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ACQUEDOTTO DI MACULNIA - CATANIA (Sicilia)

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L'acquedotto romano di Catania fu un capolavoro di ingegneria per il sistema idrico nella Sicilia romana. Esso traversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia, gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco per giungere infine a Catania.



LA STORIA

Non conosciamo la data di tanto ciclopico lavoro ma sappiamo che già esisteva in età augustea, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide del I secolo d.c. incisa con i nomi dei curatores aquarum, oggi custodita al Museo civico catanese del Castello Ursino.

Secondo le fonti in età augustea Catania (latino Catina in greco Katane) viene eletta a colonia con grande sviluppo economico, di popolazione e di fabbisogno idrico, da qui l'edificazione dell'acquedotto di Malcunia. Questo subì vari danneggiamenti, compreso l'eruzione del 253, come testimonia una lapide, rinvenuta nel 1771 presso il monastero dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui si trovava e che venne restaurato.

In epoca islamica la struttura era già dimenticata, ma purtroppo se ne ricordò nel 1556 il viceré Juan de Vega (1507 – 1558) che ordinò lo smantellamento di un lungo tratto del ponte-acquedotto sito nei pressi della città, onde ricavarne materiale per realizzazione le mura di Catania, dimezzandone gli archi (da 65 a 32).
Non contento nel 1621 fece spoliare il monumento insieme ad altri per pavimentare una strada "con ordinate lastre", cosa inusuale, che divenne luogo di passeggio e svago. L'eruzione dell'Etna del 1669 contribuì infine a interrare le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione.



DESCRIZIONE
L'acquedotto copriva un percorso di 24 km da Santa Maria di Licodia (400 m s.l.m.) fino a Catania, fino a 15 m s.l.m. presso il monastero benedettino di San Nicola. A Licodia quattro sorgenti vennero incanalate nella Botte dell'acqua, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, che accoglieva l'acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad un canale aperto a est, verso Catania.

La conduttura era ampia oltre mezzo metro in larghezza e un metro e mezzo in altezza, coperta con una volta semicircolare impermeabilizzata all'interno con un fine intonaco di malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto).

Il resto dell'acquedotto era stato eseguito soprattutto in pietra lavica, con roccia eruttiva per il riempimento e con cocci ben squadrati per la copertura, oltre a un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso dell'acqua, gli archi invece furono eretti a mattoni in terracotta.

LO STESSO ACQUEDOTTO NELLA ZONA DI VALCORRENTE
Il Principe di Biscari descrisse diverse lamine di piombo rinvenute all'interno delle condotte e conservate nel museo dei Benedettini al Monastero di San Nicolò l'Arena, ipotizzando fossero degli antichi restauri per chiudere le fessure generate dall'usura; tale restauro potrebbe essere quello menzionato dalla lapide relativa al curatores Q. Maculnius.

Dal serbatoio partiva il canale nel suo lungo viaggio, la cui pendenza veniva calcolata dagli abilissimi genieri romani per cui il canale a tratti era completamente interrato, oppure su un muro di sostegno, o su ponti-acquedotto su arcate portanti, talvolta anche su due file sovrapposte.
Il canale presentava nel suo percorso dei putei, cioè pozzi di ispezione per la manutenzione e la pulizia, e diversi castella aquae (cisterne di filtraggio e diramazione dell'acqua) sia a Licodia che a Valcorrente, a Misterbianco, e a Catania. 

INTERNO DELL'ACQUEDOTTO
Il castello dell'acqua di Licodia è andato perduto a seguito di lavori di sbancamento (sig!), mentre nella località Sciarone Castello di Belpasso ne rimangono notevoli resti. A Misterbianco, contrada Erbe Bianche, doveva esservi un castello di distribuzione che invogliava l'acqua al complesso termale in via delle Terme ma ne restano solo delle tracce.
A Catania, presso l'attuale Corso Indipendenza, è stata identificata una fabbrica quadrata e voltata, che doveva essere una conserva d'acqua, un'altra ne è stata identificata nella vigna dei Portuesi. Il sistema avrebbe dovuto raggiungere un grande serbatoio, che non è ancora stato identificato, e che doveva essere posto sul Colle Montevergine, da cui dovevano diramarsi i tratti di acquedotto destinato alle fontane e terme pubbliche, a residenze private, e a ogni altro fabbisogno in una città ormai ricca e molto romanizzata.
Alcuni studiosi suppongono che il grande serbatoio fosse il grande Ninfeo posto presso il monastero benedettino; in effetti a volte una cisterna veniva configurata all'esterno come un ninfeo. L'edificio infatti venne poi riconosciuto grazie a una lapide su cui era inciso:
«juxta lapideum aqueductum/
quem ipse construxerat ut in balneas copiosam/
aquam derivaret commodo civium
».

LE TERME SOTTERRANEE

I RITROVAMENTI
- A Santa Maria di Licodia vi sono state rinvenute vasche di contenimento e tratti dell'acquedotto, sia a mezzacosta che su arcate. Si sa che nei suoi pressi erano le quattro sorgenti incanalate nel grande serbatoio, oggi non più esistente.

- In contrada Cavaliere Bosco rimangono invece tre cisterne in pietra lavica, oggi usati come serbatoi d'acqua e abbeveraggio.

- A Paternò l'acquedotto ha un percorso vario, ora interrato, ora a mezza costa, o su muro, o su arcate.- A Civita sono stati rinvenuti i resti dell'acquedotto interrato fino alle spallette e privo di volta (spallette utilizzate come muro di contenimento di un agrumeto).

- A Civita-Scalilli, vi è un tratto di acquedotto su muro, con innesto di inizio arcate utilizzato come parete per un edificio retrostante di più recente realizzazione, oltre a pozzetti di ispezione e altri basamenti di arcate. Il tratto proseguendo a est è interrotto dalla stradella poderale della proprietà Reitano e dal tracciato ferroviario.

In Contrada Scalilli, i resti di acquedotto utilizzato come muro di delimitazione di una stradella interpoderale. Proseguendo a sud-est se ne perdono le tracce a causa delle lave di Monte Sona.
In Contrada Porrazzo-Pantafurna, sono ancora esistenti delle arcate, e basamenti di arcate.
A Contrada Giacobbe-Santa Barbara, un tratto di acquedotto a su muro con arcate cieche è stato utilizzato come delimitazione di proprietà.

LE TERME DELLA ROTONDA A CATANIA
- A Belpasso in Contrada Valcorrente, acquedotto è in parte interrato, e in parte su arcate. 

    - A Misterbianco, in Contrada Erbe Bianche, resti di strutture ipotizzate quale castello dell'acqua.In Contrada Tiriti e via delle Terme, resti dell'acquedotto e della diramazione che alimentava le terme romane, nella contrada della Nunziatella. In Corso Carlo Marx, al di sotto dell'attuale magazzino Scaringi fu trovata una parte dell'acquedotto interrato.

      - A Catania resti dell'acquedotto, in parte in interro, in parte su arcate a Monte Po, a Corso Indipendenza, nei giardini di Villa Curia, nei quartieri Nesima, Curìa, Àrcora, Chiusa del Tindaro, Antico Corso, dove sono state trovate diverse tracce dell'acquedotto sia su arcate che in interro. L'acquedotto, giunto in città, forniva tre diramazioni che partivano dal serbatoio di distribuzione. 
      Una diramazione andava a sud-est per il Teatro, (con tracce di condutture), per poi diramarsi nei vari isolati: Un'altra diramazione, di alcune decine di metri, è emersa durante gli scavi archeologici di via dei Crociferi nel corso degli anni ottanta. Le altre due diramazioni invece sono ancora da scoprire. 


      TEMPLUM LUNAE IN AVENTINO (31 Marzo)

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      FESTA DELLA LUNA
      «TEMPLVM (Solis et) LVNAE. Il medesimo, I, 36, riproduce un capitello fantastico di colonna scanalata, con quattro putti agli angoli, e figura della Luna nel mezzo, trovato "alla Bocca di la verità"»

      (RODOLFO LANCIANI)


      Il "Templum Lunae in Aventino" si festeggiava il 31 marzo in onore della Dea Luna, culto introdotto al tempo del re Titus Tatius. Il tempio sul colle Aventino di Diana Luna venne consacrato sotto Servio Tullio e venne bruciato sotto Nerone. La Dea Luna era la regolatrice delle stagioni ed a lei furono preposti i mesi fin dall'inizio, tanto è vero che i mesi dell'anno erano 13 e solo in seguito vennero portati a 12.

      Il culto della Luna era di origine italica e veniva già celebrato presso gli Etruschi (Catha o Cavtha), e presso i Sabini come Luna. Col nome di Cinzia (Cintya) però veniva venerata presso gli spartani, e come Selene presso i greci. 

      DEA LUNA NE MITREO DI S. STEFANO ROTONDO
      Proprio il re sabino Tito Tazio avrebbe importato a Roma il culto di Luna, mentre il tempio a lei dedicato sull’Aventino (templum o aedes Lunae) sarebbe stato edificato per volere di Servio Tullio, vicino al tempio di Diana, anch'essa Dea lunare.

      Sul Palatino invece sorgeva un antichissimo tempio intitolato a Luna Noctiluca (colei che rischiara la notte), ricordato solo dall’erudito Varrone che studiava attentamente ogni ritualità del passato.

      La prima menzione che troviamo con riferimento al tempio sull’Aventino riguarda un prodigio avvenuto nel 182 a.c., quando un turbine ne scardinò le porte facendole atterrare nel retro del tempio di Cerere. Inoltre, dopo la distruzione di Corinto nel 146 a.c., Lucio Mummio dedicò in questo tempio alcune delle opere depredate dalla città greca.

      DEA LUNA - MUSEI CAPITOLINI
      Nel 123 a.c., nel tempio di Luna cercarono inutilmente scampo Gaio Sempronio Gracco e i suoi sostenitori che trovarono la morte nel tempio stesso, mentre al tempo della morte di Cinna (84 a.c.) l’Aedes Lunae venne colpito da un fulmine.
      Secondo Tacito, il tempio fu distrutto dal grande incendio del 64 d.c., quello terribile verificatosi al tempo di Nerone di cui venne accusato lo stesso imperatore e mai più venne riedificato.

      Nelle rappresentazioni di Luna, la Dea viene raffigurata con una falce lunare sul capo, i cui corni sono rivolti verso l’alto e, a volte, su un carro trainato da buoi. I buoi erano spesso suoi simboli in quanto le corna simboleggiavano quelle del corno lunare nei suoi quarti, con un crescente e un decrescente, di cui occorreva tener conto nei riti ad essa dedicati.

      ALTARE DI LUNA - II SEC. D.C. - LOUVRE - PARIGI 
      Infatti il crescente lunare era dedicato più al mondo esterno ed era il periodo in cui si potevano intraprendere lavori o imprese all'esterno, mentre il decrescente lunare era più dedicato a cose riguardanti la salute, gli stati mentali, la semina della terra e le operazioni magiche. La Dea infatti era anche maga, e nella su qualità notturna era connessa al mondo degli inferi, con diversi attributi passati poi alla Dea Diana.

      Pertanto era Dea dei defunti e della morte, ma anche del contatto con i defunti soprattutto per la divinazione e i presagi. Anche il toro le era sacro sempre per il simbolismo delle sue corna, per quanto l'immagine di Luna è presente, insieme al Sole, anche in molte rappresentazioni della tauroctonia, l’uccisione rituale del toro bianco presente nei mitrei.

      L'immagine del sole sulla destra della rappresentazione e della luna alla sua sinistra venne copiata e divenne poi comune sulle tele trecentesche come accompagnamento della figura del Cristo in croce.
      Se il Sole rappresentava il mondo visibile, la Luna rappresentava il mondo invisibile degli Dei, dei Sacri Misteri e di tutti gli spiriti  che animavano la Natura ma soprattutto della antica magia sacerdotale e non.

      Il culto della Dea Luna venne poi sostituito in gran parte dal culto di Diana, altra Dea italica, che venne illustrata come Dea della caccia e sorella di Apollo, nonchè figlia di Latona. Della sua facoltà di donare vita e morte aveva conservato i due simboli: della luna piena, la cornucopia traboccante di frutti, e della luna nera o nuova, la cornucopia vuota.

      MITRA CHE UCCIDE IL TORO CON SOL E LUNA

      LA FESTA

      Durante la festa di culto pubblico veniva organizzata una processione diurna (pompa) e una notturna con le fiaccole nel bosco dove venivano anche appese altalene lunari in cui si dice che le sacerdotesse si cullassero per ottenere uno stato di trance attraverso cui predire il futuro.

      Nel culto diurno della Dea le veniva sacrificato un bue ornato di nastri e rametti di cipresso, albero a lei dedicato, e nelle ville romane a volte si organizzavano banchetti notturni a base di cacciagione. Col tempo il rito della processione notturna scomparve, forse anche a causa dei possibili disordini che ne seguivano.

      TOMBA DI FADILLA

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      La tomba di Fadilla, di età imperiale, è un ipogeo romano posto lungo la Via Flaminia a Roma, a Grottarossa, poco distante dalla tomba dei Nasoni, e prende il nome dal fatto che ospitava le spoglie di Fadilla, cioè Annia Aurelia Fadilla, una nobildonna appartenente alla famiglia degli Antonini.

      Fadilla (159 – 192 post), fu una dei tredici figli dell'imperatore Marco Aurelio (121- 180) e di sua moglie Faustina Minore (130-176). Nacque e visse a Roma, e, durante il regno del padre, Fadilla sposò il senatore Marco Peduceo Plauzio Quintillo, nipote dell'imperatore Lucio Vero (130-169), da cui ebbe due figli: (Plauzio) Quintillo e Plauzia Servilla.

      Durante il regno del fratello Commodo, la famiglia di Fadilla abitò sul Campidoglio che fu più tardi concesso all'imperatore Elagabalo come una delle residenze preferite dalla madre. 

      Suo marito Plauzio Quintillo fu uno dei maggiori consiglieri di Commodo ma venne condannato a morte nel 205 dall'imperatore Settimio Severo e si suicidò. Non si sa se a quella data sua moglie Fadilla fosse ancora viva.

      Secondo Erodiano, Fadilla avvertì Commodo del pericolo costituito da Marco Aurelio Cleandro, un prefetto del pretorio, divenuto troppo potente e anzi, nel 189, insieme ad una delle sue sorelle, Fadilla scoprì e rivelò una cospirazione di palazzo tesa alla rimozione dal trono di Commodo.

      La tomba è piccola ma incredibilmente ben conservata, e risale a un'epoca che va tra la fine del II e l'inizio del III secolo. Su tre pareti ospita tombe ad arcosolio, con nicchie scavate e sormontate da un arco, in cui venivano deposti i sarcofagi, mentre il pavimento è mosaicato a tessere bianche e nere con disegni raffinati. 


      Alle pareti pitture dai toni delicati ornano i muri e la volta con motivi floreali, pavoni, geni alati, volti di fanciulli e personificazioni delle stagioni. 
      La tomba venne ritrovata nel 1924 nei pressi della fattoria appartenente ai Casali Molinaro; l'anno successivo gli archeologi effettuati alcuni scavi, compresero da alcuni reperti che che nel luogo poteva sorgere una villa; ma non si è capito se la tomba fosse in qualche modo collegata alla residenza.

      Dopo un restauro di circa quindici anni, dal costo di circa quarantamila euro, l'ipogeo è stato riaperto il 22 settembre 2018 in occasione delle giornate europee del patrimonio.

      La tomba, che originariamente aveva una facciata, andata perduta, è scavata nel tufo e si presenta in un unico ambiente con soffitto a volta: il pavimento è a mosaico con tessere in bianco e nero disposte a forme geometriche, ottagoni e quadrati, con al centro la raffigurazione di un uccello che poggia su un ramo.

      Lungo tre pareti si apre si apre un arcosolio, ognuno contenente una coppia di sepolture poste sotto il piano della pavimentazione: nell'arcosolio centrale, sono affrescati due pavoni che con il becco reggono una benda a cui è legata una corona.

      Tra le altre pitture si riscontrano geni alati, personificazioni delle stagioni e volti di fanciulli. L'atmosfera è gioiosa e tranquilla, bel lontana dalla tristezza e dall'austerità dei successivi sepolcri cristiani. Una iscrizione nel muro riporta il nome di Fadilla, posta da parte del marito, forse in vita di entrambi.

      La tomba fu oggetto di spolio in particolare da parte della chiesa. Al nipote di Papa Clemente X fu consentito di strappare tre frammenti di affreschi, che trovarono poi sistemazione nella sua villa all’Esquilino. 

      Altri sei affreschi sono stati acquistati nel 1883 dal British Museum di Londra. 

      Della possente collina di tufo dove in origine era stata scavata la Tomba, inoltre, oggi rimane solo una piccola parte, a testimonianza della distruzione del paesaggio naturale e archeologico a causa prima della attività di estrazione del tufo, e poi dell’urbanizzazione selvaggia in barba ai piani regolatori e alla tutela del patrimonio.

      Infatti la tomba di Fadilla attualmente si trova all'interno di un condominio dei primi del '900, ma fin dal '700, la Tomba godette di grande popolarità: in un primo momento infatti si pensava fosse collegata a Ovidio o almeno alla sua famiglia, ma fu anche la complessità degli affreschi, con molti elementi mitologici, ad attirare l'attenzione dei molti visitatori di questa tomba. E a causarne purtroppo la spoliazione nel corso dei secoli.

      "A Roma non c'è solo il Colosseo, ma un patrimonio sterminato che dobbiamo tutelare e valorizzare", dice il soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, parlando di "sciagurata iniziativa del precedente esecutivo" in riferimento all'istituzione del Parco del Colosseo, che ha sottratto alla soprintendenza speciale di Roma l'anfiteatro, i Fori e il Palatino, principali fonti di reddito dell'istituzione.

      "La riforma di Franceschini - spiega Prosperetti - è ben fatta per molti aspetti, come le autonomie dei musei e l'unificazione delle soprintendenze, ma lasciandoci solo il 30% degli introiti da destinare non solo alla manutenzione dell'area archeologica, ma anche dei beni architettonici e artistici, rende la gestione del patrimonio di Roma difficilissima se non impossibile. 

      Spero che il nuovo ministro rimedi a questo errore", conclude.



      RIAPRONO LE TOMBE DEI NASONI E DI FADILLA

      "Un vero e proprio evento l'apertura straordinaria delle Tombe di Fadilla e dei Nasonii lungo l'Antica via Flaminia. Dopo oltre dieci anni, la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma riapre i luoghi di sepoltura al termine di un accurato intervento di restauro degli affreschi delle camere sepolcrali. 

      Le due tombe, scavate nel massiccio tufaceo dei Saxa Rubra, rappresentano monumenti di grande importanza non solo per la struttura e la tipologia decorativa ma anche per la loro ubicazione in un’area caratterizzata dalla straordinaria concentrazione di edifici funerari di carattere monumentale, come attestano le altre tombe rupestri e quelle della vicina area archeologica di Grottarossa, contribuendo a qualificare questo settore suburbano di particolare importanza nell'età antica. 

      Riapre così sulla via Flaminia un patrimonio culturale dimenticato di grande interesse e rilevanza, tombe rupestri imperiali, che permettono di ricostruire il paesaggio archeologico della importante via Consolare. Le aperture straordinarie delle Giornate Europee del Patrimonio daranno inizio a una serie di aperture al pubblico
      ." .

      VILLA DEI PAPIRI

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      RICOSTRUZIONE DELLA VILLA A CURA DI MAV (https://museomav.culturalspot.org/home)
      Villa dei papiri, conosciuta anche con il nome di Villa dei Pisoni, è una villa romana di Ercolano, sepolta durante l'eruzione del Vesuvio del 79 e ritrovata a seguito degli scavi archeologici. Il suo nome deriva dal fatto che al suo interno conservava una biblioteca con oltre milleottocento papiri, in gran parte imballata e chiusa in casse.

      Fu lo scavo di un pozzo a pochi km ad ovest di Resina che condusse all'importante scoperta di una sontuosa villa suburbana, sepolta a una profondità di 20-25 m. Quando, nel 1996, venne alla luce, la Soprintendenza Archeologica di Ercolano e Pompei tentò di mantenere il segreto, si voleva fare al mondo una sorpresa da lasciare senza fiato, ma la notizia fece malgrado tutto il giro del mondo. 

      La dimora dei Pisoni, che fino a quel momento era rimasta sepolta sotto la cenere e il fango di quel lontano agosto del 79 d.c., divenne invece la scoperta del secolo. Come si vede nelle ricostruzioni, fig.1 e fig.2, la villa era enorme e con lunghissimo porticato tutto sul lungo mare.

      RICOSTRUZIONE DELLA VILLA 

      I PAPIRI

      I primi papiri ritrovati furono creduti pezzi di carbone e buttati via. 

      Ma in realtà, sotto allo strato di lava, già dal 1752 alcuni archeologi più esperti avevano recuperato parecchi rotoli di papiro che compresero avrebbero potuto rivelare molto sull’antica storia romana.

      E’ stato possibile recuperare i papiri perché la carbonizzazione dei documenti non avvenne per il calore della lava, ma per un processo di mineralizzazione favorito dal materiale che sommerse Ercolano nel 79 d.c.

      I testi, scritti su di essi, sono per lo più di natura filosofica e quasi tutti in greco. La maggior parte di essi sono dell’epicureo Filodemo di Gadara, tranne alcuni testi poetici in latino. Gli studiosi sperano di ritrovare altri preziosissimi rotoli di papiro, da aggiungere ai 1826 già recuperati, e conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Una biblioteca antica, una rassegna della filosofia greca, da Epicuro a Filodemo di Gadara.

      INTERNI ORIGINALI DELLA VILLA ANCORA IN FASE DI SCAVO
      Le prime interpretazioni dei papiri, per lo più scritti in greco e solo pochi in latino, furono dovute a Camillo Paderni e all'abate Antonio Piaggio, il quale aveva creato una macchina simile ad un telaio per il loro studio, mentre in seguito venne fondata l'Officina dei Papiri Ercolanensi, trasferita poi alla Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III, nel Palazzo Reale di Napoli.

      Quelli studiati trattano quasi tutti di filosofia epicurea, in larga parte realizzati da Filodemo di Gadara, una piccola parte, quelli in latino, della guerra tra Marco Antonio e Cleopatra VII contro Augusto, tratta da un'opera chiamata De bello Actiaco, ma molti altri tuttavia devono essere ancora analizzati; negli anni 2010 diversi papiri sono stati studiati tramite tomografia (la tecnica spettroscopica mirata alla rappresentazione a strati).

      LA PARTE SCAVATA DELLA VILLA
      I rotoli di papiri della villa sono oggi conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli. I rotoli erano in buona parte carbonizzati ma una parte di essi è stata srotolata con risultati diversi, ma ora le cose sono cambiate, perchè vi è anche la possibilità di leggere i rotoli con l’uso dei raggi X.

      La stessa tecnica potrebbe essere adottata per leggere i rotoli scoperti nella parte della villa che non è stata ancora scavata evitando il bisogno di srotolarli che è un pericolo per i rotoli stessi ancora avvolti.

      STUCCHI ORIGINALI DELLA VILLA

      GLI SCAVI

      Con il terremoto di Pompei del 62, come gli altri edifici di Ercolano, la Villa dei Papiri rimase fortemente danneggiata per cui vi vennero eseguiti lavori di ristrutturazione e decorazione ma a lavori non ancora completati, come dimostrano i cumuli di calce e colori ritrovati, all'eruzione del Vesuvio venne sommersa da una colata di fango. Vi fu un'altra eruzione nel 1631 che coprì la zona sotto uno spesso strato di lava: ben venticinque - trenta metri di materiale piroclastico sopra l'antica villa.

      La villa venne ritrovata per caso durante la costruzione di un pozzo, e si procedette, sotto il regno borbonico allo scavo di cunicoli, nel 1750, sotto la direzione dell'ingegnere e archeologo Roque Joaquín de Alcubierre, e poi anche di Karl Weber, ingegnerearchitetto e archeologo svizzeroche realizzò le uniche piante dell'edificio. 

      VILLA DI PAUL GETTY - FACCIATA CON PISCINA
      Una, redatta nel 1751, riportava la zona del belvedere, ed un'altra, del 1754, poi rivista nel 1764, riportava tutti gli ambienti esplorati, i cunicoli e i reperti. Proprio in base a questa pianta Jean Paul Getty costruì la "Getty Villa", riproduzione della villa dei Papiri a grandezza naturale, utilizzata prima come abitazione privata e poi come museo a lui dedicato.

      La prima fase di scavi si concluse nel 1761, riportando alla luce non solo affreschi e pavimenti, ma anche un gran numero di statue e circa duemila rotoli di papiri, rinvenuti il 19 ottobre 1752; un'ulteriore, breve, campagna di indagini si ebbe tra il 1764 ed il 1765 con la partecipazione di Francisco la Vega e Camillo Paderni.

      RICOSTRUZIONE DELLA VILLA A CURA DI MAV (https://museomav.culturalspot.org/home)
      In seguito, a causa delle esalazioni tossiche di mofete (emissioni fredde di anidride carbonica), vennero chiusi tutti i pozzi di aerazione ed i cunicoli.

      Gli scavi della Villa dei Papiri ripresero nel 1980 quando venne nuovamente localizzata seguendo anche le antiche piante borboniche, mentre le operazioni di scavo a cielo aperto iniziarono nel 1985. 

      Gli scavi proseguirono con andamento lento e infruttuoso, resi pericolosi dai crolli e dalle esalazioni di gas, furono abbandonati per quelli di Pompei.

      PLANIMETRIA FIG.6

      Nuovi scavi si ebbero si ebbe tra il 1996 ed il 1998, quando gli archeologi del consorzio ERPO ‘90, in collaborazione con i tecnici dell’Infratecna, si sono adoperati per quella che fu la residenza “estiva” del suocero di Giulio Cesare, Lucio Calpurnio Pisone.

      Invece dal 2002 fu messa in opera un'azione di bonifica tramite l'utilizzo di pompe idrovore, per tenere costantemente all'asciutto la parte esplorata: gli ambienti visibili si limitano infatti all'atrio, alla basis villae ed alcune stanze di un livello inferiore.

      GLI SCAVI DELLA VILLA 
      Fino ad oggi lo scavo ha interessato un’area di 14.000 mq, di cui 1500 con opere monumentali. Ma la Villa,  da sola, ha una superficie paragonabile a tre campi da calcio uniti, e si estende sotto l’attuale centro abitato, a 25-30 m. di profondità.

      La costruzione della Villa dei Papiri era avvenuta tra il 60 ed il 50 a.c., appartenuta con molta probabilità appunto a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Gaio Giulio Cesare, nonché protettore del filosofo Filodemo di Gadara, le cui opere erano conservate all'interno della dimora. 

      ALTRI SCAVI DELL VILLA
      Tuttavia secondo altri archeologi, il proprietario potrebbe essere stato il figlio, Lucio Calpurnio Pisone Pontefice, o Appio Claudio Pulcro, cognato di Lucullo e console nel 38 a.c.al quale è dedicata una statua nel teatro.

      Di recente, attraverso uno scavo che dal litorale degli scavi arriva fino alla villa, si è iniziato un nuovo programma di esplorazioni che ha già portato alla luce alcune nuove sculture. Più che per la sua struttura architettonica, la villa diventò immediatamente famosa per i suoi straordinari reperti.

      I SCAVI PIU' RECENTI TUTT'ORA IN ATTO

      Nell'atrio, lungo i peristili e in alcuni degli ambienti era infatti disposta la più ricca serie di sculture mai rinvenuta in un'abitazione privata: 58 sculture in bronzo e 21 in marmo, alcune di grandi dimensioni; ricordiamo tra le tante l'Hermes in riposo, il gruppo delle Danzatrici, il Sileno ebbro, il Satiro dormiente, i Lottatori, il gruppo di Pan e l'ariete e il cosiddetto Pseudo-Seneca.

      Oggi il complesso di statue rinvenute nella villa si trova al primo piano del Museo Archeologico di Napoli, nell'ala occidentale. Sempre al museo archeologico, sono esposti due esemplari della macchina per svolgere i rotoli di papiro carbonizzati realizzate nel XVIII secolo dal padre Antonio Piaggio.

      RICOSTRUZIONE DEL PORTICO

      DESCRIZIONE DELLA VILLA

      La Villa dei Papiri sorgeva a strapiombo sul mare, con un edificio della lunghezza di oltre 250 metri, ergendosi su ben tre livelli, dunque di grandi dimensioni e di grande valore.

      Essa ha una struttura a forma quadrata, a sua volta divisa in quattro quadrati, ma quelli meridionali erano adibiti ai servizi, come alloggi, cucine, magazzini, latrine e deposito dei papiri, mentre quelli settentrionali alla zona residenziale e ludica.

      La basis villae, cioè la terrazza artificiale, era totalmente intonacata di bianco, con una lunghezza di circa venticinque metri, ma non è stata riportata completamente alla luce nella sua altezza.

      LE STATUE ORIGINALI RINVENUTE NELLA VILLA
      Però si è scoperto che aveva ampi finestroni, provviste di battenti in legno con cerniere, quattro finestre erano poi sormontate da oculi strombati, cioè che si aprivano seguendo una diagonale per ricevere più luce dall'esterno.

       All'interno di una di queste finestre c'è un ambiente parzialmente esplorato, del quale non è stato ancora raggiunto il piano di calpestio, decorato nella volta con tralci di vite e quadretti di amorini e animali marini, mentre nella parete di fondo, in rosso, si vede un amorino e delle ghirlande: si notano inoltre degli architravi in legno, segno di aperture che conducono ad ambienti ancora non esplorati.

      L'ingresso, che affacciava direttamente sul mare, è preceduto da un portico con colonne, simile a quello di Villa dei Misteri a Pompei, pavimentato con mosaico con tessere bianche e nere e conserva ancora la decorazione parietale.

      RICOSTRUZIONE DEL SECONDO PERISTILIO (FIG. 13)
      La villa, che discendeva verso il mare con quattro piani di terrazze, accoglieva in questo grande peristilio un giardino patrizio e una piscina scoperta, dove erano sistemate le erme-ritratto sia di condottieri e sovrani che di filosofi e letterati greci, più altre di ispirazione ellenica.

      Il suddetto peristilio era lungo cento metri e largo trentasette, con affreschi in quarto stile (con finte prospettive e finti marmi), con un giardino contornato da un portico con sessantaquattro colonne ed al centro una piscina.

      Un lungo viale conduceva ad un belvedere con pavimento in marmi policromi, asportato per essere conservato prima alla reggia di Portici, poi al museo nazionale; la villa era dotata anche di un impianto idrico a servizio delle numerose vasche, fontane e bagni. Tra i vari reperti ritrovati, ci sono ami, cumuli di grano, lucerne ed una meridiana in bronzo, con intarsi in argento.

      RICOSTRUZIONE DEL TEATRO DELLA VILLA
      Nell'ambulacro, al momento dello scavo, furono ritrovate numerose statue in marmo e bronzo, alcune delle quali spostate dalla loro posizione originale per via dei lavori di restauro, oggi esposte al museo archeologico nazionale di Napoli.

      Questo peristilio era il maggiore dei due che adornavano la struttura, circondato da un magnifico colonnato e da portici, che racchiudeva una piscina di ben 66 m. di lunghezza. Intorno al peristilio si aprono altri ambienti tra cui la biblioteca ed il tablino: nella prima furono rinvenuti 1826 rotoli di papiro carbonizzati, custoditi in alcune casse ed avvolti in scorze di legno, alcuni dei quali andati perduti o perché originariamente creduti semplici pezzi di carbone o andati distrutti durante la fase di srotolamento per effettuarne una possibile lettura.

      Da qui si passava all'atrio che presenta un impluvium contornato da undici statuette utilizzate come fontane e sul quale si aprono diversi ambienti, pavimentati a mosaico, anche se in alcuni punti asportato durante le esplorazioni borboniche, e decorazioni parietali con affreschi in secondo stile (stile architettonico con finte prospettive), risalenti quindi al periodo di costruzione della villa.

      IL PRIMO PERISTILIO ALLORA E OGGI
      Nel corso degli scavi nel tablino, fatto a forma di esedra, che riproduceva l'ephebeum di un ginnasio greco, furono ritrovate opere scultoree sia in bronzo che in marmo, come un busto femminile, due busti di flamine e riproduzioni del Clamidato, dell'Eracle di Policleto, dell'Efebo e di Athena Promachos: nella Villa dei Papiri sono state rinvenute un totale di ottantasette statue, di cui cinquantotto in bronzo ed il restante in marmo, realizzate nel I secolo a.c., rifacendosi a quelle greche, risalenti al IV e al III secolo a.c.

      Poco distante sorgeva un piccolo impianto termale con sistema di riscaldamento dell’acqua e piccole “saune” lungo le pareti. Gli ambienti erano caratterizzati da pavimenti a mosaico, tutti con temi differenti, e da bellissimi affreschi.

      RICOSTRUZIONE
      Gli scavi della villa sono tutt'ora in corso, e proseguono lentamente sia a causa delle oggettive difficoltà negli scavi che per carenza di fondi. Le difficoltà incontrate nel corso dell’operazione sono state notevoli, ed ancora buona parte della struttura è sepolta e non visitabile.

      La villa infatti oggi è a circa quattro m. sotto in livello del mare, trenta m. al di sotto dell’abitato moderno di Ercolano, e per giunta nei pressi di una falda acquifera; l’allagamento viene evitato con un sistema di pompe, e c’è ancora molto da lavorare per completare il recupero dell’intera zona, facendo attenzione a non danneggiare il centro abitato. Per il momento sono aperte al pubblico alcune sale del primo piano ed un’area limitata del piano inferiore.

      RICOSTRUZIONE

      IL TRONO REGALE

      Recente è il ritrovamento di un prezioso trono regale, in legno e avorio, finemente decorato con vivide scene relative al culto del Dio Attis. Il Trono è riemerso proprio nella zona della falda affiorante a 50 m. dalla villa, sotto 25 m. di deposito vulcanico.

      IL TRONO REGALE
      E' un ritrovamento parziale, perché per il momento sono rinvenute le due gambe dritte del trono con l'inizio dello schienale, ma eccezionale, perché si tratta del primo esempio di arredo di questo genere giunto a noi dall'antichità.

      Mentre le sedie avevano gambi ricurvi, solo i troni li avevano diritti, per cui doveva appartenere a un grande dignitario.

      La preziosità e il carattere cultuale delle decorazioni potrebbero però essere pertinenti a un uso religioso nell'ambito del culto di Cibele e di Attis.

      "L'eccezionalità della scoperta riguarda sia il rivestimento del legno con lastre di avorio, il cui colore bruno è dovuto all'adesione al legno sottostante, sia la complessità delle scene raffigurate, relative al culto frigio di Attis, venerato nel mondo greco-romano e amato dalla dea Cibele per la quale, in preda a una crisi di gelosia, si evirò sotto un pino. Il culto di Attis nel mondo romano fu introdotto dall'imperatore Claudio (41-54 d.c.) e la sua raffigurazione non è certo una novità ad Ercolano.


      "Si tratta di un Trono, e non di una sedia - ha ribadito Ernesto De Carolis, studioso di mobili di epoca romana - lo dimostrano le gambe dritte e l'attacco verticale per lo schienale, elementi riconducibili a un 'trono greco', un arredo di lusso, regale, perché le sedie, invece, avevano le gambe curve. Il mondo romano assunse da quello greco l'uso del trono, chiamandolo 'solium', mobilio che divenne poi piuttosto comune nelle case dei romani. La preziosità del 'solium', e quindi il livello sociale di chi lo possedeva, si ricava dal materiale usato per la sua costruzione, che poteva essere più o meno prezioso".

      Quello appena rinvenuto a Ercolano è senza dubbio un esempio prezioso di 'solium', la cui struttura lignea si presenta rivestita da un'impiallacciatura di avorio decorata a rilievo, di spessore variabile da 1 a 8 millimetri. La preziosità e il carattere cultuale delle decorazioni potrebbero far anche pensare a un uso del prezioso trono nell'ambito dei culti.
      Nel frattempo il mondo si interessa sempre di più alla magica Villa: dopo l’appello dello scorso anno sul “Times” , a firma dei più noti studiosi mondiali dell’antichità, e il contributo dell’ Unione Europea che ha reso possibile il completamento dell’attuale intervento di recupero, anche alcune fondazioni estere, come la Fondazione americana Hewlett Packard, si sono dichiarate disponibili a “sponsorizzare” nuovi lavori.



      GENS CAMILIA O CAMILLA

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      STATUA DI UN CAMILLUS
      La gens Camilia fu un'antichissima famiglia patrizia, esistente già ai tempi di Romolo, e probabilmente inclusa nelle cento gentes originarie ricordate dallo storico Tito Livio. Secondo Theodor Mommsen l'antichità di questa famiglia si deduce dal fatto che essa diede il nome ad una delle tribù rustiche, l'omonima Tribù Camilia. Come è noto, le Tribù rustiche erano formate da Pagi siti su terreni che appartenevano ad antichissime famiglie Patrizie, delle quali presero il nome.

      Insomma la gens Camilia avrebbe tratto il proprio nome dal collegio sacerdotale dei Camilli, istituito da Romolo, dei giovani che assistevano i sacerdoti durante i sacrifici, e che dovevano essere liberi di nascita, impuberi e con i genitori viventi.
      Va notato che i confini territoriali della Tribù Camilia andarono estendendosi man mano che si ampliava la concessione della cittadinanza romana, dapprima alle popolazioni italiche, in seguito a quelle delle province; infatti in età Repubblicana e Imperiale furono iscritte alla Tribù Camilia diverse importanti città come Tivoli, Vicovaro, Alba Longa, Lupiae, Ravenna, e l'antica regione romana della Liguria (Alba Pompeia e Augusta Bagiennorum.

      BRENNO E FURIO CAMILLO

      LA VERGINE CAMILLA

      Camilla, personaggio dell'Eneide di Virgilio, è figlia del tiranno di Privernum, cacciato dalla sua città Volsca, che porta con sé la bimba in fasce ma giunto sulla riva del fiume in piena la avvolge con la corteccia di un albero, la lega alla lancia e la getta sull'altra riva. Camilla arriva sana e salva perché il padre l'aveva consacrata alla Dea Diana (da cui il nome Camilla). Appartiene ai salvati dalle acque, come Romolo e Remo. 
      I Volsci la eleggono loro regina e quando Enea giunge nel Lazio per scontrarsi coi Rutuli, Camilla soccorre Turno alla testa dei Volsci. Al suo seguito ha anche donne guerriere, tra cui la fedele Acca.
      Camilla è valorosissima ma il giovane etrusco Arunte le scaglia contro una freccia, guidata da Apollo, che la ferisce a morte. Camilla cade e affida ad Acca un ultimo messaggio per informare Turno. Arrunte intanto cerca di fuggire, ma viene ucciso da una freccia di Opi, ninfa del seguito di Diana.

      Camilla è vergine in quanto seguace di Diana e si chiama Camilla in quanto membro delle gens Camilla o Camilia, che hanno il privilegio di fornire sacerdoti al culto di Diana. Il culto prima femminile diventa maschile e poi di ausilio nei sacrifici ai sacerdoti. Insomma è un antico privilegio un po' sbiadito nei secoli.
      MARCUS FURIUS CAMILLUS

      MARCO FURIO CAMILLO

      Marcus Furius Camillus, nato circa nel 446 e morto nel 365 a.c., è stato un Generale e uomo politico romano di famiglia patrizia, che ha esercitato dall’inizio del IV sec., in era repubblicana, fino al 366, anno della sua morte, un’indiscussa autorità sulla repubblica romana.
      Fu censore nel 403 a.c., celebrò il trionfo ben quattro volte, cinque volte fu dittatore, e fu onorato con il titolo di Pater Patriae, nonchè di Secondo fondatore di Roma. Fu sei volte tribuno militare con potestà consolare e venne chiamato il Secondo Romolo.
      Come si vede nel IV secolo a.c. esisteva ancora una gens Camilla patrizia, o almeno un ramo patrizio e magari anche un ramo plebeo. A volte si diventava plebei, per rovesci finanziari, per matrimonio con plebei o per altre ragioni.
      Per un approfondimento: MARCO FURIO CAMILLO



      THEODOR MOMMSEN

      Poiché però in epoca storica si trovano esponenti della Gens Camilia soltanto di ceto plebeo, il Mommsen ritiene che la famiglia patrizia originaria si fosse estinta precocemente, lasciando tuttavia il nome alla propria Tribù, divenuta nel 495 a.c. una delle prime 16 tribù rustiche.


      BIBLIO

      - Georges Dumézil - Camillus: A Study of Indo-European Religion as Roman History - University of California Press - 1980 -
      - L. Pareti - Storia di Roma e del mondo romano, vol. II, Torino, 1952 -
      - Giampiera Arrigoni - Camilla Amazzone e sacerdotessa di Diana - Milano - 1982 -
      Giovanni Brizzi - - Storia di Roma, I, Dalle origini ad Azio - Bologna - Pàtron - 1997 -

      LUCUS POETELINUS

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      IL LUCUS

      "Il culto dei boschi sacri, comune a tutti i popoli dell'antichità, fu in grande onore anche presso i Romani e se ne trovano importanti ricordi fino agli ultimi tempi del paganesimo. Ed anzi tanto era esso radicato nell'animo del popolo, che se ne possono sorprendere non ispregevoli tracce persino nei primi secoli dell'età cristiana, come dimostrerò in altro mio lavoro, che farà seguito al presente. 'È appena necessario ricordare che ai boschi sacri davasi dai Romani il nome speciale di Lucus; nome che deve distinguersi, come ci avvertono gli antichi scrittori, da Silva e da Nemus, usati per indicare i boschi privi del carattere sacrale. 

      I luci erano in origine quella parte delle selve destinate al culto, e dove gli abitanti primitivi si radunavano per attendere ai riti religiosi. Essi devono quindi considerarsi come i primi templi: dal lucus si passò alla aedicula, o piccola cappella, costruita dinanzi ad un albero sacro; dalla aedicula al sacellum, costituito, come dicono Pesto e Trebazio, da un piccolo tratto di terreno, cinto da un muro, e con un'ara nel mezzo; dal sacellum, finalmente, alla aedes sacra, o tempio, Ma questa trasformazione non fu così radicale, che accanto ai templi non continuassero ad esistere."

      (Rodolfo Lanciani)

      PONTE ROTTO A SINISRAE PONTE 4 CAPI (PONTE CESTIO)

      LUCUS POETELINUS

      "Cespius mons quinticeps cis lucum Poetelium, Esquiliis est."

      Il Lucus è anche detto Petelinus, o Peielinus o Poetelius, o Poetilius. Sembra facesse parte del Cespius e quindi del Mons Exquilinum.

      Nella regione IX il Lucus Petelinus è ricordato due volte siccome luogo posto "intra portam Flumenianam", nel quale si tennero i comizi centuriati, nel 370 a.c. pel processo di Marcus Manlius (Liv. 6, 19 segg.), e nel 412 (Liv. 7, 89 segg.). La identificazione però è incerta (cf. Mommsen, Om. Forsch. 2 p. 192. Gilbert 3 p. 142 seg.). 

      FORUM HOLITORIUM
      Il Lucus è anche ricordato da Livio e da Plutarco, a proposito del caso Marco Manlio Capitolino, che ne attestano l'esistenza almeno in etå alto repubblicana:
      "Si erano da prima i comizi radunati nel Campo Marzio; ma poscia, avendo Manlio additato il Campidoglio, che dal Campo Marzio si scorgeva, e da lui salvato nella precedente invasione gallica, i tribuni consolari, temendo che il popolo a tale ricordo si commuovesse, giudicarono conveniente di trasportare la sede del giudizio in luogo di dove il Campidoglio non fosse visibile, scegliendo come nuova sede il bosco Petelino."

      Tito Livio determina il sito del bosco dicendo che si trovava extra portam Flumentanam, che i topografi si accordano nel collocare presso il Forum Holitorium, e cioè tra l'odierno ponte Rotto e ponte Quattro Capi, presso a poco dove ora sta la via o vicolo del Ricovero.

      PIAZZA SANTA MARIA MAGGIORE
      "Non avendo altre notizie di questo sacro boschetto, l'unico mezzo per fissarne la posizione topografica si è di ricavarla dall'ordine seguito nel documento degli Argei. Siccome, dunque, il lucus Poetelius è indicato sul Cispio e menzionato dopo il secondo sacello del lucus Esquilinus (quarto dell'intera regione), lo si deve collocare in quella parte del Cispio più vicina a quest'ultimo bosco, e quindi presso a poco nell'altura dove ora sorge la basìlica di S. Maria Maggiore. 

      A questa ubicazione induce anche il fatto che non possiamo collocare il Poetelius nell'altra parte del Cispio, perchè ivi era certamente situato, come tra poco vedremo, il lucus di Giunone Lucina ed il sacello che nel documento viene indicato come vicino al tempio di questa Dea."

      (Rodolfo Lanciani)
      Risultato immagini per porta flumentana"
      PORTA FLUMENTANA

      PORTA FLUMENTANA

      La collocazione della Porta Flumentana è ancora dibattuta tra gli studiosi, ma per lo più viene collocata nell'area giacente tra il Campidoglio, il Palatino ed il Tevere, presumibilmente presso la chiesa di S.Teodoro, all'inizio di  Vico Giugario (Vico Jugarius) che però sembrerebbe legato alla Porta Carmentalis, o almeno poco distante, tra questa posizione ed il Tevere.

      Di certo la porta si trovava in quella zona dell'ansa del Tevere, subito dopo l'isola Tiberina, che fino in epoca augustea era regolarmente soggetta ad inondazioni ad ogni piena del fiume, con danni anche ingenti in tutta l'area che, col tempo, si era andata popolando anche fuori dalla porta.

      Insomma c'è chi ipotizza il lucus Poetelinus a Santa Maria Maggiore, chi sulle rive del Tevere e chi presso la chiesa di San Teodoro, ma certezze ancora non ce ne sono.

      DYRRACHIUM - DURAZZO (Albania)

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      LE MURA
      Durazzo è tra le città più antiche dell'Albania ed è stata fondata dai coloni greci, con il nome di Epidamno, nel 627 a.c. e precisamente da alcuni colonizzatori corinzi e corciresi (da Corcira, cioè Corfù) in Illiria (Illyricum, in latino, la parte occidentale della penisola balcanica, verso la costa sud-orientale del Mare Adriatico), nel territorio dei Partini, un'antica popolazione dell’Illiria meridionale, ed è ritenuta una delle città più antiche dell'Albania.

      Nella colonia sorgeva un famoso tempio di Afrodite, citato anche da Catullo nel carme 36 e frequentato da molti pellegrini che venivano anche da lontano per il miracoloso santuario della Dea.
      Nel 433 a.c. la popolazione si ribellò e instaurò la democrazia ad Epidamno, ma poi gli aristocratici oligarchi della città massacrarono i dissidenti, che chiesero aiuto prima a Corcira e poi a Corinto.

      I corciresi, su richiesta degli aristocratici, risposero e cinsero d'assedio la città e perciò i corinzi inviarono una flotta, guidata da Senoclide, che dovette affrontare la flotta congiunta di Epidamno e Atene, guidate rispettivamente da Miciade ed Euribaco e da Lacedemonio.

      Questa battaglia viene ritenuta la causa della guerra del Peloponneso, che inizierà nel 431 a.c..

      Nel 312 a.c. la città fu conquistata dai Glaukias, il re degli Illiri, e nel 229 a.c. fu conquistata dai Romani, che ne fecero un loro protettorato.

      Finita la I guerra illirica, nel 229 a.c., e sconfitta nello stesso anno la regina Teuta, Epidamno divenne così stato cliente di Roma, cioè ancora indipendente, ma nella "sfera di influenza" dell'Impero romano, governato da Demetrio di Faro.

      Questi però iniziò proditoriamente ad avventurarsi con atti di pirateria nel mare Adriatico, saccheggiando e distruggendo le città illiriche soggette ai Romani, violando la clausola del trattato.

      LA BELLA DI DURAZZO - MOSAICO GRECO IV SEC. A.C.
      I Romani sconfissero Demetrio che si rifugiò presso Filippo V di Macedonia (238 a.c. – 179 a.c.) di cui divenne fidato consigliere. I Romani inviarono una ambasciata al re, per chiederne la consegna, ma inutilmente.

