viene però prevalentemente assegnato a Quinto Fabio Massimo Serviliano.

REX SACRORUM

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REX SACRORUM
Il Rex sacrorum, detto anche Rex sacrificulus o Rex sacrificus era una magistratura durante il periodo della repubblica romana, in pratica era un sacerdote pagato dallo stato, che compieva talune cerimonie religiose che in epoca regia erano di esclusiva pertinenza del re. 

Livio: 
“- Massimo è considerato il Rex, 
- poi viene il Flamen Dialis, 
- dopo di lui il Martialis, 
- in quarto luogo il Quirinalis, 
- in quinto il Pontifex Maximius; 
- il Re perché è il più potente; 
- il Dialis perché è il sacerdote dell’universo, detto Dium; 
- i1 Marziale perché Mars è il padre fondatore di Roma; 
- il Quirinalis perché Quirinus fu chiamato da Cures per essere associato all’impero romano; 
- il Pontefice Massimo perché è il giudice e l’arbitro delle cose divine e umane. 
- Il Re dei Sacrifici è dunque primo nelle precedenze del Collegio Pontificale, è massimo tra i suoi colleghi ed, in quanto Re, è il più potente. 
Tutte qualificazioni che conservano il senso della più alta regalità".

Il Rex sacrorum, di norma un patrizio, non poteva ricoprire cariche pubbliche, mentre la moglie (regina sacrorum) aveva un ruolo sacerdotale nel culto di Giunone. La sua importanza tuttavia venne poi scavalcata da quella del pontefice massimo, ma conservò sempre l’eponimia (il riferimento dell'anno alla sua carica, cosa che poi venne riferita solo ai consoli) e il potere perpetuo finchè era in vita (vitalizio). 

Il Rex sacrorum faceva parte del collegio dei pontefici ma venne sottoposto all'autorità del pontefice massimo. Viveva nella Domus publica sulla Via Sacra, nei pressi del Regia e della casa delle vergini Vestali. 

La Domus era formata da un portico davanti a tre entrate della domus, una principale (che dava sul tablinium) e due laterali (che davano su due stanze). Internamente l'abitazione si apriva in un atrium con due alae. Sulla sinistra una scala portava ad un criptoportico. La parte più interna dell'abitazione proseguiva con un peristylium ed un altro criptoportico che davano su numerose celle/stanze.

REGIFUGIUM

ETA' REPUBBLICANA


I REQUISITI

- il rex sacrorum doveva essere patrizio;
- doveva essere figlio di genitori uniti in matrimonio con l’antica cerimonia della confarreatio
- a sua volta, doveva unirsi in matrimonio per confarreatio;
- non poteva esercitare alcun incarico politico-militare.

Attraverso l'eponimia conosciamo alcuni nomi dei Rex Sacrorum:
509 a.c. - ? Manio Papirio.
270 a.c. - Lucio Postumio Albino  
208 a.c. - Marco Marcio - fu rex sacrorum fino al 210 a.c., l’anno della sua morte.
208 -180 a.c. - Gneo Cornelio Dolabella  che avrebbe accettato la nomina a rex sacrorum solo a patto di conservare l’incarico di duumvir navalis
180 a.c. -? Publio Cloelio Siculo
I secolo a.c. - Lucio Claudio

Quando fu deposto l'ultimo Re di Roma nel 509 a.c., occorreva qualcuno che officiasse i rituali a cui presiedeva il re di Roma, per cui fu istituito il Rex Sacrorum, il re dei riti sacri, che rimpiazzasse il re nei doveri religiosi. Il Rex Sacrorum era in teoria la magistratura religiosa più alta del culto romano, ma in pratica  inferiore del Pontefice Massimo, ma superiore a quella dei flamini.
Non poteva ricoprire qualsiasi altra magistratura, perchè non avesse influenza in ambito militare e civile, per cui la carica non fu mai pretesa dalla plebe e rimase all'aristocrazia finchè non fu abolita, durante il regno di Teodosio I nel 390 d.c.

Tito Livio: "in prima posizione tra i sacerdoti figura il nostro rex (sacrorum), definito maximus; lo seguono i tre flamines maiores (di Giove, Marte e Quirino) e infine il pontifex maximus, situato soltanto al quinto posto". 
Festo: " Il rex (sacrorum) è considerato il più grande, poi viene il flamen Dialis, dopo di lui il Martialis, al quarto posto il Quirinalis, al quinto il pontifex maximus.
Perciò, solo il rex può sedere più in alto di tutti i sacerdoti;
il Dialis più in alto del Martialis e del Quirinalis;
il Martialis più in alto di quest’ultimo;

e tutti più in alto del pontifex. 
Il rex perché è il più potente; il Dialis perché è il sacerdote dell’universo, che è chiamato dium; il Martialis perché Marte è il padre del fondatore di Roma; il Quirinalis perché Quirino fu chiamato da Cures come alleato dell’impero romano; il pontifex maximus perché è il giudice e l’arbitro degli affari divini e umani”


LA COOPTATIO

La scelta del rex sacrorum, come quella dei flamini maggiori, non dipendeva più dai membri dell’antico ordo sacerdotum, ma era affidata al pontefice massimo come capo del collegio pontificale. Il rex sacrorum viene cooptato dal Pontefice Massimo fra tre candidati designati dal Collegio Pontificale, la sua carica è a vita e comporta qualificazioni ed obblighi particolari:

- deve essere patrizio,
- nato da matrimonio sacro (confarreato),
- non può esercitare altra magistratura,
- deve sposarsi con matrimonio confarreato,
- deve evitare, nei giorni feriati, di veder uomini ai lavoro, funerali, cadaveri ecc.
- sua moglie prende il titolo di “regina”, sua casa è la “Reggia” anche se, in effetti, non ci abita.

La procedura comprendeva tre momenti successivi: 

- nominatio, spettava al collegio pontificale il compito di stilare un elenco di tre candidati, i cosiddetti nominati, adatti a ricoprirne il ruolo;
- captio, (o creatio, o lectio) era poi il pontefice massimo a scegliere tra i nomi della lista il nuovo sacerdote, che pertanto diveniva captus;
- inauguratio, infine, dietro richiesta dello stesso pontefice, si procedeva all’inauguratio, necessaria affinché il captus divenisse a tutti gli effetti rex sacrorum o flamen.

Cesare si curò del sacerdozio in genere e del rex sacrorum almeno negli anni del suo pontificato massimo, visto che fu lui a procedere con successo alla captio di Lucio Claudio, l’ultimo rex sacrorum repubblicano a noi noto.

RE E REGINA SACRORUM


LA REGINA SACRORUM

- La moglie del Rex Sacrorum era anch'essa una sacerdotessa, la Regina sacrorum, "regina dei sacri riti" anch'essa con compiti sacrali.
1) - i sacrifici legati al ciclo delle festività annuali per cui doveva eseguire sacrifici connessi con il culto di Giano.. Al Rex sacrorum spettava infatti la ritualizzazione dell'inizio dell'anno e l'inizio di una nuova condizione (inaugurazione di nuovi sacerdoti, adozioni e testamenti che conferivano un nuovo stato ai cittadini interessati).
- alle Agonali di gennaio offriva un montone nero nella Regia;
- nell' Equirria portava i trofei del cavallo sacrificato a Marte;
- nella Regia, la “Casa del Re”,  praticava riti alla più antica triade romana: Giove, Marte, Ops.
- tutto ciò veniva svolto non solo nella Regia, ma anche nel tempio del Foro, in quello del Foro Olitorium e, presumibilmente, anche sul colle Gianicolo, che era il luogo sacro a Giano già prima del la fondazione della stessa Roma;

2) - l’annuncio del calendario mensile; nei nundini quando la gente si riuniva in città, il rex sacrorum annunciava la successione delle feste per il mese.
- Celebrava i sacra nonalia in Arce (o sacra publica) con cui stabiliva le ricorrenze e le date delle celebrazioni del mese. Nei Saturnalia Macrobio ci dice: « ..accepturos causas feriarum a rege sacrorum, sciturosque quid esset eo mense facendum... » cioè stabiliva le attività di tutti, sia pubbliche che private, o per meglio dire quando queste si potevano svolgere e in questo caso riguardo all'attività agricola.
- l'inizio di ogni mese era ritualizzato dalla moglie del Rex sacrorum, la quale sacrificava in quest'occasione alla Dea Giunone cui le calende erano dedicate.
- Il Rex, nel suo aspetto di sacerdote di Giano, il primo giorno di ogni mese dell’ anno (calende), assistito da uno dei pontefici minori, sacrificava a Giano, in tutte le Kalends, Ides e Nundines; Egli a Giove, e lei a Juno, nella regia (Varro, de Ling, Lat. VI.12, 13; Macrob. Sat.1.15).
- Il Rex Sacrorum e la Regina Sacrorum presiedevano un sacrificio officiato diverse volte al mese, alle Idi, alle Nonae e alle Calendae; il Rex Sacrorum a Giano (tramite il rito degli Agonalia eseguito all'inizio dal rex), la Regina a Giunone (Covella: che significa lunare).

3) - l’attività di un tipo particolare di assemblea popolare, i comitia calata. Questi erano assemblee non deliberanti, ma convocate soltanto per scopi liturgici, e dovevano tenersi il giorno delle Calende, per l’annuncio delle None, e il giorno delle None, per l’annuncio delle feste successive del mese; a febbraio, inoltre, è possibile che vi fosse dato anche l’avviso dell’imminente intercalazione. In tutti questi casi, il popolo si riuniva solo per assistere ai proclami ufficiali del rex sacrorum o dei pontefici.
Varrone e Festo affermano che i giorni 24 marzo e 24 maggio erano nefasti, ma diventavano fasti dopo che il rex sacrorum aveva compiuto un rito, probabilmente un sacrificio, e si era presentato nel Comitium.  

4) - Il Rex Sacrorum rivestiva un importante ruolo nei rituali del Regifugium, in cui doveva offrire un sacrificio nel comitato; che secondo alcuni commemorava la cacciata dell'ultimo Re di Roma, secondo altri era un rito antico il cui significato era stato dimenticato, ma risalente alla monarchia.

5) - Il Rex Sacrorum assolveva al compito di placare gli Dei a nome della res publica romana qualora presagi negativi fossero stati ravvisati dagli Auguri o dagli Aruspici. (Festus, sv Regiae feriae).

6) - Celebrava inoltre riti assieme alle Vestali, da lui ricevute nella Regia, con cui ha un rapporto particolare e viene da quelle esortato con le parole: “Vigilasne, Rex? Vigila”. 
PONTIFEX

ETA' IMPERIALE

Non sappiamo se Augusto, durante il suo principato, procedesse più volte alla captio del rex sacrorum. Ne troviamo comunque frequente menzione durante l'impero, fino a quando probabilmente non è stato abolito nel tempo di Teodosio (Orelli, Ins. 2280, 2282, 2283).

Neppure sul recinto dell’Ara Pacis (13-9 a.c.) Augusto ha riservato un posto al rex sacrorum, nella lunga processione del lato Sud, è riconoscibile l'imperatore col capo velato da pontefice massimo che precede i flamini maggiori con alcuni assistenti, ma fra questi non compare il rex.

L'ultimo rex di cui abbiamo notizia, grazie a un'epigrafe, è Pinario Severo, che terminò il suo servizio nel 120, comunque, almeno fino al II secolo, per diventare rex sacrorum si doveva essere patrizi.
Dalla metà del III secolo, invece, gli aspiranti flamini e gli aspiranti rex sacrorum scelsero piuttosto di dedicarsi alla carriera politica, avendo questi sacerdoti perduto di autorevolezza. Per contro aumentò l'autorità del pontefice massimo su qualsiasi forma di sacerdozio.


LA FINE DEL PAGANESIMO

Nel secolo successivo il collegio pontificale entrò in crisi, nel 382, ad opera delle leggi antipagane di Graziano, dove l’imperatore non si limitò a far rimuovere l’altare della Vittoria dal senato, già tolto per volere di Costanzo e poi ripristinato, ma soppresse le immunità e le rendite dei sacerdoti e delle Vestali, confiscò i loro beni immobili e annullò le sovvenzioni destinate ai bisogni del culto, fino ad abolire, in barba alla popolazione ancora fortemente pagana, il titolo di pontifex maximus, che nessun imperatore dopo di lui avrebbe più accettato.

La storia secolare del rex sacrorum terminò dunque, come quella dei flamini, nel momento in cui, alla fine del IV secolo, la legislazione degli imperatori cristiani tolse al sistema sacerdotale romano ogni possibilità, non solo economica ma anche fisica, di sopravvivenza. Essere pagani diventò un reato punibile perfino con la morte. Quando si insegna che la fede cristiana si impiantò spontaneamente si commette un falso storico, i pagani furono costretti con la forza a convertirsi.

ULPIA NOVIOMAGUS BATAVORUM - NIJMEGEN (Limes Retico)

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CASTRA PRESSO NOVIOMAGUS BATAVORUM
L'Ulpia Noviomagus Batavorum è oggi il nucleo della città di Nimwegen, o Nijmeegs, o Nimwèège, (in italiano Nimega) storicamente anglicizzata come Nimeguen, l'antica fortezza legionaria della provincia romana della Germania inferiore, che corrisponde all'odierna città olandese di Nimega. Era posizionata di fronte alle tribù germaniche dei Batavi e dei Frisi, ed ai fiumi Waal e Reno.

Nel I secolo a.c., i Romani avevano costruito infatti un accampamento militare sul luogo dove Nijmegen doveva apparire; la posizione ha avuto grande valore strategico a causa delle colline circostanti, che hanno dato e danno tutt'oggi una belvedere sul Waal e la Valle del Reno.

- 20 a.c. - Il presidio era a Hunnerberg, un distretto di Nimega su una collina allungata sulle rive del fiume Waal. La posizione lo rese un importante punto strategico, motivo per cui i romani istituirono qui un campo di legioni all'inizio del secondo decennio a.c., le Canabae legionis (accampamenti abitativi della legione), sia come i campi Augustani sia come canabae legionis della Flavia-Traiana che in seguito si svilupparono nel Municipium.


- dal 12 al 10 a.c.  - I romani riconobbero le favorevoli condizioni logistiche dell'altopiano di Kops e lo fortificarono, dato che la ripida parete nordica rendeva il campo quasi inattaccabile e l'alta quota offriva una visione di vasta portata, consentendo una rapida reazione all'avvicinarsi dei nemici. Sembra vi si sia accampato Druso, e/o dopo di lui altri importanti membri della famiglia imperiale.

- dal 3 all'1 a.c. - Noviomagus sembra sia stato utilizzato già nelle campagne militari del governatore Lucio Domizio Enobarbo, console nel 16 a.c.,  a cui apparterrebbe la costruzione dei cosiddetti Pontes Longi tra il Reno e l'Ems (fiume al confine tra la Germania e i Paesi Bassi).

I Ponres Longi erano strade in legno costruite dai Romani su terreni paludosi o acquitrinosi, famose soprattutto per essere state impiegate nel corso dell'occupazione romana della Germania sotto Augusto. Sembra tuttavia che questo genere di strade già esistessero nel nord della Germania fin dal VII secolo a.c..

LE PORTE DEL CASTRUM
I Romani, sempre pronti all'apprendimento da qualsiasi popolo straniero, fecero tesoro di queste tecniche delle genti celto-germaniche del nord-europa e le utilizzarono organizzandole e velocizzandole al massimo per la conquista della Germania Magna (a oriente del Reno).

- 13 a.c. - Verso la fine dell'anno, Druso maggiore (38 a.c. - 9 a.c.), fratello del futuro imperatore Tiberio, decise di posizionare presso la località di Noviomagus Batavorum un primo accampamento semi permanente legionario.

- 12 a.c. - Druso infatti, l'anno successivo compì la prima spedizione in territorio germanico, dopo aver respinto un'invasione di Sigambri, dei loro alleati Tencteri ed Usipeti. Penetrò, quindi, all'interno del territorio germano, passando per l'isola dei Batavi (probabili alleati di Roma) e devastando le terre di Usipeti e Sigambri. Dopo aver disceso con una flotta il Reno in direzione del Mare del Nord, si rese alleati i Frisi e penetrò nel territorio dei Cauci.


Con il cambiamento della politica della Germania romana dall'occupazione offensiva alla strategia difensiva, l'altopiano di Kops divenne un forte ausiliario per un'Ala milliaria, un'unità di cavalleria con 1.000 soldati, accampato sull'altopiano anziché nel quartier generale. Ma durante la rivolta bataviana (69/70) il forte fu abbandonato e non ricostruito in seguito.

Nell'11 a.c. - Druso operò più a sud, affrontando e battendo ancora una volta il popolo degli Usipeti. Gettò, quindi, un ponte sul fiume Lupia (di fronte a Castra Vetera, odierna Xanten) ed invase il territorio dei Sigambri (assenti poiché in lotta con i vicini Catti), costruendovi alcune fortezze (tra cui la latina Aliso); si spinse, infine, nei territori di Marsi e Cherusci, fino al fiume Visurgis (Weser).


Per questi successi ricevette gli onori trionfali (ornamenta triumphalia). Gli anni successivi il generale romano spostò il suo raggio d'azione più a sud e Noviomagus Batavorum potrebbe essere stato abbandonato come castra legionario a favore di Castra Vetera. Sul suo sito potrebbe essere sorto un forte ausiliario. 

PLANIMETRIA DEL CASTRUM
4 d.c. - L'accampamento sembra venne usato nelle campagne di Tiberio, quando lo stesso attaccò i vicini Bructeri. 

Dal 19 a.c. al 12/10 a.c. - Le posizioni militari cambiarono.

14 d.c. 16 d.c. - Si pensa che il castrum venne usato nel corso delle campagne di Germanico di quella data. Al termine delle ultime operazioni del 16,  Tiberio creò due nuove "aree militarizzate" ad ovest del fiume Reno, divenute settant'anni più tardi le nuove province della Germania inferiore e della superiore.

Dal 12/10 a.c. al 69 d.c. - Le guarnigioni successive furono costruite sul vicino Hunnerberg, distretto di Nimega, su una collina allungata sulle rive del fiume Waal, circa un km e mezzo dalla città di Ulpia Noviomagus Batavorum, precursore di Nijmegen (provincia olandese della Gheldria) di oggi, nota per i suoi reperti archeologici, in particolare romani.

BASILICA PALEOCRISTIANA
69 d.c. - 70 d.c. - Alla morte dell'imperatore Nerone la Noviomagus coinvolta nella Rivolta Batava, al termine della quale il vicino villaggio, chiamato Oppidum Batavorum, ed il forte ausiliario furono distrutti. Sappiamo che in quegli anni vi transitò, anche se per poco tempo, la legio II Adiutrix.

- 70 d.c. - Con il nuovo imperatore Vespasiano a Noviomagus fu aperta una nuova fortezza legionaria, la cui difesa fu affidata alla legio X Gemina, che qui rimase fino al 104 d.c..

- Dal 69 d.c. fino alla metà del II secolo - le truppe romane continuarono a stanziarsi all'Hunnerberg, presso il fiume Waal. Quando i Batavi, gli abitanti originari del delta del Reno e Mosa, si rivoltarono, un villaggio si era formato nei pressi del campo romano. Questo villaggio venne distrutto nella rivolta, ma a rivolta sedata, i Romani ne costruito un altro più grande dove era di stanza la Legione X Gemina. Poco dopo, un altro villaggio si formò intorno a questo campo.


- Dall'84 d.c. all'87 d.c. - Noviomagus Batavorum entrò a far parte della nuova provincia della Germania inferiore, che comprendeva tra i suoi insediamenti principali anche Castra Vetera (Xanten), Trajectum ad Rhenum (Utrecht), e Colonia Agrippinensis (Colonia, la capitale della provincia), arrivando a contare fino a ventisette tra forti e fortini ausiliari, le tre fortezze legionarie, al tempo di Vespasiano, lungo il limes che dalla foce del Reno conduceva al forte di Remagen.

- 98 d.c - Nijmegen è stato il primo dei due insediamenti in quello che oggi è il Regno dei Paesi Bassi a ricevere i diritti di cittadini romani.

- Nel 103 d.c. -  la Legio X Gemina è stato nuovamente di stanza a Vindobonœ, moderna Vienna, il che potrebbe essere stato un duro colpo per l'economia dei villaggi attorno al campo, perdendo circa 5.000 abitanti. Nel 104 l'imperatore Traiano ribattezzata la città, che ora è diventato noto come Nijmegen, Nijmegen in breve (l'origine del nome attuale Nijmegen).

- Nel 104 d.c. - l'imperatore Traiano, probabilmente dopo un suo breve soggiorno nel castrum, decise di ritirare definitivamente la legio X Gemina a vantaggio del fronte pannonico, chiudendo la fortezza legionaria, e dando alla città il nuovo nome di Ulpia Noviomagus Batavorum. Comunque varie basi militari vi avevano già fondato un insediamento civile. 

Tra il 121 ed il 146 - Esistono evidenze che qui tornò a soggiornare, anche se per breve tempo, la legio IX Hispana dopo il suo ritiro dalla Britannia, probabilmente nel suddetto periodo.

RITROVAMENTI
Dal III secolo d.c. - Noviomagus fece parte per i secoli successivi del settore nord del limes renano, ed ebbe il difficile compito di respingere le numerose invasioni che si susseguirono in seguito alla formazione della confederazione germanica dei Franchi (popoli germanici occidentali).

Nel 275 circa - il vicus di Oppidum Bataviorum fu abbandonato, come del resto l'intera area compresa tra i fiumi Mosa, Demer e Schelda; sotto Costantino I fu posizionato nel vicino forte ausiliario il numerus Ursariensium.

CAVALIERI BATAVI
- Nel 342 - la federazione dei Franchi fu protagonista di un'incursione in territorio gallico, condotta a partire dalla loro area d'insediamento presso il Reno ma furono respinti da Costanzo Cloro (250 - 306 d.c.).

