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GIULIA MAGGIORE - IULIA MAIOR - IULIA CAESARIS

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GIULIA MAGGIORE

Nome: Iulia Caesaris filia - Iulia Maior
Nascita: 39 a.c.
Morte: 14 d.c.
Padre: Ottaviano Augusto
Madre: Sempronia
Mariti: Marco Claudio Marcello, Marco Vipsanio Agrippa, Tiberio
Figli: Gaio Vipsanio Agrippa (Gaio Cesare), Vipsania Giulia Agrippina (Giulia minore), Lucio Vipsanio Agrippa (Lucio Cesare), Vipsania Agrippina (Agrippina maggiore) e Marco Vipsanio Agrippa Postumo (nato dopo la morte del padre).



Giulia Maggiore era nata il 14 gennaio del 39 a.c. nel giorno in cui Ottaviano, il padre, ottenne il divorzio dalla madre Scribonia per impalmare il vero amore della sua vita: Livia Drusilla. Giulia crebbe nella casa del padre insieme ai figli di Livia e in seguito anche ai figli della zia Ottavia.

Il padre volle per lei un'ottima educazione, per cui non solo imparò a filare la lana, a tessere e a cucinare, ma imparò la grammatica, il greco, la letteratura e la poetica, tanto che Macrobio scrisse di lei che aveva "un «amore per la letteratura e una considerevole cultura".

Molte fonti assicurano che Augusto fosse un padre amoroso ma non sono tutti d'accordo:
«Augusto allevò la figlia e le nipoti con tale severità che vennero abituate al lavoro della lana e vietò loro di dire o fare qualcosa se non pubblicamente, perché ogni cosa potesse essere annotata nel diario quotidiano
(Svetonio, Augustus, 64.)

Questo comportamento sembrerebbe poco paterno e anche poco umano. Tuttavia Macrobio riferisce un suo commento: «Augusto affermò dinanzi ad alcuni amici che aveva due figlie dilette di cui occuparsi: la Repubblica e Giulia»

IL PADRE OTTAVIANO AUGUSTO

I DIVERSI MATRIMONI

Ma per Augusto Giulia, come sua unica figlia, era la sola che potesse assicurargli una discendenza diretta, e non solo, era anche quella che poteva assicurargli alleanze politiche. Così aveva solo due anni quando venne combinato il primo matrimonio con Marco Antonio Antillo, figlio decenne di Marcantonio e di Fulvia, per assicurarsi la fedeltà del triunviro.

Sembra però da alcuni accenni di Svetonio e Cassio Dione che la madre di Julia, e pure la sorella di Augusto, Ottavia, cercassero di influenzare la scelta dello sposo per assicurare alla gens Julia la successione, escludendo la discendenza di Livia, che di certo non amavano.

MARCO CLAUDIO MARCELLO
Quando si ruppe l’alleanza con Marco Antonio, venne rotto anche il fidanzamento di Julia con Antillo, intanto dal matrimonio di Augusto con Livia non nacquero altri figli per quanto ambedue i coniugi avessero dato prova di fertilità. Venne tuttavia ben presto organizzato un secondo matrimonio anche questo mai celebrato, quello con Cotisone, re dei Geti, al quale era stato chiesto in cambio l'assenso per il matrimonio della figlia con Augusto.

Ora era Ottaviano a preoccuparsi di avere un successore che appartenesse alla gens Julia. Pertanto venne scelto come marito di Julia Marco Claudio Marcello che già nel trionfo del 31 a.c. era apparso in pubblico con Ottaviano nella sua biga, posto a destra e quindi preferito, mentre Tiberio, figlio di Livia, stava a sinistra di Augusto.

Naturalmente Ottavia voleva la successione a suo figlio Marco Marcello ma anche Scribonia, ripudiata da Ottaviano per sposare Livia Drusilla, ne era contenta.

Pertanto all'età di quattordici anni, Giulia sposò il cugino Marco Claudio Marcello (figlio di Ottavia minore, sorella di Augusto), che aveva tre anni in più di lei. 

Augusto non era presente, impegnato in Hispania impegnato nelle Guerre cantabriche e per giunta ammalato, così alla cerimonia presenziò il suo amico Agrippa. Marcello organizzò per la cerimonia splendidi giochi, finanziati dallo stesso imperatore, ma morì nel settembre 23 a.c. senza figli.



IL MATRIMONIO CON AGRIPPA 

A 18 anni, nel 21 a.c., a Giulia toccò un nuovo matrimonio, stavolta con Marco Vipsanio Agrippa, che aveva ben venticinque anni in più di lei. Il matrimonio sarebbe stato suggerito anche da Mecenate che, riferendosi alla carriera di Agrippa che era di rango modesto, disse ad Augusto: «Lo hai reso così grande che deve divenire tuo genero o essere ucciso». In realtà molti pensarono che Agrippa potesse diventare il successore di Augusto.

Tuttavia da questo periodo, Giulia, che era pure piuttosto bella, secondo alcuni, imbastì diverse relazioni amorose, con un certo Sempronio Gracco, e pure con il fratellastro Tiberio, il figlio di Livia Drusilla e futuro imperatore. Non sappiamo se veramente tradì Agrippa, che peraltro seguì ovunque e che si dimostrò molto attaccato a lei.

Giulia diede ad Agrippa cinque figli: Gaio Vipsanio Agrippa (Gaio Cesare), Vipsania Giulia Agrippina (Giulia minore), Lucio Vipsanio Agrippa (Lucio Cesare), Vipsania Agrippina (Agrippina maggiore) e Marco Vipsanio Agrippa Postumo (Agrippa Postumo, nato dopo la morte del padre).

Dal giugno 20 a.c. alla primavera 18 a.c., Agrippa fu governatore della Gallia, e sicuramente Giulia lo seguì. Sembra inoltre che Agrippa amasse molto la moglie, lo dimostrerebbe l'aneddoto narrato sia da Nicola di Damasco che da Giuseppe Flavio secondo cui Giulia mentre viaggiava per raggiungere Agrippa durante una campagna militare, un'improvvisa alluvione la colse vicino ad Ilio, causandone quasi la morte. 

Agrippa, infuriato, decretò una multa di 100.000 dracme per la comunità locale, forse per le mancate difese alle piene del fiume, Tanto che fu il re di Giudea, Erode il Grande, a recarsi personalmente a chiedere perdono in nome della città. Nella primavera del 16 a.c., Agrippa e Giulia viaggiarono insieme per le province orientali, recandosi in visita da Erode. 

VIPSANIO AGRIPPA

LE NOZZE CON TIBERIO

Dopo l'inverno Agrippa e Giulia tornarono in Italia, ma qui, nel marzo 12 a.c., mentre si trovavano in Campania, Agrippa morì improvvisamente all'età di 51 anni, dopo nove anni di matrimonio. Augusto adottò e dichiarò suoi eredi Gaio e Lucio, che entrarono a far parte della gens Iulia, ma, non contento, fece fidanzare Giulia, prima della fine del lutto, all'età di 27 anni, e poi sposare con il suo fratellastro, Tiberio, il quale, nonostante l'amore passato con Giulia, almeno a quanto si narra, non ne fu affatto felice.

Nel 2 a.c., Giulia, madre di due eredi di Augusto (Lucio e Gaio) e moglie del terzo (Tiberio), venne arrestata per adulterio e tradimento per volontà di Augusto, che le fece recapitare una lettera a nome di Tiberio in cui il loro matrimonio veniva annullato. 



IL COMPLOTTO

Inoltre l'imperatore affermò in pubblico che Giulia aveva complottato contro di lui.

Molti dei complici di Giulia vennero esiliati, tra cui Sempronio Gracco, mentre Iullo Antonio, figlio di Marco Antonio e Fulvia, fu obbligato a suicidarsi insieme alla liberta di Giulia, una certa Febe, che avrebbe aiutato Giulia nella congiura. 

L'ESILIO DI GIULIA A VENTOTENE
Strano tuttavia che molti vennero solo esiliati, perchè una congiura si pagava con la morte, inoltre Augusto mostrò di essere a conoscenza da tempo delle manovre dei presunti congiurati, e anche questo ritardo era strano, amanti che si incontravano, si disse, al Foro Romano (cioè sotto gli occhi di tutti, anche questo è molto strano), come pure della relazione amorosa tra Iullo e Giulia, forse l'unica vera tra tutte quelle attribuite alla figlia dell'imperatore.

Augusto fu tentato di mandare a morte la propria figlia, decidendo poi per l'esilio sull'isola di Pandateria (Ventotene), dove la seguì volontariamente la madre Scribonia. 

« Quando si trattò della figlia, informò il Senato in sua assenza attraverso la comunicazione di un questore, poi si astenne dal contatto con la gente per la vergogna e pensò perfino di farla uccidere
(Svetonio, Augustus, 65.)

Sull'isola, meno di due chilometri quadrati, non erano ammessi uomini, e non era concesso a Giulia di bere vino né alcuna forma di lusso.In quanto ad Augusto, ogni qual volta veniva fatto riferimento a lui e alla figlia, soleva dire, citando l'Iliade:
«Vorrei essere senza moglie, o essere morto senza figli»
(Svetonio, Augustus, 65.)

Inoltre, si riferiva a Giulia solo chiamandola come uno dei suoi tre ascessi o cancri. Cinque anni dopo le fu permesso di tornare sulla terraferma a Reggio Calabria, ospitata nella cosiddetta Torre di Giulia (poi demolita sconsideratamente). 

Augusto non accolse mai la grazia che il popolo gli chiese con insistenza, per risposta Augusto gli augurò di avere tali figlie e tali spose e decretò che le ceneri della figlia non venissero inumate nel mausoleo di famiglia. 

GIULIA MAGGIORE

LA MORTE DI GIULIA

Ma Tiberio fece di peggio. Divenuto imperatore nel 14 d.c., tolse a Giulia le sue rendite, la fece confinare in una sola stanza e le tolse ogni compagnia umana. Giulia morì poco dopo, forse per malnutrizione, oppure fu Giulia a lasciarsi morire di fame dopo aver saputo dell'assassinio del suo ultimo figlio, Agrippa Postumo.

Infatti fra l'8 e il 14, prima della morte di Augusto, ci fu un tentativo fallito, organizzato da Lucio Audasio e Asinio Epicadio, di rapire il giovane e sua sorella Giulia minore, entrambi esiliati su due diverse isole, e portarli alle legioni per scatenare una guerra civile.



LA MORTE DI AGRIPPA POSTUMO

Alcuni mesi prima di morire sembra che Augusto, in compagnia di un amico, Paolo Fabio Massimo, abbia raggiunto segretamente Pianosa per incontrare Agrippa Postumo con cui sembrò riconciliarsi. Fabio Massimo raccontò dell'incontro alla moglie Marcia, amica di Livia, che si confidò con l'imperatrice; Fabio Massimo morì poco dopo, forse costretto al suicidio. 

Morto Augusto, Agrippa fu ucciso a Pianosa da un centurione, non si sa se per ordine di Augusto poco prima di morire, o da Tiberio, o da Livia. Uno schiavo di Agrippa Postumo, Clemente, subito dopo la morte di Augusto, cercò di liberare il giovane e, con una nave da trasporto, portarlo alle legioni in Germania, che si stavano rivoltando, dove si trovavano la sorella di Agrippa, Agrippina maggiore, e il marito di lei Germanico, ma non giunse in tempo riuscendo solo a portare con sé le sue ceneri.



FIUMICINO, TORNA ALLA LUCE IL VOLTO DI GIULIA, LA FIGLIA DELL'IMPERATORE AUGUSTO (Fonte)

Il volto è leggermente inclinato verso sinistra in una posa aristocratica, il profilo è delicato con la linea perfetta del naso. Gli occhi hanno le palpebre a rilievo e le orecchie mostrano ancora piccoli fori per gli orecchini in metallo, forse oro o argento. 

La scultura è databile all'età augustea, rinvenuta pochi giorni fa a Fiumicino, località Aranova, in una monumentale villa romana riaffiorata a dicembre durante i lavori di scavo preventivi per un progetto edilizio. Sembra si tratti di Giulia maggiore, figlia di Augusto, l'unica naturale avuta dalla prima moglie Scribonia, nata nel 39 a.c..

"Lo stile dell'acconciatura richiama modelli di personaggi illustri della famiglia Giulio Claudia - racconta la sopraintendente Russo Tagliente -

Sulla fronte due ciocche scendono in grandi onde morbide lungo le tempie, mentre sulla nuca i capelli appaiono in bande lisce divise da una riga in mezzo e raccolte in fitte trecce racchiuse in una crocchia bassa. 
Inoltre, una tenia, ossia un nastro a doppio giro intrecciato ai capelli, si annoda sul capo con un effetto diadema".

La testa, a grandezza naturale, era nascosta in una zolla di terra, ritrovata in un grande ambiente della villa che fungeva da magazzino di conservazione per il cibo.

Della villa, infatti, databile tra I sec. a.c. e II d.c., è stata individuata tutta la "pars rustica", ossia gli ambienti domestici e di servizio. 

"La villa, che si doveva articolare a terrazze sulla collina, era monumentale - racconta l'archeologa Daniela Rizzo - i muri d'età repubblica hanno, infatti, poderosi blocchi di opera quadrata. E' la prima testimonianza di una residenza imperiale sul litorale".


SEPTEMVIRI EPULONES

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SACERDOTI DELL'ARA PACIS
"Romae eo primum anno tresviri epulones facti Caius Licinius Lucullus tribunus plebis, qui legem de creandis his tulerat, et Publius Manlius et Publius Porcius Laeca; iis triumviris item ut pontificibus lege datum est togae preaetextae habendae ius."
(A Roma furono in quell’anno per la prima volta creati triumviri epuloni Caio Licinio Lucullo tribuno della plebe, che aveva proposto che si creassero Publio Manlio e Publio Porcio Leca: fu concesso loro per legge, come ai pontefici, il diritto di portare la toga pretesta.)
(Liv. XXXIII, 42, 1)



I COLLEGI

I septemviri epulones (dal latino epulo - epulonis = banchettatore) erano uno dei quattro più importanti collegi religiosi della Roma antica, insieme a quelli dei pontefici, degli auguri e dei "quindecemviri sacris faciundis". Essi facevano parte dei sacerdoti della religione ufficiale romana e pertanto stipendiati dallo stato.

Il collegio venne fondato nel 196 a.c. per la necessità di avere esperti che supervisionassero e organizzassero le festività romane che oramai si svolgevano in modo sempre più ricco ed elaborato. Lo stato pertanto sosteneva tanto gli epulones quanto le festività a cui tutto il popolo partecipava gratuitamente.

Gli antichi sacerdoti romani si dividevano in quattro grandi corporazioni religiose (quattuor amplissima collegia), dei quali i due più importanti furono il Collegio dei Pontefici e il Collegio degli Auguri; il quarto era il quindecimviri sacris faciundis. 

Il terzo collegio era costituito dagli epuloni, che si trovano raffigurati anche nel fregio settentrionale dell’Ara Pacis, insieme ai XVviri Sacris Faciundis, a Lucio Cesare, Giulia, Ottavia Minore e Iullo Antonio.I sacerdoti possono essere facilmente identificati grazie alla presenza della cassetta sacra del collegio pontificale (detta acerra) portata dal secondo camillo.



I POTERI

I sacerdoti romani esercitavo in campo religioso i medesimi poteri dei consoli, con la differenza sostanziale che avrebbero ricoperto la loro carica a vita. 

MONETA CON EPULONE
Al contrario dei consoli però non potevano convocare il senato o il popolo, né avevano l’imperium, salvo casi eccezionali: ad esempio gli auguri avevano la facoltà di far rinviare le sedute politiche se ravvisavano elementi infausti.

Il collegio degli epuloni era costituito da sette uomini, incaricati di occuparsi dei banchetti pubblici e dei giochi (ludi) offerti secondo il rito in occasione di diverse festività religiose. 

Gli epuloni costituivano una delle quattro grandi corporazioni religiose (quattuor amplissima collegia) di antichi sacerdoti romani. 



IL LORO NUMERO

Tale carica prestigiosa era un onore che entrava a far parte del cursus honorum dei personaggi pubblici e fin dall'inizio fu aperto anche ai plebei.Ad essi venne affidato il compito era inizialmente svolto dai pontefici. Al momento della sua prima istituzione, il collegio comprendeva solo tre membri, ed era quindi detto Tresviri epulones. 

Con Gaio Giulio Cesare (100 a.c. - 44 a.c.), il numero venne portato a dieci, per quel vezzo del dittatore di ampliare ai plebei l'adito alle cariche pubbliche. Egli infatti ampliò il numero delle cariche pubbliche infarcendole di plebei, per il gusto di infastidire l'orgoglio degli aristocratici che malvolentieri dividevano spazi e lavori con i plebei. 

Pur essendo aristocratico infatti Cesare scelse il partito politico dei "populares", in parte perchè era stato il partito del suo grande zio Gaio Mario, in parte perchè, come ebbe a spiegare in senato, trovava rivoltante l'arroganza dei patrizi che ebbe così il piacer di obbligare a convivere con i plebei nello stesso uffizio.

Il suo successore, Ottaviano, pur di discendenza plebea ma reso patrizio per intervento di Cesare, non condivise questa avversione ai patrizi, infatti fece eliminare tutti i nuovi assunti dallo zio, a cominciare dai senatori (da 900 a 600) e a finire con gli epulones che tornarono al numero di sette.

Il Collegio degli Epuloni fu istituito molto tempo dopo che le riforme civili avevano aperto le magistrature e la maggior parte dei sacerdozi ai plebei, che erano così ammissibili fin dall'inizio. Inizialmente c'erano tre epuloni, ma in seguito il loro numero fu aumentato a sette; quindi erano anche conosciuti come septemviri epulonum, "sette uomini degli epuloni".



GLI EMBLEMI

L'emblema degli epuloni era la patera, cioè la coppa sacra usata dagli epuloni. Era poco profonda e con un centro rialzato in modo che, quando tenuto nel palmo, il pollice potesse essere posizionato sul centro sollevato senza profanare la libagione, mentre veniva riversato nel fuoco, o fuoco sacro. La patena è sta poi adottata dai sacerdoti cattolici romani omettendo però il centro rialzato.

PATERA
Livio (XXXIII, 42, 1) ricorda che su proposta del tribuno della plebe Caio Licinio Lucullo, i tresviri (e poi i aeptemviri) ebbero riconosciuto il diritto di indossare la toga praetexta, la toga bordata di rosso che veniva indossata da tutti i più alti magistrati e pure dai bambini (per antica volontà delle donne sabine), in quanto la toga porporata, di ascendenza etrusca, assicurava per legge l'assoluta inviolabilità. Chiunque avesse osato fare del male a un uomo che indossasse la praetexta sarebbe infatti stato punito con la morte.

Altro simbolo ad essi pertinente era la "acerra", cassetta sacra del collegio pontificale, di forma quadrangolare o cilindrica, detta anche arca turaria o turalis, dove si conservava l’incenso da usare nei sacrifici. Nelle cerimonie, l’acerra era portata da un giovane assistente (camillus), che la porgeva al sacerdote perché ne traesse i grani da gettare nel fuoco. 
L’uso venne adottato dalla liturgia cristiana nella pisside o scatoletta cilindrica (thymiaterium, incensarium).



LE FUNZIONI

Il loro compito era quello di organizzare il sacro banchetto rituale durante la festività del 13 Settembre (Epulum Iovis), che veniva ripetuto anche durante i Ludi Plebei il 13 Novembre, nella quale si ricordava la consacrazione del tempio di Giove Capitolino, sostituendosi in questo ruolo ai Pontefici, ma nonostante fossero un collegio a sé stante, gli epuloni continuavano ad essere da loro dipendenti: poteva infatti accadere, in base a quanto ricorda Cassio Dione (43, 41; 48, 32) che durante i banchetti non potesse essere presente nessuno degli epuloni e, in quel caso, l’organizzazione tornava ai Pontefici. 

Successivamente passarono ad organizzare i vari banchetti sacri nonché quelli dei giochi seguendo il rituale della relativa festa religiosa per la quale erano stati indetti, il tutto naturalmente a spese dello Stato. Nonostante la loro importanza, per il periodo repubblicano si conoscono soltanto sette epuloni mentre per il periodo imperiale si arriva ad un centinaio di nomi.

Spesso questa carica si trova nelle epigrafi ma sempre indicata con VIIvir Epulonum o solo Septemvir, mentre il termine sacerdos non viene quasi mai usato. 



LECTISTERNIA

Gli epuloni organizzavano un banchetto sacro al quale erano invitati a partecipare anche gli Dei, che presenziavano attraverso le loro statue, quelle maschili disposte su pulvinaria (ricchi letti con morbidi cuscini) e quelle femminili sulle sellae, che erano posti nella parte ritenuta più onorevole della tavola.

Agli Dei erano serviti piatti abbondanti e ricchi (farro, fichi secchi, carne, formaggio, pesce …) che venivano consumati in loro vece proprio dagli epuloni stessi. La celebrazione in onore di Giove iniziava con il sacrificio di una mucca bianca; tutti i cittadini di Roma partecipavano al grande banchetto: i senatori avevano l’onore di mangiare nel Campidoglio mentre il popolo lo faceva nel Foro.

INTERNI DELLA PIRAMIDE DI CAIO CESTIO

CAIO CESTIO

Il più famoso degli epuloni, soprattutto per la sua tomba monumentale, fu Caio Cestio, un comune cittadino pubblico del I secolo a.c. che però, grazie alla sua carica di epulone, riuscì a mettere in piedi una piccola fortuna, segno che codesti sacerdoti erano riccamente pagati.

Egli visse per tutta la vita a Roma e non sarebbe passato alla storia se non avesse voluto una tomba unica, che destò meraviglia già tra i suoi contemporanei e che oggi è nota con il nome di Piramide Cestia, una famosissima piramide in stile egizio, costruita nella zona ostiense ed inglobata all’interno del circuito delle Mura Aureliane, realizzata tra il 18 ed il 12 a.c. in calcestruzzo e cortina di mattoni, tutto ricoperto da lastre di prezioso marmo lunense.

La sua epigrafe riporta Caio Cestio Epulone, figlio di Lucio, della tribù Poblilia, e subito dopo il suo cursus honorum: pretore, tribuno della plebe e "Septemvir Epulonum".

SALIORUM PROCESSIO (9 Marzo)

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DANZA DEI SALII

9 marzo - ante diem septimum Idus Martias - 

Si festeggiava la prima festa dei Salii, un collegio sacerdotale antichissimo consacrato al culto di Marte, essi facevano processioni, canti, danze e suoni guerreschi. I Salii intervenivano anche nelle altre festività del Dio Marte. Il termine Salii deriva da salire (saltare, balzare, danzare). Erano divisi in due gruppi di dodici. I Palatini, con sede sul Palatino, e i Collini o Agonensi, con sede sul Quirinale.

Con la cerimonia si apriva ufficialmente il periodo della guerra, che sarebbe stato chiuso con analoghe cerimonie in ottobre (October equus, Armilustrium e Ancilia condere). L'origine degli scudi sacri risale ai tempi di Numa Pompilio. Il re aveva chiesto a Giove un segno della sua protezione su Roma per la pestilenza in atto. 

Uno scudo di forma particolare, senza angoli, discese dal cielo. Egeria, la moglie di Numa Pompilio, consigliò di riprodurre lo scudo per evitare che fosse rubato l'originale. Un fabbro di origine osca, Mamurio Veturio, venne incaricato di farne undici copie, talmente simili che neppure Numa seppe più riconoscerli. 

ANCILIO
Gli scudi furono custoditi nel "Sacrarium Martis" della Regia, dove venivano custoditi le "pignora" cioè le reliquie sacre di Roma. " Septem fuerunt pignora, quae Imperium Romanum tenente: Acus Matris Deum, Quadriga fictilis Veientanarum, Cineres Orestis, Sceptrum Priami, Velum Ilionae, Palladio, Ancilia".

(M. Servius Honoratus, in Vergilii cammina comentarii ad Aen., VII, 188)


Roma non poteva essere distrutta finchè fossero salve queste reliquie che erano, oltre ai sacri Ancilia dei Salii, l'ago di Cibele, la quadriga di terracotta dei Veienti, le ceneri di Oreste (vendicatore di Priamo), lo scettro di Priamo (re di Troia), il velo di Ilium e il palladio.

I Salii erano presieduti da un Magister, al quale si affiancavano il Praesul, che dirigeva le danze (mostrava i passi e le figure della danza "amptrurare" agli altri sacerdoti che dovevano poi ripeterle "reamptrurare"), ed il Vates, direttore del coro.

I Salii erano uno dei collegi sacerdotali più importanti nell'antica Roma e avevano il compito di aprire e chiudere ogni anno il tempo che poteva essere dedicato alla guerra. Questo periodo andava da marzo ad ottobre, per permettere l'allenamento delle truppe e il loro approvvigionamento.

"I Sali, sesta parte delle divine istituzioni di Numa, eran così chiamati dal saltar che facevano nell'esercizio del loro ministero; han creduto che questo nome derivasse da un cert'uomo chiamato Salio di Samotracia o di Mantica dal quale furono i Sali ammaestrati a ballare con le armi, ma Plutarco riporta questa opinione la considera totalmente erronea.

CARME SALIARE
La istituzione dei Sali è invece, nel modo che segue, narrata da Plutarco:

Nell'anno ottavo del Regno di Numa erano l'Italia e Roma malmenate da terribile pestilenza. Uno scudo di rame scese dal Cielo nelle mani di Numa sul quale disse questi cose ammirabili asserendo averle intese da Egeria e dalle Muse ed assicurando che quell'arnese era venuto dal Cielo per la salute della Città ond'era d'uopo custodirlo con tutte le possibili cautele e sicurezze. 

Aggiunse esser necessario consagrare il luogo ove ricevuto aveva lo scudo, ed i prati ivi d'intorno presso i quali soleva, Egli colle Muse, intrattenersi, e dichiarar sagra alle Vergini Vestali la fonte che quivi scorreva, perchè attingendone desse le acque, ne spargessero di giorno in giorno e purificassero il penetrale del tempio. La Grotta ove Numa fingeva di aver colloquio con la Dea Egeria o con le Muse come ancora il fonte che quivi scorreva erano, secondo quello che scrive Ovidio, alle falde del Monte Aventino dalla parte del Tevere. 

Dallo stesso poeta deducesi ancora che in quel luogo fosse l'ara di Giove Elicio ed il Bosco d'Ilerna. La cessazione della pestilenza testificò la verità delle cose esposte da Numa. 
Quindi per evitare il caso di furto dello Scudo anzidetto altri undici ne fece fabbricare dall'Artefice Veturio Mamurio, cotanto eguali che Numa stesso non seppe più distinguere quello caduto dal Cielo. 

Mamurio non dimandò altra ricompensa pel suo lavoro se non quella che il suo nome fosse inserito negl'Inni quali cantar solevano i Sacerdoti Sali nelle lor cerimonie, lo che gli venne conceduto. 
Dionigi dichiara favoloso questo racconto che tale si dimostra anche da per se stesso. Egli pone la istituzione di questi Sacerdoti al fine di prestare omaggi e celebrare la festa ai Dei che presiedevano alla guerra. 

PROCESSIO DEGLI ANCILII
Altri Storici ancora convengono che i Salii erano addetti al culto di Marte Gradivo e le loro festività cadevano nel Marzo mese consacrato al Dio della guerra e Numa volle che dodici fossero i Salii. Eran questi i più belli e più virtuosi giovani dell ordine de Patrizi e poiché le loro cose sagre esistevano presso il palazzo si appellavano Salii palatini.

L'abito di codesti Sacerdoti era di gran proprietà e sommamente apprezzato dai Romani. Questo consisteva secondo Dionigi nella tonaca ricamata, cinta con fasce da spada di bronzo, e nella toga pretesta tramata di rosso carico che si stringeva con fibbie e che appellavasi trabea. Portavano in testa un Cappello rotondo e aguzzo in cima Cingeva ciascuno la spada armava la destra di lancia e teneva nella sinistra uno scudo lungo e più stretto nei lati. 

Questi giovani così vestiti e armati nei loro giorni festivi ch'eran molti e cadevano tutti nel Marzo scorrevano ballando per il Foro nel Campidoglio e in molti altri luoghi si pubblici che privati. Intorno al vestiario e modo di danzare dei Salii non sono concordi a Dionigi Tito Livio e Plutarco e neppur questi tra loro. 

Quando col tempo i Salii non abbiano variato abito e formalità di cerimonia vè luogo a supporre che siansi confuse le danze curetiche o pirriche con quelle del Salii aventi fra loro poca differenza ed in questo caso di molta probabilità ciascuno Storico avrebbe parlato diversamente dall'altro riferendo l'una piuttosto che l'altra formalità. 

Gli Scudi dei Salii eran chiamati Ancilia perchè siccome scrive Varrone avean l'incisione da ambe le parti come quei de Traci. Plutarco assegna a questo nome molte e varie altre derivazioni che noi tralasciamo di riferire stimando di poca importanza la cognizione di una tal etimologia che rimarrebbe sempre nell'incertezza. 

I Salii formavano Collegio e quello che vi presiedeva chiamavasi Maestro de Salii. Il Popolo non aveva alcuna parte nella loro elezione quale apparteneva ai Maestri del Collegio; non eleggevansi quei che non avevano i genitori viventi e che non erano liberi."

(Annali di Roma - Luigi Pompili Olivieri - 1836)

La festa nasceva al Tempio di Marte dove iniziava la processione in cui sfilavano gli ancilii sacri mentre i sacerdoti Salii iniziavano a ballare saltare attraverso le vie della città senza mai fermarsi, e poichè agitavano pure gli scudi e le lance, dovevano essere molto bene allenati perchè il fermarsi o il cadere era segno di disgrazia per l'esercito romano, e quindi per Roma.

Di solito sfilavano lungo il foro, ma talvolta per onorare un grande condottiero, potevano giungere fino alla sua casa e danzare dinanzi ad essa, l'ispiratore dei generali. Quindi la danza tornava al tempio di Marte dove i Salii riponevano le vesti della cerimonia e gli oggetti sacri. Gli scudi invece tornavano al Sacrarium Martis.

Alla processio seguivano le bancarelle piene di cibo e i banchetti nelle case, dove spesso venivano invitati a mensa i militari, dove si libava all'imperatore e alle legioni, ma soprattutto al Genius dell'imperatore, dei generali e dell'esercito romano, che ispirava la strategia, il coraggio e l'ardimento che fece di Roma la Caput Mundi.