      Nel 217 a.c. Filippo seppe della vittoria cartaginese nella battaglia del lago Trasimeno e Demetrio, per riconquistare il regno perduto, gli consigliò di fare pace con gli Etoli e di attaccare l'Italia e l'Illiria.

      Filippo il Macedone si fece convincere dai consigli di Demetrio, tanto che fu conclusa in breve tempo la pace con la Lega etolica e, dopo aver armato una nuova flotta, i macedoni iniziarono delle operazioni nel Mare Adriatico. Demetrio morì durante l'assalto a Messene nel 214 a.c.

      Nel 219 a.c., dopo la II guerra illirica, Dyrrhachium passò nelle mani dei Romani, che la difenderanno dall'attacco dell'ultimo re illirico, Genzio. La città, sotto il dominio romano, verrà rinominata Dyrrachium. Due anni dopo la fine della IV guerra macedonica tutta la regione balcanica meridionale venne inclusa nella nuova provincia romana di Macedonia.

      MOSAICO DI DURAZZO

      GENZIO

      All'inizio della III Guerra Macedonica, nel 171 a.c., 54 navi illiriche della flotta di Genzio vennero requisite dal pretore romano Caio Lucrezio, perchè servivano all'esercito romano.

      LE COLONNE CHE SEGNANO L'INIZIO DELLA VIA IGNAZIA
      Fino ad allora Genzio non aveva preso una posizione, nè con i romani nè con gli illiri. Le ambasciate romane andarono a vuoto, anzi uno degli ambasciatori, Lucio Decimio, fu accusato di essersi fatto corrompere da Genzio.

      Anche le ambasciate di Perseo rimasero infruttuose: Genzio richiedeva ingenti somme di denaro per rivoltarsi contro i romani, ma Perseo era riluttante.

      Giunti al IV al anno di guerra, il 168 a.c., piuttosto allarmato dai successi dei romani, Perseo si alleò con gli illiri, dopo il pagamento di 300 talenti.

      Fu firmato un trattato, confermato da giuramenti e dallo scambio di ostaggi dopodichè Genzio iniziò la guerra contro Roma, ma senza aver ricevuto la cifra pattuita.

      Compì atti che per Roma erano una dichiarazione di guerra: fece arrestare due legati romani e cercò di occupare le città di Apollonia (vicino a Fier, Albania), e di Dyrrhachium (Durazzo).

      Visto che ormai Genzio era compromesso con la Macedonia, Perseo decise di ritirare i messaggeri e quindi di non pagare la somma concordata.



      LA VIA EGNAZIA

      Intanto i Romani, compresa l'importanza della città e del suo porto, iniziarono immediatamente i lavori della Via Egnatia (nel 146 d.c.), per ordine del proconsole romano Marco Egnazio, che, partendo da Dyrrhachium, giungeva sino a Bisanzio passando per Tessalonica, ponendo in comunicazione il basso Adriatico con l'Egeo settentrionale.

      La Via Egnatia attraversava Salonicco a Bisanzio, ed è stata la strada più importante, considerata il proseguimento ideale della Via Appia, lunga circa 1.103 chilometri seguiva via del commercio che attraversa i Balcani, che ovviamente non è rimasta senza alcuna influenza sulla città.

      Dyrrhachium in questo periodo stava sviluppando molto rapidamente, per l'approvvigionamento idrico e reti fognarie, nonché per l'anfiteatro che era in costruzione.

      IL FORO ROMANO

      LA III GUERRA ILLIRICA

      Pur essendo stato tradito dall'alleato, Genzio, invece di chiedere la pace, radunò l'esercito per prepararsi alla III Guerra Illirica. Lucio Emilio Paolo (detto poi Macedonico dopo la sua vittoria nella III Guerra Macedonica - 229 - 160 a.c.), che in quel momento stava conducendo appunto la guerra contro Perseo, incaricò il pretore Lucio Anicio Gallo di procedere contro gli Illiri. Non appena Lucio Gallo iniziò ad avanzare in Illiria alla testa dell'esercito romano, molte città si arresero senza combattere.

      Lucio Anicio, accampato presso Apollonia, sapendo che gli illiri stavano razziando le coste tra Apollonia e Dyrrhachium, condusse la flotta romana contro le navi degli illiri, catturandone alcune e facendo fuggire le altre.

      Quindi accorse in aiuto di Appio Claudio e dei Bessaniti, assediati da Genzio. All'arrivo delle truppe romane il re però tolse l'assedio e corse a rifugiarsi nella sua roccaforte di Scodra, mentre il resto del suo esercito si arrendeva ai Romani.

      ILLIRIA - DYRRACHIUM - STATERE ARGENTO
      DI TIPO CORINZIO (350-229 A.C.)
      Lucio Anicio, come in genere usavano i generali romani, fu clemente con quelli che si arresero e, perciò, tutte le città illiriche seguirono l'esempio dell'esercito: così che l'esercito Romano avanzò molto velocemente verso Scodra (Scutari, Albania).

      Sotto le mura della città Genzio provò a combattere ma venne immediatamente sconfitto, per cui chiese, e ottenne, una tregua di tre giorni. Genzio sperava che il fratello Caravanzio giungesse con dei rinforzi, ma poichè nulla accadeva uscì dalla città e andò al campo romano dove si arrese senza condizioni.

      Lucio Anicio Gallo entrò in Scodra e liberò i legati fatti prigionieri dagli Illiri ed inviò Perperna, uno dei legati, a Roma per informare il Senato della completa vittoria su Genzio. L'intera campagna era durata meno di trenta giorni. 

      Il Senato stabilì tre giorni di festeggiamenti e, al suo ritorno a Roma, Lucio Anicio Gallo celebrò il proprio trionfo su Genzio che fu condotto prigioniero, e che, assieme alla moglie e ai figli, fece parte del trionfo di Anicio nel 167 a.c.. Quindi fu inviato al confino a Spoleto, dove probabilmente finì i suoi giorni. La città, sotto il dominio romano, venne rinominata Dyrrachium.



      BATTAGLIA DI DYRRACHIUM

      Durante la Guerra Civile del 49 a.c., a Dyrrhachium si scontrarono gli eserciti di Giulio Cesare (100-44 a.c.) e Gneo Pompeo (106-48 a.c.). Nonostante la battaglia sia stata vinta dai pompeiani, la ripiegata dei cesariani non fu un caso, perchè la fuga condusse gli inseguitori a dare battaglia nel luogo prescelto da Cesare.

      STELE ATTICA IV SEC. A.C.
      Infatti, pochi mesi dopo, nella battaglia di Farsalo, Cesare sconfisse definitamente Pompeo.

      Due anni dopo la fine della IV Guerra Macedonica, che costò la distruzione di Corinto, tutta la regione balcanica meridionale divenne provincia romana di Macedonia. 

      I Romani per l'occasione iniziarono subito i lavori della Via Egnatia che, partendo da Dyrrhachium, giungeva a Tessalonica e poi a Bisanzio.

      In seguito, sotto il regno di Augusto, Dyrrhachium divenne una colonia per l'insediamento dei veterani della battaglia di Azio e venne proclamata "civitas libera".

      Da allora la città e il suo porto prosperarono con gli scambi commerciali. Verso la fine del II secolo, sotto l'imperatore Traiano (53-117), venne edificato l'imponente anfiteatro romano, che, con i suoi 20.000 posti, era il più grande di tutti i Balcani.

      Con la riforma tetrarchica di Diocleziano  (244-313), alla fine del III secolo, la provincia venne divisa in Epirus Novus ("Nuovo Epiro") e Epirus Vetus ("Epiro vecchio"). Dyrrhachium divenne capitale della nuova provincia dell'Epirus Novus, comprendente la zona meridionale dell'Albania e la zona nord-occidentale dell'attuale Grecia.

      RESTI ROMANI
      Dyrrachium risentì ovviamente della caduta dell'Impero Romano d'Occidente nel 476, per l'enorme flessione dei commerci, inoltre, durante le invasioni barbariche del V secolo, come buona parte dei Balcani, la città fu saccheggiata più volte, e nel 481 venne stata assediata da Teodorico, re degli Ostrogoti, inoltre è stata ripetutamente attaccata dai Bulgari, che però non riuscirono a conquistarla.
      Dopo la suddivisione dell'Impero Romano, Durazzo rimase parte dell'Impero Romano d'Oriente, (Bizantino).

      Nel V secolo la città venne colpita da un violento terremoto che causò molti danni, tuttavia l'imperatore bizantino Anastasio I, nato a Dyrrachium nel 430, ordinò la costruzione di un ippodromo e di una possente cinta muraria, quella che possiamo ammirare anche oggi, alta 12 metri, a protezione della cittadella. Infatti la città rientrava nei territori dell'Impero Bizantino, ed era sede del "Thema" di Dyrrachion, che si trovava nell'Epiro ed aveva come capitale Durazzo.

      L'ANFITEATRO

      L'ANFITEATRO

      Alla fine del II secolo, sotto l'imperatore Traiano (53-117), venne realizzato l'imponente anfiteatro romano, che poteva contenere dai 20000 ai 25.000 posti, ed era il più grande di tutti i Balcani. Esso era posto al centro della città e venne utilizzato fino al disastroso terremoto che colpì la città di Durazzo nella seconda metà del IV secolo.

      Il monumento venne usato soprattutto per le corse dei cavalli e per i giochi gladiatori fino ad un disastroso terremoto che colpì Durazzo nella seconda metà del IV secolo. Ma non venne ricostruito anche a causa del bando imperiale dei giochi gladiatori.

      Nel VI secolo venne costruita, all'interno di una stanza dell'anfiteatro, una cappella cristiana, decorata, con mosaici visibili ancora oggi. Ma non bastava e un'altra cappella venne ancora inserita nel sito nel XIII secolo, sempre con decorazioni a mosaico che però non si sono conservati.

      ANFITEATRO 
      L'anfiteatro è citato da Marino Barlezio (1450 –1513) nella sua "Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirutarvm Principis", opera scritta nel 1508. Nel XVI secolo l'anfiteatro fu ricoperto dal terreno dopo l'invasione ottomana, e vi furono costruite sopra diverse case che ancora oggi impediscono la conservazione del sito.

      Negli anni '60 del '900 iniziarono i primi scavi per riportare alla luce l'anfiteatro, tuttavia questo causò un forte deterioramento della struttura, dato che non furono presi provvedimenti per la sua conservazione, per cui tutti poterono prelevare ciò che volevano.

      Attualmente è un'attrazione turistica, nonostante una buona parte della struttura non sia ancora stata ancora dissotterrata e giaccia per giunta sotto le case moderne della zona. Non si comprende cosa aspetti il comune ad espropriare le case risarcendo i proprietari.

      Spesso i siti vengono abbandonati per mancanza di fondi, senza però aver stanziato, nella cifra iniziale, le spese di manutenzione del sito, in mancanza delle quali è meglio che il suddetto sito resti sepolto.

      ANFITEATRO

      LA VALORIZZAZIONE DEL CENTRO ARCHEOLOGICO

      Il centro storico di Durazzo è ancora tutto da scavare, il che darebbe un grande aiuto all'economia della città apportando notevole turismo con conseguenti apposite strutture.

      Dal 2004 fa parte di un progetto di valorizzazione del centro storico della città attraverso la creazione del Parco Archeologico Urbano di Durazzo, e il Ministero della Cultura della Repubblicana di Albania ha richiesto il supporto dell’Università di Parma per la nuova funzionalizzazione del grandioso anfiteatro romano, costruito nel II secolo d.c. e riscoperto nel 1966 dagli archeologi albanesi, ma solo parzialmente scavato e in una situazione di forte degrado.

      Dal 2004 fa parte di un progetto di valorizzazione del centro storico della città attraverso la creazione del Parco Archeologico Urbano di Durazzo, in cui sono coinvolti l'università di Parma, il Ministero degli Affari Esteri, la municipalità di Durazzo e il Ministero della Cultura albanese.

      Il Ministero degli Affari Esteri italiano ha accolto questa proposta come Progetto Pilota cofinanziando nel 2004, 2005 e 2006 la missione archeologica italiana a Durazzo. 
      (Progetto Pilota UNIPR-MAE D.G.P.C.C. uff.V “Progettazione e realizzazione del Parco Archeologico Urbano di Durrës”).

      LE MURA DEL V SECOLO
      Fin dall’inizio delle attività è stato determinante:
      - il sostegno dell’Ambasciata d’Italia a Tirana, ed in particolare:
      - del prof. Adriano Ciani, Addetto alla Cooperazione Universitaria, Scientifica e Tecnologica, 
      - del Magnifico Rettore dell’Università di Parma, prof. Gino Ferretti, 
      - e dell’on. prof. Neritan Cˇeka, membro dell’Accademia delle Scienze albanese, ai quali va la nostra particolare gratitudine. 
      - Ringraziamo inoltre il prof. M. Korkuti, Direttore dell’Istituto Nazionale di Archeologia, per il sostegno e i preziosi consigli, 
      - i colleghi del Dipartimento di Storia dell’Università di Parma 
      - e il prof. P. Bobbio per l’appoggio scientifico e morale e il Direttore della Scuola Archeologica Italiana ad Atene, per avere generosamente accettato di ospitare questo primo rapporto di ricerca nella rivista della Scuola. 
      - Il nostro grazie va, infine, al Direttore dell’Istituto dei Monumenti di Cultura, 
      - a quello dell’Atelier dei Monumenti di Durazzo 
      - e a tutto il personale dell’Atelier e del Dipartimento di Archeologia per la concreta collaborazione. .


      BIBLIO

      - Tucidide - Guerra del Peloponneso - III -
      - Il Progetto Durres e la missione archeologica Italiana a Durazzo -
      - André Piganiol - Le conquiste dei Romani - Milano -1989 -
      - Throdor Mommsen - Storia di Roma antica - vol. II, tomo II -
      - Giovanni Brizzi - Studi militari romani - Bologna - CLUEB - 1983 -

      LE SORGENTI DI ROMA

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      SORGENTE DELL'ANIENE
      Le antiche sorgenti romane attualmente riconosciute sono ventitré, individuate soprattutto nella zona centrale della città. Le acque di tali sorgenti andavano poi ad alimentare gli antichi torrenti dell'epoca, come l’Amnis Petronia, che scorreva tra il Pincio e il Quirinale, e lo Spinon, che scorreva tra il Campidoglio e l'Oppio.


      Le sorgenti a destra del Tevere sono:

      -  n. 1 - Acqua della Fontana delle Api - Acqua di Santa Maria delle Grazie - Acqua Angelica (per alimentare fontane);
      -  n. 2 - Acqua Damasiana (fonte battesimale);
      -  n. 3 - Acqua Pia (come fontana-abbeveratoio a p.za Porta Cavalleggeri);
      -  n. 4 - Acqua Lancisiana (acqua minerale oggi imbottigliata, posta sui muraglioni del Tevere vicino Ponte Principe Amedeo d’Aosta);
      -  n. 5 - Acqua Corsiniana;
      - n. 6 - Acque Corsiniane (per uso e fontane privati di residenze nobili);
      - n. 7 - Acqua Innocenziana o Acqua del Fontanile delle Mole Gianicolensi (posta sotto il Convento di S. Pietro in Montorio) - Fontis Arae (usate per i mulini);
      - n. 8 - Acqua del Tempio Siriaco (alimentazione del ninfeo dell’omonimo monumento in Via Dandolo).


      Le sorgenti a sinistra del Tevere sono:

      - n.  9  - Sorgente di Via Margutta
      - n. 10 - Acque Sallustiane;
      - n. 11 - Acque Sallustiane;
      - n. 12 - Acqua di San Felice;
      - n. 13 - Acque Fontanili - Fonte del Grillo;
      - n. 14 - Acqua Tulliana ( sgorga nel pavimento della cella inferiore del Carcere Mamertino ai piedi del Campidoglio; per uso religioso);
      - n. 15 - Acque Lautole;
      - n. 16 - Fonte di Giuturna - Tempio dei Castori (usate come vasche);
      - n. 17 - Fonte del Lupercale (uso religioso);
      - n. 18 - Acqua di San Clemente (dentro la Basilica di San Clemente);
      - n. 19 - Acqua di Mercurio (per alimentazione del ninfeo, come ricorda una lapide posta su un casino a Piazza di Porta Capena);
      - n. 20 - Fons Apollinis;
      - n. 21 - Fonte delle Camene (alimentazione il ninfeo);
      - n. 22 - Piscina Pubblica (per pulire la fogna delle Terme di Caracalla);
      - n. 23 - Fonte di Pico;


      All'esterno dell'Urbe:

      - n. 24 - La Fons Egeria, fatta captare da Erode Attico per alimentare un ninfeo della sua villa, ancora visibile nel Parco della Caffarella.
      - n. 25 - Le sorgenti dell’Acqua Vergine, ubicate nella Tenuta di Salone, lungo la via Collatina, circa 1,5 km fuori dal GRA.

      FONTINALIA FESTA DELLE FONTI

      DELLE ACQUE SORGENTI IN ROMA
      RODOLFO LANCIANI - Estratto dagli Aiti della R. Accademia dei Lincei

      « Ab urbe condita per annos quadringentos quadraginta unum contenti fuerunt Romani usu aquarum, quas aut ex Tiberi aut ex puleis aut ex fontibus hauriebant. fontium memoria cum sanati tate adhuc extat et colitur: salubritatem aegris corporibus afferre creduntur, sicut Camenarum et ApoIIinis et luturnae ». (4,4).
      I romani, prima della perduzìone dell'appia, si dissetavano:
      - I, ex Tiberi, dal Tevere;
      - II, fonti di acqua viva, i pozzi;
      - III, ex fontibus, le fontane
      - IV, ex aqua coeles, sottintesa da Frontino, la quale raccoglievasi nei compluvi, o nelle cisterne.

      FONTE DEL TEVERE

      DELL'ACQUA DEL TEVERE

      Le acque del Tevere giungendo a Roma dopo un percorso di 373 chilometri, ed una discesa di 1161 m hanno perduto per via la purezza e la limpidità primitiva. Attraversando un bacino argilloso ed i depositi delle proprie alluvioni, si assimilano, astrazione fatta da altre brutture, almeno otto sostanze più o meno solubili.

      Ciò che dice Frontino della loro potabilità, è provato da che, non appena i romani , distrutti gli acquedotti imperiali, vennero a trovarsi nelle condizioni dei loro antenati vissuti prima del 442, si dissetarono nuovamente alla corrente del Tevere. Che anzi il desiderio di trovarseli vicini deve essere posto fra le cause che determinarono gli abitanti delle colline a discendere al campo Marzio, ove era altresì più facile e più efficace il perforamento dei pozzi.

      La salubrità delle acque tiberine è vantata da Alessandro Petronì, archiatro di Paolo IV e Gregorio XIII, nel trattato De aqua tiberina Romae 1522; da Alessandro Sacci, medico di Sisto V, nell'opuscolo Del vivere dei romani e di conservare la sanità, Roma 1542; dal Fabricio al e. 12 della Roma, il quale afferma:
      « aqua tiberina fictilibus urceis continetur, fìtque in eis limpidissima, potu amabilis, et absque corruptione longo tempore pura ».

      Di Clemente VII narrasi come « nel recarsi che fece nel 1553 a Marsiglia,  per congiungere in matrimonio sua nipote Caterina de' Medici con il duca di Orleans, che fu poi Enrico II, a consiglio del suo medico Corti che a que' di godeva fama di dottissimo uomo, portò seco tale quantità di acqua del Tevere da essere dispensato da usarne alcun' altra. Altrettanto praticò il suo successore Paolo III nelle sue peregrinazioni a Loreto Bologna e Nizza. E Gregorio XIII, sebbene successore a Pio V, che aveva ricondotta l'acqua vergine, nella sua vita comechè più che ottuagenaria, non usò mai altra acqua».

      Contro questa predilezione verso le sozze acque tiberine, vera cloaca massima della città, sorsero oppositori quali Giovanni Battista Modio ed il Gagliardelli, dichiarandola pregiudizievole agli usi domestici. In siffatta controversia spettava alla chimica di pronunciare il verdetto.

      Lasciando da parte l'analisi fatta da Antonio Chimenti nel 1831, perchè un po' grossolana, mi attengo a quella accuratissima fatta dai sigg. Commaille e Lambert, e divulgata l'anno 1860 nella Memoria sur les eaux potables et minérales du bassin de Rome. Paris, Germer-Baillière.
      Analizzando quindi i corpi che possono derivare da questi elementi, i signori Commaille e Lambert dichiarano che l'acqua del Tevere non può considerarsi malsana.

      FONTE DI GIUTURNA

      DELLE SORGENTI URBANE

      « Fontium memoria cum sanctitate adhuc extat et colitur, scrive Frontino, salubritatem aegris corporibus afferro creduntur, sicut Camenarum et Apollinis et Juturnae».

      I tre esempi citati si riferiscono alle sole fonti medicinali: assai maggiore è il numero delle potabili note agli antichi, e di quelle che suppongo essere loro state note, benché non ne abbiano lasciata memoria.

      Il «locum delegit (Romulus) fontibus abundantem» di Cicerone. In questo paragrafo ragionerò primieramente delle tre frontiniane: quindi delle altre non nominate ne' commentari ma da altri scrittori e monumenti, e che « ora sono inaridite o vanno serpeggiando sotto le rovine: infine di quelle delle quali non si ha memoria nei classici o nei monumenti, benché possano supporsi note agli antichi.

      Può darsi però che, come oggi le due sorgenti di vigna Bettini e di villa Mattei appariscono distinte, fossero considerate come tali anche presso gli antichi. In questo caso, serbando il nome di Egeria alle polle superiori, riconoscerei nelle inferiori matteiane il « Fons Apollinis » di Frontino, intorno al sito del quale nulla si conosce di preciso. Un frammento della pianta capitolina, ora perduto, esprime il centro di una piazza ornata di un monumentino quadrato, fontana o puteale che sia, e la piazza vi è chiamata Area Apollinis.

      Ora fra le piazze della prima regione i cataloghi pongono 1'"arcum Apollinis et splenis". Questo accoppiamento, il quale sa d'idroterapia, ben s'addice alla virtù del fonte accennata da Frontino. Inoltre quella bassura di villa Mattei, sui confini della prima regione, si presta benissimo al collocamento della piazza nominata nei cataloghi, tracciando la linea dei confini medesimi. I Mirabilia fan fede della permanenza delle tradizioni locali sul fonte d'Apollo, nel medio evo.

      FONTE DI GIUTURNA

      1) - FONS IUTURNAE

      Il sito preciso, nel quale la fonte di Giuturna scaturiva dalla rupe palatina, è indicato da Dionisio (6, 13), da Ovidio (FasL 1, 707), da Floro; e siccome il tempio dei Castori è in gran parte superstite, non incontriamo difficoltà a segnare il posto della sorgente nella pianta idrografica di Roma. Le acque sembra ristagnassero nella convalle sottoposta, formando una profunda palus (Livio, 1, 13), detta il Lago Curzio, che dobbiamo credere diversa e distinta dal minore velabro.

      È probabile che, aperta la cloaca massima, il laghetto ottenesse un ben ordinato regime di scolo, che ne fosse ristretto il perimetro, che fosse conservato infine, piuttosto per sacra e tradizionale reminiscenza (in lacum Curtii stipem jacebar Suet. Octav. 57) che non come abbeveratoio, o riserva di acqua potabile.

      Del culto di questa fonte di Giuturna abbiamo non solo la testimonianza di Frontino, di Properzio, di Varrone, ma anche quella dei marmi. Il eh. Tomassetti ha scoperto nella galleria lapidaria vaticana un bacino lustrale di travertino, segnato col n. 164, dedicato dai due Tiberii Giulii Stafilo e Ninfio, padre e figlio, a Giuturna DIVTVR.

      La forma e la natura del monumento ci costringono a riferirlo alla fonte vicina ai Castori. Un altro puteale scritto, posto nell'istesso luogo per senatus-consulto nelle acque di Giuturna, sono ricomparse più volte in varie epoche, sempre vicino alle tre colonne. Prescindendo dalle oscure tradizioni medioevali, dalle quali ebbero origine i nomi di "s. Maria de inferno" e di "s. Silvestro in lacu" dati a una o due chiesuole vicine, abbiamo le seguenti notizie più certe.

      Nella storia di s. Maria in Cosmedin del Crescimbeni, Angelo Maifei racconta:
      « mi ricordo.... avere veduto vicino alle tre colonne.... ove si vede una bocca di cloaca esservi naturalmente ceduto il terreno, ed avere aperta una voragine al mio credere profonda da 50 e più cubiti, e nel fondo della quale si vedeva passare l'acqua».

      Nella Storia dei solenni possessi del Cancellieri si ha notizia di uno scavo eseguito il 24 maggio 1702 dietro la chiesa di "s. Maria de inferno". Questo scavo, per asserto del Fea, non fu condotto a termine a causa dell'apparizione di limpide vene d'acqua. Nel marzo 1816 un' altra polla d'acqua eruppe presso le tre colonne.

      Nell'agosto 1818 nell'istesso luogo « sotto il piano della selciata laterale si trovò un fondo d'acqua per tutto il tratto scavato di più canne in giro, tastandosi in tutti i punti il terreno con lancetta di ferro lunga 15 palmi, senza trovar fondo».

      Finalmente nel dicembre 1870 « da parecchi punti del vico tusco scaturirono potentissime vene: e mentre deliberavasi sul modo di liberarsi da siffatta molestia, d'improvviso un tratto del selciato avvallò; e le acque penetrando nelle fenditure del suolo, vi trovarono... un esito proporzionato al bisogno».

      Forse questo piccolo bacino lacustre non è, o meglio, non era alimentato dal solo fonte di Giuturna. Dall'altra banda della via sacra « altro fonte... scaturisce nella chiesa sotterranea dei ss. Cosmo e Damiano.... per 25 palmi più sotto alla superiore.... Questa continua nella sua purità di vena incessante;. Il Brocchi attribuisce questa vena al sistema idrografico di quella frastagliatura dell'Esquilino che dicevasi Oppio ».

      Oltre le quattro fonti fin qui descritte, abbiamo memoria di moltissime altre sorgenti urbane note agli antichi. Alcune erano di scarso volume: altre più abbondanti davano origine a fiumicelli perenni.
      Spettano a quest'ultima classe:

      ALMONE IL FIUME SACRO

      2 ) - FIUME ALMONE

      - il lubricus, cursu brevissimus almo di Ovidio, il flumen Almonis della P regione, l'Acquataccio, o marrana della Caffarella de nostri tempi. Nasce fra le vie Latina ed Appia, nella valle della Caffarella
      e consta di molte vene. Due, sono il sopravanzo della coppia di fontanili che trovansi a monte ed a valle del casale della tenuta. La terza, è quella minerale d'Acquasanta e zampilla alla quota di 33 metri dal livello del mare. Rende 7 oncie.

      Quivi accanto, sulla spianata del colle, furono già veduti avanzi di un suburbano con bellissimi pavimenti di mosaico. Trattato medico-fisico dell'Acquas, narrano come tornasse ad apparire l'anno 1567 sotto Pio V, rendendosi celebre per guarigioni, l'anno 1616 sotto Paolo V. Alessandro VII ne usò "quotidianamente contro il mal di pietra."

      L' ultimo gruppo di vene è quello che fa mostra nel ninfeo del Triopio di Erode Attico, detto della ninfa Egeria, e che sgorga pure dalle rupi di Capo di Bove. Dà forza motrice al molino della Caflfarella. Di queste vene, dice l'Olstenio « cum multa hinc inde foramina subterranea dehiscere deprehendissem, immisi homines peritos, qui pervestigarent et tentarent si qua aditus in coemeterium pateret. Sed illi, lustratis omnibus...., affirmarunt haec spiracula esse aquaeductus subterranei, quo aqua in lucum Camoenarum perducta iam olim fuit».

      Il eh. de Rossi tentò la prova nel 1853; discese da molti pozzi e spiraceli nel sotterraneo labirinto, e lo riconobbe destinato, almeno in grandissima parte, all'allacciamento «nympharum quae sub colle sunt». L'istesso aveva fatto il Fea, il quale, dopo descritte le belle scoperte quivi avvenute circa il 1815, aggiunge : « la sorgente primaria dell'acqua proveniva da vene allacciate dalla parte alquanto più alta a mano sinistra di chi guarda (il ninfeo) d'onde per mezzo di una forma assai ampia si distribuiva.... Nella rottura della nicchia essendovi una sufficiente capacità m'insinuai per essa nella forma, e, richinato un poco, la girai comodamente.... La parete del colle, a cui è appoggiata la fabbrica, si vede, da dentro la forma, composta di terra grossolana non di tufo ».

      ANTICO PERCORSO DEL PETRONIA AMNIS

      3) - PETRONIA AMNIS

      «Petronia amnis.... in Tiberim perfluens, quam maglie stratus auspicato transeunt cum in campo quid agere volunt »
      La sua sorgente dicevasi « Cati fons.... quod in agro cuiusdam fiierit Cati ». Correva dunque fra le mura serviane rivolte al campo Marzio ed nel campo stesso. Ora se ne è perduta in apparenza ogni traccia, ma la sua linea è marcata da un violento corso di acque sotterranee, che il volgo chiama sallustiane.

      Il fondo di ciascuna delle valli che dividono l'un dall'altro il Pincio, il Quirinale, il Viminale, l'Oppio, il Cispio, il Celio, l'Aventino, è il ricettacolo naturale delle vene di filtrazione che scendono dai versanti di ciascuna coppia di colline, e che si crede scaturissero con maggiore abbondanza quando le colline stesse erano rivestite di almeno diciotto boschi.

      Celebri sono le querce del Celio e del Capitolino, i cornioli della Velia, i vinchi del Viminale, i lauri, gli elei, i mirti dell'Aventino, i pini del monte Mario. Veggasi la Storia fisica del bacino di Roma (1867, p. 12, 17) del eh. Ponzi, e la rara «Pianta dell'antica città di Roma con i suoi boschi sacri etc. » di Giambattista Agretti, rettificata e corretta da P. E. Visconti.

      Prima che gli ingegneri etruschi, avvezzi a combattere le natie maremme, dotassero Roma di cloache, ad ogni gola fra una coppia di colli, corrispondeva la relativa palude:
      - alla gola fra il Celio e l'Aventino il Velabro maggiore: « nam olim paludibus mons (Aventinus) erat ab reliquis disclusus »:
      - alle gole, fra l' Esquilino il Viminale il Quirinale, il minore Velabro;
      - alla gola fra il Quirinale ed il Pincio la Caprae palus in campo, ed i vada ferenti.

      Queste paludi erano evidentemente alimentate dai ruscelli, ove sotterranei ove superficiali, che solcavano il fondo delle convalli a monte. Per me non v'ha dubbio esservi relazione fra il « Petronia amnis in campo » e la « Caprae palus in campo » nel senso che il primo alimentasse la seconda: credo pure che a queste vetuste memorie di un corso d'acqua fra il Pincio ed il Quirinale si colleghi l'acqua sallustiana del nostro volgo, nome proprio di tutte quelle vene onde è saturo il sottosuolo di piazza Barberini e delle vie del Tritone, della Stamperia, di s. Claudio ecc.

      « Nel convento de' padri della Vittoria» scrive il Venuti « scorre sotterranea un' acqua leggerissima e salubre, la quale, passando per il giardino d'Acquasparta, per il convento di s. Niccola da Tolentino e per le case prossime a s. Idelfonso, i possessori delle quali se ne servono per via di pozzi, prosegue il cammino per forma incognita ».

      « Clemente XII propose d'imboccarla nel condotto dell'acqua vergine, ma ne fu tralasciata l'impresa perchè portava seco la rovina di tanti edifizi, sotto a' quali ella passa».

      Il Canevari la rintracciò nel 1871 in piazza Barberini « al fondo del grosso materasso di terreni di scarico, e sopra ai tufi che funzionano da strati impermeabili » alla quota di m. 20,64 sul mare, ed a m. 11,75 sotto il selciato della piazza.

      Il Fabretti dice averla veduta « in puteo pharmacopolii sub signo regis Mithridatis in via b. Virginis Constantinopolitanae» ossia del Tritone « quam eandem esse dicunt cum ea quae ad plateam Ulmi sub officina tinctoria visitur ».

      Il Ligorio chiama le "aquae ad plateam ulmi", il fonte di Calcarara. « La parte più interna (del circo flaminio) stava nel sito della casa di Ludovico Mattei, il quale ha cavato una quantità di travertino un fregio in un gran pezzo intagliato, de' putti che sopra de' carri facevano i giuochi circensi, e nella cantina trovaronsi altri travertini, e viddesi alquanto del canale per dove passava l'acqua, la quale ora chiamasi il fonte di Calcarara ».

      Gli avanzi di questo circo, furono distrutti e ricoperti dalla fabbrica del palazzo Mattei, restandovi per memoria di esso un capo d'acqua. il quale si vede ancora vicino al detto palazzo nella cantina di una casa.

      Anzi fabbricandosi nel secolo passato il palazzo Altieri, alla cantonata si scoperse un condotto di purissima acqua corrente, la quale si stimò essere quella  che andava al circo Flaminio, e che ancora oggi sbocca all'istesso sito.
      « Altro capo d'acqua.... si è osservato nel restaurarsi il palazzo Casoni vicino alla chiesa di s. Caterina (de' funari) trovandola leggera e condottata»

      Nasce ora una questione di qualche importanza. Hanno gli antichi cercato di trarre partito da queste vene sallustiane, e di sottoporle ad un regime idraulico dì raccolta e distribuzione?
      V'è una iscrizione, che il Grutero ebbe dal Mazochio, che dice:

      IMP • DIOCLETIANVS C • AVG • PIVS • FELIX
      PLVRIMUS OPERIBVS IN COLLE HOC EXCAVATO SAXO
      QVAESITAM AQVAM EX IVGI PROFLWIO EX TOPO HIC
      SCATENTEM INVENIT -MAR • SALVBRIOREM • TIBER
      LEVIOREM CVRANDIS AEGRITVDINIBVS • STATERÀ IVDICAT
      EIVS RECEPTVI PVTEVM AD PROX • TRICLIN • VSVM
      IN HOC SPHAERISTERIO VBI ET IMPERAT NYMFEVM • F • C

      Fu trovata, secondo il Grutero, « in vinca Johannes Dominici de Fidelibus prope sanctam Marìam maiorem »; vigna che il Massimo dichiara compresa nel perimetro della sua villa sull'alto dell'Esquilino, dirimpetto a s. M. Maggiore.

      Non è possibile che la lapide sia stata trovata al suo posto, poiché non è sul culmine ma nei fianchi delle colline, che si scavano cunicoli per l'allacciamento di vene profonde: e del resto è chiaro che l'iscrizione si riferisce al complesso dei lavori fatti per lo stabilimento delle terme.

      Essa nomina tre cose distinte:
      a) una rete di cunicoli,
      b) un pozzo,
      e) un ninfeo.
      Vediamo se di tutto rimanga traccia nella zona delle terme dioclezianee.

      « Nelle vigne presso alle terme, narra l'Àldovrandi, dalla parte verso la valle quirinale vogliono che Diocleziano facesse un palazzo. Vi sono state ai dì nostri ritrovate gran basi di colonne poste nel luogo loro: e vi si è scoperto una cappella (fontana-ninfeo) di varie conchiglie ornata. Un'altra ne fu ritrovata dalla parte opposta di queste terme, coperta di due pezzi soli di marmo, lavorati a guisa d'una conchiglia di mare».

      A sud della via Venti Settembre ho esplorato una serie di pozzi più o meno profondi.
      - Il primo, all'angolo di detta via con la vìa Goito, scoperto il giorno 18 giugno 1878 ha pareti laterizie, m. 1,00 x 1,00 di luce, e chiusino composto di un enorme pietrone.
      - Il secondo, trovato nelle escavazioni del palazzo delle finanze, serbava l'acqua alla profondità di m. 27,50.
      - Il terzo fu scoperto il 22 novembre 1873 dietro la mostra dell'acqua felice nel giardino de' sordo-muti; aveva sponde di peperino con le pedarole per la discesa, e serbava l'acqua alla quota di m 40 sul mare.

      Ora tutto il banco di tufo che costituisce il sottosuolo della contrada circostante alle terme, alla quota di m. 42 è perforato da un labirinto di cunicoli, alti m 1,70 larghi 0,45, intorno al cui lo scopo idraulico non è più permesso di dubitare.
      Tutto ciò costituisce un complesso di fatti che dimostrano avere gli antichi fatto ricerca di vene in questa regione, con sistema in tutto e per tutto conforme a quello dichiarato nell'epigrafe dioclezianea. Ho anche indizio che le avessero raccolte in un capo solo, nel basso della valle sallustiana.



      LE LATOMIE DI POZZOLANA

      Il giorno 9 aprile 1858 l'ingegnere Adamo Ugo, scavando un pozzo nella casa Chelli presso s. Nicola da Tolentino, alla profondità di m 4,11 trovò un ampio cunicolo, tagliato nel tufo, largo m 0, 67 alto m 1, 83 diretto verso sud-ovest, e pieno di sottili depositi argillosi.

      CAVE DI POZZOLANA
      Può darsi che questo fosse lo speco collettore, o almeno uno dei principali, e che abbia relazione con la bella piscina sulla quale sono fondate le case che formano angolo tra le vie del Falcone e di s. Susanna.

      È necessario però riflettere che le latomie di pozzolana, aperte su tutto l'altipiano del Quirinale, debbono avere alterato il vetusto regime delle acque sotterranee. Ho attribuito altrove l'apertura di queste cave all'infimo medio evo: ora posso meglio definirne la cronologia.

      Una parte è sicuramente anteriore alla costruzione del quadriportico della Certosa, perchè alcune gallerie penetrano nell'interno del medesimo, e non è possibile supporre che sieno state scavate per attentare alla sicurezza della bella opera di Michelangelo.

      Con rogito notarile del Cavallucci, in data 21 maggio 1588, donna Camilla Peretta concede a Francesco di Piero, e Cesare Marette l'apertura di una cava di pozzolana in quella parte della sua villa esquilina che aveva acquistata dai pp. di s. Eusebio, e che confinava con la via di porta s. Lorenzo. Dalle notizie raccolte nelle Memor, istoriche della v. Massimo, apparisce che l'estrazione della pozzolana nella zona delle terme, deve aver durato fino al 1780 incirca.

      LE PALUDI DEL TEVERE - RISERVA NATURALE

      LE PALUDI DEL TEVERE

      Della depressione del campo Marzio ove impaludavano le acque capree è rimasta memoria fino ai giorni nostri nella Valle ove sorge la chiesa di s. Andrea. Nel medio evo questo nome di Valle estendevasi a tutta la contrada vicina.
      « Non è facile determinarne i confini, ma egli è certo che le chiese di s. Marcello, di s. Marco, di s. Maria in Aquiro, di s. Apollinare, di s. Maria in via lata, di s. Lorenzo in Lucina, e di s. Trifone, tutte sono dette della Valle nell'insigne placito di pp. Onorio II dell'anno 1127. con altri nomi, propinquorum fluminum. »

      Chi sa che questi non fossero i nomi o dei rivi che alimentavano le altre paludi urbane, simili alla Caprea, ovvero dei loro canali di scolo nel Tevere. Poiché è duopo rammentare che siffatte paludi non trovavansi ad uguale livello col Tevere, ma lo dominavano di circa 8 metri, onde una comunicazione diretta continua non poteva avvenire se non in occasione di piene straordinarie {aqua hiberna).
      Il fondo della cloaca massima sul vico tusco, di questo « receptaculum omnium purgamenorum urbis» e canale di scolo del Velabro, trovasi a m 8,25 sull'idrometro di Ripetta.



      4 ) - AQUA TUTIA

      Un altro fiumicello, assai vicino alle mura, era l'aqua Tutia, da cui trasse il nome un latifondo medioevale, posto ad un miglio dalle porte salaria, nomentana, e tiburtina. Il Bosio pone a confronto con l' aqua Tutia il « iuita nymphas ad latus agri verani» degli atti di s. Lorenzo. Lo credo corrispondere al fosso del Portonaccio.

      AQUA TUTIA, EX FOSSO DI PORTONACCIO,
      OGGI LAGO DI PORTONACCIO
      È degno di considerazione il fatto che, ostruite dopo la caduta dell'impero in tutto in parte le fogne della città, le vecchie paludi tornarono ad apparire in modo più o meno evidente. Del velabro maggiore ritroviamo le tracce in quell'alluvione sotterranea la quale impedì a Matteo da Castello di proseguire gli scavi nel Circo massimo, nei primi mesi del 1587.

      Del velabro minore, in tutta quella serie di fenomeni, relativi alla azione delle acque presso s. M. Liberatrice, dei quali ho parlato nel Bollettino dell'Istituto del 1871 e disopra nel paragrafo relativo
      al fonte di Giuturna, e possiamo aggiungere, trattandosi di uno stesso bacino lacustre, nella pozzanghera fra s. Giorgio in velabro e s. Anastasia ricolmata da Alessandro VII coi materiali prodotti dallo spianamento della piazza del Pantheon, e nel Pantano del foro di Augusto.



      IL PANTANO DI VIA BACCINA

      L'arco che anche oggi diciamo de' Pantani, da cui ha principio la via Baccina, nel medio evo ebbe nome di Arcus Nervae e corrottamente Arca di Noè, celiando forse il volgo sulla condizione del luogo perennemente coperto dalle acque « defluenti per sotterranee vie dal prossimo colle».

      Il pantano, anteriore per certo al secolo XIV (cf. Cod. Vatic, di Eutropio, 1904, ove un postillatore
      del secolo nominato osserva: pantanusque est post ecclesiam sancte Martinae et sancti Adriani) fu incominciato a prosciugare dal card. Alessandrino, e disparve completamente sotto Paolo V, nell'anno 1606, come si ha da una iscrizione posta sulla fronte della chiesa di san Quirico.

      Finalmente dei vetusti pantani del campo Marzio, nel punto più depresso ove sorge il Pantheon, si ritrovano tracce nelle alluvioni descritte dall'arciprete Cipriano « Hic abi none fora sunt, adae tesaere paludes Amne redundatis fossa manabat aquis. (Ovid. Fasti). Non dobbiamo credere che il Tevere liberamente s'insinuasse nei due velabri in tutte le stagioni quasi che essi ne fossero due particolari ramificazioni»

      Cipriani, narrando della costruzione della chiavica maestra della Rotonda per opera di Urbano Vili (Aggiunge il Nibby che presso la chiesa di s. Lucia della chiavica « furono trovati molti scoli d'acqua che mettevano nella gran chiavica propinqua». Si confronti anche il nome « in piscinula» dato ad una chiesa di s. Stefano demolita nel 1741. Nello schema dello « Stato delle acque nell'epoca diluviana» disegnato dal eh. Ponzi vi sono disegnate le tre paludi postdiluviali, la caprea e i due velabri, insieme ai rivi che le alimentavano, ai quali timidamente propongo dare il nome di Petronia, Spinon, Nodinus etc.

      « Se si guardi la carta annessa » scrive il Ponzi p. 18 « si vedrà che tanto la palude caprea, quanto i due velabri si distesero lungo il corso dei tre principali torrenti che percorrevano la valle della sponda sinistra.... Questi sono:
      1) quello che raccoglieva le acque del Pincio e del Quirinale il quale, avanti di raggiungere le gore della corrente del Tevere, dilatava le sue onde sui piani del campo Marzio, e vi produsse la palude caprea;
      2) quello che condusse i scoli del Quirinale, Viminale, e Esquilino... che fu la causa del piccolo velabro, e dell'annesso lago Curzio...;
      3) il torrente poi che portò le acque del Celio, del monte d'Oro, e degli Aventini fu l'origine del grande velabro.

      Nei tempi più remoti il velabro maggiore era ingrossato dalle fonti delle Camene, di Mercurio e della Piscina Publica: il  minore dalle Lautole, dal tulliano, dalle fonti di Giutuma e di Fauno Luperco.



      5 ) - LAUTOLE

      La sorgente minerale detta "Lautolae"è collocata da Varrone:
      « ...ad Jainum Geminum (aquae caldae fuerur, ab his palus fuit in minore velabro). »

      VIA BONELLA - LAUTOLA
      Siccome la posizione di cotesto Giano è nota per le indicazioni lasciate da infiniti autori raccolti dal Nichols Forvrm,  possiamo con certezza collocar la sorgente presso l'imbocco di via Bonella.

      Il eh. Michele de Bossi la crede termale non solo, ma solforosa, in un passo che stimo utile riferire per disteso:

       « .... il Palatino... sovrasta un punto assai frastagliato e largo della vallata tiberina; e dallo studio comparativo delle memorie storico-fisiche locali, e delle osservazioni puramente geologiche si può quasi con certezza dedurre, che ivi giunge e s'incrocia colla valle del Tevere una delle fenditure disposte a raggi attorno al comune centro del vulcano laziale.... 

      Infatti le acque Lautole, ivi presso sorgenti, erano calde e solforose: ed è questo il foro romano. spessissimo centro particolare di terremoti, voragini, ed altri fenomeni. »

      Anche il Brocchi ponendo a confronto i versi d'Ovidio {FofL I, 257):
       « Ante tamen gelidi s subieci snlphara venis
      Claaderet ut Tatio fervidus hnmor iter.»

      Col nome di Lautolae, dato alla sorgente tennale di Peschio montano presso Tarracina, crede le lautole urbane idrosolfate.
      Questi fenomeni non furono limitati soltanto alla valle del foro. Altre tracce di vulcanismo si hanno nel Campus Ignifer, il "fumans solum" di Valerio Massimo, consacrato da Valerio Poplicola. Anche il vico Insteio ebbe i suoi fenomeni:... «  in vico Insteio fontem sub terra tanta vi aqimrum fluxisse. Questa via era acclive, avendosi menzione del vicus insteianus summus.»

      IL LUPERCALE

      6 ) - LUPERCALE

      La sorgente del Lupercale è forse quella che, prima di ogni altra, fu frequentata ed usata dai preistorici abitatori della Roma palatina; consacrata con arcadico rito a Fauno Luperco cioè allontanatore dei lupi. Sgorgava da un antro della rupe del Germalo, presso l'angolo che guarda fra
      il velabro ed il circo massimo.

      Se ne è perduta ogni traccia, benché il sito sia con ogni precisione determinato per le notizie che si hanno da Dionisio, Appiano, Varrone, Plutarco, Virgilio, Servio, Velleio Patercolo, Livio, Valerio Massimo, Orosio e dalla iscrizione ancirana.

      Dico che se ne è perduta ogni traccia, perchè è semplice supposizione quella del Brocchi di riconoscere nella polla di s. Giorgio le acque lupercali, trascorrenti per profondi meati dalla rupe palatina fino alla cloaca massima. Il medesimo dice esser probabile che il vero capo delle vene palatine, almeno uno dei capi, sia quello che alimenta il pozzo profondissimo della villa già Spada ora delle suore della Visitazione.

      Forse la notizia più accurata che si abbia del Lupercale è quella contenuta nella IV memoria dell'Aldovrandi:
      « Nel circo massimo si vuole che fosse un tempio di Nettuno edificato dagli arcadi: e si tiene che fosse quella cappella (ninfeo) che fu ai dì nostri scoperta sotto le radici del Palatino presso a s. Anastasia, tutta adorna di conchiglie marine».



      7 ) - FONTE DI PICO

      (Sotto l’Aventino e di fronte al Tevere sorgeva, con salubri e copiose acque oggi completamente scomparse, il Fonte di Pico, figlio di Saturno e antico re del Lazio, marito di Venilia, figlia di Giano. Un giorno Pico, avendo respinto le proposte d’amore di Circe, fu da questa trasformato in uccello, e così mutato, essendo solito venire a dissetarsi colà, rimase alla fonte il nome di Pico).

      Si riferiscono a questo fonte i distici di Ovidio:

      « Lucas Aventino suberat niger ìlicis umbra
      Quo posses viso dicere: numen adest.
      In medio gramen, rauncoque adoperta virenti,
      Manabat saxo vena perennis aqnae. »

      « Con valide autorità potrebbesi opinare che l'antro e la fonte di Pico fossero nel colle aventino sotto il tempio di s. Prisca»;  « in monte Aventino qua parte eam regionem urbis respicit, quae piscina publica dicebatur »  fu scoperta una famiglia di iscrizioni, incise in sassi di travertino, e riferibili
      tutte al culto di una o più sorgenti locali. Sono dodici di numero: ma è duopo aggiunger loro una decimoterza trovata nell'anno 1815 evidentemente nell'istesso luogo.