Nel 355-358 d.c. - l'imperatore Giuliano trovò ancora le rotte del Reno sotto il controllo dei Franchi ed ancora una volta li pacificò. Roma garantì ai Franchi una fetta considerevole della Gallia Belgica, compresi i territori circostanti al castra di Noviomagus Batavorum.

- Dalla fine del IV secolo all'inizio del V secolo  - vi fu una fortificazione tardoantica nell'area del successivo Palatinato. 

- Dopo il 410 - Dopo il ritiro dei romani intorno al 410, persero anche le loro funzioni amministrativo-militari.



NIMEGUEN ROMANA

La celebrazione dei 2000 anni di governo romano ebbe luogo qui ad Nimeguen con grande festa nel 2005, governo tenuto dall'Impero romano fin dal 19 a.c. e che le dette il nome glorioso di Ulpia Noviomagus Batavorum.

IL SENATORE ROMANO

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Il termine "senato" deriva dal latino senex, che significa anziano, perché i membri del senato erano inizialmente i più vecchi del popolo romano. Secondo la tradizione, il senato di Romolo, era composto da 100 membri patrizi, che formavano il "consiglio degli anziani", solo maschi dotati di esperienza e saggezza, simile all'ordinamento tribale.

"Romolo, dopo che fondò Roma, scelse cento tra i più anziani cittadini che chiamò senatori per la vecchiaia. Regnò e fece tutte le cose col consiglio e con l'aiuto dei senatori. Il numero dei senatori fu quasi identico sotto gli altri re Romani, ma dopo la cacciata dei re, quando fu istituita la repubblica, il numero dei senatori aumentò poiché gli uomini che avevano ricoperto le somme magistrature, cioè la questura, l'edilitato, il tribuno della plebe, il pretorato, il censorato e il consolato, diventarono di diritto senatori. I senatori erano chiamati anche patrizi, poiché erano considerati i tutori e i difensori della repubblica (patria) sia nelle circostanze favorevoli, sia nelle avversità."
(Eutropio)

Il Senato romano (Senatus romanus) fu la più autorevole assemblea istituzionale nell'antica Roma, il cui significato era "assemblea degli anziani", i cui membri erano chiamati Patres (padri da cui patria, cioè terra dei padri, e patrizi). L'assemblea fu istituita in età regia da Romolo, e sopravvisse anche dopo la caduta dell'Impero Romano fino al VII secolo.

Per tradizione fu Romolo ad istituire un senato di 100 membri (Liv., I, 8), diviso in dieci decuriae, che dovevano contare in origine ciascuna dieci membri e sempre 100 membri avevano i senati delle città fondate da Roma.

Ma il numero normale dei senatori in età storica è di 300, numero pertinente all'età regia con tre tribù e trenta curie. Probabilmente Tito Tazio, Tullo Ostilio e Tarquinio Prisco aggiunsero senatori sabini o albani o delle minores gentes.

Le prime famiglie romane, dette gentes, erano formate da un'aggregazione di famiglie sotto un comune patriarca, chiamato pater. Ognuno dei pater, considerati capostipiti delle varie famiglie, formarono il consiglio federale chiamato Senato che elesse un re. Quando questi moriva, il potere tornava ai patres che eleggevano un altro re.



ETA' REGIA

Il Senatore dell'età regia ebbe, almeno con i primi quattro re, il potere esecutivo durante l'interregnum, fu consigliere del re e funzionò da legislatore insieme al popolo di Roma. Vi erano due categorie di senatori: i "patres" cioè i patrizi e i loro discendenti, appartenenti al Senato primevo, e i "conscripti" aggregati in un secondo tempo da Tarquinio Prisco.

L'originario senato romano venne dunque reclutato solo fra il patriziato, ma i plebei sarebbero entrati a far parte del senato, per alcune fonti, già al tempo di Servio Tullio, o al più tardi nel primo anno della repubblica.

Comunque, l'ammissione dei plebei alle magistrature, avvenuta nella metà del sec. V a.c., non comportò l'entrata di plebei in senato in forma paritaria. I patrizi continuarono a ratificare le deliberazioni dell'assemblea popolare, e l'assunzione per turno dell'imperium nell'interregnum. Mentre i patrizi erano i 'patres', i senatori plebei erano i 'patres conscripti'.

Durante i primi regni, la più importante funzione del Senato fu di eleggere il re. Il periodo tra la morte del precedente sovrano e l'elezione del successivo era chiamata 'interregnum'. Quando un re moriva, un senatore nominava un candidato che potesse succedere al re. Il Senato doveva approvare la nomina, per poi essere sottoposto all'elezione davanti al popolo e infine il Senato ne ratificava l'elezione. Così il re veniva eletto dal popolo, ma su indicazione del Senato.

Inoltre il senato fungeva da consigliere del re, consiglio non vincolante ma sempre importante. Inoltre le leggi erano affidate al re che però doveva coinvolgere il senato e il popolo attraverso i comitia curiata.

La nomina dei senatori spettava al re o al magistrato supremo, ma una legge comiziale romana, su proposta del tribuno Ovinio, alla fine del IV secolo a.c., attribuì ai censori il diritto di redigere la lista dei senatori (prerogativa fino allora dei consoli), e stabilì che la scelta avvenisse egualmente tra patrizi e plebei, assicurando il seggio da un lustrum censorio (cinque anni) a un altro.

La leggenda racconta che fu Romolo a decidere che il senato fosse composto di 100 patrizi (patres), raddoppiato da Tarquinio Prisco e, con l'avvento della repubblica, ampliato a 300 membri da Lucio Giunio Bruto (545-509), tutti nominati dal rex. La carica di senatore veniva conferita dal rex (re) in età monarchica ed era vitalizia.



ETA' REPUBBLICANA

Il Senato divenne l'organo fondamentale della Repubblica nel 509 a.c., come ci narra Livio, uno dei primi provvedimenti del primo console romano, Lucio Giunio Bruto, fu quello di rinforzare il senato molto ridotto dalle continue esecuzioni dell'ultimo re, portandone il totale a trecento, e nominando quali nuovi senatori i personaggi più in vista anche dell'ordine equestre.

Silla raddoppiò il numero dei senatori portandoli a 600, che Cesare accrebbe ancora a circa 900 e i triumviri a mille e più. Augusto ritornò alla cifra di 600. La carica di senatore veniva conferita dal console in età repubblicana ed era vitalizia.

La Repubblica romana (Res publica Populi Romani) fu il sistema di governo che andò dal 509 a.c. al 27 a.c., e nacque per forti dissensi che portarono alla fine della monarchia etrusca sulla città di Roma. Tito Livio spiega, o almeno giustifica, perchè non accadde prima la caduta della monarchia dei Tarquini:

«E non c'è dubbio che lo stesso Bruto, coperto di gloria per l'espulsione del tirannico Tarquinio, avrebbe agito in modo estremamente dannoso per la Res Publica, se il desiderio prematuro di libertà lo avesse portato a detronizzare qualcuno dei re precedenti. Infatti cosa ne sarebbe stato di quel gruppo di pastori e di popolazione se, fuggiti dai loro paesi per cercare la libertà o l'impunità nel recinto inviolabile di un tempio, si fossero resi liberi dalla paura di un re e si fossero lasciati condizionare dai discorsi faziosi dei tribuni e a scontrarsi verbalmente con i patres di una città che non era la loro, prima che l'amore coniugale, l'amore paterno e l'attaccamento alla terra stessa, sentimento consuetudinario, non avessero unito i loro animi? La Res publica, minata dalla discordia, non avrebbe potuto neppure raggiungere la maggiore età. Invece l'atmosfera di serenità e moderazione che accompagnò la gestione del governo, portò la crescita ad un punto tale che, una volta raggiunta la piena maturità delle sue forze, poté dare i frutti migliori della libertà.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 1.)

I senatori plebei avevano dapprima solo il diritto di voto, ma quando adirono alle magistrature superiori, tutti coloro che avevano rivestito magistrature potettero parlare e dibattere in senato. Quando poi la magistratura divenne obbligatoria per adire al ruolo, patrizi e plebei ebbero i medesimi diritti in senato. 



IL SENATO E IL POPOLO ROMANO DEI QUIRITI

Intanto Roma iniziò il suo ruolo di conquistatrice del Mediterraneo prima e dell'Europa poi, soprattutto tra il III e il II secolo a.c. e il suo governo era rappresentato sulle epigrafi con l'acronimo
S P Q R, che dapprima sembra significasse (vedi il - Vocabolario della lingua latina di Castiglioni e Mariotti) "Senatus Populusque Quiritium Romanus", cioè: "il Senato e il Popolo Romano dei Quiriti"; il quirite era infatti il cittadino dell'antica Roma che godeva dei pieni diritti civili, politici e anche militari.

Il quirite era però dapprima il popolo sabino che adorava il Dio Quirino, il che fa pensare che i sabini ebbero buona parte nel diritto romano dei primordi, d'altronde si sa che le sabine fecero pubblicare a loro garanzia delle leggi sui rapporti uomo-donna per accettare la convivenza coi romani.



IL SENATO E IL POPOLO ROMANO

L'accezione più largamente usata, e forse successiva alla prima, fu "Senatvs PopvlvsQve Romanvs" cioè "il Senato e il Popolo Romano" una sigla e un simbolo che racchiude in sé il potere della Repubblica romana: il Senato e il popolo, cioè le due classi dei patrizi e dei plebei che erano a fondamento dello Stato romano.

Durante la Repubblica solo i magistrati potevano adire al senato, prima vi furono ammessi solo i censori, i consoli e i pretori, poi anche gli ex edili, gli ex tribuni della plebe e gli ex questori. Ogni cinque anni i censori redigevano la lista dei senatori, integrando i posti vacanti e, in rari casi, espellendo gli indegni. Dopo la terribile disfatta di Canne dove perirono novanta senatori, l'organico del senato venne completato con 197 uomini presi anche dall'ordine equestre.

Il cursus honorum conteneva un insieme sia di cariche politiche che militari. Ogni ufficio aveva un'età minima per l'elezione, ed un intervallo minimo per ottenere la carica successiva, oltre a leggi che proibivano di reiterare un particolare ufficio. 

Silla elevò a 20 il numero dei questori e l'entrata in senato dipese dopo di lui dalla gestione della questura e in piccola parte dal tribunato della plebe, fin quando non fu inserito come obbligatorio nel cursus honorum dopo la questura, per cui l'elezione dei senatori venne a dipendere solo dal suffragio popolare.



LA CONVOCAZIONE

Il Senato romano si poteva riunire solo a Roma, o entro il primo miglio dalla città, in luoghi consacrati e pubblici, solitamente nella Curia, che si trovava nel foro romano; le cerimonie per il nuovo anno avvenivano nel tempio di Giove Ottimo Massimo mentre le decisioni belliche avvenivano nel tempio di Bellona. La riunione richiedeva auspici favorevoli, che venivano presi dal presidente. 

Venivano usate anche la Curia Hostilia sul Comizio e la Curia Calabra sul Campidoglio, ciascuna con il relativo senaculum; Cesare e Augusto innalzarono poi la Curia Julia sul Foro. Fuori del pomerio c'era un senaculum presso il campo di Marte; più tardi servivano il teatro di Pompeo e il portico di Ottavia.

La convocazione si faceva in età più antica per mezzo di araldi, poi per edictum o in caso d'urgenza con avviso personale a ogni senatore, indicando il luogo e l'ora della seduta, che doveva iniziare fra il sorgere e il tramonto del sole (più spesso al sorgere del sole); non s' indicava invece l'ordine del giorno, tranne nel caso che si dovesse discutere della situazione politica in generale (de re publica).

Nelle riunioni il senato di solito teneva conto dei comizi popolari, che richiedevano la presenza dei magistrati pena la nullità del senatoconsulto. Dopo Silla, il senato poteva vietare la convocazione dei comizi in un dato giorno, riservandolo alla seduta del senato.

Le sedute si tenevano in locale chiuso ma a porte aperte e i tribuni della plebe avevano in antico il diritto di porre i loro scanni nel vestibolo per ascoltare le deliberazioni; quivi potevano stare anche i figli e i nipoti dei senatori, ma non altri cittadini.

Persone estranee al senato erano ammesse solo in via eccezionale, e lo stesso personale subalterno dei magistrati ne era escluso; poi si ammise la presenza di littori e scribi. Solo l'imperatore poteva farsi accompagnare da subalterni e da ufficiali della guardia. 

Le sedute non erano pubbliche e i senatori potevano anche essere richiesti di temere il segreto. Spettava al presidente mantenere l'ordine nel locale dell'adunanza. In fondo all'aula, di fronte alla porta d'ingresso, si collocavano le sedie curuli dei magistrati o i banchi dei tribuni, se questi presiedevano; i senatori sedevano sui loro banchi disposti ai due lati della sala, lasciando in mezzo una corsia libera. Sotto la repubblica non v'erano posti fissi; v'erano invece sotto l'impero.

Non era imposto alcun limite di tempo agli oratori, i quali potevano, a scopo di ostruzionismo, tirare in lungo un discorso sino alla fine della seduta. Si richiedeva tuttavia agli oratori brevità e serietà. Cesare, quando era ancora un semplice senatore, annoiato da una lunga concione di Catone, ordinò alle guardie di arrestarlo e scortarlo fuori dall'aula. Naturalmente alle proteste dei patrizi Catone venne riammesso. Augusto, dopo gli abusi degli ultimi tempi della repubblica, impose un regolamento.

LA CURIA

I POTERI DEL SENATO IN ERA REPUBBLICANA

- il potere consultivo, cioè di essere consultato prima di far passare una legge; 
- di controllare i collegi sacerdotali e fondare i templi;
- di controllare l'imperium militiae;
- autorizzare la leva,
- di controllare le operazioni belliche rifornendo le legioni di grano, paghe e vestiario;
- prorogare la carica ai comandanti, trascorso l 'anno consolare, o inviarne un altro;
- assegnare il trionfo o l'ovazione ai comandanti vittoriosi;
- siglare accordi di pace e trattati;
- dichiarare guerra;
- ricevere le sottomissioni di popoli stranieri;
- inviare "legati" per risolvere controversie o dare suggerimenti;
- deliberare la fondazione di colonie;
- controllare l'operato dei magistrati;
- discutere e approvare i progetti di legge da sottoporre ai comizi;
- promulgare i senatoconsulto;
- decidere sui reati commessi in Italia che necessitassero di inchiesta da parte della Res publica, come i tradimenti, le cospirazioni, gli avvelenamenti e gli assassinii;
quando un privato o una città in Italia avesse bisogno di una mediazione di pace o richiedesse un intervento contro danni subiti, o per una domanda d'aiuto o protezione. 
- nominare la maggior giudici tra i membri del senato, nei processi civili, pubblici o privati di particolare gravità (solo in quel processo).
- controllare l'aerarium con entrate e uscite. I questori non potevano effettuare spese pubbliche senza aver ottenuto il decreto del senato, a eccezione di quelle richieste dai consoli.
- controllava e dava il benestare sul capitolo di spesa che i censori stabilivano ogni cinque anni per la riparazione e la costruzione di edifici pubblici.
- il senato poteva concedere la qualifica di legatus ad un senatore che si recava nelle provincie dandogli diritto a uno speciale trattamento.


PER CONTRO:

- Gaio Gracco tolse i senatori il privilegio di essere giudici nelle questioni perpetue riconsegnandolo ai cavalieri; fu ridato ai senatori da Silla e, dopo altre vicende, diviso definitivamente fra i due ordini da Cesare.
- la presenza alle sedute era obbligatoria pena una multa o la pignoris capio al senatore assente;
- Già dal sec. III a. c. i senatori non potevano darsi alle speculazioni ed erano perciò esclusi dagli appalti pubblici;
- non potevano possedere vascelli da carico di portata superiore a un certo limite, e sotto l'impero fu anche sottoposta a restrizioni la facoltà di prestare a interesse.
- I senatori avevano l'obbligo di risiedere in Roma e non potevano uscire dall'Italia senza permesso del senato; in momenti gravi si poteva ingiungere loro di non lasciare la città.



SENATUSCONSULTUM - SC

Il senato era di norma convocato e presieduto da un console o da un pretore, il ius agendi cum patribus. Nella deliberazione dei comizi il magistrato doveva portare alla cittadinanza la proposta relativa (ferre ad populum) e, se la cittadinanza acconsentiva, doveva riportare la deliberazione al Senato (referre ad senatum) e chiederne la ratifica.
La votazione per giungere al senatoconsulto avveniva in quattro fasi: formulazione della questione da parte del presidente, chiamata di ogni senatore perché esprimesse la sua opinione, formulazione della questione da parte del presidente in base alle opinioni udite ed infine votazione sulla questione.

I senatori favorevoli alla proposta da votare sedevano da un lato e quelli contrari dall'altro, per cui si diceva: "pedibus in sententiam ire" e qui non era ammesso il veto dei tribuni della plebe. In seguito alla lex Publilia Philonis del 339 a.c. il senato non potè più decidere ma solo dare un parere preventivo non vincolante.

Sugli importanti reati contro la Res publica però, per i quali era prevista la pena di morte, era il popolo a decidere il preliminare "senatus consultum". Infatti se anche uno solo dei tribuni della plebe avesse opposto il veto, il Senato non solo non avrebbe potuto nemmeno riunirsi. Il senatoconsulto dava poi luogo a una relazione che veniva custodita nell'aerarium posto nel tempio di Saturno dove si tenevano i bilanci, il tesoro e l'archivio di Stato.



SENATUS CONSULTUM ULTIMUM - SCU

Il "Senatus Consultum Ultimum" ovvero "Ultima decisione del Senato", o anche il "Senatus consultum de re publica defendenda" ovvero "Decisione del Senato per la difesa della repubblica" era un decreto senatorio emesso in caso di emergenza che fu tipico dell'ultima fase della Repubblica.
Il senatus consultum ultimum era la "legge marziale" (o "Legge di Marte") che ancora oggi si chiama così, e veniva promulgato in caso di pericolo e necessità molto gravi: i magistrati erano autorizzati a procedere immediatamente, venivano sospese tutte le garanzie costituzionali, come l'inviolabiltà dei tribuni della plebe e la "provocatio ad populum".
AI consultum si ricorse:
- I metà del II secolo a.c. per regolamentare i misteri bacchici a Roma,
- 123 a.c.contro Gaio Gracco, il minore dei fratelli che venne poi assassinato,
- 121 a.c. contro Saturnino
- 100 a.c. contro Lucio Appuleio Saturnino e Gaio Servilio Glaucia
- 83 a.c. contro Lucio Cornelio Silla
- 77 a.c. contro Marco Emilio Lepido
- 63 a.c. contro Lucio Sergio Catilina
- 62 a.c. contro Metello Nepote
- 52 a.c. a causa dei tumulti seguenti l'uccisione di Publio Clodio Pulcro
- 49 a.c. all'attraversamento del Rubicone da parte di Cesare,
- 48 a.c. contro Marco Celio Rufo
- 47 a.c. contro Lucio Trebellio e Publio Cornelio Dolabella
- 43 a.c. contro Marco Antonio
- 43 a.c. contro Ottaviano
- 43 a.c. a favore di Ottaviano, come annullamento del precedente
- 40 a.c. per condannare Quinto Salvidieno Rufo Salvio
- 40 a.c.per delegittimare l'assedio di Perugia.

Con l'avvento del principato, il Senato perse la facoltà del consultum.


LA GRADUATORIA

I senatori dapprima solo patrizi, poi anche i plebei, e a seconda delle magistrature precedenti erano divisi a iniziare dai più importanti:
- il princeps senatus, primo senatore, titolo attribuito dai censori al più autorevole dei senatori, che votava per primo dopo i magistrati,
- i censorii, i censori, che potevano escludere i senatori indegni attraverso apposito iudicium e relativa nota censoria,
- i consulares, i consolari,
- i praetorii, i pretorii,
- gli aedilicii, gli edilizi
- i tribunicii, i tribunizi
- i quaestorii, i questori.



ETA' IMPERIALE

I senatori indossavano la tunica con il laticlavio, la striscia di porpora applicata sulla tunica bianca, ma più larga di quella dei cavalieri, e il calceus senatorius (o calceus mulleus o solea), di solito rossa, alta e legata alla gamba con quattro corregge nere e una fibbia d'avorio (lunula).

Questo calzare spettava in origine ai senatori patrizi, poi anche ai plebei che avevano gestito magistrature curuli e fu infine adottato da tutti i senatori; solo la lunula fu riservata ai patrizi e si parla quindi di calceus patricius e di calceus senatorius (ma non è certo). Dal sec. II a.c. i senatori portavano l'anulus aureus, l'anello d'oro, uso che si estese poi ai cavalieri.

I senatori assistevano da posti riservati alle cerimonie religiose e ai ludi e dal 194 ebbero diritto a seggi separati nei teatri e, più tardi; anche nel circo e sedevano a tavole particolari nei pubblici banchetti.
Con Augusto, l'imperatore e il Senato avevano teoricamente gli stessi poteri, ma in realtà chi gestiva il potere era l'imperatore. Durante il governo dei primi imperatori, i poteri legislativi, giudiziari ed elettorali furono trasferiti dalle assemblee al Senato.
GIULIO CESARE

GIULIO CESARE

Cesare odiava il senato per la loro arroganza, per cui li subissò di senatori plebei. Quando poi creò senatori dei cittadini romani delle provincie sollevò molte proteste, si che i primi imperatori, per evitare reazioni, rifiutarono il seggio senatorio a cittadini nativi della Gallia. Ma l'assimilazione dell'Italia a Roma e poi delle provincie all'Italia ebbe per conseguenza che il senato divenne da romano italico e poi imperiale. Cesare non fu mai imperatore.