VII REGIO AUGUSTEA - ETRURIA

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L'Etruria era una regione antica dell'Italia centrale, la VII tra le regioni dell'Italia riformata dall'imperatore Augusto, che comprendeva:

- la Toscana,
- parte dell'Umbria occidentale fino al fiume Tevere,
- il Lazio settentrionale fino a Roma
- i territori liguri a sud del fiume Magra.

In occasione della riforma dioclezianea dell'amministrazione imperiale, fu unificata alla Regio VI Umbria per formare la Tuscia et Umbria.



I CONFINI

La VII Regio confinava:

- a nord con la Liguria, dal fiume Macra (Magra), distante 284 miglia romane dal Tevere;
- a sud, lungo la costa tirrenica, confinava con i fiumi Prelius o Prilis (Prile) ed Umber (Ombrone);
- scendendo ancora costeggiava il fiume Tevere (Tiberis),  come confine meridionale dell'Etruria con il Latium vetus dei Latini e la Sabina dei Sabini;
- a oriente confinava con l'Umbria;
- a occidente confinava col Mar Tirreno.



I LAGHI

Essendo zona vulcanica la regione pullulava di laghi che erano e sono ex vulcani spenti, ed erano tutti navigabili: 

- il Cimino (lago di Vico), il nome deriverebbe da Vico Matrino, centro sulla via Cassia a 3 km dal lago, come appare sulla Tabula Peutingeriana, o da un piccolo Vicus romano sulla riva meridionale, Vicus Elbii, già scomparso nell'altomedioevo.
- il Volsinii, o Lacus Volsiniensis (lago di Bolsena),
- il Clusium (lago di Chiusi),
- il Sabatinus (lago di Bracciano)
- il Trasimenum (lago Trasimeno), dove avvenne la disastrosa battaglia del Trasimeno tra romani e cartaginesi che videro questi ultimi vittoriosi (II Guerra Punica)



I POPOLI

Dalle cronache di Plinio il Vecchio si evince che i primi abitatori dell'Etruria furono gli Umbri, cacciati poi dai Pelasgi, che furono però cacciati a loro volta dai Lidi.

(INGRANDIBILE)
Da Tirreno, re dei Lidi, presero il nome di Tirreni, chiamati poi Tusci (dal greco thýo = sacrificio). Dal VII secolo vennero abitati dagli etruschi che si sovrapposero alla civiltà villanoviana.

Secondo alcuni gli etruschi erano villanoviani ed autoctoni, secondo altri erano di origine orientale, in particolare della Lidia con cui avevano molte usanza in comune. La civiltà etrusca che qui si sviluppò fu unica al mondo, di grande arte e bellezza e molto influenzò la civiltà romana.

Nel I secolo a.c. Roma occupò l'Etruria e la romanizzò, nell'89 a.c. gli Etruschi ed i coloni latini ottennero la cittadinanza romana, ma successivamente vennero distrutti Talamone ed il suo porto da Silla per aver parteggiato per Gaio Mario. Scomparvero i piccoli proprietari e l coloni, e sorsero le sontuose ville, rustiche o esclusivamente residenziali.

Successivamente Augusto la inserì nella VII Regione, la Regio VII Etruria, e la zona si arricchì di ville marittime, stupendamente decorate e, altrettanto belle, le staziones più ricche, dotate di impianti termali finemente decorati. 

Ma già nel III secolo le campagne costiere abbandonano le produzioni intensive di vite e olivo per i cereali e la pastorizia. Le campagne si spopolano e le coste si impaludano per l'incuria dei canali di irrigazione e drenaggio.

OREFICERIA ETRUSCA

L'ECONOMIA

Il territorio etrusco si fece notare per la ricchezza delle acque, anche termali, per la floridità del suolo, perlopiù vulcanico, e per la vicinanza con Roma, che portò popolazione e domus di villeggiatura oltre che rustiche. Ma dettero ricchezza anche le cave di marmo (bianco con venature azzurre), di grande qualità e quantità, che fornì lastre monolitiche e colonne alla maggior parte dei principali monumenti di Roma ed alle altre città italiche, grazie al trasporto per mare e poi dal Tevere.

Fiorente fu la produzione ceramica, a figure bianche e rosse su fondo nero, ma soprattutto il sottile e raffinato bucchero che venne esportato ovunque. per non parlare della raffinatissima oreficeria, con le famose minuscole sfere (granulazione) che ancora oggi si fatica a comprendere come venissero prodotte.

Da non dimenticare il taglio della legna, per le assi diritte e lunghe, dei boschi sui monti della Tirrenia, utilizzate per la costruzione di navi e di case a Roma, grazie al trasporto fluviale fino al Mar Tirreno e poi lungo il Tevere. Inoltre vi erano le miniere di ferro dell'isola di Aithalìa (isola d'Elba), e nei pressi di Populonia e di Cosa, si pescavano i tonni.

COLONNA DONATA DA ROMA A TRASIMENO PER RICORDARE LA BATTAGLIA

LE CITTA'

Plinio il Vecchio (23 - 79) nella sua Naturalis Historia al tempo dell'Imperatore romano Vespasiano fece un preciso elenco delle città.


- Acquae Tauri - (Terme Taurine ) -
Presso Civitavecchia;  descritte nel diario di viaggio del poeta Rutilio Claudio Namaziano (416 d.c.), il loro nome nasce da una leggenda secondo cui un toro sacro, raspando la terra prima di una lotta, avrebbe fatto scaturire una sorgente di acqua sulfurea dalle proprietà benefiche. E' probabile però che le Terme Taurine provengano dall’antico laghetto di Aquae Tauri, da cui sgorgava la sorgente.

Alsium - (Monteroni) -
Era un'antica città sulla costa dell'Etruria, tra Pyrgi e Fregenae, sulla via Aurelia, a 29 Km dall'antica città di Porto, sulla foce del Tevere, a 35 Km da Roma. Era una delle città più antiche dell'Etruria, sebbene apparve nelle cronache romane solo nel 247 a.c., quando venne colonizzata. Secondo Dionigi di Alicarnasso fu fondata dai Pelasgi e dagli Aborigeni. Non fu mai importante, nota solo perché alcuni personaggi romani, come Pompeo, vi ebbero una villa. A Monteroni, nel comune di Ladispoli, si trova una necropoli etrusca, che si ritiene la necropoli di Alsium.

Amitinum -
Città scomparsa tra Soratte ed il Tevere, situata a est di Roma, sui monti Cornicolani, presso Corniculum, come sembra attestato dal rinvenimento di un'epigrafe che cita un "pagus amentinus" e dallo stesso Plinio il Vecchio.

- Argo - (Portoferraio) - 
Porto dell'isola d'Elba; per Apollonio Rodio, il luogo dove sbarcarono gli Argonauti di Giasone che cercavano Circe, e si chiamava Porto Argo (da argòs, «bianco», per le rocce e le spiagge bianche), oggi localizzato presso la spiaggia delle Ghiaie. Vi restano due ville marittime romane (villa delle Grotte e villa della Linguella) di età imperiale. Dal XVIII secolo furono rinvenuto un insediamento romano presso il centro storico di Portoferraio: murature in opus reticulatum e opus sectile, lastre di piombo, denarii e due piccole necropoli collocate presso i Mulini e gli Altesi.

ANFITEATRO ROMANO DI AREZZO
Arretium - (Arezzo) - 
Dopo la caduta dell'Etruria, Arretium venne romanizzata, ma nel IV secolo a.c. Arezzo, Chiusi e Perugia si allearono per combattere i Romani ma senza successo, per cui nel 310 a.c. anche Arezzo dovette arrendersi e allearsi con Roma, ma si ribellò nuovamente nel 301 a.c. e nuovamente fu sconfitta. Nel 295, Arezzo organizzò una lega di popoli (Galli compresi) contro Roma, ma la loro sconfitta fu molto dura. Nel 285 a.c. ci fu l'invasione dei Galli Senoni che la saccheggiarono e distrussero, ma i romani la ricostruirono l'anno dopo, nel 284 a.c.. 
Quando nel 217 a.c. Annibale sconfisse i Romani gli Aretini si ribellarono a Roma, ma inutilmente, tanto che nel 205 a.c., durante le Guerre Puniche, Arezzo offrì il suo aiuto militare ed economico a Roma contro Cartagine. Nella lotta tra Mario e Silla, gli Aretini si allearono con Mario (91 a.c.) ma la vendetta di Silla costò ad Arezzo atrocità, violenze e la colonizzazione romana. Infine passò sotto il potere di Giulio Cesare, che la fece rinascere nell'economia e nell'industria (soprattutto la ceramica). Nel I sec. d.c. fiorì al massimo per rallentarsi poi fino a fermarsi nel secolo successivo.

Blera -  (Blera) -
Sorta nell'VIII - VII secolo a.c. ad opera degli etruschi, raggiunta dalla via etrusco-romana Clodia fiorì in epoca romana divenendo municipio. Ne restano diversi mausolei e ville rustiche.

Caere - (Cerveteri) - 
Città chiamata Agilla dai Pelasgi che la fondarono, situata a 7 miglia dalla costa (in seguito conquistata dai Tirreni) e le vicine fonti termali chiamate "Fonti Ceretane" (Bagni del Sasso). Plinio il Vecchio la elenca tra le città Etrusche delle settima regione italica, venne conquistata dagli Etruschi, che la chiamarono Caere.

Capena - (Capena) - I Capenati erano una fiorente popolazione italica preromana. Capena venne fondata dagli Etruschi, r faceva parte dell'Ager Capenas. Nel IV secolo a.c. ebbe luogo la mitica guerra tra Veio, i Capenati e i Falisci alleati tra loro e Roma, per il controllo di questa zona del Tevere. Roma vinse nel 395 a.c. e Veio cadde per mano di Furio Camillo. Dopo la conquista romana, tutto il territorio fu ascritto alla Tribù Stellatina con la creazione di un Municipio Federato nel 387 a.c.
L'ager capenate omprendeva i centri di: 
- Civitella San Paolo (Civitatula dove si rifugiarono gli scampati capenati),
- Morlupo (si crede un'antica colonia di soldati detti Martis Rapaces Lupi),
- Fiano (quando Capena venne sconfitta agli inizi del IV secolo a.c. dai Romani insieme all'alleata Veio. Gli abitanti si sparsero sulle vicine colline, e crebbero sotto la dominazione romana),
- Nazzano (fecente parte dell'agrocapenate in epoca romana),
- Ponzano - nome derivato da "pons Jani", ponte di Giano o dalla "gens Pontia", famiglia romana proprietaria di una villa e di terreni nella zona.
Filacciano -  discendenti del popolo Falisco, nell'area tra il Monte Cimino ed il Tevere, con centro principale Falerii veteres oggi Civita Castellana, già capitale dei Falisci come Falerii Vteres.
Torrita - locato a picco sul fiume Tevere e tra i comuni di Nazzano e Filacciano.
Rignano - già capitale dei Capenati, sulla riva destra del Tevere.
Sant'Oreste -  adoravano sul monte Soratte il Dio Soranus, che Plinio riferisce fosse celebrato dalle famiglie degli Hirpi Sorani (o "lupi di Soranus"), che in onore del dio camminavano sopra i carboni ardenti; per questo motivo queste genti erano state esentate per mezzo di un decreto del Senato dal servizio militare e da altri obblighi.
- Castelnuovo di Porto - Il nome fa riferimento ad un Castrum Novum, castello nuovo.
- Riano - Castrum Raiani.

- Castrum Novum (Santa Marinella) - 
A partire dal sec. IX a.c. nel territorio sorsero l'insediamento di Punicum, l'insediamento di Pyrgi (attuale Santa Severa), probabili empori Fenici, e infine l'insediamento romano di Castrum Novum.

- Clusium - (Chiusi) - 
La città etrusca di Clevsi, diventata poi la latina Clusiumsorgeva sulla via che collegava Roma all'Etruria settentrionale, seguendo il Tevere e il suo principale affluente, il Clanis, essendo il fondovalle dell'omonima valle estremamente fertile.

- Cortona - (Cortona) - 
«Cortona: mamma di Troia e nonna di Roma.» (Detto cortonese tratto dai vv. 163-171 del III libro dell'Eneide di Virgilio).

Cosa - (Ansedonia) - 
Colonia romana, situata a poca distanza dal mare sopra una collina elevata, al di sotto della quale si trova un porto chiamato Eracle ed una laguna (oggi riserva naturale Duna Feniglia).

Faesulae - (Fiesole) -
Dal IV secolo a.c. era tra le più importanti città etrusche alle pendici meridionali dell'Appennino Tosco-Emiliano. Fu alleata di Roma fin dal III secolo a.c. Per aver parteggiato per Mario, fu occupata da una colonia di veterani di Silla, divenendo la Faesulae romana con un campidoglio, un foro, un teatro, dei templi, e un impianto termale. 

Falerii - (Civita Castellana) - 
Colonia falisco-etrusca la cui origine sembra sia da attribuire a coloni greci di Argo.

Faliscum -
Forse un altro nome per Falerium.

Ferentum o Ferentinum  -
(a 6 km da Viterbo).

BANCHETTI ETRUSCHI
Feronia -
(dove è presente un santuario ai piedi del monte Soratte).

Fescennina - (località sconosciuta).

Florentia - (Firenze) -
Colonia romana, lungo l'Arno.

- Forum Clodii -
Presso San Liberato di Bracciano, era una stazione di posta sulla Via Clodia, a circa 23 miglia a nord-ovest di Roma, sul lato occidentale del "Lago Sabatino" (Lago di Bracciano), e collegato alla Via Cassia a Vacanae (Baccano) da un ramo della strada che corre nel lato nord del lago in direzione di Trevignano Romano. Da stazione divenne poi una cittadina col suo Foro romano.

Fregenae - (Fregene) -
Possedette, in epoca etrusca, un porto alla foce del fiume Arrone, e una famosa salina. Distrutta dai Romani, la sua memoria venne dimenticata.

Gravisca - (Porto Clementino) -
Fiorente porto etrusco, legato ai commerci con il Mediterraneo orientale; dopo la conquista romana, divenne una colonia marittima vitale fino alla distruzione, durante le invasioni barbariche del V secolo.

Herbanum - (località sconosciuta) -

Hortanum (Orte) -
ricca di sorgenti e delle acque termali solfuree delle Capannelle.

Lucus Feroniae - (Capena) -
col suo straordinario santuario.

Luni - (Luna) - 
famosa per il suo ampio porto (l'attuale La Spezia) e la colonia di cittadini romani.

- Luca - (Lucca) - 
di origine ligure o etrusca con datazione attorno al 220 a.c., e sviluppatasi come città romana a partire dal 180 a.c., divenne colonia romana.

- Nepet -  (Nepi) -
Etrusca Nepa, ovvero acqua, quindi Nepi, città delle acque; città falisca, fu fondata secondo la leggenda, dal mitico Termo Larte 458 anni prima di Roma.

- Perusia - (Perugia) -

Pisae - (Pisa) - 
Fondata tra i fiumi Auser e Arnum dai Pelopidi o dai greci Teutani secondo Plinio, dai Pisati del Peloponneso, comandati da Nestore dei Pilii secondo Strabone.

- Novem pagi - (località sconosciuta) -

Pistorium  -  (Pistoia)
Detta anche Pistoria o Pistoriae, fondata dai romani su un'insediamento etrusco e, nelle zone più montane, liguri, divenne nel II secolo a.c. un oppidum di appoggio alle truppe romane contro i Liguri delle aree appenniniche. La città è menzionata anche da Sallustio, che riporta la battaglia del 62 a.c. in cui perse la vita Catilina.

Populonia - (Populonia) -
Un tempo unica città etrusca su un alto promontorio a picco sul mare (al tempo di Strabone quasi abbandonata), che aveva un porto ai piedi della collina e due darsene, il miglior punto di imbarco dall'Italia per isola d'Elba, Sardegna e Corsica.

Pyrgi - (Santa Severa) -
Porto di Caere, dove sorgeva il santuario di Ilizia, che fu depredato nel 384 a.c. da Dionisio I di Siracusa prima di condurre la sua flotta contro la Corsica.

Regisvilla - (località sconosciuta) -
Dove si racconta che una volta fosse la reggia di Maleo, il Pelasgo, e che poi sia partito per Atene.

ROSELLE
Rusellae - (Roselle) -

Saena Iulia - (Siena) -
Secondo una leggenda, Romolo mandò i suoi capitani Camellio e Montorio a vincere Ascanio  e Senio, supposti figli di Remo e fondatori di un abitato delle Saenae, ma, secondo un'altra tradizione, deve il nome a Brenno capo dei Galli Senoni, che raggiunsero la regione dopo essere stati cacciati da Roma all'inizio del IV secolo a.c.. I documenti storici riportano invece Siena fondata come colonia romana, al tempo dell'Imperatore Augusto, nota come Saena Iulia.

- Saturnia - (Saturnia) -
Un tempo chiamata Auria, secondo Dionigi di Alicarnasso fu fondata dai Pelasgi. Durante il periodo romano, il borgo seguì le sorti di Vulci, fino a che nella metà del III secolo a.c., dopo la conquista del territorio vulcese da parte di Roma nel 280 a.c., Saturnia fu elevata a sede amministrativa e prefettura, e poi a colonia nel 183 a.c.

TOMBA ILDEBRANDA - SOVANA
Suana - (Sovana) -
Suana era un centro etrusco, che dalla conquista di Vulci in poi (280 a.c.) subì un graduale processo di romanizzazione, culminato che la portò ad essere nominata municipium con la concessione della cittadinanza romana come agli altri italici.

Statonia - (Statonia)
Presso la località di Poggio Buco, a sud est di Pitigliano. Ricordata da Strabone e Vitruvio come grande città dell'entroterra etrusco, è anche citata da Seneca e da Plinio il Vecchio per un certo lacus Statoniensis che non si sa quale sia, come del resto non è stata individuata la città.

- Subertum - (località sconosciuta) -

 - Sutrium - (Sutri) -

- Tarquinia - (Tarquinia) -
Tarquinia combattè a lungo con Roma che infine la sottomise dopo la battaglia di Sentino, nel 295 a.c., divenendo parte dei territori romani nella regio VII Etruria. Sul suo litorale si sviluppò la colonia marittima di Gravisca, che fino alla fondazione di Centumcellae (oggi Civitavecchia) da parte dell'imperatore Traiano nel II secolo d.c., rappresentò il principale porto dell'Etruria meridionale, abbandonato in seguito alle scorrerie dei corsari saraceni in epoca altomedievale.

- Telamo - (Talamone) -
E' conosciuta dagli etruschi come Tlamun, dai latini come Talamo, e ancor prima, dai greci, come Telamòn o Thalamòn. Più volte in guerra con Roma fu poi rasa al suolo da Silla per l'appoggio che i suoi cittadini diedero al suo nemico Gaio Mario.

- Tuscania - (Tuscania) -
Il passaggio di Tuscania sotto la dominazione romana sembra avvenisse in modo pacifico, e se ne avvantaggiò per il fiorire di botteghe artigiane per la produzione di sarcofagi decorati prodotti sia in terracotta che in nenfro (varietà di tufo grigio). La costruzione, nel  225 a.c. della via Clodia, fece di Tuscania uno dei centri più importanti, a cui seguirono le costruzioni di acquedotti e di terme. A seguito della cosiddetta guerra sociale (90  - 88 a.c.), Tuscania venne eletta municipium con il nome di Tuscana ed assegnata alla tribù Stellatina.

Vada Volaterrana - o Vada - (Rosignano Marittimo) -
Il centro risale all'epoca etrusco-romana, sulla piazza centrale del paese si conserva la pietra miliare riportante il 287° Km dal Campidoglio di Roma. "Questo porto celebrato da Cicerone, da Plinio e da Rutilio Namaziano appellavasi fino d'allora Vada, forse a cagione della sua posizione palustre, e Vada Volaterrana, per la ragione che nei tempi della repubblica romana doveva essere compreso nel contado volterrano, il quale probabilmente estendevasi da questo alto sino al fiumicello che porta tuttora il nome di Fine". (Emanuele Repetti - Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana - Firenze - 1843)

- Veii - (Veio) -

- Vetulonia - (Vetulonia) -
Importante centro commerciale, finì col tempo a trovarsi a competere con la vicina Roselle, fondata su un'altura oltre la piana, poco più a oriente: le più facili comunicazioni col mare per mezzo del fiume Ombrone e la maggiore accessibilità degli scali sul lago Prile, congiunto con un canale navigabile con il mar Tirreno, fecero sì che il commercio andasse a vantaggio della sua rivale.

Visentium -
Distante 3 km da Capodimonte nei pressi del lago di Bolsena); oggi disabitato.

-  Velathri - (Volterra) -

Volsinii Novi - (Bolsena) -

Vulci - (nel comune di Montalto di Castro) -
Città etrusca nel territorio di Canino e di Montalto di Castro, nella Maremma laziale. Lambita dal fiume Fiora, fu una delle più grandi città-stato dell'Etruria, con un forte sviluppo marinaro e commerciale. Grazie all'importante emporio commerciale di Regisvilla affluirono dalla Grecia e dalle regioni orientali del Mediterraneo splendidi oggetti che oggi ornano i più importanti musei del mondo.



BIBLIO

- Plinio il Vecchio - Dizionario di storia - Istituto dell'Enciclopedia Italiana - 2010.
- Alfonso Buonacciuoli - La geografia di Strabone, di greco tradotta in volgare italiano- 1612
- Raymond Bloch - Gli Etruschi - Garzanti, Milano - 1960
- Ranuccio Bianchi Bandinelli - L'arte etrusca - Editori Riuniti - Roma - 2005.
- Strabone - Geografia, L'Italia, - Libro V e VI - BUR -, Anna Maria Biraschi - 1988
- Corrado Ricci - Volterra - Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1914.
- Stefano Speranza - Studi Capenati - Comune di Capena - 1998.
- Roberto Bosi - Il libro degli etruschi - Bompiani Editore Milano - 1983.

ANTALYA - ADALIA (Turchia)

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PORTA DI ADRIANO
Capitale dell'omonima provincia turca, Antalya (o Adalia) è situata sulla costa mediterranea nel sud-ovest della Turchia. E' una città caratteristica, circondata da montagne e foreste e ricca di rovine soprattutto dell'epoca degli antichi greci. Ma Antalya anticamente si chiamava Panfilia, terra abitata fin dall’età paleolitica.

ONPHALE REGINA DELLA LIDIA 
Adalia (in turco Antalya, in greco Attália o anche Sattalia) è capoluogo della provincia omonima, situata sul golfo di Adalia alle pendici dei monti del Tauro occidentale.
I primi insediamenti in questa zona risalgono al Paleolitico, ma secondo altre fonti la città fu abitata per la prima volta nel Neolitico, insomma vi è un dibattito in corso. Questi insediamenti divennero maggiormente importanti durante la dominazione Ittita e crebbero molto anche durante la guerra di Troia. Quando l’impero ittita tramontò, nella zona si crearono tante città stato.

Tra il 560 e il 546 a.c. questa regione venne dominata dai Lidi, abitanti della zona posta ad occidente della Frigia, sul mar Egeo, a nord della Caria e a sud della Misia, che comprendeva le principali città ionie, adottandone pure i costumi, ma in seguito venne conquistata dai Persiani che distrussero lo Stato della Lidia.

Tale situazione perdurò fino a quando Alessandro Magno conquistò l’Anatolia nel 334-333. 

Dopo la sua morte nel 323 a.c. la regione che spettava ad Antigone, uno dei suoi generali, dopo la battaglia di Ipsos nel 301 a.c. passò sotto la dominazione dei Tolemaici e poi dei Seleuci.

In seguito passò al regno di Pergamo il cui re, Attalos III, costruì la città di Attaleia o Attalia, come base navale, e nel 133 a.c., con il fine del reame di Pergamo, Attaleia diventò indipendente per poi passare nelle mani dei corsari. 

Nel 77 a.c. venne inglobata nelle terre dell’Impero Romano, e nel 67 a.c. ospitò Pompeo e nel 130 d.c. l’imperatore Adriano. 

Dal VII secolo in poi passò alternativamente dai Selgiuchidi ai Bizantini

PORTA DI ADRIANO

I RESTI DI ANTALYA

Kaleiçi, il vecchio centro di Antalya, è circondato all’interno e all’esterno da antiche mura. Su queste mura, che oggi sono parzialmente in piedi e che sono l’opera comune di tutte le civiltà che qui hanno vissuto per più di 2.000 anni, si erigono ancora ben ottanta torrioni.

A parte i numerosi miti di cui la città è stata oggetto, in realtà gli scavi nel 2008 nel distretto Doğu Garajı hanno scoperto resti risalenti al III sec. a.c, dimostrando che Attalea era una ricostruzione e l'espansione di una città precedente.

Il re Attalus II di Pergamo viene comunque considerato il fondatore della città nel 150 a.c, durante il fecondo periodo ellenistico che andò grosso modo da Alessandro Magno ai romani (300- 30 a.c.). Il nome Attalea o Attalia derivò infatti dal nome di questo re che la dotò di una potente flotta navale.

RESTI ROMANI

IL DOMINIO ROMANO

Attalea entrò poi a far parte della Repubblica Romana nel 133 a.c. quando Attalo III, nipote di Attalo II, che aveva regnato fino a che ebbe vita col beneplacito dei romani, alla sua morte lasciò in eredità, come da accordi presi, il suo regno a Roma nel 133 a.c. Il patto del re fu che i romani avrebbero acquistato il regno senza colpo ferire purchè avessero lasciato regnare Attalo fino alla sua morte, e così fu.

La città crebbe e prosperò durante il periodo romano antico come parte della provincia romana di Panfilia Secunda, la cui capitale era Perga. Naturalmente si arricchì coi commerci e si impreziosì di monumenti.

In occasione della visita che l’imperatore Adriano fece qui nel 130 d.c. venne costruita la sua bellissima porta, di cui oggi sono ancora visibili le due torri che la fiancheggiavano, tra cui la famosa Torre dell’Orologio.

Dato che le mura cittadine col tempo avevano coperto la parte esterna della porta, essa non venne usata per lunghi anni e proprio per questo che ci è giunta in buono stato. La Porta di Adriano, costruita su due piani, a tre fornici con arco a tutto tondo, è stata realizzata con marmo bianco, escluse le colonne, ornata con bassorilievi e incisioni, ed è fiancheggiata da due torri.

La Torre Julia Sancta, situata a sud, venne costruita nel periodo di Adriano con semplici blocchi di pietra, mentre quella a nord ha la parte inferiore costruita in epoca antica e quella inferire di epoca selgiuchide.

LA FORTEZZA ROMANA
La torre di Hidirlik, che si trova a 25 metri dal parco Karaalioglu nella zona di Kaleici di Antalya, è stata costruita nel II secolo d.c. con il piano inferiore della torre quadrato e la parte superiore cilindrica, e la sua altezza è di 14 metri. Al piano superiore del castello c'è una grande passeggiata tra le spesse mura e al piano inferiore c'è una piccola stanza. La stretta scala al piano inferiore conduce al piano superiore. 

A causa degli affreschi che sono scomparsi a causa dell'acqua che fuoriesce dalle pareti della stanza al piano di sotto da secoli, si possono dire due cose. che ivi fu sepolto un eroe, e che assolutamente nessuno mosse un dito per salvare quei preziosi affreschi. 

Sembra che la torre sia una tomba monumentale in stile romano. Molte somiglianze si riscontrano in Italia vicino a Roma. Si dice poi che la torre di Hidirlik sia utilizzata come faro, ma pure che sia stata usata come fortezza difensiva perché ha una struttura molto forte e che se la sia cavata per quanto abbia subito un incendio. 

La porta d'ingresso sul lato est è stata chiusa per anni, aperta solo cinque o sei anni fa, per un'opera teatrale chiamata "Epica Gilgamesh", dopodichè la serratura fu chiusa di nuovo. Così i visitatori vengono qui solo per vedere la torre intorno all'esterno, un peccato perchè la torre, che porta tracce storiche del periodo ottomano e selgiuchide, è uno dei simboli storici più importanti di Antalya.

La funzione originale della tomba cessò con il cristianesimo che vietò la religione politeistica Alla fine la tomba pagana deve aver perso la sua funzione, che cambiò ancora nel periodo bizantino, divenendo una struttura religiosa e poi parte del sistema di difesa della città. Infine, è stata utilizzata come magazzino del comune di Antalya negli anni '50 e l'edificio è oggi chiuso.

IL DOMINIO BIZANTINO

Durante la dominazione bizantina, si sa che Adalia conobbe un'età dorata fino al VII secolo, quando fu vittima di incursioni saracene. Antalya si estende oggi su un promontorio, protetto da una belle fortezza merlata che risale al 1200, ed è circondata da oltre 40 km di spiagge sabbiose.

Il Museo archeologico di Adalia vanta una vasta collezione di sculture, mosaici di Seleucia, sarcofagi, monete, statue di divinità, principalmente provenienti da Perge (capitale della Panfilia, attuale provincia di Antalya) e dalla Galleria degli imperatori romani.

LE MURA

IL MUSEO DI ANTALYA

Frai reperti del periodo romano, nella Sala degli Imperatori sono esposte le statue di Traiano, Adriano e Settimio Severo, imperatori del II e III secolo, che sono state ritrovate negli scavi di Perge e si pensa che queste importanti statue siano state scolpite nei laboratori locali.

Nel museo vi sono anche delle riproduzioni di statue realizzate nel periodo romano. Si sa che nelle epoche antiche, in diverse città come Perge e Side situate nei dintorni di Antalya, l’arte della scultura era molto sviluppata. In particolare nel periodo romano, per l’ammirazione che si provava per i capolavori realizzati in epoche precedenti, vennero copiate importanti opere di scultori.

Si possono distinguere i differenti stili artistici delle statue, infatti, mentre alcuni dei busti di donne e uomini riflettono lo stile realista in cui vengono messe in evidenza caratteristiche personali, altre sono realizzate in stile idealizzato.

I differenti tipi di sarcofago, di stele e pezzi appartenenti ad essi, che sono esposti nel museo, riflettono le tradizioni funerarie e il gusto estetico delle culture anatoliche e mediterranee.

Questi non solo sono opere locali, ma anche la loro materia prima, che è il marmo, è stata ricavata dalle cave della famosa isola di Marmara e da quella di Iscehisar, nelle vicinanze di Afyonkarahisar. Queste pietre sono state lavorate con maestria ed impegno come fossero merletti.