      Le iscrizioni integre cominciano con la data della loro dedicazione; le quali date abbracciano un periodo quasi secolare.1 dedicanti sono gli ufficiali di un collegio, intitolato da una sorgente « (cuìus) memoria adhuc extabat et colebalur nella piscina publica. »

      Nei titoli si parla di MAGISTRI • ET • MINISTRI • FONTIS senz'altra designazione, ovvero di « magistri et ministri, huius anni », senza pur accennare alla natura del magisterio o del ministerio, essendoché il luogo nel quale i cippi erano eretti lo indicava palesemente.

      Sembra essere stata ritrovata nel secolo decorso. « Non sono molti anni» scrive il Cassio (2,520)
      « essendosi fatta da un personaggio amante di antichità una cava sotto alla strada di s. Balbina, tra
      l' ingresso delle antoniane, e alcuni orti o vigneti quasi in prospetto del monastero di s. Gregorio, sboccò un gran capo d'acqua, che per la limpidezza fu giudicata provenire da viva sorgente in
      quella parte del monte. Ma essendosi ricoperto l'orificio dell' occulto condotto in cui scaricavasi verso la valle del Circo, nell'essersi smossa la terra dalli cavatori, allagò tutti li vicini vigneti.»

      TULLIANUM

      8 ) - TULLIANUM

      Sorgente assai famosa è quella che oggi zampilla nella cripta inferiore del carcere tulliano; il quale sembra anzi aver tratto il nome dalla sorgente stessa. Tulli, aquarum proiectus, quales sunt in .4nt ne
      Iwmtn. Paragonando la costruzione di questa cella con quella dell'antichissimo serbatoio tuscolano, si vede che ambedue furono edificate per identico scopo, destinate ad eguale uso.

      La sorgente è di tenue portata: credo fosse più abbondante prima della separazione del Quirinale dal Capitolino, avvenuta sotto Traiano. La cripta tulliana comunica con un sistema di cloache, le quali possono vedersi disegnate dal eh. de Mauro nella Ichnografia carceris Mam. Buonarroti 1868.

      Che il nome Tullianum non abbia connessione di sorta con Tullio re, è dimostrato anche dall' assurdità del fatto che la parte inferiore del carcere possa essere più recente della superiore, come pretenderebbe Varrone {career a coercendo. .. In hoc pars quae sub terra Tullianum, ideo quod additum a Tullio rege).

      A livello del pavimento esiste ancora la bocca della sorgente cerchiata da un grande anello bronzeo, che si dice sgorgata miracolosamente per opera di san Pietro ma in realtà già esistente dal momento della costruzione del carcere. Non è escluso pertanto che fosse chiamato carcere tulliano per la sorgente che c'era all'epoca.



      9 ) - AQUAE FONTINALIS

      Il nome di Fontinalis dato ad una porta del recinto serviano sul Quirinale, presso la piazzetta di Magnanapoli e s. Caterina da Siena, deriva evidentemente da una o più vene locali: e questa etimologia è confermata da Paolo Diacono.

      Per quanto possa sembrare strano di ritrovare sorgenti sulla cima di un colle, isolato, anzi a piombo da tre lati, pure il fatto è confermato non solo dall'esperienza avutasi in occasione del taglio per la via Nazionale attraverso la villa Aldobrandini, nel quale sono apparse ricchissime vene di un vago color
      ceruleo, ma anche da osservazioni fatte più volte negli ultimi secoli.

      Quando il Fuga, sotto Clemente XII, fondava il palazzo della Consulta incontrò capi d'acqua così esuberanti che, proprio lì, sul vertice del monte fu costretto a far uso di palizzate. La fontana nel cortile del real palazzo, detto di s. Felice, è alimentata da vene locali, vinte in bontà dalla sola vergine.

      Un pozzo ricoperto da un cupolino, rimasto in piedi fino al 1876, nella piazzetta all'angolo delle vie Quirinale e Mazarino era profondo m. 17,84, sopra tre e mezzo di diametro. Vi correano in fondo vene limpide e fresche che si credono quelle istesse le quali emergono alla fonte del Grillo, sulla
      fede di un'esperienza descritta dal Cassio, nella quale alcuni grani di miglio gettati nel pozzo sarebbero tornati ad apparire nella fontana.

      Quest' acqua del Grillo fu di recente sottratta all'uso publico, ma può attingersi nella bottega n. 6 annessa al palazzo, o nel cortile della casa n. 25. Andrea Fulvio descrive un pozzo nella valle del Quirinale, « more fluentis aquae vitreis uberrimus undis»; ma ignoro di quale intenda egli parlare.



      10 ) - FONTIS ARAE

      Altre fonti non distinte da denominazione speciale, ma consacrate con are votive, ci sono indicate da Cicerone a pie del monte Gianicolo « quod procul ad fontis aras regem nostrum Numam conditum accepimus». Ora è noto che gli avelli lapidei, nei quali erano stati deposti Numa ed i suoi codici, furono discoperti V anno 572/182 « in agro L. Petilii scribae sub Janiculo, dum cultores altius moliuntur terram ».

      E' notevole la descrizione che Livio ci ha lasciata di quelle vetuste arche sepolcrali: « duae lapideae arcae, octonos ferme pedes longae (m. 2,35) quaternos latae (m. 1,175) . . . , operculis plumbo devinctis»; poiché si può rigorosamente applicare, salvo la saldatura plumbea, a tutte le antichissime arche fossili che abbiamo ritrovato a centinaia presso le porte fontinale, viminale ed esquilina, e delle quali ho data più volte descrizione nel Bull, municipale. La loro remota antichità è testificata dal fatto che non tutte trovansi al di fuori del recinto serviano.



      11 ) - FONTI ESQUILINE

      Anche l'Esquilino ebbe le sue sorgenti. Costruendosi le case del nuovo quartiere, più e più volte si è incontrata l'acqua viva a quote comprese fra i 30 e 35 m. sul mare. Abbondano sopratutto nella valle attraversata dalla via Merulana presso ss. Pietro e Marcellino, e nel bacino di villa Massimo, in capo al vico patricio.

      Il Canevari, esplorando con trivella artesiana il terreno nella piazza delPEsquilino, dinanzi al cancello inferiore di detta villa, trovò l'acqua alla quota di 28,62 m. sul mare, che è quanto dire a m. 13,32 sotto il piano stradale.

      Il giorno 2 febbraio 1879, nelle fondamenta della casa che forma angolo fra la via delle quattro fontane e la piazza dell' Esquilino, dirimpetto al villino Costanzi, si ritrovò uno speco profondo che attraversa ad angolo retto detta via, e quindi piega dalla banda del Viminale. Vi scorre per entro un capo d'acqua considerevole.

      Prima di lasciare l'Esquilino debbo esporre una mia congettura che si collega alla idrografia del luogo, ed al partito tratto dalle sorgenti locali per aumentare le difese della città lungo la linea dell'aggere serviano. Il lunedì 9 aprile 1877, mentre gli operai della società genovese dell'Esquilino attendevano a scavare le fondamenta di un vasto fabbricato circoscritto dalle vie Carlo Alberto, Mazzini e Rattazzi, il terreno che, per due terzi dell'area (partendo dal nord) si era mostrato solidamente vergine, mancò all'improvviso sotto i loro piedi, squarciandosi in profonda voragine.

      Il mio chiaro amico ing. Pio Giobbe, cui era stato affidato lo incarico di ricercare le cause della frana, avendomi chiamato a parte delle sue indagini, mi diede occasione di scoprire in quel luogo non solo la grande fossa serviana, ma altre particolarità istorico-topografiche di molta importanza.

      Queste appariscono evidenti nella pianta e sezione dello scavo che publico alla tav. I, fig. 7. Vi si incontra dapprima il terrapieno o aggere, quindi (procedendo verso est) il muro di sostruzione largo m. 3,00: succede una banchina di suolo vergine e compatto larga m. 8,00, misura corrispondente a quella già verificata in altri tratti della banchina medesima.

      Viene da ultimo la grande fossa, profonda in questo punto ben 17 metri (15 sotto il piano stradale). I materiali che la riempivano a partire dal ciglio della banchina si riconobbero essere: uno strato di terriccio misto a tegolozza, ed a frantumi di vasellame domestico, grosso in circa m. 4,00; uno strato enorme di ossa umane, non solo, ma anche di animali domestici, grosso m. 11,30; un ultimo strato di fango e melma umidiccia, mista a detriti vegetali, grosso m. 1,50.

      Questa ultima particolarità dimostra che l'acqua ristagnò per un periodo non breve nel fondo della fossa serviana: e poiché la elevazione della zona sul livello del mare vieta di pensare alle acque di filtrazione, mi sembra potere attribuire quella inondazione della fossa a vere sorgenti "ex tufo hic scaturentibus".

      L'istessa esperienza si è avuta nel luglio 1879, fondandosi una casa sull'angolo di via Merulana e di via Leopardi presso la sala mecenaziana. Le sponde della fossa serviana sono apparse nello scavo così nette e decise che sembravano tagliate col piccone da pochi giorni: nel fondo ristagnava l'acqua che si è dovuta vincere con macchine idrovore.

      ISCRIZIONE DELL'AQUA DAMASIANA

      12 ) - AQUA DAMASIANA

      Abbondantissimo di salubri acque è il Gianicolo. Esse emergono dagli strati pliocenici, a differenza di tutte le altre urbane che nascono dai tufi vulcanici. Celebre sopra tutte è la damasiana, cui si riferisce il carme da quel pontefice fatto incidere in marmo, ritrovato da Paolo V fra le rovine della vetusta basilica vaticana, e per suo ordine affisso alle pareti delle grotte sotto la confessione, con lapide commemorativa recante la data del 1607.

      « Cingebant latices montem, teneroque meata Gorpora mnltorum cineres atque ossa rigabant. Non tulit hoc Daroasas, commani lege sepultos. Post requiem tristes iterum persolvere poenas. 'Protinas aggressus magnani superare laborem, Aggeris immensi deicit culmine montis, Intima sollicito scrutatus viscera terrae. Siccavit totani quodquid madefecerat huraor: Invenit fontem praebet qui dona salutis».

      Questo carme ci apprende che la basilica vaticana trovavasi nel secolo IV in condizioni poco
      dissimili da quelle in cui è rimasta fino a questi ultimi tempi la basilica di s. Lorenzo fuori le mura, incassate ambedue nei fianchi di un colle, in modo da assorbirne tutta l'umidità.

      Ciò che è stato compiuto sotto i nostri occhi a s. Lorenzo, col taglio del colle detto il Pincetto, Damaso lo compì pel Vaticano ove le acque di filtrazione erano assai più abbondanti, attesa la predominanza della creta nella formazione del suolo. Del resto, anche nei tempi classici, il Vaticano era noto per l'insalubrità dell'aria. L'acqua damasiana, ritrovata col seguire il corso delle vene apparse nel taglio della intercapedine, sorge a circa 1120 metri a s. o. della basilica, fuori porta Cavalleggieri, nel sito detto s. Antonino.

      Vi sono due vene: la prima apparisce in fondo al pozzo o trombino, dal quale attingono l'acqua gli inquilini della casa di 8. Antonino: la seconda sorge pochi metri più a valle. Discendono, unite, nel volume complessivo di oncie quattro entro lo speco damasiano, alto m. 1,34 largo m. 0,99, di buona
      e salda opera laterizia, a profondità varie sotto il piano del suolo; la massima essendo di metri 29,60, come può verificarsi per mezzo degli spiracoli disposti a giusti intervalli.

      S. Damaso la condusse all'atrio della basilica, secondo il Cassio, (1, 48); nell'oratorio di s. Giovanni Battista, secondo il Ciampini; nel battisterio, secondo Ermodio di Pavia. Innocenzo X la ricuperò dopo lunga dispersione, l'anno 1649, e la raccolse entro ampia conserva nei giardini vaticani, onde potè accrescersene la erogazione fino a nove oncie e mezzo per mezzo di chiavi regolatrici.

      La mostra principale, nel cortile di s. Damaso, è disegno di Alessandro Algardi. La iscrizione commemorativa ha la data del 1649. L'acqua damasiana ha sapore leggermente terroso, temperatura variabile.

      FONTE VATICANA

      13 ) - FONTI VATICANE

      Nell'anno 1637, regnando Urbano Vili, appiedi della salita che conduce ai giardini vaticani, e sotto l'ala occidentale del teatro di Belvedere si trovarono vene d'acqua, della portata di oncie due.
      Lorenzo Bernini le raccolse entro una fistola, e recolle al grazioso fonte delle api, ove è inciso un distico attribuito alla musa pontificia.

      Nell'anno 1697, regnando Innocenzo XII, frate Francesco Antonio Beffa, del convento di s. M. delle Grazie, scoprì altra vena d'acqua eccellente sotto al giardino di Belvedere dalla parte di porta Angelica. La incondottò nel volume di dodici oncie all'incirca, e condussela all'angolo di detta chiesa, ove ancora zampilla. La lapida commemorativa è trascritta dal Cassio (1,427).

      FONTE LANCISIANA

      14 ) - FONTI GIANICOLENSI

      L'acqua lancisiana nasce alla estrema pendice del Gianicolo sotto la salita di s. Onofrio. Se ne
      faceva uso ab antico {temporis iniuriis ita dispersami ut eius vestigium in ripa tiberis vijo extaret). Clemente XI, nell'anno 1720, per iniziativa del Lancisi l'incondottò in tre fistole e condussela a far mostra al porto leonino.

      Entro la villa Salviati (orto botanico) alla Lungara scaturisce una vena assai profonda, che si attinge per via d'un pozzo. La villa Corsini possiede due polle. Scaturiscono a così grande elevazione sulla costa del monte, che giungono con le fistole sino in sommo al palazzo. Il Biondo narra che ai suoi tempi (intorno al 1430) si vedean correre presso la porta settimiana acque sorgive, raccolte in vasti ricettacoli, ed anche in fontanili.

      Nell'anno 1682, sotto Innocenzo XI, fondandosi la mola inferiore gianicolense presso il bosco parrasio, si trovò ima copiosa vena. Alimenta anche oggi il fontanile sotto il muro di cinta dell'orto di s. Pietro in Montorio, per mezzo di due fistole di due oncie ciascuna. Così abbiamo dal Cassio. Ora sembra che una delle due fistole renda acqua Paola. La innocenziana genuina ha temperatura di 15^: grado idrotimetrico 19'*,4. Contiene in un litro centigr. 35 di sali, e  4,83 di ossigeno.

      FONTANA DEL NILO

      ALTRE FONTI MINORI

      15 ) - Castro pretorio

      Il Brocchi nomina una vena perenne nel castro pretorio, che a me non è riuscito trovare. Forse ne ha presa la notizia del Fauno, 4, 6 p. 115 che dice: « dietro agli argini di Tarquinio infino alla muraglia è il campo viminale, che sono tutti hoggi arbusti e vigne, dove fu già un pozzo di acqua viva, che si « chiamava il pozzo del vivario »; ovvero dal Gamucci, 3, che scrive: « questo medesimo campo (viminale) essendo stato sin a quei tempi, per cagione di certe acque che vi surgevano, chiamato il Vivario, ha conservato sempre il nome ».


      16 ) - S. Lorenzo

      Nel 1878 al di fuori della porta viminale, fra questa e la via di p. s. Lorenzo fu trovata una nicchia di fontana, incrostala di mosaico, ove era scritto con lettere di smalto d'oro: FONS PERENNIS.

      POZZO DI PROBA

      17 ) - S. Agata in Suburra

      Il Marliano dice che nella valle sottoposta alla chiesa di s. Agata in Subura fuvvi già il pozzo di Proba, presso s. M. in Campo, chiesa che il Martinelli annovera fra le scomparse a suo tempo. Il Corvisieri invece riferisce il sito del « pozzo di Proba » alla chiesa di s. Salvatore in pisile o de Cornullis demolita sotto Paolo V, e che il Bufalini segna sulla vetta del Quirinale fra s. Silvestro ed il palazzo Bospigliosi.


      18 ) - S. Bernardino

      « Non saprei dire se fosse anticamente nota quest'acqua, ma una iscrizione dei « bassi tempi ad essa spettante leggevasi a detta del Fulvio presso l'ospitale degli « Albanesi che era dove sta oggidì la chiesa ed il convento di s. Bernardino. Veggasi il documento del 1025 presso il Marini, Papiri 70 « regione VII in loco qui vocatur Proba, iuxta monàsterium Agathae super Sobora».


      19 ) - Via Margutta

      II Cassio parla di una sorgente scoperta a' suoi giorni in via Margutta sotto il casino del musicista Mattioli, che « scorre dilatata senza fistola e se fosse stata ristretta potea rendere il fonte di un' oncia» (2,348).


      20 ) - Testaccio

      « Sotto il monte (Testaccio) dietro una vigna detta la Farfallina vi è un pozzo la di cui acqua è salutevole a bere, ed anche per guarire le piaghe, come ve ne sono molte esperienze».


      BELLUM AFRICUM (46 a.c.)

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      GAIO GIULIO CESARE

      CAMPAGNE DI CESARE IN AFRICA SETTENTRIONALE NELLA GUERRA CIVILE

      L’inizio della guerra e le operazioni nell’inverno del 45-46 a.c.

      - Morto Pompeo e ottenuto l’appoggio dell’Egitto, Cesare torna a Roma nell’ottobre del 47 a.c., per sanare i contrasti scoppiati con Antonio e a sedare il malcontento delle legioni, che pretendevano la celebrazione del trionfo, e le conseguenti retribuzioni per i soldati.

      Le forze repubblicane si stanno riorganizzando in Africa, in mani pompeiane fin dallo scoppio della guerra, ed importante per le strategie delle fazioni in lotta. La provincia era, infatti, uno dei granai dell’impero ed era abbastanza vicina all’Italia, ed ancor più alla Sicilia, altro fondamentale produttore di derrate alimentari, per servire da base per attacchi al cuore del sistema romano.

      Cesare, conscio del pericolo,  placa le legioni e organizza il contrattacco:

      - nel dicembre del 47 a.c. concentra a Lilibeo, punta estrema della Sicilia occidentale e imbarco naturale verso l’Africa, 17 legioni e 2600 cavalieri.

      - Il 25 dicembre, in piena cattiva stagione e con il vento contrario Cesare dà l’ordine di salpare sfidando le cattive condizioni del mare in modo da prendere di sorpresa i nemici.

      Sapendo che il grosso delle forze repubblicane è accampato ad Utica (nella baia di Tunisi) Cesare fa rotta verso sud, puntando verso Hadrumentum (Sousse), la flotta cesariana però è sorpresa da una tempesta al largo di Cap Bon e dispersa. Cesare sbarca ad Hadrumentum con circa 5000 uomini e si trincera fuori le mura delle città, aspettando rinforzi mentre distaccamenti di soldati occupano pacificamente Ruspina (Monastir) dove Cesare pone il quartier generale e Leptis Minus (Lampta).

      La guerra lampo si è trasformata in una guerra di posizione, con il trinceramento delle posizioni in attesa dei rinforzi. Le forze repubblicane schierate nella provincia sono un avversario temibile per Cesare, già alle prese con i re fanciulli di Alessandria.
      AFRICA - DENARIO DI GIULIO CESARE
      L’Africa è un enorme campo trincerato forte di dieci legioni e 14000 cavalieri, anche se l’esperienza e l’addestramento dei soldati lascia  molto a desiderare, cui si aggiungevano le forze inviate da re di Numidia Giuba, quattro legioni, 60 elefanti ed un’agguerrita fanteria leggera.

      Al comando delle forze repubblicane c'è Quinto Metello Scipione, suocero di Pompeo, generale di limitate capacità personali ma affiancato da ottimi comandanti: Catone, Gneo Pompeo iunior, Labieno, Afranio, Varo, Petreio; inoltre il nome di Scipione fa molto effetto trattandosi di una guerra africana.

      - All’alba del 3 gennaio 46 a.c. le navi disperse della flotta cesariana compaiono al largo della penisola di Monastir, a quel punto Cesare riorganizza la difesa dei campi trincerati e passa al contrattacco.

      - Il giorno successivo Cesare sostiene la prima battaglia; durante una requisizione di vettovaglie un distaccamento con a capo lo stesso Cesare venne attaccato e circondato da 10000 cavalieri galli e numidi comandati da Labieno e soltanto la tenacia e l’intuito permettono a Cesare di evitare l’accerchiamento.

      La strategia cesariana rimane attendista, manda a chiamare nuovi rinforzi in Italia e cerca appoggi fra le forze repubblicane, soprattutto fra gli ausiliari numidi e getuli rimasti fedeli al ricordo di Mario che disertano in massa passando dalla parte del nipote dell’antico benefattore.

      - Il 22 gennaio Caio Crispo Sallustio, il futuro storico, sbarca a Ruspina con due legioni, 800 cavalieri e 1000 arcieri. Cesare può prendere finalmente in mano l’iniziativa.

      - Anzitutto va in soccorso di Leptis Minus ed Acholla (Botria) assediate dalle forze repubblicane, mentre Tysdrus (El Jem), centro nevralgico per gli approvvigionamenti di Scipione, si schiera con Cesare ed i mauri invadono la Numidia, imponendo a Giuba di ritirare parte delle forze schierate con i repubblicani.

      GAIO GIULIO CESARE
      L’offensiva cesariana e le operazioni tra febbraio e marzo del 46 a.c. 

       Il 27 gennaio Cesare riunisce le proprie forze e marcia verso Uzitta, difesa dalle legioni di Scipione, e comincia l’assedio della città.
      Il giorno successivo fa avanzare l’esercito a mille passi dalle mura giungendo presso le legioni repubblicane, i due eserciti si schierano uno di fronte all’altro aspettando la mossa del nemico, alla fine Scipione rinuncia allo scontro e si ritira, situazione che ripeterà numerose volte durante la campagna.

      - Le settimane seguenti vedono numerose schermaglie fra i due eserciti, con Cesare messo spesso in difficoltà dagli attacchi congiunti della cavalleria e della fanteria leggera africana, contro i quali le legioni appaiono impotenti.

      - I due eserciti fortificano i campi intorno ad Uzitta, l’iniziativa di Cesare viene rallentata dal maltempo che colpisce pesantemente le truppe cesariane prive di equipaggiamento invernale. Cesare deve riaddestrare le truppe per contenere la fanteria leggera numida. Dopo alcune difficoltà per un’offensiva dei repubblicani nel porto di Leptis Minus, la flotta cesariana riprende il controllo del mare infliggendo una pesante sconfitta alla marineria repubblicana guidata da Varo.

      I due eserciti sono entrambi in difficoltà, le truppe di Cesare soffrono per la scarsità dei rifornimenti e sono impegnate quasi esclusivamente in rastrellamenti di vettovaglie mentre le diserzioni fioccano nell’esercito repubblicano. Allora Cesare rinunciando a prendere Uzitta, lascia un presidio ad assediare la città e punta verso le città di Aggar, Zeta e Sarsura, dove sono concentrati i rifornimenti di Scipione.

      Il primo obbiettivo è Aggar, presso cui viene posto un accampamento che serve da base per la ricerca di vettovaglie, Cesare venne informato della consuetudine africana di scavare buche per deporvi il frumento, il che gli permette di recuperare buone quantità di orzo, olio, vino e frutta.

      A quel punto muove verso Zeta, e nei pressi della città venne assalito dalle truppe leggere di Scipione che vengono respinte. Occupata senza combattere la città Cesare viene rallentato da continue scaramucce dalla fanteria leggera numida, contro la quale le legioni sono inutili e tutto pesa solo sulla cavalleria ausiliaria gallica.

      I CESARIANI ASSALTANO LA CITTA' DI SURSURA
      - Nel frattempo la città di Vaga, il cui territorio confina con Zeta, invia ambasciatori a Cesare offrendo alleanza in cambio di un presidio. Inviato un manipolo di uomini a presidiare Vaga, il 22 marzo Cesare muove verso Sarsura, il principale obbiettivo di questa fase. La città ospita gran parte dei rifornimenti delle forze repubblicane, e la sua conquista ribalterebbe gli equilibri di forze, con Cesare in possesso di abbondanti risorse e i repubblicani privati delle riserve alimentari.

      La città era difesa da un presidio comandato da P. Cornelio, vecchio compagno d’armi di Scipione richiamato in servizio allo scoppio della guerra civile, rinforzato dalla mobilissima cavalleria ausiliaria di Labieno, che segue le colonne cesariane in marcia tormentandole con continui assalti. 

      Labieno, resosi conto dell’obbiettivo di Cesare, comincia ad attaccare la retroguardia di Cesare con cavalieri ed armati alla leggera, riuscendo ad intercettare e ad imprigionare i vivandieri con i loro bagagli. Rincuorato dai successi tenta un ulteriore attacco, cadendo nella trappola di Cesare, la cavalleria numida si avvicina troppo alle legioni convinto che la fanteria pesante cesariana, gravata dal peso degli zaini da marcia, non possa reagire.

      Ma Cesare, che ha previsto tutto, aveva ordinato che trecento soldati di ogni legione marciassero senza carico, così quando la cavalleria repubblicana attacca questi contrattaccarono mandando in rotta le forze di Labieno che subiscono pesanti perdite. Da quel momento la cavalleria repubblicana continua a seguire le forze di Cesare, ma a distanza di sicurezza.3>

      3>A quel punto le legioni si lanciano all’assalto della città, il presidio difensivo comandato da Cornelio si batte con valore, ma circondato dalla moltitudine delle forze cesariane venne sterminato sotto gli occhi della cavalleria alleata, che ancor scossa dagli scontri precedenti non porta nessun aiuto ai compagni. Cesare si impossessa così dei rifornimenti alimentari che daranno una svolta decisiva alla guerra.
      BATTAGLIA DI TAPSO

      La fine della guerra africana e la guerra di Spagna 

      - Cesare rinuncia a rioccupare Tysdrus, riconquistata dai repubblicani e difesa da un forte presidio e da una coorte di gladiatori sotto la guida di Considio, e punta verso nord per ricongiungersi con le truppe rimaste ad Aggar. Scipione prova a sbarrargli la strada presso la città Tegea, ma la cavalleria di Labieno viene respinta da quella cesariana, rafforzata da arcieri e frombolieri, mentre Scipione evita nuovamente lo scontro ritirandosi con le legioni.

      - Il 4 aprile lasciato il campo di Aggar Cesare muove verso Tapso fortificandosi in un angusto campo di saline fra la città e il mare. Il giorno dopo Scipione schiera il suo esercito di fronte al campo di Cesare, che esce alla testa delle sue truppe in assetto da guerra.

      Stavolta, bloccato fra le mura cittadine e le trincee del campo di Cesare, Scipione deve attaccare battaglia, sentendosi sicuro per la posizione favorevole, ma Cesare lo anticipa attaccando sul tempo e annienta le legioni di Scipione, lasciando sul campo circa 10000 uomini.

      Per i repubblicani la guerra era persa, le popolazioni locali si ribellarono in massa passando dalla parte di Cesare e le spietate repressioni messe in atto dai generali di Scipione accelerarono il fenomeno. Ad Utica, ultimo caposaldo della resistenza, la popolazione assedia Catone, in gran parte favorevole a Cesare nonostante le espulsioni di massa di mauri e numidi, sospettati per l’antica fedeltà a Mario. La successiva strage dei capi repubblicani sancisce la vittoria decisiva di Cesare.

      Scipione tentando di fuggire dall’Africa con alcune navi viene sorpreso dalla flotta cesariana al largo di Ippona e muore annegato durante la battaglia navale. Giuba, cacciato dal suo regno dai numidi in rivolta, e Petreio si uccidono reciprocamente in duello rendendosi conto di non aver più scampo, Catone si suicida prima di veder Utica occupata dal nemico. Cesare può ritornare finalmente in Italia dove il 25 luglio del 46 a.c. celebra ben quattro trionfi (sul Ponto, sulla Gallia, sull’Egitto e sulla Numidia).

      Nel frattempo Gneo Pompeo Iunior riorganizza in Spagna le ultime forze repubblicane. Cesare è allora costretto a ripartire per la Spagna e il 17 marzo del 45 a.c. e a Munda si combatte lo scontro decisivo. E' la battaglia più dura sostenuta da Cesare in tutte le sue campagne, tanto che a metà giornata le forze pompeiane sembravano inarrestabili e Cesare valutava di darsi la morte; solo una disperata azione lo salvò dalla disfatta permettendogli di ottenere la vittoria finale.

      La guerra civile era finita ma il costo era terribile, sul campo erano rimasti circa 32000 pompeiani e 1000 soldati di Cesare, una cifra spaventosa, per fare un raffronto, a Tapso Cesare perse non più di un centinaio di uomini. Cesare era il solo padrone dell’impero e lo sarebbe stato per 1 anno, fino alle idi di marzo del 44 a.c., quando venne assassinato all’entrata del Senato.

      PORTICO DI FILIPPO - PORTICUS PHILIPPI

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      PLASTICO DEL PORTICO DI FILIPPO AL CENTRO
      "Del Portico di Filippo fà mentione Plinio nel libro 35, più volte dicendo nel capitolo essere in quel Portico una Elena di Zeusi, un Libero, un Alessandro putto, un Hippolito d'Antifilo e nel capitolo II esservi la guerra Trojana dipinta in più tavole da Teodoro. 

      Rufo e Vittore il pongono in questa Regione e da Martiale nell'epigramma 50 del quinto libro presso al Tempio d Ercole e si dimostra 'Vites censco Porticum Philippi Si te viderit Hercules peristi' et essendo in quell'epigramma concetto di Martiale che Labieno ancorchè vecchio sembrava fanciullo, forse l'Ercole custode era figurato in atto scacciante i ragazzi dalla folla del Circo. 

      Et essendo quel Tempio presso all'Olmo il Portico, o se però gli era a lato, fu facilmente tra l'Olmo e la piazza de Cavalieri incontro all'altro d'Ottavio. Così tra il Circo Flaminio e il Teatro Pompejano si chiudeva all'intorno tutto lo spazio come Foro in cui forse la Curia di Pompeo rispondeva e decentemente tra quel Teatro e il Portico di Filippo."

      (Roma Antica - Fabiano Nardini)

      POSIZIONE DEL PORTICO
      "Non è da tralasciarsi dopo veduti questi superbi avanzi di osservare altri su la sinistra della facciata della Chiesa di S Maria in Cacaberis che devono essere avanzi del portico di Filippo I moderni Scrittori lo suppongono il Portico di Gneo Ottavio.

      Ma nel riportare un passo di Plinio dove si nota che il portico d'Ottavio aveva le Colonne con capitelli di bronzo smentisce la loro supposizione poiché le Colonne che in oggi rimangono del Portico hanno i capitelli dorici di travertino. Che poi un tal Portico sia di Filippo viene dimostrato dal Signor Piranesi nella sua Iconografia di Roma antica."

      (Ridolfino Venuti Cortonese - 1803)


      Nell'immagine qui sotto possiamo osservare il prospetto del tempio di Ercole, anzi l'Aedes Herculis Musarum, con la sua esedra, la sua cella, il suo recinto e la sua ara, circondata dal Porticus Philippi.

      PIANTA DEL PORTICO
      'Aedes Herculis Musarum era un tempio dedicato a Ercole e alle Muse, ovvero ad Ercole difensore delle Muse, eretto da Marco Fulvio Nobiliore dopo la conquista di Ambracia contro Pirro nel 189 a.c., a seguito, si ritiene, della celebrazione del suo trionfo nel 187 a.c..

      Secondo le antiche fonti Fulvio Nobiliore dedicò questo tempio in quanto aveva appreso in Grecia che Ercole era un difensore delle muse (musagete), ma più ragionevolmente che volesse ingraziarsi ercole e pure le Muse, a cui aveva derubato i tesori nei templi, durante il saccheggio della città.

      In questo novello tempio romano infatti Fulvio Nobiliore pose una copia dei Fasti, con annotazioni supplementari, e le statue delle nove Muse, opera di ignoto, e di Ercole che suona la lira, che aveva preso ad Ambracia. Desiderando evitare la collera di Ercole e delle Muse per aver violato la città che essi proteggevano, credette bene di trasferirle ed offrire loro una città ben più degna e una sede templare più degna.

      SEZIONI DEL PORTICO
      Per impreziosire il nuovo tempio vi venne collocato anche un sacello bronzeo dedicato alle Muse, che risaliva addirittura all'epoca di Numa Pompilio e che era stato conservato fino ad allora nel tempio di Onore e Virtù. Evidentemente il senato approvò, altrimenti il trasferimento non sarebbe stato ammesso. Anzi fece rappresentare sul denario coniato da Quinto Pomponio Musa attorno al 64 a.c.
      la statua di Ercole e quelle delle nove Muse.

      Nel 29 a.c., il console Lucio Marcio Filippo fece costruire il portico attorno al tempio, e cioè il Porticus Philippi, dopo aver fatto accuratamente restaurare il tempio di Ercole, ridedicandolo al 30 giugno. La forma prevalentemente utilizzata del nome del tempio era Herculis Musarum aedes, ma Servio e Plutarco utilizzano la forma Herculis et Musarum.

      Il portico di Filippo (Porticus Philippi) era un portico situato a Roma nella Regio IX Circus Flaminius che occupava la parte del Campo Marzio posta a ovest della Via Lata, nella parte nord occidentale della città di Roma antica. Di esso attualmente non ci sono vestigia.

      RESTI DEL PORTICO DI FILIPPO (PIRANESI)

      LUCIO MARCIO FILIPPO

      L'autore del Portico fu Lucius Marcius Philippus, della gens Marcia, console nel 56 a.c. con Gneo Cornelio Lentulo Marcellino e dopo la morte di Gaio Ottavio sposò Azia, figlia di Giulia, che era la sorella di Giulio Cesare, colei che fu testimone e accusatrice, nel caso del sacrilegio di Publio Clodio Pulcro nel 62 a.c.

      Così Filippo divenne padre adottivo di Ottaviano, il futuro imperatore Augusto. Comunque durante la guerra civile Filippo si mantenne neutrale e ottenne pure il permesso da Cesare di astenersi dal conflitto con Pompeo. Nonostante il suo comportamento, Cesare continuò a manifestargli la propria stima e amicizia. Filippo dopo l'assassinio di Cesare, cercò di dissuadere il giovane Ottaviano, suo figliastro, dall'accettarne l'eredità, naturalmente inascoltato.

      Comunque fu lui, nel 29 a.c., a restaurare il tempio di Ercole delle Muse, detto "Herculis Musarum aedes"e costruì attorno ad esso un quadriportico che è rappresentato sulla Forma Urbis Severiana (frammento 33). 

      Nell'immagine qui sotto riportata, la presupposta chiesa di Santa Maria in Cacaberis, posta appunto in Via dei Calderari, che trae la sua denominazione dai caccabarii, cioè dai ‘calderari’ che numerosi svolgevano la loro attività nella zona. Le due colonne, indubbiamente romane, apparterrebbero al Portico di Filippo, e in effetti sono doriche e in travertino, come fa notare il Ridolfino.

      PRESUPPOSTA EX CHIESA S MARIA IN CACABERIS 
      Le fonti riportano che nel portico di Filippo si conservavano famose opere pittoriche e vi si trovavano numerose botteghe di parrucchiere. Fra le opere vengono citate:

      Elena di Zeusi, sicuramente una copia del grande pittore greco Zeusi, vissuto nel V - IV secolo a.c. del quale Plinio racconta nella sua Storia Naturale, la novella secondo la quale volendo egli raffigurare Elena di Troia, talmente era famoso per la sua bravura, che avrebbe indotto le cinque più belle vergini della città (Crotone o Agrigento nelle fonti) a permettere ch'egli copiasse di ciascuna ciò che aveva di più bello.
      - Libero, ovvero un'immagine di Liber, un antico Dio italico della fecondità, del vino e della sfrenatezza, molto simile a Dioniso.
      un Alessandro putto, cioè una pittura di Alessandro Magno da bambino.
      un Hippolito d'Antifilo; Antifilo, pittore egizio è giudicato da Quintiliano fra i sette più eccellenti pittori del tempo di Alessandro Magno, con una grande facilità nel dipingere (Inst. Orat., XII, 10, 6), sia quadri grandi che piccoli, e sia a tempera che ad encausto (Plinio, Nat. Hist., XXXV, 114); dipinse Ippolito spaventato da un toro uscito dal mare. Evidentemente era una copia romana.
      - diverse immagini della guerra troiana.

      PONTE DI ANNIBALE SUL SAVUTO (Calabria)

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      Scigliano è un paesino della provincia di Cosenza, in Calabria, dove il fiume che l'attraversa, il Savuto, è cavalcato dall'antico Ponte di Annibale o Ponte di S. Angelo, esattamente in una proprietà della Famiglia Micciulli. Il Ponte di Annibale non va confuso con una altro ponte dello stesso nome e sempre di epoca romana, che è sito sul corso del Titerno, nel comune di Cerreto Sannita in Campania.

      Diverse prove archeologiche dimostrano che il ponte, oggi monumento storico nazionale, fu costruito nel periodo che va dal 131 al 121 a.c., facente parte della Via Popilia, edificata per volontà del console Publio Popilio Lenate,  come testimonia il cosiddetto Cippo di Polla. La strada e il ponte collegavano l'attuale Reggio di Calabria a Capua.

      Il ponte venne distrutto dagli stessi romani all’epoca della sconfitta di Annibale per arrestare la sua fuga verso le sue navi in mare, ma fu invece ricostruito con lo stesso materiale edilizio e con lo stesso modello architettonico dei genieri del generale cartaginese per il transito della sua armata.

      Il ponte è di piperno, ovvero di peperino, una roccia eruttiva effusiva, e se ne ignora l’autore, ma sarebbe strano il contrario perchè in genere i ponti romani li costruivano i legionari, su disegno di un generale o di un "ingenius" o geniere addetto. 

      PONTE DI ANNIBALE
      Al popolo la chiesa insegnò, tanto per cambiare, che il ponte era opera del diavolo (quasi tutti i ponti romani lo sono) e che sopra alcune pietre vi era l’impronta della sua mano e pertanto, siccome il diavolo nasconde tesori come il Dio Plutone, la gente andò a cercarvi tesori nei pressi.

      L’archeologo Edoardo Galli disse: “….guardando, poi, le fiancate appare evidente l’intenzione dei costruttori di restringere artificialmente, ridurre quanto più possibile la valle, per soverchiarla con un solo, arditissimo, arco. Questo è all’incirca, alto 13 metri e largo il doppio, ma nell’antichità doveva librarsi ad una altezza vertiginosa, poiché è risaputo che tra i fiumi della Calabria il Savuto è uno dei più noti e temuti per piene e devastazioni. Quindi non v’è dubbio che in più di duemila anni il fiume abbia colmato una buona metà dell’ altezza primitiva. Infatti non si vedono i pilastri su cui poggia la volta perché sono sotterrati nella ghiaia e come si può notare oggi, il fiume scorre a livello della corda dell’arco”.

      Il ponte faceva parte dell’antica via romana Popilia, edificata dal centro di Reggio Calabria per poi congiungersi con le altre vie che portavano a Roma. Il tracciato antico della strada costeggiava il Mar Tirreno, raggiungeva Vibo Valentia, la Piana di S Eufemia, risaliva la Valle del fiume Savuto, proseguiva sul ponte che lo cavalcava e risaliva ai Campi di Malito. 

      Da qui proseguiva costeggiando prima il torrente Iassa, e poi il fiume Busento cavalcandolo nel vecchio quartiere di Portapiana. Seguiva poi il grande fiume Crati sino a Tarsia in provincia di Cosenza, quindi Morano Calabro, e la conca del Vallo di Diano dove i romani tracciarono nel 128 a.c. la via Popilia-Annia ed i Visigoti di Alarico la percorsero durante l'invasione del 410 d.c.. La via tagliando poi Salerno, Nocera e Capua, si congiungeva alla via Appia che portava a Roma.

      RAMPA SUPERIORE (A SINISTRA) E RAMPA INFERIORE (A DESTRA)
      Il Ponte, che risale ai primi decenni II secolo a.c., è realizzato con archi in tufo calcareo rosso proveniente dalla cava di una collina adiacente al ponte dove ancora sono evidenti i profondi tagli sulla parete, operati dai romani, per estrarre i blocchi che venivano precipitati a valle esattamente dove sorge il ponte. 

      I romani erano molto razionali e organizzati e miravano sempre al minor dispendio di tempo e di energie, per cui ogni edificio veniva costruito se possibile con pietra locale. 

      I blocchi venivano poi tagliati e levigati per il ponte, ma giacchè c'erano, vi crearono pure una fornace per farne la calce e rivenderla. 

      Le fondazioni del ponte si trovano ad profondità di circa 1,50 m dal greto del fiume, costituite da due ordini di blocchi squadrati e sovrapposti con un'altezza dell'edificato di 1,50 m, ma di 11 m rispetto al piano del fiume, una larghezza di 3,55 m e una lunghezza di 21,50 m, del solo ponte esclusa la rampa di salita. Aggiungendo invece le due rampe di risalita, per raggiungere o abbandonare il ponte, il suolo di calpestio era lungo 48 m.

      La volta era costituita da due archi a tutto sesto di blocchi squadrati di tufo secco, posti sfalsati onde evitare solchi di frattura unica in caso di terremoti. Il secondo arco è in tufo e in pietrame e pozzolana all’interno, a copertura del primo arco portante ed è posto direttamente sulla fondazione, senza pile di appoggio, avendo solo funzione di rinforzo e di contrappeso al primo.  

      LE DUE CAMPATE
      I romani edificavano per l'eternità e dovettero pertanto tener conto delle tremende piene del Savuto
      per cui costruirono il ponte a secco, sapendo già che diversi materiali, per la diversa dilatazione dei singoli materiali, avrebbero corroso la malta e fatto crollare il ponte. I blocchi di tufo al contrario dopo oltre duemila anni si sono suturati con il calcare scioltosi dalle stesse pietre, tanto da formare un unico blocco.

      Il piano di calpestio venne costruito in muratura con pietrame di fiume e pietra pozzolana e vi si risaliva da un lato poggiando sulla roccia della collina, e dall'altro poggiando su un arco trasversale chiuso da muri dallo spessore di 50 cm. 

      Accanto al ponte, alle sue estremità, sopravvivono i resti di due garitte, atte a riparare le truppe a protezione del ponte, resti purtroppo mai ripristinati. Vicino al ponte, invece, sulle fondamenta di caseggiati romani giace il rudere di una vecchia casa colonica, in parte sede della chiesetta di S. Angelo.

      Secondo un’altra leggenda, il ponte, denominato anche  ponte S. Angelo, per la presenza di una chiesa dedicata a questo Santo, si narra che questi abbia sconfitto il diavolo proprio sul ponte e quest’ultimo per rabbia tirando un calcio alla spalla destra del ponte provocò una lesione. Tale lesione non è oggi visibile, poiché risanata durante il restauro avvenuto nel 1961.

      Attualmente il ponte è uno tra monumenti recensiti e sotto protezione dell’ Unesco ma, inspiegabilmente, pur essendo tra i ponti più antichi d’Italia, è fuori da ogni circuito turistico sia regionale che nazionale.

      TEMPLUM MAGNAE MATRIS IN PALATINO (11 Aprile)

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      CIBELE LA DEA FRIGIA

      Pindaro:
      Una è degli uomini
      Una la stirpe dei Numi.
      Da sola una madre
      Entrambi traiamo il respiro.

      Si festeggiava l'11 aprile in onore della Dea Cybele Magna Mater, la Grande Dea Frigia. Il tempio sul colle Palatinus venne consacrato nel 191 a.c. Cibele era la Grande Madre, di uomini e Dei, quindi la prima fra gli Dei, la mai nata, l'eterna. Come tutte le Dee mediterranee e asiatiche era Vergine, ma nel senso antico.

      La vergine non era colei che si asteneva dall'accoppiamento, ma colei che non era sottoposta all'uomo, che non aveva marito. Infatti già tra i Romani la vergine nel senso odierno era chiamata "virgo intacta". Così la Dea partorì un figlio, Attis, addirittura senza il concorso del maschio. Questi crebbe e da adulto divenne il suo paredro, a lei sottoposto.

      RICOSTRUZIONE DEL TEMPLUM MATRIX MAGNAE
      Ma Cibele era un'amante gelosa, e quando Attis la tradì innamorandosi di una ninfa, per altri della figlia del re Mida, per vendetta lo fece impazzire si che il Dio si evirò. Dal sangue caduto in terra nacquero delle viole. Cibele fece si che il corpo di Attis non imputridisse e che i capelli continuassero a crescere. Seppellì poi i genitali di Attis, che diventò così Dio della vegetazione, che ogni anno muore e resuscita.

      In un altro mito, forse successivo, Cibele amò il giovane Atys nei boschi della Frigia (oggi Turchia). Quando lui non resistette poi alla ninfa Songaride, Cibele lo fece impazzire; Atys si fece male e alla fine si gettò da una rupe. A quel punto Cibele lo salvò afferrandolo per i capelli: che si trasformarono in chioma, il suo corpo in tronco, e i suoi piedi toccarono la terra come radici formando il pino.

      Molti sono i miti in cui la Dea Vergine mette al mondo un figlio che muore e risorge ogni anno, si tratta della vegetazione annuale che permette il nutrimento agli animali erbivori e all'uomo, in particolare tramite la coltura degli orti. Ma per chi sapeva andare oltre, nei Misteri Sacri, era l'uomo, si dice, che moriva e ritornava nelle successive reincarnazioni.

      "Cessi l'indugio nella mente tarda: andiamo insieme, seguitemi
      alla casa frigia di Cibele, ai boschi frigi della dea,
      dove risuona la voce dei cembali, dove rimbombano i timpani,
      dove il flautista frigio canta gravemente con flauto ricurvo,
      dove le Menadi, che portan l'edera, scuotono con forza il capo,
      dove celebrano i santi riti con acuti ululati,
      dove è solita quell'errante schiera della dea danzare,
      là è bene che noi corriamo con canti gioiosi."

      (Catullo - carmen)

      VICTIMARI CONDUCONO LA GIOVENCA AL TEMPIO DELLA MAGNA MATER IN PALATINO

      LA CERIMONIA

      I Ludi Megalenses si svolgevano dal 4 al 10 aprile in onore della Dea Cybele, Magna Mater, e la ricorrenza del Tempio Magna Matris in Palatino si svolgeva l'11 aprile, il giorno dopo la celebrazione dei Ludi Megalensi, praticamente chiudevano le feste solenni.

      Per l'occasione si sacrificava nuovamente una giovenca la cui carne veniva poi cotta mentre la processione coi sacerdoti galli scendeva dal Palatino danzando e cantando alla Madre degli Dei, mentre la Statua veniva portata fin sulla rive del Tevere dove veniva bagnata e coperta di fiori e ghirlande.

      Per l'occasione veniva liberato sul greto del Tevere un serpente acquatico ornato da un nastro dorato a ricordo del serpente che accompagnò la nave della Dea da Pessinunte a Roma, serpente ancora scolpito su un fianco dell'Isola Tiberina.

      Al loro ritorno la Statua della Dea veniva risposta nel tempio aperto e la Dea veniva avvolta con un manto dorato, mentre a i suoi piedi i fedeli riversavano monete. gioielli ed ex voto in argento, bronzo e terracotta.

      Intanto la carne della giovenca era stata tagliata e cotta, e veniva offerta ai fedeli insieme vino sgorgante dalle botti. Al tramonto si chiudevano le porte del tempio e si spegnevano le fiaccole tra le ultime danze e canti dei sacerdoti galli più o meno ebbri.

      LUCIO PAPIRIO CURSORE - L. PAPIRIUS CURSOR

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      Nome: Lucius Papirius Cursor
      Nascita: ?
      Morte: ?
      Gens: Papiria
      Consolato: 326 a.c., 320 a.c., 319 a.c., 315 a.c., 313 a.c.
      Dittatore: 324 a.c., 309 a.c.
      Professione: Politico e Generale


      «Papirio Cursore senza dubbio fu un uomo degno di ogni riconoscimento militare, eccellente non solo nel vigore dell'animo, ma anche in quello del fisico. Possedeva una singolare velocità delle gambe, che gli dette anche il soprannome. 

      Tramandano che o per il vigore fisico o per il molto esercizio, egli fosse stato vincitore di tutti i suoi coetanei nella corsa, inoltre gran bevitore e mangiatore; che non ci fosse stato servizio militare più duro di quello svolto sotto il suo consolato, essendo egli stesso invincibile alla sofferenza del corpo, per un fante quanto un cavaliere.