LA GRADUATORIA

- L'imperatore in carica a vita,
- i consoli (i magistrati di grado più elevato) ed ex consoli,
- i Pretori (il II grado in magistratura) e gli ex pretori,
- gli edilizi
- i tribunizi
- i questori.

Durante le riunioni del senato l'imperatore si sedeva tra i due Consoli e di solito agiva come il presidente della riunione. I Senatori di rango più alto parlavano prima di quelli di rango basso, anche se l'imperatore poteva parlare in qualsiasi momento. Oltre all'imperatore, anche i consoli ed i pretori potevano presiedere il Senato che solitamente si riuniva nella Curia Iulia, alle calende (I giorno del mese) e alle Idi (XV giorno), sebbene gli incontri programmati si fissavano a settembre e ottobre.  
La maggior parte dei disegni di legge presentati al Senato erano esposti dall'imperatore, che nominava una commissione per il disegno di legge. Poiché nessun senatore poteva candidarsi alle magistrature senza l'approvazione dell'imperatore, i senatori di solito non votavano contro le leggi da lui presentate. Se un senatore disapprovava un disegno di legge, evitava la riunione del Senato nel giorno della votazione.
L'imperatore sceglieva un Questore per compilare gli atti del Senato nell'"acta senatus", che comprendeva proposte di legge, documenti ufficiali e sintesi dei discorsi fatti in Senato. Il documento veniva archiviato, ma alcune parti venivano pubblicate nell'"Acta diurna", che veniva distribuito al popolo. 
Gli acta diurna, creati da Giulio Cesare, erano notizie giudiziarie, decreti imperiali, del Senato romano e dei magistrati, ma pure annunci di nascita, di matrimonio e di morte, insomma il giornale dell'epoca. Il voto segreto esisteva ma venne adottato solo in casi eccezionali sotto l'impero, per votazioni elettorali o di giurisdizione criminale.
OTTAVIANO AUGUSTO

AUGUSTO

Mentre Giulio Cesare aveva portato a 900 il numero dei senatori (per ripagare chi l'aveva sostenuto) Augusto, il primo imperatore, lo ridusse a 600 membri, attraverso le riforme per cui un senatore doveva essere un cittadino di nascita libera e con reddito di almeno 1 000 000 di sesterzi.

Per essere ammessi nel senato si richiedeva originariamente il patriziato, poi l'ingenuità (nato libero), cives romanus e onorabilità piena (certe professioni e certe condanne escludevano dal senato) e una condizione sociale elevata. Augusto vietò ai senatori matrimoni con liberte. 

In pratica si poteva arrivare alla Questura solo tramite elezioni effettuate tra cittadini di rango senatorio, per cui figlio di un senatore. Se non era di rango senatorio occorreva che l'imperatore desse il permesso per candidarsi alla Questura, o emanasse un decreto per portare l'individuo al Senato (la adlectio).

Augusto concesse i contrassegni esteriori dei senatori anche ai loro figli, che erano obbligati ad aspirare alle magistrature repubblicane a essi riservate, salvo il caso di speciali concessioni del principe a persone che non appartenevano all'ordine senatorio. 

Inoltre assegnò al senato l'amministrazione ordinaria sulle provincie che non richiedevano presidio di forze armate (provincie senatorie) e disponeva dell'erario pubblico alimentato dai redditi di queste provincie.

Affidò la gestione dell'erario a magistrati presi dal senato ma eletti da lui. Escluse il senato dalla politica estera, la cui direzione fu assunta da lui stesso, e la quasi totale eliminazione dalla formazione dell'esercito e dall'amministrazione finanziaria, le attività che avevano costituito le basi della potenza del senato repubblicano. 



I POTERI DEL SENATO

- con i senatus consulta acquisirono potere di legge (finanziaria e amministrativa), dato che i poteri delle assemblee vennero trasferiti al senato.
- organizzava l'azione militare di Roma ma non s'ingeriva nella condotta tecnica della guerra. I generali dovevano però informarlo sull'andamento delle operazioni e a esso spettava riconoscere i loro successi; nell'epoca più recente esso attribuiva il titolo di imperator, decretava le feste agli Dei per la vittoria e influiva sulle concessioni del trionfo.
- regolava feste e culti religiosi,
- poteva concedere onori speciali,
- poteva togliere un individuo responsabilità legale a un individuo, di solito all'imperatore,
- gestiva i templi e giochi pubblici
- emanava leggi fiscali (ma solo con il tacito consenso dell'imperatore);
- aveva giurisdizione sui processi penali presieduti da un Console, in cui i senatori costituivano la giuria ed il verdetto diventava decreto. Ogni provincia senatoriale aveva un tribunale, sulle cui decisioni però si poteva ricorrere al Senato.
- la monetazione urbana dipendeva dal senato, che autorizzava la nomina dei magistrati monetari; in seguito la monetazione aurea e argentea fu riservata al principe, la bronzea al senato.
- l'assenza dei senatori alle sedute straordinarie (senatus indicti) non era passibile di pena. I mesi di settembre e ottobre erano considerati di vacanza e l'obbligo di intervenire alle sedute era in essi limitato a pochi senatori tratti a sorte.

In teoria il Senato eleggeva il nuovo imperatore, mentre in unione con le assemblee popolari gli conferiva il potere di comando (imperium). Dopo che un imperatore era morto o aveva abdicato, il Senato in genere lo divinizzava, a volte invece lo condannava alla damnatio memoriae. 
I censori potevano rifiutare la nomina all'aspirante o cancellavano dalla lista il senatore moralmente indegno. Il principe poteva però reintegrare del suo il censo deficiente di un senatore.



TIBERIO

L'imperatore Tiberio trasferì tutti poteri elettorali dalle assemblee al Senato, ma con l'approvazione dell'imperatore prima della formalizzazione dell'elezione.  Anche gl'imperatori potevano, per quanto in via straordinaria, far entrare direttamente nel senato personaggi che non avevano sostenuto la magistratura richiesta. Il senato ottenne da Tiberio il diritto di nomina dei magistrati in rappresentanza del popolo. 



TRAIANO

Traiano dispose che una parte del patrimonio dei senatori consistesse in fondi situati in Italia.  



DIOCLEZIANO
- 300 d.c. l'imperatore Diocleziano sancì il diritto dell'imperatore di assumere il potere anche senza il consenso del Senato. Pose poi fine ai poteri autonomi legislativi, giudiziari o elettorali del Senato, che mantenne i suoi poteri legislativi sui giochi pubblici a Roma, conservò il potere di indagare sui casi di tradimento e quello di eleggere alcuni magistrati, ma solo con il permesso dell'imperatore.

Il Senato rimase l'ultimo baluardo della religione romana di fronte all'imposizione del cristianesimo reso obbligatorio dagli imperatori, e più volte tentò, ma inutilmente di ottenere il ritorno dell'Altare della Vittoria (rimosso precedentemente da Costanzo II) alla curia.

I GOTI

LA CADUTA DELL'IMPERO D'OCCIDENTE

Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente il Senato continuò a riunirsi sotto il capo barbaro Odoacre e poi sotto Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti. L'autorità del Senato fu aumentata dai capi barbari e spesso il princeps senatus era il fedele servitore del capo barbaro. 
La coesistenza pacifica di romani e barbari nel Senato continuò fino all'avvento del capo ostrogoto Teodato che, ribellandosi all'imperatore Giustiniano I, catturò i senatori come ostaggi. Diversi senatori furono giustiziati nel 552 come vendetta per la morte del re ostrogoto Totila.

Poi Roma venne riconquistata dall'Impero bizantino ed il Senato venne ricostituito, ma molti senatori erano stati uccisi e molti di coloro che erano fuggiti in Oriente scelsero di rimanere lì grazie ad una legislazione favorevole proposta dall'imperatore Giustiniano, che tuttavia abolì quasi tutti gli uffici senatoriali in Italia.

Nel 578 e nel 580, il Senato mandò dei messaggeri a Costantinopoli con 3.000 libbre d'oro come omaggio al nuovo imperatore Tiberio II Costantino insieme ad una richiesta di aiuto contro i Longobardi che avevano invaso l'Italia, ma inutilmente, perchè le truppe di Tiberio II vennero sconfitte.
Papa Gregorio I, in un sermone del 593 (Senatus deest, or.18), si lamentava della scomparsa quasi totale dell'ordine senatorio. Il senato dovette estinguersi nel 630, quando la Curia fu trasformata in chiesa da papa Onorio I. Il Senato continuò ad esistere a Costantinopoli, capitale dell'Impero romano d'Oriente, fino a che scomparve nella metà del XIV secolo.

"Così visse e si trasformò per più di un millennio questo consesso illustre, che esercitò sulla storia del mondo un'influenza, alla quale quella di nessun altro consesso potrebbe essere paragonata. Ciò spiega l'immenso prestigio del quale godette presso i contemporanei e presso i posteri e il lustro del quale continuò a godere, anche quando la sua funzione si ridusse alla rappresentanza passiva delle alte classi dell'Impero di fronte all'autocrazia".


ALERIA (Francia)

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ALERIA (by Jean Claude Golvin)
Aleria, antica città romana di Alalia, è oggi un comune francese situato nel dipartimento dell'Alta Corsica, nell'isola della Corsica. È il centro maggiore della parte centrale della costa orientale dell'isola, posto a metà strada tra Bastia e Porto Vecchio (in epoca romana Portus Syracusanus), in una zona pianeggiante alla foce del fiume Tavignano, il secondo fiume della Corsica.

Focea era una città greca della Ionia, fondata sul sito della odierna città di Foça (o Eskifoça) in Turchia, a circa 60 km a nord-ovest di Smirne. A causa dell'invasione della Lidia e della Ionia da parte di Ciro il Grande (590 a.c. - 530 a.c.), i focei scapparono salpando sulle loro navi per cercare nuovi territori dove vivere liberi.

Così nel 565 a.c. i coloni greci focei fondarono nel luogo un emporio col nome di Alalia (Ἀλαλίη in greco antico) e dal 546 a.c.,  l'emporio venne incrementato dall'arrivo dei Focei profughi dalla città ionica. Come narra Erodoto, la città entrò in contrasto con gli Etruschi ed i Cartaginesi che si confederarono per conquistarla.


La guerra sfociò nella Battaglia di Alalia svoltasi, tra il 541 a.c. e il 535 a.c., nelle acque della città e nella quale la flotta focea, con le loro 60 pentecontere (nave a propulsione mista essendo sospinta sia dalla vela che dalla voga di 50 marinai), fronteggiarono una flotta di dimensioni doppie.
Nella battaglia navale i Focei riuscirono a respingere i nemici subendo però gravi perdite: quaranta delle loro navi erano distrutte. Le rimanenti, danneggiate nei rostri, erano inservibili per la guerra.
L'esito dello scontro li convinse ad abbandonare la città per dirigersi verso l'Italia meridionale, dove fondarono Elea (poi Velia romana).
Da quel momento la Corsica passò sotto il controllo cartaginese ed etrusco. I tempi che seguirono videro il delinearsi di due distinte sfere d'influenza politica, la greca e la punica, sui mari e sul suolo della penisola italica. All'interno di questi equilibri sarebbe avvenuta la formazione e l'ascesa di un nuovo soggetto politico, la potenza emergente di Roma.


La riconquista dell'egemonia greca sul Tirreno dovrà aspettare più di mezzo secolo: la battaglia navale di Cuma vinta dai siracusani nel 474 a.c., assesterà un duro colpo al dominio navale e alle mire espansive degli Etruschi, indebolendone il controllo su Roma e sulle vie commerciali verso la Campania etrusca.

Nonostante gli eventi successivi, tra cui la sconfitta dei Cartaginesi ad Imera, rimarrà ancora l'attrito tra le due residue sfere d'influenza in Sicilia e nel Mediterraneo occidentale: la greca e la punica. Toccherà a Roma il compito di annientare l'ingerenza cartaginese, affermandosi regina dei mari e quindi dei commerci. Al termine delle guerre puniche quel mare da sempre conteso, diventerà il Mare Nostrum romano.
Nel 259 a.c., durante la prima guerra punica, una guerra lunga ben 20 anni, Alalia venne occupata dai Romani e cambiò il proprio nome in Aleria. Sotto Augusto venne ricostruita con splendidi monumenti e divenne capoluogo dell'isola arrivando ad avere circa 20.000 abitanti. La Corsica rimase una provincia dell’impero romano per oltre 500 anni di relativa stabilità.

RESTI DELLE STRADE ROMANE DI ALERIA

SANTA DEVOTA

Il cristianesimo vi arrivò intorno al 60 d.c. e qui venne martirizzata Santa Devota, morta durante una a Mariana (Corsica) nel 304, durante la persecuzione di Diocleziano che andò dal 303 al 311.
Si dice venisse imprigionata e torturata a morte. 

Il governatore romano pare avesse ordinato di bruciarne il corpo, che venne invece nottetempo trafugato da due devoti per dare una sepoltura cristiana alla giovane martire. Diretti in Africa, a causa di una tempesta furono dirottati a Les Gaumates, (oggi Principato di Monaco), e secondo la tradizione dal corpo della santa uscì una colomba che indicò la via ai due uomini.

Quando l'imbarcazione con il corpo della santa approdò, nel 312, fu trovato un inusuale roseto fiorito e, poco distante, il corpo di Devota che nel frattempo (erano passati ben otto anni) non solo non si era decomposto, ma si era volatilizzato dalla barca per riapparire tra le rose.

All'epoca le spoglie dei santi procuravano grandi benefici alla chiesa perchè i fedeli facevano senza riserve doni alla sacra spoglia di denari e di ori e argenti per ottenere le grazie. Nello stesso luogo fu costruita poi una cappella che, rifatta e ampliata, esiste ancora oggi



LA DECADENZA

L'occupazione vandala fu l'inizio del decadimento di Aleria finché la barbarie dei Saraceni non la distrusse completamente. Ma il peggio avvenne con l'impaludamento del porto e l'arrivo della malaria che costrinse gli abitanti a migrare verso l'interno. 

Intorno al 1240 Aleria fu assoggettata alla Repubblica Marinara di Pisa, finché non fu conquistata dei
che nel 1572 costruirono un forte, detto poi "di Matra", a presidio della foce del Tavignano e vi insediarono abitanti del luogo. 



GLI SCAVI

Nel 1840 fu lo scrittore francese Prosper Mérimée a scoprire i resti dell'antica città, ma solo nel 1920 incominciarono i primi scavi veri e propri.

Attualmente è possibile visitare le rovine dell'antica città e il forte di Matra, costruito nel XIV secolo e che ospita il museo archeologico di Aleria. Classificato come monumento storico il 18 dicembre 1990, il sito archeologico è gestito dal Dipartimento di Archeologia della Collettività Territoriale della Corsica che garantisce il mantenimento, la protezione e il recupero.


VASI GRECO-ROMANI

DESCRIZIONE

Individuato da Prosper Mérimée nel 1840, il sito archeologico di Aléria si trova su un altopiano tabulare che domina la pianura orientale della Corsica. Ma solo nella metà del XX secolo, gli scavi hanno portato alla luce il foro e gran parte della città romana che è attualmente visibile.

Nella parte superiore del promontorio, i resti architettonici corrispondono al centro della città romana, dove due templi e un pretorio incorniciano a est e ovest un foro fiancheggiato da passerelle.

Mentre il nord e l'ovest dell'altopiano sono naturalmente protetti da una forte pendenza del terreno, il limite meridionale della città è segnato da una successione di due, anche tre bastioni sovrapposti di cui due pre-romani mentre l'ultimo è Epoca romana.
Oggi è molto visitato anche il sito archeologico che riunisce un tratto di mura dell’epoca greca, una necropoli pre-romana, e le vestigia della città e di alcune ville romane.

LO STAGNO DI DIANA

LO STAGNO DI DIANA

"A pochi chilometri da Alalia, lo stagno di Diana doveva proteggere una flotta commerciale e prestarsi alle evoluzioni di una flotta di guerra. Iniziò così a emergere un impero greco nel Mediterraneo occidentale" .
(Tacito, Storie , L. II.).
In epoca romana lo stagno di Diana era il "porto di Diana", dove prestava servizio la flotta di Miseno la cui base navale romana era situata vicino a Napoli. I romani già all'epoca apprezzarono le ostriche dello stagno.

"Buoni cavalieri e buona fanteria, i corsici erano anche eccellenti marinai. La flotta di Misene aveva due stazioni sull'isola, una ad Aleria e l'altra a Mariana. Il comando della flotta è stata esercitata da un trierarca galee
(Tacito, Storie , L. II.).
Il Museo dipartimentale di archeologia Girolamo Carcopino di Aleria è attualmente in fase di ristrutturazione e comprende diverse sale che raccontano più di dieci secoli di storia di Aleria e Corsica, dal X secolo a.c. al V secolo d.c..
Nella prima sala sono esposti reperti e resti di epoca romana, in particolare tutto ciò che riguarda attività economiche, vita quotidiana, ma anche religione o riti funebri (un busto in marmo che rappresenta Giove Hammon, o il diploma militare presente nelle vetrine sono tutti elementi emblematici di questo periodo).



HORREA PIPERATICA O PIPERATARIA

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LA VIA SACRA DOVE SORGEVA L'HORREA PIPERATICA
L'horreum (plurale: horrea) era un magazzino pubblico utilizzato  per conservare molti tipi di derrate; le enormi Horrea Galbae a Roma conservavano non solo il grano ma anche olio d'oliva, vino, prodotti alimentari, abbigliamento e persino marmo. Nel periodo imperiale, Roma aveva quasi 300 horrea, alcuni dei quali mastodontici.

Gli Horrea Galbae contenevano 140 stanze già al piano terra, coprendo un'area di circa 21.000 m². Quando morì l'imperatore Settimio Severo, nel 211 d.c., aveva lasciato l'horrea della città rifornito di cibo sufficiente alla popolazione per sette anni. Gli horrea più piccoli ma simili erano sparsi in tutto l'impero.

I primi horrea vennero costruiti a Roma verso la fine del II secolo a.c. con la costruzione del primo horreum pubblico conosciuto da parte dello sfortunato tribuno Gaius Gracchus nel 123 a.c. e riguardava qualsiasi luogo designato per la conservazione dei beni, e le rovine del grande granaio (horrea populi Romani) da lui costruito furono viste fino al XVI secolo tra l'Aventino e il Monte Testaceo. (Appiano, de Bell. Civ. I.21; Plut. C. Gracch. 5; Liv. Epit. 60; Vell. Pat. II.6; Cic. pro Sext. 24.)

RESTI DELL'HORREA
Questi locali venivano spesso riferiti alle cantine (horrea sotterranea), ma anche ad un luogo dove erano conservate le opere d'arte o addirittura ad una biblioteca, ma pure soldi, titoli e altri oggetti di valore (Cod. 4 tit. 24 s9), per i quali i cittadini non avevano un posto sicuro nelle proprie case.
Spesso gli Horrea prendevano nome da chi li aveva fatti costruire: horrea Aniceti, Vargunteii, Seiani, Augusti, Domitiani,

Alcuni horrea pubblici funzionavano in qualche modo come banche, dove gli oggetti di valore potevano essere conservati, ma la classe di horrea più importante era quella in cui i prodotti alimentari come il grano e l'olio d'oliva erano conservati e distribuiti dallo stato. Il colle artificiale del Monte Testaccio a Roma, dietro il sito dell'Horrea Galbae, si stima che contenga i resti di almeno 53 milioni di anfore di olio d'oliva in cui sono stati importati circa 6 miliardi di litri (1,58 miliardi di galloni) di olio.

Gli horrea indicavano i prodotti che conservavano e vendevano, come la cera (candelaria), la carta (chartaria) e il pepe (piperataria). In realtà gli Horrea Piperitaria vendevano molti generi d'importazione provenienti dall'Arabia e dall'Egitto ed erano merci estremamente costose: soprattutto pepe insieme a molte altre spezie.

PLANIMETRIA DELL'HORREA PIPERATICA
Gli Horrea piperiana o Horrea piperatica ("magazzini del pepe") erano un edificio posto nei pressi del Foro Romano, al di sotto dell'attuale basilica di Massenzio, come parte di un complesso di edifici utilitari dell'epoca flavia, ricordato nella pianta della Forma Urbis severiana. L'attribuzione di questo edificio, in parte saggiato da scavi, venne confermata dalle fonti. Si trattava dei magazzini del pepe e delle spezie.

Sull'altro lato della Via Sacra si trovava un altro complesso analogo, ancora visibile fino a quando gli scavi del XIX secolo lo demolirono in quanto scambiato per costruzione medievale. L'area è oggi oggetto di scavi, che hanno consentito una più approfondita comprensione delle strutture degli horrea seppelliti per la costruzione della basilica di Massenzio. Tutto sommato non doveva essere molto dissimile dagli Horrea di Ostia che riproduciamo in queste due foto.

Gli Horrea Piperataria in particolare vennero realizzati in età flavia, come attesta il Cronografo del 354 d.c., lungo il tratto più orientale della Sacra via, nei pressi del Foro Romano, per ospitare ogni genere di spezie, ampiamente usate da tutti i romani.

PLANIMETRIA DEGLI ATTUALI SCAVI DELL'HORREA
Rodolfo Lanciani (Lanciani 1900, pp. 8-13) li identificò con le strutture collocate lungo la Via Sacra, identificate poi come un magazzino a corridoio della tarda età repubblicana (magazzino preneroniano della Velia). Gli studi di E. Van Deman, permisero di distinguere le fasi urbanistiche pre e post incendium del 64 d.c.  dimostrando che non potessero essere i magazzini flavi essendo collocate sotto le strutture neroniane del Vestibolo della Domus Aurea.