TEMPIO DI SILVANO

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RICOSTRUZIONE IPOTETICA DEL TEMPIO

IL DIO

"A Leptis Magna una statua del Dio Silvano appare in un bassorilievo come collocato su un alto piedistallo in tunica e manto. corona di foglie in testa e ramo di pino a sinistra; il braccio destro e sollevato e teso davanti a Caracalla; la mano ha indice e medio tesi, il pollice ripiegato su di essi. le altre dita strette al palmo.

Che si tratti di una rappresentazione del Dio Silvano mi sembra del tutto certo. anche se non compare nella nudità tipica della sua più comune iconografia: già solo gli attributi del ramo di pino e della corona di foglie sono molto indicativi per l'identificazione; ma non ritengo che possa suscitare perplessità neppure il fatto che il Dio indossi una tunica, in quanto il tipo e attestato più volte: basta citare, per rimanere nell'ambito del rilievo a carattere ufficiale, le due rappresentazioni del Dio sull'arco di Traiano a Benevento.

Da respingere dunque e l'ipotesi della Scott Ryberg, secondo cui l'abito, consono solo ad un Genius di una persona viva, indurrebbe all'identificazione della statua con quella di un Genius Augusti Silvanus, giustificabile, sulla base di numerose associazioni di culto di Silvano con il Genius'"

IL DIO SILVANO
Il Dio Silvano italico derivò dal Dio etrusco Selvans, divinità protettrice della natura e delle attività agresti. I romani adottarono all'inizio molte divinità etrusche, in seguito assimilate a quelle importate dai greci ma pure assimilate a quelle italiche. Come le divinità antiche della natura selvaggia Silvano era considerato temibile e pericoloso per i neonati e le partorienti.

Temuto e venerato dai contadini, era uso placare il Dio prima di dissodare un terreno, con una triplice cerimonia che ne invocava la protezione sui pascoli, sulle dimore e sui terreni stessi. Per proteggere i neonati dalle aggressioni notturne del Dio gli antichi romani invocavano tre dei protettori: Pilunno, Intercidona e Deverra.

CATTEDRA COSMATESCA
- Pilunno, un Dio protettore dei bambini, i romani costruivano un letto supplementare dopo la nascita di un figlio, per assicurarsi il suo aiuto e durante una cerimonia in suo onore, si conficcava un palo nel terreno.
- Intercidona era la Dea "dei colpi di scure" scagliati contro le porte per cacciare il demone Silvano quando le donne erano prossime al parto.
- Deverra era la Dea della scopa con cui si spazzava la soglia dopo la nascita di un bambino. 


Che santa balbina sia sorta su di un tempio pagano lo testimoniano anche le sue opere cosmatesche ottenute sminuzzando i bellissimi marmi di età imperiale come il porfido rosso e il verde serpentino che i romani usarono per i pavimenti dei templi o degli edifici pubblici.

Di questi marmi ne erano già esaurite le cave in epoca tardoimperiale per cui non possono essere che ricavate dall'antico pavimento romano che ben si addiceva a un tempio. la cattedra cosmatesca di cui sopra, conservata in santa Balbina, con le sue lastre di porfido imperiale è sicuramente ricavata dal pavimento romano preesistente.

SANTA BALBINA NELL'800 CON LE COLONNE ROMANE A VISTA

LE ORIGINI

In origine, Silvano era un epiteto del Dio Fauno o di Marte e solo successivamente divenne una divinità autonoma. Veniva spesso identificato con Pan o con Sileno. Il suo culto era vietato alle donne. Il suo aspetto era umano, ma con cosce e gambe di caprone e corna sulla fronte.
Secondo la leggenda, dopo la cacciata da Roma di Tarquinio il Superbo, ammonì l'esercito etrusco, desideroso di riportarlo sul trono, di non attaccare i romani, mettendolo in fuga.

Silvano era l'aspetto primitivo del territorio, cioè boschi e selve che i contadini avevano in un certo senso devastati con le belve e gli animali che contenevano onde creare terreno coltivabile. Pertanto dissodare un terreno era cambiare il territorio trasformandolo da silvano in territorio umano. Ciò risvegliava la collera del Dio che andava placato.

SANTA BALBINA OGGI

IL TEMPIO

Sembra che il tempio del Dio Silano fosse molto arcaico, a tre navate, coperto da un tetto in terracotta, con quattro colonne ioniche e una breve scalinata per raggiungerlo.

"Il Tempio di Silvano pare che dovesse essere verso l'antica Chiesa di S. Balbina perchè da questa parte furono trovate le due iscrizioni appartenenti al Collegio di Silvano de Gladiatori, da me non è gran tempo date alla luce, parimente sotto la Chiesa nell'orto riguardante le Terme Antoniane.

Altra iscrizione diretta all'Imperatore Trajano si ritrovò, in cui tra l'altre si legge: 
IN TEMPLO SANCTI SILVANI SALVATORIS IN HORTIS AVENTINIS 
Questa congettura rimane corroborata dall'Ara votiva eretta allo stesso Silvano ritrovata al lato dell'istessa Chiesa nella Vigna Boccapaduli e altra per avere Lucio Lollio fatto il portico al Tempio per voto."

(Ridolfino)

(Lucio Lollio portò soccorso a Metello contro Sertorio)

OPUS RETICULATUM DI EPOCA ROMANA PRESSO SANTA BALBINA

LA LEGGENDA

Nel testo del "Mirabilia" c'è una narrazione in proposito:"Nei tempi antichi, avanti la chiesa (di Santa Balbina) sorgeva un prodigioso candelabro asbestos (pietra in genere semipreziosa e semitrasparente come la tormalina), d'una pietra ardente e inestinguibile. 

L'intero candelabro fiammava senza rimaner consunto dall'arcano fuoco: l'aria ne alimentava il vigore e lì presso si ergeva una statua di arciere fieramente proteso a scoccare un dardo.

Ma una scritta minacciosa in lettere etrusche diceva: 
"Se qualcuno mi tocca io ferirò". 
Quanti secoli passarono così mentre il candelabro ardeva non si sa ma un giorno un insensato toccò la freccia fatale, la freccia scoccò né più il fuoco si riaccese".

(la leggenda potrebbe alludere alla Dea etrusca Aritimi, cioè Diana, o al Dio Etrusco Apulu, più probabile il secondo come portatore della luce e del fuoco inestinguibile del Sole). 

Che Santa Balbina sia edificata su di un tempio romano non meraviglia, la maggior parte dei templi pagani fecero questa fine, sia per cancellare ogni culto del paganesimo, sia per avvalersi dei fregi e delle colonne del tempio già belle e pronte. D'altronde Balbina, leggendaria figlia di un inesistente San Quirino, con la basilica sulla piazza omonima, sembra anch'essa mai esistita. Anche perchè sotto Traiano le denunce non andavano incoraggiate e chiunque faceva delazioni indimostrabili andava severamente punito.

Tanto è vero che perfino il busto qua sopra rappresentato, che conserva la classica pettinatura di Apollo ma che mostra invece il classico diadema a mezzaluna di Diana, con un volto tardoimperiale, è stato adornato da un'aureola per spacciarlo forse come santa Balbina o chi per lei.

FESTA DI ANNA PERENNA (15 Marzo)

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La festa era celebrata nelle Idi, giorno in cui anticamente si faceva cadere la luna piena, in onore di Anna Perenna, antica divinità romana. Il culto si svolgeva sulla via Flaminia in un bosco poco lontano da Roma. Una scampagnata con canti e giochi. Secondo Macrobius era la Dea dell'anno nuovo, che fino al 153 a.c. iniziava in marzo.
"Annare perennareque commode": vivere piacevolmente tutto l'anno.

Nella festa di Anna Perenna i sacerdoti facevano una processione in ringraziamento della Dea che aveva sfamato i romani, poi i plebei facevano scampagnate lungo le sponde del Tevere, improvvisavano banchetti, danze e grandi bevute libando tanti calici di vino quanti si auguravano dovessero essere ancora gli anni di vita a venire, che venivano augurati a sè e agli altri. Di qui la formula dell’Annaperennare, che evidentemente rinvia alla Perennitas e cioè a un tempo illimitato a partire però da un punto iniziale, come un capodanno.

Secondo una leggenda era la sorella di Didone di Cartagine, che fuggì a Roma dopo la morte di Didone. Qui fu accolta proprio da Enea, che aveva però una moglie gelosissima che tanto perseguitò Anna finchè questa non si trasformò in fiume.
- Conscio il fiume fermò l’onda e tacque il fruscio. Parve ch'ella dicesse: “Son ninfa del queto Numicio, dentro l’onda perenne son detta Anna Perenna”.
Da qui Ovidio farebbe derivare il nome da “amnis perennis” cioè il perenne fiume, il perenne scorrere. -
Per altri era una vecchia della città di Bouville, che quando i plebei ribelli furono assediati sul Monte Sacro, trovò loro una strada segreta per far giungere loro il cibo e permettergli di resistere all'assedio.

ANNA PERENNA
Ma queste leggende sono la banalizzazione di una divinità molto più antica, poi diventata donna romana e pure vecchia prostituta, Dea che invece molti sospettano fosse di origine etrusca, una Dea Natura della produttività e della lussuria, cioè della proliferazione. Pertanto il 15 di Marzo, al risvegliarsi della primavera, i Romani la festeggiavano con cibo e bevande, ma pure abbandonandosi alla voluttà sessuale, infrattandosi dove capitava.

Ora sappiamo che le Dee lussuriose rappresentavano sempre la natura selvaggia, ma se vi fosse ancora un dubbio basta guardare l'immagine di Anna Purna, l'omonima Dea indiana che nuda, coperta parzialmente da una pelle di tigre, porge il cibo al Dio Shiva incoronato.

Lei è chiaramente la Potnia Theron, la Signora delle belve, la Madre Terra che con i suoi prodotti nutre mortali e immortali. Ora il commercio tra Roma ed India vide anche molti scambi culturali che modificarono entrambe le civiltà.

ANNA PURNA NUTRE SHIVA

DEA DEL CAPODANNO

Anna Perenna era un'antica divinità romana delle origini, festeggiata il giorno delle Idi di marzo, il primitivo capodanno romano, come testimoniatoci da Ovidio nei Fasti. Poichè il calendario romano cambiò il primo dell'anno da marzo a gennaio nel 153 a.c., ne consegue che la Dea non potesse essere stata importata dall'India.

A Roma era anche chiamata "Anna ac Peranna" e vigeva l'augurio di: "annare perannareque commode" (passare un buon anno dall'inizio alla fine), il che la designa come la Dea della vegetazione annuale, quella che sfama uomini e bestie.

La sua festa, al 15 marzo, prevedeva banchetti sulle sponde del Tevere, lungo la via Flaminia, all'interno di un bosco sacro alla Dea. Queste feste erano un'occasione per dare sfogo a grandi manifestazioni di allegria e di intrattenimento, come balli, canti osceni, ubriacature e sesso.

"Ogni anno per sei giorni si celebravano ad onore di quella funzione detta Sceritbe, e alla riva di questo Fiumicello (Almone), le feste di Anna Perenna Nutricc di Enea, come alla riva del Fiume Numico, c del Tevere."

(Ridolfino Venuti Cortonese 1763)

Il bosco è stato identificato nella zona dei Monti Parioli, dove sono state trovate defixiones ("maledizioni") in piombo e figure antropomorfe in cera e altri materiali organici inserite a testa in giù in contenitori di piombo, il che fa pensare che questa Dea avesse a che fare pure con la magia, dunque una Dea davvero arcaica.


Ovidio - Fasti:

"Nelle Idi si celebra la gioiosa festa di Anna Perenna non lontano dalle tue rive, o Tevere forestiero. Viene la plebe e, sparsa qua e là sulla verde erba, s'inebria di vino, e ognuno si sdraia con la propria compagna. 
Parte resiste sotto il nudo cielo; pochi piantano le tende; alcuni con rami fanno una capanna di frasche; parte, piantate canne invece di rigide colonne, vi pongono sopra le toghe dopo averle dispiegate.
Ma si scaldano di sole e di vino, e si augurano tanti anni quante sono le coppe che bevono, e le contano bevendo.
Lì anche cantano tutto ciò che imparano a teatro, e accompagnano le parole con agili gesti delle mani; deposte le coppe intrecciano rozze danze, e l'agghindata amica balla con la chioma scomposta.
Al ritorno barcollano, danno spettacolo di sé a tutti e la gente che li incontra li chiama fortunati.
"



LA FONTANA

La fontana di Anna Perenna è stata rinvenuta nel 1999 durante gli scavi per un parcheggio interrato all'angolo tra piazza Euclide e via G. Dal Monte, nel quartiere Parioli a nord di Roma. La fontana sembra attestata almeno dal IV secolo a.c. e utilizzata fino al VI d.c. Nella cisterna retrostante sono stati trovati nel fango rappreso svariati oggetti utilizzati per pratiche magiche e riti religiosi: laminette in piombo con maledizioni, contenitori di piombo contenenti figurine antropomorfe, un pentolone di rame e svariate monete e lucerne, oggi conservati nella Sezione Epigrafica del Museo Nazionale Romano presso le Terme di Diocleziano.

La scoperta dei rituali magici praticati alla fontana di Anna Perenna con la presenza dei contenitori sigillati ermeticamente con vere e proprie “ bambole voodoo” al loro interno, mostra la sfera magico-religiosa romana, con maghe professioniste in nome di una Dea.


(02 febbraio 2009)(Fonte)

"Scoperto ai Parioli il luogo di culto della dea Anna Perenna. Dove duemila anni fa ci si ubriacava, si ballava, si faceva l'amore. E si mandavano incantesimi di maledizione ai propri nemici. Un bosco magico proprio sulla collina dei Monti Parioli, in cui si svolgevano gare, danze e riti misteriosi. 

Accadeva nel II secolo d.c., durante la festa di Anna Perenna, che gli antichi festeggiavano con una specie di gita fuori porta alle Idi di marzo, il primitivo capodanno romano, a suon di coppe di vino e piaceri della carne.


Oggi quell'antico rituale arriva fino a noi grazie a un ritrovamento eccezionale: 22 piccole lamine di piombo - "defixiones"- serrate in rotolini strettissimi, con su incise maledizioni a lettere sbalzate e capovolte. E soprattutto 14 contenitori in piombo, sigillati, che oltre alle iscrizioni contengono figurine antropomorfe fatte di materiale organico e infilate a testa in giù.

Tutto parte dagli scavi per un parcheggio interrato cominciati a fine '99 a Piazza Euclide, quartiere Parioli. Dall'argilla e dal fango è emerso quel che resta di una fontana rettangolare, con un'ara e due basi con iscrizioni murarie ben precise e persino una data: "nimphis sacratis Annae Perennae"- alle ninfe consacrate ad Anna Perenna - 156 d.c.

«Nella fontana abbiamo trovato molti reperti religiosi, come 550 monete che si gettavano lì per buon augurio, gusci d'uovo simbolo di fertilità, pigne, rametti e tavolette di legno. Ma anche 70 lucerne, un paiolo in rame, e soprattutto le defixiones e i contenitori in piombo con fatture e maledizioni che si buttavano nella fontana perchè, attraverso i canali di scolo arrivassero nell'aldilà».
La prima iscrizione era facile, e ben riconoscibile il nome "Antonius", il personaggio da maledire (a volte, oltre al nome della vittima, c'è anche quello della madre, perchè la maledizione vada a colpo sicuro)."

Il nome della madre è una costante nella magia, perchè "pater non certum est" mentre la madre è certa, e si evitava di commettere errori lanciando la maledizione sulla persona sbagliata. Dunque Anna Prenna Grande Madre Trina, che dà la vita (la sorgente), che nutre, e che dà la morte (le maledizioni).

La festa sottolineava il passaggio dell'anno e quello dalla vita alla morte, di fronte alla quale, con Catulliana memoria occorreva bere, amare e copulare, "Lesbia, diamoci dieci cento mille baci che domani la fredda morte ci coglierà".

APHRODISIAS (Turchia)

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IL TETRAPILO
Furono scultori di pregio eccezionale quelli che ornarono con marmi a rilievo gli edifici pubblici dell'epoca, vale a dire i templi, il teatro, le terme ed uno stadio magnifico. Afrodisia (Aphrodisias) è un'antica città della Caria, una regione storica nell'ovest dell'Anatolia in Asia Minore (oggi Turchia). Il 9 luglio 2017 il sito archeologico è stato inserito nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.

L'abilità degli artisti fu così ampiamente riconosciuta che si propagò nel mondo antico, cosicchè Afrodisia divenne il centro della più grande scuola di scultura dell'antichità.

IL SITO
Il grande Tempio di Aphrodite, in epoca bizantina fu trasformato in una basilica cristiana e le mura e i colonnati distrutti per allargare e modificarne la struttura.

PLANIMETRIA DEL SITO (INGRANDIBILE)
 I resti del Tempio, uno stadium e porzioni di un bagno sono sempre stati visibili senza bisogno di scavi, ma a partire dal 1961 alcuni scavi archeologici hanno portato alla luce un teatro, un odeon, una basilica, un mercato, delle abitazioni, dei bagni, una porta monumentale e un santuario per il culto dell'Imperatore Romano.

Molte opere d'arte meravigliose sono ora conservate nel museo locale grazie l’archeologo turco Kenan Erim. Il teatro, il bouleuterion e lo stadio, sono le rovine meglio conservate della città.

Gli archeologi di New York hanno riesumato più di 2000 iscrizioni, molte delle quali riutilizzati nelle mura della città. La maggior parte delle iscrizioni proviene dal periodo imperiale, con testi funerari e onorari, qualcuna anche dei periodi ellenistico e bizantino.



LA DEA NIN

L'antica Aphrodisias, ovvero il suo primigenio centro abitato esistette, nei pressi della città, già in epoca tardo neolitica (agli inizi del VI millennio a.c.) sollevandosi in un'elevazione artificiale, cresciuta per il sovrapporsi dei livelli successivi di abitazioni.

Infatti sul settore nord della città sono stati rinvenuti i resti di sette successivi strati di abitato, a partire dall'età del bronzo, e dove infine sorse il tempio di Afrodite. Sembra che il suo nome più antico fosse "Ninoe", secondo lo storico bizantino Stefano di Bisanzio, nome derivato dal leggendario re Nino di Babilonia, sposo di Semiramide, che a sua volta aveva preso nome dalla Dea Nin, la divinità accadica identificata poi con Astarte. Trattavasi pertanto di un luogo di culto della Grande Madre anatolica.




LA DEA AFRODITE

Il nome di Afrodisia, con cui la città venne conosciuta in epoca ellenistica e romana, deriva dalla Dea Afrodite, con cui i Greci identificavano la Dea Astarte. Da alcune monete cittadine in bronzo e in argento del II secolo a.c. abbiamo le prime notizie dell'esistenza della città.

Afrodite è la Grande Dea primigenia, Dea dell'amore, della bellezza, del sesso e delle nascite. Tutto prospera sotto di lei, le appartengono sia la vegetazione che i mari.



LA STORIA

La città risale al 5800 a.c., un piccolo centro che accoglieva i contadini del circondario che venivano qui per venerare la Madre Dea della fertilità e dei raccolti. Come in tutti i santuari fiorirono gli artigiani per la vendita dei souvenir, degli ex voto e degli amuleti relativi alla Dea. Questi si costruirono intorno delle case e poi fiorirono le locande e i posti di ristoro, diventando pian piano una città

Fiorì però particolarmente in epoca greca, e cioè nel I secolo a.c. quando il sito venne dedicato ad Aphrodite, Dea della bellezza e della fertilità, che dette il nome al luogo. La Dea veniva omaggiata con gioielli e ricche donazioni, e infatti uno tra i più ricchi tesori dell'antichità è stato rinvenuto qui durante gli scavi della città.

Nel 188 si stipula la pace di Apamea tra Antioco III e gli eserciti riuniti di Roma, Pergamo e Rodi a cui L'Urbe assegna la Caria e la Licia.

Ma nel 167 a.c. revoca i territori a sud del fiume Meandro, compresa Afrodisia, che divengono indipendenti da Rodi. La regione quindi entra nell’orbita di Roma. Nel 133 a.c. Roma riceve dal re Attalo III il regno di Pergamo, territorio dove verrà poi costituita la provincia romana d’Asia nel 126 a.c., che comprende anche la regione di Afrodisia.

AGRIPPINA MINORE E CLAUDIO - SEBASTEION
Con la I guerra mitridatica (89 a.c.), il re del Ponto Mitridate ottenne l’alleanza degli stati greci e delle città greche d’Asia, tutti antiromani. Ma Roma, grazie soprattutto al console Lucio Cornelio Silla, si alleò con le città dell’Anatolia meridionale, e Afrodisia si schierò dalla parte dei Romani, partecipando attivamente al conflitto. Gli Afrodisiensi vennero in soccorso al proconsole romano Quinto Oppio, asserragliato a Laodicea, non riuscirono a salvare la città ma i romani apprezzarono l'aiuto.
Da Appiano di Alessandria (95 - 165) sappiamo che Silla, a seguito di un responso dell'oracolo di Apollo a Delfi, inviò nell'82 a.c. al santuario di Afrodite una corona e una doppia ascia d'oro, poi raffigurate su alcune monete. Giulio Cesare avrebbe accordato ad Afrodisia il diritto di asylum per il santuario di Afrodite e dedicandogli per giunta un Eros d’oro.
La città prosperò soprattutto in epoca imperiale romana: per la sua fedeltà ad Ottaviano nelle guerre civili per cui le fu riconosciuta l'autonomia, spesso contestata, ma confermata poi da Tiberio, e vennero edificati importanti monumenti pubblici. Tuttavia la città, a causa del suo sviluppo graduale, non ebbe una pianta pianificata e regolare e i principali monumenti sorsero un po' a caso.

Per tutto l'impero romano rimase un centro importante, sia per la presenza del santuario, che come centro di produzione artistica (scuola di Afrodisia), che per le vicine cave di marmo. A causa di un terremoto alla metà del IV secolo, subì periodiche alluvioni, come dimostra il ritrovamento di condutture provvisorie installate per risolvere il problema.

LE TERME DI ADRIANO
Con l'avvento del cristianesimo e l'obbligo della conversione, divenne sede dell'arcivescovo della Caria e l'antico santuario di Afrodite fu depredato e trasformato in chiesa cattedrale (fine V secolo). Il nome della città venne cambiato in Stauropolis ("città della croce")mentre in epoca bizantina prese il nome di Caria.

I primi scavi formali furono intrapresi nel 1904-5, da un ingegnere ferroviario francese, Paul Augustin Gaudin. Gli scavi più recenti e in corso sono sotto l'egida della New York University. I risultati rivelano che il ricco programma di costruzione nel centro civico della città fu iniziato e in gran parte finanziato da un Gaio Giulio Zoilus, un locale che era schiavo di Caio Giulio Cesare, poi liberato da Ottaviano.

Sembra che fosse stata saccheggiata da Labieno, uno dei partigiani dei suoi assassini, per punire la sua lealtà verso Ottaviano e Antonio. Quando Zoilus tornò come libero professionista nella sua città natale, dotato di prestigio e di ricche ricompense per il suo servizio, lo diresse ad allinearsi con Ottaviano nella sua lotta per il potere contro Marco Antonio.

Ciò assicurò il duraturo favore di Ottaviano Augusto sotto forma di privilegi finanziari che permisero alla città di prosperare. Soprattutto Augusto le riconobbe l'autonomia confermata più tardi da Tiberio, e furono edificati importanti monumenti pubblici.

CLAUDIO CHE DOMINA TUTTO IL MONDO CONOSCIUTO - SEBASTEION

I RESTI ARCHEOLOGICI

Le rovine della città furono visitate nel XVIII secolo e ancora nel 1835 da Charles Texier, che ne diede una prima descrizione, e nel 1849 da Osman Hamdi Bey, all'epoca direttore del Museo archeologico di Istanbul. I primi scavi si ebbero nel 1904, con Paul Gaudin (terme di Adriano) e nel 1937 con Giulio Iacopi (nell'agorà).

Dopo il terremoto del 1956 le case del villaggio, andate quasi interamente distrutte, furono ricostruite a breve distanza dai resti della città antica, permettendo in tal modo nel 1961 l'avvio di scavi archeologici sistematici, ad opera di Kenan Tevfik Erim dell'Università di New York (che diresse lo scavo dagli inizi fino al 1990), e sono tuttora in corso.

Sul sito è stato quindi fondato un museo archeologico (Museo di Afrodisia), che ha curato nel 1993-1994 una campagna di scavi nella necropoli orientale.

IL TEMPIO DI AFRODITE

IL TEMPIO DI AFRODITE

Il tempio venne costruito nel corso del I secolo a.c., su un più antico luogo di culto dedicato alla Dea Afrodite. Il temenos (recinto sacro) venne completato solo nel II secolo sotto l'imperatore Adriano.
Il tempio aveva otto colonne sulla fronte e tredici sui lati terminanti con capitelli di ordine ionico. Su alcuni fusti delle colonne sono ancora iscritti i nomi dei donatori che ne permisero la costruzione.

La statua di culto del tempio è stata rinvenuta nei pressi all'inizio degli scavi, un' Afrodite molto simile all'Artemide del santuario di Efeso.

Alla fine del V secolo, venne depredata di tutte le sue ricchezze e trasformata in chiesa, furono eliminati i muri e il colonnato della cella vennero spostate per ingrandire l'edificio. Furono inoltre costruiti nuovi muri sui lati corti, per costituire l'abside e la facciata della chiesa. Venne poi aggiunto un atrio di ingresso.

IL TETRAPILO

IL TETRAPILO

A est del tempio di Afrodire è posto il tetrapilo, un passaggio monumentale con quattro gruppi di colonne disposte in quadrato, collocato nel II secolo su una delle vie cittadine come propileo di ingresso verso il tempio di Afrodite.

I due gruppi di colonne della facciata, con fusti scanalati a spirale, sono sormontate da frontoni spezzati, mentre gli altri due due hanno frontoni semicircolari con rilievi. Il tetrapilo, distrutto dai terremoti, è stato rimontato con i frammenti ritrovati negli scavi nel 1990.

ODEION O BOULEUTERION

L'ODEION O BOULEUTERION

Si trattava di un edificio coperto, con scena ristretta, capace di contenere originariamente 1500 persone e utilizzabile come odeion o come bouleuterion: visto che la sua capacità supera di molto i 450 membri della boulé noti per quel periodo.

A sud del tempio di Afrodite, ovvero sul lato nord dell'Agorà del Nord.  venne eretto nel II secolo un piccolo odeion (teatro coperto), con la cavea, un tempo porticata, eretta su sostruzioni voltate. Vi si accedeva da un corridoio che passava alle spalle della scena, ornato dai ritratti di importanti cittadini.


Una recente indagine (BIER, 1999) ha rivelato come la prima fase fosse limitata all'attuale ima cavea e vada posta in relazione con la confinante stoà-basilica di tarda età augustea, mentre la seconda fase vide I'aggiunta di un nuovo ordine di posti, raggiungibile mediante corridoi voltati (forse in età adrianea); la fase di Vedio sembra fosse solo la terza, caratterizzata da una nuova scena decorata con

Dopo il crollo della parte superiore, forse per il terremoto del IV secolo fu utilizzato come Bouleuterion (sede del Consiglio)  Consiste in un auditorium semicircolare con una struttura scenica di circa 46 m di larghezza. La parte inferiore dell'auditorium si è conservata intatta, con nove file di sedili di marmo divisi in cinque cunei da scale radiali.

RICOSTRUZIONE DELL'ODEION
La sede della parte superiore, di altre dodici file, è crollata insieme alle sue volte. Il Bouleuterion ha numerosi ingressi a livello del suolo e diverse scale che danno accesso alle file dei sedili superiori.

Un sistema di massicci contrafforti paralleli mostra che l'edificio era originariamente a volta. L'auditorium era illuminato da una serie di alte finestre ad arco nella parete esterna curva. Doveva contenere circa 1750 posti a sedere.

All'odeion è annesso un complesso residenziale con ambienti di rappresentanza e peristilio colonnato, che si ritiene sia stato utilizzato in epoca bizantina come residenza del vescovo.



PALAZZO DEL VESCOVO

CASA DEL VESCOVO
Ad ovest dell'Odeon si trova un edificio con peristilio ben conservato,  conosciuto come Palazzo Vescovile, forse appunto residenza dei vescovi.

Era una delle case più grandi della città, occupando un intero isolato (circa 35 x 40 m).

Come le domus romane era incentrata su un cortile colonnato su cui si aprivano ampi saloni di rappresentanza, una sala da pranzo a tre posti a est e una sala absidata a nord.

I ritrovamenti di monete indicano che le parti centrali della casa tardo-romana furono costruite intorno al 400 d.c.

Era riccamente decorata con mosaici, pavimenti in marmo tagliato, sculture e pitture murali figurate. In tarda antichità, la casa potrebbe essere stata usata come residenza del governatore provinciale, e nel medioevo, quando la casa fu sottoposta ad un'ampia ristrutturazione, probabilmente divenne la residenza del vescovo. Fu occupata fino al 1200 d.c. circa, quando Afrodisias fu finalmente abbandonata.



L'AGORA'

Ci sono due agorà; l'agorà del sud e l'agorà del nord. Edificata nel I secolo a.c. tra l'acropoli e il tempio di Afrodite, e non ancora interamente scavata, è una vasta piazza rettangolare, porticata in ordine ionico. Il portico nord, a fianco del palazzo vescovile, venne ricostruito nel V secolo d.c..

L'AGORA' DEL SUD

L'AGORA' DEL SUD

L'Agorà del sud era un enorme complesso pubblico, lungo 230 metri, con al centro una piscina lunga 170 metri, circondata da colonnati ionici. Fu allestito agli inizi del I secolo d.c. e dopo i successivi restauri funzionava ancora nel VI secolo d.c. 

La maggior parte della stoa nord dell'Agorà del Sud (il "Portico di Tiberio") fu scavata nel 1937 dalla missione italiana ad Afrodisia che rimase solo un anno. Ulteriori scavi sono stati effettuati negli anni '80 che hanno portato alla luce le due estremità della lunga piscina, ma la maggior parte di essa è rimasta priva di scavi e senza ricerche.