      Papirio era ugualmente abile nel comandare sia gli alleati che i cittadini. In una battaglia il pretore prenestino, a causa della paura, aveva condotto molto lentamente i suoi al combattimento dalla retroguardia alla prima linea; così un giorno Papirio lo fece chiamare, mentre passeggiava davanti alla sua tenda e alla sua presenza ordinò al littore di preparare le scuri.

      Poi disse allo stesso: “ Orsù littore, taglia questa radice che intralcia il cammino “. dette poi all'esanime prenestino, colpito dal timore della pena capitale, una punizione e lo lasciò andare. Senza dubbio in quell'epoca, che non fu più eguagliata in quanto a coraggio e valore militare, non vi era altro uomo al quale lo stato romano si affidasse così ciecamente.
      »

      (Tito Livio - Ab Urbe condita libri, VIII, 23.)

      Lucio Papirio Cursore, ovvero Lucius Papirius Cursor (... – ... a.c.) è stato un politico ma soprattutto un grande generale e stratega romano, cinque volte console e due volte dittatore. Fu considerato il migliore generale romano all'epoca della II guerra sannitica.



      IL PICCOLO PAPIRIO E SUA MADRE

      «Un tempo i senatori a Roma avevano l'usanza di entrare nella curia con i figli vestiti della toga pretesta. Un giorno, quando nel senato fu messa in discussione una questione piuttosto importante e fu prorogata al giorno seguente, si stabilì che nessuno riferisse quella questione, di cui avevano discusso, prima che fosse stata deliberata. Allora, la madre del giovane Papirio, che era stato nella curia con suo padre, domandò al figlio di che cosa i senatori avessero fatto nel senato. 

      Il ragazzo rispose che la cosa doveva esser tenuta segreta e che non era consentito che fosse riferita. Ma la donna era troppo curiosa di sapere; la segretezza della cosa e il silenzio del ragazzo stimolavano il suo animo ad indagare: chiese, dunque, con più insistenza e con più forza. Allora il ragazzo, poiché la madre lo incalzava, escogitò una bugia arguta e divertente. Disse che in senato si era discusso su che cosa fosse più utile per lo stato: se un solo uomo avesse due mogli o se una sola donna fosse sposata con due uomini. 

      Quando la madre sentì questo, il suo animo si turbò, uscì di casa tremante e andò a parlare con le altre matrone. Il giorno dopo una folla di madri di famiglia andò in senato: piangendo e supplicando chiesero che una sola donna potesse avere due mariti piuttosto che un solo uomo avesse due mogli. I senatori che entravano nella curia guardavano stupefatti quel comportamento stravagante delle donne.

      Allora il giovane Papirio, fattosi avanti nel centro della curia, raccontò per filo e per segno che cosa sua madre avesse chiesto con insistenza di sentire, che cosa lui avesse detto alla madre e tutto il fatto. Il senato lodò l'affidabilità e lo spirito del ragazzo e stabilì che da quel momento in poi i ragazzi non potessero entrare nella curia con i senatori, a eccezione del solo Papirio, a cui successivamente fu dato il soprannome Pretestato per la grande capacità di tacere e di parlare nell'età della toga pretesta

      (Catone)

      Appartenente all'antica e patrizia gens Papiria, nel 340 a.c. e fu magister equitum del dittatore Lucio Papirio Crasso. Secondo alcuni analisti sarebbe stato console una prima volta nel 333 a.c.



      CONSOLE nel 326 a.c.

      Fu comunque eletto console nel 326 a.c., con il collega Gaio Petelio Libone Visolo, l'anno in cui iniziò la II guerra sannitica. Secondo Livio ottenne il soprannome di Cursore per la straordinaria velocità della sua corsa:

      « Alla fine si passò a un interregno, e dopo continui rinvii delle elezioni ottenuti con sempre nuovi pretesti, finalmente il quattordicesimo interré, Lucio Emilio, nominò consoli Gaio Petilio e Lucio Papirio Mugillano. In altri annali ho trovato per quest'ultimo il soprannome di Cursore.»
      (Livio, Ab Urbe condita libri, VIII, 23.)

      « Era straordinariamente veloce di gambe, qualità questa che gli valse il soprannome di Cursore, e si dice che ai suoi tempi nessuno riuscisse a superarlo nella corsa, sia per la grande forza fisica, sia per il notevole allenamento. Oltre a questa caratteristica, era un mangiatore e un bevitore formidabile »
      (Livio, Ab urbe condita libri IX, 16.)



      ABOLI' LA SCHIAVITU' PER DEBITI

      Durante il suo consolato fece emanare la Lex Poetelia-Papiria, con cui si aboliva la schiavitù per debiti dei cittadini romani (che spesso si indebitavano per aver dovuto combattere anzichè lavorare la propria terra) e l'anno successivo diresse le operazioni belliche come dittatore. Inoltre concesse alla plebe di adire ad alcune cariche religiose.

      Durante il suo comando, si verifico l'episodio del suo aspro contrasto con il suo magister equitum Quinto Fabio Massimo Rulliano, che avrebbe attaccato i Sanniti contravvenendo il suo ordine.



      PUNIZIONE DI MASSIMO ROLLIANO

      Seppur l'esercito romano fosse risultato vincitore, Lucio Papirio, fu determinato ad ottenere l'ammissione di colpevolezza di Fabio, davanti all'esercito, al Senato, e infine anche davanti al popolo riunito con la procedura della "provocatio".

      QUINTO FABIO
      Secondo il racconto di Livio (VIII 30), al momento di partire per il Sannio, il pullarius aveva annunciato al dittatore auspici incerti.

      Papirio si accinse, di conseguenza a partire per Roma, per rinnovare l'auspicio, ma prima di lasciare I 'esercito ordinò a Quinto Fabio di non attaccare battaglia durante la sua assenza.

      Ignorando le disposizioni del dittatore, Quinto Fabio si scontrò con il nemico, ottenendo una brillante vittoria.

      Non pago della propria condotta, Fabio inviò la lettera con la notizia del suo successo al senato e non al suo superiore. Da questo nasce una contesa che vede contrapposti Papirio, deciso a condannare a morte Fabio in quanto reo di grave disobbedienza, e il maestro della cavalleria Quinto Fabio, che sembra affidarsi più alla protezione della sua famiglia che alle ragioni del Suo comportamento.

      La contesa, alla quale Livio dedica ben sei capitoli, dal 30 al 36, del libro VIII, dopo varie vicissitudini si conclude con la grazia, concessa infine da Papirio soprattutto per I 'intercessione del popolo romano.

      Tornato nel Sannio per continuare la campagna militare contro i Sanniti, mal voluto dai soldati per l'episodio di Massimo Rolliano, guidò l'esercito ad una nuova vittoria campale, che tuttavia non fu un completo successo, per il comportamento renitente dei soldati.



      IL TRIONFO

      Lucio Papirio però riuscì a riconquistare la fiducia dei soldati, e li guidò ad una terza vittoria in battaglia contro i Sanniti, che sconfitti, chiesero la pace al dittatore. Per queste vittorie, tornato a Roma, ottenne il trionfo.

      Fu eletto console nel 320 a.c., con il collega Quinto Publilio Filone, l'anno successivo alla vergognosa disfatta delle Forche Caudine con la conseguente umiliazione romana. I due consoli, con l'esercito, tornarono alle Forche Caudine, decisi a riscattare l'ignominiosa sconfitta romana e pure per rigettare la condizioni di pace imposte a Roma, consegnando ai Sanniti anche i due Consoli che le avevano accettate.

      LE FORCHE CAUDINE

      CONTRO I SANNITI

      Mentre Publio si fermò nel Sannio per fronteggiare l'esercito Sannita, Lucio si diresse verso Luceria, dove si era asserragliato Gaio Ponzio, comandante in capo dei Sanniti "stratega di prim'ordine" che teneva presso di sé i cavalieri romani, ostaggio dei Sanniti dopo la battaglia delle Forche Caudine. Gaio Ponzio non accettò il sacrificio dei due consoli (tra l'altro consenzienti), ma di fatto si trattò della ripresa delle ostilità.
      Gaio Ponzio rimandò indietro i due prigionieri romani con parole sprezzanti:
      «Né io accetterò questa consegna, né i Sanniti la riterranno valida. Perché tu, Spurio Postumio, se credi che gli Dei esistano, non consideri nullo l'intero accordo, oppure non ti attieni ai patti? Al popolo sannita vanno consegnati quelli che sono stati in suo potere, o al posto loro va riconosciuta la pace. 
      Ma perché dovrei rivolgermi a te, che ti consegni nelle mani del vincitore, mantenendo, per quel che è in tuo potere, la parola data? È al popolo romano che mi appello: se è pentito della promessa fatta alle Forche Caudine, allora deve riconsegnarci le legioni all'interno della gola dove sono state accerchiate»
      (Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 11.)

      L'esercito romano giunse ad Arpi, o Argos Hippium, una città della antica Apulia nei pressi di Luceria, senza incontrare resistenza dagli abitanti di quei luoghi, da tempo vessati dai Sanniti, dove fu posta la base per l'assedio di Luceria.

      Quando alle truppe di Lucio, si ricongiunsero quelle di Publilo, che avevano vinto i Sanniti nella battaglia combattuta nei pressi di Caudia, l'assedio a Luceria divenne più efficace, ed i Sanniti furono costretti ad accettare lo scontro in campo aperto, nonostante un tentativo dei Tarantini di evitare che si svolgesse la battaglia tra i due contendenti. I romani vinsero la battaglia, e solo il pensiero dei 600 cavalieri, ancora ostaggio dei Sanniti a Luceria, li trattenne dal massacrare tutti i nemici sconfitti in battaglia.

      Ripreso l'assedio, alla fine i Sanniti, stremati dalla fame e dagli stenti, si arresero ai romani, che oltre al bottino, pretesero che i 7.000 guerrieri Sanniti, compreso il loro comandante Gaio Ponzio, passassero sotto il giogo delle armi romane.

      L'ONTA DELLE FORCHE CAUDINE ERA STATA RISCATTATA COL SANGUE! ROMA ERA STATA VENDICATA!

      Per questa vittoria, tornato a Roma, Lucio Papirio Cursore ottenne il trionfo.



      TITO LIVIO


      « Quanto ai soldati, li avrebbe fatti passare sotto il giogo con un solo indumento addosso, più per vendicare l'umiliazione subita che per infliggerne una nuova. Non venne respinta alcuna delle condizioni. 
      A passare sotto il giogo furono in 7.000 soldati, mentre a Luceria venne rastrellato un ingente bottino. Tutte le insegne e le armi perdute a Caudio vennero riprese, e - gioia questa superiore a ogni altra - furono recuperati i cavalieri consegnati dai Sanniti affinché venissero custoditi a Luceria come pegno di pace. 

      Con quell'improvviso ribaltamento di fatti, nessuna vittoria del popolo romano fu più splendida, e ancor di più se poi è vero quanto ho trovato presso alcuni annalisti, e cioè che Ponzio figlio di Erennio, comandante in capo dei Sanniti, venne fatto passare sotto il giogo insieme agli altri, affinché espiasse l'umiliazione inflitta ai consoli »

      (Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 15.)

      SANNITI

      CONSOLE nel 319, 315 e 313 a.c.

      Lucio Papirio Cursore fu eletto di nuovo console nel 319 a.c., con il collega Quinto Aulio Cerretano. Guidò i romani alla riconquista delle città di Satricum, che era passata dalla parte dei Sanniti dopo la disfatta della Forche Caudine.

      Fu eletto di nuovo console nel 315 a.c. insieme al collega Quinto Publilio Filone. I due consoli rimasero a Roma, mentre la campagna contro i sanniti fu affidata al dittatore Quinto Fabio Massimo Rulliano.

      Fu eletto di nuovo console, per la quinta volta, nel 313 a.c. insieme al collega Gaio Giunio Bubulco Bruto. I due consoli elessero Gaio Petelio Libone Visolo dittatore per la conduzione della campagna contro i Sanniti.



      DITTATORE nel 309 a.c.

      Nel 309 a.c., quando la guerra aveva preso una piega pericolosa, anche per il contemporaneo impegno dei Romani contro gli Etruschi, Roma si affidò ancora una volta a Papirio Cursore, nominandolo dittatore. Mentre Quinto Fabio Massimo Rulliano rimaneva a capo dell'esercito romano che fronteggiava gli Etruschi, Lucio Papirio, diretto alla volta del Sannio, per prendere il comando dell'esercito romano dalle mani del console dell'anno precedente Gaio Marcio Rutilo Censorino, si incontrò con quest'ultimo a Longula.

      Preso il comando dell'esercito romano, che fronteggiava i Sanniti, guidò i romani in una battaglia campale, dove essi ebbero la meglio.
      « aveva di nuovo levato il grido di battaglia prendendo ad avanzare, i Sanniti cominciarono a fuggire. Le campagne già erano ingombre di cumuli di cadaveri e armi luccicanti. In un primo momento i Sanniti, terrorizzati, si andarono a rifugiare nell'accampamento; poi però non riuscirono a tenere nemmeno questo, che prima del calar della notte venne conquistato, saccheggiato e dato alle fiamme. Su decreto del senato il dittatore ottenne il trionfo, il cui più splendido ornamento furono le armi strappate ai Sanniti.»

      (Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 40.)

      GUERRIERI ETRUSCHI

      BATTAGLIA DEL LAGO VADIMONE - 309 a.c.

      Nello stesso anno il dittatore Lucio Papirio Cursore a capo dell'esercito romano sconfisse in battaglia gli Etruschi al lago Vadimone, vicino a Horta, oggi Orte, ("Ex Tuscis frumentum Tiberi venit: eo sustentata est plebs", Livio, Lib. II),, nel territorio della città stato di Volsinii, ed a Perugia.

      Gli Etruschi avevano radunato un esercito in forza della Lex Sacrata, un'antica legge che chiunque la violasse si sarebbe esposto alla vendetta degli Dei, sarebbe divenuto sacer (maledetto) e sarebbe stato passibile della pena di morte. Con questo sistema di arruolamento il comandante designò i soldati più valorosi, obbligandoli con giuramento all'adempimento del dovere fino al sacrificio della vita.

      Ognuno di tali soldati si scelse un compagno di pari valore, questi un altro e così via fino a che si raggiunge il numero richiesto. Il risultato di questo metodo singolare ed anomalo è la formazione di un corpo scelto di combattenti molto determinati. Lo scontro viene ricordato come la più grande battaglia della storia tra Etruschi e Romani.

      «Anche gli Etruschi, arruolato con una legge sacrata un esercito, nel quale ogni uomo si sceglieva un altro uomo, si scontrarono presso il lago di Vadimone, con uno spiegamento di forze e un accanimento mai visti in passato

      (Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 39.)

      La battaglia fu molto a lungo incerta, poi i Romani, non appena intervennero i cavalieri, ebbero il sopravvento e infliggono ai nemici una cocente disfatta.
      «Quel giorno venne spezzata per la prima volta la potenza etrusca, in auge dai tempi antichi. Il fiore delle loro truppe venne massacrato sul campo, e con quello stesso attacco i Romani ne catturarono l'accampamento saccheggiandolo

      (Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 39.)

      Dopo di questa data di Lucio Papirio Cursore, il grande generale stratega romano non si hanno più citazioni.

      TREBULA MUTUESCA - MONTELEONE (Lazio)

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      L'ANFITEATRO
      «Una sola, imponente, è la coorte Amiterna, e i prischi Quiriti,
      e tutta la schiera d'Ereto e Mutusca, la ricca d'olivi;
      e chi la città di Nomento, e chi la Rosea e il Velino,
      chi l'irte rupi di Tétrica abita e il monte Severo,
      Casperia e Foruli e l'Imella scorrente...»

      (Eneide, lib. VII, vv. 710-714)

      La città sabina di Trebula Mutuesca, (o Trebula Mutusca) citata da Publio Virgilio Marone nell'Eneide, si trovava nel Lazio, in provincia di Rieti, nel territorio dell'attuale paese di Monteleone Sabino, a 496 metri di altitudine sul livello del mare, sulle propaggini meridionali dei monti Sabini, a circa 60 km da Roma.

      Plinio il Vecchio menziona due popoli trebulani: Trebulani qui cognominantur Mutuscaei, et qui Suffenates. Il sito antico è locato a Monteleone Sabino, un villaggio a circa 3 km a destra della Via Salaria , tra Osteria Nuova e Poggio San Lorenzo.

      Qui emergono notevoli rovine dell'antico centro romano, tra cui quelle di un teatro, di bagni o terme e parti dell'antica pavimentazione. Diverse iscrizioni sono state trovate, alcune delle quali portano il nome della sua gente, Plebs Trebulana, Trebulani Mutuscani e Trebulani Mut., cosa che toglie ogni dubbio sull'attribuzione del sito.


      Virgilio descrive Mutusca come abbondante di olive ( oliviferaeque Mutuscae), che ancora caratterizza Monteleone Sabino, e un villaggio vicino che porta addirittura il nome di Oliveto.

      I lavori di scavo dal 2000 ad oggi hanno portato alla luce il portico del tempio di Feronia che un tempo era caratterizzato da muri periferici di breccia, originariamente realizzati in legno, successivamente sostituiti da muri di travertino e mattoni.

      Non si conosce l'origine del suo nome che secondo alcuni deriverebbe da trabes, che secondo alcuni significa casale, ma in realtà significa "trave", termine strano per un paese. Dato invece che in zona venne ritrovato un tempio della Dea Angizia, detta anche la Dea Muta, non escludiamo che il nome Mutuesca, o Mutusca, possa derivare dall'appellativo della Dea.

      Nel IV secolo a.c. in questa località sorgeva un santuario, dedicato alla Dea Feronia, Dea di origine italica, protettrice prima della natura selvaggia (Potnia Theron) e poi dei boschi e delle messi, celebrata dai malati e dagli schiavi riusciti a liberarsi, dalla malattia e dalla schiavitù.

      L'ISCRIZIONE DI TREBULA
      Il santuario era situato nella attuale zona di Pantano, frequentato probabilmente dalle popolazioni che abitavano in capanne sulle alture vicine. Ma si formò un vero e proprio villaggio solo dal secolo successivo, sorto dalla frequentazione del santuario che offriva souvenir, cibo e alloggio ai devoti pellegrini che accorrevano dalle varie località per onorare e supplicare la Dea, tanto più che il santuario era abbastanza vicino alla via Salaria.

      Quando la Sabina venne associata a Roma si svilupparono i commerci, la popolazione crebbe e si radunò in centri abitati più grandi fino a che, nel I secolo a.c. sorse un'autentica cittadina, con il Foro, i templi, la basilica, le terme e gli altri edifici pubblici.

      L'IMMAGINE DELLA DEA DI TREBULA
      "Trebula Mutuesca, cioè Monteleone Sabino in provincia di Rieti, sorgeva alla confluenza di due grandi vie naturali, quali la Salaria e la valle del Tevere: si tratta dunque ancora una volta di un centro nodale di scambi, oltre che area di contatto tra Sabini, Equi e il comparto faliscoe capenate. 

      Il santuario doveva costituire il punto di aggregazione per il sistema insediativo trebulano, che sembra consistesse in piccoli nuclei sparsi. Anche in questo caso, successivi restauri sembrano confermare che il culto fu in vigore per diversi secoli. 

      Da questo edificio proviene la iscrizione CIL I 1834, su un elemento di colonna che menziona elementi architettonici quali colonne e crepidine. Nelle immediate vicinanze del santuario in loc. Pantano, nei pressi dell’attuale chiesa di S. Vittoria, venne rinvenuta una stipe votiva, con materiali databili tra la metà del IV gli inizi del III secolo. 

      Sin dalla scoperta la stipe è stata considerata connessa al santuario, e dunque al culto di Feronia, che in tal modo risulterebbe già presente nella seconda metà del IV secolo. 

      Si può essere piuttosto certi che il culto della Dea a Trebula fosse originario: anche in questo caso infatti, troviamo il ricorrere di elementi tipici. Si è già evidenziata la collocazione lungo grandi vie di percorrenza. Inoltre, la già ricordata centralità del santuario per l’intera area ne fa un luogo la cui importanza deve presumibilmente affondare le radici in epoche remote.

      Infine anche in questo caso l’elemento acqua è decisamente presente, come testimoniano le condotte idriche collegate al Pozzo di S. Vittoria presente nella chiesa e le cui acque hanno peraltro un ruolo importante nella leggenda della santa."


      (Massimiliano Di Fazio - I luoghi di culto di Feronia. Ubicazioni e funzioni)

      CORRIDOIO SOTTERRANEO

      IL MUSEO DI MONTELEONE

      La parte degli oggetti nelle vetrine centrali apparteneva al deposito votivo e sono databili tra IV e III secolo a.c., a questi si aggiungono reperti dalla città, soprattutto d'epoca imperiale; i pezzi in pietra sono tutti riferibili alla Trebula romana, e vanno dal I secolo a.c. al IV secolo d.c.

      All'ingresso, dopo il leone in pietra calcarea bianca, che originariamente sorvegliava l'accesso ad un sepolcro romano del I secolo a.c., si osserva i primi tre pannelli che inquadrano geologicamente e storicamente l'area della Media Sabina, riportando anche i passi degli autori antichi che menzionano Trebula e la zona limitrofa (Virgilio, Stradone, Plinio il Vecchio, ecc.). 

      Sul lato opposto altri tre pannelli fanno riferimento all'epoca preromana, con particolare descrizione dei più locali, come quelli dedicati ad Angizia e Feronia, e al deposito votivo rinvenuto presso la chiesa di S. Vittoria, indagato negli anni 1958 e 1980, cui sono riferibili i materiali contenuti nelle vetrine attigue.

      EDIFICIO ROMANO IN OPUS RETICULATUM
      Le vetrine sono allestite tipologicamente:
      - alcune teste in terracotta, tra le quali spiccano quella di uomo con velo e la figura femminile, con alcuni particolari dipinti, come la collana e i lunghi orecchini a catenella.
      - Nel ripiano inferiore si notano alcuni esemplari rifiniti a stecca, mentre un'altra risente dell'influsso della scultura magnogreca.
      - Nella vetrina B è particolarmente importante la statua di bambino rozza ma efficace.
      - Nel ripiano inferiore sono conservati vari animali votivi, bovini ed equini.
      - In alto, alcune ceramiche di uso domestico.

      La vetrina C contiene, oltre a piatti e vasi di uso comune (scodelle coperchi e piccoli contenitori) un nutrito campionario di arti votivi in ​​terracotta, fra cui si nota un piede con calzatura, un altro molto ben rifinito, una mano stilizzata.


      La vetrina D conserva materiali di varie origini e cronologie, tra cui spiccano molti vasi “una vernice nera”: per lo più coppe e ciotole, anche con stampi di fabbrica e graffiti eseguiti dopo la cottura al forno.
      Nel ripiano inferiore ci sono anche altri oggetti d'uso comune come lucerne a olio e pesi da telaio  oltre a piccoli oggetti di bronzo, come un cinturino da cinturone e un sigillo inciso.
      Nella sezione di Trebula Mutuesca in epoca romana:

      - i pannelli storico-descrittivi e alcuni reperti scultorei, come un rilievo raffigurante un gladiatore vittorioso, 
      - un altro con scena di combattimento, 
      - il torso di una statua di un personaggio con un mantello militare, 
      - una statua togata acefala. 
      - Una ricca decorazione a motivi vegetali ad altorilievo entro cassettoni posta originariamente all'interno di un arco, 
      - la parte inferiore di una scultura che raffigura il sacrificio di un toro.


      Nella seconda sala vi sono i reperti provenienti dai più recenti scavi:
      - due pezzi in marmo dall'area dell'anfiteatro: un frammento di statua panneggiata e un capitello ben lavorato, ambedue di epoca imperiale.
      - In fondo alla sala una grandiosa iscrizione in marmo, ottimamente conservata e restaurata, che ricorda il rifacimento dell'anfiteatro avvenuto nel 115 d.c., sotto l'impero di Traiano.
      - Nella vetrina a destra dell'epigrafe alcuni frammenti di statua in bronzo, tra cui spiccano un piede calzato e una mano, più grande del vero.

      EPIGRAFE DI TITO MALTINIO
      Dall'area del tempio provengono vari oggetti in metallo, fra cui un paio di pinzette in bronzo; interessante anche una scelta di marmi colorati che decorano vari edifici di Trebula Mutuesca e una serie di lucerna in terracotta databili al V secolo, rinvenuta recentemente negli scavi della catacomba sotto la chiesa di Santa Vittoria.

      Nella sezione successiva, epigrafica:
      - alcune iscrizioni latine e viene raffigurata e commentata la Lex Familiae Silvani, lunga epigrafia che riporta lo statuto di un'associazione religiosa del I sec. d.c.
      - un'epigrafe con dedica ad un Rufus,
      - una lapide funeraria che ricorda Tito Maltinio, morto da poco più di un anno,
      - quattro pannelli ricordano la nascita, nel periodo medievale, del paese di Monteleone Sabino, nonché lo sviluppo, sin dall'epoca tardo-romana, del culto per la giovane Vittoria, martirizzata e sepolta presso Trebula, nel luogo dove dapprima sorse un piccolo cimitero a catacomba e poi, nell'VIII secolo, una chiesa che assunse l'aspetto romanico nel XII secolo.



      SANTA VITTORIA - DEA VICTORIA

      Vi era a Trebula Mutuesca un tremendo dragone il cui sbuffo pestifero faceva morire uomini ed animali. L'imperatore Domiziano in persona si recò nel posto dove era stata esiliata Vittoria, e la pregò di salvare la città dal drago.

      Però il suo aspirante consorte dopo tre anni la denunciò al pontefice del Campidoglio perchè non voleva sposarsi in quanto destinata al Cristo, pertanto cristiana. Rifiutatasi di adorare una statuetta della Dea Diana, venne trafitta con la spada. Domiziano che va in un paesino a pregare una fanciulla di uccidere un "dragone" lascia un po' interdetti.

      E' evidente che si tratta di uno stereotipo di santa che deve essere necessariamente martire, che deve uccidere il solito drago e che deve rifiutare il matrimonio per essere "vergine e martire" secondo la classica dicitura.

      Probabilmente fu la solita sostituzione di una divinità pagana con un santo cristiano, in questo caso della Dea Victoria (la greca Dea Nike) che evidentemente era adorata in loco e aveva qui il suo santuario, tanto è vero che sono stati trovati molti reperti sotto la chiesa. Probabilmente vi era un santuario dedicato alla Dea.



      AREA SACRA DEL TARENTUM

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      AREA DEL TARENTUM CON I TEMPLI DI DITE E PROSERPINA

      OCEANIDI: Chi è allora il timoniere della Necessità?
      PROMETEO: Le MOERAE triformi (Moire) e le consapevoli ERINYES (Furie).
      OCEANIDI: Può essere che Zeus abbia meno potere di loro?
      PROMETEO: Sì, in quanto nemmeno lui può sfuggire a ciò che è predetto.

      (Eschilo, Prometeo incatenato 515).

      Passando sotto la porta Triomphalis, poi l'Arco di Arcadio, Teodosio ed Onorio (eretto dal Senato dopo la vittoria di Flavio Stilicho a Pollentia, oggi Pollenza, contro Alarico nel 405 d.c.), arriviamo nella parte chiamata Tarentum dove si erigevano due grandi templi costruiti su un terrazzo.
      A sinistra c'era il tempio di Dis Pater (equivalente del Dio Plutone) ed a destra il tempio di Prosperina. Prosperina è il nome dato dai Romani a Persefone che la equiparavano alla vecchia Dea italica Libera. La consideravano sopratutto come la Dea del mondo infernale, la sposa di Plutone.

      Il suo culto venne introdotto a Roma nel 249, per consiglio o meglio per ordine dei Libri Sibillini. Prosperina spartiva con lo sposo Plutone un altare comune, l'Ara Ditis et Prosperinæ che si può notare ai piedi dei gradini, di fronte ai due templi. In questo posto venivano celebrati i Giocchi Tarentini. Questi due templi imponenti dovevano fare una grande impressione.

      ARA VOTIVA A DIS PATER ET PROSERPINA
      Il Tarentum (detto anche Terentum) occupava la parte occidentale del Campo Marzio, prospiciente al fiume Tevere. I suoi limiti erano costituiti dall'altare di Dite e Proserpina (rinvenuto presso la Chiesa Nuova nel 1888) e il corso del fiume.

      Per la presenza di fonti calde fu considerato un luogo collegato agli Inferi e fu legato al culto di Dite e di Proserpina. Dite e Proserpina sono gli Dei dei morti, e come tali le ultime divinità con cui gli uomini hanno a che fare.

      La chiesa della Natività della Madonna, a cui venne poi modificato il nome in Chiesa Nuova, sorge sull'area di una leggera depressione naturale nella pianura del Campo Marzio, considerata dai Romani uno degli ingressi degli Inferi e luogo di culto delle divinità infernali, con il nome di Tarentum, dove, in occasione dei Ludi saeculares, vi venivano offerti sacrifici a Dite. Non un cartello indica il prezioso reperimento.

      "I fili che le Fates girano sono così indiscutibili, che, anche se decretassero a qualcuno un regno che al momento appartenga a un altro, e anche se quell'altro avesse ucciso l'uomo del destino, per salvarsi dall'essere mai privato da lui del suo trono, tuttavia, il morto tornerebbe in vita per adempiere il decreto dei destini ... 
      Colui che è destinato a diventare un falegname, diventerà quello anche se le sue mani sono state tagliate: e chi è stato destinato a vincere il premio per la corsa ai giochi olimpici, non mancherà di vincere anche se si fosse rotto una gamba: e un uomo per il quale i destini hanno decretato che sarà un arciere illustre, non mancherà il bersaglio, anche se perse la vista."

      Fra le odierne Piazza dell’Oro e la Chiesa di S.Giovanni dei Fiorentini, all’interno della grande ansa del Tevere che delimita il Campo Marzio, vi era dunque nei tempi antichi un avvallamento, che ancora oggi ritroviamo nel nome della Chiesa di S.Maria in Vallicella (meglio conosciuta come Chiesa Nuova). L’area era malsana, con pozze d’acqua sulfurea e sembra vi fosse anche una cavità dalla quale uscivano vapori, segni di una residua attività vulcanica che persisteva nella zona.

      La cavità era ritenuta infatti uno degli accessi agli inferi e pertanto proprio qui si officiavano i ludi Tarentini in onore di Dis e Proserpina: le fonti riportano infatti che questi si svolgevano in extremo Campo Martio, già dalla tarda età regia, probabilmente rappresentata su monete di Domiziano relative ai ludi Saeculares dell'88 d.c..

      ATROPUS
      A Dis e Proserpina vennero stati innalzati nella zona numerosi altari, uno dei quali fu ritrovato nel 1888 fra la Chiesa Nuova e Piazza Cesarini Sforza, ma diversi altri ne sono testimoniati, segno che la zona fosse effettivamente ritenuta l'ingresso dell'Ade. 

      Con il termine Tarentum si identifica quindi quest’area sacra, nella quale alcune fonti riportano esistesse un santuario sotterraneo, anche se la cosa desta perplessità in quanto nella zona sembra non esistano strati rocciosi e, data la vicinanza al Tevere, un ambiente sotterraneo sarebbe stato allagato dalle frequenti esondazioni del fiume.

      Tuttavia questo non sarebbe stato un problema per un'ara di pietra, anzi più suggestiva se ricoperta di fango, visto che si diceva venisse ricoperta di terra. Forse non erano gli uomini a farlo ma le piene del Tevere.

      I Giochi Tarentini, detti poi Giochi Secolari, del 249 a.c. furono infatti dedicati agli inferi divinità Dis Pater e Proserpina, il cui altare sotterraneo era nel Tarentum. Il seme sotto terra, che riposa per risorgere verdeggiante in primavera, riporta sempre agli Dei inferi.

      L'Ara Ditis Patris et Proserpinae, situata nel Tarentum, in "Campo Martio extremo", nell'attuale Piazza Pasquale Paoli, di fronte a Ponte Vittorio Emanuele II, sarebbe stata dedicata da Valesius, sabino di Eretum (città sabina del Latium vetus), oppure dal console  Publius Valerius Publicola (560 circa – 503 a.c.) all'inizio della Repubblica. 

      LACHESIS
      Nel 17 a.c. i Giochi vennero rieditati dal primo imperatore di Roma, Augusto (63 a.c. - 14 d.c.). La data fu suggerita dall'oracolo dei Libri Sibillini, che imponeva che i Giochi venissero celebrati ogni 110 anni, e da una nuova ricostruzione della storia repubblicana dei Giochi che ne colloca la prima celebrazione nel 456 a.c.. 

      Prima dei Giochi, gli araldi andarono in giro per la città ad invitare il popolo ad "uno spettacolo a cui non avevano mai assistito e mai avrebbero rivisto in futuro". 

      I quindecimviri si riunirono sul Campidoglio e nel tempio di Apollo Palatino, e distribuirono gratuitamente ai cittadini torce, zolfo ed asfalto, da bruciare come mezzo di purificazione (già usati nei Parilia, le feste per l'anniversario della fondazione di Roma). 

      Vennero fatte anche offerte di grano, orzo e fagioli e il Senato decretò un'iscrizione dei Giochi posta nel Tarentum per i posteri. 

      I sacrifici notturni non venivano fatti alle divinità infere Dite e Proserpina, ma alle Parche, o Moire, o Fatae, ad Iliziae (la dea o le dee del parto) e a Tellus (la Madre Terra). 

      Queste erano "divinità più benefiche, che ciononostante condividevano con Dite e Proserpina la duplice caratteristica di essere greche nella classificazione linguistica e senza culto nello stato romano". 

      CLOTO
      Questi sacrifici notturni alle divinità greche del Campo Marzio si avvicendavano con i sacrifici diurni alle divinità romane sui colli Campidoglio e Palatino.

      Le MOERAE, o Moire, sono le tre sorelle che decidono del destino umano: Clotho, Lachesis e Atropus. 

      Cantano all'unisono con la musica delle SIRENE, da quanto ci è stato tramandato. Questa vicinanza col canto delle sirene fa pensare alle illusioni della vita con cui gli uomini ingannano se stessi, rincorrendo a volte sogni inattuabili che determinano la loro insanabile infelicità.

      Lachesi canta delle cose che erano, Clotho di quelle che sono e Atropus delle cose che saranno. 

      Sono le più onorate tra gli Dei perché si distribuiscono giustamente e hanno un culto in ogni casa. 

      Danno alla loro nascita la loro parte del male e del bene e puniscono le trasgressioni sia degli uomini che degli Dei. 

      Si dice che Atropus sia la maggiore, la migliore e la più breve delle sorelle (la nascita); Clotho è la filatrice (la vita) e Lachesis è la distributrice di molti (la morte). 

      PLUTONE
      Per alcuni Tyche (Fortune) era una delle MOERAE e la più potente delle sorelle perché bellezza, virtù e buona fama sono in suo possesso, e anche perché trova piacere nel lanciare speranze anche assurde.

      In fondo il culto greco era quello di origine dei coloni greci che avevano fondato la Magna Grecia, e costituivano uno dei maggiori culti dei progenitori romani, quindi rappresentavano il passato nella notte dei tempi e quindi si eseguivano di notte, mentre quello romano era il presente e si eseguiva di giorno.

      «La totalità della sostanza terrestre considerata nella pienezza delle sue funzioni fu invece affidata a Dis Pater che è lo stesso che dire Dives (il ricco), il Ploutos dei Greci; denominazione giustificata dal fatto che ogni cosa ritorna alla terra e da essa trae origine. 
      A Dis Pater si ricollega Proserpina (il nome è di origine greca, trattandosi di quella dea che i Greci chiamano Persefone) che simboleggerebbe il seme del frumento e che la madre avrebbe cercata dopo la sua scomparsa...»
      (Marco Tullio Cicerone, De natura deorum II, 66)

      Ridurre un mito così misterico e profondo alla semina e alla crescita del seme appare piuttosto riduttivo, e Cicerone, abilissimo oratore, sulle cose dell'anima un poco lo era.

      I romani, in effetti, pur temendo fortemente i morti che non dovevano invadere il mondo dei vivi, ritenevano di dover onorare e i morti e gli Dei dell'Oltretomba, che in definitiva ritenevano positivi, un po' come i Manes, anche perchè essere romani significava essere cari agli Dei che amavano e proteggevano Roma. 



      IL CALENDARIO DELLE FESTE

      31 maggio - di notte - in Campo Marzio - alle Parche - con offerta di 9 agnelli femmine e 9 capre femmine.
      1 giugno - di giorno - in Campidoglio - a Giove - 2 tori.
      1 giugno - di notte - in Campo Marzio - alle Ilizie - 27 liba (9 pezzi per ognuno dei 3 tipi) le Ilizie (nel plurale utilizzato da Omero) erano le Dee che provocavano i dolori del parto. (il Libum era una tipica focaccia romana, realizzata impastando del formaggio di pecora con della farina ed un uovo. Una volta formato il pane, esso veniva cotto posizionato su delle foglie di alloro. La ricetta ci viene fornita da Catone nel "De agri cultura")
      2 giugno - di giorno - in Campo Marzio - a Tellus - 2 giovenche
      2 giugno - di notte - in Campo Marzio - a Tellus - una scrofa gravida
      3 giugno - di giorno - sul Palatino - ad Apollo e a Diana - 27 liba (9 pezzi per ognuno dei 3 tipi)



      AUGUSTO

      I ruoli chiave vennero svolti da Augusto e dal suo genero Marco Vipsanio Agrippa (63 a.c. - 12 a.c.), in qualità di membri dei quindecimviri; Augusto partecipava da solo ai sacrifici notturni ma era accompagnato dal genero in quelli diurni. 

      PROSERPINA
      Dopo i sacrifici del 3 giugno, i cori di ventisette ragazzi e ventisette ragazze cantavano il Carmen Saeculare, composto per l'occasione dal poeta Quinto Orazio Flacco (65 a.c. - 8 a.c.). 

      «O Sole fonte di vita, che con il carro splendente mostri e nascondi il giorno, e che sempre vecchio e nuovo risorgi, che tu non possa mai vedere nulla di più grande della città di Roma
      (Carmen Saeculare)

      Questo inno veniva cantato sia sul Palatino che poi sul Campidoglio, ma le sue parole si concentravano sulle divinità palatine Apollo e Diana, che erano accomunate più strettamente con Augusto. 

      L'inno aggiunge un ulteriore livello di complessità all'alternanza dei sacrifici tra divinità greche e romane, rivolgendosi alle divinità greche mediante nomi latini.

      Ogni sacrificio era seguito da spettacoli teatrali. Una volta che i sacrifici di maggior rilievo erano terminati, i giorni tra il 5 e l'11 giugno erano dedicati alle commedie greche e latine, mentre il 12 giugno si svolgevano le corse dei carri e l'esposizione dei trofei di caccia.

      Sotto Augusto, i Giochi (ludi) sono stati dedicati ad altre sette divinità, invocate come Moerae (Moire), Iuppiter (Giove), Ilithyia (Ilizia), Giunone, Terra Mater (Mater Matuta), Apollo e Diana.

      Durante i Giochi secolari tenuti da Augusto nel 17 a.c., la Terra Mater fu tra le divinità onorate nel Tarentum del Campo Marzio, con cerimonie condotte secondo il  "rito greco" ( Ritus Graecus ), (la distinzione dalla Tellus romana il cui tempio era all'interno del pomerio) e ci fu l'olocausto di una scrofa incinta.  

      I Giochi continuarono ad essere celebrati sotto i successivi imperatori, ma vennero usati due diversi sistemi di calcolo per determinarne le date. Claudio (10 a.c. - 54 d.c.) li tenne nell'anno 47, per celebrare l'ottocentesimo anno dalla fondazione di Roma. Secondo Svetonio (70 - 122), l'annuncio degli araldi di un spettacolo "che nessuno mai aveva visto prima o mai avrebbe visto in futuro" rallegrò gli uditori, alcuni dei quali avevano però già presenziato ai Giochi tenutisi sotto Augusto.

      RETRO ASSE DI DOMIZIANO

      DOMIZIANO

      Sotto gli imperatori successivi, i Giochi vennero celebrati sia col sistema di Augusto che col sistema di Claudio. Domiziano (51 - 96) tenne i suoi nell'anno 88, presumibilmente 110 anni dopo una celebrazione augustea prevista nel 22 a.c., e ad esso seguirono quelli di Settimio Severo (146 - 211) nel 204, 220 anni dopo l'effettiva celebrazione Augustea. In entrambe le occasioni la procedura del 17 a.c. fu seguita fedelmente e un'iscrizione dei Giochi fu realizzata come quella di Augusto.

      IMP CAESAR DOMIT AUG GERM P M TR P VIII IMP XVIII (?), testa laureata a destra. Sul retro: Domiziano in piedi a sinistra, tiene in mano una patera e sacrifica sopra un altare; a sinistra un suonatore di arpa ed uno di flauto, di fronte all'imperatore, un tempio sullo sfondo; SC (Senatus consultum) in esergo.



      ANTONINO PIO

      Antonino Pio (86 - 161) nel 148 e Filippo l'Arabo (204 - 249) nel 248 seguirono Claudio nel celebrare gli anniversari dei 100 anni dalla fondazione di Roma. Ciò comportò dei rituali svolti al Tempio di Venere e Roma invece che al Tarentum, e la data fu probabilmente cambiata al 21 aprile, i Parilia.



      COSTANTINO

      Nel 314, 110 anni dopo i Giochi di Settimio Severo, Costantino divenne imperatore, e non si tennero più i Ludi Saeculares, sconsigliato dai cristiani in quanto pagano. Lo storico pagano Zosimo (fl. 498-518), che scrisse il resoconto esistente più particolareggiato dei Giochi, diede la colpa della decadenza dell'Impero romano all'abbandono di questo rituale tradizionale. Comunque sia con Costantino morì uno dei riti più belli, misteriosi e suggestivi della Roma antica.


      THAMUSIDA (Marocco)

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      THAMUSIDA (by Jean-Claude-Golvin)
      Thamusida fu un'antica città romana della provincia della Mauretania Tingitana, sorta intorno ad un castrum romano a sua volta sorto su un antico villaggio berbero del Regno di Mauretania, nel Nordafrica, sorto nel II secolo a.c. accanto a un guado sul fiume navigabile di Sebou.

      Il regno di Mauretania si estendeva ad ovest del regno di Numidia, che si estendeva in corrispondenza dell'attuale Marocco e dell'Algeria occidentale, tra il IV secolo a.c. e il I secolo. I suoi resti archeologici si trovano presso la località di Sidi Ali ben Ahmed, a circa 10 km dall'attuale città di Kenitra in Marocco, in un sito archeologico di 15 ettari di estensione.

      L'insediamento romano copriva circa 15 ettari di un pianoro a 12 m slm sulla riva sinistra del fiume Sububus (oggi Sebou), tra le antiche città di Sala Colonia (oggi Chella), a sud, e di Iulia Valentia Banasa, a nord, sul percorso di una via tra Tingis (Tangeri) e Sala Colonia. 

      PIANTA DEL SITO ARCHEOLOGICO

      LA STORIA

      Il re Bocco I svolse un importante ruolo durante la guerra giugurtina, che vedeva il re Giugurta di Numidia nemico di Roma: fu lui infatti a consegnare Giugurta ai Romani nel 105 a.c., e da allora fu alleato di Roma. 

      Gli successe il figlio, Soso, o Mastanesoso, e in seguito il regno fu suddiviso tra i suoi due figli, la metà orientale retta da Bocco II e la metà occidentale, retta da Bogud. 

      BOCCO I
      Durante la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio, Bogud venne cacciato da una rivolta a Tingis (Tangeri) e il suo regno fu incorporato da Bocco II. 

      Alla sua morte, nel 33 a.c. Bocco II lasciò il regno in eredità al popolo romano e Ottaviano vi fondò una serie di colonie di veterani.

      Nel 25 a.c. il regno venne assegnato a Giuba II, della famiglia reale numida e restò indipendente fino al 40 d.c., quando Caligola fece assassinare l'ultimo re, Tolomeo, figlio di Giuba II. 

      Dopo aver debellato una rivolta di tribù dell'interno, l'imperatore Claudio istituì due province nel territorio dell'antico regno: la Mauretania Tingitana e la Mauretania Cesariense.

      Nell'avanzata romana del 40 d.c. la resistenza locale provocò la distruzione del villaggio berbero. Poco dopo, in epoca flavia (II metà del I secolo d.c.) sul pianoro venne costruito un castrum per una vessillazione dell'esercito, intorno a cui si sviluppò una piccola città, con templi, case e taberne.

      Nella seconda metà del II secolo il castrum venne ampliato e la città venne cinta da mura. Il campo fu abbandonato alla fine del III secolo, ma la città continuò ad essere abitata finchè venne abbandonata con la conquista araba, nel VII-VIII secolo. 

      A Thamusida si conservano solamente i crolli dei paramenti in pietra delle mura delle caserme, di alcuni tratti delle mura urbane e del Temple carré. Erano forse in pietra anche i principia del campo militare e le terme ma la maggior parte degli edifici era realizzata con basamenti in pietra ed elevati in terra.

      I materiali della città furono riadoperati nel XVII secolo per la costruzione alla foce del fiume della rocca di Mehdya da parte degli spagnoli e le rovine furono definitivamente distrutte da un terremoto nel secolo seguente.

      I resti furono identificati con la città citata dalle fonti antiche nel 1874 dal diplomatico e archeologo Charles-Joseph Tissot. I primi scavi furono condotti da studiosi francesi negli anni 1932-1935, 1952-1955 e 1959-1962.

      Il primo progetto italiano in Marocco è iniziato nel 1999 a Thamusida (Sidi Ali ben Ahmed, Kenitra). Alcune missioni francesi avevano scavato le più antiche stratificazioni del villaggio mauro e i principali monumenti romani. Le ricerche italo-marocchine ebbero lo scopo di ricostruire la storia del sito dai primi insediamenti umani, dai Fenici ai Punici, agli Iberici, all'Impero Romano, e agli Arabi.



      LA PROVINCIA ROMANA

      Nel 40 d.c. Roma creò la provincia della Mauretania Tingitana nel territorio del Marocco settentrionale; l'antico villaggio fu distrutto nel corso delle operazioni militari per il controllo della regione. Nella seconda metà del I secolo fu istallato un campo militare per le truppe, intorno al quale nacque un nuovo centro. 

      La piccola città fu organizzata secondo i bisogni degli abitanti: case e baracche, terme e templi, taverne e botteghe, officine per la fabbricazione delle armi, granai, fabbriche per la produzione di salse di pesce, forni per produrre anfore, mattoni e ceramiche. 

      Nella seconda metà del II secolo la città fu circondata da mura per proteggerla contro le tribù berbere del Gharb. Alla fine del III secolo l'esercito romano si ritirò ma la città continuò a essere abitata. Gli immigrati arabi, arrivati con la conquista del VII-VIII secolo scelsero di abitare sulla collina vicino alla città, utilizzando la collina del marabut per allestire un granaio collettivo. 

      Per la costruzione della casbah di Mehdya, portoghesi e spagnoli utilizzarono purtroppo le pietre del vecchio centro costruito dai Romani, che fu definitivamente distrutto da un terremoto alla metà del XVIII secolo.

      LE MURA E LE PORTE SUL FIUME SEBOU

      LE ABITAZIONI

      A Thamusida pochi edifici erano interamente in pietra, mentre la terra era un materiale di facile reperimento nella pianura alluvionale dove abbondano argille, marne e terreni limosi. La maggior parte degli edifici era realizzata con basamenti in pietra ed elevati in terra. Come abitazioni se ne trovano tre diversi tipi:

      - Quella della domus urbana, con pianta simile a quelle rinvenute a Volubilis:
      La Domus au Dallage si trova nel quartiere orientale ed è addossata alla cinta muraria. Sul fronte si apre un vestibolo che da accesso a cinque ambienti: solo quello centrale è il vestibolo dell'abitazione mentre le altre porte appartengono a botteghe. 
      L'accesso conduce a un peristilio porticato con colonne di laterizi e una fontana collocata nella metà orientale del cortile. Attorno al peristilio si aprono varie stanze, con gli alloggi e gli ambienti di servizio; sul fondo della casa, in asse con l'ambiente di accesso, si trova un tablinum. Accanto a questo, su entrambi i lati si articolano  gli appartamenti dei proprietari.