Gli studi di A. Minoprio (Minoprio 1932, pp. 23-24) e poi di M. Barosso (Barosso 1940, pp. 58-62) dimostrarono invece che gli Horrea Piperataria corrispondevano ad una serie di murature residue collocate al di sopra delle fondazioni neroniane e al di sotto del pavimento della Basilica di Massenzio, esattamente come riportato nel Cronografo. 

Roma oggi si strabilia di nuovo, mostrandoci ancora i tesori nascosti nel suo suolo: gli studi strutturali e planimetrici effettuati non lasciano più dubbi, si tratta di un edificio di stoccaggio, costruito con mirabili abilità e accortezze, anche nell'adeguamento alle precedenti strutture neroniane, abilmente sfruttate nell'elevazione dell'edificio.

Trattasi di un grande magazzino di ben 3000 mq, suddiviso in due parti, ognuna dotata di cortile interno. L'impianto è organizzato su gradoni discendenti verso ovest assecondando il dislivello naturale.
Fu illuminante soprattutto un antico manoscritto ritrovato in un convento della Grecia, le memorie sconosciute di Galeno, gli indizi lasciati dal famoso medico sul suo leggendario laboratorio scientifico aperto a Roma, hanno spinto ad avviare uno scavo in profondità, al di sotto del piano di calpestio della basilica di Massenzio, a quasi tre metri di profondità dalla via Sacra.

L'HORREA PIPERATICA
Qui il medico degli imperatori Galeno studiava, creava i suoi preparati farmaceutici, conservava i propri libri, ed esercitava il suo mestiere. Qui l’équipe della Sapienza diretta da Domenico Palombi ha condotto un vasto scavo nel complesso degli horrea piperatica, i monumentali magazzini domizianei. La supervisione dei lavori è stata affidata al parco archeologico del Colosseo che su impulso del direttore Alfonsina Russo sarà al centro di un piano di valorizzazione.

«Lo scavo ci ha consentito di fare chiarezza sulla storia dei magazzini delle spezie presso cui Galeno aprì la propria bottega nella metà del II secolo d.c.»  dice Russo «Strutture, queste, che vennero obliterate ma non distrutte per la costruzione della basilica di Massenzio, e che hanno rivelato diverse fasi costruttive che vanno indietro nel tempo, a ritroso da Settimio Severo a Adriano, arrivando persino a Nerone e alla fase Giulio-Claudia».

«Le spezie rappresentavano una ricchezza cui l’imperatore teneva in particolar modo, non a caso i magazzini li fa erigere vicino al palazzo» spiega Palombi «Alcune province dell’impero pagavano le tasse con beni di prestigio: le spezie e i papiro ne erano un esempio. La prima scelta spettava all’imperatore: per la corte e per l’esercito, il resto veniva commercializzato con prezzi stabiliti dall’imperatore».

Galeno è stato un po’ il nume tutelare dell’indagine che è andata anche oltre. Le fonti “decantavano” già gli horrea piperataria sotto la basilica di Massenzio. Del resto questo era il luogo ideale per il prestigioso medico, accanto aveva tutte le erbe e spezie che potevano servirgli per le sue ricerche e per le sue preparazioni dei medicinali, nonchè le sue apparecchiature e i suoi innumerevoli libri.

Intorno aveva tanti altri magazzini dove reperire ciò che gli occorreva ma soprattutto aveva il suo studio, dove potevano venire a trovarlo i suoi pazienti a cui vendeva i suoi preparati, ma dove soprattutto potevano reperirlo gli schiavi inviati dai loro ricchi padroni per chiamarlo a visitare il padrone ammalato. Non tutti comunque potevano permettersi il suo accorrere al suo capezzale, che doveva di certo costare parecchio, considerata pure la sua fama di medico degli imperatori.

ESEMPIO DELL'ORREA DI OSTIA ANTICA
Ma come si presentava l'Horrea Piperitaria? Anche questo può sorprenderci, perchè non doveva essere dissimile da un grande mercato chiuso di oggi, é vero che i romani non conoscevano la plastica (beati loro!) ma conoscevano la carta e la carta paglia, e i vimini, cioè i rami giovani, decorticati e flessibili di talune specie di salici, con cui costruivano canestri e contenitori vari, (ma pure mobili e tramezzi di appartamento).

Ci dovevano essere innumerevoli banchi in legno, come oggi, che esponevano molteplici sacchetti, non di plastica ma di cartapaglia variamente colorata, frammista con rami di lauro, di quercia o di mortella (i rami che decoravano e che si mantenevano di più), misti anche a sacchetti di vimini intrecciati dove si conservavano le spezie in grosse bacche o rametti o radici. 

I romani non conoscevano il peperoncino ma conoscevano, e le ricette di Apicio lo dimostrano: la senape, il coriandolo, il ligustico, il cumino, l'aneto, il timo, la ruta, l'apio, l'aglio, la cipolla, i bulbi, il finocchio, lo zafferano, il macerone, il cardamomo, ma soprattutto il pepe che rappresenta il 75 per cento delle spezie impiegate. Ma c'è pure il laser (la rarissima resina del silphium, una pianta già estinta ai tempi di Apicio), il folio (foglie di lauro indiano), lo zenzero, e il nardo (pianta delle Valerianaceae, utilizzata però soprattutto per la produzione di profumi).

Per la documentazione delle spezie (aròmata) nella cucina romana dobbiamo attendere il ricettario del IV sec. d.c. e intitolato "De arte coquinaria", attribuito a Marco Gavio Apicio (25 a.c. - 37 d.c.), un ricco epulone romano che avrebbe iniziato a comporlo con le ricette dei piatti a lui più graditi, continuato da altri e concluso nel corso nel IV secolo da un autore anonimo.

Pertanto l'Horreum non era molto dissimile da un mercato coperto odierno, come quello mostrato nella foto in alto. Il Mercato Nomentano di Roma, perchè di questo si tratta, si presenta come il primo spazio polifunzionale con biblioteca e area wi-fi che deriva dalla riqualificazione del vecchio mercato rionale, un po' come nella Roma antica presso i mercati si trovavano biblioteche, sarti, fiorai, "cibo da strada", maestri elementari e tanto altro.



VIA FERENTANA O GERENTIANA (Lazio)

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VIA PUBLICA FERENTIENSIS

VIA FERENTANA

La foto di cui sopra mostra la Via Publica Ferentiensis, detta anche Via Gerentana, o Via Ferentiense, con i suoi basoli originari che ancora mostrano i solchi millenari dei carri. La strada romana collegava la Cassia viterbese ai porti fluviali sul Tevere. La passeggiata odierna per i volenterosi proseguirebbe sulla strada sterrata Ferentana, erede della antica Ferentiensis, che scende dal colle, traversa campi, poderi e masserie, e si dirige verso le Grotte Santo Stefano.


DA NON CONFONDERSI CON LA VIA FERENTANA ABRUZZESE

"Questa via svolgeva un ruolo importantissimo nelle comunicazione commerciali e culturali collegando la zona costiera tirrenica con quella interna della valle Tiberina.
Infatti, il territorio dell'Etruria meridionale, fin dall'epoca etrusca, era attraversato, in direzione sud-nord, da importanti assi di collegamento commerciale e culturale, poi noti con i nomi romani di via Clodia o Claudia, via Cassia, via Flaminia e via Amerina, nonché da una serie di importanti vie trasversali alle precedenti, tra cui la sopra detta Via Gerentana o Ferentiense (Via Pubblica Ferentiense), che univa non solo i centri dell'interno, in direzione ovest-est, ma anche, in direzione nord-sud, con il territorio falisco. 

Partendo dalla stazione della Cassia di Aquae Passeris, o Acque Passere, presso il Bacucco, antico bagno romano nelle vicinanze del Monte Jugo, avrebbe collegato Ferento a Falerii, passando attraverso il territorio di Bomarzo; probabilmente a sud del torrente Vezza, dopo aver attraversato la Selva di Malano, si doveva dividere in due percorsi: uno doveva salire per l'estremità sud-ovest di Monte Casoli fin sull'abitato della collina, per poi dirigersi verso Pian della Colonna; l'altro sfruttando un percorso di crinale arrivava fino all'estremità sud-ovest di Pianmiano, da dove scendeva verso la valle Tiberina.

Questo importante nodo stradale, sia in epoca etrusca che romana, doveva trovarsi in prossimità di Casal Cardoni; qui la strada proveniente da Ferento piegava a Sud e, attraverso una tagliata, saliva sull'altopiano di Capannelle per poi proseguire, passando ad Est di Soriano verso la fertile regione falisca fino a Falerii. 

Dunque la via Ferentana svolgeva un ruolo importantissimo ed è proprio per questo motivo che, secondo il Wetter e la Baglione, sarebbe stata difesa lungo la valle del Vezza, nel tratto tra Acqua Rossa ed il Tevere, da una serie di pagi fortificati, ubicati sulle alture dominanti il suo corso: Poggio Civitella, Pranzovico, Camorella e Monte Casoli. 

Per la Baglione questi pagi fortificati sul Vezza coincidono con le castella del territorio volsiniese, probabilmente limite e barriera alle penetrazioni nel territorio nord dell'Etruria, che gli eserciti romani assalirono nel IV sec. a.c. Ne restano dei tratti di acquedotti, ponti e strade di epoca etrusca che vennero usati anche in epoca romana."

(Bomarzo. Architetture fra natura e società - Di Aa.Vv.)

FERENTO - IL TEATRO

FERENTO

I resti della città di Ferento (in latino: Ferentium) si trovano a soli sei km da Viterbo (del cui comune fanno parte), sulla strada Teverina verso la valle del Tevere. Ferentus sorgeva sull'altura di Pianicara, dove sembra si insediarono gli sfollati della vicina città etrusca Acquarossa, distrutta intorno al 500 a.c. durante le guerre di espansione di Tarquinia.

Dagli scavi effettuati, è emerso che in età repubblicana, Ferento si era sviluppata lungo il decumano massimo costituito  dalla via Ferentiensis, che l'attraversava da est verso ovest. Durante l'impero la città raggiunse il suo massimo splendore dotandosi di un teatro, un anfiteatro, il foro, le terme, una fontana con statue e l'augusteo. Ferento venne infatti definita "civitas splendidissima", come è scritto in una epigrafe di marmo rinvenuta nei pressi della città.

RESTI DELLE TERME DI BACUCCO

TERME DEL BACUCCO

In località Bagnaccio permangono diversi resti romani, detti la Lettighetta e le Terme del Bacucco. Le sorgenti termominerali del territorio viterbese vennero molto apprezzate dai romani a partire dall’età imperiale, quando vi vennero appunto edificate delle terme, ormai edificio imprescindibile per ogni città romana o romanizzata. 

Il tratto della Via Cassia compreso tra la località Paliano, a Sud-Ovest di Viterbo, e il Bacucco, per una lunghezza di circa Km 11, è infatti costellato di ruderi di terme romane. Anche la Tabula Peutingeriana testimonia la grandiosità di queste terme, poiché presso di esse localizza una stazione della Cassia, la frequentatissima mansio Aquae Passeris e in località Bagnaccio sono stati rinvenuti i ruderi più grandiosi fra tutti quelli presenti nel territorio viterbese.

Di queste terme restano solo dei ruderi di una grande sala ottagonale, con 4 grandi nicchie, sormontate da una ghiera di mattoni. Alla base di ogni nicchia si aprivano 3 celle semicircolari, di cui restano pochissimi resti. Dell’antico mosaico non resta più niente. La struttura era in opera cementizia, con numerose colonne, il perimetro esterno dell’edificio era di forma quadrangolare, mentre quello interno ottagonale.

I muri erano coperti da lastre di marmo delle quali oggi non resta più niente. Purtroppo la spoliazione in parte voluta per cancellare un passato pagano e in parte per riedificare chiese e nuovi palazzi, data la scarsità di mestranze preparate, fu pressocchè totale. A 50 metri da questi ruderi si trova il Casalino Bacucco, che ingloba al suo interno i resti della antica struttura termale.

BOSCO FERENTANO

IL BOSCO FERENTANO (o FERENTINO)

Nel Latium risiedevano almeno tre boschi sacri, ovvero tre lucus: quello di Diana Nemorense presso Aricia, quello di Ferentina sotto il monte Albano e quello di Diana a Corne presso Tuscolo, tutti siti extraurbani, ma nei pressi di importanti centri latini.

Il Bosco Ferentano, che ha conservato tutta la sua antica vegetazione del sottobosco, è situato nel comune di Marino (RM), e si estende per circa 20 ettari nella parte più alta di un costone di peperino, nel settore sud occidentale del Vulcano Laziale a sud-est della capitale. Il bosco rappresenta le ultime vestigia della più vasta Selva Ferentana (Lucus Ferentinae), che in epoca preromana era considerata sacra e dedicata alle divinità tanto silvane quanto della terra.

Il bosco del Ferento, raggiungibile un tempo attraverso la Via Ferentana, è uno degli ultimi boschi misti in buono stato di conservazione sui Colli Albani, sopravvissuto alle trasformazioni causate dagli insediamenti umani e dalla diffusione della coltura del castagno da legno. E' ovvio che fu il nome della Dea a caratterizzare i vari nomi della zona, dal Bosco Ferentano, al centro abitato di Ferento ed alla Via Publica Ferentana.

ANTEFISSA DI FALERII VETERE

FALERII VETERE E NOVA

Falerii fu ca lungo la capitale dei Falisci, e fiorì maggiormente nel VI secolo a.c. per una forte ellenizzazione, soprattutto dei coroplasti, gli artigiani produttori di oggetti o statue in terracotta. La città fu alleata degli Etruschi contro i Romani che ne occuparono il territorio nel 241 a.c. I suoi abitanti insieme a quelli della vicina Falerii Veteres (attuale Civita Castellana) furono trasferiti nella colonia di Falerii Novi.

Falerii era collegata alla città di Ferento tramite la Via Ferentana che da Ferento piegava a Sud e, attraverso una tagliata, saliva sull'altopiano di Capannelle per poi proseguire, passando ad Est di Soriano verso la fertile regione falisca fino a raggiungere la ricca Falerii. .

CULTO DI CLOACINA

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VENERE CLOACINA 
La Dea Cloacina era una divinità di origine etrusca protettrice delle paludi e delle fognature che insegnava a bonificare o ad edificare e mantenere. I romani impararono da loro a bonificare i colli di Roma, a eseguire le fognature e gli acquedotti. Cloaca però viene dal greco col significato di lavare, pulire.

Nella foto della moneta di Venere Cloacina al diritto appare una testa coronata dai raggi solari, molto strano associata a una divinità dei sotterranei. La corona solare era propria di Elios, Apollo, Sol, Mitra e Medea, in quanto figlia del Sole.

Sembra che all'inizio la Dea delle cloache fu appunto Cloacina che apparve poi insieme a Venere,  forse in qualità anche di Dea delle acque in quanto la Dea dell'amore e della bellezza venne generata dal mare, anche se sembra un po' tirata. Viene da pensare però che in qualche modo per farne una festività pubblica la Dea doveva essere assimilata a qualche divinità romana.

Quindi per esclusione, dato che nè Giunone in qualità di Regina, nè Minerva in qualità di Dea della guerra, nè Diana in qualità di cacciatrice, nè Vesta che presiedeva al fuoco, potessero assimilare l'antica Dea etrusca, pertanto come divinità femminile di tutto rispetto non rimaneva che Venere, che in alcune zone era considerata Dea del mare, giusto dove convogliavano le varie acque reflue.


Comunque sulla Via Sacra, presso dell'area delle Tabernae Novae, poi demolita per far spazio alla Basilica Emilia, venne eretto un  tempietto a Venere Cloacina, ovvero alla Dea Venere, insomma ad ambedue in quanto protettrici dei luoghi deputati alle acque, per quanto gli etruschi non assimilarono mai Cloacina alla Dea dell'amore, che presso di loro si chiamava Turan (la Signora).

Invece la Dea Cloacina venne mano a mano assimilata a Venere, dando luogo appunto a Venere Cloacina, il cui culto era legato alla Cloaca Maxima, la più importante delle fognature dell'antica Roma, che proprio in questa zona si dirigeva verso il Foro Romano. Secondo alcuni lì c'era l'ingresso del sistema fognario, ma non ce ne sono prove, perchè aldisotto non è stato mai scavato (e non si capisce perchè).

Secondo altri invece il soprannome di Cloacina le derivò da cluere, purificare, per la cerimonia usata da Romani e Sabini nel riconciliarsi purificandosi dal sangue che aveano sparso tra loro. Ma è anche vero che la cloaca purificava l'urbe dalle acque nere, per cui aveva anche qui un compito di purificazione.

CLOACA MASSIMA
Comunque, del suddetto sacello sulla Via Sacra, oggi resta solo un basamento circolare in marmo e lievemente rialzato a ovest della gradinata della basilica Emilia, e se non c'è una guida non esiste un cartello che lo racconti.

Che le due Dee, Cloacina e Venere, all'inizio convivessero e in seguito divennero una sola, è dimostrato dal retro di una moneta, emessa durante il secondo triumvirato (quello di Ottaviano), dove si osserva il tempietto a cielo aperto, con un basso recinto circolare metallico che conteneva due statue di culto, citate da Servio commentatore di Virgilio come appunto Cloacina e Venere.

Ma nella ricostruzione tuttavia emerge il nome Sal.. che dovrebbe completarsi in Salus, ovvero la Dea Salus, la Dea della Salute.

La Dea Salus sarebbe del tutto coerente con la Dea Cloacina, in quanto bonificava l'area togliendo almeno la malaria se non le pestilenze, mentre lo sarebbe un po' meno Venere.

SACELLO DI CLOACINA ANCORA INTERRATO
I relitti del santuario riemersero tra il 1899-1901 davanti alla Basilica Emilia; esso era rotondo come in genere lo erano i santuari più antichi, con una base di marmo rotonda di un diametro di 2,40 m, appoggiata su una lastra di travertino e otto anelli di vari tipi di pietra.

La composizione di questi anelli mostra che la fondazione è stata gradualmente sollevata man mano che il suolo si sollevava per i rifacimenti della basilica. Cloacina, Dea della Cloaca Massima e del sistema fognario, era così preposta all'igiene della città, al fine di prevenire epidemie.

Il santuario mostra due divinità femminili. Quello di sinistra sembra sollevare un ramo di mirto, simbolo di purificazione e di passaggio (del rito nuziale e della morte). Quello di destra sembra identico ma privo di attributi.

Ma in via più generale, Cloacina era adorata anche come Dea sia della pulizia pubblica che di quella privata, per cui una sua immagine veniva talvolta effigiata nei bagni romani per una buona soddisfazione dei bisogni corporali.

RICOSTRUZIONE DEL SACELLO
Accanto al sacello si svolsero due eventi legati alle origini di Roma:
- uno, come racconta Plinio il Vecchio, e pure Tito Livio, è la purificazione, con rami di mirto sacri a Venere, delle truppe romane e sabine al termine della battaglia a causa del Ratto delle Sabine,
- l'altro è la purificazione per l’omicidio di Virginia commesso dal padre Lucio Virginio per proteggerne l’onore dal tentativo di stupro del decenviro Appio Claudio.

Livio: "Virgino trae la figlia e la nutrice presso il sacello di Cloacina alle taberne che ora son dette nuove ed ivi, preso da un macellaio un coltello, esclama: “Solo in questo modo, o figlia, posso restituirti in libertà”. 
Quindi trafigge il petto della fanciulla e volgendosi al tribunale dice: “Te e la tua testa, o Appio, io consacro alla vendetta con questo sangue”. Perchè una donna violentata era disonorata comunque.

La parte oggi ancora conservata del sacello è un basamento rotondo con zoccolo di marmo e i resti di una piccola scala sul lato occidentale. Il terreno nasconde una sostruzione tufacea che discende fino a tre metri sotto il livello del suolo dell'età imperiale, purtroppo non ancora scavato.

Essendo Venere venerata con culto di stato, erano a lei preposti dai sacerdoti che invocavano il suo nome insieme ai suoi altri nomi nel culto a lei dedicato. Ma come Dea Cloacina non aveva, per quel che sappiamo, culti particolari se non invocazioni e preghiere.

POLIBIO - POLYBIUS

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Nome: Polybius
Nascita: Megalopoli, 206 a.c.
Morte: Grecia, 124-120 a.c.
Professione: Storico greco e militare


Polibio, in greco Polýbios, storico greco, nacque a Megalopoli, in Grecia, nel 206 a.c. e morì nel 124 o 120 a.c.. Figlio di Licorta, stratega della Lega Achea, ambasciatore a Roma e in Egitto. Polibio fu capo della cavalleria, secondo in grado dell'esercito acheo.

La sua carriera politica in Grecia finì con la battaglia di Pidna (168 a.c.) dove il console Lucio Emilio Paolo cancellò la Macedonia di Perseo dalle potenze dell'epoca. La Macedonia diventò in modo definitivo un territorio su cui aveva giurisdizione un proconsole o un propretore romano. Per essersi mostrato neutrale Polibio venne punito dai romani che ne fecero uno dei mille nobili achei che nel 166 a.c. furono inviati quali ostaggi a Roma, dove rimase per diciassette anni.

Tuttavia a Roma venne molto apprezzata la sua vasta cultura, per cui gli vennero spalancati i salotti letterari, soprattutto quello di Paolo Emilio (229 - 160 a.c.), che gli affidò l'educazione dei figli, uno dei quali fu poi adottato da Scipione e cambiò nome in Scipione Emiliano (Africano Minore). L'amicizia degli Scipioni permise a Polibio frequenti viaggi in Italia, Gallia, Spagna. Fu anche in Spagna, al seguito di Scipione nel 134 a.c. nella guerra a Numanzia.