La piscina attirò l'attenzione della signora Mica Ertegün durante una visita ad Afrodisia nel luglio 2011: era una grande piscina ornamentale, un indizio della cui interpretazione è dato un poema onorifico inscritto sulla Porta dell'Agorà, una facciata colonnare rivolta verso l'estremità orientale della piscina. 

Questo epigramma descrive "un luogo delle Ninfe" e un "luogo di palme" che era stato restaurato nel 500 d.c. di un grande benefattore locale chiamato Flavio Ampelios:"... noi Ninfe siamo riconoscenti, perché lui (Ampelios) ha dato meraviglia e splendida bellezza al posto delle palme, così che chiunque, tra le nostre acque, gira lo sguardo intorno, possa sempre cantare le sue lodi e quella del luogo di le Ninfe. " (ALA 38)


L'ipotesi era che "il posto delle Ninfe" nel poema dovesse riferirsi alla lunga pozza e che "il luogo delle palme" si riferiva probabilmente all'intero complesso, presumibilmente chiamato con il nome di un esteso boschetto di palme. Questa idea è stata esplorata con un generoso dono della signora Ertegün nella campagna del 2012. 

Lo scavo in quell'anno ha scoperto prove evidenti per il palmeto: materiale di palma conservato nella terra bagnata sul fondo della piscina, e piantando trincee al di fuori della piscina sul lato nord, tra il colonnato e il bordo della piscina.

Lo scavo iniziato nel 2013 con la promessa eccezionale della signora Ertegün di cinque anni di finanziamento per scavare la piscina e ricercare il suo carattere complesso, lunga vita e il suo funzionamento funzionale. 

Lo scavo, sotto la supervisione del professor Andrew Wilson, è stato completato nell'agosto 2017, e ha portato un'abbondanza di risultati notevoli e importanti scoperte, dall'epoca romana a quella ottomana.

AGRIPPINA E NOERONE - SEBASTEION

I GRAFFITI DELL'AGORA' DEL SUD

Come è emerso dai recenti scavi nell'Agorà del sud di Andrew Wilson (Università di Oxford), questo spazio pubblico, costituito da una grande piscina circondata da portici e da un palmeto, era una delle parti più frequentate della città, dove si facevano acquisti, si passeggiava osservando i banchi della merce, si discuteva di uomini politici, di religione, e sui campioni delle corse dei cavalli.

"Philo EPikraten" (sono fan di Epikrates) è scritto su una colonna del teion di Sebas, un complesso edilizio dedicato al culto dell'imperatore. Oppure "Adoro Apollonio, il maestro"è scritto su una colonna sembrerebbe da uno schiavo. 

Lo testimonia la scritta "La fortuna del rosso vince" probabilmente si tratta di corse di cavalli. Le tavole da gioco incise sulle placche della piscina e sul pavimento dei portici, come si riscontrano anche sul suolo italico, ma anche i simboli religiosi incisi un po' ovunque fanno intendere non solo le attività ma pure i conflitti dell'epoca.

Su una colonna del colonnato nord della stessa Agorà del Sud leggiamo la parola "Sophistou" (Il luogo dell sofista), evidentemente un insegnante di lingua e oratoria insegnava qui ai suoi allievi. Molti graffiti in Afrodisia sono collegati alla necessità di professionisti, come barbieri, insegnanti, commercianti, ecc. per assicurarsi lo spazio in questa vivace zona per la loro attività.

Non sappiamo però se le loro locazioni venissero assegnate dalle autorità civiche o da una corporazione professionale, pagando una commissione.

LE TRE GRAZIE - SEBASTEION
Un graffito inciso sull'enorme muro di sostegno del teatro, che segna l'estremità sud di un grande spazio aperto dell'Agorà del Sud, cita "Luogo di Zotikos, il commerciante. Buona fortuna " Zotikos potrebbe aver avuto un secondo stand all'estremità nord-ovest dell'Agorà del Sud, dove troviamo un altro graffito: "Luogo di Zotikos". 

Un graffito in una bacheca di gioco nomina il governatore provinciale Dulcitius, che fu coinvolto nel restauro della Porta di Agorà alla fine del V secolo d.c. "Eusebio viti Dulciti(u)s". (Eusebio si fa Dulcitius), attribuendo a Dolcitius la parte passiva nel rapporto sessuale, per cui inferiore e sconfitto.

Poiché Dulcitius sembra un pagano ed Eusebio è un nome cristiano, è possibile che il conflitto tra Dulcitius ed Eusebio fosse di carattere religioso.

Altre scritte all'estremità occidentale esprimono il desiderio cristiano che i nemici del benefattore cristiano Albino siano gettati nel fiume:
"Tutta la città dice questo: i tuoi nemici al fiume! Questo!".

Non solo i cristiani ma anche i loro oppositori hanno lasciato tracce sui muri degli edifici. Numerosi graffiti ebraici, in genere menorà, le lampade a sette braccia, possono essere visti nei negozi di proprietà degli ebrei nel Sebasteion e nell'Agorà del sud.

In quanto ai pagani, rispondevano alla croce cristiana incidendo il proprio simbolo, la doppia ascia (labrys), il simbolo di Zeus cariano. Questi graffiti rivelano l'importanza delle identità religiose per gli abitanti di Afrodisia e l'aspra competizione tra ebrei, cristiani e pagani.



PORTICO DI TIBERIO

A sud dell'agorà venne edificata una seconda piazza porticata, chiamata "portico di Tiberio" per la presenza di un'iscrizione in onore di questo imperatore.

La piazza termina verso est con una porta monumentale della metà del II secolo che, a seguito alle inondazioni e terremoto del IV secolo venne trasformata in un ninfeo collegato alle cisterne e al sistema idraulico cittadino.

LE TERME DI ADRIANO

TERME DI ADRIANO

Sul lato corto occidentale del portico di Tiberio, vennero edificate delle grandi terme pubbliche nel II secolo sotto l'imperatore Adriano. Davanti alla facciata delle terme, con portale monumentale tra due ali, si trovava una palestra con colonnati sui quattro lati.

Al loro interno le terme erano corredate di calidarium (piscina con acqua calda centrale), circondato da apoditerium (spogliatoio), sudatorium (stanza per bagni di vapore), tepidarium (stanza per bagni con acqua tiepida) e frigidarium (stanza per bagni con acqua fredda). Nei sotterranei conservano gallerie di servizio, condutture idriche e caldaie per il riscaldamento degli ambienti e dell'acqua.

In epoca bizantina le terme erano ancora utilizzate, ma con spazi più ridotti. Scavato nel 1904, i ritrovamenti furono portati al Museo archeologico di Istanbul.

LO STADIO - ANFITEATRO

LO STADIO

Lo stadio di Afrodisia è il meglio conservato di tutti gli antichi stadi greci e anche uno dei più grandi, fu costruito verso la fine del I secolo d.c..e insolitamente per uno stadio greco, è chiuso alle due estremità. Misura circa 270 X 60 m, e ha trenta file di sedili in marmo ancora integri, e la sua capacità era di circa 30.000 spettatori.

I lati lunghi sono leggermente ellittici permettendo così una migliore visuale agli spettatori che entravano nello stadio attraverso scalinate monumentali sul lato sud, allineate con le strade nord-sud nella griglia della città. I concorrenti invece entravano attraverso i tunnel posti sotto i posti a sedere su entrambi i lati corti.

Lo stadio ospitò di tutto:dalle gare tradizionali di atletica greca come gare podistiche, salto in lungo, lotta, discus e lancio del giavellotto ai combattimenti di gladiatori e di bestie selvatiche nelle feste in onore degli imperatori romani. 

Nella tarda antichità, quando i giochi tradizionali greci e l'atletica nuda erano diminuiti di importanza, ma soprattutto in seguito alla distruzione del teatro a causa dei terremoti, la sua estremità curvilinea fu utilizzata per gli spettacoli dei gladiatori. Nel suo connubio tra greco e romano fu così in parte stadio e in parte teatro. Vale a dire che l'estremità est dell'edificio fu trasformata in un anfiteatro e in un'arena appositamente progettata per intrattenimenti di questo genere in stile romano.

Una recente indagine ha dimostrato che questa conversione dello stadio in un anfiteatro fu fatta nel 400 d. c. I posti a sedere custodiscono un affascinante corpo di iscrizioni "a luogo" scolpite sui sedili di marmo, riservando spazio a vari gruppi (come le associazioni di conciatori e orafi) e agli individui facoltosi (uomini e donne) sia da Afrodisia che dalle vicine comunità come Antiochia sul Meandro. Gli spettatori hanno mappato le loro affiliazioni sociali e politiche sulle sedi di questo grande forum pubblico.

IL TEATRO

IL TEATRO

Appoggiato sul lato orientale dell'acropoli, fu inaugurato nel 27 a.c. e subì dei rimaneggiamenti nel II secolo per adattarlo ai giochi gladiatorii. In seguito al crollo della parte superiore nel terremoto del VII secolo, fu ricoperto di terra e vi furono insediate abitazioni.
La cavea poteva ospitare circa 5.000 spettatori. Davanti alla scena venne eretto un piccolo porticato con pilastri ornati da semicolonne doriche.

Nel teatro venne rinvenuto un rilievo offerto da Zoilo, liberto imperiale e che aveva finanziato la costruzione dell'edificio scenico.
Alle spalle della scena del teatro si trova una piazza quadrangolare, pavimentata in marmo, sistemata nel IV secolo. Su questa si affacciava un piccolo impianto termale del II o III secolo.


IL SEBASTEION

IL SEBASTEION

L'edificio, scoperto negli scavi del 1979, era dedicato al culto di Augusto divinizzato (in greco Sebastos). È costituito da due grandi portici che bordano una sorta di via processionale lunga 80 m e larga 14, donati da due diverse famiglie di notabili cittadini sotto i regni di Claudio (10-54) e Nerone (37-68). I portici terminano con una porta monumentale.

Così la descrisse il direttore degli scavi “I due portici presentavano delle facciate che rassomigliavano nella disposizione una costruzione di scena teatrale. Le semicolonne erano sovrapposte su tre piani: di ordine dorico al pianoterra, esse erano sormontate di semicolonne di ordine ionico, sopra le quali si trovava un rango di semicolonne di ordine corinzio di taglia ancora più ridotta.

Una quantità di larghi pannelli decorativi scolpiti in rilievo furono scoperti all’esterno e all’interno di questi portici durante gli scavi. Tutti erano visibilmente destinati a inserirsi tra i colonnati dei livelli superiori.
Nel portico Sud, il secondo piano implicava dei bassorilievi che rappresentavano delle scene mitologiche come la nascita di Eros, di Apollo a Delfi, di Bellerofonte e Pegaso, di Leda e il Cigno o Nissa e Dionisio bambino per citarne alcuni.

Per contro gli incolonnamenti superiori erano ornati di rilievi rappresentanti imperatori e principi tra i quali si possono riconoscere Augusto, Germanico, Lucio e Gaio Cesare, Claudio e Agrippina come pure la liberazione di Prometeo da Ercole, Enea mentre fugge da Troia o Ares, dio della guerra.


Due dei rilievi tra i più interessanti di questo gruppo meritano una menzione speciale: l’uno mostra Claudio conquistatore della Bretagna (l’Inghilterra), rappresentata come una Amazzone e l’altra Nerone che impugna una allegoria dell’Armenia. Tutti questi personaggi erano debitamente identificati da delle iscrizioni incise su uno zoccolo separato. 
Sfortunatamente il portico Nord del Sebasteion fu gravemente danneggiato da un terremoto, avuto luogo il quarto secolo e successivamente ancora rovinato dal sisma del VII secolo”.


I portici si sviluppavano dunque su tre ordini sovrapposti:
- al piano terra il portico aveva semi-colonne doriche che incorniciavano le botteghe,
- al secondo livello aveva edicole chiuse da semi-colonne ioniche, con bassorilievi raffiguranti scene mitologiche ed eroi della mitologia greca
- al terzo aveva semi-colonne corinzie con i rilievi di Augusto e di altri personaggi della dinastia giulio-claudia e con rappresentazioni figurate dei popoli sottomessi da Roma.

LE MURA

LE MURA

Le mura della città avevano un perimetro di circa 3,5 km, erette a seguito dell'invasione dei Goti nel 260. A causa dei successivi terremoti furono tuttavia in gran parte ricostruite nel IV secolo con blocchi di reimpiego presi dai monumenti del centro cittadino. Dopo la loro distruzione nel VII secolo la difesa della città fu assicurata solo da un fortino costruito sull'acropoli. Le mura di Afrodisia circondano l’Agorà, il portico di Tiberio, il Teatro e le terme di Adriano.

Le porte delle mura sono quattro:
- porta nord
- porta nord-est,
- porta est, con cortile interno,
- porta di Antiochia o porta ovest.

Attualmente restano visibili molti resti delle mura sui lati nord ed ovest, mentre sul lato orientale, occupato dal villaggio di Geyre, sono andate in gran parte distrutte.


CIRIADE - CYRIADES (Usurpatori)

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CIRIADE

Nome: Cyriades, Mariades, Mareades
Nascita: ?
Morte: ?
Regno: 259-260


Ciriade (di cui altre fonti riportano il nome Mareades o Mariades o Mariadnes ) viene citato come un romano ribelle che avrebbe tradito Roma contattando Shapur I, (Sapore I) invitandolo alla guerra coi romani. Egli deve la sua triste fama in quanto enumerato come uno dei Trenta Tiranni (tutti pretendenti al trono della dell'Impero romano durante il regno di Gallieno) che avrebbe cercato presumibilmente di rovesciare appunto il potere imperiale.

Ciriade o Mariade che fosse (in latino: Cyriades, Mariades, Mareades; fl.259/260; non se ne conosce la data nè della nascita nè della morte) viene ricordato come un usurpatore che si ribellò contro l'imperatore  Valeriano (200 - 260), attestato dalla lista dei Trenta Tiranni, contenuta nella Historia Augusta.



VALERIANO

Publio Licinio Valeriano (Publius Licinius Valerianus) è il primo esponente della dinastia valeriana.
Asceso al trono associò suo figlio Gallieno al potere, prima come Cesare e poi come Augusto, nominando a sua volta il secondogenito, Valeriano il giovane, come Cesare. Il suo regno fu turbato da continue invasioni delle frontiere danubiane e renane. Fece una morte infelicissima in quanto preso prigioniero militari durante la battaglia di Edessa, in Mesopotamia, nel 260 da Shapour I (Sapore I) re dei Sasanidi, forse per i maltrattamenti, morì qualche tempo dopo.

GALLIENO

GALLIENO

Publio Licinio Egnazio Gallieno (Publius Licinius Egnatius Gallienus; 218 – 268) è stato un imperatore romano, dal 253 al 268, famoso per la sua riforma dell'esercito, nonché valente condottiero. Quando il padre Valeriano fu catturato dai Sasanidi rimase l'unico imperatore per altri otto anni, fino alla morte quando era cinquantenne. Durante il suo regno ci furono due secessioni di territori dell'impero (l'Impero delle Gallie a occidente e il Regno di Palmira a oriente) e molti aspiranti imperatori.

Gallieno fu il primo a regnare per quindici anni (sette con il padre e otto da solo), cosa assai rara se si considera il primo periodo dell'anarchia militare (dal 235 al 253). Fu ottimo generale e ottimo riformatore dell'esercito. Fu ucciso a tradimento dal comandante della cavalleria dalmata Ceronio o Cecropio, in un agguato, a soli 50 anni.

SAPORE I

CIRIADE


Nell'opera si narra come Ciriade avesse derubato il proprio padre, che infelicissimo si era visto dissipare dal figlio tutto il suo patrimonio, e infine come il riprovevole figlio, carico di debiti, per sfuggire agli irati creditori, si fosse rifugiato presso i Persiani dove ebbe tuttavia una discreta fortuna riuscendo ad essere ricevuto a corte del re.

Sembra dunque che Ciriade abbia saputo farsi apprezzare dal "Re dei Re" divenendo anche suo consigliere e convincendolo pian piano a invadere le province romane, ma a che scopo? I fatti dovrebbero essere accaduti durante la campagna di Valeriano in oriente, nel 258 o 259.

Ciriade figliuolo d'un padre dello stesso nome che deve essere caduto in disgrazia presso suo padre per la cattiva condotta e per l'insensato lusso, così lo derubò, gli tolse una grande quantità di oro e di argento e si salvò sulle terre de Persiani. 

Venne alla corte di Sapore I e lo esortò ad assalire Roma rappresentandogli certamente quanto l'occasione fosse favorevole e opportuna per mettere in campo le sue antiche pretensioni contro un Impero attualmente governato da un Principe debole e devastato per ogni parte da Barbari. 

Per l'ambizione Sapore entrò in campagna approfittandosi delle intelligenze che Ciriade aveva conservate ne paesi soggetti a Romani. Entrò in Mesopotamia dove prese Nisibe e Carres, penetrò nella Siria e sorprese Antiochia. Gli abitanti di questa grande città si aspettavano tutt'altro che una tale disgrazia. 

Dominati dall'inclinazione che avevano a piaceri e agli spettacoli erano attualmente al teatro e s intrattenevano a vedere un Pantomimo e sua moglie i quali rappresentavano una commedia per divertirsi. Tutto in un tempo questa femmina rivolgendosi gridò: "O che io sogno o che qui sono i Persiani". Infatti arrivarono e s'impadronirono senza difficoltà di una città che non pensava a difendersi. 

La misero a sacco e depredarono i luoghi circonvicini. Dopo questa conquista i Persiani avrebbero potuto estendersi facilmente nell'Asia minore e soggiogarla. Ma la loro armata era carica d'un immenso bottino e stimarono bene di assicurarsene il possesso riportandolo nel loro paese.

Ciriade avendo coronati i suoi misfatti col parricidio, traditore della sua patria, volle finalmente raccogliere il frutto dei suoi delitti. Rimasto in Siria prese il titolo di Cesare e poi quello di Augusto. 
Ma fu di breve durata. Dopo averne goduto per poco più di un anno Ciriade fu ammazzato da suoi. 

I PERSIANI

IL FALSO USURPATORE

Marcellino assicura che Mareade cittadino di Antiochia che li aveva introdotti in questa città fu da essi punito col supplizio del fuoco. "Mareades, che aveva portato sconsideratamente i Persiani alla distruzione del suo popolo, fu bruciato vivo." Alcuni studiosi datano questo al 256. Ciriade più non viveva quando chiamato in Oriente dalla guerra de Persiani giunse ad Antiochia. 

La figura di Ciriade potrebbe anche essere ispirata a Mariade, un nativo di Antiochia, il quale fu ritenuto colpevole di aver intascato fondi pubblici: Mariade portò l'esercito di Sapore in Siria, causando la cattura e il saccheggio di Antiochia. In seguito fu messo a morte da Sapore stesso.

«I Persiani, carichi di bottino, tornarono senza perdite nel proprio paese dopo aver bruciato Mariade, che empiamente aveva guidato i Persiani alla distruzione dei suoi stessi concittadini. Questo evento accadde al tempo dell'Imperatore Gallieno

(Ammiano Marcellino, Storie, XXIII, 5.3.)

MEDUSA DI ANTIOCHIA
A tutt'oggi però non esistono prove che Ciriade (o Mareade) si fosse mai proclamato imperatore. Inoltre la Historia Augusta data l'evento dell'imperatore Valeriano in viaggio contro i Persiani al 259. Edward Gibbon invece data l'usurpazione dopo la sconfitta e la cattura di Valeriano nel 260.

L'anonimo Continuator di Cassius Dio riferisce di un Mariadnes, ma con gli abitanti di Antiochia consapevoli dell'invasione imminente, che volevano passare dai Romani ai Persiani. L'evento è del 250 ma la data e la caduta di Antiochia si verificarono, secondo i moderni studiosi, durante il regno di Treboniano Gallo.

Infine, secondo John Malalas, durante il regno di Valeriano, Mariades, uno dei funzionari di Antiochia venne espulso dal consiglio comunale perchè, responsabile delle corse dei carri, non aveva comprato i cavalli per una delle fazioni, e aveva rubato il denaro destinato all'Ippodromo. Così fuggì in Persia, e vendette Antiochia ai Persiani. Saccheggiata e rasa al suolo Antiochia, Shapur l'aveva decapitato come traditore del suo popolo. 

Dunque è ormai accettato che Ciriade e Mariades sono la stessa persona. Una possibilità è che il nome Ciriade sia una versione ellenizzata del nome aramaico Maryad'a. Non ci sono prove numismatica ed epigrafici che Ciriade (o Mariades) è stato mai proclamato Augusto. Le monete pubblicati da Groltzius e Mediobarbus vengono respinte dal Numismatica come spurie.



BIBLIO

- Giovan Battista Luigi Crevier - Storia degli imperatori romani fino a Costantino - Napoli - 1762  
- William Smith - Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology - Ancient Library - Bookshelf.
- E. Jeffreys, M. Jeffreys, R. Scott et al. - La Cronaca di Giovanni Malalas: una traduzione
Byzantina Australiensia - Melbourne: Associazione australiana per Studi Bizantini - 1986.
- Cassio Dione - Storia romana - Loeb biblioteca classica, 176. VIII - 1925
- L 263 - D.Megiae - Scriptores Historiae Augustae: Volume III. I due Valeriani. I due Gallieni. I trenta Pretendenti.

IPOGEO DI TREBIO GIUSTO

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L'IPOGEO (FOTO 1)
I proprietari dell'Ipogeo detto di Trebius Iustus, una ricca famiglia di imprenditori, decisero di costruire nella metà del IV secolo d.c.  un cimitero privato in Via Latina, che somiglia, come tipo e posizione sociale alla tomba dei proprietari del vicino cimitero di Via Dino Compagni.

Detta anche Ipogeo di Trebio Giusto, questa fu una piccola catacomba posta sull'antica via Latina, oggi all’incrocio tra via Latina e via Mantellini, nel quartiere Appio-Latino. Posta su un solo piano ha un lungo corridoio su cui si aprono sei stanze e un saloncino.

Fu scoperta nel 1911 ma, trovandosi in una proprietà privata fu espropriata e “riaperta” solo nel 1976, dopo ben 65 anni, uno sconcio.

La catacomba venne scavata interamente nel banco di pozzolana e venne datata ai primi decenni del IV secolo d.c.; all’interno le pareti sono rivestite da laterizi. Dalle scene raffigurate nelle pitture, si può ritenere che Trebio Giusto fosse, oltre ad un ricco proprietario terriero, anche un costruttore edile.

Una cosa che accomuna tutti gli studiosi di questo ipogeo è l’affermazione che non esistono elementi sicuri per dire che la famiglia di Trebio Giusto appartenesse ad una comunità cristiana.

Ma l’importanza di questo ipogeo è data dalle pitture, ancora ben conservate, nelle quali sono ritratti il proprietario del sepolcro, Trebio Giusto, insieme alla moglie, al figlio ed altri personaggi che attendono al lavoro di operai, contadini e pastori.

PADRE MADRE E FIGLIO (FOTO 2)

LA STORIA

Il cimitero sotterraneo fu scoperto casualmente nel marzo 1911, quando il proprietario di un villino decise di far fare dei lavori di verifica della statica della propria abitazione. Così facendo scoprì l'ingresso ad un cubicolo ipogeo che portava ad una camera funeraria totalmente affrescata.

Fu un salvataggio in extremis, perché la costruzione doveva scomparire sotto tonnellate di cemento e mattoni, storia ricorrente e quotidiana in cui proprietari e ambientalisti sono in discussione, ma due anni dopo la scoperta e il primo lavoro di salvataggio, l'ipogeo sembra essere dimenticato.

Fu avvertita la "Pontificia commissione di archeologia sacra", che con i Patti Lateranensi del 1929 aveva competenza su tutte le catacombe presenti nel territorio dello stato italiano, ma alla fine di marzo dello stesso anno il suo segretario, Rudolf Kanzler, ispezionò l'ipogeo ma non vi trovò alcuna traccia di di cristianità, procedendo comunque ad un rilievo foto topografico.

TRASPORTO PRODOTTI AGRICOLI (FOTO 3)
Così nel 1954 la Pontificia Commissione per l'Archeologia Sacra nella persona di Antonio Ferrua è interessata alla tomba, che è già considerata "perduta nell'ultima guerra". Tuttavia, l'interesse non avrà conseguenze più significative quando la natura pagana del monumento è finalmente stabilita.

Se la Commissione pontificia di archeologia sacra, che ha già dovuto purgare mezzo calendario di santi fasulli, e che pertanto è affamata di santi veri. o almeno simil veri, ha accertato che la tomba era pagana, possiamo star tranquilli che di cristiano non c'è traccia, anche se qualcuno ancora non si arrende.

PLANIMETRIA DELL'IPOGEO
Così, terminato il lavoro, il cimitero fu nuovamente chiuso; negli anni successivi nel sopraterra fu edificato l'attuale quartiere (sigh! Quante altre tombe c'erano e sono state spazzate via!), con palazzi e strade.

Solo nel 1976 fu possibile entrare nuovamente nell'ipogeo, questa volta attraverso una botola praticata nel pavimento di un locale a pianterreno della palazzina, che nel frattempo aveva preso il posto del villino del 1911. Anche in questo caso la Sovrintendenza alle Antichità di Roma procedette ad un nuovo rilievo foto topografico, ma poi richiuse la botola e l'ipogeo cadde nuovamente nell'oblio. Una seconda vergogna, ma non per la Sovrintendenza ma per lo stato che non gli finanzia i fondi.

Almeno è possibile trovare la posizione esatta in Via Mantellini 13, dove già all'inizio del secolo, una piccola villa fu costruita dalle indagini in quegli anni. Aveva cambiato varie mani nel tempo e, in un'estensione dell'edificio, persino l'accesso alla tomba era scomparso sotto il pavimento di un bagno non autorizzato.

Passano altri 30 anni prima che sia possibile iniziare una procedura di espropriazione per queste stanze, con la prospettiva di una terza vita per questo ipogeo. Infatti, negli anni '90, l'Autorità dei Monumenti Archeologici di Roma ha accesso alla tomba per una serie di lavori di manutenzione.

Nel 1996 si è entrati per la terza volta nell'ipogeo per eseguire un nuovo sopralluogo ed iniziare il restauro delle strutture e degli affreschi. Alla buon'ora! Attualmente è in corso una causa di esproprio,  (alla buon'ora) e nel frattempo il locale a pianterreno dell'edificio costruito sopra l'ipogeo è oggi preso in affitto dalla Sovrintendenza Archeologica del Lazio. 

TREBIUS IUSTUS ASELLUS (FOTO 4)

DESCRIZIONE

La catacomba è costituita da un corridoio di accesso, un vestibolo e una camera sepolcrale a pianta quadrata coperta da volta a crociera. Sulle pareti laterali sono una serie di loculi, mentre su quella principale si trova un arcosolio.

Anticamente l'accesso avveniva tramite una galleria cimiteriale, lungo la quale in epoche successive furono realizzate alcune semplici tombe ad arcosolio, il cui ingresso non venne mai trovato a causa della franosità del terreno; Il cubicolo posto in fondo alla galleria era perfettamente quadrato con un lato di 2,60 metri.

Dal tipo di pittura l'ipogeo risalirebbe ai primi anni del IV secolo d.c.

- Nella parete principale, in alto, (foto 2) Trebio Giusto è raffigurato seduto con uno sgabello sotto i piedi; al suo fianco, in piedi, si trovano la moglie Honoratia Severina e un uomo, sembrerebbe il figlio, che tendono un drappo sul quale sono alcuni oggetti. L'uomo è seduto perchè è il personaggio più importante, è il pater familias, il capo famiglia. Gli oggetti sono stati interpretati come orecchini, anelli e bracciali. Effettivamente sembrerebbero tali, ma ci lascia un po' interdetti, perchè in una tomba non c'è ragione di esibire gioielli.


Alcuni hanno interpretato la figura centrale come il figlio, ma la figura a lato non ha la barba mentre la porta la figura al centro. Da notare che Trebio padre appare sempre con la barba. Il figlio appare di solito senza barba, d'altronde ha 16 anni. Ma non c'è nulla di certo e la figura centrale potrebbe essere anche il figlio defunto.

Nell’arcosolio è raffigurato con certezza il figlio, Trebio Giusto Asellus, morto in giovane età e circondato da oggetti per scrivere, tipico corredo degli studenti (Foto 4). Ed è senza barba.
Trebio Giusto figlio secondo la scritta è morto a 21 anni, ma è un errore, morì a soli 16 anni, 9 mesi e 25 giorni. Il computo dei mesi e dei giorni suscita un'immensa tenerezza, si contano accuratamente i giorni solo di chi si è amato tanto, oppure è un'usanza.

Dalla scritta apprendiamo i nomi del padre e della madre Horonatia Severina e più sotto la definizione asellae.piae, leggibile sulla parte bassa del cubicolo del figliolo.

TREBIO PARLA CON IL CAPOMASTRO (FOTO 5)
In latino asella ha il significato di asinella, o, hanno scritto alcuni, potrebbe riferirsi ad Asella (una cristiana seguace di S. Girolamo  334 – 405) e la scritta “ASELLAE PIAE” al genitivo significherebbe "della Pia Asella", ma non ha senso perchè sua madre è Honoratia. Oppure significa "le pie asinelle" ma anche qui non se ne comprende il significato, oppure (A SELLAE PIAE) "alle amorevoli sedie" sempre privo di senso.
Ma anche il figlio è chiamato ASELLUS (asinello), e dare dell'asino non era un complimento neppure tra i romani, eppure era il suo soprannome, infatti c'è scritto SIGNO ASELLUS.

Forse da qui è nata la confusione. Sopra il ritratto del defunto c'è la scritta ASELLAE – PIAE – Z...., intrepretabile invece come la trascrizione latina della formula augurale greca “Pie Zeses” (letteralmente bevi, vivrai) dove i due dittonghi “ae” sono un errore dello scriba che ricorre anche nella didascalia dell'arcosolio (nelle parole Saeverina eMaerenti). Questa interpretazione ci sembra di gran lunga la migliore.
TREBIUS IUSTUS ET HONORATIA SEVERINA - Trebio Giusto e Onorazia Severeina
FILIO MAERENTI FECERUNT                              - fecero per il meritevole figlio
TREBIO IUSTO SIGNO ASELLUS                         - Trebio Giusto soprannominato Asinello
QUI VIXIT ANNOS XXI                                          - che visse 21 anni
MESI VII DIIS XXV                                                 - 7 mesi e 24 giorni.