      - Le abitazioni a corridoio centrale:
      L'insula aux Tambours, caratterizzata da un corridoio centrale in genere pavimentato con piccole pietre, frammenti di cocciopesto o in opus spicatum con piccoli laterizi disposti a taglio. Su ciascun lato del corridoio si aprono normalmente tre stanze. 
      In alcuni casi, come nell'Insula aux Tambours, alcune di queste stanze presentano dimensioni maggiori, forse perché avevano una funzione di rappresentanza; dal corridoio centrale si accede ad un secondo ambiente di disimpegno, più piccolo, su cui si aprono altre stanze: probabilmente gli alloggi privati.

      - Le capanne:
      Le case più semplici si trovano fuori dalle mura della città e ne costituiscono i sobborghi. Queste capanne hanno una o due stanze in tutto, con basamenti di pietra su cui si elevavano muri in terra; i pavimenti erano in terra battuta. Davanti ad alcune di queste c'era un'aia con pavimentazione a piccole pietre o cocci e di fronte alla casa dei piccoli ambienti, forse relativi alle attività di vita quotidiana degli abitanti (mangiatoie, magazzini e laboratori).

      I TEMPLI

      I TEMPLI

      Gli scavi condotti a Thamusida nel secolo scorso hanno portato alla luce i resti di quattro strutture templari.

      L'aedes principiorum
      Un sacello che dominava il lato occidentale dei principia del Campo Militare, custodendo le insegne della guarnigione. Esso sorgeva su di un podio di circa 7 per 10 metri, alto 1,20, cui si accedeva attraverso una scalinata, inquadrata da due basi che sorgevano con ogni probabilità due statue equestri. 
      L'edicola era decorata da un fronte pseudotetrastilo con due semicolonne che inquadravano l'ingresso e due lesene a decorare gli spigoli Nord-Est e Sud-Est. Essa risale all'età flavia e fu rimaneggiata durante il regno di Marco Aurelio.

      Il ‘Tempio quadrato’
      Di tipo punico, mal conservato e posto presso il quartiere Sud-Est della città. Di pianta pressoché quadrata, sorse probabilmente su un santuario precedente, di età punica originariamente collocato all'esterno della città. Sembra vi fosse venerata la Venus Caelestis, erede della Tanit punica, accanto al suo paredro Saturno, erede di Baal Hammon. 
      La cella, poggiata su un basso podio circondato da un porticato, era dotata di due basi che sostenevano le statue di culto e di un piccolo altare. Tra quest'ultimo e la struttura principale vi era una gradinata di accesso e, ai piedi di questa, una coppia di colonne ornamentali in stile punico.

      Il ‘Rivestimento a bugnato
      L'identificazione come santuario non è certa, si tratta di alcune strutture di età flavia, rinvenute al di sotto della cd. "Insula Bassa" a Ovest delle Terme. Tuttavia la planimetria tripartita e l'utilizzo del bugnato per i conci del fronte del podio lo hanno fatto presupporre un Capitolium.

      Il Tempio a tre celle
      Questo tempio, anch'esso situato lungo il fiume ma ad Est delle Terme, è un tipico santuario africano-romano, dotato di tre celle prospicienti un'ampia corte porticata. Esso viene tradizionalmente datato alla metà del II secolo d.c., molto dopo del "Tempio a bugnato". In realtà anch'esso ha una fase precedente, forse di fine I secolo d.c., a cella unica.




      LE TERME

      Le Thermes du Fleuve, ("Terme del fiume"),  così chiamate per la loro posizione nei pressi del fiume Sebou, ebbero numerose fasi costruttive (età flavia, età severiana, I metà del III secolo e II metà del III secolo), fino a raggiungere un'estensione di circa 3.000 mq, il più grande impianto termale della provincia. Consistendo in due complessi giustapposti, si suppone fossero adibiti ai due sessi divisi.

      Le terme sono anche fortemente indagate da dalla missione francese tra il 1932 e il 1953, portando alla luce quasi l'intero edificio. L'impianto termale avrebbe attraversato otto fasi costruttive dall'età giulio-claudia fino all'abbandono della città nel 280 d.c. circa. 

      Con la documentazione nel 2002, la prima fase di costruzione sarebbe databile all'età flavia; le altre importanti fasi di sviluppo del complesso termale sono attribuibili alla fine del II - inizi del III secolo, alla prima metà del III secolo e infine alla seconda metà del III secolo.



      LE FORNACI

      Gli scavi delle missioni francesi condotti a Thamusida negli anni '50 individuarono alcune fornaci nella zona nord-ovest del sito, con cinque forni, tre dei quali oggetto delle recenti campagne di scavo. Le fornaci furono attive tra la fine del I secolo a.c. e la prima metà del I secolo d.c., riutilizzate poi come calcare in seguito all'arrivo dei Romani, nonchè per la produzione di anfore di tipo romano per il trasporto di spezie e salse come il garum.

      Si tratta di forni scavati nel terreno e di dimensioni notevoli (le due più grandi, i forni A e C, hanno un diametro di circa cinque metri e dovevano raggiungere un'altezza complessiva di circa sette metri) costruite in argilla e mattoni crudi. In nessuno dei forni scavati è stato rinvenuto il piano di cottura che doveva essere sorretto, probabilmente, da un pilastro centrale.

      Probabilmente questa mancanza è dovuta al fatto che le fornaci furono oggetto di riutilizzi successivi durante i quali vennero impiegate spesso come discariche, mentre il forno B fu impiegato come calcara.



      I GRANAI

      Il granaio civile

      La città era dotata di un imponente granaio di ben 980 mq, locato a est nel quartiere del fiume, in una depressione naturale al centro di due alture. L'indagine archeologica, avviata a partire dal 1999 e conclusasi nel 2002, ha chiarito la funzione del cosiddetto ‘bâtiment rectangulaire’ come grande horreum, vale a dire magazzino. 

      Questo fu realizzato nella seconda metà del II sec. d.c. per immagazzinare il grano del Gharb da destinare al consumo romano. L'edificio ha una pianta leggermente trapezoidale di metri 40,90 (il lato ovest è di 39,30) per 23,15 metri, orientato in senso nord-sud con una sola entrata sul lato corto nord verso il fiume Sebou. 

      L'interno era diviso in tre lunghe navate separate da pilastri quadrangolari con arcate, dove le due navate laterali insieme al settore sud del corridoio erano destinate ad accogliere il grano addossato alle pareti perimetrali secondo il sistema a mucchi sciolti ancora in uso. 

      Il piano pavimentale dell'intero granaio era costituito da un tavolato di legno di quercia che poggiava sulle fondamenta dei muri perimetrali e sulle fondazioni interne. Come si sa la quercia resiste molto bene alle tarme, ma a parte questo l'ingegno romano aveva usato altre precauzioni.

      Sotto l'assito in legno, l'intercapedine risultante, oltre ad isolare l'umidità, allontanava l'azione dei punteruoli o di altri animali nocivi. Uno strato di intonaco isolante sulle fondazioni e sulle pareti interne impediva inoltre agli insetti di annidarsi negli interstizi e nelle fessure. 

      Insomma l'accuratezza nell'allestimento interno rendono l'intero edificio ben adeguato alla conservazione del frumento e poteva stivare fino a circa 1.000 tonnellate di grano. Il granaio di Thamusida con gli horrea di Cuicul (Djemila, in Algeria), erano i soli horrea provinciali di tipo civile aventi pavimenti rialzati.

      Il granaio militare

      All'interno dei castra vi era poi un edificio di forma rettangolare di 10 per 45 metri, vale a dire il granaio destinato all'approvvigionamento delle truppe di stanza a Thamusida. Collocato nella porzione nord-ovest delle caserme si trovava nella retentura, un'area generalmente destinata ad ospitare l'infermeria, le officine, le rimesse e i magazzini. 

      Il granaio, orientato a nord, presentava un ingresso a sud in corrispondenza della porta ovest dell'accampamento e muri spessi 70 centimetri privi di contrafforti esterni con aperture verticali per mantenere una continua aerazione sotto il piano pavimentale e, nello stesso tempo, ostacolare l'entrata di animali e insetti nocivi al grano. 

      Piccole aperture di forma quadrangolare accoglievano le mensole poste a sostegno dell'assito in legno, al di sotto uno strato di cocciopesto, senza alcuna funzione pavimentale. Anche la ripavimentazione del granaio, avvenuta nella prima metà del II secolo d.c., ridusse di circa 40 centimetri l'intercapedine isolante dimezzando l'altezza degli areatori. I calcoli di capacità e il sistema di immagazzinamento (a mucchi sciolti) ipotizzati farebbero pensare ad una portata di circa 360 tonnellate di grano stivato.



      IL CASTRUM


      Il castrum sorse intorno alla metà del I secolo d.c. sul pendio della collina sopra il pianoro e fu rimaneggiato all'epoca di Marco Aurelio (165,85 m x 138.78 m): il campo militare più grande della Mauretania. 

      Era circondato da un muro con 14 torri interne a pianta quadrata e con quattro porte, fiancheggiate ciascuna da due torri quadrate sporgenti all'esterno. Gli edifici sono allineati su due strade che si incrociano ad angolo retto e al centro si trovavano i principia (quartier generale), consistente in un cortile porticato con ambienti su tre lati.

      L'ambiente al centro del lato ovest, con un podio (alto 1.2 m e di 10 m x 7 m) accessibile da una serie di gradini, doveva essere il sacrario delle insegne e doveva apparire come un'edicola con due semicolonne e due lesene. Il sacrario fu costruito in epoca flavia e rimaneggiato all'epoca di Marco Aurelio.

      Il lato nord dei principia fu trasformato in epoca Severiana, con la costruzione di un ambiente a pianta basilicale che occupò parte del cortile: era una basilica exercitatoria, per lo svolgimento delle esercitazioni militari al coperto per riparare dal caldo torrido o dalle piogge.

      Gli edifici per l'alloggiamento delle truppe erano una dozzina: con un passaggio centrale scoperto sul quale si aprivano le stanze da letto, precedute da una tettoia poggiata su pilastri. Nella parte ovest c'erano stalle e ambienti di servizio, tra cui un forno per la cottura del pane, e un granaio (10 m x 45 m) con pavimento in legno sopraelevato e intercapedine aerata per mezzo di aperture. Costruito in età flavia, la pavimentazione venne rifatta nella prima metà del II secolo, abbassando l'intercapedine.

      LE MURA DI THAMUSIDA

      LE MURA

      La città romana fu cinta da mura nel II secolo (epoca di Commodo 161-192), nello stesso periodo in cui anche altri centri della provincia costruirono cinte difensive, per la situazione poco tranquilla sulla frontiera dell'impero in quest'epoca. Le mura hanno una pianta a trapezio irregolare e sono dotate di torri semicircolari esterne. Sono orientate secondo i punti cardinali, con il lato nord lungo il fiume, mentre gli altri lati inglobano i castra di epoca Flavia e i quartieri della città. 

      La cortina, con torri che si sopraelevavano di un piano ulteriore, aveva uno spessore variabile tra 0,90 m e 1,05, alta circa 4,50-4,80 m, e i tratti lineari erano intervallati da torri semicircolari, distanti l'una dall'altra tra i 30 e i 40 m. Lungo il circuito si aprivano tre porte principali, sui fronti est, sud e ovest. La cortina raggiungeva un'altezza di circa 6-6,30 m. Un camminamento interno di legno si snodava lungo la cresta, testimoniato dall'inizio di una rampa in muratura.

      La porta est era la più monumentale con un ingresso articolato in due fornici, uno grande l'altro solo per i pedoni, sul fronte esterno, e un grande arco interno che chiudeva il cavaedium formato dagli avancorpi delle torri fiancheggianti la porta; sia pur con caratteristiche meno "monumentali" anche le porte ovest e sud rispecchiano la tipologia a cavaedium. 

      Sui tre lati sud, est ed ovest si aprono tre porte principali e ci sono due postierle, a est, all'angolo nord-ovest, a sud in corrispondenza di una strada e pure un accesso verso il porto, forse in corrispondenza del granaio.

      La porta est, la più monumentale, aveva due fornici, uno più grande per i carri e l'esercito e uno più piccolo per i pedoni. All'interno un grande arco chiudeva lo spazio tra le torri formando un cavedio (piccolo cortile interno per arieggiare e illuminare un fabbricato). Nel suburbio fuori dalle mura sorgevano abitazioni sparse e strutture produttive o commerciali. Nella zona est doveva sorgere la necropoli della città.

      L'accampamento non era lontano nè dal villaggio primitivo nè dal fiume, dislocato sul pendio della collina, una delle caserme più grandi di tutta la Mauretania, estesa per quasi due ettari e mezzo.
      Aveva una pianta rettangolare con mura alte circa 5 metri, dotate di 22 torri e 4 porte, con un sistema di vie che si incrociavano ad angolo retto. 

      Al centro si trovano i principia, il quartier generale dei castra, con il sacello delle insegne collocato sopra un podio, oltre alla cassaforte che conteneva il soldo per la truppa e forse l'armeria. Successivamente la parte nord venne trasformata in una basilica exercitatoria, per le esercitazioni militari al coperto. Ai lati si dovevano disporre le abitazioni degli ufficiali e forse le terme, di cui restano poche strutture.

      Davanti, nella zona chiamata praetentura, si trovavano una dozzina di baracche con i dormitori delle truppe, con un passaggio centrale su cui si aprivano le stanze da letto dietro una tettoia sorretta da pilastri. La parte a ovest, la retentura, mostra quattro edifici di forma allungata (stalle per i cavalli o alloggi per i graduati) oltre a un'area destinata all'infermeria, le officine, le rimesse e i magazzini, il granaio militare e un forno per la cottura del pane, delle focacce ecc. 



      LE RICERCHE

      Presso i dormitori sono stati rinvenuti: 
      - guarnizioni di foderi di pugnali, 
      - borchie, 
      - cinturoni, 
      - appliques che raffigurano militari, 
      - diplomi iscritti su coppie di tavolette di bronzo tenute insieme da fili: si tratta di copie, conformi a originali che erano affissi pubblicamente a Roma, dei decreti di concessione da parte dell'imperatore, al momento del congedo, della cittadinanza romana (civitas) e del diritto di contrarre matrimonio (conubium).

      Sono stati inoltre individuati alcuni dei tracciati viari principali, come le strade che uscivano dalle porte sud e ovest della città in direzione dei principali centri della provincia. Nella zona posta a est del sito è stata invece individuata la necropoli romana, mentre nell'area posta in prossimità del fiume si doveva trovare un quartiere artigianale con fornaci e impianti produttivi.

      A Thamusida sono stati studiati 67 mattoni e piastrelle trovati in diversi contesti archeologici durante gli scavi archeologici. 40 tra mattoni e piastrelle risalgono all'occupazione romana del sito (I-III secolo d.c.). I risultati hanno permesso di ricostruire due produzioni locali di uno o più tipi di materiali da costruzione. 

      Il rapporto tra produzioni locali e importazioni è cambiato nella seconda metà del II secolo d.c. La prima fase dell'insediamento ha utilizzato materiali da costruzione sia locali che importati, mentre le produzioni locali sembrano essere cessate e completamente sostituite nella fase tardiva.

      PONTE SUL RUBICONE (Emilia-Romagna)

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      PONTE SUL RUBICONE
      Il ponte sul Rubicone è un antico ponte in pietra d'Istria costruito in epoca romana lungo il fiume Rubicone ed è locato a Savignano sul Rubicone, in Emilia-Romagna, già antico centro romano di Compitum, sorto all'incrocio con la via Regina che da Sarsina (municipio romano di Sassina) portava a Ravenna (Municipio romano dell’89 a.c.) e la via Emilia, fatta costruire dal console Marco Emilio Lepido nel 187 a.c..
       
      Il ponte romano è costituito da tre grandi arcate di pietra, poggianti su due pilastri centrali. Il tutto è formato da grandi blocchi di pietra d'Istria, una pietra calcare e cristallina compatta e molto resistente che non esiste nella zona, e che proviene appunto dalla penisola istriana.

      Pertanto Augusto, che, nella sua riorganizzazione delle regioni romane (italiche), aveva inglobato in parte l'Istria nella Regio X Venetia et Histria onde proteggere i confini orientali dell'Italia romana dai barbari, dovette far importare la pietra di costruzione via di mare.


      VEDUTA DEL RUBICONE E DEL PONTE
      Il ponte romano di Savignano è il più noto monumento della città di cui è divenuto il suo simbolo, di coraggio e innovazione. La data esatta di costruzione è sconosciuta, da alcuni storici fu definito "consolare" , mentre secondo altri andrebbe collocato all'epoca di Augusto.

      Conoscendo l'adorazione di Augusto per Cesare, non è difficile pensare che avesse voluto onorare il ricordo del grande condottiero anche con un ponte sul luogo di "non ritorno" che una volta traversato fece di lui prima il nemico pubblico e poi il dittatore di roma.

      Si pensa dunque sia stato fatto erigere da Augusto intorno al I secolo d.c., sul fiume Rubicone traversato da Cesare e dalla sua Legio XIII Gemina nel 49 a.c.

      SULLE RIVE DEL RUBICONE

      GIULIO CESARE

      Svetonio racconta che Cesare vagò per una notte intera prima di recarsi sulle rive del Rubicone, perse l'orientamento e sbagliò la strada, per ritrovare la località dove era accampata la XIIIª legione. Sarà stato un caso o la consapevolezza della gravità della su decisione?

      Arrivato sulle rive di quel fiumiciattolo, all'alba del 12 gennaio del 49 a.c., rivolgendosi agli uomini più vicini a lui, cioè i suoi generali, disse:

      "Siamo ancora in tempo a tornarcene indietro, ma quando avremo superato quel ponticello tutto dovrà essere regolato con la spada".

      Ma coloro che erano intorno a Cesare erano votati a lui, e decisi a seguirlo nel suo e nel loro destino fino alla morte.

      Appiano riferisce un'altra frase di Cesare prima di varcare il fatidico fiume:

      "E' venuto il momento di rimanere per mia disgrazia al di qua del Rubicone, o di passarlo per la disgrazia del mondo."

      Ordinò a cinque coorti di marciare fino alla riva del fiume, ed il giorno successivo lo traversò, pronunciando la storica frase:

       "Alea iacta est", il dado è stato lanciato (o il dado è tratto).

      Come dire che non si poteva più tornare indietro.

      Secondo quanto narra un testimone oculare, Asinio Pollione, e riportato anche da Svetonio, sappiamo che Cesare non la pronunciò in latino («Alea iacta est») come dicono numerose fonti posteriori, ma in greco, che parlava correntemente, che sicuramente pochi soldati capivano, ma i suoi generali lo capivano benissimo.

      Anzi sembra che la frase intera fu:
      "Andiamo là, dove i prodigi del cielo e l'ira dei miei nemici mi chiamano: il dado è tratto".

      Tito Livio commenta il gran passo con le seguenti parole rimaste famose:
      "Alla testa di cinquemila uomini e trecento cavalli Cesare mosse contro l'universo".
      Effettivamente combattere Roma era mettersi contro il più grande potere al mondo in quell'epoca.



      DESCRIZIONE

      Il ponte è lungo complessivamente, da sponda a sponda, 24,20 m; gli archi hanno una larghezza massima interna di 6,50 m, mentre la loro altezza massima è di 8,25 m. Il ponte, complessivamente, è largo 7 m e alto 10 m. La carreggiata è solo una, che è divisa in due corsie.

      STAMPA DEL PONTE ORIGINALE

      DISTRUZIONE E RICOSTRUZIONE DEL PONTE

      Il ponte romano fu fatto saltare con l'impiego di cariche di esplosivo dall'esercito tedesco in ritirata nel settembre del 1944. I blocchi di pietra furono però successivamente quasi tutti recuperati, numerati e infine ricollocati al loro posto per la ricostruzione, che fu realizzata tra il 1963 e il 1965.

      Nella ricostruzione venne eliminata ogni sovrastruttura successiva all'epoca romana; perciò non furono ricostruiti né il rivestimento medievale di mattoni intorno ai pilastro centrali, né le due spalline laterali pure in mattoni (che erano invece romane anche se di epoca più tarda), sostituite da una semplice ringhiera in ferro. 

      Un ulteriore restauro, concluso nel 2005, ha portato al rifacimento del manto stradale, alla giusta eliminazione delle ringhiere in ferro e al ripristino delle spalline laterali in mattoni, come era in antico.

      FOTOGRAFIA DEL PONTE ORIGINALE PRIMA DELLA DISTRUZIONE E LA RICOSTRUZIONE

      NON PLUS ULTRA

      Il fiume Rubicone nel I secolo a.c. segnava il confine fra l’Italia e la Gallia Cisalpina. Quella Gallia tanto temuta dai Romani, quella stessa del sacco di Roma del 18 luglio del 387 a.c., avvenuto per opera dei Galli Senoni guidati da Brenno, uno degli episodi più traumatici della storia di Roma, che portò alla distruzione di opere d'arte, persone barbaramente trucidate, comprese donne, anziani e bambini, incendio di ville, templi e monumenti, riportata negli annali con il nome di Clades Gallica, ossia sconfitta gallica. 

      Ma il timore dei Romani verso i Galli aveva pur esso un nome: il Metus Gallicus, il Terrore Gallico. Giulio Cesare spense quella paura attraverso 9 anni di guerra. Ora nessun magistrato poteva varcare il Rubicone a capo di un esercito senza il consenso del Senato, e quel consenso Cesare, che aveva sottomesso tutta la Gallia raccogliendo un ricchissimo bottino, non lo ebbe mai, ma il suo gesto di attraversare il Rubicone cambiò per sempre la storia del mondo.

      "Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperatore"
      (Theodor Mommsen, Storia di Roma antica - Libro V .. XI)

      ARCO AUREUS ALEXANDRI

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      L'ARCUS AUREUS ALEXANDRI O ARCUS ARCADII, HONORII ET THEODOSII
      Arcus Arcadii Honorii et Theodosii, ovvero l'Arco di Arcadio, Onorio e Teodosio, ma detto pure arcus aureus Alexandri, era un arco trionfale realizzato interamente in marmo, eretto a Roma dal Senato in onore dei tre Imperatori Arcadio, Onorio e Teodosio II, nel corso del V secolo.



      ARCADIO

      Il monumento ricordava la vittoria contro i Goti di Alarico nel 402 da parte del generale romano Stilicone a Pollenza, oppure nel 405-406 d.c.. su Radagaiso in onore di tre imperatori e per commemorare le loro vittorie sui Goti (CIL VI.1196; HJ 598). 
      L'Arcus Aureus Alexandri viene spesso riferito con l'aggiunta di "ad Sanctum Celsium", che sta cioè nella chiesa di San Celso, dove l'arco doveva essere stato inglobato nel campanile.



      ARCADIO

      Arcadio (Spagna, 377 – Costantinopoli, 408) Alla morte di Teodosio I, l'Impero romano venne diviso in Impero Romano d'Oriente e Impero Romano d'Occidente. Arcadio ottenne il controllo dell'Impero d'Oriente (in quanto la parte più ricca delle due), mentre il secondogenito di Teodosio, Onorio, divenne imperatore d'Occidente.

      Arcadio fu dominato per il resto della sua vita da Antemio, suo prefetto del pretorio, che fece pace con Stilicone ad Occidente. Arcadio era più preoccupato di apparire come un pio cristiano che delle questioni politiche o militari, detenendo nominalmente il controllo dell'impero fino alla sua morte, avvenuta per malattia nel 408.



      ONORIO

      Flavio Onorio (Costantinopoli 384 – Ravenna 423) è stato un imperatore romano, il primo dell'impero romano d'Occidente, dalla morte del padre Teodosio I (395) alla propria. Già nel 393 ricevette il titolo di augusto. Durante il suo regno, il fratello maggiore, Arcadio, resse l'Impero d'Oriente.

      Onorio fu giudicato indifferente alle sorti del suo regno, in realtà era dotato di scarsa reattività e intelligenza, ma anche di presunzione ed invidia. 

      Fece uccidere l'unico difensore dell'impero, Stilicone. È noto soprattutto per il fallimento della trattativa con il generale Alarico, che tenne in assedio Roma, offrendosi però di diventare generale dell'Impero Romano d'Occidente; vistosi negato l'incarico dallo sciocco Onorio, Alarico saccheggiò Roma dal 24 agosto al 27 agosto 410.

      Percorso della processione imperiale di Onorio a San Pietro:
      l. Arco di Arcadio (377-408), Onorio (384 - 423) e Teodosio II (401-4509;
      2. Arco di Graziano, Valentiniano Il e Teodosio;
      3. Sepolcro di Adriano;
      4. Basilica di San Pietro
      (da Liverani 2007c).



      TEODOSIO I

      TEODOSIO
      Flavio Teodosio, conosciuto anche come Teodosio I il Grande (Coca in Spagna 347 – Milano 395), regnò dal 379 fino alla sua morte e fu l'ultimo imperatore a regnare su di un impero romano unito. 

      Nel 380 con l'editto di Tessalonica impose il Cristianesimo come religione unica e obbligatoria dell'Impero, rompendo quella tradizione di tolleranza per razze e religioni che avevano illuminato la Repubblica e l'Impero Romano. Chiuse anche i millenari Ludi Olimpionici perchè ritenuti pagani.

      Fece demolire o trasformare i templi in chiese cristiane, ponendo nel 392 la pena di morte per i sacrifici agli Dei pagani. Era il declino di una grande civiltà ma gli scrittori cristiani lo chiamarono per questo Teodosio il Grande e le Chiese orientali lo venerano come santo. 



      STILICONE CONTRO ALARICO

      Stilicone usò le legioni del Reno e della Britannia per la guerra contro Alarico, riuscì a liberare Milano dall'assedio di Alarico che venne sconfitto nella battaglia di Pollenzo, del 402. 

      Stilicone aveva catturato preziosi ostaggi goti, tra cui la moglie e i famigliari di Alarico che per riottenererli, fu costretto a negoziare ma non rispettò i patti, e in una nuova battaglia con Stilicone nei pressi di Verona, venne nuovamente sconfitto. Nella sua ritirata verso le Alpi, Alarico assistette alla diserzione di interi ranghi del suo esercito in favore di Stilicone.



      STILICONE CONTRO RADAGAISO

      Radagaiso fu invece un condottiero ostrogoto, capo di una vasta coalizione di tribù germaniche e celtiche che invase l'Italia tra il 405 e il 406, devastando Emilia e Toscana per poi essere sconfitto da Stilicone, al comando dell'esercito romano rafforzato da schiavi liberati e truppe ausiliarie, nella battaglia di Fiesole (23 agosto 406). 

      Radagaiso tentò la fuga portandosi dietro l'abbondante bottino, ma fu catturato e messo a morte insieme ai suoi figli presso Firenze.

      Inutile dire che l'Arco di trionfo, anzichè ai tre imperatori, avrebbe dovuto essere eretto al grande generale Stilicone, ma da Augusto in poi i generali vincenti facevano solo parte del carro dei vincitori, guidati ormai dagli stessi imperatori.

      L'imperatore Teodorico (454 - 526) nel 500 si fermò a san Pietro e solo successivamente entrò a Roma. Ciò significa che non passò per la via Lata, ma per il ponte Elio, l'arco di Graziano, Valentiniano e Teodosio, le Porticus Maximae, e infine per l'arco di Arcadio, Onorio e Teodosio II.

      STILICONE E GALLA PLACIDIA

      L'ARCO SUL PONTE DI NERONE

      L'arco era collocato all'estremo orientale del ponte di Nerone e molto vicino ad esso. Il ponte venne costruito infatti sotto l'imperatore Nerone nel I secolo, per migliorare i collegamenti con le sue proprietà sulla riva destra del fiume. Nelle Mirabilia (ch. 5) è chiamato Arcus Aureus Alexandri, ed erroneamente  locato vicino alla chiesa di S. Celso non lontano dalla chiesa di S. Urso (HCh 501).

      Il monumento fu interamente spogliato dei suoi marmi per edificare le nuove chiese e i nuovi palazzi, per quell'iconoclastia selvaggia che pervase il nuovo cristianesimo per tutti i secoli del Medio Evo ed oltre. Era collocato nel Campo Marzio all'inizio della via Trionfale, all'ingresso del Ponte Neroniano, o ponte Trionfale a Roma, che consentiva all'antica via Trionfale, asse della viabilità del Vaticano in epoca romana, di attraversare il fiume Tevere. 



      LA DISTRUZIONE

      Attestato ancora nel Medioevo come esistente, e indicato come Arcus Aureus Alexandri a causa dei suoi ricchi ornamenti, è stato distrutto successivamente all'inizio del XV secolo, quando era ancora conservata per intero la sua struttura in laterizio, priva però della decorazione originaria.

      CULTO DELLA DEA ANNONA

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      ANNONA
      Secondo alcuni la chiesa di Santa Maria in Cosmedin sarebbe stata edificata sopra la Statio Annonae (ove trovavano luogo gli uffici e i magazzini dell'Annona) e per questo ne conserva vari resti tra cui delle antiche colonne. Secondo altri invece la Statio sorgeva più a sud, e conteneva probabilmente delle reliquie di Ercole o era comunque utilizzata per il suo culto.

      Anche se la Statio Annonae stava oltre, come sembra, pare accertato che le colonne di Santa Maria in Cosmedin provengano dalla Statio Annonae, come i pavimenti in marmo, i mosaici, diverse delle sue pietre e dei suoi fregi.

      Annona era un'antica divinità italica dell'abbondanza e degli approvvigionamenti, da non confondere con la Dea Abbondanza, in quanto Annona (o Cura Annona) presiedeva al raccolto di un unico anno, insomma era una Dea annuale, per cui andava propiziata nella semina e nella germogliazione e dopo, se era il caso, si rendeva grazie per il buon raccolto. La Dea era peraltro addetta alla protezione dei mezzi di trasporto del cereale, alla sua manutenzione e alla sua equa distribuzione.

      I romani non pensavano, come i cristiani, di dover ringraziare gli Dei anche se il raccolto era scarso, in quanto pensavano che la divinità avrebbe potuto fare di più, per cui semmai la venerava prima, ma, a cose fatte, ringraziava solo se la divinità si era comportata come di dovere.

      COLONNE DELLA STATIO ANNONAE IN SANTA MARIA IN COSMEDIN
      Annona, in qualità di personificazione dei raccolti, veniva spesso rappresentata con Cerere, Dea delle messi sempiterne e raffigurata, come talvolta l'altra, con delle spighe in mano. In realtà Annona, che come pianta annuale doveva discendere dalla Dea Madre, da Dea delle campagne era divenuta per Roma una Dea esclusiva dell'Urbe e dei suoi abitanti. Genericamente veniva adorata insieme a Libera e Liberalitas, e a Copia e Abundantia, tutte Dee delle messi. Rappresentava e garantiva il raccolto annuo delle messi con riti propiziatori e di ringraziamento, equivalenti alla festa del raccolto. Il suo nome deriva da Annualis, derivativo di annus, che si verifica dunque ogni anno.

      I romani avevano il servizio statale "l'Annona," che misurava e valutava il raccolto per la giusta esazione delle imposte ma anche per garantire le scorte in caso di carestia. La Dea infatti era anche preposta alla partizione del raccolto per la semina successiva e come granaio di riserva per le carestie. La sacralità della partizione obbligava i contadini, prima ancora che divenisse legge, a provvedere a tali bisogni.

      Secondo alcuni storici moderni fu l'imperatore Settimio Severo ad istituire l'annona militaris per sopperire alle esigenze alimentari dell'esercito, una "tassa" corrisposta in natura. L'approvvigionamento alle truppe, stanziate lungo i confini imperiali, fu garantito da un sistema di raccolta di derrate alimentari, anche attraverso requisizioni forzose (dietro rimborso), detto annona militaris. In sostanza alla paga del legionario o dell'ausiliario venivano, poi, dedotti tutti i costi legati al suo mantenimento.

      L'ANTICO PAVIMENTO DELLA STATIO CON RELATIVO TEMPIO E
      PAVIMENTO IN PORFIDO E SERPENTINO
      Lo stipendium risultava, pertanto, composto da una paga in moneta ed una "in natura". All'inizio fu una misura eccezionale, poi divenne fissa, fino a che divenne un'imposta fondiaria in natura, che durante l'impero di Diocleziano fu sostituita da un tributo in denaro.

      Il problema della fornitura di grano per la città di Roma fu un tema scottante sia per la repubblica che per l'Impero romano. Roma giunse ad importare fino a 3,5 milioni di quintali di frumento, sia per sfamare i romani sia della capitale che delle legioni di stanza ai confini (annona militaris). Il grano veniva dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalle province asiatiche e africane, ma soprattutto dall'Egitto, che da solo forniva la metà del fabbisogno.

      Per questo Augusto vietò ai senatori il governo della provincia, riservata a un suo legato di rango equestre, il prefetto d'Egitto. A suo tempo Costantino, per piegare il patriarca di Alessandria, Atanasio, il paladino del credo di Nicea, lo accusò, falsamente, di avere sollevato il popolo alessandrino per impedire il carico delle navi frumentarie attese a Costantinopoli, ormai capitale dell'Impero romano, in attesa che il cibo giungesse, gratuitamente, dal mare.

      C'era tuttavia anche il grano raccolto come imposta in natura da determinate province, da tenere in considerazione; parte di questo grano veniva distribuito ai funzionari ed ai soldati e parte di esso veniva venduta a prezzo di mercato anche se, per effetto delle leggi proposte da Gaio Sempronio Gracco (123 a.c.), una parte finì per essere venduta ad un prezzo agevolato ai cittadini.

      Le campagne contro i pirati di Pompeo e di Cesare erano state imposte dalla necessità di mantenere libero il rifornimento di grano dal mediterraneo orientale. Il tema delle Frumentationes divenne quello centrale della politica. Nel 58 a.c., Clodio compì delle distribuzioni gratuite; l'imperatore Augusto pensò di abolire queste distribuzioni gratuite (frumentationes) che dissanguavano lo stato, ma poi si limitò a diminuire il numero dei beneficiari e riservarle a 250.000 cittadini.

      MARCO AURELIO E SUL ROVESCIO LA DEA ANNONA

      IL CULTO DELLA DEA

      Se nelle campagne era affidato ai privati, a Roma faceva parte dei molti culti pubblici che venivano officiati una volta l'anno. Come Dea dei prodotti della terra doveva aver luogo il sacrificio di un maiale o di una scrofa, nonchè di alcune spighe di grano. 

      Le si dedicavano inoltre delle focacce di grano e parte di farro secondo l'antica usanza a cui veniva aggiunto del sale e dei rametti di rosmarino. poichè questa pianta era in genere dedicata ai morti, si ritiene che la Dea avesse anche a che fare con l'oltretomba, se non altro per la morte e rinascita del seme annuale del cereale.

      Non si conosce la data della festa a lei dedicata ma sicuramente riguardava l'estate quando si raccoglievano le messi e si riempivano i granai della Statio Annona per procedere alla distribuzione al popolo.

      NERONE - L'ANNONA AUGUSTA E CERERE

      LE DISTRUZIONI

      Papa Adriano I, volendo ampliare la chiesa verso est, nel 782 fece demolire la parete fondale dell'aula porticata, così da poter sfruttare il basamento in blocchi di tufo della retrostante Ara Massima di Ercole all'interno del quale scavò una cripta.

      Anticamente, però, l'Ara Massima di Ercole era un santuario molto venerato in quanto protettore dei commerci e quindi dei mercanti che pullulavano in quella zona per la navigabilità del Tevere che permetteva il trasporto delle merci dall'oltremare a Roma.

      Con l'insediamento della Statio Annona il tempio si mantenne, tanto è vero che già nel I secolo a.c., Vitruvio cita un tempio a pianta rettangolare posto all'ingresso del Circo Massimo e dedicato ad Ercole Invitto o Pompeiano. Probabilmente il tempio citato è proprio quello adiacente all'Annona, di cui peraltro si è rinvenuta l'ara esterna posta nelle fondamenta della chiesa.

      L'altare di granito rosso posto sul fondo dell'abside della Chiesa risalirebbe invece al 1123, ma stranamente ha l'esatta forma a vasca caratteristica delle fontane romane poste soprattutto nelle antiche terme, ma anche a decoro dei luoghi pubblici in genere. Tutto ne farebbe presupporre una provenienza di epoca imperiale.

      Proprio per l'importanza del luogo, l'annona e gli edifici vicini divennero sede fin dal VI sec. di una diaconia cristiana, che cancellò così ogni traccia dei templi pagani e degli edifici pubblici romani, di tanta arte e bellezza che gli edifici successivi non riuscirono ad eguagliare.

      LA MADONNA DELL'ABBONDANZA VESTITA D'ORO

      I RESIDUI

      In varie zone d'Italia si onora comunque una sua statua che la rievochi, come a Marzano di Nola nella festa patronale dedicata a Maria Santissima dell'Abbondanza si procede alla vestizione della Madre di Dio (anche se donna e non Dea) che si ammanta di una veste d'oro puro ottenuta dalle generose elargizioni dei fedeli nei tempi.

      OPERE DI POLIBIO

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      L'IMPORTANZA DELLA STORIA

      - 1)  - I cronisti precedenti avevano trascurato di parlare in lode della storia in generale, è meglio che io consigli a tutti di scegliere tale studio e di accogliere saggi come questo, dal momento che gli uomini sono più pronti a correggere una condotta che non a conoscere il passato.

      - Ma tutti gli storici, si può dire senza eccezione, e ne sono convinto,  rendendo questo l'inizio e la fine del loro lavoro, hanno impresso su di noi la formazione più solida per una vita di politica attiva è lo studio della storia, e la più sicura e in effetti l'unico metodo per imparare a sopportare con coraggio le vicende della fortuna, è quello di ricordare le calamità degli altri.

      - Evidentemente quindi nessuno, e meno che mai io stesso, potrebbe pensare che il suo dovere in questo giorno sia ripetere ciò che è stato così bene e così spesso detto. Per l'elemento di imprevedibilità negli eventi che ho scelto come mio tema sarà sufficiente per sfidare e incitare tutti, grandi e piccini, di esaminare la mia storia sistematica.

      - Chi è così inutile o indolente da non voler sapere con quali mezzi e in quali sistemi di comunità politica i romani, in meno di cinquanta-tre anni, siano riusciti a sottoporre quasi tutto il mondo abitato sotto il loro unico governo, cosa unica in storia? O chi c'è ancora di così appassionato ad altri spettacoli o studi da considerare nulla di più importante oggi che non l'acquisizione di queste conoscenze?


      - 2) - Quanto sorprendente e grande sia lo spettacolo presentato dal periodo che mi propongo di affrontare, sarà più evidente se si confronta il dominio romano con i più famosi imperi del passato, quelli che hanno costituito il tema principale degli storici. I domini degni di essere posti accanto al dominio romano sono questi:
      • I Persiani per un certo periodo possedevano una grande disciplina e il dominio, ma si avventuravano così spesso a oltrepassare i confini dell'Asia che misero in pericolo non solo la sicurezza di questo impero, ma la loro stessa esistenza. 
      • Gli Spartani, dopo aver per molti anni conteso l'egemonia della Grecia, alla fine l'ha conquistata, ma per tenerlo incontrastato per scarsi dodici anni. 
      • Il dominio macedone in Europa, esteso dalla regione adriatica fino al Danubio, sembra una parte del tutto insignificante del continente. Successivamente, rovesciando l'impero persiano sono diventati supremi anche in Asia. Ma anche se il loro impero era ormai considerato il più grande geograficamente e politicamente che fosse mai esistito, hanno lasciato la maggior parte del mondo abitato ancora al di fuori di esso. Non hanno mai fatto un solo tentativo per contendere il possesso della Sicilia, della Sardegna, o della Libia, e le nazioni più bellicose dell'Europa occidentale erano, a dire la pura verità, a loro sconosciute. 
      • Ma i romani hanno sottoposto alla loro regola non porzioni, ma quasi tutto il mondo in possesso di un impero che non è solo immensamente più grande di tutti quelli che l'hanno preceduta, ma non devono temere la rivalità in futuro. Nel corso di questo lavoro diventeranno più chiaramente comprensibili i passi attraverso cui questo potere è stato acquisito, e si vedranno quanti e quanto grandi vantaggi ne vengono allo studioso dal trattamento sistematico della storia.

        LA 140° OLIMPIADE

        - 3) - La data dalla quale mi propongo di iniziare la mia storia è quella della 140 ° Olimpiade (220-216 a.c.), e gli eventi sono i seguenti:
        • in Grecia la cosiddetta guerra sociale, la prima condotta contro gli Etoli dagli Achei in campionato con e sotto la guida di Filippo il Macedone, figlio di Demetrio e padre di Perseo, 
        • in Asia la guerra per Celesiria (Syria Coele - regione compresa tra le catene del Monte Libano e dell'Anti-Libano) tra Antioco e Tolomeo Filopatore,
        • in Italia, Libia, e le regioni limitrofe, la guerra tra Roma e Cartagine, comunemente noto come la guerra annibalica.
        - Questi eventi diventano subito relativi alla fine del lavoro di Arato di Sicione. In precedenza le azioni di tutto il mondo erano state, per così dire, disperse, perchè non sono state tenute insieme da nessuna unità di iniziativa, di risultati, o località; ma da quando questa storia è stata data a un tutto organico, e le cose d'Italia e la Libia sono state interconnessi con quelle della Grecia e dell'Asia, tutte portano ad un unico fine.

        - E questo è il mio motivo per iniziare la loro storia sistematica da tale data, perché fu a causa della sconfitta dei Cartaginesi nella guerra annibalica che i Romani ebbero la sensazione che il passo più importante per l'aggressione universale fosse ormai stato fatto, per cui furono dapprima incoraggiati a unire le loro mani per afferrare il resto e attraversare con un esercito la Grecia e il continente asiatico.

        - Ora come noi greci conosciamo bene i due stati che disputavano l'impero del mondo, non sarebbe forse stato necessario che io narri a tutti la loro storia precedente, o di raccontare quale scopo li ha guidati, e su quali fonti di forza hanno contato, per entrare su un vasto impegno del genere. 

        - Ma poiché né l'ex potenza né la precedente storia di Roma e Cartagine è familiare a molti di noi greci, ho pensato che fosse necessaria la prefazione di questo libro e del prossimo alla storia vera e propria, in modo che nessuno dopo essersi immerso nella narrazione corretta potrebbe trovarsi deluso, e chiedere consigli su ciò che il potere e le risorse dei Romani intrapresero in quella impresa che li ha resi signori sopra terra e mare in una parte del mondo, la nostra.

        Ma che da questi libri e dalla loro prefazione, può essere chiaro ai lettori che avevano motivi abbastanza adeguati per concepire l'ambizione di un impero mondiale e mezzi adeguati per raggiungere il loro scopo.


        - 4) -  In effetti è stato questo soprattutto che mi ha invitato e incoraggiato ad intraprendere il mio compito; e in secondo luogo il fatto che nessuno dei miei contemporanei si siano impegnati a scrivere la storia generale, nel qual caso avrei dovuto essere molto meno desideroso di prendere in mano questo argomento.

        - Così osservo che, mentre molti scrittori moderni si occupano di particolari guerre e di alcune questioni ad essi collegate, nessuno, per quanto ne so, ha anche tentato di indagare criticamente quando e da dove il regime generale abbia compiuto degli eventi originati e come li abbia portati fino alla fine.

        - Per cui ciò che dà al mio lavoro la sua peculiare qualità, e ciò che è più notevole nel presente è questo. La Dea Fortuna ha guidato quasi tutti gli affari del mondo in una direzione e li ha costretti a inclinarsi verso uno stesso fine; uno storico dovrebbe allo stesso modo portare davanti ai suoi lettori sotto una sinottica visualizzazione le operazioni con cui ha raggiunto il suo scopo generale. 

        - Ho quindi pensato che fosse necessario non lasciare inosservati o consentire di passare nel dimenticatoio questa che è la più bella e più benefica delle prestazioni della Dea Fortuna. Perchè se è lei a produrre qualcosa di nuovo e a giocare una parte nella vita degli uomini, non ha mai compiuto un simile lavoro, mai raggiunto un tale trionfo, come ai nostri giorni.
          
        - Non possiamo più sperare di percepire questo da storie che si occupano di particolari eventi di ottenere al tempo stesso un concetto di tutto il mondo, la sua disposizione e l'ordine, visitando, a turno, le più famose città, o addirittura guardando i piani separati di ciascuna: sarebbe un risultato affatto probabile.

        - Quello infatti che crede che studiando storie isolate può acquisire una buona visione della storia nel suo insieme, è, come uno, il quale, dopo aver guardato gli arti sezionati di un animale una volta vivo e bello, immagina di stato buono un testimone oculare della stessa creatura in tutta la sua azione e la sua grazia.

        - Per chiunque avesse potuto rimettere la creatura insieme sul posto, ripristinando la sua forma e la sua bellezza nella vita, e poi mostrarlo allo stesso uomo, penso che avrebbe immediatamente confessato che era in precedenza molto lontano dalla verità e più in un sogno.

        - Possiamo avere un'idea di un tutto da una parte, ma non la conoscenza o un'opinione precisa. Dieci storie speciali contribuiscono quindi molto poco alla conoscenza di tutto e la convinzione della sua verità. E' solo infatti con lo studio della interconnessioni di tutti i particolari, le loro somiglianze e differenze, che diventiamo abilitati, almeno a fare un sondaggio in generale, e, quindi, a derivare sia beneficio che piacere dalla storia.


        - 5) - Adotterò come il punto di partenza di questo libro la prima occasione in cui i romani hanno attraversato il mare in Italia. Questo segue immediatamente la chiusura della storia di Timeo e ha avuto luogo nel 129 ° Olimpiadi [264-261 a.c.].

        - Così dobbiamo prima stabilire come e quando i romani stabilirono la loro posizione in Italia, e che cosa li ha spinti in seguito ad attraversare in Sicilia, il primo paese fuori d'Italia in cui hanno messo piede.

        - La vera causa del loro passaggio deve essere dichiarato senza commento; perchè se dovessi cercare le cause della causa e così via, tutto il mio lavoro non avrebbe alcun punto di partenza e il principio chiaro. Il punto di partenza deve essere un periodo generalmente concordato e riconosciuto, con evidenza dagli eventi, anche se questo comporta il mio andare un po 'indietro al punto di data e dare una sintesi di eventi intermedi.

        - Perché se c'è qualche ignoranza o qualsiasi controversia su quali siano i fatti da cui si apre il lavoro, è impossibile che ciò che segue debba ricevere accettazione o credito; ma una volta che produciamo nei nostri lettori un accordo generale su questo punto, ci verrà prestato orecchio a tutte le successive narrative.


        - 6) - E' stato, quindi, il XIX anno dopo la battaglia di Egospotami e XVI prima di quello di Leuctra, l'anno in cui gli Spartani hanno ratificato la pace conosciuta come quella di Antalcida con il re di Persia, quella in cui anche Dionisio il Vecchio, dopo aver sconfitto i greci italioti nella battaglia presso il fiume Elleporos, dove era stata assediata Reggio, e quella in cui i Galli, dopo aver preso la stessa Roma d'assalto, hanno occupato tutta quella città, tranne il Campidoglio.



        LA RIMONTA DEI ROMANI

        - I Romani, dopo aver fatto una tregua con condizioni soddisfacenti per i Galli e di avere quindi, in contrasto con la loro aspettativa, riacquistato le loro case e, per così dire, avevano iniziato la strada dell' esaltazione, che continuò negli anni successivi portando la guerra ai loro vicini.

        - Dopo aver sottomesso tutti i Latini per il loro valore e la fortuna della guerra, hanno combattuto prima contro gli Etruschi, poi contro i Celti, e per ultimo contro i Sanniti, il cui territorio era confinante con quello dei Latini a est e a Nord.

        - Dopo qualche tempo il Tarantini, temendo le conseguenze della loro insolenza agli inviati romani, pregarono per l'intervento di Pirro. (Questo è stato nel corso dell'anno precedente la spedizione di quei Galli che avevano avuto un rovescio a Delfi e poi attraversato in Asia.).

        - I Romani avevano prima di questo sconfitti Etruschi e Sanniti e avevano vinto i Celti italioti in molte battaglie, e ora per la prima volta attaccarono il resto Italia non come se fosse un paese straniero, ma come se giustamente appartenesse loro.

        - La loro lotta con i Sanniti e i Celti li aveva resi veri maestri nell'arte della guerra, e dopo aver sostenuto con coraggio questa guerra contro Pirro e infine cacciato lui stesso e il suo esercito dall'Italia, hanno continuato a combattere per sottomettere coloro che si erano schierati con lui.