LA SCACCHIERA DI POLIBIO

La scacchiera di Polibio, nota anche come quadrato di Polibio, è un sistema crittografico inventato da Polibio nel 150 a.c., e descritto nelle sue Storie. E' basata sul frazionamento dei caratteri del messaggio in chiaro così che potessero essere rappresentati utilizzando un più piccolo insieme di simboli. In pratica una sorta di antico telegrafo

La scacchiera originale è costituita da una griglia composta da 25 caselle ordinate in cinque righe ed altrettante colonne. Le lettere dell'alfabeto vengono inserite da sinistra a destra e dall'alto in basso. 
12345
1ABCDE
2FGHI, JK
3LMNOP
4QRSTU
5VWXYZ

Le righe e le colonne sono numerate: tali numeri sono gli indici o
"coordinate" delle lettere costituenti il messaggio in chiaro.
La trasposizione avviene sostituendo ad ogni lettera del messaggio un
numero le cui cifre rappresentano il numero di riga e di colonna della sua posizione nella scacchiera

Con questo metodo si potevano inviare messaggi mediante l'uso di torce.
Un uomo si poneva dietro ad un riparo con 5 torce alla sua destra e 5 torce
alla sua sinistra: la comunicazione avveniva mediante il sollevamento di un determinato numero di torce per lato. Il numero era dato proprio dalle coordinate (il numero di riga e quello di colonna) delle lettere del messaggio all'interno della seguente scacchiera.

L'ASSEDIO DI SIRACUSA

RITORNO ALLA GRECIA

Per intercessione di Scipione, nel 150 a.c. Polibio ottenne di ritornare in Grecia ma non vi rimase molto, curioso come era degli avvenimenti politici e soprattutto militari che riguardavano Roma. Infatti nell'anno successivo andò in Africa con il suo amico Scipione Emiliano e nel 146 a.c.  assistette alla caduta di Cartagine, che poi descrisse in qualità di storico.

La fiducia che ormai i Romani avevano in lui fece sì che nel 146, dopo la distruzione di Corinto che segnò la caduta della Grecia, Polibio, designato a provvedere al migliore assetto da dare alle città greche, si recò nuovamente in Grecia svolgendo il suo compito con abilità ma anche aiutando come poteva i suoi antichi compatrioti. Per la sua opera di legislatore ed interprete delle leggi si guadagnò le più alte considerazioni, tanto che gli furono erette statue.

Polibio scrisse la prima storia universale che mai sia stata scritta. I suoi ultimi viaggi in Italia e le conversazioni che ebbe con Scipione verso il termine della vita di lui permisero a P. di farsi un'idea delle trasformazioni che erano avvenute in Roma per effetto della conquista. All'amico sopravvisse, perché ne lasciò nelle Storie un elogio che sembra presupporne la morte (129)

Studiò soprattutto la nascita della potenza della Repubblica romana, che attribuì all'onestà dei romani ed alla validità delle loro istituzioni sia civiche che militari. Nelle sue Storie, particolarmente importante fu la narrazione della II e della III guerra punica fra Roma e Cartagine, nonché dell'era imperiale.

Gli anni successivi li trascorse a Roma, teso al completamento del suo lavoro storico, affrontando occasionali lunghi viaggi nelle terre bagnate dal Mediterraneo che interessavano la sua Storia, soprattutto con l'obiettivo di ottenere informazioni di prima mano sui siti storici.
Alla morte di Scipione ritornò in Grecia, dove morì, all'età di 82 anni, in piena salute tanto che ancora montava a cavallo, ma per ironia della sorte morì proprio per una caduta da cavallo.



OPERE MINORI

Si ha notizia di almeno tre opere di Polibio, però perdute, legate alla sua attività di politico: una Vita di Filopemene in tre libri, un trattato di tattica una storia della guerra di Numanzia. Quest'ultima è, tuttavia, non molto certa.

L'ASSEDIO DI CARTAGINE

LE STORIE

E' l’opera principale di Polibio che tratta le vicende dal 264 a.c., cioè dall’inizio della I guerra punica, fino al 144 a.c., quando Roma ha occupato tutto il bacino del Mediterraneo. Polibio vuole fornire una storia universale (la Pragmateia), con un prologo, concernente la storia romana a partire dal 264 a.c.

Dei 40 libri delle Storie ne sono sopravvissuti integri solo i primi 5 libri; degli altri, fino al XVIII, vi sono ampi estratti, ed estratti (gli Excerpta historica), di estensione più ridotta, è composto il resto dell’opera, facente parte della raccolta ordinata dall’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito (X secolo d.c.).


I LIBRI

I – II libro: riassunto degli avvenimenti compresi fra il 264 e il 220 a.c., cioè
gli eventi nel Mediterraneo a partire dal Sacco di Roma da parte dei Galli di Brenno (390 a.c. ) fino alla I guerra punica, focalizzandosi sulla crescita dell'egemonia romana.

III – V libro: II guerra punica fino alla battaglia di Canne (216 a.c.) Come e perché Roma, nel breve volgere di nemmeno 53 anni divenne l'incontrastata dominatrice dell'ecumene, dell'intero mondo abitato.

VI libro: analisi della costituzione romana e delle varie forme di governo, del loro sorgere e del loro degenerare

VII – XL: racconto annalistico degli eventi accaduti in Oriente e in Occidente fino al 144 a.c.

POLIBIO
Molto amico degli Scipioni, e grande ammiratore dei romani forse non fu del tutto imparziale ma colse dei romani il forte nazionalismo, che esprimevano con il disprezzo per i barbari ma non il disprezzo per la diversità razziale che Roma non ebbe mai, semmai disprezzo per la mancanza di assetto civile e legislativo, così come rispettò ogni forma di religione, ma ne constatò i complessi giochi di potere, le sanguinose battaglie, la violenza ma pure la grande lealtà, il grande valore, la viva intelligenza, la forte razionalità mista a creatività.

Polibio potè attingere a ottime fonti: sia guardando ai libri dei letterati Sciponi sia per le mansioni che ebbe a svolgere nel riassetto della Grecia, e quindi dei libri greci. Egli fu uno dei primi storici che cercò di presentare la storia come una sequenza di cause ed effetti:

«basata sull'attento esame della tradizione, proseguita con accorta critica, in parte anche su quanto egli stesso vide e con comunicazioni di testimoni oculari e di protagonisti del fatto. Racconta il corso degli avvenimenti con chiarezza e penetrazione, giudizio e amore per la verità ed, a seconda dei casi, pone una speciale attenzione alle condizioni geografiche. Appartiene, quindi, alla più grande tradizione di antichi storici anche se, per stile e linguaggio non si attiene alle caratteristiche tipiche della prosa attica. Il linguaggio spesso richiede più purezza e lo stile è rigido e disarmonico

(H. Thurston Peck, Polybius, in "Harper's Dictionary of Classical Antiquities", New York 1898.)

Secondo Polibio, la storia non deve riguardare né i miti né il meraviglioso, a cui erano portati molti storici, sulla scoperta di paesi lontani e di popoli sconosciuti. Pertanto il problema principale è l'indagine delle cause, fra le quali egli distingue rigorosamente la causa vera (aitìa), il pretesto (pròfasis) e l'inizio di un fatto (archè). Pertanto le spiegazioni miracolistiche e gli interventi provvidenziali vengono derisi.

La storia deve interessarsi delle azioni umane che contribuiscono alla costituzione della potenza militare e politica di uno stato; quindi una storia pragmatica. Per questo le azioni degli uomini hanno un significato, solo se inquadrate nel contesto in cui si verificano con un'accurata analisi di tutti i fattori e di tutte le cause che le hanno determinate.

Nella ricerca storica di Polibio c'è il timore della fine e del crollo dell'Impero romano, per cui ripercorre tutte le fasi dell'espansione di Roma, cercando di capire quali fossero le ragioni del suo immenso potere e della sua ineguagliabile grandezza, e per tentare di comprendere, da ciò che è avvenuto, che cosa accadrà. Perchè il passato è importante per la comprensione e l'attuazione del futuro.

I suoi scritti ebbero una grande influenza su Cicerone, sui padri fondatori degli Stati Uniti d'America e su Montesquieu, per la sua concezione della storia come "maestra" per il comportamento degli uomini che devono imparare da essa a non commettere gli stessi errori compiuti dai predecessori.
L'opera integrale non fu rivista globalmente dall'autore e fu pubblicata dopo la sua morte.

BATTAGLIA DI FILIPPI (42 a.c.)

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"Ci rivedremo a Filippi"
(Plutarco - Vite parallele - Vita di Bruto - 36)

«Dopo che Cesare fu trafitto dal pugnale dei congiurati e tutta la popolazione fu invasa da un grande spavento e da enorme timore Bruto e Cassio, autori della congiura, invisi alla plebe, si allontanarono da Roma e si rifugiarono in Asia, dove cominciarono ad arruolare truppe e raccogliere denaro.
Contro loro fecero guerra Marco Antonio, amico di Cesare e suo luogotenente in Gallia, e Ottaviano, ambizioso adolescente figlio adottivo di Cesare. Lepido, loro alleato venne lasciato in difesa della città di Roma. Presso Filippi, città della Macedonia, si combatté a lungo ed aspramente.»

La battaglia di Filippi si svolse tra i cesariani del II triumvirato, composto da Marco Antonio (83 - 30 a.c.), Cesare Ottaviano (27 a.c. - 14 d.c.), e Marco Emilio Lepido (90 - 13 a.c.), e i due principali cospiratori ed assassini di Gaio Giulio Cesare, Giunio Bruto (85 a.c. - 42 a.c.) e Gaio Cassio Longino (86 a.c. 42 a.c.).

La battaglia si svolse nell'ottobre del 42 a.c. presso Filippi, cittadina della provincia di Macedonia, posta lungo la Via Egnatia, alle pendici del monte Pangeo. Bruto e Cassio arrivarono da sud-est, e un po' più tardi, i triumviri Marco Antonio e Ottaviano arrivarono da ovest. L'esercito dei cesaricidi usò Neapolis (Kavala) come base di rifornimento, e dovette attraversare le montagne per ottenere il suo cibo sul campo di battaglia; l'altro esercito usò Anfipoli, che era molto lontano. Il loro scontro era in primo luogo una lotta per i rifornimenti dell'esercito.

Poiché Bruto e Cassio avevano occupato le migliori posizioni, due piccole colline a ovest di Filippi, Marco Antonio cercò di aggirare Filippi costruendo una strada rialzata attraverso le zone umide a sud della città. Se avesse avuto successo, avrebbe tagliato la linea di comunicazione dei suoi nemici. Ma Cassio lo scoprì e costruì una diga trasversale.

Mentre il suo avversario era così occupato, Marco Antonio ordinò inaspettatamente ai suoi uomini di prendere d'assalto il campo di Cassio. Ebbero un grande successo e Cassio, credendo che tutto fosse perduto, si suicidò prima di aver saputo che Bruto aveva sconfitto l'esercito di Ottaviano e aveva catturato il campo di Marco Antonio e Ottaviano. In altre parole, entrambe le parti avevano vinto una vittoria e hanno subito una sconfitta.

Un secondo scontro fu decisivo: un paio di giorni dopo, Marco Antonio e Ottaviano riuscirono ad attirare Bruto in una battaglia che non avrebbe dovuto accettare. Alla fine, i triumviri furono vittoriosi. Undici anni dopo, Ottaviano sconfisse Marco Antonio ad Azio e divenne l'unico sovrano del mondo romano.

IL FANTASMA DI CESARE APPARE A BRUTO

APPIANO D'ALESSANDRIA

Appiano d'Alessandria (95 - 165), storico greco.

«Filippi è una città che si chiamava Datus, e prima ancora Crenides. Re Filippo di Macedonia la chiamò Filippi in suo onore. È situata su una collina scoscesa con vasti boschi a nord attraverso i quali la guida Rhascupolis fece passare l'esercito di Bruto e Cassio. A sud c'è una palude che si estende fino al mare. 

A est si trovano le gole dei Sapaeans e Corpileans, e ad ovest una pianura molto fertile e bella che si estende fino alle città di Murcinus e Drabiscus e del fiume Strymon, a circa 65 km. Qui Persefone venne rapita raccogliendo fiori, ed ecco il fiume Zygactes, attraversando il quale si dice che il giogo del carro del Dio fu spezzato. La pianura digrada verso il basso, favorevole per coloro che discendono da Filippi, sfavorevole per chi vi sale.

C'è un'altra collina non lontana da Filippi detta la Collina di Dioniso, nella quale si trovano le miniere d'oro chiamate Asyla. Due km più in là c'erano altre due colline, a 3 km da Philippi, a 1 km l'una dall'altra. Su queste colline si accamparono Cassius e Bruto, il primo a sud e il secondo a nord. Non avanzarono contro l'esercito in ritirata del Norbano (luogotenente di Antonio) perché sapevano che Marco Antonio si stava avvicinando, Ottaviano era stato lasciato indietro a Epidamno a causa di una  malattia.

La pianura era molto adatta ai combattimenti e le cime delle colline lo erano per accamparsi, poiché da una parte di esse c'erano paludi e stagni che si estendevano fino al fiume Strymon, e le altre gole erano prive di strade e impraticabili. Tra queste colline, a 1 km di distanza, si trova il passaggio principale dall'Europa all'Asia.

Attraverso questo spazio Bruto e Cassio costruirono una fortificazione da campo a campo, lasciando un cancello nel mezzo, in modo che i due campi diventassero praticamente uno. Accanto a questa fortificazione scorreva un fiume, detto il Gange o il Gangiti, e dietro di esso c'era il mare, dove potevano mantenere le loro provviste e la navigazione in sicurezza. Il loro deposito era sull'isola di Thasos, a 20 km di distanza, e le loro triremi erano ancorate a Neapolis, ad una distanza di 12 km.

Bruto e Cassio erano soddisfatti della posizione e procedettero a fortificare i loro accampamenti, ma Antonio mosse rapidamente il suo esercito, desiderando anticipare il nemico occupando Anfipoli come posizione vantaggiosa per la battaglia. Quando lo trovò già fortificato da Norbano ne fu felice.

Lasciando lì le sue scorte e una legione, sotto il comando di Pinario, avanzò con la massima audacia e si accampò nella pianura a una distanza di solo 1 km dal nemico, e immediatamente la superiorità della situazione del nemico e l'inferiorità della sua stessa divenne evidente. I primi erano su un terreno elevato, il suo sulla pianura; il primo procurava legna dalle montagne, il secondo dalla palude; il primo otteneva l'acqua da un fiume, il secondo dai pozzi appena scavati; il primo prelevava i rifornimenti da Thasos, richiedendo il trasporto di pochi km, mentre il secondo era a 65 km da Anfipoli.
IL GIOVANE AUGUSTO
Tuttavia sembra che Antonio sia stato costretto a fare come faceva, perché non c'era nessun'altra collina, e il resto della pianura, che giaceva in una specie di cavità, era soggetto a inondazioni a volte dal fiume; per cui anche le fontane d'acqua furono trovate fresche e abbondanti nei pozzi che vi furono scavati. L'audacia di Antonio, anche se dettata dalla necessità, confondeva il nemico quando lo vedevano piantare il suo campo così vicino a loro e in modo così sprezzante appena arrivato.

Antonio eresse numerose torri e si fortificò su tutti i lati con fossati, mura e palizzate. Il nemico aggiustò la propria fortificazione ovunque il loro lavoro fosse difettoso. Cassio, osservando che l'avanzata di Antonio era avventata, estese la sua fortificazione nell'unico luogo dove ancora mancava, dal campo alla palude, uno spazio che era stato trascurato a causa della sua ristrettezza, tanto che ora non c'era nulla di non protetto sul fianco di Bruto e la palude su quella di Cassio e il mare steso contro la palude. Al centro tutto fu difeso da fossati, palizzate, mura e cancelli.

In questo modo entrambe le parti si erano fortificate, nel frattempo mettendosi a prova l'una con l'altra solo con le schermaglie di cavalleria. Quando avevano fatto tutto ciò che intendevano e Ottaviano era arrivato (perché, anche se non era abbastanza forte per una battaglia, poteva essere trasportato lungo le file reclinabili in una lettiga), lui e Antonio si prepararono immediatamente alla battaglia. Bruto e Cassio anche tirarono fuori le loro forze sul loro terreno più alto, ma non scesero. Decisero di non dare battaglia, sperando di logorare il nemico per mancanza di rifornimenti.

C'erano diciannove legioni di fanteria su ciascun lato, ma quelle di Bruto e Cassio non erano piene, mentre quelle di Ottaviano e Antonio erano complete. Di cavalleria quest'ultimo aveva 13.000 e gli ex 20.000, compresi i Traci su entrambi i lati. Così nella moltitudine degli uomini, nello spirito e nel coraggio dei comandanti e nelle armi e nelle munizioni, fu vista una magnifica esposizione da entrambe le parti; eppure non fecero nulla per diversi giorni.

Bruto e Cassio non volevano impegnarsi, ma piuttosto continuare a logorare il nemico per mancanza di provviste, poiché essi stessi avevano abbondanza dall'Asia, tutti trasportati dal mare da vicino, mentre il nemico non aveva nulla in abbondanza e nulla dal loro proprio territorio. Non potevano ottenere nulla tramite mercanti in Egitto, poiché quel paese era stremato dalla carestia, né dalla Spagna o dall'Africa a causa di Sesto Pompeo, né dall'Italia in ragione di Murcus e Domitius. La Macedonia e la Tessaglia, che erano gli unici paesi che fornivano loro, non sarebbero bastati molto più a lungo.

Consapevole soprattutto di questi fatti, Bruto e i suoi generali protrassero la guerra. Antonio, temendo il ritardo, decise di costringerli a battersi. Formò un piano per effettuare un passaggio attraverso la palude segretamente, se possibile, al fine di entrare nella retroguardia del nemico a loro insaputa, e tagliare via la loro via di rifornimento da Thasos.

Così schierò le sue forze per la battaglia come ogni giorno, in modo che sembrasse l'esercito intero, mentre una parte della sua forza lavorava giorno e notte facendo uno stretto passaggio nella palude, tagliando giù canne, gettando su di esse una strada rialzata e fiancheggiarla con la pietra, in modo che la terra non dovesse cadere via, e colmare le parti più profonde con pile, tutto nel più profondo silenzio. Le canne, che stavano ancora crescendo intorno alla sua via di passaggio, impedivano al nemico di vedere il suo lavoro.»

MARCO ANTONIO

PRIMA DELLA BATTAGLIA

La situazione per i triumviri diventa sempre più difficile, in quanto le comunicazioni con l'Italia si riducono a causa della potente flotta, guidata da Gneo Domizio Enobarbo, alleato di Bruto e Cassio, che blocca i rifornimenti dalla penisola.

Inoltre l'esercito dei Cesaricidi ha alcune legioni lasciate in Oriente da Cesare, la legione XXVII, la XXXVI, la XXXVII, la XXXI e la XXXIII, tutte costituite da veterani, quindi capaci ma forse fedeli a Cesare, tranne forse la XXXVI legione che aveva militato con Pompeo e che venne poi inglobata fra quelle di Cesare solo dopo la battaglia di Farsalo. Ottaviano era stato nominato erede da Cesaree tutti lo chiamavano non Ottaviano, ma Gaio Giulio Cesare. 

Cassio cerca di tener buoni i suoi uomini con fiorite adlocutio, come: «Non dobbiamo permettere che qualcuno dica che egli stesso fu soldato di Cesare; perché noi non siamo stati soldati suoi, ma della nostra nazione». In più versa ad ogni legionario 1500 denari, e 7000 ad ogni centurione. Sembra che i due eserciti contengano circa 100.000 uomini per parte.

Plutarco narra che Bruto sogni uno spettro che lo fissa:
«Chi sei tu? Da dove vieni?» chiede Bruto nel sogno.
Lo spettro, che ora l'altro riconosce essere Cesare gli risponde:
«Sono il tuo cattivo demone. Bruto, ci rivedremo a Filippi.»
Bruto risponde coraggiosamente:
«Ti vedrò!»
Sembra che lo spettro di Cesare gli sia apparso di nuovo prima della battaglia.

Svetonio riporta che, a Filippi, in una strada solitaria, a Ottaviano, prima della battaglia, era apparso il fantasma di Cesare; interpellato un Tessalo sull'accaduto, (la Tessaglia è terra di maghe e di indovini) questi predisse ad Ottaviano la vittoria.

Dopo aver lavorato dieci giorni nella palude Antonio, che ha imparato l'arte della guerra da Cesare, improvvisamente manda una colonna di soldati di notte, che occupa tutte le posizioni forti all'interno delle sue linee e costruì contemporaneamente diverse ridotte (difese leggere). Cassio lo scopre e cerca di intercettare il passaggio fatto da Antonio.



LA PRIMA BATTAGLIA

E' il 3 ottobre del 42 a.c., Marco Antonio è stanco delle paludi e di vedere assottigliarsi le vettovaglie per l'esercito. Non può più aspettare, divide in due gruppi la cavalleria che avrebbe traversato la palude: un gruppo deve prendere alle spalle la fanteria nemica, il secondo attaccare l'accampamento di Cassio.

La manovra è audace e velocissima, Cassio subisce una terribile sconfitta. A nord, intanto, l'esercito di Bruto attacca Ottaviano senza attendere la parola d'ordine “Libertà”; i nemici, impauriti vengono sbaragliati. Ma Bruto non insegue i fuggitivi, perché avido delle ricchezze preferisce depredare l'accampamento di Ottaviano.

In questo attacco tre insegne del campo di Ottaviano vengono catturate, un'onta molto grave. Ma lui non viene trovato nella tenda: racconterà nelle sue "Res gestae divi Augusti" che era stato messo in guardia da quel giorno da un sogno. Infatti i nemici corsero in massa verso la sua tenda ed il suo letto, nella speranza che dormisse e lo crivellarono di colpi. Plinio riferisce che Ottaviano si nascose nelle paludi.