Ai lati dell’ingresso sono raffigurati il trasporto di materiali edilizi e di prodotti agricoli. Qui non si tratta di esibizioni ma del lavoro di Trebio Giusto, che in parte è costruttore e si vale i operai, in parte è coltivatore e si vale di contadini. Infatti nella foto 3 Trebio Giusto si trova tra alcuni contadini che hanno portato entro ceste i prodotti della sua terra.

TREBIO MENTRE FA IL COSTRUTTORE (FOTO 6)
- Nella foto 6, sulla destra delle pareti laterali è rappresentata la costruzione di un edificio, interpretato da alcuni come edificazioni di mura con torri, interpretazione a nostra opinione un po' fantasiosa. Qui un gruppo di operai a lavoro costruisce un edificio, che si intravede tra la vegetazione. 
In una scena di efficace realismo, sono rappresentati mentre trasportano mattoni, salgono su una scala e in cima a un'impalcatura stendono la malta, l'unica rappresentazione nota di un ponteggio di età romana. E' evidente che questo era il mestiere del padre che lo stava insegnando al figlio, che sarebbe diventato anch'egli costruttore.

- Sulla destra Trebio Giusto che parla con un altro personaggio, Generosus magister, probabilmente un capomastro (foto 5).

- Sulla volta della camera sepolcrale, all'interno di un clipeo decorato con fiori e foglie, affiancato da due pecore e con in mano un flauto sta un pastore. Tutt'intorno piante e uccelli. Il pastore ha il bastone e la syrinx in mano, il tipico strumento pastorale a fiato, vale a dire la siringa, lo strumento di Pan, tra due pecore che alzano la testa verso di lui.

La scena non ha nulla di cristiano, anche perchè il pastore, anzi il Buon Pastore prima di essere Cristo era Mercurio e perfino Apollo, e portavano la bestiola sulle spalle. La Chiesa non si è inventato nulla sul Buon Pastore.


LE INTERPRETAZIONI

Le interpretazioni che nel corso dei decenni si sono susseguite sono condizionate dalla non perfetta qualità delle foto e riproduzioni effettuate nel 1911 e dalla mancanza, allora, di accurati restauri: infatti, non potendo penetrare nell’ipogeo, l’unico modo per studiarlo ed interpretarlo era attraverso le foto scattate al momento della sua scoperta.

Il primo che cercò di interpretare le figure e gli affreschi fu Orazio Marucchi nel 1911, poco dopo la scoperta dell’ipogeo, che vide nelle diverse pitture elementi legati alla simbologia gnostica, di cui francamente non scorgiamo nulla.

Per Joseph Wilpert invece si tratta semplicemente di scene di vita quotidiana ed agreste, ma interpreta il pastore della volta come un segno chiaramente cristiano. Con gli stivali, lo strumento a fiato, la veste decorata e il mantello, con tutta la buona volontà, non ha nulla del pastorello arcaico del Cristo.
Negli anni Quaranta del secolo scorso, un altro archeologo, Carlo Cecchelli, interpretò gli affreschi della tomba come appartenenti ad una famiglia di religione sincretista: non più pagana cioè, ma non ancora completamente cristiana. Ma di cristiano non c'è nulla, lo riconobbe persino il messo del Vaticano.

E' vero che non c'è neppure nulla di pagano, o quasi nulla, perchè i genietti all'inizio sono pagani, ma è come la tomba del fornaio o del calzolaio, i romani erano fieri del loro mestiere e stop, per il resto accettavano tranquillamente la loro morte (teniamo presente che le tombe le facevano da vivi) senza tante paure o raccomandazioni agli Dei.
Oggi l'ipogeo è ben nascosto da una botola al pianterreno di un edificio degli anni '70 nel quartiere Appio Latino, che ha preso il posto del vecchio villino, in via Martellini al civico 13. Naturalmente non è visitabile.



LINGONI - LINGONES (Nemici di Roma)

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LINGONI
Nel De Bello Gallico Giulio Cesare distingue tre tipi di persone che vivono nella zona di guerra: gli aquitani nel sud-ovest, i belgi nel nord e quelli "che chiamiamo Galli ma sono nella loro lingua chiamata. Si è dibattuto a lungo sull'identità dei Celti, e oggi la maggior parte degli studiosi chiamano Celti che quelli che:
- parlavano gallico
- appartenevano a ciò che gli archeologi chiamano "cultura della Tène" .

Pertanto i Lingones erano un'antica tribù celtica e potenzialmente erano nemici di Roma, ma in realtà, da popolo intelligente quale era, apprezzarono la civiltà romana e credettero bene di allearvisi comprendendo che avevano tutto da guadagnare. Solo per un periodo credettero di ribellarsi e presero le armi contro Roma, divenendo davvero nemici dei romani, ma per la maggior parte del tempo furono alleati. Per amor di storia comunque li includeremo tra i nemici anche per raccontarne il lungo rapporto con Roma.

POSIZION DEI LINGONES
La capitale dei Lingoni era Andematunnum (fortezza del grande orso), centro economico dell'Europa occidentale manifatturiera. La città venne eretta su un promontorio roccioso sopra le sorgenti del fiume Marna, che la collega con l'Oceano Atlantico; ma situata sul grande corridoio commerciale che dal Mediterraneo giunge al Mare del Nord passando per i fiumi: Rodano, Saona, Mosella e Reno.

I Lingones compaiono per la prima volta nella storia intorno al 400 a.c., quando si unirono alla conquista gallica delle pianure del Po, quando la vecchia aristocrazia venne sostituita da una nuova élite guerriera. Molti dei suoi abitanti emigrarono per questo oltre le Alpi.
I membri delle tribù dei Senoniani e dei Lingoni si stabilirono comunque nella pianura padana orientale, vicino al mare Adriatico.



GUERRE CONTRO GLI ETRUSCHI

Il primo conflitto lo ebbero con i nativi etruschi.
GUERRIERO ETRUSCO CONTRO CELTICO
Nell'anno 395, il territorio Tusculano fu devastato orribilmente dai Galli, nei territori di Alba, Labico, e Tusculo. Nel 391, quando Lucius fu tribuno per la settima e ultima volta, una banda di guerrieri gallici arrivò a sud. Nell'ultimo quarto del quinto secolo, i Galli avevano sottomesso i popoli lungo la pianura del Po. Durante una lotta civile nella città etrusca Clusium, una parte aveva invitato i mercenari gallici e l'altra parte aveva chiesto aiuto a Roma che mandò tre inviati in missione conoscitiva, ma l'unico risultato fu che i Galli decisero di attaccare Roma.



GUERRE CONTRO ROMA

Nell'estate del 390 raggiunsero il Lazio. In quel momento, nuovi uomini occuparono la suprema magistratura e condussero l'esercito verso Allia, un piccolo ruscello a nord di Roma, ma quando i comandanti romani videro i loro nemici, capirono che non potevano competere e sgombrarono il campo. L'esercito romano fu portato a Veio, che ora giaceva più o meno deserto. 

La data della battaglia fu ricordata come ater ("giorno nero"): Roma non era più protetta e i suoi abitanti lasciarono la città. Ricevettero rifugio a Caere, una città etrusca alleata. I Galli iniziarono ad assediare il Campidoglio, che i Romani avevano presidiato. In una notte buia, i Galli cercarono di arrampicarsi sui pendii rocciosi della collina. Tuttavia, le oche sante erano sveglie e avvertirono i soldati romani, e un uomo di nome Marco Manlio Capitolino fu in grado di respingere gli invasori. In epoche successive, i romani celebrarono questo incidente il 2 agosto.

POSIZIONE DEI LINGONES ALL'ARRIVO NELLA PENISOLA ITALICA
Nel frattempo, la principale forza dei romani era ancora a Veio intenta nel disturbare i Galli che cercavano rifornimenti di cibo. Nel febbraio del 386 a.c., gli assediati e gli assedianti andarono a patti: furono pagati 1.000 monete d'oro romane e i Galli andarono via.

L'anno successivo (389 V), Camillo fu di nuovo dittatore. La situazione era difficile: i Volsci e gli Aequi avevano rotto il trattato di pace e alcune città latine erano sull'orlo della rivolta. 

Camillo marciò attraverso il Lazio a sud-est, dove vivevano i Volsci e li sconfisse vicino ad Ad Maecium bruciando il loro campo. Poi marciò su Bola, città degli Aequi, e la catturò. Al suo ritorno a Roma, il dittatore celebrò un trionfo.

Poi una banda di guerrieri saccheggiò Roma nel 387/386 a.c. per poi stabilirsi a sud del Po, lungo la riva del mare Adriatico. L'area divenne nota come Ager Gallicus, dove il fiume Rubicone era considerato il confine tra l'Italia e i territori gallici a sud delle Alpi ( Gallia Cisalpina ).

ANDEMATUNNUM

I LINGONI ALLEATI DI ROMA

Una parte dei Lingoni vivevano ancora in patria e la posizione naturale di Andematunnum ne fece un importante centro economico dando ai Lingoni una notevole influenza sulla Gallia.

Così, nel 58 a.c., Giulio Cesare sconfisse una tribù di nomadi che minacciarono gli alleati di Roma, gli Eduani. Più tardi si trasferì nella valle del Medio Reno, dove attaccò il capo germanico Ariovisto, che stava minacciando anche le tribù galliche.

L'avanzata romana fu possibile anche perché i Lingones avevano offerto le scorte di grano per nutrire l'esercito. Gli abitanti di Andematunnum ci tenevano infatti alla rotta commerciale che collegava il Mediterraneo con l'estremo ovest e il nord erano convinti alleati di Roma.

MONETA DEI LINGONI
Finora, le azioni di Cesare erano state più o meno difensive: aveva sostenuto vecchi alleati e aveva ricevuto il supporto di nuovi alleati. L'anno successivo, tuttavia, decise di invadere Belgica, la parte settentrionale della Gallia. I belgi sapevano cosa stava per succedere e cercarono di stipulare un'alleanza, ma Cesare li prevenì e impedì alla tribù dei Remi di unirsi a loro. Sicuramente lo fece con l'aiuto dei Lingones.

Da allora, i Lingones, gli Edui e i Remi furono i più fedeli sostenitori di Cesare. Quando i romani furono nei guai dopo l'insurrezione di Ambiorix (nell'inverno del 54/53), poterono recuperare due legioni nell'area di Andematunnum.

Quando poi Cesare assediò Alesia nel 52, i Lingones erano tra i suoi alleati, e sicuramente lo aiutarono con la cavalleria in cui eccellevano. I cavalieri della Lingonia erano certamente presenti durante la campagna contro i Bellovaci nel 51. Ma il contributo più importante dei Lingones doveva essere economico: da una base di approvvigionamento ad Andematunnum, i romani potevano colpire in qualsiasi direzione.

Dopo la conquista della Gallia, Giulio Cesare combatté una guerra civile contro il generale Pompeo e il Senato e divenne l'unico sovrano dell'impero mediterraneo. Sappiamo che diverse unità di cavalleria germanica e gallica presero parte alle sue campagne, ed è possibile che cavalieri della Lingonia seguissero Cesare in Catalogna, Grecia, Egitto, Ponto, Africa e Andalusia.

Quando tornarono a casa, avevano ricevuto la cittadinanza romana e mostrarono agli altri Lingoni quali benefici potevano aspettarsi dalla cooperazione con i Romani. Sappiamo che in seguito, il contributo della Lingonia all'esercito romano ammontava a quattro unità ausiliarie regolari.

Dopo l'omicidio di Cesare, i romani vissero una guerra civile tra i suoi assassini Bruto e Cassio e i seguaci di Cesare Marco Antonio e Ottaviano. Con la vittoria di Augusto venne creato Marco Vipsanio Agrippa  governatore in Gallia, che gettò le basi del dominio romano a nord delle Alpi edificando le strade.


La via più importante collegava la capitale gallica Lugdunum (Lione) con Andematunnum, dove si divideva in due rami: uno a nord-ovest, con la capitale del Remi, Durocortorum (Reims) e il Canale, e uno a nord, con Treviri e la capitale della zona di frontiera lungo il Reno, Colonia. La presenza di anfore vinicole italiane nelle città lungo le nuove strade suggerisce che i mercanti seguivano le orme dei soldati e dimostra che Andematunnum non aveva perso il suo significato economico.

Nella zona di frontiera lungo il Reno, che fu occupata dagli eserciti di Germania Inferiore e Germania Superiore, i Lingoni furono inclusi nella Superiore dove produssero cibo per le legioni di Magonza. Nella descrizione geografica della Gallia di Agrippa, che è arrivata fino a noi nella storia naturale di Plinio il Vecchio, i Lingoni sono citati come foederati (alleati). Il governo romano considerava ufficialmente i Lingoni come una nazione indipendente e quando Plinio pubblicò la sua storia naturale (nel 77), era qualcosa di cui essere orgogliosi.

La lealtà dei Lingones al governo romano era fuori discussione. Nel 21, i Treveri si ribellarono e molte altre comunità si schierarono con loro, ma i Lingoni, che vivevano tra i principali gruppi ribelli, non sono menzionati tra coloro che erano inquieti.

Negli anni '60 il paese a nord delle Alpi era ormai romanizzato. Tuttavia, ai tempi dell'imperatore Nerone, uno dei governatori della Gallia, Gaio Giulio Vindex, insiemea  Servius Sulpicius Galba tentarono di restaurare "l'antica virtù romana" con l'intenzione di detronizzare Nerone. Ma Vindex non poteva competere con l'esercito della Germania Superiore (le legioni XXI Rapax, IIII Macedonica e XXII Primigenia), comandata da Lucius Verginius Rufus e sostenuta dai Lingones.

Il Senato poi dichiarò Nerone nemico dello stato, l'imperatore si suicidò (68) e Galba divenne il nuovo imperatore. I legionari e i Lingoni volevano come imperatore il loro comandante Verginius Rufus, che però rifiutò. Galba sostituì Rufus con Marcus Hordeonius Flaccus, e le truppe il 2 gennaio 69 si ribellarono e nominarono imperatore Aulo Vitellio, il governatore della Germania inferiore.
I Lingoni si schierarono con le legioni ribelli, anche perchè Galba aveva annunciato una misura contro i Lingoni, forse la perdita del loro territorio. (Tacito , Storie 1.53)

Quando Galba seppe dell'insurrezione venne preso dal panico e annunciò la nomina di un successore. Ma anche la guardia imperiale si ribellò, uccise Galba e mise sul trono Marco Salvio Otone (15 gennaio) che assegnò la cittadinanza romana a tutti i Lingoni, sperando che avrebbero abbandonato la loro alleanza con Vitellio. Ma uno dei due eserciti di Vitellio (subunità della I Germanica, V Alaudae, XV Primigenia e XVI Gallica, comandata da Fabius Valens), era già passato attraverso Andematunnum. Il 16 aprile i Vitelliani sconfissero l'esercito di Otone vicino a Cremona; l'imperatore sconfitto si suicidò e il Senato accolse Vitellio come imperatore.

MUSEO LINGONE
Vitellio arrivò a Roma il 17 luglio, ma in Giudea il generale Vespasiano, dell'esercito inviato contro gli ebrei ribelli, era stato proclamato imperatore e si ribellarono anche i Bataviani. Non poteva affrontare i Batavi e Vespasiano insieme. Nel 69 settembre, i Bataviani sconfissero i soldati della V Alaudae e XV Primigenia che erano stati lasciati indietro e procedettero alla conquista di Xanten e di Colonia.

Intanto il più importante tempio del mondo romano, il Campidoglio, era stato distrutto durante uno scontro tra sostenitori di Vitellio e Vespasiano, e dopo che Vitellio fu sconfitto da Vespasiano, si disse, erroneamente, che suo figlio Tito si era ribellato al padre.
A questo punto un Lingoniano di nome Giulio Sabino si proclamò imperatore e divenne il quinto imperatore in tredici mesi. Il primo successo arrivò nel 70 gennaio, quando due legioni romane, la I Germanica e XVI Gallica, furono sconfitte dai Bataviani e si arresero all'impero gallico. Gli ex seguaci di Vitellio avevano rotto il giuramento a Vespasiano e giurato fedeltà a Sabino che li inviò alla capitale del nuovo impero a Treviri, e quindi a Metz, lontani dalla guerra tra romani e batavi.

Quindi Sabinus attaccò i Sequani, che vivevano nella valle del fiume Doubs, che però sostennero l'attacco rimanendo fedeli a Roma. Intanto le comunità galliche decisero che avrebbero sostenuto il nuovo imperatore di Roma contro i ribelli batavi. I Lingones e i Treveri furono invitati a deporre le armi.

Il generale romano incaricato della soppressione della rivolta batava fu Quinto Petillius Ceriale. Un secondo esercito, composto dalla I Adiutrix, VIII Augusta e XI Claudia, comandato da Appio Annio Gallo vinse la rivolta della Lingonia.

Sembra che i cittadini di Andematunnum temessero che la città sarebbe stata saccheggiata dalle truppe in avvicinamento, ma il loro comandante Sisto Giulio Frontino li lasciò incolumi, si assicurò che nessuno perse la sua proprietà e ottenne la gratitudine dei Lingones, che si arresero ai romani. Secondo lo stesso Frontino, ce n'erano 70.000, ma questo deve essere esagerato.

Vespasiano fece uccidere Giulio Sabino e inviò le unità ausiliarie della Lingonia in Gran Bretagna. Sulle iscrizioni sono menzionate almeno quattro unità di 500 uomini:

- Cohors primae Lingonum equitata: un'unità equestre con sede a Bremenium (High Rochester nel Northumberland) e Longovicium (Lanchester in Durham). L'imperatore Gordiano III (238-244) assegnò a questa unità il titolo Gordiana.

- Cohors secundae Lingonum: di stanza a Gabrosentum (Moresby, Cumbria), dove durante il regno di Adriano devono essere stati una sorta di guardia costiera. Più tardi, furono trasferiti a Ilkley nello Yorkshire.

- Cohors tertiae Lingonum nessun forte nota.

- Cohors quartae Lingonum: questa unità fu trasferita in Gran Bretagna nel 71 e prese parte alla campagna nord condotta da Quintus Petillius Cerialis. Alla fine del IV secolo, occupò Segedunum, il forte più orientale delle mura di Adriano, noto anche come Wallsend.

ARCO ROMANO DI LANGRES

LANGRES

Ormai, i Lingoni erano considerati dai romani come simili a loro, parlavano latino e avevano costumi romani. Otho aveva dato loro la cittadinanza, e alla fine del primo secolo, l'imperatore Domiziano, succeduto a suo padre, convertì la zona militare della Germania Superiore in una provincia normale.

Andematunnum continuò a prosperare giovandosi degli scambi commerciali con Roma e province, così, nel III secolo, il suo antico nome celtico venne dimenticato e la città fu semplicemente chiamata Lingones. Il nome moderno Langres deriva dal nome dell'antica tribù.

A causa del suo importante ruolo economico, Langres divenne un obiettivo naturale per le tribù germaniche, che invasero l'area dopo la metà del III secolo. Nel 298, la città fu saccheggiata dagli Alemanni, un'alleanza di tribù germaniche tra cui Catti, Naristi, Ermunduri, Iutungi e parte dei Semnoni, stanziate nella parte superiore del fiume Meno, oggi nel sud-ovest della Germania, ma i romani seppero ricacciarli.
Nel IV secolo i Lingones si convertirono al cristianesimo.
Nel 405, una delle tribù germaniche attraversò il Danubio e attaccò l'Italia. L'imperatore Onorio e il comandante supremo delle forze romane in Europa, Stilicho, trasferirono gli eserciti della Gallia nel nord Italia. Sapevano che altre tribù avrebbero attraversato il Reno, ma Stilicone calcolò che avrebbe potuto occuparsene in seguito. Tuttavia, la pressione germanica non poteva più resistere. Nell'inverno del 406/407, Suebians, Quadi, Vandals e Burgundians attraversarono il Reno e, senza opposizione, continuarono in Hispania.

Sebbene il vescovo Desiderius cercasse di difendere Langres, la città fu catturata e saccheggiata nel 411. Ciò che restava della città dei Lingones fu distrutto nel 451, quando gli Unni di Attila invasero la Gallia.

PONTE DI BOBBIO - PONTE DEL DIAVOLO

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Il Ponte Vecchio di Bobbio, lungo 273 metri, è stato denominato Ponte Gobbo per il particolare profilo irregolare con 11 archi diseguali tra loro e posti a diverse altezze, ma anche Ponte del Diavolo dalle fantasiose leggende cristiane che vi fiorirono.

Il ponte è di indubbia origine romana, sicuramente edificato a seguito della conquista romana dell'allora borgo ligure-celtico e soggetto a molti restauri e rifacimenti nelle epoche successive. L'insediamento romano di Castrum Bobium doveva avere un collegamento sicuro e veloce con le attività sulla sponda destra della Trebbia, vale a dire con le saline termali, cioè le terme di epoca romana, la fornace del rio Gambado e la strada di collegamento con il Genovese e la Lunigiana (dove il monastero bobbiese aveva numerosi possedimenti).



LE PIENE DEL FIUME

A causa del carattere torrentizio, la Trebbia ha piene improvvise e devastanti con frequente spostamento del letto in ghiaia, cosa che rende problematico il guado soprattutto nei mesi invernali. La parte alta della costruzione venne rifatta nel VII secolo ad opera dei monaci dell'abbazia di San Colombano. Inoltre negli Archivi storici bobiensi si trova un documento datato 6 aprile 1196 che testimonia la manutenzione del ponte.

Fino al XVI secolo il ponte era composto solo di un grande arco alla sponda destra della Trebbia con tre archi più piccoli. Con i disastri delle piene si dovette nel 1590 ricostruire e allungare verso la sponda sinistra, su disegno del maestro Magnano da Parma, nel corso del XVII secolo il ponte arrivò ad avere undici arcate.


A causa delle piene si ebbero parecchie riedificazioni e restauri:
- 1452 - crollano diverse arcate;
- 1472 - il fiume Trebbia, nonostante le benedizioni, distrugge gli argini a monte, travolgendo l'ospedale S. Lazzaro e danneggiando il ponte;
- 1533 - ricostruzione di alcune delle arcate cadute;
1611: cade la grande arcata della Spessa;
1655: crolla di nuovo la grande arcata, ricostruita solo nel 1672 e i due piccoli archi diventano un arco unico;
1719: il fiume distrugge la VI, VII e VIII arcata, la ricostruzione si protrae fino al 1759
1763 -1764 iniziano i lavori di difesa e consolidamento del ponte
1789: nonostante ciò crolla la VI arcata che viene ricostruita provvisoriamente in legno
1814: cade l'VIII arcata e dopo quattro anni inizia la ricostruzione
1971: il 28 gennaio alle ore 18,15 crolla di nuovo l'arco maggiore della Spessa, oggi il ponte è stato ricostruito com'era.

Il fatto è che i Romani capivano le piene e sapevano come arginarle a monte e come farle defluire attraverso canali e chiuse per salvaguardare i ponti e i territori, ma nel medioevo tutto questo sapere, anche grazie alla distruzione del 90% dei libri, andò perduto.



LA SACRALIZZAZIONE DEL PONTE

La denominazione Ponte Gobbo nacque da una leggenda per cui il diavolo costruì il ponte gobbo per dispetto nella speranza di allontanare, per mezzo del ponte, così ingobbito, gli abitanti dal monastero e dalla religione. Non si capisce perchè i fedeli si schifassero tanto delle gobbe del ponte, non risulta che nel medioevo avessero questo spiccato senso estetico, a meno che non pensassero che il suddetto, in quanto gobbo, avesse poca stabilità.

In realtà nel medioevo, la costruzione di un ponte era un'opera di grande ingegno, considerata cosa prodigiosa, in quanto la chiusura delle scuole e soprattutto il disfacimento dell'esercito romano che vantava strepitosi genieri e ingegneri, avevano procurato una paurosa decadenza delle arti e delle tecniche. 

Comunque, a causa della sacralizzazione del ponte, seppur nato per opera del diavolo, per secoli il ponte fu meta di pellegrini e processioni religiose con benedizioni e processioni, nonchè con la costruzione vicino agli argini di croci ed immagini votive (di cui alcune ancora oggi sono visibili).

Negli ultimi anni l'amministrazione comunale con le autorità preposte ha dato vita ad un ulteriore consolidamento, costruendo opere che frenino l'impetuosità del fiume con vari piccoli argini a monte. Ora il ponte è transitabile solo a piedi o in bicicletta, essendo la sua carreggiata abbastanza stretta.

Sul ponte compaiono a tutt'oggi tre coppie di edicole o crocini, sopra le campate maggiori. Nelle due sopra l'arco maggiore (detto della Spessa) sono presenti due statue, che raffigurano san Colombano e la Madonna dell'Aiuto. 

IL SANTO IRLANDESE-BOBBIANO

SAN COLOMBIANO

Fu un missionario Irlandese che vagò per l'Europa fino a Roma per il riconoscimento del Papa. Arrivato a Bobbio volle costruire una chiesa alla Madonna ma una fitta boscaglia ostacolava il trasporto dei materiali, allora san Colombano sollevò i tronchi come fuscelli, facendo il lavoro di trenta o quaranta uomini. La leggenda riferisce anche dell'episodio dell'orso che uscito dalla foresta avrebbe ucciso uno dei due buoi aggiogato all'aratro di un contadino, ma san Colombano avrebbe convinto l'orso a lasciarsi aggiogare all'aratro per terminare il lavoro al posto del bue.
LA VIABILITA' SUL PONTE

LE LEGGENDE

Molti ponti romani hanno dato luogo a leggende soprattutto legate alle opere del diavolo che all'epoca era stimato grande ingegnere e soprattutto si vedeva un po' dappertutto, in qualsiasi opera o avvenimento.

- Secondo una di queste leggende, il diavolo contattò san Colombano, promettendogli di costruire il ponte in una notte, in cambio della prima anima mortale che lo avrebbe attraversato. Che i santi avessero la facoltà di mandare le anime all'inferno o in paradiso è inedito, comunque il santo accettò, forse perchè teneva al ponte. 

Nella notte, il diavolo convocò vari diavoletti che lo aiutarono nell'edificazione del ponte, ma siccome erano di statura diversa fecero le varie arcate di altezze diverse. Al mattino, il diavolo si appostò sul ponte, ma San Colombano gli mandò un cagnetto. Il diavolo arrabbiato per tanto lavoro inutile, sferrò un calcio al ponte, che da allora è anche sghembo.

- In un'altra il Demonio costruisce il ponte senza gobbe e san Colombano fa attraversare il ponte da un asino; per cui il Diavolo, turlupinato, si gettò nella Trebbia sotto il ponte e la sua caduta in acqua deformò il ponte, non si sa perchè.

- Ancora in un'altra leggenda l'oste si confidò con un vecchio gobbo con il bastone, auspicando il collegamento della trattoria con la città con la deviazione della via commerciale verso Genova e Chiavari per aumentare le sue entrate. Il vecchio, che era il diavolo che passava da quelle parti, chiese se era disposto a vendere l'anima; l'altro annuì senza capire con chi aveva a che fare e gli strinse la mano. 

La mattina seguente il ponte apparve magicamente, ma la moglie dell'oste notò che la gente che vi passava si esprimeva con turpiloqui e bestemmie nel superare faticosamente le gobbe del ponte, e addirittura andava ad ubriacarsi per la stanchezza (!), finchè un giorno non riconobbe il diavolo sul ponte. Così la donna andò a messa e raccontò tutto al vescovo, che capì perché la gente veniva sempre meno a messa e con la moglie stabilì un piano. 

La sera, la donna invitò il vecchio a cena e lo fece abbuffare e ubriacare fino a quando si addormentò, mentre il Vescovo, con i parroci e alcuni parrocchiani rimastigli fedeli, iniziò a benedire il ponte e a costruire zone votive con croci e statue religiose (alcune ancora visibili). Il diavolo al suo risveglio vide il Vescovo che innalzava il suo pastorale al cielo. 

Allora il diavolo imprecò, ma prima di sparire maledisse il ponte e batté il suo bastone dicendo che ogni qual volta la religiosità sarebbe diminuita, avrebbe mandato delle piene della Trebbia a distruggere il ponte, che fu da allora denominato Gobbo o del Diavolo. Viene da chiedersi da che parte stesse questo diavolo, perchè se la religiosità diminuiva lui, avverso a Dio, avrebbe dovuto essere contento.



BIBLIO

- Michele Tosi - Bobbio Guida storica artistica e ambientale della città e dintorni - Archivi Storici Bobiensi - 1983
- Luigi Scaroina e Maria Carla Somma - Bovianum -
- Tabula Peutingeriana - La Regina - 1966 -

AMMIANO MARCELLINO - AMMIANUS MARCELLINUS

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AMMIANO MARCELLINO

Nome: Ammianus Marcellinus
Nascita: 330-332 circa ad Antiochia di Siria
Morte: 397-400 circa, a Roma
Professione: Storico romano


«Queste vicende, da ex militare e da greco, ho esposto secondo la misura delle mie forze, a partire dal principato dell'imperatore Nerva, fino alla morte di Valente; mai - credo - scientemente ho osato corrompere con silenzi o menzogne la mia opera, che fa professione di verità. Il resto lo scriva chi di me è più bravo, nel fiore dell'età e della cultura

(Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri, XXXI, 16, 9)

Di Ammiano Marcellino, ovvero Ammianus Marcellinus, non si conosce con precisione né la sua data di nascita né quella di morte. Il suo luogo di nascita emerge da una lettera inviatagli nel 392 dal suo concittadino Libanio, un filosofo siro, di lingua greca e di fede pagana, lettera che tuttavia non era diretta ad Ammiano Marcellino ma altro destinatario.

Nacque tra il 325 e il 332, nell'Oriente di lingua greca, probabilmente ad Antiochia di Siria sull'Oronte. Come data della sua morte, avvenuta a Roma si suppone il 397, la data non è certa ma sicuramente è avvenuta prima del 400.

Fu un militare ma soprattutto uno storico romano di età tardo imperiale, certamente il più importante del IV secolo, anche perchè, contrariamente alle tante opere distrutte dalla superstizione e dall'ignoranza, la sua opera rimase almeno in parte conservata.

Scrisse un grande racconto storico dell'antichità, proseguendo l'opera del grande storico Tacito, compilando così il penultimo libro storico dell'era antica, dato che l'ultimo fu scritto sarà di Procopio di Cesarea (490 - 560). 