        - Quando, con straordinaria fortuna, avevano vinto tutti questi popoli e avevano fatto tutti gli abitanti di Italia loro soggetti eccetto i Celti, si sono impegnati nell'assedio di Reggio oggi governata da taluni dei loro compatrioti.


        - 7) - Per molto la stessa fortuna aveva colpito le due città sullo Stretto: Messina e Reggio. Alcuni Campani, che servivano sotto Agatoc, avevano gettato a lungo i loro occhi avidi sulla bellezza e la prosperità di Messina, e non molto tempo prima degli eventi di cui sto parlando, si avvalsero della prima occasione per conquistarla a tradimento.

        - Dopo essere stato ammessi come amici, occuparono la città, in primo luogo espulsero o massacrarono i cittadini, e poi presero possesso delle mogli e delle famiglie delle vittime espropriate, come una possibilità assegnata a ciascuno di loro al tempo dell'oltraggio. per ultimo essi si divisero tra di loro la terra e tutti gli altri beni.



        IL TRADIMENTO DI DECIO

        - Avendo conquistato in modo così rapido e semplice una bella città e del territorio, che non trovarono imitatori della loro prodezza. Per la gente di Reggio, quando Pirro attraversò l'Italia, temendo un attacco da lui e temendo anche i Cartaginesi che comandavano il mare, pregarono dai Romani un presidio e un supporto.

        - L'esercito che arrivò, quattromila in numero e sotto il comando di Decio, un campano, prese la città e la loro fede per un certo tempo, ma alla fine, ansioso di rivaleggiare con i Mamertini e con la loro collaborazione, giocò falsamente la gente di Reggio, e con entusiasmo desiderando una città così favorevolmente situata e contenente tanta ricchezza privata, espulse o massacrò i cittadini e possedette la città allo stesso modo come avevano fatto i Campani.

        - I romani si sono fortemente adirati, ma potevano fare nulla, al momento, in quanto occupati con le guerre che ho già menzionato. Ma quando hanno avuto mano libera per far tacere i colpevoli in città, procedettero all'assedio come ho detto sopra. Quando Reggio cadde, la maggior parte degli assediati furono uccisi durante l'assalto vero e proprio, essendosi difesi disperatamente, perché sapevano cosa li attendeva, ma più di trecento vennero catturati.



        LA PUNIZIONE DEL TRADIMENTO

        - Quando vennero inviati a Roma i Consoli li fecero tutti condurre per il foro e là, secondo l'uso romano, li fecero flagellare e decapitare; il loro scopo era di recuperare quanto più possibile da questa punizione la loro reputazione di buona fede con gli alleati. La città e il territorio di Reggio in una sola volta ripristinarono i cittadini.



        I MAMERTINI

        - 8) - I Mamertini (perchè questo era il nome adottato dai Campani dopo il sequestro di Messina) fintanto che gradirono l'alleanza dei Romani insieme con i Campani che avevano occupato Reggio, non solo rimasero in possesso sicuro della propria città e del territorio, ma causarono non pochi disagi ai Cartaginesi e Siracusani sui territori adiacenti, per la riscossione dei tributi da molte parti della Sicilia. 

        - Quando, tuttavia, vennero privati ​​di questo sostegno, i sequestratori di Reggio essendo ormai strettamente accerchiati, furono in una sola volta, a loro volta, spinti a rifugiarsi nella loro città dai Siracusani a causa delle seguenti cause:
        • Non molti anni prima che l'esercito siracusano fosse in lite con quelli della città, vennero posti nei pressi di Mergane  due magistrati scelti dal loro stesso corpo armato, Artemidoro e Ierone, che divenne successivamente re di Siracusa. Egli era ancora molto giovane, ma a causa della sua discendenza reale venne qualificato per essere un legislatore e uno statista del genere. 
        • Avendo il comando accettato, egli guadagnò l'ingresso alla città attraverso alcuni parenti, e dopo la sopraffazione della controparte, controllò l'amministrazione con tanta dolcezza e magnanimità che i Siracusani, anche se per nulla inclini ad approvare le elezioni in campo, in questa occasione all'unanimità lo accettarono come loro generale.
        • Dalle sue prime misure fu evidente in una sola volta per tutti quelli in grado di giudicare che la sua ambizione non si limitava al comando militare.
        GERONE IL TIRANNO DI SIRACUSA

        IERONE

        - 9) - Osservando che i Siracusani, ogni volta che inviano le loro forze in una spedizione accompagnati dai loro magistrati supremi, cominciavano a litigare tra di loro, e l'introduzione di cambiamenti continui, e sapendo che Leptines aveva una cerchia più ampia di persone a carico e che aveva goduto di più credito rispetto a qualsiasi altro cittadino, e che aveva un nome particolarmente elevato tra la gente comune, egli si alleò con lui per matrimonio, in modo che ogni volta che dovette scendere in campo lui si potesse lasciare alle spalle una sorta di forza di riserva. 

        - Si è sposato, poi, la figlia di questo Leptines, e scoprendo che i mercenari veterani erano scontenti e turbolenti, marciò in forze dichiaratamente contro gli stranieri che avevano occupato Messene. Incontrò il nemico vicino Centuripa e dette battaglia nei pressi del fiume Cyamosorus. Tenne indietro la cavalleria e la fanteria cittadine ad una certa distanza sotto il suo comando personale come se volesse attaccare su un altro lato, ma facendo avanzare i mercenari fece si che tutti venissero tagliati fuori dai Campani. 

        - Durante la loro disfatta si ritirò in tutta sicurezza a Siracusa con i cittadini. Avendo così efficientemente ottenuto il suo scopo e purgato l'esercito del suo elemento turbolento e sedizioso, si arruolò un considerevole numero di mercenari e d'ora in poi continuò a governare in sicurezza. 

        - Osservando ciò i Mamertini, grazie al loro successo, si comportavano in maniera audace e temerario, egli efficacemente armato e avendo addestrato i prelievi urbani e portatili fuori ad impegnare il ​​nemico nella pianura Mylaean vicino al fiume Longanus, inflisse loro una severa sconfitta, catturando i loro capi. Questo mise fine alla audacia del Mamertini, e al suo ritorno a Siracusa venne con una sola voce proclamato re da tutti gli alleati.


        - 10) - I Mamertini avevano in precedenza, come ho sopra narrato, perso il loro sostegno da Reggio e ora avevano sofferto un completo disastro a casa per le ragioni che ho appena indicate. Alcuni di loro fecero appello ai Cartaginesi, proponendo di mettere se stessi e la cittadella nelle loro mani, mentre altri inviarono un'ambasciata a Roma, offrendo di consegnare la città e pregarono per l'assistenza come popolo affine. 

        - I Romani erano molto in perdita, il soccorso richiesto era ovviamente ingiustificabile, perchè avevano appena inflitto sui loro concittadini la massima pena per il loro tradimento al popolo di Reggio, e ora cercare di aiutare i Mamertini, che si erano resi colpevoli di reato non solo a Messina, ma anche a Reggio, era un'ingiustizia molto difficile da scusare. 

        - Erano pienamente consapevoli di questo, ma visto che i Cartaginesi non solo avevano ridotto la Libia alla sottomissione, ma pure una grande parte della Spagna,  e che inoltre erano anche in possesso di tutte le isole della Sardegna e il Mar Tirreno, stettero in grande apprensione per paura che se essi fossero diventati anche padroni della Sicilia, sarebbero diventati vicini fastidiosi e pericolosi, li avrebbero attorniato in su tutti i lati e minacciando ogni parte d'Italia.



        I ROMANI PER MESSINA

        - Che avrebbero avuto presto supremazia in Sicilia, se i Mamertini non venissero aiutati, era evidente; per una volta Messina era caduta nelle loro mani, avrebbero potuto sottomettere anche Siracusa, come erano i signori assoluti di quasi tutto il resto della Sicilia. I romani, prevedendo questo e vedendo come necessità per se stessi non abbandonare Messina e permettere così ai Cartaginesi, per così dire, di costruire un ponte per la traversata dell'Italia, discussero la questione per lungo tempo.


        - 11) - Alla fine il Senato non sanzionò la proposta per il motivo di cui sopra, se si considera che l'obiezione sul punteggio di incoerenza è stato pari al peso del vantaggio che sarebbe derivato da un intervento. Logori tuttavia com'erano dalle recenti guerre, col bisogno di ogni e qualsiasi tipo di consigli, ascoltati prontamente i comandanti militari, che, oltre a dare le ragioni sopra esposte per la convenienza generale della guerra, indicavano il grande vantaggio in termini di bottino che ognuno avrebbe evidentemente derivato da esso, furono quindi a favore di inviare aiuto; e quando la misura venne approvata dal popolo, nominarono al comando uno dei Consoli, Appio Claudio, a cui venne ordinato di andare a Messina. 

        - I Mamertini, in parte per la minaccia e in parte con uno stratagemma, sloggiato il comandante cartaginese, che già si era stabilito nella cittadella, e poi invitato a entrare Appio, posero la città nelle sue mani.



        LA CROCEFISSIONE DEL GENERALE  CARTAGINESE

        - I Cartaginesi, crocifisso il loro generale, pensandolo colpevole di una mancanza sia di giudizio che di coraggio nell'abbandonare la loro cittadella, agirono di per se stessi,  ponendo di istanza la loro flotta nel quartiere di Capo Peloria, e con le loro forze di terra premettero strettamente Messina in direzione di Sunes. 

        - Ierone ora, pensando che le attuali circostanze erano favorevoli per l'espulsione dalla Sicilia di tutti gli stranieri che occupavano Messina, fatte alleanza con i Cartaginesi, e, abbandonata Siracusa con il suo esercito, marciarono verso quella città, ponendo il suo accampamento nei pressi del monte calcidese, sul lato opposto al Cartaginesi, tagliando così pure questa via di uscita dalla città.

        - Appio, console romano, allo stesso tempo, era riuscito con grande rischio ad attraversare lo stretto di notte ed entrare in città. Trovare che il nemico era aveva strettamente accerchiato Messina su tutti i lati e pensando come fosse inglorioso e pericoloso per se stesso di essere assediati,  in quanto essi comandavano sulla terra e sul mare, cercò in un primo momento di negoziare con entrambi, desiderosi di salvare i Mamertini dalla guerra. 


        - 12) - Ma poichè nessuno prestava attenzione a lui, decise per forza di rischiare il combattimento e in primo luogo attaccare i Siracusani. Portò fuori le sue forze ponendone in assetto di battaglia, il re di Siracusa prontamente accettò la sfida. Dopo una lotta prolungata Appio vinse e guidò tutta la forza ostile al loro campo. Dopo aver spogliato i morti tornò a Messina. 

        - Ierone, indovinando l'ultimo esito di tutto il conflitto, si ritirò in fretta dopo il tramonto a Siracusa. Il giorno seguente Appio, appreso il risultato di questa azione e incoraggiato in tal modo, decise di non ritardare, ma di attaccare i Cartaginesi. Ordinò alle sue truppe di essere presto pronti e uscirono all'inizio del giorno.

        - Ingaggiò il nemico che aveva ucciso tanti di loro e costrinse il resto a riparare in disordine nelle città vicine. Dopo aver tolto l'assedio a causa di questi successi, avanzò senza paura, devastando il territorio dei Siracusani e dei loro alleati, non trascurandone nemmeno uno in aperta campagna. Alla fine stanziò davanti a Siracusa e iniziò ad assediarla.

        - Tale allora era l'occasione e il motivo di questo primo scontro dei romani provenienti dall'Italia, con una forza armata, che prendo l'evento come il punto di partenza più naturale di tutto questo lavoro. Ho quindi fatto la mia vera base, ma sono andato anche un po' più indietro, al fine di non lasciare possibili oscurità nelle mie dichiarazioni delle cause generali. 

        - Per seguire questa storia precedente - come e quando i romani, dopo il disastro di Roma stessa, abbiano cominciato i loro progressi di fortune migliori, e di nuovo come e quando dopo aver conquistato l'Italia siano entrati nel cammino delle società straniere - mi sembrava necessario per chiunque speri di ottenere una vera e propria indagine generale sulla loro attuale supremazia.



        AI LETTORI

        - I miei lettori non devono quindi sorprendersi se, anche nel prosieguo di questo lavoro, io a volte do loro in aggiunta un po' della storia precedente dei più famosi membri; cosa che farò al fine di stabilire una visione così fondamentale per chiarire in partenza da cosa origini e come e quando abbiano raggiunto la loro solida posizione attuale. Questo è esattamente quello che ho appena fatto circa i romani.


        - 13) - Basta con queste spiegazioni. E' giunto il momento di venire al mio soggetto, dopo una breve sintesi degli eventi inclusi in questi libri introduttivi. Per procedere in ordine abbiamo prima gli incidenti della guerra tra Roma e Cartagine per la Sicilia. Avanti segue la guerra in Libia e la prossima i risultati dei Cartaginesi sotto Amilcare e Asdrubale. Allo stesso tempo, si è verificato il primo scontro dei romani nell'Illiria e queste parti d'Europa, in seguito agli eventi che precedono la loro lotta con i Celti italioti. 

        - Contemporanea con questo la cosiddetta guerra Cleomenica procedeva in Grecia, e con questa guerra finisco la mia introduzione nel suo complesso e il mio secondo libro. Ora per raccontare tutti questi eventi in dettaglio non è né spetta a me né sarebbe utile ai miei lettori; Perché non è il mio scopo di scrivere la loro storia, ma per citarli sommariamente come introduzione agli eventi che sono il mio vero tema. 

        - Esaminerò quindi il tentativo da parte di tale trattamento nel giusto ordine per adattarsi alla Introduzione e all'inizio della storia reale. Così non ci sarà alcuna interruzione nella narrazione e si vedrà che sono stato giustificato toccando gli eventi che sono stati precedentemente narrati da altri, mentre questa disposizione renderà l'approccio a ciò che segue comprensibile e facile per gli studenti.



        GUERRA TRE ROMA E CARTAGINE PER IL POSSESSO DELLA SICILIA

        - Io, però, tenterò di raccontare un po' più attentamente la prima guerra tra Roma e Cartagine per il possesso della Sicilia; poiché non è facile trovare una guerra che sia durata più a lungo, e non uno che abbia svolto su entrambi i lati azioni più ampie, più attività ininterrotte, più battaglie, e maggiori cambiamenti di fortuna.

        - I due stati sono stati anche in questo periodo ancora incorrotti nella morale, moderati nella fortuna, e uguali in forza, in modo che una migliore stima delle qualità peculiari e dei doni di ciascuno si può capire confrontando il loro comportamento in questa guerra più che in qualsiasi altra successiva .


        - 14) - Un altrettanto potente movente per me, per prestare particolare attenzione a questa guerra, è che, a mio avviso, la verità non è stato adeguatamente dichiarato da quegli storici che hanno fama di essere le migliori autorità su di essa, Filino e Fabius. Non  li accuso di menzogna intenzionale, in considerazione del loro carattere e principi, ma mi sembrano essere stati come in caso di amanti; per causa di loro convinzioni e costante parzialità. 

        - Filino dirà che i Cartaginesi in ogni caso abbiano agito saggiamente, bene, e con coraggio, e i romani al contrario, mentre Fabio ritiene esattamente l'opposto. In altre relazioni della vita che non dovremmo forse escludere tanti favoritismi; perchè un buon uomo deve amare i suoi amici e il suo paese, e dovrebbe condividere gli odi e gli attaccamenti dei suoi amici; ma colui che assume il carattere di uno storico deve ignorare ogni cosa del genere, e spesso, se le loro azioni lo richiedono, parlare bene dei suoi nemici e onorarli con le più alte lodi mentre critica e rimprovera aspramente i suoi amici più stretti, in caso di errori della loro condotta che impongono questo dovere su di lui. 

        - Infatti, proprio come una creatura vivente che ha perso la sua vista è interamente incapace, anche la storia spogliata della sua verità, tutto ciò che rimane è, ma una narrazione inattiva. Dovremmo quindi non sottrarci di accusare i nostri amici o lodare i nostri nemici; né abbiamo bisogno di aver paura a volte di lodare e talvolta accusare le stesse persone, dal momento che non è né possibile che gli uomini nel procedere della vita debbano essere sempre nel giusto, né è probabile che essi debbano sempre aver sbagliato. Dobbiamo quindi ignorare gli attori della nostra narrazione e applicare invece alle azioni ti termini e le critiche come meritano.


        - 15) - La verità di ciò che ho appena detto è evidente da quanto segue. Filino, a iniziare la sua narrazione all'inizio del suo secondo libro, ci dice che mentre i Cartaginesi e i Siracusani stavano assediando Messina, i romani raggiunsero la città dal mare, in una sola volta marciarono contro i Siracusani, e dopo averli duramente battuti tornarono a Messina. 

        - Essi poi combatterono contro i Cartaginesi che non solo ebbero la peggio, ma persero un numero considerevole di prigionieri. Dopo aver fatto queste dichiarazioni dice che Ierone dopo l'impegno preso finora perse il suo spirito non solo di bruciare il suo campo e le tende ma volò a Syracuse la stessa notte, per ritirare tutte le sue guarnigioni delle fortezze, che minacciavano il territorio di Messina. 

        - I Cartaginesi, allo stesso modo, dopo la battaglia tutti in una volta lasciarono il loro campo e si distribuirono tra le città, si dice, senza nemmeno il coraggio di combattere in aperta campagna, inoltre: i loro capi,  vedendo i ranghi così scoraggiati, non risolsero di rischiare un impegno decisivo, e i romani seguirono il nemico non solo per invadere il territorio di cartaginesi e siracusani, ma sedettero davanti a Siracusa e vi impegnarono un assedio.

        - Questo passo è, mi sembra, pieno di incongruenze e non richiede una lunga discussione. Per come Filino presentò l'assedio di Messina e la vittoria nei combattimenti, per poi abbandonarli per l'aperta campagna e, infine, assediati e scoraggiati, mentre coloro che egli rappresentava come sconfitti e assediati sono ora dichiarato di essere alla ricerca di loro nemici, e subito al comando in aperta campagna e, infine, assediando Siracusa. E 'assolutamente impossibile conciliare le due affermazioni, e sia le sue prime dichiarazioni o il suo conto di quello che seguì deve essere falsa.

        - Ma quest'ultima cosa è vera; effettivamente Cartaginesi e Siracusani abbandonarono l'aperta campagna, ed i romani in una sola volta ha cominciato ad assediare Siracusa e, come dice lui, anche a Echetla, che si trova tra il siracusano e le province cartaginesi. Dobbiamo quindi concedere che le dichiarazioni iniziali di Filino sono false, e che, mentre i romani erano vittoriosi in impegni prima di Messina, questo autore annuncia che essi ebbero la peggio.

        - Siamo in grado di tracciare in effetti lo stesso errore per tutto il lavoro di Filino e simili attraverso quello di Fabio, come dimostrerò quando se ne presenta l'occasione. Ora che ho detto ciò che è giusto a proposito di questa digressione, tornerò ai fatti nella narrativa che segue rigorosamente l'ordine degli eventi, per guidare i miei lettori da una breve strada ad una vera idea di questa guerra.



        I SICILIANI PREFERISCONO I ROMANI

        Al loro arrivo in Sicilia molti dei cittadini si ribellarono ai cartaginesi e ai siracusani e parteggiarono per i romani.  Hiero, osservando la confusione e la costernazione dei siciliani, e allo stesso tempo il numero e la potenza delle forze romane, trasse la conclusione che la prospettiva dei romani era più brillante di quella dei cartaginesi.


        - 16) -  Quando la notizia dei successi di Appio e le sue legioni giunse a Roma, elessero Manio Otacilio e Manio Valerio Consoli, e spedirono tutta la loro forza armata ed entrambi i comandanti per la Sicilia. I romani avevano in tutto quattro legioni di cittadini romani a parte gli alleati. Queste si iscrivono ogni anno, ogni legione composta da quattromila fanti e trecento cavalieri.



        ALLEANZA CON I ROMANI

        - 17) - La convinzione di Hiero, tiranno di Sircusa, spingendolo a schierarsi con i romani, inviò diversi messaggi ai Consoli con proposte di pace e alleanza. I romani accettarono le sue aperture, specialmente per il bene delle loro provviste; poiché da quando i Cartaginesi avevano comandato il mare erano preoccupati perché non fossero tagliati da tutte le parti dalle necessità della vita, in considerazione del fatto che gli eserciti che in precedenza avevano attraversato la Sicilia avevano esaurito le disposizioni.

        - Pertanto, supponendo che Hiero sarebbe stato di grande aiuto in questo senso, accettarono prontamente i suoi amichevoli progressi. Avendo stipulato un trattato in base al quale il re si legava a rinunciare ai suoi prigionieri romani senza riscatto, e oltre a questo a pagare loro un centinaio di talenti, i romani d'ora in poi trattavano i siracusani come alleati e amici.

        - Il re Hiero, dopo essersi posto sotto la protezione dei romani, continuò a fornire loro le risorse di cui si trovavano urgentemente bisognosi, e governò su Siracusa d'ora in poi in sicurezza, trattando i greci in modo tale da ottenere da loro corone e altri onori. Possiamo, infatti, considerarlo il più illustre dei principi e colui che ha raccolto più a lungo i frutti della sua saggezza in casi particolari e in politica generale.

        - Quando i termini del trattato furono riferiti a Roma e quando il popolo ebbe accettato e ratificato questo accordo con Hiero, i romani decisero di non impiegare tutte le loro forze nella spedizione, ma solo due legioni, pensando che, ora che il re si era unito a loro, la guerra era diventata un compito più leggero e calcolando che le loro forze sarebbero state meglio per i rifornimenti.

        - I Cartaginesi, al contrario, quando videro che Hiero era diventato loro nemico e che i Romani stavano diventando più profondamente coinvolti nell'impresa siciliana, ritenevano di avere bisogno di forze più forti per poter affrontare i loro nemici e controllo degli affari siciliani. Quindi arruolarono mercenari stranieri dalle coste opposte, molti dei quali liguri, celti e ancora più iberici, e li spedirono tutti in Sicilia.



        AGRIGENTUM

        - Percependo che la città di Agrigentum aveva i maggiori vantaggi naturali per i suoi preparativi, essendo anche la città più importante della loro provincia, raccolsero lì le loro truppe e rifornimenti e decisero di usarla come base nella guerra.

        - Nel frattempo i consoli romani che avevano stipulato il trattato con Hiero erano partiti e i loro successori, Lucius Postumius e Quintus Mamilius, erano arrivati ​​in Sicilia con le loro legioni.  Prendendo atto del piano dei Cartaginesi e della loro attività ad Agrigentum, essi decisero di prendere un'iniziativa più audace. Abbandonando quindi altre operazioni portarono tutte le loro forze a sostenere Agrigentum stessa, e accampandosi a una distanza di  otto stadi dalla città, chiusero i Cartaginesi tra le mura.

        - Era l'apice del raccolto e, poiché era previsto un lungo assedio, i soldati iniziarono a raccogliere frumento con più audacia di quanto fosse consigliabile. I Cartaginesi, osservando che il nemico era disperso per il paese, fecero una sortita e attaccarono i falciatori. Avendo facilmente messo in fuga questi, alcuni di loro hanno continuato a saccheggiare l'accampamento fortificato, mentre altri sono avanzati sulla forza di copertura.

        - Ma in questa occasione e spesso in quelle precedenti è l'eccellenza delle loro istituzioni che ha salvato la situazione per i romani; poiché con loro la morte è la pena inflitta da un uomo che diserta la posta o prende il volo in qualsiasi modo da tale forza di supporto. Pertanto, in questa occasione, come in altri, affrontarono coraggiosamente gli opposti che in gran parte erano più numerosi e, sebbene subissero gravi perdite, uccisero ancora più nemici. Alla fine, circondandoli sul punto di strappare la palizzata, ne spedirono un po' sul posto e premendo con forza sugli altri, li inseguirono con massacri in città.

        - Dopo ciò, i Cartaginesi furono più inclini a essere cauti nel prendere l'offensiva, mentre i Romani erano più in guardia nella ricerca di cibo. Dato che i Cartaginesi non avanzarono oltre la portata della scaramuccia, i generali romani divisero la loro forza in due corpi, rimanendo con uno vicino al tempio di Asclepio fuori dalle mura e accampandosi con l'altro su quel lato della città che è rivolto verso Eraclea.

        - Fortificarono il terreno tra i loro accampamenti su ciascun lato della città, proteggendosi dall'interno con le trincee e le palizzate e circondandosi con una palizzata esterna per proteggersi dagli attacchi dal fuori e per impedire quella segreta introduzione di rifornimenti e uomini che è normale nel caso di città assediate. Negli spazi tra le trincee e i loro accampamenti avevano posto picchetti, fortificando luoghi adatti a una certa distanza l'uno dall'altro.

        - Le loro provviste e altro materiale furono raccolti per loro da tutti gli altri membri dell'alleanza e portati a Erbesus, e loro stessi costantemente raccoglievano provviste vive e non da questa città che non era a grande distanza, mantenendosi abbondantemente rifornite di ciò che loro necessario.

        - Quindi per circa cinque mesi le cose rimasero ferme, nessuna delle due parti riuscì a segnare alcun vantaggio decisivo, nulla al di là del successo accidentale nello scambio di colpi; ma quando i Cartaginesi iniziarono a essere spinti dalla carestia a causa del numero di persone rinchiuse in città - almeno cinquantamila in numero - Annibale, il comandante delle forze assediate, si trovò in una situazione difficile e mandò messaggi costanti a Cartagine spiegando la sua posizione e chiedendo rinforzi.



        IL GENERALE HANNO

        - Il governo cartaginese spedì le truppe che avevano raccolto e i loro elefanti e le mandò in Sicilia ad Hanno il loro altro generale. Hanno concentrò le sue truppe e il materiale di guerra a Eraclea e in primo luogo sorprese e occupò Erbeo, tagliando i campi nemici dalle loro provviste necessarie.

        - Il risultato fu che i romani furono sia assediati che assedianti allo stesso tempo; poiché erano così duramente spinti dalla mancanza di cibo e dalla scarsità delle necessità della vita, che spesso contemplavano la rinuncia all'assedio, e alla fine l'avrebbero fatto, senza che Hiero, usando ogni sforzo e ogni mezzo, avesse fornito loro una quantità moderata di forniture strettamente necessarie.

        - Poi Hanno, intuendo che i romani erano indeboliti da malattie e privazioni, a causa di un'epidemia scoppiata in mezzo a loro, e pensando che le sue stesse truppe fossero in condizioni di combattimento idonee, portò con sé tutti i suoi elefanti, circa cinquanta in numero e tutto il resto della sua forza, e avanzò rapidamente ad Eraclea.

        - Aveva ordinato alla cavalleria di Numidia di precederlo, e si avvicinava all'accampamento fortificato del nemico per provocarlo e tentare di estrarre la sua cavalleria, dopo di che dovevano lasciare il posto e ritirarsi fino a quando non si riunivano. I Numidi che agivano su questi ordini avanzarono fino a uno dei campi, e la cavalleria romana uscì immediatamente e li attaccò con coraggio.

        - I libici si ritirarono come erano stati ordinati fino a quando non si unirono all'esercito di Hanno e poi, girando attorno e circondando il nemico, li attaccarono, uccidendo molti e inseguendo il resto fino al campo. Dopo questo Annone si accampò di fronte ai romani, occupando la collina chiamata Torus, a una distanza di circa dieci stadi dal nemico.

        - Per due mesi rimasero fermi, senza alcuna azione più decisiva che spararsi l'un l'altro ogni giorno: ma mentre Annibale continuava a annunciare ad Hanno con segnali di fuoco e messaggeri della città che la popolazione non poteva sostenere la carestia e che disertori i nemici erano numerosi a causa della privazione, il generale cartaginese decise di rischiare la battaglia, i romani non furono meno ansiosi per questo a causa delle ragioni che ho affermato sopra.



        LA VITTORIA ROMANA

        - Entrambi quindi portarono le loro forze nello spazio tra i campi e si impegnarono. La battaglia durò a lungo, ma alla fine i romani misero in fuga la linea avanzata dei mercenari cartaginesi, e quando quest'ultimo ricadde sugli elefanti e sulle altre divisioni nella loro parte posteriore, l'intero esercito fenicio fu messo in disordine.

        - Ne seguì una rotta completa, e molti di loro furono messi alla spada, alcuni fuggirono verso Eraclea. I romani catturarono la maggior parte degli elefanti e tutto il bagaglio. Ma dopo il calar della notte, mentre i romani, in parte per la gioia per il loro successo e in parte per la stanchezza, avevano rilassato la vigilanza del loro orologio, Annibale, considerando la sua situazione come disperata, e pensando per le ragioni di cui sopra che questa era una bella opportunità per salvarsi, uscì dalla città verso mezzanotte con i suoi mercenari.

        - Riempiendo le trincee con cestini pieni di paglia riuscì a ritirare la sua forza in sicurezza non percepita dal nemico. Quando scoppiò il giorno, i romani si accorsero di ciò che era accaduto e, dopo aver molestato leggermente la retroguardia di Annibale, avanzarono con tutta la loro forza verso le porte. Non trovando nessuno che si opponesse a loro, entrarono in città e la saccheggiarono, possedendo molti schiavi e una quantità di bottino di ogni descrizione.

        - Quando la notizia di ciò che era accaduto ad Agrigentum raggiunse il Senato romano, nella loro gioia ed esaltazione non si limitarono più ai loro progetti originali e non furono più soddisfatti di aver salvato i Mamertini e di ciò che avevano guadagnato nella guerra stessa ma, sperando che fosse possibile cacciare completamente i Cartaginesi fuori dall'isola e che se ciò fosse stato fatto il loro potere sarebbe stato molto aumentato, hanno indirizzato la loro attenzione a questo progetto e ai piani che avrebbero servito al loro scopo.

        - Per quanto riguarda la loro forza di terra almeno hanno notato che tutti sono progrediti in modo soddisfacente; per i Consoli nominati dopo coloro che avevano ridotto Agrigentum, Lucio Valerio Flacco e Tito Otacilio Crasso, sembravano gestire al meglio gli affari siciliani; ma poiché i Cartaginesi mantennero senza difficoltà il comando del mare, le fortune della guerra continuarono a rimanere in bilico.

        - Poiché nel periodo che seguì, ora che Agrigentum era nelle loro mani, mentre molte città interne si unirono ai romani per il terrore delle loro forze terrestri, ancora più città sulla costa abbandonarono la loro causa nel terrore della flotta cartaginese. Quindi, quando videro che l'equilibrio della guerra tendeva sempre più a spostarsi da questa parte o quella per le ragioni di cui sopra, e che mentre l'Italia era spesso devastata dalle forze navali, la Libia rimase completamente libera da danni, prese misure urgenti per salire sul mare come i Cartaginesi.

        - E uno dei motivi che mi ha indotto a narrare a lungo la storia della guerra sopra menzionata è proprio questo, che in questo caso i miei lettori non dovrebbero essere tenuti nell'ignoranza dell'inizio come, quando e per quali ragioni i romani presero per la prima volta in mare.



        I ROMANI NON SANNO COSTRUIRE LE NAVI

        - Quando videro che la guerra si stava trascinando, si impegnarono per la prima volta a costruire navi, un centinaio di quinquere e venti triremi. Dato che i loro naufraghi erano assolutamente inesperti nella costruzione di quinqueremes, tali navi non erano mai state in uso in Italia, la questione causò loro molte difficoltà, e questo fatto ci mostra meglio di ogni altra cosa quanto i Romani siano animati e audaci quando sono determinati a fare una cosa.

        - Non avevano risorse abbastanza buone per questo, ma non ne avevano alcuna, né avevano mai pensato al mare; eppure, quando un tempo avevano concepito il progetto, lo prendevano in mano così audacemente, che prima di acquisire qualsiasi esperienza in materia, avevano subito ingaggiato i Cartaginesi che avevano tenuto per generazioni il dominio indiscusso del mare. La prova della verità di ciò che sto dicendo e del loro incredibile coraggio è questa.

        - Quando si impegnarono per la prima volta a inviare le loro forze a Messene non solo non avevano navi addobbate, ma neppure lunghe navi da guerra, nemmeno una sola barca, e prendendo in prestito cinquanta barche a remi e triremi dai Tarentini e dai Locriani, e anche dalla popolazione di Elea e di Napoli portarono le loro truppe in mezzo a queste in grande pericolo.



        I ROMANI SANNO COPIARE LE NAVI

        - In questa occasione i Cartaginesi si misero in mare per attaccarli mentre attraversavano lo stretto, e una delle loro navi a ponte avanzò troppo nel suo entusiasmo per raggiungerli e incagliarsi cadde nelle mani dei Romani. Questa nave usarono ora come modello e costruì la sua intera flotta sul suo modello; in modo che sia evidente che se ciò non si fosse verificato, sarebbe stato loro completamente impedito di realizzare il loro progetto per mancanza di conoscenza pratica.

        - Ora, tuttavia, quelli a cui era impegnata la costruzione di navi erano impegnati a prepararli, e quelli che avevano raccolto gli equipaggi insegnavano loro a remare a terra nel modo seguente. Facendo sedere gli uomini sulle panchine dei rematori su terra asciutta, nello stesso ordine delle panchine delle navi stesse, li abituarono a ritirarsi immediatamente portando le mani su di loro e di nuovo a farsi avanti spingendo fuori il loro mani e per iniziare e finire questi movimenti con la parola di comando del fuggiasco.

        - Dopo che gli equipaggi furono addestrati, lanciarono le navi non appena furono completate, e dopo aver praticato per un breve periodo l'effettivo canottaggio in mare, navigarono lungo la costa italiana come il loro comandante aveva ordinato. Per il Console nominato dai Romani al comando della loro forza navale, Gneo Cornelio Scipione, alcuni giorni prima aveva dato ai comandanti l'ordine di navigare in direzione dello Stretto ogni volta che la flotta era pronta, mentre lui stesso, mettendo a mare con diciassette navi, le precedette a Messene, essendo ansioso di provvedere a tutti i bisogni urgenti della flotta.

        - Mentre gli si presentava una proposta in merito alla città di Lipara, e abbracciando la prospettiva con indebito entusiasmo, navigò con le navi sopra menzionate e si ancorò al largo della città. Il generale cartaginese Annibale, ascoltando ciò che era accaduto a Panormus, mandò Boödes, membro del Senato, consegnandogli venti navi. Boödes e i suoi uomini salparono fino a Lipara di notte e zittirono Gnaeus nel porto.



        LA SCONFITTA DEI ROMANI

        - All'alba del giorno gli equipaggi romani si rifugiarono frettolosamente a terra e Gnaeus, cadendo in uno stato di terrore e non potendo fare nulla, alla fine si arrese al nemico. I Cartaginesi ora partono subito per ricongiungersi ad Annibale con le navi catturate e il comandante del nemico. Ma pochi giorni dopo, sebbene il disastro di Gneo sia stato così segnale e recente, lo stesso Annibale si avvicinò molto allo stesso errore con gli occhi aperti.

        - Per aver sentito che la flotta romana che stava navigando lungo la costa italiana era a portata di mano, e desiderando avere un assaggio dei numeri e della disposizione generale del nemico, navigò verso di loro con cinquanta navi. 11 Intorno al Capo d'Italia si imbatté nel nemico che navigava in buone condizioni e in ordine. Perse la maggior parte delle sue navi e fuggì con il resto, che era più di quanto si aspettasse o sperasse.



        - In seguito a ciò i Romani si avvicinarono alle coste della Sicilia e vennero a conoscenza del disastro che aveva colpito Gneo, comunicando subito con Gaio Duilio, il comandante delle forze terrestri, e aspettando il suo arrivo. Allo stesso tempo, sentendo che la flotta nemica non era lontana, cominciarono a prepararsi per la battaglia navale.



        I CORVI

        - Poiché le loro navi erano mal costruite e lente nei loro movimenti, qualcuno suggerì loro di montare dei meccanismi che l'aiutassero a combattere, i cosiddetti "corvi". Furono costruiti come segue: a prua c'era un palo rotondo con quattro braccia di altezza e tre palmi di diametro.  Questo palo aveva una carrucola in vetta e attorno ad esso fu posta una passerella fatta di tavole trasversali fissate con chiodi, larga quattro piedi e lunga sei braccia.  In questa passerella era un foro oblungo, e si aggirava il palo ad una distanza di due braccia dalla sua estremità più vicina. La passerella aveva anche una ringhiera su ciascuno dei suoi lati lunghi, alta quanto il ginocchio di un uomo. Alla sua estremità era fissato un oggetto di ferro come un pestello puntato ad un'estremità e con un anello all'altra estremità, in modo che il tutto assomigliasse alla macchina per martellare il mais.

        - A questo anello era attaccata una corda con la quale, quando la nave caricava un nemico, sollevava i corvi per mezzo della puleggia sull'asta e li faceva scendere sul ponte del nemico, a volte dalla prua e a volte li faceva girare quando le navi si scontravano ai lati. Una volta che i corvi furono fissati sulle tavole del ponte nemico e afferrarono insieme le navi, se erano di traverso, si imbarcarono da tutte le direzioni, ma se si caricano con la prua, attaccarono passando sopra la passerella del corvo stesso. La coppia di testa proteggeva la parte anteriore sostenendo i loro scudi, e coloro che seguivano proteggevano i due fianchi appoggiando i cerchi dei loro scudi sulla parte superiore della ringhiera. Avendo, quindi, adottato questo dispositivo, attendevano un'occasione per entrare in azione.

        - Quanto a Gaius Duilius, non appena ebbe appreso del disastro che era accaduto al comandante delle forze navali, piuttosto che consegnare le sue legioni ai tribuni militari, procedette alla flotta. Imparando che il nemico stava devastando il territorio di Mylae, navigò contro di loro con tutta la sua forza. I Cartaginesi, avvistandolo, si misero in mare con centotrenta vele, abbastanza felici e desiderosi, mentre disprezzavano l'inesperienza dei Romani.

        - Navigarono tutti direttamente sul nemico, senza nemmeno pensare che valesse la pena mantenere l'ordine nell'attacco, ma proprio come stavano cadendo su una preda che era ovviamente loro. Furono comandati da Annibale - lo stesso che di notte uscì da Agrigentum con il suo esercito - che un tempo era di re Pirro. Avvicinandosi e vedendo i corvi che annuivano in alto sulla prua di ogni nave, i Cartaginesi furono inizialmente perplessi, sorpresi dalla costruzione dei meccanismi.

        - Tuttavia, dato che avevano ormai dato il nemico per perso, le navi frontali attaccarono audacemente. Ma quando le navi che entrarono in collisione furono trattenute in ogni caso dai meccanismi e gli equipaggi romani salirono a bordo per mezzo dei corvi e li attaccarono corpo a corpo sul ponte, alcuni dei Cartaginesi furono abbattuti e altri si arresero per lo sgomento cosa stava succedendo, la battaglia era diventata proprio come una lotta sulla terra.

        - Quindi le prime trenta navi impegnate vennero catturate con tutti i loro equipaggi, compresa la quella del comandante, e lo stesso Annibale riuscì a fuggire oltre le sue speranze con un miracolo nella barca. Il resto della forza cartaginese si stava alzando come se volesse caricare il nemico, ma vedendo, mentre si avvicinavano, il destino delle navi avanzate si voltarono ed evitarono i colpi dei corvi.

        - Confidando nella loro rapidità, virarono attorno al nemico nella speranza di poterlo colpire in sicurezza sia a bordo campo che a poppa, ma quando i corvi si girarono e si gettarono in tutte le direzioni e in tutti i modi in modo che quelli che si avvicinavano a loro non sfuggivano, alla fine cedettero il passo e presero il volo, colpiti dal terrore da questa nuova esperienza e con la perdita di cinquanta navi.

        - Quando i romani avevano così, contrariamente a ogni aspettativa, guadagnato la prospettiva di successo in mare, la loro determinazione a perseguire la guerra divenne due volte più forte. In questa occasione si insediarono sulla costa siciliana, sollevarono l'assedio di Segesta che era nell'ultima fase di angoscia e nel lasciare Segesta prese d'assalto la città di Macella.

        - Dopo la battaglia in mare di Amilcare, il comandante cartaginese delle loro forze di terra, che erano state divise in quattro nel quartiere di Panormus, venne a sapere che nel campo romano gli alleati e i romani erano in disaccordo su quanto si erano maggiormente distinti nelle battaglie, e che gli alleati furono accampati da soli tra il Paropus e le Sorgenti termali di Himera.



        L'ECCIDIO DI HIMERA

        - Improvvisamente cadendo su di loro con tutta la sua forza mentre stavano rompendo il loro campo, ne uccise circa quattromila. Dopo questa azione Annibale con le navi fuggite salpò per Cartagine e poco dopo attraversò da lì la Sardegna, portando con sé navi aggiuntive e alcuni dei più famosi ufficiali navali.

        - Non molto tempo dopo fu bloccato in uno dei porti della Sardegna dai romani e dopo aver perso molte delle sue navi fu sommariamente arrestato dai Cartaginesi sopravvissuti e crocifisso. I romani, dovrei spiegare, dal momento in cui si sono occupati del mare, hanno iniziato a intrattenere disegni sulla Sardegna.



        L'ATTACCO DI PANORMO


        - Le truppe romane in Sicilia non fecero nulla di degno di nota durante l'anno successivo; ma alla sua fine, quando avevano ricevuto i loro nuovi comandanti, i Consoli del prossimo anno, Aulo Atilio e Gaio Sulpicio, iniziarono ad attaccare Panormo, perché le forze cartaginesi stavano svernando lì. I Consoli, quando si avvicinarono alla città, offrirono battaglia con tutte le loro forze, ma poiché il nemico non uscì per incontrarli, lasciarono Panormus e partirono per attaccare Ippana. 

        - Questa città hanno preso d'assalto e hanno anche preso Myttistratum che ha resistito a lungo all'assedio a causa della sua forte situazione. Quindi occuparono Camarina che recentemente aveva abbandonato la loro causa, assediandola e provocando una breccia nel muro. Allo stesso modo presero Enna e molti altri piccoli luoghi appartenenti ai Cartaginesi, e quando ebbero finito con queste operazioni intrapresero l'assedio di Lipara.



        TYNDARIS


        - L'anno successivo Gaius Atilius Regulus, console romano, ancorato a Tyndaris, scorse la flotta cartaginese che passava disordinata. Ordinando ai suoi equipaggi di seguire i capi, si precipitò davanti agli altri con dieci navi che navigavano insieme. I Cartaginesi, osservando che alcuni nemici si stavano ancora imbarcando, e alcuni si stavano solo sottoponendo, mentre altri erano molto avanzati, si voltarono e li incontrarono.

        - Intorno a loro affondarono il resto dei dieci e si avvicinarono molto per prendere la nave dell'ammiraglio con il suo equipaggio. Tuttavia, poiché era ben presidiato e rapido, sventò le loro aspettative e uscì dal pericolo. Il resto della flotta romana salpò e gradualmente si avvicinò. Non appena affrontarono il nemico, si lanciarono su di loro e presero dieci navi con i loro equipaggi, affondandone otto. Il resto della flotta cartaginese si ritirò nelle isole conosciute come Liparaean.

        - Il risultato di questa battaglia fu che entrambe le parti pensarono di aver combattuto ora a parità di condizioni, ed entrambe si gettarono nel modo più completo sul compito di organizzare le forze navali e contestare il comando del mare, mentre nel frattempo le forze terrestri non ottennero nulla degno di nota, ma trascorsero il loro tempo in operazioni minori senza significato.

        - I romani, quindi, dopo aver fatto i preparativi, come ho detto, per la prossima estate, salparono con la flotta di trecentotrenta navi da guerra armate e si imbarcarono su Messene. Ripartendo da lì, salparono con la Sicilia alla loro destra e, raddoppiando Capo Pachynus, tornarono a Ecnomus, perché anche le loro forze di terra si trovavano proprio in quel quartiere.



        SPOSTARE LA GUERRA IN LIBIA

        - I Cartaginesi, salpando con trecentocinquanta navi a ponte, toccarono Lilybaeum e da lì procedettero per ancorare al largo di Eraclea Minoa. Il piano dei romani era di navigare in Libia e deviare la guerra in quel paese, in modo che i Cartaginesi potessero trovare non più la Sicilia ma se stessi e il loro territorio in pericolo. I Cartaginesi furono risolti proprio sulla strada opposta, poiché, consapevoli del fatto che l'Africa era facilmente accessibile e che tutte le persone nel paese sarebbero state facilmente sottomesse da chiunque l'avesse invasa, non erano in grado di permetterlo, e erano ansiosi di correre il rischio di una battaglia navale.

        - L'oggetto di una parte era quello di impedire e quello dell'altra di forzare una traversata, era chiaro che i loro obiettivi rivali avrebbero portato alla lotta che ne seguì. I romani avevano fatto i preparativi adeguati per entrambe le contingenze: per un'azione in mare e per uno sbarco nel paese nemico.

        - A quest'ultimo scopo, selezionando i migliori uomini dalle loro forze di terra, divisero in quattro corpi la forza totale che stavano per imbarcarsi. Ogni corpo aveva due nomi; era chiamato la Prima Legione o il Primo Squadrone, e gli altri di conseguenza. Il quarto aveva anche un terzo nome; furono chiamati triarii dopo l'uso nelle forze terrestri. L'intero corpo imbarcato sulle navi contava circa centoquaranta mila, ciascuna delle quali conteneva trecento rematori e centoventi marinai.

        - I Cartaginesi stavano adattando principalmente o unicamente i loro preparativi a una guerra marittima, essendo il loro numero, per fare i conti con il numero di navi, in realtà al di sopra dei centocinquantamila. Si tratta di cifre calcolate per colpire non solo un presente e con le forze sotto i suoi occhi ma anche un ascoltatore con stupore per l'entità della lotta e per quel dispendio sontuoso e il vasto potere dei due stati, se li stima dal numero di uomini e navi.



        LE STRATEGIE DEI ROMANI

        - I romani prendendo in considerazione che il viaggio era attraverso il mare aperto e che i nemici erano i loro superiori in velocità, tentarono in ogni modo di smantellare la loro flotta in un ordine che lo avrebbe reso sicuro e difficile da attaccare. Di conseguenza, stazionarono le loro due galee a sei sponde sulle quali i comandanti, Marco Atilio Regolo e Lucio Manlio, stavano navigando, uno di fronte all'altro e uno di fianco all'altro.

        - Dietro ognuna di esse disponevano navi in ​​un unica fila, il primo squadrone dietro l'una cambusa, il secondo dietro l'altra, disponendole in modo tale che la distanza tra ogni coppia di navi nei due squadroni aumentava sempre di più. Le navi erano di stanza in colonna con le loro prue dirette verso l'esterno. Avendo quindi disposto il primo e il secondo squadrone sotto forma di un semplice cuneo, posizionarono il terzo in un'unica linea alla base, in modo che quando queste navi avevano preso il loro posto, la forma risultante del tutto fosse un triangolo.

        - Dietro a queste navi alla base stazionavano i trasporti di cavalli, fissandoli con un rimorchio alle navi del terzo squadrone. Alla fine, dietro a questi, stazionarono il quarto squadrone, noto come triarii, formando un'unica lunga linea di navi così estesa che la linea si sovrappose a quella di fronte ad ogni estremità. Quando tutto era stato messo insieme nel modo che ho descritto, l'intera disposizione aveva la forma di un cuneo, il cui apice era aperto, la base compatta e il tutto efficace e pratico, ma anche difficile da spezzare.



        LE STRATEGIE DEI CARTAGINESI

        - Più o meno nello stesso periodo i comandanti cartaginesi si rivolgono brevemente alle loro forze. Hanno sottolineato loro che in caso di vittoria nella battaglia avrebbero combattuto in seguito per la Sicilia, ma che se sconfitti avrebbero dovuto combattere per il loro paese e le loro case, e hanno detto loro di prenderlo a cuore e imbarcarsi. Quando tutti prontamente fecero ciò che gli era stato ordinato, poiché le parole del loro generale avevano chiarito loro le questioni in gioco, si misero in mare con uno spirito fiducioso e minaccioso.

        - I comandanti quando videro l'ordine del nemico adattarsi ad esso. Tre quarti della loro forza si radunarono in una sola linea, estendendo la loro ala destra verso il mare aperto allo scopo di circondare il nemico e con tutte le loro navi rivolte verso i romani. Il restante quarto della loro forza formò l'ala sinistra di tutta la loro linea e raggiunse la riva in un angolo con il resto. La loro ala destra era sotto il comando dello stesso Hanno che era stato aggredito nell'impegno vicino ad Agrigentum.