La battaglia finì con 9.000 morti per Cassio, e 18.000 fra morti e feriti per Ottaviano. Tuttavia Cassio, salito su una collina dopo la sconfitta per vedere cosa fosse successo al compagno, non vedendolo e credendolo in fuga, dispera della salvezza e si toglie la vita per mano di Pindaro, suo uomo di fiducia. Bruto piange poi sul corpo di Cassio, chiamandolo "L'ultimo dei romani" ma non gli dedica una cerimonia pubblica innanzi all'esercito per non abbatterne il morale.

Intanto, la flotta che Antonio aveva chiesto a Cleopatra di inviargli per i rifornimenti e la conquista del porto presidiato dai nemici, si ritira a causa di un forte temporale e nel porto la flotta di Antonio e Ottaviano viene sconfitta dai nemici.
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BRUTO
SECONDA BATTAGLIA

Bruto non è molto rispettato dai propri soldati, perchè è da un pezzo che vogliono la battaglia. Bruto invece confida nella posizione favorevole e nello sfinimento dei nemici, rimasti quasi senza rifornimenti di cibo ed acqua. Ottaviano ed Antonio, per gli stessi motivi, favorevoli invece alla battaglia, ordinano ai soldati di schierarsi e lanciare insulti ai soldati di Bruto, e nel mentre inviano una legione verso sud per cercare rifornimenti. 

Sia Bruto che Antonio ed Ottaviano regalano denaro ai soldati: Bruto promette 1.000 denarii a legionario per trattenerli dal rispondere al nemico, i secondi promettono ulteriori 10.000 denarii per ogni legionario e 25.000 per ogni centurione per alzare il morale della truppa. Ma gli ufficiali di Bruto sono stanchi dell'attesa, e si teme che i soldati possano disertare.

Nel campo dei Cesaricidi non si sa nulla dell'affondamento della flotta dei triumviri. Perciò, quando gli uomini cominciarono ad abbandonare il campo, Bruto decide di dare battaglia. E' il pomeriggio del 23 ottobre. Egli dice ai suoi: «Come Pompeo Magno, non da comandante ma da comandato io sto conducendo questa guerra, per questa ragione partiamo all'attacco, il segnale è: Apollo è con noi e che ci protegga in battaglia». Per ironia della sorte Apollo era il Dio da cui Ottaviano si sentiva protetto, addirittura pensava di essergli figlio.

Secondo Appiano Antonio invece avrebbe detto: «Soldati, abbiamo stanato il nemico, abbiamo di fronte quelli che avevamo cercato di far uscire dalle loro fortificazioni, nessuno preferisca la fame, questo male insopportabile e penoso, al nemico e alle sue difese che saranno colpite dal vostro coraggio, dalle vostre spade, dalla disperazione, la nostra situazione in questo momento è tanto critica che niente può essere rimandato a domani, ma è oggi stesso che dobbiamo decidere fra la vittoria assoluta o una morte onorevole». 

Una volta schierati, uno dei migliori ufficiali di Bruto si arrende, per cui Bruto decide di iniziare lo scontro. La battaglia è efferata dall'inizio, con duri e cruenti combattimenti corpo a corpo. Entrambi gli schieramenti saltano la fase dei lanci di frecce e giavellotti e si impegnarono subito con i gladi sguainati. I veterani combattono tra di loro con perdite elevatissime per entrambe le parti; i caduti vengono trascinati via e nuove fila di legionari entrano in campo e serrano gli schieramenti continuando la battaglia. I comandanti e i centurioni si aggiravano per incitare e immettere forze fresche di riserva.

Antonio, dopo aver diviso l'esercito in tre parti: ala sinistra, ala destra e centro, fa procedere la propria ala destra verso destra, quindi, poiché l'ala sinistra del nemico deve procedere verso sinistra affinché il proprio esercito non sia circondato, il centro dello schieramento di Bruto deve allargarsi e indebolirsi, creando uno spazio fra il centro di Bruto e l'ala sinistra, dove entra la cavalleria spingendo il centro nemico verso la sinistra romana. 

Il centro quindi gira a 90 gradi col fronte rivolto all'ala sinistra di Bruto. Sul fronte di questa divisione c'è la fanteria di Antonio, sul fianco sinistro la cavalleria e sul lato destro la fanteria che attacca il fianco destro nemico. La tattica di Antonio è vincente, l'attacco di Bruto è respinto, e messo in fuga. I soldati di Ottaviano raggiungono l'accampamento prima che il nemico possa chiudervisi. Bruto si ritira sulle colline con quattro legioni, e osserva la situazione dall'alto e comprende che è disperata.

Plutarco riporta qui le sue ultime parole, tratte da una tragedia greca:
«Oh, sciagurata virtù! Tu non eri altro che un nome ma io ti ho adorata davvero, come se fossi vera; ma ora, sembra che tu non sia mai stata altro che una schiava della sorte
E si suicida.



IL SEGUITO

INGRANDIBILE
Plutarco scrive che Antonio copre il corpo di Bruto con un mantello rosso: erano stati amici e Bruto aveva aderito alla congiura contro Cesare solo a patto che Antonio fosse lasciato vivo.  Alcuni nobili trattano con i vincitori, ma nessuno con Ottaviano.

I legionari di Bruto e Cassio vengono assunti dai triumviri. Antonio rimane per un certo tempo a Filippi. Ottaviano torna a Roma per reperire le terre promesse ai veterani. 

Alcuni terreni nel cremonese e nel mantovano (territori accusati di aver favorito Bruto e Cassio) vengono espropriati e consegnati ai veterani al posto di denaro, c'è una grave crisi economica. Uno di questi terreni apparteneva alla famiglia di Virgilio, che riuscirà ad evitare la confisca e anzi diventerà il poeta prediletto dell'imperatore. Dopo la vittoria i triumviri si dividono tra loro le province: ad Ottaviano l’Ispania e la Gallia, a M. Antonio l’Asia, il Ponto e la Siria, a Lepido l’Africa.

- CULTO DI BARBATUS

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“La testa  del Dioniso barbato di Bovillae ad Oxford “
DIONISO BARBATO

"La statua del Dioniso barbato, oggi a Palazzo Massimo alle Terme di Roma, fu rinvenuta nel 1926 a Frattocchie, al Km 18 della via Appia Antica , sul lato sinistro salendo verso Due Santi, nei pressi dell’attuale via Castagnole, durante gli scavi per le fondazioni di una nuova costruzione.

Di questa storia ne rimane memoria nella relazione dell’illustre archeologo britannico Bernard Ashmole che ricordava come lo stesso Paribeni , Soprintendente Regio alle Antichità, gli avesse mostrato la statua priva del capo appena recuperata con un sequestro dopo un tentativo di vendita clandestina. Durante gli stessi scavi sappiamo anche che vennero rinvenuti, oltre ad un’altra statua conosciuta come la Peplophoros, anche i resti di un antico basolato di strada romana.

E’ sempre contemporanea a questi fatti la notizia che vennero venduti al mercato clandestino inglese le due parti del capo mancate del Dioniso. Della parte posteriore se ne sono perse le tracce, mentre di quella anteriore sappiamo che già nel 1930 lo stesso Ashmole ne aveva riconosciuto la pertinenza con la statua di Palazzo Massimo grazie ad un calco che il soprintendente Aurigemma ne aveva preventivamente curato. E’ molto probabile che questo importante frammento, passato poi all’Ashmolean Museum di Oxford come donazione dei coniugi Beazley, facesse parte di una collezione privata ( Warren collection N° 100).

Risultato immagini per Dioniso Sardanapalo"
DIONISO SARDANAPALO


Singolare invece la storia legata alla restante parte della statua, meglio conosciuta come Dioniso Sardanapalo, già restaurata della testa mancante dallo scultore Giuseppe Tonnini prima del 1943 prendendo a modello la statua dei Musei Vaticani rinvenuta nel 1761 a Monte Porzio Catone. 

Durante la Seconda Guerra Mondiale, nel gennaio del 1944,su ordine di Hitler, la statua, già promessa da Mussolini al dottor George Lǖttke per le celebrazioni del centenario della nascita di Nietzsche (Cercherò la scultura greca da mettere nell’abside dell’Archivio di Nietzsche. Sarà il mio omaggio all’autore di “Also sprach Zarathustra”). 

Da una lettera del Duce ricevuta dal dottor Lǖttke il 6 luglio 1942),fu prelevata dal museo di Roma dallo stesso generale Kesserling e trasferita in treno a Weimar in Germania. Nel 1954 la statua passò poi a Berlino ed esposta nel Pergamon museum fino al dicembre del 1991, quando grazie al sapiente lavoro di studio e di diplomazia del Soprintendente Adriano La Regina (Grande Adriano), quest’opera è stata riconsegnata e ricollocata nel museo di origine a Roma. 

Per quel che riguarda il frammento della testa originale ancora oggi nell’Ashmolean Museum di Oxoford, sebbene sia stata già presentata una formale richiesta di restituzione, dovremo ancora aspettare.

(Marco Bellitto)

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HERMES BARBUTO

CONFONDE GLI ESPERTI

"Una scultura raffigurante una misteriosa divinità romana, mai osservata prima d’ora, è stata rinvenuta durante gli scavi di un tempio romano in Turchia del I secolo a.c.
L’immagine di un enigmatico Dio barbuto che emerge da quella che sembra una pianta o un fiore è stata scoperta durante gli scavi di un tempio romano del I secolo a.c. in Turchia, nei pressi del confine con la Siria.

Si tratta di una divinità completamente sconosciuta agli esperti. “È chiaramente un dio, ma al momento è difficile dire di chi esattamente si tratta”, ha confessato a Live Science Micheal Blömer, archeologo dell’Università di Muenster, Germania, impegnato nel sito.

Il rilievo era inglobato in un muro di sostegno realizzato successivamente per l’edificazione di un monastero cristiano medievale. 

'Ci sono alcuni elementi che ricordano le antiche divinità del Vicino Oriente, quindi potrebbe essere una divinità più antica del pantheon romano', continua Blömer.

L’archeologo tedesco non è il solo ad essere confuso; più di una dozzina di esperti contattai da Live Science non hanno idea a quale divinità appartenga l’immagine scoperta in Turchia."


IL DIO VEGETAZIONE ANNUALE

Risultato immagini per Dio Barbuto"Chiunque sia sembra si tratti di una divinità della vegetazione annuale, quindi un Dio della crescita, come in fondo doveva essere il Dio romano Barbatus, Dio romano protettore dei giovani che passavano dalla pubertà alla giovinezza, ai quali faceva comparire la prima barba. 

Non per nulla veniva invocato durante la prima rasatura, che i romani facevano usando un rasoio affilato con cura. In genere era il padre che aiutava il figlio, ma solo nei consigli e nell'incoraggiamento ad effettuare accuratamente questa delicata operazione.

La barba veniva poi avvolta in un candido panno e portata solennemente al tempio della Dea Iuventas
dove veniva bruciata ritualmente, si deve a Nerone l’istituzione dei Giovenali o Juvenalia, giochi della gioventù dedicati alla suddetta divinità alla quale si offrivano i peli del viso dei giovani in procinto di diventare ufficialmente cittadini romani.

Il Dio rinvenuto in Turchia sboccia con molta evidenza da una pianta poggiandosi ad una o due piante, come stesse cercando di liberarsi dal vegetale che lo tiene, e la presenza di un serpente al suo fianco lo denota ancor più come figlio della terra, ovvero della Dea Tellus, o Gaia che dir si voglia.

Ai suoi piedi un fiore enorme ha disteso i suoi petali in tutta la sua bellezza. Il figlio della Grande Madre è cresciuto, è diventato un uomo e si accoppierà con la sua stessa madre, come usava a volte nelle antiche religioni della Grande Madre.


GLI DEI BARBUTI

Stranamente gli antichi Dei erano sempre barbuti, vedi Dioniso e vedi Mercurio, o Saturno, o Nettuno, o Marte, o Ade, per non parlare di Giove. Avere barbe e capelli fluenti era segno di autorità e potere, soprattutto nell'antica Grecia, ma Roma seguì soprattutto la moda di Alessandro Magno che si radeva ogni giorno, copiato poi dal suo esercito. 

Quando Giove diventò il re degli Dei, molti Dei si rasarono, vedi Dioniso, Mercurio, Apollo e perfino Marte (ma non sempre), a significare che l'autorità massima fosse Giove. Facevano eccezione Plutone e Nettuno perchè erano aldifuori del mondo di Giove, governando l'Ade e il mare.

Pertanto mentre il potente era barbuto, l'eroe non lo era. Al momento della prima tonsura i giovani patrizi dovevano lasciare della toga pretesta (quella indossata dai magistrati curuli che li rendevano intoccabili, pena la morte), insieme alla bulla d'oro che rendeva anch'essa i bambini sacri (usanza presa dai sabini), per offrirla ai Dei lari della propria famiglia, andando appunto ad ornare il larario familiare.

I romani fissarono l’età adulta tra i quindici e i diciassette anni per i giovani ragazzi, facendo seguire l'evento da cerimonie e feste, nonchè di un ricco banchetto, al termine del quale si donava al giovane patrizio la veste virile. Poi si andava ai templi a fare dei sacrifici e gli si tagliavano i capelli: una parte si gettava nel fuoco in onore di Apollo, una parte si gettava nell’acqua in onore di Nettuno.

I giovinetti assumevano invece la toga virilis (di colore bianco ma non candido come quella dei "candidati"), il vestimento che chiudeva cerimonia chiamata tirocinium (tirocinio); Lo stesso giorno in cui il giovinetto diveniva adulto la sua famiglia lo accompagnava al Campidoglio e al Foro e successivamente veniva iscritto sul registro dei cittadini romani, mentre il padre offriva una moneta alla Dea Juventa.

Un altro tempio a cui si poteva rivolgere una preghiera di protezione accompagnata da un'offerta era Fortuna Barbata uno dei tanti volti della Fortuna romana che accompagnava i giovani fino all’apparizione dei primi peli. 

Una divinità analoga nell'accompagnare i ragazzi ai primi peli della barba era la Venere calva, che sarebbe stata venerata sotto il regno di Anco Marzio; ma sembra che questo culto, celebrato dalle matrone romane, si rifaccia a una statua di Venere Calva eretta all'inizio del IV sec. a.c. per commemorare il sacrificio delle Romane che avrebbero tagliato la loro capigliatura per confezionare delle funi, nel corso dell'assedio di Roma da parte dei Galli.



CATACOMBE DI COMMODILLA

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CUBICULUM LEONIS
Queste catacombe sono poste in via delle Sette Chiese, non molto lontano dalla via Ostiense, nel quartiere Ostiense, e traggono il nome dalla fondatrice o dalla donatrice del terreno su cui venne scavato il complesso cimiteriale sotterraneo, peraltro conosciuto anche col nome dei due principali martiri secondo la tradizione qui sepolti, Felice e Adautto.

Felice e Adautto vennero uccisi forse durante le persecuzioni di Diocleziano che durarono dal 303 al 305 con:

a) il rogo dei libri sacri, la confisca dei beni delle chiese e la loro distruzione;
b) il divieto per i Cristiani di riunirsi e di tentare qualunque tipo di difesa in azioni giuridiche;
c) la perdita di carica e privilegi per i cristiani di alto rango, l'impossibilità di raggiungere onori ed impieghi per i nati liberi, e di poter ottenere la libertà per gli schiavi.
d) l'arresto di alcuni funzionari statali.

Molto più violenta fu la persecuzione di Diocleziano contro i Manichei, religione del profeta iraniano Mani all'interno dell'Impero sasanide, dove i seguaci vennero messi al rogo insieme ai loro libri, ma questi non produssero santi.

Il culto di Felice a Adautto come santi risale al IV secolo, documentato da un carme loro dedicato da papa Damaso I (366 - 384) che, con la collaborazione del prete Vero, curò la monumentalizzazione dei loro sepolcri nelle catacombe di Commodilla.

Stranamente Commodilla è consideta una santa ed ha l'aureola, tuttavia la catacomba è di Commodilla, non di santa Commodilla.

MADONNA,  FELICE, ADAUTTO E COMMODILLA
Papa Damaso I dovette affrontare papa Ursino per conquistare il soglio pontificio, questo accadeva spesso e chi perdeva diventava antipapa:

«L'ardore di Damaso e Ursino per occupare la sede vescovile superava qualsiasi ambizione umana. Finirono per affrontarsi come due partiti politici, arrivando allo scontro armato, con morti e feriti; il prefetto, non essendo in grado di impedire i disordini, preferì non intervenire. Ebbe la meglio Damaso, dopo molti scontri; nella basilica di Sicinnio, dove i cristiani erano riuniti, si contarono 137 morti e dovette passare molto tempo prima che si calmassero gli animi. Non c'è da stupirsi, se si considera lo splendore della città di Roma, che un premio tanto ambito accendesse l'ambizione di uomini maliziosi, determinando lotte feroci e ostinate. Infatti, una volta raggiunto quel posto, si gode in santa pace una fortuna garantita dalle donazioni delle matrone, si va in giro su di un cocchio elegantemente vestiti e si partecipa a banchetti con un lusso superiore a quello imperiale.»

(Ammiano Marcellino - Res Gestae, XXVII, 12-14)

Il prefetto di Roma, di cui parlava Ammiano Marcellino, attese che si concludessero i disordini e una volta accertata la vittoria del partito di Damaso, esiliò da Roma Ursino. Ma i suoi seguaci non vollero accettare la sconfitta e si rifugiarono nella basilica di Santa Maria Maggiore che i damasiani il 26 ottobre assalirono: si accese una battaglia, con morti e feriti.

CATACOMBE DI COMODILLA
Riammesso l'anno seguente a Roma, Ursino cercò nuovamente di prendere il posto di Damaso, dando vita ad altri disordini e ricavandone un nuovo esilio. Dalla Gallia e da Milano, Ursino nel 370 fece accusare Damaso di gravi delitti. Fu celebrato un processo che nel 372 assolse il vescovo di Roma, e Ursino fu definitivamente esiliato a Colonia.

Questi contrasti si rifletterono non solo sulla reputazione di Damaso ma anche su quella della Chiesa romana. Molti, sia nella società pagana che in quella cristiana, videro in Damaso un uomo le cui ambizioni terrene erano superiori alle preoccupazioni pastorali.

Nel 378, alla corte imperiale, fu mossa contro Damaso anche un'accusa di adulterio, dalla quale fu scagionato prima dall'Imperatore Graziano e, poco dopo, da un sinodo romano di quarantaquattro
vescovi, che scomunicò i suoi accusatori.

L'elogio di Damaso dice Felice e Adautto fratelli; secondo una leggendaria passio tarda del VII secolo, invece, Felice era un prete condannato a morte per essersi rifiutato di sacrificare agli idoli e, mentre veniva condotto al luogo del supplizio, un altro cristiano confessò la sua fede e subì la stessa condanna. Poiché dell'altro martire si ignorava il nome, venne chiamato "adauctus" (da adiuctus), ovvero "aggiunto".

La basilica ipogea dei Santi Felice e Adautto nel cimitero di Commodilla fu edificata sotto il pontificato di Giovanni I e fu riscoperta da Orazio Marucchi grazie agli scavi eseguiti tra il 1903 e il 1905 dalla Pontificia commissione di archeologia sacra.



LA DESCRIZIONE

La Catacomba si sviluppa su tre livelli di cui quello mediano è ricavato in un'antica cava di pozzolana, dove si trovano le sepolture dei martiri, in una piccola basilica ipogea, E' proprio da questa cava che si è sviluppato il resto delle catacombe. Nel sopraterra non esistono monumenti connessi con le catacombe.

Dai reperti ritrovati le catacombe si datano tra la metà e gli inizi del IV secolo, e la passio data il martirio di Felice ed Adautto negli ultimi anni di vita dell'imperatore Diocleziano (284-305). Ciò è stato spiegato come se la cava fosse stata utilizzata per la sepoltura quando ancora era funzionante, cioè nella seconda metà del IV secolo e fino alla fine del secolo, perchè nel V e nel VI secolo vengono utilizzate solo a scopo devozionale.

La catacomba è ricca di affreschi, da quello di San Luca del VII sec. raffigurato con i ferri del mestiere di chirurgo nella tomba di Tortura del VI sec., a quello della consegna delle chiavi a Pietro del VI sec.

Dalla cripta completamente affrescata del cosiddetto cubicolo di Leone, ufficiale romano prefetto dell’annona della metà del IV sec., alla cripta o basilichetta del VI secolo dedicata ai santi martiri Felice e Adàutto, che custodisce anche la più antica attestazione nota di scritto in volgare, risalente alla prima metà del IX secolo, "non dicere ille secrita a boce"… "non dire i segreti a voce (alta)".
L'indicazione si riferisce ai mysteria, o orazioni segrete, che secondo le indicazioni dello scrivente andavano pronunciate a bassa voce.

FACCIA DEL CRISTO
In seguito, come per le altre catacombe, essa fu trasformata in un luogo di culto martiriale: la basilica venne restaurata dai papi fino al IX secolo, come luogo di pellegrinaggio di devoti cristiani. Vi sono state rinvenute anche monete con l'effigie di papa Gregorio IV (827-844). Papa Leone IV (847-855) invece donò le reliquie dei martiri Felice ed Adautto alla moglie dell'imperatore Lotario, riconosciuto venerabile per la sua condotta a favore della Chiesa, tanto che gli fu iniziato un processo di beatificazione mai portato a termine.

In seguito la catacomba venne abbandonata e dimenticata.

Fu scoperta nel 1595 dall'archeologo Antonio Bosio, ma chi la identificò come quella di Commodilla fu, nell'Ottocento, Giovanni Battista de Rossi.

Campagne di restauro furono eseguite all'inizio del XX secolo e portarono allo scavo completo del secondo livello cimiteriale, cioè all'antica cava di pozzolana.