Per quanto discendente di una famiglia di lingua greca, scrisse l'intera sua opera in latino, una cronaca della storia di Roma che andava dal 96 al 378, ma i libri superstiti della sua storia, i "Res Gestae" o i "Rerum gestarum libri XXXI", coprono solo gli anni dal 353 al 378. 



LA VITA

Ammiano esordì come giovanissimo soldato  nell'esercito di Costanzo II (317-361) imperatore d'Oriente e fu inviato a servire sotto Ursicino, governatore di Nisibis in Mesopotamia, e magister militum. Tornò in Italia con Ursicino, quando fu richiamato da Costanzo, e lo accompagnò nella spedizione contro Claudio Silvano, che era stato costretto dalle presunte ingiuste accuse dei suoi nemici a proclamarsi imperatore in Gallia.

COSTANZO I DI SIRIA
Con Ursicino si recò due volte in Oriente. In un'occasione fu separato da Ursicino e si rifugiò ad Amida (Diyarbakır in Turchia) durante l'assedio della città, che fu poi attaccata dal re sassanide Shapur II; riuscì a malapena a fuggire con la vita. Quando Ursicino perse la sua carica e il favore di Costanzo, Ammiano sembra aver condiviso la sua caduta in disgrazia, abbandonando l'esercito, ma sotto Giuliano (331-363), successore di Costanzo, riacquistò la sua posizione.

Accompagnò quindi Giuliano, che gli ridette gradi e posizione, per il quale esprime un'entusiastica ammirazione, nelle sue campagne contro gli Alamanni e i Sassanidi. Ammiano ebbe molta più tolleranza e flessibilità degli altri storici che lo avevano preceduto, per cui ammirò Giuliano per la stessa comprensione e tolleranza.

Dopo la morte di Giuliano, partecipò al ritiro di Gioviano fino ad Antiochia. Risiedeva ad Antiochia nel 372 quando si pensava che un Teodoro fosse stato identificato dalla divinazione come un nuovo imperatore, il successore di Valens. 



IL COMPLOTTO DI TEODORO (371- 372)

Un certo Procopio, aveva denunciato Anatolio e Spudasio (funzionari di palazzo, che si intendevano di pratiche magiche ed oroscopi) come rei di voler tramare contro il comes Fortunaziano. Questi fece interrogare due complici degli accusati, e Palladio, sotto tortura, rivelò che personaggi illustri erano venuti a conoscenza, tramite la divinazione, del nome del successore di Valente. 

Arrestati, i sospetti ammisero che la magia aveva predetto l’avvento di un ottimo principe, Teodoro, segretario di stato di secondo grado, a cui avevano già raccontato della predizione. Valente divenne furioso, mandò a prendere Teodoro e lo fece incarcerare. Voler sapere tramite magia il nome di un futuro imperatore era reato, così si iniziò a indagare negli ambienti pagani e molte persone furono arrestate e coinvolte nel processo. 



IL REGIME DEL TERRORE

Vennero uccisi non solo quelli che avevano fatto la predizione o erano a conoscenza dei fatti, come Teodoro, ma anche molti filosofi pagani tra cui Pasifilo, Simonide e Massimo di Efeso, e l’ex governatore di Bitinia Diogene, processato perché era ricco; l’ex vicario di Britannia Alipio, che perse il patrimonio ma si salvò; suo figlio Ierocle che fu bruciato vivo, sebbene innocente. Durante l’inchiesta furono trovati molti libri compromettenti che furono pure bruciati (Marcellino sostiene però che erano trattati di cultura e scienza o politici, bruciati per dimostrare la fondatezza delle accuse).

L’anno 372 si aprì con altri processi: Palladio, sfuggito alla morte purché dicesse tutto quello che sapeva della congiura di Teodoro, imperversava inventando false accuse che travolsero molte persone ricche e illustri in tutto l’Oriente (conseguenza fu che nelle province orientali i padroni bruciavano tutte le loro librerie); ma anche persone comuni: “alle terme fu visto un giovane avvicinare le dita delle due mani al marmo di una statua e al petto in modo alterno e contare le sette vocali (pensava fosse un rimedio al suo mal di stomaco); trascinato in giudizio, fu sottoposto a torture, poi gli fu tagliata la testa.

Così, chiarendo che egli parla come testimone oculare, Ammiano narra come Teodoro e molti altri furono fatti confessare il loro inganno attraverso la tortura, e crudelmente puniti.

GIULIANO

LA CARRIERA

Si definì egli stesso "un ex soldato e un greco" (miles quondam et graecus), e si era arruolato nell'elite dei protectores domestici, un titolo e un grado del tardo esercito romano, creato dagli imperatori Valeriano e Gallieno attorno al 253 e conferita agli ufficiali, esclusi quelli di rango senatoriale, dal grado di centurione in su, che fossero inseriti nell'esercito mobile a disposizione diretta dell'imperatore.

Ciò fa presupporre che Ammiano fosse di nobili origini, altrimenti tale carica non gli sarebbe stata concessa. I protectores provenivano da unità militari differenti e seguivano carriere differenti, dunque questo titolo, più che garantire l'appartenenza ad un determinato corpo, garantiva un rapporto privilegiato con lo stato maggiore dell'imperatore.

Pertanto i protectores appartenevano al collegio dei collaboratori militari di Gallieno, tanto è vero che è documentato almeno un princeps Protectorum. Tra i protectores più famosi di questa epoca vi sono Lucio Petronio Tauro Volusiano e Traiano Muciano.

Per quanto siriano Ammiano era convintissimo della missione civilizzatrice di Roma e del suo impero. «...Si forgiò un'anima tutta romana, costituendosi, in qualche modo, difensore di una civiltà che appariva tanto più preziosa quanto più si trovava minacciata...». 



LA RELIGIONE

Gli autori moderni lo descrivono generalmente come un pagano tollerante del cristianesimo. Marcellino scrive del cristianesimo come di una religione pura e semplice che esige solo ciò che è giusto e mite, e quando condanna le azioni dei cristiani, non lo fa sulla base del loro cristianesimo in quanto tale. 

La sua vita fu segnata dalle lotte settarie e dogmatiche della nuova fede sostenuta dallo Stato, spesso con conseguenze violente (soprattutto la controversia ariana) e questi conflitti gli apparivano a volte indegni, anche se non poteva rischiare troppe critiche, a causa delle crescenti connessioni politiche tra Chiesa e potere imperiale.

Non era cieco di fronte alle colpe dei cristiani e dei pagani; osservava nella sua Res Gestae che "nessuna bestia selvaggia è così mortale per gli uomini come la maggior parte dei cristiani lo è per gli altri" ma criticava il suo eroe Giuliano per l'eccessivo attaccamento al sacrificio (pagano) e per il suo editto che vietava di fatto ai cristiani di insegnare la filosofia pagana.

LA MORTE
Attorno al 380 si stabilì a Roma, dove trascorse il resto della sua vita, scrivendo le sue Res Gestae, e forse diffondendone i contenuti mediante letture pubbliche L'anno preciso della sua morte è sconosciuto, ma il consenso degli studiosi lo colloca tra il 392 e, al più tardi, il 400, anno in cui, verosimilmente, terminò di scrivere le Res Gestae,.

A Roma scrisse in latino una storia dell'impero romano dall'adesione di Nerva (96) alla morte di Valente nella battaglia di Adrianopoli (378), scrivendo in effetti una continuazione della storia di Tacito. 

Probabilmente completò l'opera prima del 391, poiché elogia il Serapeo in Egitto come gloria dell'impero; ma in quell'anno Nerva concesse il terreno del tempio al vescovo cristiano, il che provocò i pagani a barricarsi nel tempio, saccheggiandone il contenuto e torturando i cristiani, portando alla distruzione del tempio nella conseguente violenza della folla. 

La Res Gestae (Rerum gestarum Libri XXXI) era originariamente in trentuno libri, ma i primi tredici sono andati perduti (lo storico moderno T.D. Barnes sostiene che l'originale era in realtà di trentasei libri, il che significa che diciotto libri sono andati perduti). I diciotto libri sopravvissuti coprono il periodo da 353 a 378. 

Nel complesso è stato considerato estremamente prezioso, essendo un resoconto chiaro, completo e in generale imparziale degli eventi da parte di un contemporaneo. Come molti storici antichi, Ammiano  contrapponeva Costanzo II a Giuliano, a costante svantaggio del primo; come tutti gli scrittori antichi era abile nella retorica, e questo si vede nella sua opera.



LA STAMPA

I suoi primi tredici libri sono andati perduti, i restanti diciotto sono corrotti e lacunosi. L'unico manoscritto superstite da cui deriva quasi ogni altro è un testo carolingio del IX secolo, Vaticano lat. 1873, prodotto in Fulda da un esemplare insulare. L'unica fonte testuale indipendente per Ammiano si trova nella Fragmenta Marbugensia, un altro codice franco del IX secolo, che fu smontato per fornire le copertine dei libri contabili durante il XV secolo. 

Solo sei fogli di Marcellino sopravvivono; ma prima che il manoscritto venisse smantellato, l'abate di Hersfeld lo prestò a Sigismund Gelenius, che lo utilizzò per preparare il testo della seconda edizione di Froben. Le date e la relazione di Vaticano e Marcellino vennero contestate fino al 1936, quando R. P. Robinson dimostrò che il primo era stato copiato dal secondo. 

Venne stampata a Roma nel 1474 da Georg Sachsel e Bartholomaeus Golsch, da "il peggiore dei therecentiores", che si fermò alla fine del Libro 26. L'edizione successiva (Bologna, 1517) soffrì per le "congetture mostruosamente cattive del suo editore" sul povero testo dell'edizione del 1474; l'edizione del 1474 fu pirata per la prima edizione di Froben (Basilea, 1518). 

Solo nel 1533 gli ultimi cinque libri della storia di Ammiano furono stampati da Silvano Otmar e curati da Mariangelus Accursius. La prima edizione moderna fu prodotta dalla C.U. Clark (Berlino, 1910-1913). Le prime traduzioni in inglese furono di Philemon Holland nel 1609, e successivamente di C.D. Yonge nel 1862.

TEODOSIO

I CONTENUTI   

L'opera fu scritta a Roma agli inizi degli anni ottanta del IV secolo e divulgata tramite letture pubbliche nel decennio successivo e I diciotto libri sopravvissuti riguardano il periodo compreso dal 353 al 378. Essa inizia dall'ascesa di Nerva, nel 96, alla morte di Valente nella Battaglia di Adrianopoli del 378, per continuare, a detta dell'autore, la storia di tre secoli prima scritta da Tacito.

Vi si narra la guerra contro i Goti, culminata, nel 378, con la disastrosa sconfitta militare di Adrianopoli subita dall'imperatore Valente, rimasto ucciso in battaglia, che spaventò l'autore e tutto il mondo romano. Dopo una breve ripresa durante il regno di Teodosio I (379-395) e l'età di Stilicone (395-408), in Occidente iniziò uno smembramento che portò a vari stati indipendenti romano-germanici in occidente, mentre in Oriente si sarebbe un impero romano-greco o bizantino.
Ammiano nutre ancora speranze ma nota già i segni del disfacimento: l'eccessiva pressione fiscale, la decadenza economica e finanziaria delle classi medie e, soprattutto, il declino progressivo dello spirito militare e patriottico di un esercito costituito in gran parte da barbari.
La società ha ormai costumi barbarici, dove dominano ferocia, violenza, tradimenti,  torture, delazione, adulazioni e giochi di potere tra i potenti cortigiani, oltre alle denunce degli "agentes in rebus" (il servizio di spionaggio). In Ammiano gli uomini sono dominati dall'irrazionale, del magico, del demoniaco, della magia, dell'astrologia.
Dopo le persecuzioni dei cristiani, nel 311 Galerio emanò l'Editto di Serdica che concedeva ai cristiani il perdono, poi confermata dall'imperatore Giuliano (r 361-363) e da Costantino I, che accordò al cristianesimo lo status di "religio licita" nell'"Editto di Milano" del 313. Gli ultimi strascichi delle persecuzioni si sovrapposero alle prime persecuzioni degli eretici, a cui fecero seguito, pochi decenni più tardi, le persecuzioni dei pagani.



LA CRITICA

Si è spesso pensato che l'opera di Ammiano fosse destinata alla recitazione pubblica per le molte "accentual clausulae", utili per la lettura; e l'epistola 1063 di Libanio a un Marcello di Roma si riferisce alle recitazioni pubbliche. Tuttavia tali clausule erano piuttosto diffuse e probabilmente Libanio si rivolgeva a un uomo più giovane di Ammiano, ma la cosa non è certa.

Stupisce che Ammiano, un soldato professionista, si intenda di problemi sociali ed economici, e con atteggiamento verso i popoli non romani dell'impero molto più aperto di Livio e Tacito; particolarmente interessanti le sue divagazioni sui paesi visitati. I suoi racconti di battaglie sottolineano l'esperienza dei soldati, ma non il quadro generale, per cui non si capisce il perchè del risultato che hanno avuto.

Ammiano descrisse dettagliatamente lo tsunami che il 21 luglio 365 ha devastato la metropoli e le coste del Mediterraneo orientale. Il suo rapporto descrive accuratamente la caratteristica sequenza di terremoto, ritiro del mare e improvvisa onda gigante.

Edward Gibbon, storico del XVIII secolo su Ammiano:
«una guida esatta e degna di fede, che ha composto la storia del suo tempo senza indulgere nei pregiudizi e nelle passioni che affliggono solitamente la mente di un contemporaneo»
(Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire)

Benché pagano, Ammiano non prova animosità verso i cristiani e con questo animo riferisce della persecuzione sui difensori di Nicea da parte dell'imperatore Costanzo, cristiano ma di confessione ariana.
E rispetto a Gesù Cristo:
"A riguardo di quelli che dicono che c'era un tempo quando Egli non c'era, e prima di essere generato non c'era,e che affermano che è stato fatto dal nulla o da un'altra sostanza o essenza,o che il Figlio di Dio è una creatura, o alterabile o mutevole, la santa cattolica e apostolica Chiesa li anatematizza".
Così il Concilio di Nicea del 325 anatematizza le tipiche affermazioni degli Ariani, colpendo gli ariani di anatema
(la scomunica solennemente lanciata contro eretici e scismatici.)."
E' un'opera di eccezionale valore storico e documentario e un resoconto libero, completo e imparziale degli eventi, scritti con onestà intellettuale, preparazione militare, giudizio indipendente e ampie letture, e con una notevole forza retorica della sua narrazione.
Di grande interesse risultano le sue digressioni sui vari paesi che aveva visitato sia come militare, sia come privato cittadino, dopo aver lasciato, all'età di circa quarant'anni, il servizio attivo nell'esercito.



BIBLIO

- Ammiano Marcellino - Rerum gestarum libri - XXXI -
- Pierre-Marie Camus - Ammien Marcellin - Parigi - Les Belles Lettres - 1967 -
- Ronald Syme -  Ammianus and the Historia Augusta, Oxford at The Clarendon, Oxford University Press - 1968 -
- De ratione quae intercedat inter Zosimi et Amm. de bello a Juliano imp. cum Persis gesto relationes - Bonn - 1870 -
- J. Gimazane - A. Marcellin, sa vie et son oeuvre - Bordeaux - 1889 -- Theodor Mommsen - Codex Theodosianus - editore critico con Paul Meyer, 1905 [postumo]) -

VIA FULVIA

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IL DECUMANO MASSIMO CHE ATTRAVERSA VIA GARIBALDI - TORINO
La Via Fulvia era una strada romana, che da Tortona, passando a sud della sponda destra del fiume Po andava in direzione ovest fino a Torino, collegando le strade provenienti da Roma e dall'Italia nordorientale (via Postumia, via Julia Augusta) con le strade transalpine che partivano da Torino (via Cozia, via Domizia).

Il nome della via non lo conosciamo ma gli studiosi l'hanno assegnato al valoroso costruttore, Marco Fulvio Flacco, console nel 125 a.c.. A supporto di questa assegnazione vi è la presenza lungo il tracciato del Forum Fulvii.



MARCO FULVIO FLACCO

Nel 132 a.c. Marco Fulvio Flacco preparò con Caio Gracco un procedimento contro gli assassini di Tiberio, tra i quali si suppone vi fosse Scipione Emiliano. Nel 130 a.c., eletto triumviro, fu incaricato di attuare la legge agraria di Tiberio Gracco, per la divisione delle terre tra le città alleate.

Nel 125 a.c. eletto console propose una legge per cui, se avesse ottenuto i suffragi del Senato, avrebbe avrebbe evitato tante guerre nei decenni successivi: La legge avrebbe concesso la cittadinanza ai Latini e ai soci Italici ma il Senato rifiutò.

Nel 124 a.c. fu proconsole in Gallia e fu inviato dal Senato a Massalia (Marsiglia) che invocò l'aiuto dei romani contro i Liguri Transalpini, i Celti Voconzi e i Salluvi. Fulvio vinse e ottenne tre trionfi. Nel 121 a.c. Fulvio fu a capo delle bande armate dei gracchiani durante la battaglia dell'Aventino, con in tutto tremilacinquecento uomini. I gracchiani si sbandarono, Flacco e suo figlio fuggirono ma vennero trovati e strangolati.

Plutarco, che sta dalla parte degli ottimati lo descrive come un agitatore nato e Cicerone commenta che fu più uno studioso di letteratura che un oratore. Sul suo vergognoso assassinio nemmeno una riga.

Fu proprio lui, Marco Fulvio Flacco a far eseguire la strada tra il 125 a.c. e il 123 a.c. (negli stessi anni della deduzione della colonia di Hasta), mentre combatteva per Roma nel territorio dei Liguri, per collegare la prima colonia romana nel loro territorio, Dertona, con Augusta Taurinorum e il territorio celtico.

A partire dal III secolo d.c., iniziò il declino economico e demografico di Hasta e del Piemonte meridionale e la via Fulvia fu progressivamente abbandonata. Sono stati individuati numerosi rifacimenti della strada sicuramente a causa di alluvioni e straripamenti del fiume Tanaro. Solo parti del tracciato sono ripercorse da strade moderne.

IL TRACCIATO

IL TRACCIATO

La Tabula Peutingeriana riporta un percorso che unisce Derthona a Augusta Taurinorum passando per Forum Fulvi e Hasta, riportando la distanza tra Derthona e Augusta Taurinorum a 68 miglia. La via Fulvia costituiva il decumano massimo di Hasta (odierno corso Alfieri).

Probabilmente passava anche per Carrea Potentia, (Chieri), ed entrava a Torino attraverso la Porta Decumana, nel Medioevo detta Porta Castello. Delle pietre miliari: Quarto Inferiore era Ad Quartum, Castello di Annone era Ad Nonum, Dusino era Ad Duodecimum, Quattordio era Ad Quattuordecim.


"Tratto della via Fulvia, di larghezza tra i 9 e i 12 metri, scoperto ad ovest di Villa del Foro, in località San Damiano. Ai lati della strada sorgevano botteghe artigianali per la lavorazione di metalli (un forno) e ceramica e inoltre aree funerarie della prima età imperiale. 
Le necropoli si trovavano in prossimità dell'abitato nelle zone nord e sud-ovest, vicino al Tanaro. Sono emersi inoltre i resti di grandi domus con ambienti riscaldati e pavimenti musivi ed un collettore fognario."

TORRE ROSSA

LE IPOTESI SUL PERCORSO FINALE DI VIA FULVIA


I IPOTESI: POLLENZO - TORINO

Secondo il Rodolfo, da Pollenzo la Via Fulvia, attraversati gli attuali territori di Bra, Cavallermaggiore, Racconigi e Carmagnola, percorreva verso nord i territori di Carignano, La Loggia e Moncalieri, entrando poi in Torino (Augusta Taurinorum) da sud.
Più precisamente, dopo La Loggia la Via Fulvia varcava il fiume Chisola e il Sangone, passando presso la cappella medievale di San Salvatore di Campagna, che compare in un atto di donazione del 1119. Attraversava quindi la regione dells stazione ferroviaria di Porta Nuova, passando accanto all'anfiteatro romano e giungeva alle mura di Augusta Taurinorum, e alla Porta Principalis Sinistra, dove furono rinvenute delle tombe romane del I sec. d.c.
L'esistenza del tracciato stradale romano è attestata nel XII e XIII secolo, attraverso le denominazioni di strata e di publica.
Sussistono tracce di selciato scoperte in diversi punti; necropoli romane (ad incinerazione e ad inumazione) e cimiteri barbarici, disseminati lungo l'intero percorso, spesso in corrispondenza o nei pressi di antiche cappelle; un pozzo romano vicino a Carignano.
I numerosi corredi tombali rinvenuti nelle necropoli romane, riportano all'inizio del I sec. d.C., ma due ritrovamenti datano con maggior precisione la costruzione della strada: uno è la splendida coppa vitrea fioristellata ellenistica, forse importata da Alessandria d'Egitto, e trovata sopra una moneta di Druso nella necropoli romana di Valdoch a Carignano; l'altro è un'iscrizione che si trovava a San Salvatore di Campagna, una delle più antiche iscrizioni torinesi, attribuibile all'età di Augusto o di Tiberio.


II IPOTESI:  ASTI - TORINO

Qui la Via Fulvia, uscita da Asti e superato Dusino (Duodecimum), sarebbe giunta nel territorio di Chieri (Carreum Potentia) e poi a Torino. Gli studiosi ipotizzano vari percorsi:

ARA DI HASTA
- Corradi: 
Dusino-Riva-Chieri (oggi SS n.10) oppure Dusino-Poirino-Testona (oggi SS n.29),
- Settia: 
Buttigliera-Chieri-Torino attraverso la collina nei pressi dell'Eremo dei Camaldolesi. Più in dettaglio, la strada avrebbe seguito il percorso: strada Roaschia, Tetti e via Pietra del Gallo (latino Peregallum, da Petricale, mura di sassi), Eremo, Val Salice o Val San Martino. Questo itinerario, chiamato nei catasti chieresi del 1253 Strata longa Mongenoni, sarebbe stato soppiantato nel Medioevo dal più agevole e breve transito attraverso il valico di Montosolo (presso Pino Torinese).
- Vanetti: 
Dusino-Borghetto-Corveglia-Vadum Banne-Banna-Cascina Zucchea-Rivetta-Porcile-Via Alta-Cascina Termine-Ponticelli-Fabaro-Hospitalle harenarum-Testona. qui la Via Fulvia sarebbe la più scorrevole e adatta al traffico pesante, stesso tracciato dell'attuale autostrada A 21.



TORRE ROSSA 

Ad Asti: una delle due torri a base poligonale (16 lati) della porta occidentale che si apriva nelle mura di Asti lungo il decumano massimo, del I secolo d.c.; della seconda torre, sull’altro lato del decumano massimo, non è ancora stata individuata alcuna traccia.

Nell'XI fu sopraelevata di due piani e utilizzata come campanile prima per la chiesa di S. Secondo (denominata appunto “della Torre Rossa”) e dal 1766 per quella di S. Caterina.  Le due torri dovevano inquadrare una facciata in cui si aprivano i fornici d’ingresso. 

VILLA ROMANA DI HASTA

FORUM FULVII

«Forum Fulvii quod Valentinum dicitur»
(Plinio il Vecchio)

Forum Fulvii, fine II secolo a.c. venne fondata dal console M. Fulvio Flacco, impegnato in una campagna militare contro le popolazioni di Salluvii e Vocontii in supporto della città di Massalia.

Venne aperta per l'occasione una grande strada consolare, la via Fulvia con diversi centri lungo il suo percorso. Molti di essi inoltre, tra cui lo stesso Forum Fulvii, assegnando terre ai veterani congedati e magari originari delle zone stesse.

Il Forum Fulvii fu assegnato alla Tribus Pollia e ottenne la cittadinanza latina nell'89 a.c., la cittadinanza romana nel 49 a.c. e nel 42 a.c., divenne municipio, inserita nella Regio IX Liguria in seguito alla riforma di Augusto

A partire dal III secolo d.c., con la crisi dell'Impero, Forum Fulvii declinò con un progressivo spopolamento e una perdita di importanza della via consolare, a cui furono preferiti altri percorsi causando quindi un decentramento degli interessi economici e commerciali. 


BIBLIO


- E. Zanda, M. C. Preacco Ancona, M. Somà - Nuclei di necropoli di Forum Fulvii e Hasta -  Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte - Torino - Soprintendenza Archeologica del Piemonte - 1994 -
- Le strade dell'Italia romana - DEA Store - Milano - 2004 -
- Romolo A. Staccioli - Strade romane - L'Erma di Bretschneider -
- Renato Del Ponte - I Liguri, Etnogenesi di un popolo - ECIG - Genova - 1999 -

    ALIPHAE - ALIFE (Campania)

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    LE MURA ROMANE
    L'antica città di Aliphae, oggi Alife, è situata alle pendici del versante meridionale del Massiccio del Matese dell'Appennino sannita, compreso nelle regioni Molise e Campania, distante 45 km da Caserta. L'etimologia del nome Alife non è certa, ma dovrebbe derivare dal termine greco Elaias (oliva), anche se per altri sarebbe invece il termine latino Aliphae, alludendo all'antica varietà autoctona di olivo chiamata 'tonda allifa'.

    - La scrittura sabellica era ALIPHA, rinvenuta su su una moneta d'argento del IV a.c.; - la forma osca è grecizzata in ALIOHA;
    - In greco è Ἀλλιφαί secondo Strabone e Diodoro Siculo;
    - Ἄλλιφα invece per Tolomeo;
    - per i romani è Allifae, con qualche variante, nominata da Silio Italico, Plinio il Giovane, Cicerone, Orazio ed altri.
     
    ALIFE (INGRANDIBILE)
    Alife ha origine osca (popolazione indoeuropea di ceppo sannitico della Campania pre-romana, del gruppo osco-umbro) e/o sannita (popolazioni italiche abitanti l'area della dorsale appenninica centrale e meridionale).

    Fece parte della regio augustea I del Latium et Campania. La cinta muraria racchiude una superficie di ca. 24 ettari con una popolazione stimata in circa 5.000/6.000 abitanti.

    Alife coniava moneta propria  già nel IV secolo a.c. Numerose le sepolture di età sannitica rinvenute in località Conca d'Oro. Alife moderna conserva gran parte dello schema urbanistico dell’Allifae romana, con la caratteristica griglia rettangolare con cardo massimo e decumano massimo e le loro vie derivate che ne delineano gli isolati rettangolari.

    Le quattro porte, poste al centro delle quattro mura, davano accesso alla città tramite i due assi stradali principali. Al centro della città si apriva la piazza principale, il foro, riparato ai suoi bordi da portici con retrostanti botteghe (sotto l’attuale Ufficio Postale), mentre nei pressi sorgevano il teatro e alcuni edifici termali (nella cripta della Cattedrale).

    LE MURA
    Molto interessante il vasto criptoportico recentemente aperto al pubblico. In più punti sono stati individuate strutture relative a ricche case private con pavimenti a mosaico e pareti affrescate.

    Nel 326 a.c. i Romani conquistarono gli oppida di Allifae, Callifae e Rufrium, dovendola poi riconsegnare in mano sannita. Venne però riconquistata dai Romani nel 310 a.c. ad opera del console C. Marcius Rutilus, ma due anni più tardi, nei pressi di Allifae, Romani e Sanniti si scontrarono in una battaglia dall’esito incerto. 
    E' ANCORA VISIBILE L'IMPIANTO ROMANO DELLE STRADE
    9Successivamente il centro fu di nuovo sotto il controllo sannitico, una fase a cui dovrebbero riferirsi alcune emissioni monetali in bronzo, rappresentate da pochissimi esemplari, databili attorno al 270-260 a.c. Più o meno nel 268 a.c. o poco dopo, a conclusione del fallimento della spedizione di Pirro in Italia, il territorio alifano venne incorporato da Roma.

    In sostanza Alife combattè contro l'espansionismo di Roma dal 343 al 290 a.c., finendo comunque per essere distrutta durante le guerre sannitiche. Ma venne poi dagli stessi romani riedificata come oppidum, a controllo della valle del Volturno, con il caratteristico impianto romano, con decumano massimo e cardine massimo. 

    In età Sillana vi fu il trasferimento di una colonia di ex legionari e in questo periodo la città si dotò di una cinta muraria contemporaneamente ad una nuova sistemazione dei terreni agricoli facenti parte del suo territorio, attraverso la centuriazione, cioè la spartizione dei terreni in parti regolari da affidare agli ex legionari, divenendo "Colonia Allifanorum".

    Venne quindi iscritta alla tribù Teretina e incorporata come praefectura sine suffragio nella repubblica romana, per essere poi trasformata in municipium Romanorum, con governo proprio di decurioni, decemviri, questori, censori, edili e pontefici.

    BASSORILIEVO DI TROFEI
    Le lapidi rinvenute ci hanno dato varie informazioni sull'Alife romana. Del Calendario alifano si conservano frammenti dei giorni 11-19 agosto e 22-29 agosto; interessa la menzione del Circo alifano, del quale, a differenza dell'Anfiteatro e del Teatro, si è persa ogni traccia.

    La città romana, circondata da mura tuttora esistenti, rimase abitata per tutto il medioevo, nonostante assedi e saccheggi, infatti le mura vennero restaurate in età medioevale, con torri alternate circolari e quadrangolari.

    Fuori delle mura, lungo i principali assi stradali, si sviluppavano le necropoli di cui restano alcuni imponenti mausolei, in particolare, presso il Comune, quello degli “Acilii” con magnifica cupola, all’interno del quale vi è una mostra sulle necropoli alifane.

    Non troppo distante è stato recentemente aperto al pubblico l’anfiteatro con un interessante apparato didattico. Nel Museo archeologico sono esposte notevoli testimonianze dell’Allifae sannitica con una serie di corredi sepolcrali databili dal VII al III secolo a.c., oltre ad alcuni affreschi recuperati nelle case di epoca romana della città.

    LA CATTEDRALE DI ALIFE CON COLONNE ROMANE

    EDIFICI ROMANI SOTTO LA CATTEDRALE

    Diversi scavi in vari periodi hanno interessato la Cripta della cattedrale, ponendo in luce alcuni ambienti riscaldati e un sistema di canalizzazioni idrauliche. Uno dei muri crollati era rivestito da un affresco, raffigurante partizioni architettoniche, databile agli ultimi decenni del I secolo a.c..