        - Aveva navi per la carica e anche i quinqueremes più veloci per il movimento in affioramento. L'ala sinistra era incaricata di Amilcare, quello che comandò nella battaglia navale di Tyndaris, e lui, combattendo mentre era al centro della linea, usò nella mischia il seguente stratagemma. La battaglia fu iniziata dai romani che, notando che la linea cartaginese era sottile a causa della sua estensione, sferrò un attacco al centro.

        - Il centro cartaginese aveva ricevuto l'ordine di Amilcare di ricadere immediatamente allo scopo di infrangere l'ordine dei romani e, mentre si affrettavano a ritirarsi, i romani li inseguivano vigorosamente. Mentre il primo e il secondo squadrone premevano così sul nemico fuggitivo, il terzo e il quarto erano separati da loro, il terzo squadrone rimorchiava i trasporti di cavalli e i triarii rimanevano con loro come forza di supporto.

        - Quando i Cartaginesi pensarono di aver attirato il primo e il secondo squadrone abbastanza lontano dagli altri, tutti, ricevendo un segnale dalla nave di Amilcare, si voltarono simultaneamente e attaccarono i loro inseguitori. L'impegno che seguì fu molto intenso, la velocità superiore dei Cartaginesi consentì loro di muoversi attorno al fianco del nemico e di avvicinarsi facilmente e ritirarsi rapidamente, mentre i Romani, facendo affidamento sulla loro pura forza quando si chiudevano con il nemico, alle prese con i corvi ogni nave non appena si avvicinava, combattendo anche, per così dire, sotto gli occhi di entrambi i Consoli, che stavano prendendo parte personalmente al combattimento, non avevano meno speranze di successo.

        - Tale era quindi lo stato della battaglia in questo quartiere. Allo stesso tempo Hanno con l'ala destra, che aveva tenuto la distanza nel primo attacco, navigò attraverso il mare aperto e cadde sulle navi dei triarii, causando loro grande imbarazzo e angoscia. Nel frattempo quella parte delle forze cartaginesi che fu posta vicino alla costa, cambiando la loro formazione precedente e schierandosi in linea con le loro prue rivolte verso il nemico, attaccò le navi che rimorchiavano i trasporti di cavalli.



        TRE BATTAGLIE NAVALI

        - Lasciando andare le loro linee di rimorchio, questo squadrone incontrò e ingaggiò il nemico. Quindi l'intero conflitto consisteva in tre parti e tre battaglie navali che si svolgevano a grande distanza l'una dall'altra. Dato che le rispettive forze erano in ogni caso di uguale forza a causa della loro disposizione all'inizio, anche la battaglia fu combattuta a parità di condizioni.

        - Tuttavia, in ogni caso le cose sono andate come ci si aspetterebbe, quando le forze impegnate sono ugualmente abbinate. Quelli che avevano iniziato la battaglia furono i primi ad essere separati, poiché la divisione di Amilcare fu infine costretta a tornare indietro e fuggì. Lucius era ora occupato a prendere i premi al seguito, e Marcus, osservando la lotta in cui erano coinvolti i trasporti di cavalli triarii, si affrettò in loro aiuto con le navi del secondo squadrone che erano integre. Quando raggiunse la divisione di Annone e entrò in conflitto con essa, i triarii si rincuorarono, sebbene ne avessero avuto il peggio, e recuperarono il loro spirito combattivo.

        - I Cartaginesi, attaccati sia davanti che dietro, erano in difficoltà, trovandosi circondati, con loro sorpresa, dalla forza di soccorso, e cedendo, iniziarono a ritirarsi in mare. Nel frattempo sia Lucius, che a quel punto saliva in mare, e osservò che il terzo squadrone era chiuso vicino alla riva dall'ala sinistra cartaginese, e Marcus, che ora aveva lasciato i trasporti di cavalli e i triarii in sicurezza, si affrettarono insieme al soccorso di questa forza che era in grave pericolo; poiché lo stato delle cose adesso era proprio come un assedio, ed evidentemente si sarebbero persi tutti se i Cartaginesi non avessero avuto paura dei corvi e li avessero semplicemente coperti e li avessero tenuti vicini alla terra invece di caricarli, per quanto fossero preoccupati di venire a coprire gli alloggi.



        LA VITTORIA ROMANA

        - I Consoli, salendo rapidamente e circondando i Cartaginesi, catturarono cinquanta navi con i loro equipaggi, alcuni riuscendo a fuggire lungo la costa e fuggire. Gli incontri separati caddero come ho descritto, e il risultato finale dell'intera battaglia fu a favore dei Romani. Questi ultimi persero ventiquattro vele affondate e i Cartaginesi più di trenta. Non una sola nave romana con il suo equipaggio cadde nelle mani del nemico, ma sessantaquattro navi cartaginesi furono così catturate.

        - Dopo ciò i romani, ponendo ulteriore provvista, riparando le navi catturate e conferendo ai loro uomini l'attenzione che meritava il loro successo, misero in mare e salparono verso la Libia, raggiungendo la costa con le loro navi avanzate sotto il promontorio noto come l'Hermaeum che si trova di fronte all'intero Golfo di Cartagine e si estende verso il mare in direzione della Sicilia.

        - Dopo aver atteso lì fino all'arrivo delle loro altre navi e aver unito tutta la loro flotta, navigarono lungo la costa fino a raggiungere la città di Aspis. Atterrando lì e arenando le loro navi, che circondarono con una trincea e una palizzata, si posero ad assediare la città, il presidio del quale si rifiutò di arrendersi volontariamente.

        - Quei cartaginesi che riuscirono a fuggire dalla battaglia navale salparono verso casa, essendo convinti che il nemico, euforico per il loro recente successo, avrebbe immediatamente attaccato Cartagine dal mare, sorvegliando in diversi punti gli approcci alla città con le loro forze terrestri e marittime. Ma quando vennero a sapere che i romani erano sbarcati in sicurezza e stavano assediando Aspis, abbandonarono le misure prese per difendersi da un attacco dal mare e unendo le loro forze si dedicarono alla protezione della capitale e dei suoi dintorni.



        CONQUISTA DI ASPIS

        - I romani, dopo essersi resi padroni di Aspis, dove lasciarono una guarnigione per tenere la città e il distretto, mandarono una missione a Roma per riferire su eventi recenti e per indagare su cosa avrebbero dovuto fare in futuro e su come affrontare l'intera situazione. Quindi avanzarono in tutta fretta con tutta la loro forza e iniziarono a saccheggiare il paese. Dato che nessuno cercava di fermarli, distrussero un certo numero di case di abitazione belle e lussuosamente arredate, possedettero una quantità di bestiame e catturarono più di ventimila schiavi, riportandoli sulle loro navi.

        - I messaggeri di Roma ora arrivavano con le istruzioni per uno dei consoli di rimanere sul posto con una forza adeguata e per l'altro di riportare la flotta a Roma. Rimase quindi Marco Regolo, trattenendo quaranta navi e una forza di quindicimila fanteria e cinquecento cavalli, mentre Lucius, portando con sé gli equipaggi della nave e tutti i prigionieri, passò in salvo lungo la costa della Sicilia e raggiunse Roma.



        LA REAZIONE CARTAGINESE

        - I Cartaginesi, osservando che i Romani si stavano preparando per una lunga occupazione, in primo luogo elessero due generali tra loro, Hasdrubal, figlio di Hanno e Bostar, e successivamente inviarono Eraclea ad Amilcare, ordinandogli di tornare immediatamente. Amilcare, portando con sé cinquecento cavalli e cinquemila piedi, arrivò a Cartagine dove, essendo nominato terzo generale, tenne una consultazione con Hasdrubal e il suo staff su quali passi dovessero essere fatti. Decisero di marciare in aiuto del paese e di non indugiare più mentre veniva saccheggiato impunemente.

        - Qualche giorno dopo Regulus aveva cominciato ad avanzare, prendendo d'assalto e saccheggiando i luoghi senza mura e assediando quelli che avevano mura. Raggiunto Adys, una città di una certa importanza, si accampò su di esso e si impegnò a raccogliere opere per assediarlo. I Cartaginesi, essendo ansiosi di tentare di riguadagnare il comando del paese aperto, portarono fuori le loro forze. Presero possesso di una collina che, pur dominando il nemico, non era una posizione favorevole per il proprio esercito; e lì si accamparono.

        - In questo modo, sebbene la loro migliore speranza risiedesse nella loro cavalleria e negli elefanti, tuttavia abbandonando il paese di altura e chiudendosi in un luogo precipitosamente, di difficile accesso, erano sicuri di rendere chiaro ai loro avversari il modo migliore per attaccarli, e questo è esattamente quello che accadde.

        - Per i comandanti romani, percependo dalla loro esperienza di guerra che la parte più efficiente e formidabile della forza del nemico era resa inservibile dalla loro posizione, non attese che i Cartaginesi scendessero e offrissero battaglia in pianura, ma, afferrando la loro propria opportunità, avanzarono all'alba sulla collina da entrambi i lati. E così i loro elefanti e cavalleria erano assolutamente inutili per i Cartaginesi, ma i loro mercenari si lanciavano con grande coraggio e precipitarono su di loro costringendo la prima legione a cedere e fuggire; ma mentre avanzavano troppo lontano ed erano circondati e respinti dalla forza che stava attaccando dall'altra parte, l'intero esercito cartaginese fu immediatamente rimosso dal loro accampamento.



        LA CONQUISTA DI TUNISI

        - Gli elefanti e la cavalleria, non appena raggiunsero il terreno pianeggiante, effettuarono la loro ritirata in salvo, e i Romani, dopo aver inseguito la fanteria per una breve distanza e aver distrutto il campo, ora attaccarono e saccheggiarono il paese e le sue città senza essere molestati. Dopo essersi resi padroni della città di nome Tunisi, che era una base adatta per queste incursioni, e anche ben situato per le operazioni contro la capitale e i suoi dintorni immediati, si stabilirono lì.

        - I Cartaginesi, così sconfitti due volte, poco prima in mare e ora a terra, in entrambi i casi non a causa della mancanza di coraggio nelle loro truppe, ma a causa dell'incompetenza dei loro comandanti, ora erano caduti in una posizione del tutto difficile. Perché, oltre alle disgrazie che ho citato, i Numidi, attaccandoli contemporaneamente ai Romani, inflissero non meno ma anche più danni al paese di questi ultimi. Gli abitanti colpiti dal terrore si rifugiarono nella città di Cartagine, dove prevalse il completo abbattimento e la carestia estrema, quest'ultima a causa del sovraffollamento e la prima che si aspettava un assedio.



        L'OPPORTUNISMO DI REGOLO

        - Regulus, intuendo che i Cartaginesi erano completamente preoccupati sia dalla terra che dal mare e si aspettava di catturare la città in brevissimo tempo, era ancora preoccupato che il suo successore nel Consolato dovesse arrivare da Roma prima che Cartagine cadesse e ricevesse il merito del successo, e quindi invitò il nemico ad avviare negoziati. I Cartaginesi prestarono orecchio a questi progressi e mandarono un'ambasciata dei loro cittadini di spicco. Incontrando Regulus, tuttavia, gli inviati erano così lontani dall'essere inclini a cedere alle condizioni da lui proposte che non potevano neppure sopportare di ascoltare la gravità delle sue richieste. Poiché, immaginandosi completo padrone della situazione, riteneva che dovessero considerare le sue concessioni come doni e atti di grazia.

        - Come era evidente ai Cartaginesi che anche se fossero diventati soggetti ai Romani, non avrebbero potuto essere in casi peggiori di quelli che avrebbero ceduto alle attuali richieste, ma sarebbero tornati non solo insoddisfatti delle condizioni proposte, ma offesi dalla durezza di Regolo. L'atteggiamento del Senato cartaginese di ascoltare le proposte del generale romano era, sebbene avessero quasi abbandonato ogni speranza di salvezza, eppure di tale dignità virile che invece di sottomettersi a qualcosa di ignobile o indegno del loro passato, erano disposti a soffrire e affrontare ogni sforzo e ogni estremità.



        IL NUOVO GENERALE CARTAGINESE

        - Proprio in quel momento arrivò a Cartagine uno degli ufficiali di reclutamento che in precedenza avevano spedito in Grecia, portando un numero considerevole di soldati e tra loro un certo Xanthippo di Lacedaemon, un uomo che era stato creato nella disciplina spartana e aveva una discreta esperienza militare. Ascoltando il recente rovescio e come e in che modo si è verificato, e prendendo una visione completa delle risorse rimanenti dei Cartaginesi e della loro forza nella cavalleria e negli elefanti, ha subito raggiunto la conclusione e lo ha comunicato agli amici che i Cartaginesi dovettero la loro sconfitta non ai romani ma a se stessi, attraverso l'inesperienza dei loro generali.

        - A causa della situazione critica, le osservazioni di Xanthippus arrivarono presto all'estero e raggiunsero le orecchie dei generali, dopodiché il governo decise di convocarlo davanti a loro ed esaminarlo. Si presentò davanti a loro e comunicò loro la sua stima della situazione, sottolineando il motivo per cui ora erano preoccupati e sollecitando che se avessero preso il suo consiglio e si sarebbero serviti del paese di altura per marciare, accamparsi e offrire battaglia, avrebbero potuto facilmente non solo garantisce la propria sicurezza, ma sconfigge il nemico. I generali, accettando ciò che disse e decidendo di seguire il suo consiglio, gli affidarono immediatamente le loro forze.

        - Ora, quando il discorso di Xanthippus era arrivata all'esterno, aveva causato voci considerevoli e chiacchiere più o meno emotive tra la popolazione, ma mentre guidava fuori l'esercito e lo posizionava in buon ordine davanti alla città e persino iniziando a manovrare alcune porzioni di esso correttamente, e dando la parola di comando in termini militari ortodossi, il contrasto con l'incompetenza degli ex generali era così sorprendente che i soldati approvarono applaudendo ed erano ansiosi di ingaggiare il nemico, sentendosi sicuri che se Xanthippus li comandava nessun disastro potesse farli cadere.

        - Su questo il generale, vedendo lo straordinario recupero del coraggio tra le truppe, si rivolse a loro con parole adatte all'occasione e dopo pochi giorni scesero in campo con le loro forze. Questi consistevano di dodicimila piedi, quattromila cavalli e quasi un centinaio di elefanti. Quando i romani videro che i Cartaginesi stavano marciando attraverso la pianura e stendendo i loro campi su un terreno pianeggiante, furono sorpresi in effetti e un po' disturbati da questo in particolare, ma erano ansiosi nel complesso di entrare in contatto con il nemico. Appena entrati in contatto, si accamparono il primo giorno a una decina di stadi da lui.

        - Il giorno seguente il governo cartaginese ha tenuto un consiglio per discutere di ciò che dovrebbe essere fatto per il momento e dei relativi mezzi. Ma le truppe, impazienti di combattere, riunite in gruppi e invocando Xanthippo per nome, indicavano chiaramente la loro opinione che avrebbe dovuto portarle avanti immediatamente. Quando i generali videro l'entusiasmo dei soldati, Xanthippus allo stesso tempo li implorò di non lasciarsi sfuggire l'occasione, ordinò alle truppe di prepararsi e diede a Xanthippus l'autorità di condurre operazioni come lui stesso riteneva più vantaggioso.



        CARTAGINESI ALL'ATTACCO

        Agendo su questa autorità, mandò gli elefanti in avanti e li tirò su in una sola linea di fronte a tutta la forza, posizionando la falange cartaginese a una distanza adeguata dietro di loro. Alcuni dei mercenari si posizionarono sull'ala destra, mentre il più attivo lo posizionò insieme alla cavalleria di fronte a entrambe le ali. I romani, vedendo il nemico preparato per offrire battaglia, uscirono per incontrarli con alacrità. Allarmati dalla prospettiva della carica degli elefanti, posizionarono i veliti nei carri e dietro di loro le legioni in profondità con molti manipoli, dividendo la cavalleria tra le due ali.

        - Nel rendere così tutta la loro linea più corta e più profonda di prima erano stati abbastanza corretti per quanto riguardava il prossimo incontro con gli elefanti, ma per quanto riguarda quello con la cavalleria, che superava ampiamente la loro, erano molto ampi. Quando entrambe le parti avevano preso quella disposizione generale e dettagliata delle loro forze che si adattavano meglio al loro piano, sono rimaste in ordine, ognuna in attesa di un'opportunità favorevole per attaccare.

        - Non appena Xanthippus ordinò agli elefanti-conduttori di avanzare e spezzare la linea nemica e la cavalleria su ciascuna ala per eseguire un movimento di svolta e caricare, l'esercito romano, scontrando gli scudi e le lance insieme, come era loro abitudine e pronunciando il loro grido di battaglia, avanzarono contro il nemico. Per quanto riguarda la cavalleria romana su entrambe le ali fu rapidamente messa in fuga a causa dei numeri superiori dei Cartaginesi; mentre della fanteria, l'ala sinistra, in parte per evitare l'insorgere degli elefanti, e in parte a causa del disprezzo che provavano per la forza mercenaria, cadde sull'ala destra cartaginese e, dopo averla rotta, la spinse e la inseguì fino a che punto come il campo.



        LA SCONFITTA ROMANA

        - Ma i primi ranghi di coloro che erano posizionati di fronte agli elefanti, respinti quando li incontrarono e calpestati dalla forza degli animali, caddero in cumuli nella mischia, mentre la formazione del corpo principale, a causa delle profondità delle fila dietro rimase per un periodo interrotta. Alla fine, tuttavia, quelli nella parte posteriore furono circondati da tutti i lati dalla cavalleria e obbligati a affrontarli e combatterli, mentre quelli che erano riusciti a forzare un passaggio attraverso gli elefanti e si radunavano nella parte posteriore di quelle bestie, incontrarono la falange cartaginese abbastanza fresca e in buono stato.

        - D'ora in poi i romani erano in gravi difficoltà su tutti i lati, il maggior numero fu calpestato a morte dal vasto peso degli elefanti, mentre il resto fu abbattuto dai numerosi cavalieri nelle loro file mentre si trovavano in piedi. Solo una parte piuttosto piccola di questi ha tentato di effettuare la loro fuga, e di questi, poiché la loro linea di ritirata era su un terreno pianeggiante, alcuni furono inviati dagli elefanti e dalla cavalleria, e circa cinquecento che riuscirono a fuggire con il loro generale Regolo che poco dopo caddero nelle mani del nemico e furono fatti prigionieri, incluso lui stesso.

        - Ne risultò che in questa battaglia i Cartaginesi persero circa ottocento dei mercenari, che avevano affrontato l'ala sinistra romana, mentre dei romani vi furono salvati circa duemila, che la ricerca dei mercenari sopra menzionati portò a termine dal principale battaglia. Tutto il resto morì, ad eccezione del generale Regulus e di quelli che fuggirono insieme a lui. I manipoli che fuggirono passarono con straordinaria fortuna ad Aspis. I Cartaginesi spogliarono i morti e, portando con sé il Console e gli altri prigionieri, tornarono in città in grande allegria alla svolta della situazione.

        - In questi eventi ci sarà chi nota le cose per contribuire a una migliore condotta della vita umana. Perché il precetto di diffidare della fortuna, e specialmente quando stiamo godendo il successo, è stato imposto chiaramente dalle sventure di Regulus. Colui che un tempo così poco prima aveva rifiutato di compatire o di avere pietà di coloro che soffrivano, ora, quasi immediatamente dopo, fu condotto prigioniero a implorare pietà e misericordia per salvare la propria vita.

        - E ancora le parole di Euripide, riconosciute così a lungo come giuste, che "un saggio consiglio conquista molte mani" sono state poi confermate dai fatti reali. Perché un solo uomo e un solo cervello hanno messo a tacere quell'ospite che sembrava così invincibile ed efficiente, e ha restaurato le sorti di uno stato che agli occhi di tutti era completamente caduto insieme allo spirito dei suoi soldati. Questo lo cito per il miglioramento dei lettori di questa storia. Perché ci sono due modi in cui tutti gli uomini possono riformarsi, l'uno attraverso le proprie sventure, l'altro attraverso quelli degli altri, e di questi il ​​primo è il più impressionante, ma il secondo meno doloroso.

        - Pertanto non dovremmo mai scegliere il primo metodo se possiamo farlo, poiché si corregge con grande dolore e pericolo, ma perseguendo sempre l'altro, poiché da esso possiamo discernere ciò che è meglio senza soffrire. Riflettendo su questo, dovremmo considerare come la migliore disciplina per la vita reale l'esperienza che deriva dalla storia seria; poiché solo questo ci rende, senza infliggere alcun danno a noi, i giudici più competenti di ciò che è meglio in ogni momento e in ogni circostanza. Bene, su questo argomento ho detto abbastanza.



        XANTHIPPUS

        - Essendo ormai caduti tutti i nemici si che i Cartaginesi non potevano desiderare al meglio, non c'era stravaganza di gioia in cui non si abbandonavano, facendo ringraziamenti agli dei e facendo divertimenti e congratulazioni. Ma Xanthippus, al quale era dovuta questa rivoluzione e il notevole progresso nelle fortune di Cartagine, dopo un po' di tempo tornò a casa, e questa fu una decisione molto prudente e ragionevole da parte sua; per risultati brillanti ed eccezionali non si tratterà di suscitare la gelosia più profonda e la calunnia più amara.

        - I nativi di un luogo, supportati come lo sono dai loro parenti e avendo molti amici, potrebbero essere in grado di resistere a loro per un po' di tempo, ma gli stranieri sono esposti a soccombere rapidamente e si trovano in pericolo. C'è un altro resoconto della partenza di Xanthippus che cercherò di esporre in un'occasione più adatta del presente.

        - I romani, che non si erano mai aspettati di ricevere notizie così brutte dalla Libia, diressero immediatamente i loro sforzi per attrezzare la loro flotta e salvare le loro truppe sopravvissute. I Cartaginesi dopo la battaglia si accamparono davanti ad Aspis e vi assediarono con l'obiettivo di catturare questi sopravvissuti, ma poiché non ebbero successo a causa della capacità e del coraggio dei difensori, alla fine abbandonarono l'assedio.

        - Quando giunse la notizia che i romani stavano preparando la loro flotta e stavano per salpare nuovamente per la Libia, si misero a riparare le navi che avevano e a costruirne altre completamente nuove, e dopo aver presidiato una flotta di duecento vele, misero in mare e rimase in guardia per un attacco da parte del nemico.

        - All'inizio dell'estate i Romani, dopo aver varato trecentocinquanta navi, le inviarono sotto il comando di Marco Emilio e Servio Fulvio, che procedettero lungo la costa siciliana verso la Libia. Incontrando la flotta cartaginese vicino all'Hermaeum, caddero su di loro e li catturarono facilmente, ben centoquattordici navi con i loro equipaggi. Dopo aver imbarcato ad Aspis i ragazzi rimasti in Libia, salparono nuovamente per la Sicilia.



        LA TEMPESTA

        - Avevano attraversato lo stretto in salvo ed erano fuori dal territorio di Camarina quando furono sorpassati da una tempesta così feroce e un disastro così terribile che è difficile descriverlo adeguatamente a causa della sua grandezza superiore. Per le loro trecentosessantaquattro navi furono salvate solo ottanta; gli altri o sono stati fondati o sono stati colpiti dalle onde contro le rocce e i promontori e fatti a pezzi, coprendo la riva con cadaveri e rottami.

        - La storia racconta che nessuna catastrofe in mare si è verificata contemporaneamente. La colpa non deve essere attribuita tanto alla sfortuna quanto ai comandanti; poiché i capitani li avevano ripetutamente sollecitati a non navigare lungo la costa esterna della Sicilia, che si volgeva verso il mare libico, poiché era molto accidentato e aveva pochi ancoraggi sicuri: li avvertirono anche che uno dei pericolosi periodi astrali non era finito e un altro si stava avvicinando (poiché fu tra l'ascesa di Orione e quella di Sirio che intrapresero il viaggio).

        - I comandanti, tuttavia, non avevano attenzione a una sola parola che gli venne detta, presero la rotta esterna ed eccoli in mare aperto a pensare di colpire di terrore alcune delle città che attraversarono per lo splendore del loro recente successo e quindi conquistarle. Ma ora, tutto per amore di aspettative così scarse, si erano esposti a questo grande disastro e furono obbligati a riconoscere la loro mancanza di giudizio.

        - I romani, per parlare in generale, fanno affidamento sulla forza in tutte le loro imprese e pensano che spetti a loro portare avanti i loro progetti nonostante tutto, e che nulla è impossibile quando hanno deciso una volta. In molti casi devono il loro successo a questo spirito, ma a volte falliscono in modo evidente a causa di ciò e specialmente in mare. Perché sulla terra stanno attaccando gli uomini e le opere dell'uomo e di solito hanno successo, poiché lì stanno impiegando la forza contro forze della stessa natura, anche se anche qui in alcuni rari casi hanno fallito.

        - Ma quando arrivano per incontrare il mare e l'atmosfera e scelgono di combatterli con la forza incontrano delle sconfitte. È stato così in questa occasione e in molte altre, e continuerà sempre a esserlo, fino a quando non correggeranno questa colpa di audacia e violenza che gli farà pensare di poter navigare e viaggiare dove vorranno, indipendentemente dalla stagione.

        - I Cartaginesi, sentendo parlare della distruzione della flotta romana, concependo di essere rientrati nella partita con i romani sia a terra a causa del loro recente successo che in mare a causa di questo disastro, furono incoraggiati a fare preparazioni militari e navali più estese. Spedirono immediatamente Hasdrubal in Sicilia, dandogli le truppe che avevano in precedenza e una forza che li aveva uniti a Eraclea, insieme a centoquaranta elefanti. Dopo averlo inviato, iniziarono a prepararsi per il mare duecento navi e a fare tutti gli altri preparativi per una spedizione navale.

        - Hasdrubal, attraversato in salvo a Lilybaeum, si occupò di far passare senza opposizione i suoi elefanti e il resto della sua forza, e chiaramente intendeva contestare il possesso della campagna aperta. I romani, dopo aver ricevuto tutte le informazioni sul disastro dai sopravvissuti al naufragio, furono profondamente addolorati, ma essendo stati risolti per nessun motivo a cedere, decisero di mettere in scorta una nuova flotta di duecentoventi navi. In tre mesi furono completati, una cosa difficile da credere, e i nuovi Consoli, Aulo Atilio e Genio Cornelio, dopo aver sistemato la flotta, messi in mare e passando gli stretti, raccolse a Messene le navi che erano sfuggite al naufragio.

        - Scendendo con la loro flotta totale di trecento navi su Panormus, la città più importante della provincia cartaginese, intrapresero il suo assedio. Hanno installato dei macchinari in due punti e dopo aver fatto gli altri preparativi necessari hanno tirato su i loro arieti. La torre sulla riva del mare fu facilmente abbattuta e, con i soldati che premevano attraverso questa breccia, la cosiddetta Città Nuova fu presa d'assalto e la parte conosciuta come la Città Vecchia era ora in pericolo imminente, i suoi abitanti si arresero presto. Dopo averne preso possesso, i Consoli tornarono a Roma lasciando un presidio in città.

        - I loro successori, Gnaeus Servilius e Gaius Sempronius, salparono con tutta la loro flotta non appena era estate e dopo aver attraversato la Sicilia proseguirono per la Libia, e navigarono lungo la costa, e fecero una serie di discese in cui non ottennero nulla di importante e alla fine raggiunsero l'isola dei mangiatori di loto, che si chiama Meninx e non è molto distante dal minore Syrtis.

        - Qui, a causa della loro ignoranza di questi mari, corsero verso alcuni banchi e, con la marea che si ritirava e le navi che si radicavano rapidamente, si trovavano in una posizione molto difficile. Tuttavia, poiché in qualche modo la marea si innalzò inaspettatamente dopo qualche tempo, riuscirono con difficoltà a alleggerire le loro navi gettando in mare tutti gli oggetti pesanti.

        - La loro partenza ora era così frettolosa da assomigliare a una fuga, e dopo aver fatto la Sicilia e circumnavigato Cape Lilybaeum si ancorarono a Panormus. Mentre attraversavano frettolosamente il mare aperto sulla strada da qui a Roma, incontrarono di nuovo una tempesta così tremenda che persero più di centocinquanta navi.

        - Il governo romano su questo, sebbene in tutte le questioni siano estremamente ambiziosi di successo, ancora nell'occasione presente, a causa dell'entità e della frequenza dei disastri che hanno incontrato, sono stati obbligati dalla forza delle circostanze a rinunciare al progetto di ottenerne un'altra flotta.

        - Facendo affidamento ora esclusivamente sulle loro forze di terra, mandarono in Sicilia con alcune legioni i consoli Lucio Cecilio e Gaio Furio e presero parte a sole sessanta navi per rivedere le legioni. Le catastrofi di cui sopra hanno portato le prospettive dei Cartaginesi a diventare ancora più brillanti; poiché avevano ormai indisturbato il comando del mare, i romani si erano ritirati da esso e avevano grandi speranze del loro esercito.

        - Queste speranze non erano ingiustificate, per i romani, quando circolò il rapporto sulla battaglia in Libia secondo cui gli elefanti avevano spezzato le file dei romani e ucciso la maggior parte dei loro uomini, ebbero così tanta paura delle bestie che nei due anni successivi a questo periodo, sebbene spesso sia nel distretto di Lilybaeum che in quello di Selinus fossero stati estratti a una distanza di cinque o sei stadi dal nemico, non osarono mai iniziare una battaglia e in realtà non sarebbero mai scesi per incontrare il nemico su un terreno pianeggiante, poichè temevano così tanto una carica di elefanti.

        - Durante questo periodo tutto ciò che realizzarono fu la riduzione per assedio di Therma e Lipara, mantenendosi nel paese montuoso e difficile. Di conseguenza, il governo, osservando la timidezza e lo sconforto che hanno prevalso nelle loro forze di terra, ha cambiato idea e ha deciso di tentare di nuovo le proprie fortune in mare. Nel consolato di Gaius Atilius e Lucius Manlius li troviamo a costruire cinquanta navi e arruolare attivamente marinai e mettere insieme una flotta.

        - Il comandante in capo cartaginese, Hasdrubal, aveva notato la mancanza di coraggio che i romani esibivano, nelle occasioni in cui erano in presenza del nemico e quando seppe che mentre uno dei consoli con metà dell'intera forza era partito per l'Italia, Cecilio e il resto dell'esercito rimasero a Panormus con l'obiettivo di proteggere il grano degli alleati, essendo ora l'altezza del raccolto, rimosse le sue forze da Lilybaeum e si accamparono sulla frontiera del territorio di Panormus.



        LA STRATEGIA DI CECILIO

        - Cecilio, osservando lo spirito aggressivo di Hasdrubal e desiderando provocarlo per attaccare, tenne i suoi soldati dentro le porte. Hasdrubal ottenne nuova fiducia da ciò, pensando che Cecilio non si avventurò per uscire, e avanzando coraggiosamente con tutta la sua forza, discese attraverso il passaggio sul territorio di Panormus. Cecilio, aderendo al suo piano originale, gli permise di devastare i raccolti fino alle mura, fino a quando non lo condusse ad attraversare il fiume che scorre di fronte alla città. Una volta che i Cartaginesi avevano attraversato i loro elefanti e altre forze, ha continuato a inviare truppe armate leggere per molestarli, fino a quando non li ha costretti a schierare tutta la loro forza.

        - Quando vide che ciò che aveva progettato stava accadendo, posizionò alcune delle sue truppe leggere davanti al muro e alla trincea, ordinandole, se gli elefanti si avvicinarono, di non risparmiare i loro missili, e quando furono cacciati dalla loro posizione, dovevano prendere rifugiarsi nella trincea e scappare di nuovo sparando a quegli elefanti che li caricarono.

        - Ordinando alle classi inferiori della popolazione civile di portare i missili e disporli all'esterno ai piedi del muro, egli stesso con i suoi manipoli prese posizione presso il cancello che si affacciava sull'ala sinistra del nemico e continuò a inviare rinforzi costanti a coloro che erano impegnati nel tiro.

        - Quando quest'ultima forza si impegnava con il nemico, i guidatori degli elefanti, ansiosi di mostrare la loro abilità a Hasdrubal e desiderando che la vittoria fosse dovuta a loro stessi, caricarono tutti i nemici che erano in avanti e mettendoli facilmente in fuga li inseguirono fino alla trincea.

        - Quando gli elefanti caricarono la trincea e iniziarono a essere feriti da coloro che sparavano dal muro, mentre allo stesso tempo una rapida pioggia di giavellotti e lance cadde su di loro dalle truppe fresche preparate prima della trincea, scoprirono molto presto che essi stessi venivano colpiti e feriti in molti luoghi, furono gettati nella confusione e si riversarono sulle loro stesse truppe, calpestando e uccidendo gli uomini e disturbando e rompendo i ranghi.

        - Cecilio, vedendo questo, fece una vigorosa mossa portandosi sul fianco del nemico, che ora era in disordine, con le sue truppe fresche e ben ordinate causando una grave rotta tra loro, uccidendo molti e costringendo il resto a lasciare il campo in fuga frontale. Catturò dieci elefanti con i loro mahout e, dopo la battaglia, per mezzo dei loro mahout, li catturò tutti. Con questo successo fu universalmente riconosciuto il motivo per cui le forze di terra romane riacquistarono coraggio e ottennero il comando del paese.



        LA NUOVA FLOTTA ROMANA

        - Quando la notizia di questo successo raggiunse Roma, provocò una grande gioia, non tanto per il nemico indebolito dalla perdita dei loro elefanti quanto per la fiducia che la cattura di questi diede alle proprie truppe. Di conseguenza furono incoraggiati a ritornare al loro piano originale di inviare i consoli alla campagna con una flotta di forze navali; poiché erano ansiosi in ogni modo di mettere fine alla guerra.

        - Quando tutto ciò che era necessario per la spedizione era pronto, i Consoli salparono per la Sicilia con duecento navi. Era il quattordicesimo anno di guerra. Ancorando al largo di Lilybaeum, dove furono raggiunti dalle loro forze di terra, intrapresero il suo assedio, pensando che se fosse caduto in loro possesso sarebbe stato facile per loro trasferire la guerra in Libia.

        - A questo proposito, almeno il governo cartaginese ha concordato di più o meno con i romani, condividendo la loro stima del valore del luogo; cosicché, accantonando tutti gli altri progetti, dedicarono tutta la loro attenzione al rilievo di questa città e furono pronti ad assumersi ogni rischio e onere per questo scopo; poiché se cadesse, non sarebbe rimasta alcuna base per loro, poiché i romani si erano padroni di tutto il resto della Sicilia tranne Drepana (Trapani).



        INFORMAZIONE GEOGRAFICA

        - Per evitare che la mia narrativa sia oscura ai lettori a causa della loro ignoranza della geografia, cercherò di comunicare brevemente a loro un'idea dei vantaggi naturali e della posizione esatta dei luoghi citati. La Sicilia, quindi, nel suo complesso occupa la stessa posizione nei confronti dell'Italia e delle sue estremità che il Peloponneso occupa nei confronti della Grecia e delle sue estremità, la differenza sta in questo, che il Peloponneso è una penisola mentre la Sicilia è un'isola, la comunicazione essere nel primo caso via terra e nell'altro via mare.

        - La Sicilia ha una forma triangolare, gli apici di tutti e tre gli angoli formano dei Capi.. Il promontorio che guarda a sud e si estende nel Mar di Sicilia si chiama Pachynus, che a nord costituisce l'estremità della costa occidentale dello Stretto; è a circa dodici stadi lontani dall'Italia e si chiama Pelorias. Il terzo guarda verso la Libia stessa ed è situato in una posizione favorevole per attaccare i promontori di fronte a Cartagine, da cui è distante circa mille stadi. È rivolto a sud-ovest, separando il Libico dal Mar di Sardegna e il suo nome è Lilybaeum.



        L'ASSEDIO

        - Sul promontorio si erge la città omonima, di cui i romani stavano ora aprendo l'assedio. È ottimamente difeso sia dalle mura che da un profondo fossato tutt'intorno, e sul lato rivolto verso il mare dall'acqua selvaggia, il passaggio attraverso il quale nel porto richiede grande abilità e pratica.
        I romani si accamparono da questa città su entrambi i lati, fortificando lo spazio tra i loro accampamenti con una trincea, una palizzata e un muro.

        - Quindi iniziarono a vomitare proiettili contro la torre che si trovava più vicino al mare sul lato libico e, avanzando gradualmente dalla base così acquisita ed estendendo le loro opere, riuscirono infine a abbattere le sei torri adiacenti e attaccarono tutte le altri subito con i loro arieti.

        - L'assedio era ora perseguito in modo così vigoroso e terrificante, ogni giorno vedendo alcune delle torri scosse o demolite e le opere del nemico che avanzavano sempre più in città, che gli assediati furono gettati in uno stato di totale confusione e panico, anche se, oltre la popolazione civile, c'erano quasi diecimila mercenari in città. Il loro generale, Himilco, tuttavia, non omise alcun mezzo di resistenza nel suo potere, e contro-costruzione e contro-miniera causò al nemico non poca difficoltà.

        - Ogni giorno l'esercito romano avanzava e faceva tentativi per gli assedi, cercando di riuscire a incendiare le mura, impegnato di notte e di giorno in combattimenti così disperati, che a volte più uomini cadevano in questi incontri che non in una battaglia campale. In questo periodo alcuni degli ufficiali superiori delle forze mercenarie, dopo aver discusso la materia tra loro e nella piena convinzione che i loro subordinati li avrebbero obbediti, salirono dalla città di notte al campo romano e avanzarono proposte al Console per la resa della città.



        ALESSIO AVVERTE I CARTAGINESI

        - Ma l'aureo Alessio, che in una precedente occasione aveva salvato gli Agrigentini, quando i mercenari siracusani avevano formato un progetto di rottura della fede con loro, ora era anche il primo a prendere coscienza di ciò che stava accadendo e informò il generale cartaginese. Himilco, che, sentendo questo, convocò immediatamente gli ufficiali rimanenti e implorò urgentemente il loro aiuto, promettendo loro doni e favori sontuosi se gli fossero rimasti fedeli e si rifiutassero di partecipare alla trama di coloro che avevano lasciato la città.

        - Trovandoli prontamente consenzienti, ordinò loro di tornare immediatamente alle loro truppe, inviando con loro dai Celti Annibale, il figlio di quell'Annibale che era morto in Sardegna, poiché avevano servito sotto di lui e lo conoscevano bene, mentre agli altri mercenari mandò Alexon, a causa della sua popolarità e merito con loro. Chiamarono una riunione di soldati e in parte li supplicarono, in parte assicurando loro che ogni uomo avrebbe ricevuto la generosità che il generale aveva offerto, li persuase facilmente a sostenere i loro impegni.

        - Quindi, in seguito, quando gli ufficiali che avevano lasciato la città avanzarono apertamente verso le mura e tentarono di supplicarli e raccontargli le promesse fatte dai romani, non solo non prestarono attenzione, ma non prestarono loro attenzione, e li scacciò dal muro con pietre e altri missili.

        - I Cartaginesi, quindi, per le ragioni di cui sopra, sfuggirono completamente a un disastro completo a causa del tradimento dei loro mercenari, e Alexon, che in precedenza aveva salvato dalla sua lealtà non solo la città e il distretto ma le leggi e le libertà di Agrigentum, ora era la causa dei Cartaginesi salvati dalla rovina totale.



        I SOCCORSI DI ANNIBALE

        - Il governo cartaginese non sapeva nulla di tutto ciò, ma calcolando le esigenze di una città assediata, riempirono cinquanta navi di truppe. Dopo essersi rivolti ai soldati in termini adatti all'impresa, li mandarono immediatamente sotto il comando di Annibale, figlio di Amilcare, Treviri e l'amico più intimo di Adherbal, con l'ordine di non ritardare, ma alla prima occasione di fare un audace tentativo di alleviare gli assediati.

        - Salpando con diecimila truppe a bordo, giunse ad ancorare al largo delle isole chiamate Aegusae, che si trovano tra Lilybaeum e Cartagine, e lì attendeva un clima favorevole. Non appena ebbe una leggera brezza di poppa, sollevò tutta la vela e fuggì prima che il vento salpasse dritto per la bocca del porto, i suoi uomini si prepararono sul ponte armati pronti all'azione.

        - I romani, in parte a causa dell'improvvisa comparsa della flotta e in parte perché temevano di essere trasportati nel porto ostile dalla forza del vento insieme ai loro nemici, non fecero alcun sforzo per impedire l'ingresso della forza di soccorso, ma si distinsero sul mare stupì per l'audacia dei Cartaginesi. Tutta la popolazione si era radunata sulle pareti in un'agonia di suspense da un lato su ciò che sarebbe accaduto, e allo stesso tempo così felice per l'inaspettata prospettiva del successo che continuarono a incoraggiare la flotta mentre salpava da applausi e battendo le mani.



        ANNIBALE ENTRA NEL PORTO INCOLUME

        - Annibale, entrato nel porto in questo modo pericoloso e audace, ancorò e sbarcò le sue truppe in sicurezza. Tutti quelli che erano in città non erano molto contenti dell'arrivo del sollievo, anche se le loro prospettive erano molto migliorate e la loro forza aumentò così, come al fatto che i romani non si erano avventurati per cercare di impedire ai Cartaginesi di navigare.

        ANNIBALE
        - Himilco, il comandante della guarnigione, visto che tutti erano pieni di spirito e fiducia, la guarnigione originale a causa dell'arrivo di sollievo, e i nuovi arrivati ​​a causa della loro ignoranza ancora della pericolosa situazione, desideravano avvalersi di questo nuovo spirito in entrambe le parti e fare un altro tentativo di colpire il nemico. Quindi convocò i soldati a un'assemblea generale, e rivolgendosi a loro a lungo con parole adatte all'occasione, li suscitò con grande entusiasmo con le sue sontuose promesse di ricompensa per coloro che si erano distinti personalmente e la sua certezza che la forza nel suo insieme sarebbe debitamente ricompensato dal governo.

        - Dopo averlo applaudito e gridato a lui di non ritardare ma di guidarli subito, li congedò per il momento dopo averlo lodato ed espresso il suo piacere per il loro entusiasmo, ordinando loro di ritirarsi per riposarsi presto e obbedire ai loro ufficiali. Poco dopo convocò gli ufficiali comandanti e assegnò a ciascuno il proprio posto nell'assalto, dando loro la parola d'ordine e informandoli dell'ora. Ordinò a tutti i comandanti con tutte le loro forze di essere sul posto all'orologio mattutino, e dopo che i suoi ordini furono eseguiti, condusse l'intera forza fuori mentre stava diventando leggera e attaccò i lavori in diversi punti.

        - I romani, che avevano previsto ciò che stava per accadere, non erano inattivi o impreparati, ma correvano prontamente per difendere i punti minacciati e si opponevano a una vigorosa resistenza al nemico. Presto tutte e due le forze furono impegnate, e una lotta disperata continuò tutt'intorno alle pareti,  non meno di ventimila soldati e la forza all'esterno fu più numerosa. Dal momento che stavano combattendo in modo confuso e in nessun ordine, ogni uomo come pensava meglio, la battaglia era tanto più feroce, una forza così grande era impegnata da uomo a uomo e da compagnia a compagnia, in modo che ci fossero combattimenti singoli e di gruppo insieme.



        ASSEDIANTI E ASSEDIATI

        - Fu, in particolare, in particolare nelle stesse opere d'assedio che vi furono più urla e pressioni. Per quelli di entrambe le parti il ​​cui compito fin dall'inizio era da un lato quello di scacciare i difensori dalle opere, e dall'altro di non abbandonarli, esibivano tale emulazione e risoluzione, gli assalitori che facevano del loro meglio per respingere i romani, e questi ultimi si rifiutavano di cedere, che alla fine a causa di questo spirito risoluto gli uomini rimasero e caddero nel punto in cui si erano fermati per la prima volta.

        - Eppure, nonostante tutto, i portatori di opere, rimorchio e fuoco mescolati con i combattenti, attaccarono i meccanismi da ogni parte, scagliando contro di loro la materia infuocata con tanta forza che i romani erano nel massimo pericolo, non potendo dominare l'insorgere del nemico. Ma il generale cartaginese, osservando che molti stavano cadendo nella battaglia e che il suo obiettivo di prendere le opere non era stato raggiunto, ordinò ai suoi trombettieri di suonare la ritirata. Così i romani che si erano avvicinati molto alla perdita di tutto il loro materiale d'assedio, alla fine erano padroni delle loro opere, e ne rimasero in possesso sicuro.

        - Per quanto riguarda Annibale, salpò con le sue navi dopo l'affare mentre era ancora notte, non osservato dal nemico, e proseguì verso Drepana per incontrare lì il comandante cartaginese, Adherbal. A causa della comoda situazione di Drepana e dell'eccellenza del suo porto, i Cartaginesi avevano sempre prestato grande attenzione alla sua protezione. Il posto si trova a una distanza di  circa centoventi stadi da Lilybaeum.



        ANNIBALE SI RECA A LILIBEO

        - I Cartaginesi a casa desideravano sapere cosa stava succedendo a Lilybaeum, ma non essendo in grado di farlo poiché le loro stesse forze erano state rinchiuse in città e i Romani erano attivi nella loro vigilanza, uno dei loro cittadini principali, Annibale, detto il Rhodian, si offrì di navigare fino a Lilybaeum e fare un rapporto completo dall'osservazione personale. Ascoltarono con entusiasmo la sua offerta, ma non credevano che potesse farlo, poiché i romani erano ancorati fuori dalla foce del porto.

        - Ma dopo aver sistemato la propria nave, salpò e attraversò una delle isole che si trovano davanti a Lilybaeum, e il giorno dopo trovò il vento felicemente favorevole, salpò verso le dieci del mattino in piena vista del nemico che furono colpiti dalla sua audacia. Il giorno dopo si preparò subito alla partenza, ma il generale romano, con lo scopo di sorvegliare più attentamente l'ingresso, si era attrezzato nella notte delle sue navi più veloci, e ora lui stesso e tutto il suo esercito erano in guardia accanto al porto in attesa per vedere cosa sarebbe successo.

        - Le navi stavano aspettando da entrambi i lati dell'ingresso vicino quanto i banchi avrebbero permesso loro di avvicinarsi, con i remi fuori e pronti a caricare e catturare la nave che stava per salpare. Ma il "Rhodian", sottovalutato alla vista di tutti, ha superato di gran lunga i romani con la sua audacia e la sua velocità che non solo ha portato la sua nave e tutto il suo equipaggio fuori incolume, passando le navi nemiche proprio come se fossero immobili, ma dopo aver navigato per un breve tratto, si fermò senza spedire i remi come per sfidare il nemico, e nessuno si azzardò a uscire contro di lui a causa della velocità del suo canottaggio, salpò, dopo aver così con una nave sfidato con successo l'intera flotta romana.

        - In seguito ha ripetuto più volte la stessa impresa ed è stato di grande aiuto continuando a riferire a Cartagine le notizie della più urgente importanza, mentre allo stesso tempo ha mantenuto gli spiriti dell'assedio assalito e ha colpito i romani con la sua avventura. Ciò che tendeva di più a dargli sicurezza era che, per esperienza, aveva accuratamente annotato il percorso da seguire attraverso i banchi nell'entrare. Non appena avesse attraversato e apparso in vista, avrebbe ottenuto la torre sul lato italiano sui suoi archi in modo che coprisse l'intera linea di torri rivolte verso l'Africa; e questo è l'unico modo in cui una nave che corre davanti al vento può colpire la foce del porto entrando.

        - Diversi altri che avevano conoscenza locale, acquisendo fiducia nell'audacia del "Rhodian", si impegnarono a fare lo stesso, e di conseguenza i romani, per i quali questa era una grande seccatura, cercarono di riempire la bocca del porto. Per la maggior parte, in effetti, il loro tentativo fu inutile, sia a causa della profondità del mare, sia perché nessuna delle cose che gettarono sarebbe rimasta al suo posto o si sarebbe tenuta insieme, ma tutto ciò in cui sparavano era una volta si spostava e si disperdeva mentre affondava sul fondo, per l'impennata e la forza della corrente.



        I ROMANI CATTURANO DUE NAVI

        - Tuttavia, in un posto dove c'erano banchi di arbusti si formò una solida banca a costo di infiniti dolori, e su questo una nave a quattro rive che usciva di notte si incagliò e cadde nelle mani del nemico. Questa nave era di ottima fattura, e i Romani, dopo averla catturata e presidiata con un equipaggio selezionato, sorvegliarono tutti i corridori dei blocchi e in particolare i "Rodiani".