Nella catacomba vi sono particolari sepolture dette a pozzo: si tratta di fosse profonde, ove si contano fino a 20 loculi disposti nelle pareti della fossa e sovrapposti l'uno all'altro. 

Dispone di un'architettura architettonica, epigrafica e iconografica con rari cubicoli e arcosoli, e spesso le iscrizioni marmoree contengono errori di ortografia.

Notevole invece la piccola basilica dei santi Felice e Adautto; ricavata dall'antica cava di pozzolana (al secondo livello), che fu chiusa ed allargata per le esigenze di culto.

Altre tombe:

- la cosiddetta tomba di Turtura (metà del VI secolo): sepolta dal figlio con una tomba arricchita da un affresco che raffigura la Madonna, con in braccio Gesù, accanto alle figure dei santi Felice, Adautto e Turtura; un'epigrafe, recita: “Il tuo nome è Turtura, e tu fosti una vera tortora”;
- l'affresco di san Luca, della seconda metà del VII secolo, in cui il santo ha con sé una piccola borsa con gli strumenti da chirurgo;
- l'affresco della consegna delle chiavi a Pietro (VI secolo): dove Cristo seduto su un globo consegna le chiavi a Pietro; con i santi: Adautto, Merita, l'apostolo Paolo, Felice, Stefano protomartire.
- Notevole anche il cubicolo di Leone, ufficiale romano prefetto dell'annona (seconda metà del IV secolo), che commissionò la cripta per sé e la sua famiglia, completamente dipinta con scene bibliche.

PRIMA CHE IL GALLO CANTI

I MARTIRI

Oltre a Felice ed Adautto: il carme di papa Damaso, andato perduto ma di cui si conserva una copia  altomedievale, narra che i due martiri erano fratelli ed entrambi presbiteri.

La passio leggendaria del VII secolo narra invece che, durante il martirio di Felice, uno sconosciuto uscì dalla folla e, confessando di essere cristiano, chiese di morire con Felice: di lui non si conosceva il nome, per cui passò alla storia col nome di l'aggiunto. Di questi due santi sarebbero state trovate le tombe.

Per altri martiri e santi:

- una santa di nome Merita, il cui nome si legge in un affresco vicino alla sepoltura di Felice e Adautto ma le fonti liturgiche non dicono nulla di lei, mentre scrivono di due sorelle martiri, Degna e Merita, vennero sepolte in Commodilla; ma di Degna non c'è traccia nelle catacombe. I nomi sembrano ricavati dalla fede popolare sulla base di iscrizioni funerarie. I loro corpi e le rispettive lapidi furono infatti recuperate nelle catacombe di Commodilla senza altra indicazione sulle loro vicende terrene. I suoi resti insieme a quelli di Merita vennero traslati nella chiesa di San Marcello al Corso durante il pontificato di papa Paolo I.

- il Martirologio geronimiano, alla data del 29 agosto, accanto a Felice ed Adautto, nomina una certa Gaudenzia, di cui non c'è traccia nella catacomba;

- infine le guide per pellegrini dell'alto medioevo parlano di un altro martire, Nemesio, che però non risulta da nessuna parte.



CODICE TEODOSIANO

 «È nostra volontà che tutti i popoli che sono governati dalla nostra moderazione e clemenza aderiscano fermamente alla religione insegnata da s. Pietro ai Romani, conservata dalla vera tradizione e ora professata dal pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di apostolica santità. Secondo la disciplina degli Apostoli e la dottrina del Vangelo, crediamo nella sola divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, sotto un'uguale maestà e una pia Trinità. Autorizziamo i seguaci di questa dottrina ad assumere il titolo di cristiani cattolici, e siccome riteniamo che tutti gli altri siano dei pazzi stravaganti, li bolliamo col nome infame di eretici, e dichiariamo che le loro conventicole non dovranno più usurpare la rispettabile denominazione di chiese. Oltre alla condanna della divina giustizia, essi debbono prepararsi a soffrire le severe pene che la nostra autorità guidata da celeste sapienza, crederà d'infliggere loro.» 
(Codex Theodosianus, libro XVI, titolo I, legge 2).



I SETTE RE DI ROMA

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I SETTE RE DI ROMA (DA SINISTRA A DESTRA)
Secondo la tradizione l'età dei sette re di roma sarebbe andata dal 21 Aprile del 753 a.c., anno di fondazione della città ad opera di Romolo (primo re di Roma), al 509 a.c., quando venne cacciato dal trono Tarquinio il Superbo, un nome che dice tutto.

La parola rex è chiaramente imparentata con regĕre, cioè governare, e il rex era un vero "sacerdos", per di più inaugurato. L'elezione del re avveniva ogni volta e in ogni tempo attraverso tre passi:

- la designatio (da parte dell’interrex),
- la creatio (da parte dei comitia curiata)
- l’inauguratio (da parte di un augure),
procedura tuttavia stravolta all’epoca dei sovrani di origine etrusca,

L’inauguratio rimase sempre, fino alla fine del VI secolo, la tappa conclusiva dell’elezione del rex, passata in eredità al rex sacrorum.

ENEA UCCIDE TURNO

ELENCO DEI RE

- ROMOLO - vita 771 a.c. - 716 a.c.- latino - morto a 55 anni - regno 753 - 716 a.c. - si autoproclamò re dopo l'assassinio di suo fratello. Si disse figlio di Rea Silvia (e perciò discendente di Enea) e del Dio Marte.

- NUMA POMPILIO - vita 754 a.c. – 673 a.c. - sabino - morto a 80 anni - regno 715 - 673 a.c. - Cognato di Romolo - Eletto dai comizi curiati. Istituì il calendario e i principali collegi sacerdotali.

- TULLO OSTILIO - vita ? – 641 a.c. -. regno 672 - 641 a.c. - latino - pronipote di Romolo - Eletto re dopo la morte di Numa Pompilio. Dette a Roma l’egemonia sulle popolazioni circostanti e riuscì a conquistare la più grande città vicina, Albalonga, grazie alla leggendaria vittoria degli Orazi sui Curiazi.

- ANCO MARZIO - vita ? – 616 a.c. - regno 641 - 616 a.c. - sabino - Suocero di Tullo Ostilio, nipote di Numa Pompilio; fu eletto re dopo la morte di Tullo Ostilio. Fondò la colonia di Ostia e fu il primo a promuovere opere pubbliche, come il ponte Sublicio, le saline, la prima prigione pubblica, etc

- LUCIO TARQUINIO PRISCO - vita ? – 579 a.c. - regno 616 - 579 a.c. - etrusco. Eresse edifici pubblici grandiosi, come il Circo Massimo, il più antichi portici del Foro e il Tempio di Giove Capitolino, protettore della città.

- SERVIO TULLIO - vita ? – 539 a.c. - regno 578 - 539 a.c. - etrusco. Eresse la nuova cinta di mura urbane, dette appunto “Serviane”, che circondavano i sette colli di Roma. Dette un nuovo ordine alle assemblee pubbliche ed eresse il Tempio di Diana sul colle Aventino.

- LUCIO TARQUINIO IL SUPERBO - vita ? – 495 a.c. - regno 535 - 509 a.c. - etrusco. Tentò di instaurare la tirannide. Scoppiò una rivolta per il suicidio della giovane Lucrezia a causa del tentativo di violenza dal figlio del re. La rivolta portò alla cacciata di Tarquinio e all’istituzione della repubblica.

SABINI CONTRO ROMANI

LE ELEZIONI

Alla morte del re, il senato si riuniva e nominava un senatore come interrex, che indicasse in cinque giorni il prossimo re di Roma, scaduti i quali l'interrex, con il consenso del senato, nominava un altro senatore come nuovo interrex, per altri cinque giorni. Trovato un candidato adatto, l'interrex lo candidava al senato per ottenere la ratifica della nomina. 

Ottenutala, convocava i Comizi Curiati, in cui i cittadini romani partecipavano suddivisi per curie, che presiedevano per la procedura di elezione del re. L'assemblea dei Comitia Curiata poteva solo accettare o rifiutare il candidato re. Se accettato, si procedeva a interrogare la volontà degli Dei, mediante gli auspici di un augure che seguiva la cerimonia. 

Si procedeva quindi al conferimento dell'imperium al re, che avveniva attraverso l'approvazione della "lex curiata de imperio", votata sempre dai Comizi Curiati. Se in teoria era il popolo, tramite i comizi curiati, ad eleggere il re, in pratica era il senato a controllare l'elezione del re.

LA DEA ROMA GUIDA NERVA ALLA VITTORIA

LA RELIGIONE

ROMOLO Romolo salì il vicino Monte Saturno detto Campidoglio dove designò un luogo per innalzarvi un Tempio a Giove Feretrio.

NUMA POMPILIO - Nel Foro, fece costruire il tempio di Vesta, e dietro di questo la Regia, e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace (e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo regno). Stabilì il culto della ninfa Egeria.

TULLO OSTILIO - La leggenda dice che Tullo era così occupato in una guerra dopo un'altra che aveva trascurato ogni servizio verso le divinità. Una peste terribile si abbatté sui Romani. Anche Tullo ne fu colpito. Pregò Giove per avere il suo favore ed il suo aiuto. La risposta del Dio fu un fulmine che venne giù dal cielo, bruciò il re e ridusse la sua casa in cenere, dopo trentadue anni di regno.

ANCO MARZIO - I Romani allora scelsero meglio il nuovo re, un re che seguisse l'esempio pacifico e religioso di Numa Pompilio ed elessero Anco Marzio, il nipote di Numa Pompilio. Ma anche questi fu un combattente e ottenne il controllo dei territori che si estendevano dalla costa all'Urbe. Inserì nell'Urbe l'Aventino, il Gianicolo e il Celio.

TARQUINIO PRISCO - Fortificò il suo potere intorno al culto di Iuppiter, dando inizio alla costruzione del grandioso tempio capitolino e introducendo le cerimonie del trionfo e dei ludi Romani, nonché al culto di Hercules, a cui fu dedicata nel Foro Boario una statua rivestita dell’ornatus triumphalis.

SERVIO TULLIO - legò invece il suo nome alla Dea Fortuna, alla quale fece edificare un tempio nel Foro Boario, e alla dea Diana, a cui fu innalzato il celebre santuario sull’Aventino aperto ai Latini.

TARQUINIO IL SUPERBO - riprendendo il programma del Prisco, portò a compimento la costruzione del tempio di Giove capitolino, diede nuova linfa al culto di Hercules e riorganizzò le feriae Latinae in onore di Iuppiter Latiaris.

LA DEA ROMA

LE STRANEZZE

Fatto strano, a parte il fondatore, nessun re di Roma fu romano. Per giunta, come rileva Tim J. Cornell nel suo "The Beginnings of Rome", p. 142, nessuna delle grandi gentes romane fornì un re; anzi i re romani furono stranieri, ma c'è di più, i Pompilii, i Tulli, gli Hostilli e i Marci oltre che stranieri erano di origini plebee, e Servio Tullio nasce addirittura da una schiava.

Altro appunto: due gemelli non sopportavano di governare insieme per cui si scannarono tra loro, anzi Romolo, o chi per lui, scannò Remo, ma Romolo e Tito Tazio si misero d'accordo e regnarono insieme. Perchè non hanno diviso il trono tra fratelli? Mistero.

Ancora, dalla tradizione si ricava che nessuno dei re ereditò il trono dal padre, con la sola parziale eccezione di Tarquinio il Superbo, che era forse figlio del Prisco, ma la faccenda non è certa, e comunque non divenne re subito dopo di lui; non a caso Cicerone osserva orgogliosamente: "nostri illi etiam tum agrestes viderunt virtutem et sapientiam regalem, non progeniem quaeri oportere" (rep. 2, 12,24), nel confronto con l’antica monarchia ereditaria di Sparta.

Tuttavia sembra che per gli ultimi tre re di origine etrusca fu stabilito un principio di discendenza matrilineare. Comunque romani non volevano principi ereditari, perchè volevano essere loro, l'orgoglioso popolo romano, ad eleggere il loro capo. In effetti, il principio ereditario rimase sempre estraneo alla mentalità romana, anche in età imperiale. Qual'era dunque il criterio con cui si sceglieva un re? Forse le virtù, ma soprattutto il carisma.



I POTERI DEL RE
IL DIADEMA REGALE

- capo con potere esecutivo,
- comandante in capo dell'esercito,
- capo di Stato, 
- pontefice massimo,
- legislatore,
- giudice supremo.



LE INSEGNE DEL RE

- i dodici littori recanti fasci dotati di asce. Il Fascius Lictorius consisteva in un fascio di bastoni di legno legati con strisce di cuoio, normalmente intorno a una scure.
- la sedia curule, un sedile pieghevole a "X" ornato d'avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai Re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di giurisdizione, detti perciò "curuli";
- la toga rossa, un tipo di toga orlata da due bande di porpora, detta toga praetexta, importata dai vicini Etruschi al tempo di Tarquinio Prisco, Veniva indossata da tutti i più alti magistrati.
- le scarpe rosse di cuoio dipinto.
il diadema bianco sul capo, una fascia di tessuto che cinge la fronte come segno distintivo di colui che la indossava, originariamente destinata alle donne e ai sacerdoti. La fascia poteva essere finemente impreziosita da inserti in oro e pietre preziose, o come cerchio di metallo che cinge la fronte.

«A me non dispiace la teoria di quelli che sostengono che [i dodici littori siano stati] importati dalla vicina Etruria (da dove furono introdotte la sella curule e la toga pretesta) tanto questa tipologia di subalterni, quanto il loro stesso numero. Essi credono che ciò fosse così per gli Etruschi poiché, una volta eletto il re dall'insieme dei dodici popoli, ciascuno di essi forniva un littore
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 8.)
La vita dei re non fu facile, ricordiamo che su otto re (anche Tito Tazio fu re) due soli morirono nel loro letto (Numa Pompilio e Anco Marcio) mentre Tarquinio il Superbo finì i suoi giorni in esilio. Gli altri cinque morirono di morte violenta.

Dalla fine della monarchia i romani decisero di non avere più re, ma ebbero imperatori. Caso strano, l'impero fu il periodo più ricco di territori, commerci, ricchezze, leggi e arte per i romani, che insegnarono la civiltà al mondo. .

IL TESORO DI CARTAGINE (Tunisia)

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Il mito vuole che Cartagine sia stata fondata dalla regina Didone la quale fuggì dalla città di Tiro dopo che il fratello Pigmalione le uccise il marito per impossessarsi delle sue ricchezze. Approdata sulle coste tunisine, fondò la città convincendo il capo dei locali, Iarba, a concederle i terreni contenuti nella pelle di un bue.

Come è noto, lei la tagliò in tanti pezzetti sottilissimi e quindi ottenne un enorme spazio. La collina, infatti, si chiama Byrsa, con una straordinaria assonanza con il termine greco βυρσα che significa bue.

Nel 146 a.c. Cartagine fu distrutta dai romani, ma sorse dalle sue ceneri divenendo una delle colonie dell’impero Romano più floride e ricche di sempre. 

PATERA CON AL CENTRO UN'ISCRIZIONE LATINA
Ma oggi da Cartagine è risorto un tesoro di 1600 anni fa, ricco per il suo metallo prezioso ma soprattutto come reperto archeologico, unico e irripetibile.

Il Tesoro di Cartagine è un tesoro d'argento romano che è stato ritrovato a Tunisi, in Tunisia, nel sito dell'antica città di Cartagine. Il tesoro consiste principalmente di articoli per la tavola e gioielli in argento, la maggior parte dei quali è ora conservata al British Museum di Londra.

Il tesoro è stato portato alla luce nel diciannovesimo secolo nella collina di St. Louis a Cartagine, che al momento in cui il tesoro venne occultato era la più grande città dell'Africa Proconsolare, la provincia romana della costa nord ovest africana che venne stabilita nel 146 a.c. a seguito della sconfitta di Cartagine nella Terza Guerra Punica.

La maggior parte del tesoro fu acquistata da Sir Augustus Wollaston Franks (20 marzo 1826 - 21 maggio 1897) che era un antiquario oltre che l'amministratore del celebre museo inglese.

Franks fu descritto da Marjorie Caygill, storica del British Museum, come "probabilmente il più importante collezionista nella storia del British Museum e uno dei più grandi collezionisti della sua epoca".

L'anziano curatore del British Museum, tanto era appassionato d'arte e tanto era generoso, che lasciò il tesoro in eredità al museo alla sua morte nel 1897.
Tuttavia, una piccola parte del tesoro si trova al Louvre, compresa una delle ciotole ricoperte d'argento. Il Tesoro di Cartagine, risalente alla seconda metà del IV secolo d.c., comprende 31 oggetti diversi.


Si tratta soprattutto di oggetti di lusso per la tavola e gioielli in argento che dovevano appartenere ad una ricca famiglia romana che per qualche motivo aveva deciso di seppellirla per custodirla e riprenderla più tardi, quando il pericolo, presente o temuto imminente, fosse passato. Questo occultamento potrebbe essere avvenuto a causa dei Vandali che sotto il loro capo Genserico, attraversarono lo Stretto di Gibilterra in Africa e catturarono Ippona Regius nell'agosto del 431, che divenne la capitale del loro regno.

Nonostante la difficile pace con i Romani, Genserico fece poi un attacco a sorpresa contro Cartagine nell'ottobre del 439. Dopo la cattura di Cartagine, i Vandali misero la città al sacco e ne fecero la nuova capitale del loro regno.

CIOTOLA CON BASSORILIEVI DI PASTORI
Conquistarono quindi tutta la provincia, instaurando un regno esteso da Ceuta a Tripoli. Cristiani, ma tuttavia ariani, i Vandali erano sempre in conflitto con la popolazione locale, che era o romana o berbera romanizzata, e pure cristiana cattolica, che diventò pertanto oggetto di persecuzioni.
Inscritto nel centro di uno dei piatti attorno al tondo è inciso DD ICRESCONI CLARENT, che è associato con i Cresconii, una potente famiglia romana nordafricana a Cartagine, che sono ben noti da atti e registri di detentori di uffici in questo momento.


Il tesoro comprende un paio di piatti (uno dei quali identifica la famiglia), due ciotole con scene pastorali inseguite e martellate in rilievo sul bordo, con i piedi affusolati alti (due dei quali hanno ancora le loro coperture), una ciotola poco profonda con manico e incisa al centro, dodici cucchiai d'argento e poi una collezione mista di gioielli.

Tra questi un anello per le dita, un cammeo, un paio di orecchini, diversi intagli e due collane, una d'oro, l'altra con pietre preziose. La collana ingioiellata è composta da dodici smeraldi poligonali, tredici zaffiri, abbinati a venticinque perle unite da maglie dorate.

La famiglia avrebbe posseduto due collezioni di argenti: una conosciuta come "argentum potorium", che era il set che serviva per le bevande, quindi bicchieri, coppe, bottiglie e caraffe. Poi c'era un'altra collezione di argenti che serviva invece per mangiare, ed era chiamata "argentum escarium" che comprendeva piatti, insalatiere, tegami, fruttiere, ciotole e posate.

Tra questi ritrovamenti c'erano diverse ciotole con coperchio semisferico d'argento che misurano 12 cm di altezza e 12 cm di diametro.

Il design elegante delle ciotole include di solito una basetta che completa il culmine del coperchio della ciotola. Sopra questa basetta di regola siede un putto o un animale che fa da maniglia per sollevare il coperchio.

Le ciotole, di discreta grandezza, a volte presentano sfaccettature sulle superfici curve anzichè essere a tutto tondo. In più sono ornate a sbalzo e con incisioni per tutta la parte superiore. Ciotole simili sono state trovate nel sito romano di Viminacium vicino alla moderna città di Kostolac, in Serbia.

VIMINACIUM - KOSTOLAC (Serbia)

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LA FORTEZZA DI VIMINACIUM
Viminacium, l’odierna Kostolac, vicino a Požarevac, presso la confluenza del fiume Mlava nel Danubio, fu un'importante città dell'Impero romano, capitale della provincia della Mesia. La città era localizzata nei pressi del Danubio.

Fondata nel I secolo sulle rive della Mlava, un affluente del Danubio, a 70 km da Belgrado, durante la seconda parte del principato di Augusto, o nella prima parte di quello di Tiberio, divenne una delle più importanti città romane e accampamenti militari del periodo compreso tra il I e il VI secolo.

Sotto l'imperatore Claudio, in seguito all'annessione della Tracia avvenuta nel 46, il sito militare accolse una fortezza legionaria, cioè un castrum, per cui la legione che prima si trovava a Naissus (attuale Nis) fu trasferita a Viminacium. In questa regione nacquero ben 18 imperatori romani, un quinto del numero totale, tra cui Costantino il Grande (nato nella vicina Naissus).

TRAIANO A VIMINACIUM - COLONNA TRAIANA
- La nuova fortezza divenne in seguito sede della Legio VII Claudia, (Paterna Claudia Pia Fidelis), derivata dalla dalla legio VII fondata da Giulio Cesare, ospitando però più volte delle vexillationes della IIII Flavia Felix (fondata da Vespasiano).

- Le legioni romane qui acquartierate, al comando di Quinto Sosio Senecione, condussero la I campagna militare sotto Traiano (53 - 117), nel 101 e nel 102, contro le truppe daciche di Decebalo (87 - 106).

- Si pensa pertanto che l'anfiteatro rappresentato sulla colonna di Traiano a Roma, nella scena n.25 (secondo la classificazione del Cichorius) sia proprio quello di Viminacium, dove l'imperatore romano si era ritirato durante l'inverno del 101/102.

LA CITTA'
- Viminacium ricevette il rango di municipium con un alto livello di autonomia sotto Adriano, che la visitò in un paio di occasioni, mentre, all'inizio del II secolo, divenne la capitale della Mesia superiore, a sud del limes del basso corso del Danubio.