    In passato, nell’area della facciata della cattedrale, furono individuati due ambienti con pavimenti in marmo e a mosaico. Nel complesso è stato ipoteticamente riconosciuto un impianto termale pubblico, tuttavia non è del tutto da escludere la pertinenza di tali ambienti ad una ricca casa privata dotata di sale termali.



    IL TEATRO ROMANO

    Il teatro, posto presso la Cattedrale, presentava un diametro esterno di circa 56 metri e doveva elevarsi per almeno 13, costituendo uno degli elementi più imponenti nel panorama urbano, con una capienza di 2800-3000 spettatori.

    L'edificio risale ad età augustea, con successivi restauri e ampliamenti; come di consueto venne ornato con statue e magnifici marmi policromi, in gran parte riutilizzati nella cripta della Cattedrale. Attualmente quasi nulla resta in vista, ma l’isolato di case medioevali che vi si imposta conserva la tipica pianta a semicerchio.

    L'ANFITEATRO SOTTO I PALAZZI

    L'ANFITEATRO ROMANO

    L’anfiteatro, recentemente aperto al pubblico, è collocato all’esterno del circuito murario, subito al di fuori di porta Napoli. La struttura è visibile solo nella metà meridionale in quanto l’altra metà giace coperta da alcune palazzine e dalla Strada Provinciale (sigh!).

    Posto come di consueto aldifuori delle mura cittadine, l'anfiteatro aveva una potenziale capienza di 14.000 spettatori, tanto da annoverarsi tra i più grandi dell’Impero Romano. Gli assi maggiori misurano 107 metri per 84 e dovevano elevarsi fino ad un’altezza di 20 metri, il che gli permetteva di accogliere così tanti spettatori.

    Degli studi però hanno riscontrato una seconda fase costruttiva che ne ridusse l’altezza (forse per ragioni di stabilità visto la notevole altezza) ricavandone invece una tribuna interna destinata ai cittadini più illustri. 

    Sicuramente qui i eseguivano i ludi gladiatori, inevitabile, visto che nella vicina Capua il suo anfiteatro fu un vero e proprio centro per i Gladiatori, con la più grande Scuola Gladiatorum del mondo romano, attiva già dal 70 a.c..

    ANFITEATRO COM'ERA
    Nel 1976, tramite a delle riprese aeree, si capì che l’assenza di vegetazione su un suolo agricolo, poteva essere sintomo di una struttura sottostante, la cui forma riportava alla mente proprio l’idea di un’arena romana.

    Pertanto vennero iniziati gli scavi poco fuori Porta Napoli, all’esterno della cinta muraria scoprendo l’Anfiteatro romano, purtroppo oggi ancora sepolto per metà, in quanto, sul terreno interessato dallo scavo sorgono parecchie strutture abitative.

    Il Monumento fu poi progressivamente smantellato per il riuso dei materiali edilizi nella costruzione anzitutto delle chiese e poi dei ricchi palazzi aristocratici. L’Anfiteatro è stato datato ai primi decenni del I secolo d.c., quindi in età augustea, per il rinvenimento di parte di un’iscrizione dedicatoria.

    Nell’Anfiteatro di oggi, restaurato in parte ma non ancora dissotterrato nella maggior parte del suo monumento, si svolgono attività ricreative, eventi musicali e teatrali, ed è sempre possibile visitarlo.

    IL MAUSOLEO DEGLI ACILII GLABRIONES

    IL MAUSOLEO DEGLI ACILII GLABRIONES

    Nella piazza presso il Municipio svetta il mausoleo degli Acilii Glabriones, conosciuto anche come Torre di San Giovanni, adibito a monumento funerario, una struttura cilindrica coperto a cupola, su basamento quadrato.

    Il Mausoleo è situato tra l’Anfiteatro romano e la cinta muraria, appena fuori Porta Napoli, così chiamato perchè diversi storici lo attribuiscono alla nobile famiglia degli Acilii Glabriones, databile in età augustea, alla la prima metà del I secolo d.c.

    L’edificio, a pianta circolare, ha gli sviluppi proporzionali del Pantheon di Roma e il suo spazio interno può contenere una sfera del diametro di 9 metri. La poderosa volta emisferica è sostenuta da un tamburo in laterizio cui segue una striscia di “opus incertum”, lo stesso materiale del quale sono costituite le mura di Alife.
    IL MAUSOLEO OGGI
    Nello spessore delle mura a tamburo, all’interno, sono incassate 8 nicchie cieche a base rettangolare e rivestite in mattoni. L'edificio circolare era a sua volta sostenuto da un edificio quadrato.

    La cupola semisferica è caratterizzata da una intelaiatura di legno su cui veniva gettata la malta, ovvero un misto di pozzolana, pietre triturate e calce. La cupola terminava poi con un’apertura che è stata successivamente chiusa. 

    Subì alcuni alcuni restauri, compresi quelli voluti dal grande Amadeo Maiuri, uno dei maggiori archeologi italiani del secolo scorso, che dispose la rimozione dell’intonaco dalla struttura e fece aprire alcune finestre.  


    All’interno, sulle pareti, sono incassate 8 nicchie rettangolari cieche a base rettangolare e rivestite in mattoni, destinate a contenere i loculi funerari. Il pavimento attuale è in cemento perché l’area ha purtroppo subito diversi scavi che l'hanno devastata. 

    L’esterno era interamente rivestito di bianco calcare e all’altezza di circa 2 metri dall’attuale piano di calpestio, è presente una cornice in pietra che appare sospesa essendo stati asportati i blocchi sottostanti. 

    Resta qualche traccia delle nicchie esterne che un tempo si alternavano a quelle interne, dove probabilmente erano ospitate opere di scultura. Il piano di calpestio attuale è più alto di circa 2 metri rispetto a quello originario.

    Nell’846 d.c. l’edificio fu convertito in chiesa dall’Ordine di San Giovanni Gerosolimitano, e e questo è l'unico motivo per cui non ha fatto la fine di quasi tutti i monumenti romani, cioè distrutto, chiesa che venne dedicata a San Giovanni Gerosolimitano.  

    L'INTERNO DEL MAUSOLEO
    Di questa trasformazione resta l’acquasantiera, collocata sulla destra dell’attuale entrata, e in un altare che è stato demolito dal quale si intravede una piccola arcata, con tutta probabilità l’ingresso originario del mausoleo. 

    Ma vi è stata collocata oggi una sepoltura che non appartiene all’edificio: si tratta di una tomba di età pre-romanica, quindi sannitica, ritrovata presso la Conca d’Oro di Alife, un terreno agricolo non molto lontano dal centro abitato.

    Nel Medioevo, grazie alla sua posizione strategica, l’edificio fu utilizzato come torre di guardia per avvisare la popolazione delle incursioni dei nemici. Infine, nel 1924, divenne una cappella votiva dedicata ai Caduti.

    Purtroppo, a seguito della rimozione della copertura originale in tegole e della sottostante struttura in legno, i due tubi in ceramica che sono stati posizionati per far defluire l’acqua si sono otturati a causa di agenti “naturali” e quando piove a dirotto si crea un’infiltrazione che purtroppo, a lungo andare, potrà arrecare danni consistenti alla struttura.

    Si spera che vengano organizzate le opportune operazioni per scongiurare il decadimento dell'opera. All’interno oggi, in alcune date particolari, si organizzano mostre fotografiche e artistiche a scopo divulgativo e culturale.

    IL CRIPTOPORTICO

    IL CRIPTOPORTICO

    Collocato nella zona nord-est di Alife, vi è un criptoportico monumentale, con una planimetria a tre bracci disposti attorno ad un’area centrale, i cui bracci laterali misurano m 27,50 e quello centrale centrale m 44,00.
    Miracolosamente conservata questa struttura oggi sotterranea, per questo si è salvata dalla selvaggia distruzione di ogni reperto romano, resta un mistero per la sua destinazione. In base alla tecnica edilizia e ai vari reperti, è stata datata alla ricca età Augustea.
    Nelle navate interne si aprono 21 arcate che immettono nell’area centrale la quale presentava, sul livello superiore, un’altra area porticata, ovvero un vero e proprio peristilio. 
    Evidentemente il Criptoportico era la sostruzione di una importante struttura realizzata al di sopra di esso, o un edificio pubblico, o una ricca domus privata.

    Secondo alcuni studiosi si tratterebbe della domus degli Aedii o Granii, le più importanti famiglie urbane di rango senatorio; ai proprietari del complesso potrebbe essere riferibile anche il vicino mausoleo, sinora attribuito, ma senza un'assoluta certezza, alla famiglia degli Acilii Glabriones.

    Durante gli scavi si distinsero ben trecento strati diversi di deposito, il che dimostra l'abitazione ininterrotta del sito, nei cui strati sono stati rinvenuti monete, piccoli monili e lucerne, esposte nel Museo Archeologico Nazionale di Alife.

    LE MURA

    LE MURA 

    Le mura hanno uno sviluppo complessivo di circa 1,9 km. Il perimetro murario è rafforzato da torri, alternativamente circolari e quadrate (ai quattro angoli ottagonali), disposte ad intervalli regolari di 39 metri. 

    Il perimetro murario è rafforzato da torri in corrispondenza del decumano maggiore (Via Roma – Via Napoli) e del cardo maggiore (via A. Vessella – Via G. Trutta), dove si aprono le porte urbiche, veri e propri archi romani, che danno l’accesso alla città, un tempo dotate di quattro massicce porte lignee apribili dall'interno.
    Le mura avevano un forte spessore, tanto da consentire i camminamenti e le stanze di guardia da una torre all’altra, così da permettere alle truppe di spostarsi lungo il perimetro ove necessitasse. 

    LE TORRI DELLE MURA
    Potevano accogliere anche un piccolo carro per trasportare armi, armature, ma soprattutto per gli strumenti meccanici come baliste con le varie pietre da gittata, nonchè la pece bollente, in caso di assedio.

    All’interno delle mura sono ancora visibili tracce del vecchio castello collegato alle mura e un Torrione, ormai poco stabile (che andrebbe rafforzato), che si erge ancora a difesa tra Porta Napoli e Porta Piedimonte.

    Parti delle mura del castello, che si collegavano alle mura di Porta Napoli, ormai fanno parte di una serie di abitazioni abusive, di cui andrebbe liberato il prezioso monumento.

    LA PORTA ROMANA

    LE PORTE

    All’asse stradale principale della città, chiamato decumano massimo, corrispondeva:
    - la Porta Urbica Orientale o Porta Praetoria (l’attuale Porta Napoli),
    - dalla parte opposta la Porta Urbica Occidentale o Porta Decumana (l’attuale Porta Roma).

    All’asse secondario, chiamato cardine massimo corrispondeva: - la Porta Urbica Meridionale o Porta Principalis Sinixtra (l’attuale Porta Fiume)
    - dalla parte opposta, la Porta Urbica Settentrionale o Porta Principalis Dextra (l’attuale Porta Piedimonte).

    Le suddette porte erano realizzate con il sistema a 'cavedium', un particolare sistema architettonico che prevedeva, oltre la porta principale, una doppia porta, per offrire una ulteriore difesa sui punti più delicati della possente muraglia che, in origine, era provvista alla sommità di merli (che non sono un'invenzione medievale), lungo tutto il suo notevole perimetro che si estendeva linearmente per quasi due chilometri e per un’ altezza di ben 12 metri.



    MONUMENTI DA SCOPRIRE

    Si sa che sotto il moderno centro cittadino dovrebbero esistere ancora (se non furono totalmente depredati e distrutti) i monumenti del Capitolium, presumibilmente presso l’area forense, nella zona di via Anfiteatro (schede ubicazione incerta, Iuppiter e Iuno Regina), vari sacelli (schede Alife, ubicazione incerta, Ceres, Diana, Hercules Gallicus, Venus).




    TESORO DI DEVON (Inghilterra)

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    Sleaford oggi è un piccolo paesino della verde campagna inglese, nel Lincolnshire, lontano dai principali centri urbani, ma durante l’occupazione romana della Britannia era un crocevia di rilevante importanza geografica, forse anche sede di un mercato.

    Il giornale The Sleaford Standard riporta che nei pressi del villaggio è stato scoperto un tesoro di monete del IV secolo d.c., che testimoniano la centralità e la ricchezza dei cittadini romani di questa provincia. La scoperta è avvenuta dopo anni di ricerche da parte di due amici entrambi cercatori di tesori con il metal detector, Rob Jones, un ingegnere e professore universitario di Lincoln, e Craig Paul, manager di un’azienda locale. 

    La scoperta è avvenuta nel luglio 2017, ma è soltanto dopo 2 anni, per la precisione giovedì 9 maggio 2019, che il tesoro di monete è stato dichiarato protetto dal Treasure Act del 1996, diventando patrimonio nazionale.

    Il Prof. universitario Rob Jones, ha raccontato la propria esperienza alla stampa:
    I nostri metal detector hanno iniziato a emettere il segnale corrispettivo a un metallo, così abbiamo iniziato a scavare. Non potevo credere a quel che stavo vedendo! Ho trovato altri oggetti prima d’oggi, ma nulla di questa portata, ero sbalordito! Trovare le monete è stata un’esperienza che non dimenticheremo mai. E’ impressionante pensare che l’ultima volta che qualcuno ha toccato queste monete è stato quasi 2000 anni fa!“.

    Il Seaton Down Hoard è costituito da 22.000 monete, di un periodo che va dal 260 d.c. fino al 340 d.c. Secondo Vincent Drost, un numismatico del British Museum che studia le monete, il tesoro può rappresentare il risparmio privato di un individuo, una transazione commerciale o il salario di un soldato.


    Nonostante le notevoli dimensioni del deposito, esso è costituito esclusivamente da nummi in lega di rame a basso valore, il che rende l'intera collezione equivalente a pochi solidi d'oro. Tuttavia, probabilmente si rivelerà prezioso per i ricercatori. Gli archeologi ritengono che il Seaton Down Hoard sia stato sepolto durante il dominio dell'imperatori Costanzo I.

    "Uno studio dettagliato delle monete fornirà importanti informazioni sulle caratteristiche della monetazione costantiniana e sull'uso e l'approvvigionamento di monete in Britannia a metà del quarto secolo", dice Drost.

    Il tesoro di monete in lega di rame, delle quali alcune storicamente uniche, è oggi sotto esame dagli esperti del British Museum, ed è considerato di notevole importanza per la storia della colonizzazione romana della Britannia.

    La dottoressa Eleanor Ghey, curatrice del British Museum per l’epoca dell’età del ferro e Roman Coin Hoards al British Museum, ha aggiunto: 
    Al tempo della sepoltura del tesoro, intorno al 307 d.c., l’impero romano era sempre più decentralizzato, e la Britannia era sotto i riflettori di Roma dopo la morte dell’imperatore Costanzo a Eboracum, l’odierna York. Per la prima volta le monete romane avevano iniziato a essere coniate a Londra, e la scoperta di questo tesoro riveste una grande importanza per lo studio dell’archeologia del Lincolnshire“.



    COMMENTO

    In Italia è proibito usare il metal detector perchè è proibito cercare nel sottosuolo, in quanto il sottosuolo appartiene allo stato. Ma a chi a chi rinviene un tesoro storico ed avverte entro 24 e conserva adeguatamente il bene spetterà un quarto del valore stimato del tesoro.

    Tenuto conto che le procedure per ottenere il rimborso sono lunghissime e faraoniche per cui il rimborso o è teorico o lontanissimo, la quasi totalità di coloro che trovano oggetti antichi nel sottosuolo lo vendono all'estero dove sono ben felici di acquistarlo. Questa è la ragione per cui in Italia invece delle persone comuni scavano solamente i cosiddetti "tombaroli".

    NAUMACHIA DI AUGUSTO - NAUMACHIA AUGUSTI

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    Le naumachie erano dei grandi bacini attrezzati per rappresentare le battaglie navali dove si rievocavano le grandi vittorie del passato, il che non solo divertiva gli spettatori ma li inorgogliva per essere romani provocando un attaccamento sempre maggiore alla patria.

    I naumacharii, cioè gli attori combattenti, erano  nemici caduti schiavi, o gente assoldata al momento in cerca di notorietà e fortuna (nella naumachia si era molto visibili), o marinai pagati, o criminali condannati a morte cui veniva risparmiata la vita se dimostravano abilità e coraggio.

    Questi dovevano guerreggiare indossando le armature del paese rappresentato, incitati alla lotta dai pretoriani e dalla folla sugli spalti. Questi spettacoli erano chiamati navalia proelia, battaglie navali, mentre il termine greco naumachia, più comune, indicava sia lo spettacolo sia il sito che le ospitava.

    Questi spettacoli, ideati e rappresentati a Roma, solo raramente furono eseguiti altrove, in quanto costosissimi, poiché le navi erano autentiche, e manovravano come vere navi in battaglia, rovinandosi tra loro o addirittura affondando.

    In origine i giochi erano gestiti dai sacerdoti per questioni di culto e duravano, come le famose corse dei cavalli, solo un giorno. Dai 77 giorni di ludi proclamati ufficiali tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero si arrivò nel quarto secolo a ben 177 giorni all’anno dedicati agli spettacoli.

    Le naumachie spesso riproducevano famose battaglie storiche, come quella dei Greci che vinsero i Persiani a Salamina, ma passarono presto a rappresentare le vittorie di Roma, ormai padrona del Mediterraneo.

    I naumachiarii (combattenti nella naumachia), e non come spesso si crede i gladiatori, salutavano  prima della battaglia l'imperatore con una frase  famosa: "Ave Caesar, morituri te salutant." Almeno così salutarono l'imperatore Claudio che non desiderando il massacro di tutti fece un cenno di negazione che fu però interpretato come una grazia dal combattimento. Claudio si infuriò, gli uomini combatterono, parecchi morirono, la folla andò in visibilio e tutti i sopravvissuti vennero graziati. Poiché era andata bene la frase venne ripetuta.

    NAUMACHIA DEL COLOSSEO

    LA  I  NAUMACHIA

    La prima naumachia si tenne a Roma in un bacino temporaneo scavato nel Campo Marzio, e fu finanziata da Cesare nel 46 a.c. per celebrare il suo trionfo. Ebbe tanto successo che Augusto organizzò le naumachie nei Septa, un ampio complesso con uno spazio aperto di 300 x 120 metri, circondato da portici e arricchito da opere d'arte prese dai paesi conquistati. 

    Augusto voleva celebrare la potenza della flotta romana, soprattutto la sua vittoria navale di Azio, dove Agrippa, suo genero, era stato l'ammiraglio della flotta. Per la prima volta dai tempi di Caio Duilio, vincitore contro Cartagine, un ammiraglio era stato più celebrato di un generale delle armate di terra. L’orgoglio dei romani per la loro marina militare si rifletteva negli spettacoli delle battaglie navali.
     

    IL COLOSSEO

    Il Colosseo poteva offrire lo spettacolo di naumachia quando la scena veniva inondata da un sistema ingegnoso d’irrigazione, ma sembra sia stata usata poche volte, dopodiché venne usato solo come anfiteatro, poiché "erano necessari molti preparativi per rendere l'arena stagna e riempirla ad una altezza sufficiente (1,5 m) per potervi far galleggiare le navi".


    IL VATICANO

    Un'altra Naumachia famosa era costruita nella valle del Vaticano. Fu edificata da Domiziano all'interno degli Horti di Agrippinae, all'inizio per uso privato e poi per uso pubblico. a ovest del Mausoleo di Adriano. Era rettangolare con con due lati lunghi e uno breve curvo. Pirro Ligorio ne riportò un disegno nel suo libro Antiquae Urbis Image del 1561. Poi fu usato per piantarvi una vigna e alla fine scomparve.

    NAUMACHIA DI AUGUSTO

    LA NAUMACHIA DI AUGUSTO

    La naumachia d'Augusto (naumachia Augusti) è conosciuta dalle Res Gestæ. Il bacino fu edificato nel 42 a.c., per celebrare la dedicazione del tempio di Marte Ultore, dove si rappresentò la battaglia di Salamina. Augusto medesimo indica che il bacino misurava 1800 piedi romani su 1200 (circa 533 x 355 m) e Plinio aggiunge che al centro del bacino, probabilmente ovale, si trovava un'isola collegata all'argine con un ponte.

    Il bacino era rifornito dall'acquedotto dell'Aqua Alsietina, acquedotto sotterraneo costruito nel 2 a.c. che assicurava l’alimentazione di acqua, passando sotto le costruzioni, appositamente costruito da Augusto per la sua alimentazione, con una capacità di 180 litri di acqua al secondo, per un ammontare di circa 200.000  utili per riempire in 15 giorni la naumachia. Il bacino doveva avere una profondità di circa 1,5 m, quella minima per permettere alle navi di galleggiare, e pertanto una capacità giustappunto di circa 200.000 .

    Era un acquedotto lungo 22.000 passi, creato appositamente per portare l'acqua alla Naumachia di Augusto dal lago di Martignano (vicino al lago di Bracciano) con un percorso di 33 km.
    Un canale navigabile permetteva l'accesso alle navi provenienti dal Tevere, oltrepassato da un ponte mobile (pons naumachiarius).

    I romani erano impazziti per la naumachia di Cesare, pertanto Augusto, che copiava il padre adottivo in tutto e per tutto, organizzò altre naumachie nei Septa, un complesso monumentale con uno spazio aperto di 300 x 120 m, circondato da portici e arricchito da opere d'arte provenienti dai paesi conquistati. 

    LOCAZIONE DEL BACINO
    Augusto celebrava così la flotta romana, poiché egli stesso aveva conquistato il potere e sgominato i suoi nemici attraverso la vittoria navale di Azio, ove il suo genero Agrippa, costruttore del Pantheon, era stato l'ammiraglio della flotta. Si suppone che la stessa battaglia sia stata poi rievocata a beneficio dei romani e del suo imperator.

    Come riportò nelle Res Gestæ, fece scavare sulla riva destra del Tevere, nel luogo denominato "bosco dei cesari" (nemus Caesarum), un bacino dove s'affrontarono 3000 uomini, senza contare i rematori, su 30 navi, e altre unità più piccole. 

    Considerando le dimensioni del bacino e quelle d'una trireme (35 x 4,90 m circa), la trentina di vascelli utilizzati non dovevano avere molto margine di manovra.

    In più l'equipaggio d'una trireme romana era di circa 170 rematori e tra i 50 o 60 soldati imbarcati, per cui occorrevano molti più combattenti d'una vera flotta. Lo spettacolo non consentiva evoluzioni ai vascelli, ma era basato sulla presenza scenica degli stessi nei grandi bacini e sui combattimenti corpo a corpo.

    La sua naumachia riprodusse fedelmente quella di Cesare, cioè la battaglia di Salamina. Sicuramente lo spettacolo verteva poco sulle evoluzioni dei vascelli e molto sulle scene  e sui combattimenti corpo a corpo che si svolgevano.

    In questa immensa conca le navi di guerra romane si affrontavano in battaglie sanguinose. Tutto attorno accoglievano le folle numerose gradinate, di cui si è creduto riconoscere qualche avanzo nei pressi della chiesa di S. Cosimato. Nel centro c'era il lungo molo per gli ormeggi. Il tutto con un imponente servizio di guardia per evitare che i ladri approfittassero dell’assenza dei romani per compiere saccheggi nelle loro case.



    DOPO AUGUSTO

    Risulta che il ponte mobile Naumachiarius venne restaurato da Tiberius dopo un incendio e vi si tennero spettacoli sotto gli imperatori Nerone e Tito.  Più tardi, anche Domiziano costruì una naumachia, ma il luogo preciso è ancora oggetto di dibattito.

    La naumachia Augusti è menzionata ancora nel 95 d.c. (Stat. Silv. IV.4.5), poi cadde in disuso, si che al tempo di Alessandro Severo ne restavano solo alcune parti. (Cass. Dio LV.10). Secondo alcune fonti questa naumachia sarebbe sparita all’inizio del secondo secolo.

    L'ASSEDIO DI GERGOVIA (52 a.c.)

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    Battaglia di Gergovia 52 a.c.

    Comandanti
    - Gaio Giulio Cesare - (Effettivi 6 legioni 60.000 armati. Perdite: alcune coorti)
    - Vercingetorige

    «Caesar ex eo loco quintis castris Gergoviam pervenit»
    (Cesare, Commentarii de bello Gallico, VII, 36)

    La battaglia di Gergovia fu un episodio della Conquista della Gallia da parte della Repubblica romana: la battaglia si svolse nell'anno 52 a.c. tra l'esercito romano guidato da Gaio Giulio Cesare e l'esercito gallico di Vercingetorige, che inflisse una sconfitta ai Romani.

    Giulio Cesare arrivò in Gallia nel 58 a.c., dopo il consolato dell'anno precedente. Era, infatti, consuetudine che i consoli, gli ufficiali più elevati in grado di Roma, alla fine del loro mandato fossero nominati governatori in una delle province dal Senato romano. Grazie agli accordi del I triumvirato (alleanza politica con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso), Cesare fu nominato governatore della Gallia cisalpina (la regione fra le Alpi, gli Appennini, l'Adriatico), dell'Illirico e della Gallia Narbonense.

    GAIO GIULIO CESARE

    LA PERSONALITA' DI CESARE

    Cesare conosce benissimo le sue immense potenzialità, è uno stratega fantastico, ha un'immaginazione senza limiti, una mente mobile come pochi, sa scegliere le persone e sa quali compiti affidargli. Le sue strategie non si somigliano mai, rendendo al nemico imprevedibili i suoi movimenti. E' colto e arguto, ma sa trattare benissimo con i semplici. Ha un fiuto stupendo per i percorsi in luoghi mai visitati, legge nell'animo delle persone, e sa come rapportarsi a loro. E' autorevole ma con grande semplicità.

    Gli altri riconoscono immediatamente la sua superiorità mentale e gli si affidano. Cesare è ambizioso di gloria, è vissuto da bambino con l'insegnamento di suo zio, il grande Caio Mario, uomo del popolo a cui i senatori patrizi dovevano sempre rivolgersi, loro malgrado, per salvare le situazioni. E' un generale fantastico, nella strategia e nell'addestramento dei suoi uomini, il popolo lo adora.

    Mario se l'è portato nella palestra e gli ha insegnato a combattere, Cesare è il figlio che avrebbe voluto avere, è solo suo nipote ma non appena crescerà se lo porterà in battaglia. Anche Mario è conoscitore di animi e capisce che quel nipote ha un talento speciale. Purtroppo non potrà farlo perchè morirà quando Cesare ha 14 anni e a sedici anni perderà anche il padre, ora poteva contare solo su se stesso.

    Ora Cesare, con la scusa di dover impedire che il popolo degli Elvezi attraversi la Gallia e si stabilisca in una posizione pericolosa per Roma, ad occidente dei suoi possedimenti della provincia Narbonense, comincia ad attaccare queste tribù che per secoli avevano costituito il "Metus Gallicus", il terrore che i romani avevano di essere attaccati dai Galli. Del resto queste popolazioni facevano continue incursioni oltre confini, razziando bestiame e viveri, stuprando le donne e uccidendo chi gli si opponeva e pure chi non gli si opponeva, bambini compresi.

    Cesare sconfigge una ad una tutte le popolazioni della Gallia, a cominciare dalla Gallia Belgica, per passare a quelle della costa atlantica, fino all'Aquitania.
    Sconfigge inoltre le popolazioni germaniche di Ariovisto nell'Alsazia, passa il Reno per due volte, nel 55 e 53 a.c.; e primo tra i Romani, conduce due spedizioni contro i Britanni oltre La Manica nel 55 e 54 a.c.



    IL PRELUDIO

    Le agitazioni in Gallia non erano ancora finite con l'inverno del 53-52 a.c., benché Cesare fosse tornato per l'inverno a svolgere le normali pratiche amministrative nella Gallia cisalpina, ed a controllare più da vicino quanto accadeva a Roma in sua assenza.

    La situazione era precipitata, i galli si erano uniti in una coalizione che si manifestò quando i Carnuti uccisero tutti i coloni romani nella città di Cenabum (moderna Orléans). Questo scoppio di violenza fu seguito dal massacro di altri cittadini romani, mercanti e coloni, nelle principali città galliche. Venutone a conoscenza, Cesare radunò rapidamente alcune coorti che aveva reclutato nel corso dell'inverno ad integrazione dell'esercito lasciato a svernare in Gallia ed attraversò le Alpi, ancora coperte di neve. Cesare non ha regole, combatte d'estate e d'inverno, di giorno e di notte, è imprevedibile.

    Con la sua proverbiale rapidità Cesare guida le corti fino al ricongiungimento con le truppe lasciate nel cuore della Gallia, ad Agendico. I successi militari si susseguono comportando l'occupazione delle città di:
    Vellaunodunum (dei Senoni),
    Cenabum (capitale dei Carnuti),
    Noviodunum
    Avaricum (capitale dei Biturigi),

    Cesare è deciso a portare a termine la campagna di quell'anno, con la sottomissione definitiva delle popolazioni dell'intera Gallia.

    CARTINA DELLA BATTAGLIA (INGRANDIBILE)
    Divide, pertanto, l'esercito in due parti: al suo generale Tito Labieno lascia 4 legioni, inviandolo a nord per sopprimere la rivolta di Senoni e Parisi; mentre a sé stesso riserva il compito più difficile: quello di rincorrere Vercingetorige fino alla capitale del popolo degli Arverni, con le rimanenti 6 legioni. Così volge a sud, seguendo il fiume Elaver, verso la capitale arverna di Gergovia (le cui rovine sorgono nei pressi di Clermont-Ferrand).

    Giuntagli la notizia dell'avanzata di Cesare, Vercingetorige, interrotti tutti i ponti di quel fiume, si pone in marcia lungo la sponda opposta.

    «I due eserciti rimanevano l'uno al cospetto dell'altro, ponevano i campi quasi dirimpetto. La sorveglianza degli esploratori nemici impediva ai Romani di costruire in qualche luogo un ponte per varcare il fiume. Cesare correva il rischio di rimanere bloccato dal fiume per la maggior parte dell'estate, in quanto l'Allier non consente con facilità il guado prima dell'autunno. Così, per evitare tale evenienza, pose il campo in una zona boscosa, dinnanzi a uno dei ponti distrutti da Vercingetorige; il giorno seguente si tenne nascosto con due legioni.

    Le altre truppe, con tutte le salmerie, ripresero il cammino secondo il solito, ma alcune coorti vennero frazionate perché sembrasse inalterato il numero delle legioni. Ad esse comandò di protrarre la marcia il più possibile: a tarda ora, supponendo che le legioni si fossero accampate, intraprese la ricostruzione del ponte, utilizzando gli stessi piloni rimasti intatti nella parte inferiore. L'opera venne rapidamente realizzata e le legioni furono condotte sull'altra sponda. Scelse una zona adatta all'accampamento e richiamò le rimanenti truppe

    (Cesare, De bello Gallico, VII, 35)

    E così Vercingetorige è costretto a precederlo fino a Gergovia a marce forzate, mentre Cesare raggiunge la capitale degli Arverni nella quinta giornata di viaggio. In quel giorno deve sostenere un piccolo combattimento tra le cavallerie ed osserva la posizione della città, posta sopra un monte molto alto, di difficile accesso da tutte le parti.

    "Il proconsole romano, per prima cosa, reputò necessario procurarsi le necessarie provviste prima di darne l'assalto, e comunque di porre il proprio campo ai piedi della rocca. Vercingetorige, che lo aveva preceduto, si era già installato sullo stesso monte presso la città, avendo inoltre occupato con le milizie di ogni altra nazione gallica, tutte le cime della catena intorno all'oppidum arverno."

    Forze in campo:

    - Gaio Giulio Cesare si apprestò ad assediare la capitale degli Arverni con sei legioni:
    la VI, VIII, IX, X, XIII e XIIII.
    - Vercingetorige deve essere stato in possesso di 60/80.000 armati come suggerirebbe il confronto tra due passi del De bello Gallico.



    L'ASSEDIO

    Non passa giorno che Vercingetorige non provochi i Romani con scontri di cavalleria, ma pure con gli arcieri. Poco distante dal grande campo di Cesare, c'è una collina ben munita, ai piedi della rocca, ed occupata con un consistente presidio di Galli. Il generale romano ritiene che occuparla faciliterebbe l'assalto a Gergovia, ma soprattutto priverebbe il nemico dell'approvvigionamento di gran parte dell'acqua e della possibilità di foraggiare liberamente.

    Così una notte, Cesare uscito dal campo in silenzio, prima che possano giungere i soccorsi dalla città, riusce a cacciare il presidio gallico e vi pone a difesa due legioni. Poi fa scavare una doppia fossa, larga dodici piedi, che congiungeva il campo maggiore con il minore, in modo da costituire un camminamento protetto per i soldati che si spostano da un campo all'altro, contro eventuali assalti del nemico.

    Però mentre Cesare si trova a Gergovia, il capo degli Edui, Convictolitave, al quale poco prima aveva assegnato la magistratura suprema, si ribella all'alleato romano, sobillato dagli Arverni, dopo aver fatto credere ai suoi sudditi che alcuni dei loro capi siano stati uccisi a tradimento dallo stesso Cesare.

    Convictolitave fa trucidare alcuni cittadini romani dopo averli spogliati dei loro beni, inviando poco dopo un certo Litavicco, alla testa di 10 000 armati, ad unirsi alle forze galliche insorte di Vercingetorige.

    Eporedorige e Viridomaro, due dei più prestigiosi capi Edui, ora creduti morti, si trovavano a fianco di Cesare nel difficile assedio. Conosciuti i fatti, pregano il generale romano di:
    « non permettere agli Edui di venir meno all'alleanza con il popolo romano per colpa dei perfidi piani di alcuni giovani, lo prega di tener conto delle conseguenze, se tante migliaia di uomini si fossero unite ai nemici»
     (Cesare, De bello Gallico, VII, 39.)

    Cesare non perde tempo e marcia con quattro legioni verso la colonna degli Edui distante solo 25 miglia, dopo aver lasciato al campo base le restanti due legioni ed il legato Gaio Fabio. Giunti in vista dell'esercito Eduo, il proconsole invia proprio Eporedorige e Viridomaro, che gli Edui credevano morti, per smascherare l'inganno di Litavicco. Quest'ultimo, prima di poter essere scoperto, fugge e si rifugia a Gergovia.

    Cesare deve perdonare l'intera nazione degli Edui, per evitare di aprire un nuovo fronte di guerra, tanto più che deve rientrare al campo base presso Gergovia sotto attacco nemico. E' solo grazie al suo provvidenziale intervento che le due legioni rimaste a guardia dei bagagli, vengono salvate dal costante assedio operato dalle truppe galliche di Vercingetorige fin dalla partenza di Cesare.



    LA SCONFITTA

    Cesare, recatosi ad ispezionare il campo minore, si accorge che la collina occupata dai Galli di fronte alla capitale degli Arverni, è del tutto libera dagli uomini, contrariamente ai giorni precedenti. Decide allora di occupare quel colle in modo da bloccare ogni via di vettovagliamento a Vercingetorige ed al suo esercito.

    Dalla mezzanotte successiva fino all'alba, Cesare invia tra i colli vicini alcuni reparti di cavalleria con bagagli e muli, simulando possibili azioni di attacco da più parti, sapendo che da Gergovia non si poteva riconoscere che cosa realmente accadesse, per la grande distanza. Contemporaneamente invia una legione lungo il crinale occidentale ai piedi della città, in posizione boscosa e quindi nascosta, mentre la cavalleria degli Edui è pronta ad attaccare sul fianco destro lungo un'altra salita.

     «Le mura della città distavano dalla pianura e dall'inizio della salita milleduecento passi in linea retta, se non ci fosse stata di mezzo nessuna tortuosità. E tutte le curve che si aggiungevano per attenuare la salita, aumentavano la distanza. Sul colle, a mezza altezza, i Galli avevano costruito in senso longitudinale un muro di grosse pietre, alto sei piedi, che assecondava la natura del monte e aveva lo scopo di frenare l'assalto dei nostri.

    Tutta la zona sottostante era stata evacuata, mentre nella parte superiore, fin sotto le mura della città, i Galli avevano posto fittissime le tende del loro campo. Al segnale i legionari raggiungono rapidamente il muro, lo superano e conquistano tre accampamenti. L'azione fu così rapida, che Teutomato, re dei Nitiobrogi, sorpreso ancora nella tenda durante il riposo pomeridiano, a stento riuscì a sfuggire ai nostri in cerca di bottino, mezzo nudo, dopo che anche il suo cavallo era stato colpito.»
     (Cesare, De bello Gallico, VII, 46.)

    Cesare ordina il rientro delle truppe al campo base, mentre la legione X, che è con lui, si ferma per coprirne la ritirata. Qualcosa però non funziona e molti dei legionari continuano la loro avanzata. «Trascinati, però, dalla speranza di una rapida vittoria, dalla fuga dei nemici e dai successi precedenti, pensarono che non vi fosse impresa impossibile per il loro valore. Così, non cessarono l'inseguimento finché non ebbero raggiunto le mura e le porte della città
     (Cesare, De bello Gallico, VII, 47.)

    La reazione dei Galli, per il timore di essere massacrati come ad Avarico, è immediata. Dopo essersi, precipitati fuori dalle porte della città, mentre le donne gettavano dalle mura indumenti ed argenti supplicando i Romani di risparmiarle insieme ai loro figli, riescono a respingere gli attacchi della legio VIII. La ritirata dei Romani è disastrosa. Cesare deve intervenire con la legio X, dopo che la cavalleria degli Edui, intervenendo sul fianco destro, non viene riconosciuta dai Romani dell'VIII legione, temendo di essere ingannati e circondati.

    Anche il legato Tito Sestio, che si trovava presso il campo minore, esce insieme alle coorti della legio XIII e legio VIII (quest'ultima comandata dal centurione Marco Petreio Cesariano), per frenare i Galli che inseguono i Romani. Al termine dello scontro, risultano uccisi quasi 700 legionari e ben 46 centurioni.

     Il giorno seguente Cesare, convocato l'intero esercito in assemblea, rimprovera la temerarietà, la cupidigia, la sfrenatezza ed indisciplina dei suoi legionari, che non si sono arrestati al segnale della ritirata e nemmeno poterono trattenerli i tribuni militari e i legati. Cesare spiega che ha dovuto abbandonare una vittoria certa, avendo sorpreso il nemico senza comandante e senza cavalleria, per coprire una ritirata nella quale ha perduto quasi due coorti di armati.

    Ricordò loro che è suo compito stabilire la tattica in battaglia e portare a termine l'operazione. Non tollererà alcuna azione di indisciplina in futuro. Poi rincuora gli animi della sua armata, e dispone che, affinché non si scoraggino ed attribuiscano al valore del nemico ciò che è dipeso dalla posizione sfavorevole, le legioni si schierino in ordine di battaglia di fronte al campo romano.

    E così fa anche il giorno successivo, ma poiché Vercingetorige non scende per accettare battaglia, certamente per il timore della superiore tattica bellica, Cesare muove il campo in direzione del paese degli Edui, dove si profila una nuova rivolta ai suoi danni. Vercingetorige non lo insegue e rimane arroccato dentro Gergovia.

    Cesare non fu sconfitto dal nemico, ma dovette desistere dall'assedio e cercare un nuovo campo di combattimento, ma per lui fu una sconfitta. Ma già si profilava la battaglia di Alesia.

    MAGNO MASSIMO - MAGNUS MAXIMUS (Usurpatori)

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    MAGNO MASSIMO

    Nome: Magnus Clemens Maximus
    Nascita: Hispania, 335 circa
    Morte: Aquileia, 28 agosto 388
    Figli: Sevira Maxima, Flavio Vittore
    Regno: 383-388


    Magno Massimo, o Magno Clemente Massimo e Massimiano (Hispania, 335 circa – Aquileia, 28 agosto 388), fu un usurpatore dell'Impero romano dal 383 al 388. Sconfitto, venne condannato a morte dall'imperatore Teodosio I.


    LE VICENDE

    In seguito alla sconfitta di Adrianopoli del 378 contro i Goti che avevano sterminato due terzi dell'esercito romano e in cui era morto l'imperatore Valente, il diciannovenne imperatore s'Occidente Graziano, piuttosto smarrito, nominò nel 379 Teodosio I imperatore d'oriente e nel 381 spostò la capitale da Treviri a Milano.

    Magno Massimo era nato in Hispania come l'imperatore Teodosio I (379-395), e aveva combattuto con lui nella campagna in Britannia (probabilmente nel 368-369, quando Teodosio sconfisse i Sassoni e altre popolazioni giunte dalla Scozia e dall'Irlanda), dove si era fatto notare per le sue abilità militari e il suo coraggio contro i terribili Pitti.

    Sembra che le legioni fossero piuttosto malcontente per l'ammissione nell'esercito romano di contingenti di barbari, in particolare Alani (iranici sarmati), assunti per giunta con paghe elevate, e che ricevevano molti doni, mentre fino ad allora gli ausiliari venivano pagati circa la metà dei legionari. Inoltre arruolare contingenti fra le popolazioni barbare e farli combattere contro altri barbari, spesso etnicamente affini non era una buona idea e le diserzioni erano frequenti.

    GRAZIANO

    SCONFITTA E UCCISIONE DI GRAZIANO (383)

    L’esercito di Massimo salpò per la Gallia, l’appoggio delle truppe di stanza sulla frontiera del Reno. Graziano, con le truppe rimastegli fedeli, si scontrò in battaglia con Massimo nei pressi di Parigi.

    La battaglia durò per ben cinque giorni: ma Graziano, in seguito alla diserzione della cavalleria mauritana e della quasi totalità delle sue truppe che defezionarono in favore dell’usurpatore, abbandonò tutte le speranze e tentò la fuga verso le Alpi con un piccolo seguito di trecento cavalieri, gli unici fedeli.

    Quando Massimo fu informato della fuga, incaricò Andragazio, comandante della cavalleria, di inseguire Graziano e ucciderlo. Questo ufficiale lo inseguì, lo raggiunse a Lione, e lo uccise. (25 agosto 383), confermando l’autorità di Massimo sulle Gallie.

    Narra invece lo storico Zosimo che Graziano, quando si accorse che le sue truppe stavano disertando per passare a Massimo, decise di scappare verso la Rezia, il Norico e la Pannonia, ma fu raggiunto e ucciso da Andragazio a Singidunum nella Mesia. 

    Secondo altri Andragazio avrebbe invece portato a termine il suo compito a Lugdunum, il 25 agosto di quello stesso anno, con uno stratagemma: impossessatosi di una carrozza imperiale, mise in giro la voce che la moglie di Graziano, che l'imperatore aveva da poco sposato, era tornata dalla Bretagna, ma quando l'imperatore raggiunse la carrozza e l'aprì, dentro trovò Andragazio che lo uccise.

    Naturalmente dopo la morte Graziano fu divinizzato, poichè l'usanza della divinizzazione degli imperatori stranamente non cessò con la religione di stato cristiana. Massimo venne proclamato imperatore nella primavera del 383 dalle legioni di stanza in Britannia, ma non a Roma. 



    BAUTONE

    Dunque Magno Massimo dominava sulla Gallia, sulla Britannia e sulla Hispania, ma non osò muovere guerra al giovane imperatore Valentiniano II (371-392), fratellastro di Graziano e signore dell'Italia e dell'Africa, perché questi era amato dalle legioni e protetto dal generale Bautone.

    Così morto Graziano venne nominato imperatore il fratellastro Valentiniano II, che però si trovò ad affrontare un avversario molto forte come Massimo che era benvoluto e che sapeva combattere. Bautone fu allora inviato in occidente ad aiutare il nuovo imperatore e intelligentemente pose i soldati a difesa dei valichi alpini, impedendo altri attacchi da parte dell'usurpatore. 

    Poiché l'imperatore era molto giovane (Valentiniano era salito al trono a soli quattro anni), Bautone con la sua esperienza e con la sua abilità riuscì ad essere molto influente a corte, divenendo in pratica capo dell'impero d'occidente a nome di Valentiniano. 

    Fu questa l'accusa che gli fece Massimo invidioso di un potere che avrebbe voluto per sè. Nel 385 venne nominato console, ma morì prima del 388, quando è attestato un nuovo magister militum, e cioè Arbogaste.

    MAGNO MASSIMO E LA DEA VIRTUS

    ARBOGASTE

     Massimo pose la propria capitale ad Augusta Treverorum (Treviri) e propose a Teodosio, imperatore in Oriente, un trattato di amicizia. Teodosio che stava badando ad altri fronti, pur volendo vendicare Graziano, accettò di riconoscere Massimo imperatore, confermandogli la sovranità sulla prefettura gallica e riconoscendolo console per il 384, ma solo in Occidente. 

    Teodosio diede così ordine a Cinegio, prefetto del pretorio, di innalzare ad Alessandria una statua di Massimo, dichiarando alla popolazione che l’usurpatore era stato riconosciuto e associato all’Impero. Magno Massimo fu nel frattempo riconosciuto anche dall’Imperatore Valentiniano II, che governava l’Italia e l’Illirico sotto la reggenza della madre Giustina.



    MAGNO MASSIMO INVADE L’ITALIA (386)

    Massimo, che riteneva i suoi domini inferiori al suo merito, governando solo quella parte dell’Impero già governata da Graziano, progettava di detronizzare il giovane Valentiniano II, in modo da impadronirsi anche dell’Italia e degli altri territori da lui governati. Così si preparò ad attraversare le Alpi per invadere l’Italia, ma avrebbe dovuto passare per passi stretti ben guardati e monti impervii per cui rimandò l’impresa.

    Valentiniano II, tuttavia, da Aquileia, gli aveva inviato degli ambasciatori per ratificare la continuazione della pace. L’ambasciatore di Valentiniano II, Domnino, fu ricevuto con molta gentilezza e rispetto da Massimo, che lo ricoprì di doni ed onori, in modo da guadagnarsi la sua fiducia.

    Massimo si mostrò disposto a inviare parte del suo esercito in Pannonia, territorio di giurisdizione di Valentiniano II, con il pretesto di assistere Valentiniano contro i Barbari che l’avevano invasa e Domnino gli credette. Così, attraversando le Alpi, rese il passaggio più praticabile per Massimo, che lo seguì con tutte le sue forze, con un esercito ben più numeroso di quanto pattuito, senza destare sospetti e si presentò sotto le mura di Milano.

    Così, nel 386, Massimo invase l’Italia senza incontrare resistenza, e atterrì Valentiniano, e la situazione era tanto disperata che i cortigiani già presagivano la possibile cattura ed esecuzione del loro Imperatore ad opera di Massimo. Valentiniano, la sorella Galla e la madre, finalmente consci di quanto accadeva, furono costretti a fuggire ed a rifugiarsi prima ad Aquileia e poi a Tessalonica presso Teodosio.

    VALENTINIANO II

    FUGA DI VALENTINIANO II A TESSALONICA

    Valentiniano, con la madre Giustina e la sorella Galla, si imbarcò per Tessalonica e da qui inviarono messaggeri all’Imperatore Teodosio, chiedendogli di allestire una spedizione militare per rovesciare Massimo e ristabilire Valentiniano II sul trono d’Occidente. In questo modo avrebbe vendicato anche l’assassinio di Graziano, a cui Teodosio doveva il trono.

    TEODOSIO I
    Teodosio però era consapevole dei danni possibili di una guerra civile, e che lo stato avrebbe subito perdite fatali da entrambe le parti. Egli propose di inviare prima un’ambasceria presso Massimo, in cui gli si intimava di restituire a Valentiniano la sua quota di Impero, in modo che tutto l’Impero fosse diviso tra i tre. Nel caso Massimo avesse rifiutato, Teodosio gli avrebbe dichiarato guerra.

    Nel frattempo, Giustina, dopo averlo supplicato di non lasciare impunita l’uccisione di Graziano, a cui tra l’altro doveva il trono, gli presentò sua figlia in lacrime, che era di una bellezza straordinaria. Teodosio ascoltò queste suppliche, ed essendo rimasto ammaliato dalla sua bellezza, richiese a Giustina di promettergli in sposa sua figlia. L'altra rispose che non avrebbe dato l’assenso al matrimonio, finché Teodosio non avrebbe dichiarato guerra a Massimo per vendicare l’uccisione di Graziano.

    Quando tutti i preparativi erano ultimati per la spedizione, l’Imperatore Teodosio fu informato che i Barbari, che combattevano a fianco delle legioni romane, erano state sobillate da Massimo a tradire l’esercito di Teodosio con la promessa di grandi ricompense. Quando ricevettero il sentore che il loro piano era stato scoperto, i Barbari fuggirono in Macedonia, dove si nascosero nelle foreste. Essendo cercati con grande diligenza, molti di loro furono uccisi.



    MORTE DI MAGNO MASSIMO

    Mentre Teodosio era in marcia, Massimo, avendo appreso che la madre di Valentiniano e i suoi figli stavano procedendo ad attraversare il Mar Ionio, allestì numerose imbarcazioni, e mise al comando di esse Andragazio, per intercettare le imbarcazioni che trasportavano la famiglia di Valentiniano e catturarli.

    Ma Andragazio, anche se cercò in tutte le direzioni, fallì nel suo scopo. infatti, la famiglia di Valentiniano aveva già attraversato lo stretto ionico. Allestendo una marina consistente, allora, navigò per le coste adiacenti, aspettandosi che Teodosio lo avrebbe attaccato con la sua flotta.

    Teodosio vinse nella battaglia della Sava e nella battaglia di Poetovio contro Massimo che si rifugiò ad Aquileia, ma venne catturato e portato a Teodosio, che lo fece uccidere dal boia. In Gallia Vittore fu sconfitto e ucciso da Arbogaste, mentre la flotta teodosiana distruggeva quella di Massimo, al cui comando era Andragazio, l'assassinio di Graziano, che si suicidò gettandosi in mare.



    BIBLIO

    - Zosimo - Storia nuova IV - Milano - BUR - 1977 -
    - Arthur Auguste Beugnot.- Histoire de la Destruction du Paganisme en Occidente - 1832 -
    - Hartmut Leppin - Teodosio il Grande - Salerno editrice - 2008 -
    - Valentiniano II - Dizionario di storia - Istituto dell'Enciclopedia Italiana - 2010 -
    - Paolo Orosio- in Dizionario di storia - Istituto dell'Enciclopedia Italiana - 2010 -

    CULTO DI BARBATUS

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    DIONISO BARBATO
    "La statua del Dioniso barbato, oggi a Palazzo Massimo alle Terme di Roma, fu rinvenuta nel 1926 a Frattocchie, al Km 18 della via Appia Antica , sul lato sinistro salendo verso Due Santi, nei pressi dell’attuale via Castagnole, durante gli scavi per le fondazioni di una nuova costruzione.

    Di questa storia ne rimane memoria nella relazione dell’illustre archeologo britannico Bernard Ashmole che ricordava come lo stesso Paribeni , Soprintendente Regio alle Antichità, gli avesse mostrato la statua priva del capo appena recuperata con un sequestro dopo un tentativo di vendita clandestina. Durante gli stessi scavi sappiamo anche che vennero rinvenuti, oltre ad un’altra statua conosciuta come la Peplophoros, anche i resti di un antico basolato di strada romana.

    E’ sempre contemporanea a questi fatti la notizia che vennero venduti al mercato clandestino inglese le due parti del capo mancate del Dioniso. Della parte posteriore se ne sono perse le tracce, mentre di quella anteriore sappiamo che già nel 1930 lo stesso Ashmole ne aveva riconosciuto la pertinenza con la statua di Palazzo Massimo grazie ad un calco che il soprintendente Aurigemma ne aveva preventivamente curato. E’ molto probabile che questo importante frammento, passato poi all’Ashmolean Museum di Oxford come donazione dei coniugi Beazley, facesse parte di una collezione privata ( Warren collection N° 100).

    Singolare invece la storia legata alla restante parte della statua, meglio conosciuta come Dioniso Sardanapalo, già restaurata della testa mancante dallo scultore Giuseppe Tonnini prima del 1943 prendendo a modello la statua dei Musei Vaticani rinvenuta nel 1761 a Monte Porzio Catone.

    Durante la Seconda Guerra Mondiale, nel gennaio del 1944,su ordine di Hitler, la statua, già promessa da Mussolini al dottor George Lǖttke per le celebrazioni del centenario della nascita di Nietzsche (Cercherò la scultura greca da mettere nell’abside dell’Archivio di Nietzsche. Sarà il mio omaggio all’autore di “Also sprach Zarathustra”).

    Da una lettera del Duce ricevuta dal dottor Lǖttke il 6 luglio 1942),fu prelevata dal museo di Roma dallo stesso generale Kesserling e trasferita in treno a Weimar in Germania. Nel 1954 la statua passò poi a Berlino ed esposta nel Pergamon museum fino al dicembre del 1991, quando grazie al sapiente lavoro di studio e di diplomazia del Soprintendente Adriano La Regina (Grande Adriano), quest’opera è stata riconsegnata e ricollocata nel museo di origine a Roma.

    Per quel che riguarda il frammento della testa originale ancora oggi nell’Ashmolean Museum di Oxoford, sebbene sia stata già presentata una formale richiesta di restituzione, dovremo ancora aspettare.

    (Marco Bellitto)

    Gli antichi romani, quelli monarchici per intenderci, non si radevano, ma curavano le barbe per non lasciarle troppo lunghe. Varrone e Aulo Gellio infatti osservano come lunghe barbe e lunghe capigliature nelle statue sono indizio sicuro di antichità. 

    Nel 299 a.c. Publio Ticino Menea (o Menas) introduce, per primo, i barbitonsori a Roma, conducendo dalla Sicilia una truppa di barbieri (Varrone, De re rustica, II, 11, 10), segno che in Sicilia la nuova moda è già propagata. 

    I romani, grandi guerrieri, pensano che con barba e capelli corti non possono essere afferrati dai nemici attraverso questi, inoltre è più igienico, e, ragione non ultima, li distingue dai nemici che diventano "barbari" (non per la balbuzie come qualcuno sostiene ma proprio per la barba)
    DIONISO SARDANAPALO

    CONFONDE GLI ESPERTI

    "Una scultura raffigurante una misteriosa divinità romana, mai osservata prima d’ora, è stata rinvenuta durante gli scavi di un tempio romano in Turchia del I secolo a.c.
    L’immagine di un enigmatico Dio barbuto che emerge da quella che sembra una pianta o un fiore è stata scoperta durante gli scavi di un tempio romano del I secolo a.c. in Turchia, nei pressi del confine con la Siria.

    Si tratta di una divinità completamente sconosciuta agli esperti. “È chiaramente un dio, ma al momento è difficile dire di chi esattamente si tratta”, ha confessato a Live Science Micheal Blömer, archeologo dell’Università di Muenster, Germania, impegnato nel sito.

    Il rilievo era inglobato in un muro di sostegno realizzato successivamente per l’edificazione di un monastero cristiano medievale. 

    'Ci sono alcuni elementi che ricordano le antiche divinità del Vicino Oriente, quindi potrebbe essere una divinità più antica del pantheon romano', continua Blömer.

    L’archeologo tedesco non è il solo ad essere confuso; più di una dozzina di esperti contattai da Live Science non hanno idea a quale divinità appartenga l’immagine scoperta in Turchia."



    IL DIO VEGETAZIONE ANNUALE

    Chiunque sia, sembra si tratti di una divinità della vegetazione annuale, quindi un Dio della crescita, come in fondo doveva essere il Dio romano Barbatus, Dio romano protettore dei giovani che passavano dalla pubertà alla giovinezza, ai quali faceva comparire la prima barba. 

    Non per nulla veniva invocato durante la prima rasatura, che i romani facevano usando un rasoio affilato con cura. In genere era il padre che aiutava il figlio, ma solo nei consigli e nell'incoraggiamento ad effettuare accuratamente questa delicata operazione.

    La barba veniva poi avvolta in un candido panno e portata solennemente al tempio della Dea Iuventas
    dove veniva bruciata ritualmente, si deve a Nerone l’istituzione dei Giovenali o Juvenalia, giochi della gioventù dedicati alla suddetta divinità alla quale si offrivano i peli del viso dei giovani in procinto di diventare ufficialmente cittadini romani.

    Il Dio rinvenuto in Turchia sboccia con molta evidenza da una pianta poggiandosi ad una o due piante, come stesse cercando di liberarsi dal vegetale che lo tiene, e la presenza di un serpente al suo fianco lo denota ancor più come figlio della terra, ovvero della Dea Tellus, o Gaia che dir si voglia.

    Ai suoi piedi un fiore enorme ha disteso i suoi petali in tutta la sua bellezza. Il figlio della Grande Madre è cresciuto, è diventato un uomo e si accoppierà con la sua stessa madre, come usava a volte nelle antiche religioni della Grande Madre.



    GLI DEI BARBUTI

    Stranamente gli antichi Dei erano sempre barbuti, vedi Dioniso e vedi Mercurio, o Saturno, o Nettuno, o Marte, o Ade, per non parlare di Giove. Avere barbe e capelli fluenti era segno di autorità e potere, soprattutto nell'antica Grecia, ma Roma seguì soprattutto la moda di Alessandro Magno che si radeva ogni giorno, copiato poi dal suo esercito.

    Quando Giove diventò il re degli Dei, molti Dei si rasarono, vedi Dioniso, Mercurio, Apollo e perfino Marte (ma non sempre), a significare che l'autorità massima fosse Giove. Facevano eccezione Plutone e Nettuno perchè erano aldifuori del mondo di Giove, governando l'Ade e il mare.

    HERMES BARBUTO
    Pertanto mentre il potente era barbuto, l'eroe non lo era. Al momento della prima tonsura i giovani patrizi dovevano lasciare della toga pretesta (quella indossata dai magistrati curuli che li rendevano intoccabili, pena la morte), insieme alla bulla d'oro che rendeva anch'essa i bambini sacri (usanza presa dai sabini), per offrirla ai Dei lari della propria famiglia, andando appunto ad ornare il larario familiare.

    I romani fissarono l’età adulta tra i quindici e i diciassette anni per i giovani ragazzi, facendo seguire l'evento da cerimonie e feste, nonchè di un ricco banchetto, al termine del quale si donava al giovane patrizio la veste virile. Poi si andava ai templi a fare dei sacrifici e gli si tagliavano i capelli: una parte si gettava nel fuoco in onore di Apollo, una parte si gettava nell’acqua in onore di Nettuno.

    I giovinetti assumevano invece la toga virilis (di colore bianco ma non candido come quella dei "candidati"), il vestimento che chiudeva cerimonia chiamata tirocinium (tirocinio); Lo stesso giorno in cui il giovinetto diveniva adulto la sua famiglia lo accompagnava al Campidoglio e al Foro e successivamente veniva iscritto sul registro dei cittadini romani, mentre il padre offriva una moneta alla Dea Juventa.

    Un altro tempio a cui si poteva rivolgere una preghiera di protezione accompagnata da un'offerta era Fortuna Barbata uno dei tanti volti della Fortuna romana che accompagnava i giovani fino all'apparizione dei primi peli. 

    Una divinità analoga nell'accompagnare i ragazzi ai primi peli della barba era la Venere calva, che sarebbe stata venerata sotto il regno di Anco Marzio; ma sembra che questo culto, celebrato dalle matrone romane, si rifaccia a una statua di Venere Calva eretta all'inizio del IV sec. a.c. per commemorare il sacrificio delle Romane che avrebbero tagliato la loro capigliatura per confezionare delle funi, nel corso dell'assedio di Roma da parte dei Galli.



    SANTO BARBATO

    Al Dio Barbato la chiesa contrappose San Barbato, un vescovo cattolico che convertì molti Longobardi al Cristianesimo, in quanto benché fossero battezzati adoravano ancora gli idoli come la vipera d'oro e gli alberi sacri. 

    Nel luogo dove fu tagliato il noce delle streghe (in realtà il culto di Diana Caria a cui era sacro l'albero del noce), il Santo fece erigere un tempio con il nome di S. Maria in Voto.

    La vipera d'oro era in realtà l'anfesibena o anfisbena, un mitico serpente a due teste, una ad ogni estremità del corpo, e di occhi che brillano come lampade.
    Secondo il mito greco, l'anfisbena fu generata dal sangue uscito dalla testa di Medusa quando Perseo volò sul deserto libico, ma il simbolo è molto arcaico

    Viene citata da Marco Anneo Lucano e Plinio il Vecchio. Il nome deriva dal latino "amphisbaena", dal greco ἀμϕίσβαινα, composto di ἀμϕι «anfi» e βαίνω «andare», il che significa "che va in due direzioni". 

    E' il simbolo della Madre Terra, cioè della Natura che va nelle due direzioni, cioè verso la vita e verso la morte, dove tutto nasce, cresce, muore e risorge attraverso una reincarnazione.

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