- Fu visitata in un paio di occasioni anche dall'imperatore Settimio Severo (146 - 211) e dalla moglie, Giulia Domna (nominata mater castrorum nel 195/196). 

- A Viminacium Caracalla (188-217) fu proclamato Cesare attorno al 196 poco prima dello scontro con Clodio Albino (145-197). 

ANTONINIANO DI VIMINACIUM SOTTO L'USURPATORE PACAZIANO
PER CELEBRARE IL 1001 NATALE DI ROMA
- E sempre al periodo severiano potrebbe appartenere il legatus legionis della VII Claudia, Marcus Laelius Maximus.
- All'inizio del regno di Gordiano III (239 o 240), la città ricevette lo status di colonia romana (Colonia Viminacium), con il diritto di battere monete di bronzo. La colonia era lo status più alto che una città potesse raggiungere all’interno dell’impero romano. 

La zecca di Viminacium coniò monete per diversi imperatori da Gordiano III (239) fino a Gallieno (218 - 268), anche  dell'usurpatore Pacaziano, che si ribellò a Filippo l'Arabo (204 - 249) mentre era governatore della Mesia (248-249). Nello stesso periodo divenne stazione della flotta fluviale romana e posto di blocco daziale.

Nella città nel corso del 251 soggiornarono Gaio Vibio Treboniano Gallo (206-253), Volusiano (.. - 253), Erennia Cupressenia Etruscilla (moglie di Decio) ed Ostiliano (230 - 251) che qui morì di peste. 

MAUSOLEO ROMANO
Viminacium si schierò a favore del governatore della Pannonia, Ingenuo, che tentò di usurpare il trono detenuto legittimamente da Gallieno negli anni 255-256. Alla morte del figlio di Gallieno nel 258 d. C., Publio Valeriano, di cui Ingenuo era il tutore militare, approfittando della cattura dell’altro imperatore Valeriano da parte dei Sasanidi, si autoproclamò imperatore. Gallieno, richiamò le sue truppe dalla Gallia e marciò velocemente verso Ingenuo. 

Lo scontro avvenne con ogni probabilità a Mursa, nell’odierna Croazia, nel 260 d.c., e fu vinto da Gallieno. Ingenuo morì l'anno dopo.

Poichè Viminacium aveva sostenuto l'usurpatore Ingenuo d Gallieno le tolse tutti i precedenti privilegi ricevuti di colonia romana e forse la distrusse.

LE TERME

NEL TARDO IMPERO

- Nel luglio del 285 fu combattuta presso Viminacium la battaglia del fiume Margus, vinta da Diocleziano 244-313) sull'imperatore Carino (257-285).

- Vi soggiornò anche Costantino I  (274-337) durante il periodo delle sue campagne sarmatiche e gotiche degli anni 317-323 quando combattè contro le popolazioni germaniche di Alamanni, Franchi, Goti e quelle sarmatiche degli Iazigi.

- Alla morte di Costantino I, avvenuta nel 337 i tre figli, Costante I, Costantino II e Costanzo II, convocarono una conferenza nella città per decidere come dividersi l'Impero romano, lasciato loro in eredità dal padre.

- Nel 441 d.c. Viminacium conobbe la sua prima grave sconfitta. Gli Unni di Attila penetrarono nelle mura e la distrussero.

- Venne parzialmente ricostruita come forte di frontiera sotto l'imperatore bizantino Giustiniano I (482 - 565).

- Fu definitivamente distrutta dal popolo nomade degli Avari nel 584.

TOMBA DI VINACIUM

GLI SCAVI

Nel'ultimo trentennio del XX secolo sono state condotte sul sito campagne di scavo in modo sempre più accurato e sistematico, grazie anche alle sovvenzioni della dinastia reale degli Obrenovic, che hanno portato alla luce

- un anfiteatro per 12.000 spettatori,
- un acquedotto,
- delle terme
- un circus,
- le rovine della fortezza legionaria
- delle canabae, dove si insediarono numerosi veterani.
- Sono state identificate ad oggi più di 13.500 tombe, molte delle quali presentano magnifici affreschi. Due di queste sono decorate con affreschi che richiamano culti pagani (rappresentanti, con colori vibranti, flora e fauna). Inoltre, molte di queste tombe sono state catalogate come cristiane. Al loro interno sono stati recuperati 30000 oggetti. Tra le sepolture è stata identificata la tomba dell'imperatore romano Ostiliano, che qui morì di peste nel 251, e che fu seppellito dal padre Decio.

TOMBA

La posizione di Viminacium sul Danubio le ha permesso un rapido sviluppo economico. Nel III secolo fu instaurata per pochi decenni una zecca che coniò soprattutto monete di rame, ma anche d'argento, per le armate del limes moesicus.
 All’interno e nei dintorni della città sono stati ritrovati palazzi monumentali, un anfiteatro, delle ricche terme, e tracce di infrastrutture articolate, soprattutto vie, acquedotti e canali. I ritrovamenti fatti fino ad oggi confermano la grande importanza di Viminacium come metropoli romana egemone in questa parte del confine (limes) del Danubio.
- Nel 2016 gli archeologi guidati dal dottor Miomir Korać, direttore dell’Istituto archeologico SANU e direttore del “Progetto Viminacium”, hanno rinvenuto due lastre d’oro e una d’argento riportanti misteriose scritte all’interno di una tomba. Su una delle lastre sono scritti in alfabeto greco i nomi di dei e demoni ricorrenti in Assiria, Babilonia e in Egitto. 

- Nel 2012 è stata ritrovata una statuetta di una divinità femminile di circa 4000 anni fa. 

- Nel 2013 un altare dedicato alle ninfee e nel 2014 una statua di marmo e una collana d’oro romane. 

- Nel giugno 2018 è stato rinvenuto un sarcofago di forma rettangolare incredibilmente intatto con due scheletri ornati in oro e argento. Ilija Mikic, antropologa e ricercatrice, ha sottolineato che questi appartenevano a un uomo alto di mezza età e a una donna di circa 25-30 anni. La donna aveva portato con sé, nella tomba, tre delicate bottiglie di vetro di profumo, orecchini d’oro, una collana, un raffinato specchio d’argento e diverse costose forcine. Sull’uomo, invece, sono stati rinvenuti una fibbia della cintura d’argento e resti di calzari. Erano senz’altro due soggetti di elevata classe sociale.


La vera particolarità di questa lastra è che il testo sovrastante sia scritto in verticale e non in orizzontale, un enigma che gli studiosi finora non hanno saputo ancora risolvere. In tutto sono nominati 16 tra demoni, dei e spiriti. 

Secondo Korać, l’elenco di questi nomi è stato trascritto con lo scopo di proteggere il defunto da tutti i demoni conosciuti, e chi li ha scritti, cioè la famiglia della persona che è sepolta nella tomba, ovviamente conosceva bene la mitologia delle più importanti civiltà di allora.

Nella necropoli dove sono state trovate le lastre d’oro e d’argento sono mescolate tombe pagane e cristiane. Korać sottolinea quindi che a Viminacium cristiani e pagani vivessero insieme, nonostante il periodo burrascoso dei primi anni della diffusione del cristianesimo nell’Impero Romano. 

Lo stesso Korać afferma che del sito di Viminacium è stato esplorato solo il 4% circa e che gli studi archeologici su questa città-fortezza romana porteranno una quantità incommensurabile di nuove informazioni.

- Oltre alla necropoli, gli scavi sugli oltre 450 ettari del sito hanno riportato alla luce più di 32.000 oggetti e diversi edifici, come palazzi monumentali, le terme, un anfiteatro e tracce di infrastrutture articolate, soprattutto vie, acquedotti e canali. 


L'ANFITEATRO

ANFITEATRO

I ritrovamenti fatti fino ad oggi confermano la grande importanza di Viminacium come metropoli romana egemone in questa parte del confine del Danubio. 

Proprio l’anfiteatro di Viminacium, che presentava mura perimetrali in pietra e cavea in legno, è molto probabilmente rappresentato sulla colonna di Traiano a Roma, nello specifico nella scena n. 25. Lo stesso Traiano soggiornò nella fortezza durante l’inverno del 101-102 d.c..

LE TERME DI VINACIUM

LE TERME 

Per quanto riguarda le terme pubbliche, queste vennero edificate tra il III e IV sec. d.c.. Il loro uso era deputato non solo all’igiene personale, ma manche a luogo di incontro, svago e di varie attività sociali. 
Ad oggi sono state rinvenute sei piscine, dove sono presenti pareti dipinte con motivi floreali e animali, e una sala per i massaggi. Ben conservato è anche il calidarium (la parte destinata ai bagni in acqua calda e ai bagni di vapore), collegato all’acquedotto più grande della città, lungo circa 10 km.



LA RICOSTITUZIONE

Inoltre, è stata realizzata ex-novo una tipica domus di Viminacium, una vera e propria copia fedele di una casa romana con i suoi colonnati, volumi, colori e arredi. L’obiettivo, secondo Nemanja Mrđić, direttore dell’Istituto archeologico della Serbia, è quello di ricreare un intero villaggio romano con botteghe, terme, e spazi pubblici e privati ove far rivivere ogni giorno ai visitatori la quotidianità al tempo dell’Impero Romano. Questo creerebbe senz’altro più occupazione e turismo.


CATACOMBE DI PRISCILLA

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CATACOMBE DI PRISCILLA

CATACOMBE DI SANTA PRISCILLA

Le catacombe di Priscilla, che prendono nome da un'iscrizione funeraria di una certa Priscilla ritenuta santa, si trovano lungo la via Salaria, con ingresso di fronte a Villa Ada, a Roma. Ma vennero chiamate anche Cimitero di Priscilla a San Silvestro, dal nome della basilica lì costruita nel IV secolo sul luogo di sepoltura dei martiri Felice e Filippo.

Si ritiene che Priscilla,  imparentata con la ricca famiglia senatoria degli Acilii, avesse donato il terreno per la realizzazione dell'area sepolcrale; spesso erano le devote matrone romane a donare il terreno per i titulus o per le catacombe cristiane. La catacomba proviene da ambienti ipogei preesistenti, dei quali i principali sono un arenario, un criptoportico e l'ipogeo con le tombe degli Acili Glabrioni. 

Pertanto la zona era tutta dei Glabrioni e volte era sufficiente fare alla chiesa un regalo importante per diventare santa o beata, oppure occorreva diventare martire, ma Priscilla martire non era. Alcuni ritengono che dopo le persecuzioni dell'imperatore Valeriano (257 d.c) molti cristiani si nascondessero nelle catacombe anche per lunghi periodi. E' falso, per quanto ci fossero dei pozzi di areazione le catacombe non avevano un'area respirabile, se non al massimo per un certo periodo di ore, dopo di che diventavano tossiche. 

E' vero che esistono e sono esistite le città sotterranee, ma erano in luoghi con temperature torride dove le muffe non allignavano. Per giunta nelle catacombe si inumavano i corpi, che per quanto sigillati con la malta provocavano con i loro gas delle crepe con relativi miasmi.

CATACOMBE DI SANTA PRISCILLA
 Dunque le catacombe di Priscilla vennero scavate nel tufo a partire dal II secolo e fino al V secolo, quando ormai si seppelliva sopra terra e rimasero solo come meta di pellegrinaggi, ormai sviluppate complessivamente per 13 km di gallerie sotterranee articolate su tre livelli per una profondità di 35 m. Nell'antichità venne soprannominata "La Regina delle catacombe" a causa dei numerosi martiri sepolti.

Durante le persecuzioni del III e del IV secolo le catacombe accolsero le spoglie di numerosi martiri tra i quali Papa Marcellino (... - 305), il suo nome non compare nel Martirologio romano ma compare invece nel Liber Pontificalis (però del 1602), che riportava fosse stato costretto a sacrificare agli Dei bruciando incenso in loro onore. 
Ma, dopo alcuni giorni, fu vinto dal rimorso e confessò la fede in Cristo. Per questo, insieme ad altri tre cristiani, condannato a morte da Diocleziano venne decapitato.
I RE MAGI
Il racconto cercava di conciliare la voce che il papa aveva offerto incenso agli Dei con il fatto che in altri ambienti era visto come un martire e la sua tomba veniva venerata. 

Insomma la dottrina trionfante era che l'uomo deve essere lieto di farsi torturare e ammazzare per non disconoscere nemmeno formalmente la sua fede, perchè il crudele Dio cristiano esigeva il martirio.

Successivamente vi furono sepolti altri sei papi che furono:

- San Marcello I - (... - 309) riportato dal Martirologio di S. Girolamo (1894), poichè non voleva accettare i lapsi, coloro che per timore del martirio avevano abiurato alla fede cristiana e che finite le persecuzioni volevano tornare nella comunità, scoppiarono disordini con violenze a delitti per cui venne esiliato, non si sa dove e in esilio morì, dopo un solo anno di pontificato, non si sa quando. Venne fatto santo per ragioni ignote.

- San Silvestro I - (... - 335) ritenuto il convertitore alla fede cristiana di Costantino I, che però, per quanto facilitasse il cristianesimo, non si convertì mai, tanto che fino all'ultimo fu fedele del Sol Invictus che celebrò ogni anno.

- San Liberio - (... - 366) antiariano, firmò un compromesso per cui il Cristo "non era della stessa sostanza del padre" ma era di una sostanza simile alla sostanza del padre" per far cessare la persecuzione agli Ariani che vedevano Cristo come diversa sostanza dal padre, e su questo si erano scannati.

- San Siricio (334 - 399) - impose la propria dottrina su tutte le altre, anche sull'ortodossa, nonostante fosse la dottrina originaria, poi impose il celibato ecclesiastico ai preti. Condannò i vescovi che lo avevano accusato di aver spinto Magno Massimo, che regnava con Valentiniano II e Teodosio I, a giustiziare Priscilliano e i suoi seguaci. 
Ma Siricio scomunicò anche Felice, vescovo di Treviri, che aveva sostenuto l'accusatore di Priscilliano, e nella cui città aveva avuto luogo l'esecuzione. Indirizzò poi ai vescovi spagnoli una lettera con le condizioni a cui i Priscilliani convertiti sarebbero potuti tornare alla Chiesa di Roma. Ma fece condannare a morte anche Gioviniano sostenitore del monachesimo e della non verginità di Maria. E per tutti questi eccidi lo fecero santo.


- San Celestino I - (380 - 432) La Chiesa era dilaniata al suo interno tra Manichei, Donatisti, Noviazianisti e Pelagiani, tutti assetati di conquistare la supremazia della gerarchia religiosa, tutti in guerra e pronti a scannarsi in nome di Cristo. Ormai la Chiesa era diventata simile a una monarchia coi suoi sudditi.

- Vigilio.- (... - 555) Ormai la Chiesa era una monarchia si che nel 499 papa Simmaco stabilì che ogni pontefice scegliesse il successore, e Bonifacio II, nel 531, nominò a succedergli Vigilio, che incontrò però una fortissima ostilità, per cui la sua nomina venne ritirata. Venne eletto invece papa Giovanni II. Intanto a Costantinopoli l'imperatrice Teodora aveva promesso a Vigilio la Sede Papale e settecento libbre d'oro se avesse annullato il concilio di Calcedonia, che aveva condannato il monofisismo. Tramite una lettera contraffatta il papa vigente venne accusato di essersi accordato con Vitige, venne esiliato e fu nominato al suo posto Vigilio. Ci chiediamo cosa tutto ciò avesse a che fare col Cristo.

Le catacombe di Santa Priscilla ospitano circa 40 mila sepolture. Abbandonate nel V secolo e successivamente saccheggiate al tempo delle invasioni barbariche, le catacombe sono state quindi a lungo dimenticate e solo negli ultimi secoli riscoperte e valorizzate.



DESCRIZIONE

Attraverso l'antica porta si accede alla camera superiore, sorta di vestibolo, costruito in mattoni e rivestito di intonaco dipinto; sul fondo inizia la scala di accesso agli altri ambienti ipogei. Nella camera sono ricavati tre arcosoli, le cui lunette conservano pitture con scene del Vecchio Testamento; nel pavimento si riconoscono i resti di sepolture scavate in epoche successive. Una scala, che poi si divide, da accesso ai due locali ipogei sottostanti.

Il primo ipogeo, a sinistra, conserva la pavimentazione in mosaico con i nomi dei proprietari che lo fecero realizzare (Aurelio Papirio, Aurelio Prima, Aurelio Felicissimo). Le pareti sono affrescate con pitture di particolare bellezza; nella parte inferiore sono rappresentati dodici personaggi quasi a grandezza naturale, uno dei quali poi distrutto per l'apertura di un varco.

CATACOMBE DI SANTA PRISCILLA
Nella fascia superiore si conservano sette pannelli con varie scene di incerta interpretazione: un pastore sul monte, un cavaliere in trionfo seguito dal popolo festante, una città con grandi palazzi. Il soffitto è suddiviso in fasce comprendenti quadrati e cerchi, al centro è raffigurato il Buon Pastore, negli altri spazi personaggi togati, geni e animali fantastici caratteristici del repertorio decorativo del periodo.

Il secondo ipogeo è costituito da due ambienti, un piccolo vestibolo e un'aula più grande con tre arcosoli. Nella parete destra del vestibolo è dipinta una figura con pallio che alza la mano verso la croce; in altre parti vi sono figure umane con in mano un rotolo o una frusta.

Nelle lunette degli arcosoli sono dipinti molti personaggi maschili e donne velate. Molto si è discusso sul senso di queste pitture che sembrano unire soggetti pagani e cristiani. Alcuni autori sono propensi a considerare gli Aureli personaggi convertiti da poco ala fede cristiana e quindi ancora legati all'antico credo pagano; altri vorrebbero riconoscere nelle pitture le rappresentazioni di una setta cristiana eretica vicina ai Montanisti e a Ippolito che nei suoi scritti alludeva spesso all'avvento dell'Anticristo.



IL CUBICOLO DELLA VELATA

Il cubicolo risale al III secolo e prende il nome da un affresco, abbastanza conservato, di una lunetta con una donna velata in atteggiamento orante, con le braccia volte in alto. La donna, evidentemente lì sepolta, è quindi raffigurata anche in altri momenti significativi della sua vita, come il matrimonio e la nascita di un figlio.

Nelle altre volte del locale sono affrescati episodi dell'Antico Testamento (il salvataggio dei tre giovani ebrei dal fuoco, quello di Isacco dal suo sacrificio e quello di Giona dal mostro) a simboleggiare la salvezza grazie alla Redenzione. Al centro del soffitto, un affresco del Buon Pastore, ovvero il Redentore, che reca un capretto sulle spalle. La redenzione è il perdono o assoluzione dei peccati o errori commessi, e protezione dalla dannazione e disgrazia, eterna o temporanea. E' caratteristica delle religioni monoteiste, molto più rigide e severe delle politeiste.

IL PASTO SACRO

LA CAPPELLA GRECA

La parte più antica prende il nome di "cappella greca" dalle due iscrizioni in lettere greche dipinte in rosso nelle nicchie presenti in questo luogo, che in origine serviva come riparo per la calura estiva, rinfrescato, pare, da giochi d'acqua e arricchito da ornamenti.

Le scene dipinte riportano episodi del Vecchio e Nuovo Testamento; particolarmente famosa è la scena nota come "fractio panis" così detta dalle immagini raffiguranti sette personaggi attorno ad una mensa, cui partecipa anche delle donne e il cui primo commensale sembra essere in atto di spezzare il pane, gesto sacrale che allude al cibo eucaristico.

Ma non mancano anche l'Adorazione dei magi, la Risurrezione di Lazzaro e la guarigione di un paralitico, Daniele fra i leoni, la casta Susanna, i tre giovani ebrei nella fornace, Mosè che fa scaturire l'acqua dalla roccia.



LA MADONNA

Sul soffitto di una nicchia che ospitava una tomba venerata, probabilmente di un martire, si è conservato uno stucco con dipinta la Madonna seduta col Bambino sulle ginocchia e accanto a lei un profeta Balaam che addita una stella. Dati stile e localizzazione (nella parte iniziale del cimitero) si attribuisce la datazione del dipinto al III secolo perciò si ritiene che questa pittura sia, dopo l'Adorazione dei Magi nella Cappella greca, la raffigurazione della Madonna e del Gesù Bambino più antica a noi pervenuta.

GLI EBREI NELLA FORNACE ARDENTE

BASILICA E MONASTERO

Sopra queste catacombe papa Silvestro I fece erigere nel IV secolo una basilica che, con il progressivo abbandono delle aree urbane fuori le mura, cadde progressivamente in rovina e venne quindi dimenticata. I suoi resti vennero ritrovati nel 1890 e nel 1906 sulle strutture murarie antiche si procedette a elevare pareti e a costruire un soffitto a protezione del sito, realizzando quindi una nuova basilica modellata sulla precedente.

L'attuale ingresso delle Catacombe è presso la Casa delle Catacombe di Priscilla, realizzato nel 1929 e sede delle Suore Benedettine di Priscilla, che curano il sito. La catacomba però chiude il 29 giugno e riapre il 2 settembre, oltre un mese di vacanza, e proprio nel periodo più turistico.

Dopo il riconoscimento del Cristianesimo le catacombe fecero parte dei titoli (parrocchie) e quindi si smise di seppellirvi, anche perché nel corso nel IV° secolo, ci fu lo sviluppo dei cimiteri all'aria aperta.

Molte catacombe vennero abbandonate e depredate per la costruzione delle basiliche soprastanti finché papa Damaso (366-384) ne dispose la tutela. Nel VI secolo molte catacombe subirono l'oltraggio del saccheggio dei Goti. Quando le aree extraurbane divennero sempre più insicure si iniziò, nel VII e VIII secolo, la traslazione dei corpi dei martiri nelle grandi basiliche romane; nell'817 papa Pasquale I fece eseguire il trasferimento di ben 2300 salme.



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