        - Accadde così che navigando proprio quella notte, e in seguito navigando abbastanza apertamente, ma, vedendo la nave a quattro sponde che tornava in mare insieme a se stesso e riconoscendolo, era allarmato. Dapprima fece uno scatto per allontanarsi da esso, ma trovandosi seguito a causa della buona rematura del suo equipaggio, dovette a lungo girare e ingaggiare il nemico.

        - Non avendo eguali per i veterani, che erano numerosi e tutti scelti, cadde nelle mani del nemico. La sua nave era, come l'altra, molto ben costruita, e quando i romani erano in possesso di lei, la preparò anche per questo servizio speciale e quindi fermò tutto questo avventuroso blocco in corso a Lilybaeum.



        TEMPESTA DI VENTO E INCENDIO DELLE OPERE D'ASSEDIO

        - Gli assediati stavano ancora contro-costruendo energicamente, sebbene avessero rinunciato ai loro sforzi per rovinare o distruggere le opere del nemico, quando sorse una turbolenta tempesta di vento, che soffiava con tanta violenza e furia sull'apparato per far avanzare i meccanismi, che scuoteva le case dalle loro fondamenta e portò via le torri di legno di fronte a queste con la sua forza. Durante la tempesta ha colpito dei mercenari greci che compresero l'opportunità per distruggere le opere romane, e l'hanno comunicato al loro generale, che l'ha approvata e ha ordinato i preparativi adeguati per l'impresa.

        - I soldati di diversi corpi gettarono fuoco sulle opere in tre punti separati. L'intero apparato era vecchio e facilmente infiammabile e il vento soffiava molto forte sulle torri e sui meccanismi, per cui le fiamme appiccate si diffondono velocemente, mentre gli sforzi dei romani per soccorrere e salvare le opere sono stati un compito difficile.

        - I difensori erano davvero così terrorizzati dallo scoppio che non riuscirono né a capire né a capire cosa stesse accadendo, ma per metà accecati dalle fiamme e dalle scintille che volarono in faccia e dal fumo denso, molti di loro cedettero e caddero, incapaci di ottenere abbastanza vicino per combattere l'attuale conflagrazione. Le difficoltà che il nemico incontrò per queste varie ragioni furono immense, mentre gli sforzi degli incendiari furono opportunamente facilitati.

        - Tutto ciò che poteva accecare o ferire il nemico veniva dato alle fiamme e spinto contro di loro, missili e altri oggetti scagliati o scaricati per ferire i soccorritori o per distruggere le opere facilmente mirabili perché i lanciatori potevano vedere di fronte a loro, mentre i colpi erano più efficace poiché il forte vento ha dato loro una forza aggiuntiva. Alla fine la completezza della distruzione fu tale che le basi delle torri e le poste che sostenevano gli arieti furono rese inutili dal fuoco.

        - Dopo ciò i romani rinunciarono al tentativo di condurre l'assedio per opera, scavando una trincea ed erigendo una palizzata in tutta la città, costruendo allo stesso tempo un muro attorno al proprio accampamento, lasciarono il risultato al tempo. Ma il presidio di Lilybaeum ricostruì le parti cadute del muro e ora attendeva con fiducia il problema dell'assedio.



        ROMA INVIA NUOVA FLOTTA

        - Alla notizia che raggiunse Roma, e in cui veniva riferito da vari quartieri che la maggior parte degli equipaggi della loro flotta erano morti nei lavori o nelle operazioni di assedio in generale, si misero in procinto di arruolare attivamente marinai e quando si erano raccolti diecimila li spedirono in Sicilia.

        - Questi rinforzi furono trasportati sullo Stretto e da lì proseguirono a piedi verso il campo, dove al loro arrivo il Console Romano, Publio Claudio Pulcher, convocò una riunione dei Tribuni e disse loro che era giunto il momento di attaccare Drepana con l'intera flotta.

        Il generale cartaginese Adherbal che comandava lì era, disse, impreparato a tale contingenza, poiché ignorava l'arrivo degli equipaggi e convinto che la loro flotta non fosse in grado di prendere il mare a causa della pesante perdita di uomini durante l'assedio.

        - Sui Tribuni prontamente consenziente, imbarcò subito gli ex equipaggi e i nuovi arrivati ​​e scelse per marinai i migliori uomini dell'intero esercito, che si offrirono prontamente di volontariato poiché il viaggio era breve ma la prospettiva del bottino sembrava certa. Dopo aver fatto questi preparativi, si mise in mare verso mezzanotte senza essere osservato dal nemico, e dapprima navigò in stretto ordine con la terra alla sua destra.

        - All'alba quando le navi principali vennero in vista navigando su Drepana, Adherbal fu inizialmente sorpreso dalla vista inaspettata, ma presto recuperando la sua compostezza e comprendendo che il nemico era arrivato all'attacco, decise di fare ogni sforzo e incorrere in ogni sacrificio piuttosto che esporsi alla certezza di un blocco. Lui stesso raccolse immediatamente gli equipaggi sulla spiaggia e convocò per grido i mercenari della città.



        REAZIONE CARTEGINESE

        - Dopo essere stato riunito, ha cercato in poche parole di impressionare nelle loro menti la prospettiva della vittoria se avessero rischiato una battaglia, e le difficoltà di un assedio avrebbero dovuto ritardare ora che prevedevano chiaramente il pericolo. Il loro spirito per la lotta fu prontamente suscitato e, quando lo chiesero di guidarli e di non indugiare, li ringraziò, lodò il loro zelo e poi ordinò loro di salire subito a bordo, tenendo gli occhi sulla sua nave, seguire sulla sua scia.

        - Dopo aver reso questi ordini abbastanza chiari, prese rapidamente peso e prese il comando, chiudendo la sua uscita sotto gli scogli sul lato opposto del porto da quello in cui i romani stavano entrando. Publio, il comandante romano, si aspettava che il nemico avrebbe ceduto e sarebbe stato intimidito dal suo attacco, ma quando vide che al contrario intendevano combatterlo, e che la sua flotta era in parte all'interno del porto, in parte al proprio in bocca, e in parte ancora salpando per entrare, ordinò a tutti di mettersi in moto e di risalire.

        - Sulle navi già nel porto che impattavano quelle che stavano entrando a causa della loro svolta improvvisa non c'era solo grande confusione tra gli uomini, ma le navi avevano le lame dei loro remi quando entrarono in collisione.  I capitani, tuttavia, portando le navi mentre sguazzavano nel porto, le attirarono presto vicino alla riva con le loro prue verso il nemico.

        - Lo stesso Publio fin dall'inizio aveva sollevato la parte posteriore dell'intera flotta, e ora virando verso il mare senza fermare la rotta, prese posizione all'estrema sinistra. Allo stesso tempo, Adherbal, superando la sinistra del nemico con cinque navi a becco, posizionò la propria nave di fronte al nemico dalla direzione del mare aperto.

        - Mentre le altre navi salivano e si univano allineandole, ordinò loro dai suoi ufficiali di personale di mettersi nella stessa posizione della sua, e quando tutti presentarono un fronte unito diede il segnale di avanzare che era stato concordato e inizialmente si misero in fila sui romani, che si tenevano vicini alla riva in attesa di quelle delle loro navi che stavano tornando dal porto. Questa posizione da vicino a terra li ha messi in grande svantaggio nell'impegno. Quando le due flotte si avvicinarono, i segnali per la battaglia furono sollevati su entrambi gli ammiragli e si chiusero.

        - Inizialmente la battaglia fu equamente bilanciata, poiché i marinai di entrambe le flotte erano i migliori uomini delle loro forze di terra; ma i Cartaginesi iniziarono gradualmente a trarne il meglio poiché avevano molti vantaggi durante l'intera lotta. Superarono di gran lunga i romani in velocità, grazie alla costruzione superiore delle loro navi e al miglior addestramento dei rematori, poiché avevano liberamente sviluppato la loro linea in mare aperto.



        LA SCONFITTA ROMANA

        - Perché se una delle navi si trovava a dura prova dal nemico, era facile per loro a causa della loro velocità di ritirarsi in sicurezza in mare aperto e da lì, andando in giro sulle navi che inseguivano e cadevano su di esse, si mettevano alle loro spalle o li attaccò sul fianco e, quando il nemico dovette quindi voltarsi e trovarsi in difficoltà a causa del peso degli scafi e della scarsa abilità armata degli equipaggi, li speronarono ripetutamente e affondarono molti.

        - Ancora una volta, se un'altra delle loro navi era in pericolo, erano pronte a fornire assistenza in perfetta sicurezza a se stesse, poiché erano fuori pericolo immediato e potevano navigare in acque libere oltre le poppe della loro stessa linea. Tuttavia, era esattamente l'opposto dei romani. Coloro che erano in difficoltà non potevano ritirarsi all'indietro, mentre stavano combattendo vicino alla terra, e le navi, fortemente spinte dal nemico di fronte, o correvano sulle pozze più profonde in primo luogo o si dirigevano verso la riva e si erano messe a terra.

        - Navigare da un lato attraverso la linea nemica e poi apparire a poppa di quelle navi che erano impegnate con altre (una delle manovre più efficaci nella guerra navale) era impossibile a causa del peso delle navi e dei loro equipaggi mancanza di abilità. Né potevano più dare assistenza dove era richiesto da poppa, poiché erano circondati vicino alla riva, e non era rimasto nemmeno un piccolo spazio per coloro che desideravano venire in soccorso dei loro compagni in difficoltà.

        - Essendo tale la loro difficile posizione in ogni parte della battaglia, e alcune delle navi che affondavano nelle secche mentre altre correvano a riva, il comandante romano, quando vide ciò che stava accadendo, prese il volo, scivolando a sinistra lungo la riva, accompagnato da una trentina di navi più vicine a lui. Il resto, novantatré in numero, fu catturato dai Cartaginesi, compresi i loro equipaggi, con l'eccezione di quegli uomini che erano a bordo delle loro navi e se ne andarono.



        PUBLIO E' PROCESSATO E MULTATO A ROMA

        - A seguito della battaglia, Adherbal ottenne un'alta reputazione a Cartagine, il successo era considerato dovuto alla sua lungimiranza e audacia. Publio, al contrario, cadde in cattiva reputazione tra i romani, e ci fu una grande protesta contro di lui per aver agito in modo avventato e inconsapevole e fatto tutto ciò che un solo uomo poteva portare a un grande disastro su Roma. Di conseguenza fu successivamente processato, condannato a una multa pesante e fuggì per un pelo con la sua vita.

        - Eppure i romani erano così determinati a portare l'intera lotta a una questione di successo, che, nonostante questo contrario, non lasciarono nulla di ciò che era in loro potere e si prepararono a continuare la campagna. Il tempo delle elezioni era ormai alle porte e, di conseguenza, quando furono nominati i nuovi consoli, ne spedirono uno, Lucio Giunio Pullus, con provviste per gli assedianti di Lilybaeum ed equipaggiando sessanta navi per agire come un convoglio per lui.



        NUOVA FLOTTA ROMANA

        - Giunio, giunto a Messene e raggiunto dalle navi di Lilybaeum e del resto della Sicilia, costeggiò a tutta velocità fino a Siracusa, portando ora centoventi navi e le provviste in circa ottocento trasporti. Lì affidò metà dei trasporti e alcune delle navi da guerra ai Questori e li inviò, poiché era ansioso di far trasmettere loro immediatamente ciò che le truppe gli avevano richiesto.

        - Lui stesso rimase a Siracusa aspettando le navi che erano state lasciate indietro nel viaggio da Messene e procurando provviste aggiuntive e grano dagli alleati all'interno.
        All'incirca nello stesso periodo in cui Adherbal mandò i prigionieri dalla battaglia navale e le navi catturate a Cartagine, e dando a Carthalo il suo collega trenta navi in ​​aggiunta alle settanta con cui era arrivato, lo mandò con l'ordine di fare una discesa improvvisa sul nemico, le navi ormeggiate vicino a Lilybaeum catturano tutto ciò che poteva e davano fuoco agli altri.

        - Quando Carthalo, agendo su questi ordini, fece l'attacco all'alba e iniziò a bruciare alcune navi e portarne via altre, nel campo romano si verificò una grande confusione. Poiché mentre si affrettavano a salvare le navi con grida fragorose, Himilco, di guardia a Lilybaeum, le ascoltò e, mentre il giorno stava appena iniziando a rompersi, vide cosa stava succedendo e mandò i mercenari dalla città per attaccare i Romani.

        - I romani erano ora in pericolo da tutte le parti e in un piccolo o normale disagio. L'ammiraglio cartaginese, dopo essere partito con alcune navi e averne rotto altre, poco dopo lasciò Lilybaeum e dopo aver costeggiato per una certa distanza in direzione di Eraclea rimase in guardia, poiché il suo progetto era quello di intercettare le navi che erano sulle loro in modo da arruolarle nell'esercito.



        ARRIVANO I SOCCORSI

        - Quando i suoi uomini di guardia hanno riferito che un numero considerevole di navi di ogni varietà si stavano avvicinando e senza grande distanza, si è messo sotto peso e ha navigato verso di loro desideroso di coinvolgerli, poiché dopo il recente successo aveva un grande disprezzo per i romani.

        - L'approccio del nemico è stato anche annunciato dalle barche leggere che di solito navigano di fronte a una flotta ai Questori che erano stati inviati in anticipo da Siracusa. Considerandosi non abbastanza forti da accettare una battaglia, si ancorarono al largo di una certa piccola città fortificata soggetta ai romani, che in realtà non aveva un porto, ma una rada chiusa dai promontori che sporgevano dalla terra in un modo che la rendeva più o meno ancoraggio sicuro.

        - Qui sbarcarono e allestendo le catapulte acquistate dalla fortezza, attesero l'attacco del nemico. I Cartaginesi sul loro approccio all'inizio pensarono di assediarli, supponendo che gli equipaggi avrebbero avuto paura e si sarebbero ritirati in città, e che si sarebbero quindi facilmente impossessati delle navi; ma quando le loro speranze non furono realizzate, il nemico al contrario fece una forte difesa e la situazione del luogo presentava molte difficoltà di ogni tipo, portarono via alcune delle navi cariche di provviste e salparono verso un certo fiume dove si ancorarono e attesero che i romani si rimettessero in mare.

        - Il Console, che era rimasto a Siracusa, quando aveva concluso la sua attività lì, girò attorno a Capo Pachynus e salpò in direzione di Lilybaeum, ignorando completamente ciò che era accaduto alla forza avanzata. L'ammiraglio cartaginese, quando i suoi avvistamenti riferirono nuovamente che il nemico era in vista, si mise in mare e navigò con tutta fretta, mentre desiderava impegnarli a una distanza quanto più grande possibile dalle loro stesse navi.



        LA FLOTTA ROMANA E' DISTRUTTA DALLA TEMPESTA

        - Giunio aveva avvistato la flotta cartaginese da un po 'di tempo e aveva notato il numero delle loro navi, ma non aveva il coraggio di ingaggiarle né poteva sfuggirle, dato che erano così vicine. Quindi diresse la sua rotta verso una parte della costa accidentata e in ogni modo pericolosa e vi si ancorò, pensando che, qualunque cosa gli fosse accaduta, sarebbe stato preferibile a tutta la sua forza di navi e uomini che cadevano nelle mani del nemico.

        - L'ammiraglio cartaginese, vedendo quello che aveva fatto Giunio, decise di non correre il rischio di avvicinarsi a una costa così pericolosa, ma, guadagnandosi un certo capo e ancorandolo, rimase in all'erta tra le due flotte, tenendo d'occhio entrambi. Quando il tempo è diventato tempestoso e sono stati minacciati da una forte tempesta dal mare aperto, i capitani cartaginesi che erano a conoscenza della località e dei segni meteorologici, e hanno previsto e profetizzato ciò che stava per accadere, hanno convinto Carthalo a sfuggire al tempesta circumnavigando Capo Pachynus.

        - Acconsentì molto saggiamente e con grande fatica riuscirono a aggirare il capo e ancorare in una posizione sicura. Ma le due flotte romane, catturate dalla tempesta e la costa che non offriva alcun riparo, furono così completamente distrutte che neppure i relitti andarono bene per nulla. In questo modo imprevisto, quindi, i romani avevano disabilitato entrambe le flotte.

        - A causa di questo avvenimento le speranze dei Cartaginesi risalirono di nuovo, e sembrò loro che la fortuna della guerra fosse incline a loro favore, mentre i Romani, al contrario, che in precedenza erano stati in una certa misura sfortunati ma non si erano mai incontrati un disastro così completo,  abbandonarono il mare, pur continuando a mantenere la propria presa sul paese.



        CARTAGINESI PADRONI DEL MARE

        - I Cartaginesi erano ora padroni del mare e non speravano di riconquistare la loro posizione sulla terra. Successivamente, sebbene tutti, sia a Roma che nell'esercito di Lilybaeum, continuarono a lamentare tutta la loro situazione dopo queste recenti sconfitte, ma non abbandonarono il loro scopo di perseguire l'assedio, il governo non esitò a inviare rifornimenti via terra, gli assedianti mantenendo così l'investimento nel miglior modo possibile.

        - Giunio, tornando all'esercito dopo il naufragio in uno stato di grande afflizione, si mise a escogitare qualche passo nuovo e originale che sarebbe stato utile, essendo più ansioso di rimediare alla perdita causata dal disastro. Pertanto, con un leggero pretesto che si offriva, sorprese e occupò Eryx, possedendo entrambi il tempio di Venere e della città.



        CONQUISTA DI ERICE

        - Eryx è una montagna sul mare da quella parte della Sicilia che guarda verso l'Italia. Si trova tra Drepana e Panormus, o piuttosto è adiacente a Drepana, ai confini, ed è molto la montagna più grande della Sicilia dopo l'Etna. Sulla sua sommità, che è piatta, si erge il tempio di Venere Erycina, che è indiscutibilmente il primo in ricchezza e magnificenza generale di tutti i luoghi santi siciliani.

        - La città si estende lungo la collina sotto la vetta attuale, la salita è molto lunga e ripida su tutti i lati. Presidiò la vetta e anche l'approccio di Drepana, e custodì gelosamente entrambe queste posizioni, specialmente quest'ultima, nella convinzione che in questo modo avrebbe tenuto saldamente la città e l'intera montagna.



        ANNIBALE BARCA

        - I Cartaginesi poco dopo nominarono Amilcare soprannominato Barcas al comando e gli affidarono le operazioni navali. Cominciò con la flotta a devastare la costa italiana (questo, dovrei dire, era nel diciottesimo anno di guerra) e dopo aver distrutto Locris e Bruttii abbandonarono quelle parti e scesero con tutta la loro flotta sul territorio di Panormus.

        - Qui si impadronì di un posto chiamato Hercte che giaceva vicino al mare tra Eryx e Panormus e pensò di possedere particolari vantaggi per la permanenza sicura e prolungata di un esercito. È una brusca collina che sale a una notevole altezza dalla pianura circostante. La circonferenza della sua fronte non è inferiore a cento stadi e l'altopiano all'interno offre un buon pascolo ed è adatto per la coltivazione, essendo anche favorevolmente esposto alla brezza marina e abbastanza libero da animali pericolosi per la vita.

        - Sul lato che guarda al mare e su quello che si affaccia all'interno dell'isola, questo altopiano è circondato da scogliere inaccessibili, mentre le parti intermedie richiedono solo un leggero rinforzo. C'è anche una collinetta che serve per un'acropoli e per un eccellente posto di osservazione sul paese ai piedi della collina. Inoltre, Hercte comanda un porto molto ben posizionato per le navi che effettuano il viaggio da Drepana e Lilybaeum verso l'Italia per effettuare il rifornimento e con un'abbondante riserva d'acqua.

        - La collina ha solo tre approcci, tutti difficili, due sul lato terra e uno dal mare. Qui Amilcare stabilì i suoi alloggi, in effetti a grande rischio, dal momento che non aveva né il sostegno di nessuna delle loro città né alcuna prospettiva di sostegno da altrove, ma si era gettato in mezzo al nemico. Nonostante ciò, il pericolo a cui mise i romani e i combattimenti a cui li costrinse non erano affatto lievi o insignificanti.



        LA DEVASTAZIONE DELLE COSTE CAMPANE

        - Perché in primo luogo sarebbe salpato con la sua flotta da questo posto, e avrebbe devastato la costa italiana fino a Cuma, e successivamente, dopo che i romani avessero preso una posizione sulla terra davanti alla città di Panormus e in un distanza di circa cinque stadi dal suo stesso campo, li molestò consegnando durante quasi tre anni attacchi costanti e variamente inventati via terra. Questi combattimenti non sono in grado di descrivere in dettaglio qui.

        - Come in un incontro di boxe in cui due campioni, entrambi distinti per il tiro e entrambi in perfetto allenamento, si incontrano nella gara decisiva per il premio, erogando continuamente colpo per colpo, né i combattenti stessi né gli spettatori possono notare o anticipare ogni attacco o ogni colpo, ma è possibile, dall'azione generale di ciascuno, e dalla determinazione che ognuno mostra, per avere una buona idea delle rispettive abilità, forza e coraggio, così è stato con questi due generali.

        - Le cause o le modalità delle loro ambasciate, contro specifiche, tentativi e assalti quotidiani erano così numerose che nessuno scrittore poteva descriverle correttamente, mentre allo stesso tempo la narrazione sarebbe stata più noiosa e non redditizia per il lettore. È piuttosto attraverso una dichiarazione generale sui due uomini e il risultato dei loro sforzi rivali che può essere trasmessa una nozione di fatti.

        - Nulla è stato trascurato; né tattiche tradizionali né piani suggeriti dall'occasione e dalla reale pressione delle circostanze, né da quei colpi che dipendono da un'iniziativa audace e forte. Eppure c'erano diversi motivi per cui non è stato possibile ottenere un successo decisivo. Perché le forze di ogni parte erano uniformemente abbinate; le loro trincee erano così forti da essere ugualmente inavvicinabili, e i campi si trovavano a una distanza abbastanza piccola l'uno dall'altro, questa è la ragione principale per cui c'erano conflitti quotidiani in certi punti, ma nessun impegno decisivo.



        GRANDI STRATEGIE DA AMBO LE PARTI

        - Le perdite in questi combattimenti consistevano solo in coloro che caddero nei combattimenti corpo a corpo, mentre la parte che una volta cedeva era solita uscire immediatamente dal pericolo dietro le proprie difese, da cui avrebbero emesso di nuovo e ripreso il combattimento.

        - Ma la fortuna, tuttavia, come un buon arbitro, ha inaspettatamente spostato la scena e cambiato la natura del concorso, limitando entrambi in un campo più ristretto, dove la lotta è diventata ancora più disperata. I romani, come dicevo, avevano guarnigioni a Eryx sulla cima della montagna e ai piedi. Amilcare ora occupò la città che si trova tra la cima e il punto ai piedi dove si trovava il presidio.

        - La conseguenza di ciò fu che i romani sul vertice, una cosa che non si erano mai aspettati, rimasero assediati e in notevole pericolo, e che i Cartaginesi, sebbene poco credibili, mantennero la loro posizione sebbene il nemico li premesse da tutte le parti e il trasporto di rifornimenti non fu facile, poiché occupavano solo un posto sul mare e una sola strada che lo collegava.

        - Tuttavia, anche in questo caso entrambe le parti hanno impiegato tutti i dispositivi e gli sforzi richiesti dall'assedio: entrambi hanno sopportato ogni tipo di privazione ed entrambi hanno saggiato ogni mezzo di attacco e ogni varietà di azione.

        - Alla fine non, come dice Fabius Pictor, a causa della loro stanchezza e sofferenze, ma come due campioni non feriti e invincibili, hanno lasciato il sorteggio. Perché prima l'una o l'altra poteva avere la meglio sull'altra, sebbene la lotta in questo luogo fosse durata altri due anni, la guerra era stata decisa con altri mezzi.

        - Tale era quindi la condizione degli affari di Eryx e per quanto riguardava le forze di terra. Possiamo paragonare lo spirito mostrato da entrambi gli stati a quello dei galli selvatici impegnati in una lotta mortale. Perché spesso vediamo che quando questi uccelli hanno perso l'uso delle loro ali per sfinimento, il loro coraggio rimane più alto che mai e continuano a colpire colpo su colpo, fino a chiudersi involontariamente si stringono mortalmente a vicenda, e non appena questo accade l'uno o l'altro dei due cadrà presto morto.



        I ROMANI RIPENSANO ALLA FLOTTA

        - Così i romani e i cartaginesi, sfiniti dai loro sforzi a causa dei continui combattimenti, alla fine iniziarono a disperare, la loro forza paralizzata e le loro risorse esaurite da tasse e spese protratte. Ma, nonostante tutto, i romani, come se lottassero per la propria vita, anche se per quasi cinque anni si erano completamente ritirati dal mare a causa delle loro catastrofi e della loro convinzione che sarebbero stati in grado di decidere la guerra con l'aiuto delle loro le sole forze terrestri, ora, quando videro che principalmente a causa dell'azione coraggiosa del generale cartaginese non stavano facendo i progressi su cui avevano calcolato, decisero per la terza volta di corteggiare la prospettiva di usare le forze marittime.

        - Pensavano che questo corso, se non potevano che colpire un colpo mortale, era l'unico modo per portare la guerra a una conclusione favorevole. E questo alla fine hanno raggiunto. Stava cedendo ai colpi della fortuna che si erano ritirati dal mare nella prima occasione; la seconda volta era a causa della loro sconfitta a Drepana, ma ora hanno fatto questo terzo tentativo, e attraverso di esso, ottenendo una vittoria e tagliando le scorte dal mare dell'esercito cartaginese ad Eryx, hanno messo fine a tutto guerra.



        IL POPOLO ROMANO PAGA LE NAVI

        - Il tentativo era davvero della natura di una lotta per l'esistenza. Perché non c'erano fondi nel tesoro pubblico per questo scopo; ma tuttavia, grazie allo spirito patriottico e generoso dei principali cittadini, è stato trovato abbastanza per realizzare il progetto; poiché uno, due o tre di loro, secondo i loro mezzi, si impegnavano a fornire un quinquereme pienamente attrezzato sulla comprensione che sarebbero stati rimborsati se tutto fosse andato per il verso giusto.

        - In questo modo si preparò rapidamente una flotta di duecento quinquereme, tutti costruiti sul modello della nave "Rhodian's". Hanno quindi nominato Gaius Lutatius al comando e lo hanno inviato all'inizio dell'estate. Improvvisamente apparso al largo della costa siciliana, si impadronì del porto di Drepana e delle banchine vicino a Lilybaeum, tutta la marina cartaginese si ritirò nel loro paese.

        - Prima di tutto costruì opere intorno alla città di Drepana e fece tutti i preparativi per il suo assedio, ma mentre continuava a perseguirlo con ogni mezzo in suo potere, previde che la flotta cartaginese sarebbe arrivata, e non dimenticava il motivo originale di la spedizione, la convinzione che solo con una battaglia navale la guerra potesse essere definitivamente conclusa.

        - Quindi, non ha permesso che il tempo passasse inutilmente e pigramente, ma ogni giorno è stato speso nell'esercizio e nella pratica degli equipaggi correttamente per questo scopo. Inoltre prestò incessante attenzione alla questione del buon cibo e delle bevande, in modo che in brevissimo tempo portò i suoi marinai in perfette condizioni per la battaglia prevista.

        - Quando l'inaspettata notizia raggiunse Cartagine che i romani erano in mare con una flotta e stavano di nuovo contestando la supremazia navale, immediatamente prepararono le loro navi, e riempendole di grano e altre provviste, spedirono la loro flotta sulla sua commissione, desiderando che le truppe di Eryx non dovessero aver bisogno delle scorte necessarie.



        HANNO

        - Hanno, che avevano designato per comandare la forza navale, salpò e raggiunse la cosiddetta Isola Santa da dove aveva progettato di attraversare il prima possibile a Eryx, inosservato dal nemico, e, dopo aver alleggerito le navi sbarcando le provviste, per imbarcare come marinai i mercenari più qualificati insieme a Barcas stesso e quindi ingaggiare il nemico.

        - Lutazio, venendo a conoscenza dell'arrivo di Hanno e divinando le sue intenzioni, prese a bordo una forza raccolta dall'esercito e salpò per l'isola di Egusa che si trova al largo di Giglio. Lì, dopo aver esortato le sue truppe come divenne l'occasione, informò i capitani che la battaglia avrebbe avuto luogo il giorno successivo.

        - Al mattino presto, proprio mentre il giorno stava per scoppiare, vide che una forte brezza si stava abbattendo favorevolmente sul nemico, ma che era diventato difficile per se stesso alzarsi contro il vento, anche perché il mare era troppo pesante e agitato.



        ATTACCARE CON LA BURRASCA

        - All'inizio esitò molto su cosa fare in quelle circostanze, ma rifletté che se avesse rischiato un attacco ora che il tempo era burrascoso, avrebbe combattuto contro Hanno e le forze navali da solo e anche contro navi pesantemente caricate, mentre se avesse aspettato il tempo calmo e con il suo ritardo ha permesso al nemico di attraversare e unirsi all'esercito, avrebbe dovuto affrontare le navi ora alleggerite e gestibili, nonché la scelta delle forze di terra e soprattutto il coraggio di Amilcare che era ciò che temevano di più in quel tempo.

        - Decise quindi di non lasciarsi sfuggire l'occasione attuale. Quando vide le navi cartaginesi a vele spiegate, fu subito sotto peso. Mentre i suoi equipaggi riuscivano facilmente a dominare le onde grazie al loro buon addestramento, presto portò la sua flotta in una sola linea con le loro prue verso il nemico.

        - I Cartaginesi, vedendo che i Romani stavano intercettando la loro traversata, abbassarono gli alberi e si incoraggiarono a vicenda in ogni nave chiusa con il nemico. Poiché l'equipaggiamento di ogni forza era esattamente il contrario di quello che era stato nella battaglia di Drepana, il risultato fu naturalmente anche il contrario di ciascuno.



        LA VITTORIA ROMANA

        - I romani avevano riformato il loro sistema di costruzione navale e avevano anche messo a terra tutto il materiale pesante tranne ciò che era richiesto per la battaglia; i loro equipaggi prestarono un servizio eccellente, poiché il loro addestramento li aveva messi bene insieme, e i marinai che avevano erano uomini scelti dall'esercito per la loro fermezza. Con i Cartaginesi era esattamente il contrario.

        - Le loro navi, essendo state caricate, non erano in condizioni utili per la battaglia, mentre gli equipaggi non erano abbastanza addestrati, ed erano stati imbarcati per l'emergenza, e i loro marinai erano prelievi recenti la cui prima esperienza era con il minimo disagio e pericolo. Il fatto è che, poiché non si erano mai aspettati che i romani disputassero di nuovo il mare con loro, avevano disprezzato la loro forza navale.

        - In modo che subito dopo essersi ingaggiati ebbero la peggio in molte parti della battaglia e furono presto messi in rotta, cinquanta navi furono affondate e settanta catturate con i loro equipaggi. Il resto sollevò gli alberi e trovò un bel vento tornò all'Isola Santa, molto fortunati nel vento che si era inaspettatamente girato e li aiutò proprio quando lo richiedevano. Per quanto riguarda il console romano, salpò per Lilybaeum con le legioni, e lì si occupò della cessione delle navi e degli uomini catturati, un affare di una certa entità, mentre i prigionieri fatti nella battaglia contavano quasi diecimila.

        - Anche dopo aver saputo di questa inattesa sconfitta i Cartaginesi, se si fossero lasciati guidare dalla passione e dall'ambizione, avrebbero prontamente continuato la guerra, ma quando si trattava di una questione di fantastici calcoli erano abbastanza perplessi. Per prima cosa non erano più in grado di inviare rifornimenti alle loro forze in Sicilia mentre il nemico comandava il mare, e se li abbandonavano e in qualche modo li tradivano, non avevano né altri uomini né altri leader con cui perseguire la guerra.



        LA RESA

        - Perciò mandarono immediatamente un messaggio a Barcas dandogli pieno potere per affrontare la situazione. Amilcare si comportava perfettamente come il capo buono e prudente che era. Finché c'era stata una ragionevole speranza nella situazione, non aveva lasciato alcun mezzo, per quanto pericoloso e avventuroso sembrasse, inattivo, e se mai c'era un generale che metteva alla prova in guerra ogni possibilità di successo, era lui. Ma ora che le fortune si erano invertite e non era rimasta alcuna ragionevole prospettiva di salvare le truppe sotto il suo comando, ha mostrato il suo buon senso pratico nel cedere alle circostanze e inviare un'ambasciata per curare la pace.

        - Secondo la nostra opinione, un generale dovrebbe essere qualificato per discernere sia quando è vittorioso che quando viene sconfitto. Lutazio acconsentì prontamente a negoziare, conscio com'era che i romani erano ormai sfiniti e indeboliti dalla guerra, e riuscì a porre fine alla contesa con un trattato più o meno come segue.
        "Ci sarà amicizia tra i Cartaginesi e i Romani alle seguenti condizioni se approvati dal popolo romano. I Cartaginesi per evacuare l'intera Sicilia e non per fare la guerra a Iero o portare armi contro i Siracusani o gli alleati dei Siracusani. I cartaginesi cedono ai romani tutti i prigionieri senza riscatto. I cartaginesi pagano ai romani con rate in vent'anni duemiladuecento talenti euboeani".

        - Ma quando questi termini furono riferiti a Roma, il popolo non accettò il trattato, ma inviò dieci commissari per esaminare la questione. Al loro arrivo non apportarono cambiamenti sostanziali nei termini, ma solo lievi modifiche che li rendevano più severi per Cartagine: poiché ridussero la metà del termine di pagamento, aggiunsero all'indennità mille talenti e chiesero l'evacuazione da parte dei Cartaginesi di tutte le isole che si trovano tra la Sicilia e l'Italia.

        - Tale fu quindi la fine della guerra tra Romani e Cartaginesi per il possesso della Sicilia, e tali furono i termini della pace. Era durato senza interruzione per ventiquattro anni ed è la guerra più lunga, ininterrotta e più grande che conosciamo. A parte tutte le altre battaglie e armamenti, le forze navali totali impegnate furono, come ho detto sopra, in un'occasione più di cinquecento quinqueremes e in una successiva quasi settecento.



        LE PERDITE

        - Inoltre i Romani persero in questa guerra circa settecento quinqueremes, compresi quelli che morirono nei naufragi, e i Cartaginesi circa cinquecento. In modo che coloro che si meravigliano delle grandi battaglie navali e delle grandi flotte di un Antigonus, un Tolomeo o un Demetrio, se sbaglio, indagando sulla storia di questa guerra, rimangano molto sorpresi dall'enorme portata delle operazioni.

        - Ancora una volta, se prendiamo in considerazione la differenza tra quinqueremes e triremi in cui i persiani hanno combattuto contro i greci e gli ateniesi e i lacedaemoni l'uno contro l'altro, scopriremo che nessuna forza di tale portata si è mai incontrata in mare. Ciò conferma l'affermazione che mi sono avventurato a fare all'inizio che il progresso dei romani non era dovuto al caso e non era involontario, come alcuni tra i greci scelgono di pensare, ma che istruendosi in così vaste e pericolose imprese era perfettamente naturale che non solo ottennero il coraggio di puntare al dominio universale, ma realizzarono il loro scopo.

        - Alcuni dei miei lettori si chiederanno quale possa essere il motivo per cui, ora che sono padroni del mondo e molto più impertinenti di prima, non potevano né manovrare così tante navi, né mettere in mare con flotte così grandi. Coloro che, tuttavia, ne sono perplessi, saranno in grado di comprendere chiaramente la ragione quando arriveremo a trattare con le loro istituzioni politiche, un argomento che non deve essere trattato per inciso dallo scrittore o seguito distrattamente dal lettore.

        - Offre uno spettacolo nobile e fino ad ora quasi del tutto non rivelato, a causa dell'incompetenza degli autori che lo hanno affrontato, alcuni dei quali hanno peccato per mancanza di conoscenza, mentre il resoconto dato da altri è carente in chiarezza e assolutamente non redditizio. Per quanto riguarda, tuttavia, la guerra di cui stiamo parlando, uno troverà il suo scopo e il suo perseguimento da parte dei due stati ugualmente caratterizzati da entrambe le parti dall'impresa, dallo spirito elevato e, soprattutto, dall'ambizione di supremazia.

        - Nel coraggio individuale, infatti, i romani erano di gran lunga superiori nel complesso, ma il generale a cui bisogna dare la palma sia per audacia che per genio è Amilcare chiamato Barcas, il vero padre di quell'Annibale che in seguito fece guerra ai romani.



        CONQUISTA DI FALERII

        - Poco dopo questo trattato accadde che entrambi gli stati si trovarono in circostanze particolarmente simili. Perché a Roma seguì la guerra civile contro i Falisci, ma ciò portò a una conclusione rapida e favorevole, prendendo Falerii in pochi giorni. Ma la guerra che i Cartaginesi dovettero affrontare non fu poco o spregevole, essendo contro i loro mercenari, i Numidi e quei libici che si unirono alla rivolta. In questa guerra hanno incontrato molti grandi pericoli e alla fine hanno rischiato di perdere non solo il loro territorio, ma anche la loro libertà e il suolo della loro città natale. 

        - Per diverse ragioni, penso che valga la pena soffermarmi su questa guerra e, secondo il piano che ho dichiarato all'inizio, per fornire una sintesi e una breve narrazione di essa. In primo luogo non si potrebbe indicare una migliore illustrazione della natura e del carattere di ciò che è volgarmente noto come una guerra senza verità rispetto alle circostanze di questa, e in secondo luogo si può vedere molto chiaramente da tutto ciò che è accaduto che tipo di pericoli quelli che impiegare forze mercenarie dovrebbe prevedere e prendere le prime precauzioni per evitare, così come in quella che sta la grande differenza di carattere tra un branco confuso di barbari e uomini che sono stati allevati in una comunità istruita, rispettosa della legge e civile. 



        LE CAUSE DELLA GUERRA TRA ROMANI E CARTAGINESI

        - Ma la cosa più importante è che dagli eventi di quel periodo si può avere un'idea delle cause della guerra di Annibale tra Romani e Cartaginesi. Poiché è ancora una questione di disputa, non solo tra gli storici, ma tra i combattenti, quali furono le vere cause di quest'ultima guerra, sarà utile agli studenti di storia se pongo davanti a loro la spiegazione più vicina alla verità.

        - È questo. Quando, subito dopo la conclusione del trattato, Barcas aveva trasferito le sue forze da Eryx a Lilybaeum, ha immediatamente rassegnato le dimissioni dal suo comando, e il comandante Gesco ha preso provvedimenti per inviare le truppe in Africa. Prevedendo che cosa sarebbe potuto accadere, li imbarazzò molto saggiamente in distacchi e a determinati intervalli per dare ai Cartaginesi il tempo di pagare loro gli arretrati al loro arrivo e di inviarli nei loro paesi prima che il prossimo lotto che attraversasse potesse essere catturato.

        - Tale era l'idea che Gesco aveva, e riuscì a spedire le truppe in questo modo, ma i Cartaginesi in parte perché, a causa del loro recente esborso, non erano molto ben pagati, e in parte perché erano convinti che i mercenari avrebbero lasciato, li hanno liberati di una parte dei loro arretrati, una volta raccolti tutti a Cartagine, li hanno trattenuti lì al loro arrivo in questa speranza, confinandoli in città.

        - Mentre commettevano frequenti offese sia di notte che di giorno, il governo in primo luogo, sospettoso del loro numero e del loro attuale spirito licenzioso, chiese ai loro ufficiali comandanti, fino a quando non furono presi accordi per pagarli per intero e quelli che erano ancora i dispersi erano arrivati, per ritirarli tutti in una città chiamata Sicca, ogni uomo riceveva uno statale d'oro per le spese urgenti.

        - Le truppe acconsentirono prontamente a lasciare la capitale, ma vollero lasciare lì il loro bagaglio, come avevano fatto in precedenza, pensando che sarebbero presto tornati per essere pagati. I Cartaginesi, tuttavia, avevano paura che, desiderando di stare con le loro mogli o i loro figli dopo la loro recente assenza prolungata, in molti casi avrebbero potuto rifiutare di lasciare Cartagine o, se lo avessero fatto, sarebbero tornati di nuovo dalle loro famiglie, così che lì non ci sarebbe alcuna diminuzione degli oltraggi in città.

        - In previsione quindi di ciò, hanno costretto gli uomini, molto contro la loro volontà e in un modo calcolato per causare molta offesa, a portare con sé il loro bagaglio. I mercenari, riuniti a Sicca, vivevano in modo libero e facile, non avendo goduto a lungo del rilassamento della disciplina e del tempo libero, le cose più pregiudizievoli per una forza cresciuta all'estero, e quasi sempre gli istigatori e le cause uniche di ammutinamento.



        LA RETRIBUZIONE DEI MERCENARI

        - Allo stesso tempo, poiché non avevano nient'altro da fare, alcuni di loro iniziarono a ricontrollare la retribuzione totale dovuta a loro, tutti a loro vantaggio, ed essendo arrivati ​​a un risultato più esorbitante, sostennero che questa era la somma che avrebbero dovuto chiedere dai Cartaginesi. Tutta la forza ha ricordato le promesse che i generali avevano fatto loro in situazioni critiche, e aveva grandi speranze e si aspettava davvero che il governo avrebbe corretto in tal modo il conto della somma guadagnata.

        - La conseguenza fu che quando la forza totale fu riunita a Sicca, e quando Hanno, che era allora comandante in capo dell'Africa, arrivò lì e non solo disse che era impossibile soddisfare le loro richieste e soddisfare le loro speranze, ma al contrario, tentando di soffermarsi sull'attuale pesante tassazione e sul disagio generale di Cartagine per indurli a rinunciare a una parte del loro salario stipulato, produsse immediatamente uno spirito di dissenso e sedizione e i soldati iniziarono a tenere incontri costanti, a volte di particolari nazioni e a volte generale.

        - Poiché non erano né tutti della stessa nazionalità né parlavano la stessa lingua, il campo era pieno di confusione e tumulto e di ciò che è noto come turbolenza. Infatti, la pratica cartaginese di impiegare truppe a noleggio di varie nazionalità è in effetti ben calcolata per impedire loro di combinarsi rapidamente in atti di insubordinazione o mancanza di rispetto nei confronti dei loro ufficiali, ma in caso di esplosione di rabbia o di voci diffamatorie o disaffezione è molto pregiudizievole per tutti gli sforzi per trasmettere loro la verità, per calmare le loro passioni o per mostrare agli ignoranti il ​​loro errore.

        - In effetti, tali forze, quando una volta suscitata la loro rabbia contro qualcuno, o diffamazione tra loro, non si accontentano della semplice malvagità umana, ma finiscono per diventare come bestie selvagge o uomini squilibrati, come accadde nel caso di specie. Alcune di queste truppe erano iberiche, alcuni celti, alcuni liguri e alcune delle isole Baleari; c'erano molte buone mezzosangue greche, per lo più disertori e schiavi, ma la maggior parte era costituita da libici. Era quindi impossibile riunirli e affrontarli come un corpo o farlo con qualsiasi altro mezzo; come ci si può aspettare che un generale conosca tutte le loro lingue? E di nuovo affrontarli attraverso diversi interpreti, ripetendo la stessa cosa quattro o cinque volte, era, se non altro, più impraticabile.

        - L'unico mezzo era di fare richieste o suppliche attraverso i loro ufficiali, mentre Hanno continuava a tentare nella presente occasione, e anche questi non capivano tutto ciò che veniva loro detto, o a volte, dopo essere sembrati d'accordo con il generale, si rivolgevano alle loro truppe in senso opposto o dall'ignoranza o dalla malizia. La conseguenza fu che tutto era in uno stato di incertezza, sfiducia e confusione. Per prima cosa, pensavano che i Cartaginesi avessero agito di proposito nel non comunicare con loro attraverso i generali che conoscevano le loro esibizioni in Sicilia e che avevano fatto loro le promesse di doni, ma nel mandare qualcuno che non era stato presente in nessuno di quelli occasioni.



        LO STRAPOTERE DEI MERCENARI

        - Alla fine, quindi, rifiutando di trattare con Hanno, diffidando del tutto dai loro ufficiali di divisione, e fortemente indignati con i Cartaginesi, marciarono sulla capitale e si accamparono a una distanza di  circa centoventi stadi da Cartagine nel luogo chiamato Tunisi. Erano più di ventimila in numero.

        - Ora, quando non vi era alcun rimedio, fu portato a casa dai Cartaginesi quanto fossero stati ciechi. Perché avevano commesso due grandi errori. Il primo consisteva nel raccogliere in un posto così grande un corpo di mercenari mentre loro stessi non potevano sperare in nulla dal potere combattente della loro forza civile.

        - Il loro secondo errore fu ancora più grave: liberare dalle loro mani le donne e i figli dei mercenari e i loro beni mobili, tutti elementi che sarebbero serviti da ostaggi, dandosi maggiore sicurezza nelle loro deliberazioni sulle circostanze e garantendo una più favorevole accoglienza per le loro esigenze. Ancora adesso, nel loro allarme per le truppe che si accampavano così vicino, erano pronti a sopportare qualsiasi cosa nel loro entusiasmo per propiziarli, inviando scorte sontuose di provviste che vendevano loro a qualsiasi prezzo che scegliessero di pagare e spedendo costantemente gli inviati dal Senato, promettendo di soddisfare tutte le loro richieste per quanto era in loro potere.

        - Questi aumentavano ogni giorno, i mercenari continuavano a inventare nuove rivendicazioni, acquisendo sicurezza mentre assistevano al terrore e alla codardia dei Cartaginesi e si convincevano nella loro arroganza, a causa del loro successo in Sicilia contro le legioni romane, che non solo i Cartaginesi, ma qualsiasi altra persona al mondo non li affronterebbe prontamente. Quando, quindi, i Cartaginesi avevano acconsentito alle loro richieste di retribuzione, fecero un ulteriore passo avanti e chiesero il valore dei cavalli che avevano perso.

        - Anche questo è stato concesso, per cui hanno sostenuto che avrebbero dovuto ottenere il valore delle razioni di grano a causa loro per un tempo considerevole al prezzo più alto che il grano aveva resistito durante la guerra. In breve, continuarono sempre a escogitare alcune nuove affermazioni, rimandando le cose in modo da rendere impossibile venire a patti, molti dei quali erano scontenti e ammutinati.

        Tuttavia, i Cartaginesi che promettono di concedere tutto ciò che è in loro potere, concordano di riferire i punti controversi a uno dei generali presenti in Sicilia. Ora ad Amilcare Barcas, con il quale avevano prestato servizio lì, erano mal disposti, pensando che fosse in gran parte colpa loro se erano stati offesi, poiché non si era mai presentato come inviato a loro e si credeva che avesse rassegnato le dimissioni volontariamente. Ma essendo molto favorevolmente propenso a Gesco, che era stato generale in Sicilia ed era stato molto attento a loro in altre questioni e in quello del loro trasporto, gli presentarono i punti controversi.



        IL GENERALE GESCO

        - Gesco, raggiungendo Tunisi via mare portando i soldi, inizialmente conferì privatamente agli ufficiali, e successivamente tenne riunioni delle truppe secondo le loro nazionalità. Li rimproverò per la loro condotta passata, tentò di illuminarli sul presente, ma soprattutto si soffermò sul futuro, implorandoli di mostrarsi ben disposti a coloro i cui salari erano stati dati fin dall'inizio. Alla fine ha proceduto al discarico dei loro arretrati, ripagando ciascuna nazionalità separatamente.

        - C'era un certo campano, uno schiavo romano in fuga, chiamato Spendio, un uomo di grande forza fisica e notevole coraggio in guerra. Aveva paura che il suo padrone venisse a reclamarlo, quando, se rinunciato, per legge romana sarebbe stato torturato e messo a morte. Perciò non esitò a nulla nel suo sforzo, sia con il discorso che con l'azione per interrompere i negoziati con i Cartaginesi.

        - Era supportato da un libico chiamato Mathos, che in effetti era un uomo libero e un membro della forza, ma aveva preso parte ai disordini in ritardo. Di conseguenza, temeva fortemente di essere scelto per sopportare tutta la penalità e quindi era d'accordo con Spendio. Prendendo da parte i libici, ha fatto notare loro che quando le altre nazioni sarebbero partite dai loro paesi dopo essere state ripagate, sarebbero state lasciate a sopportare l'intero peso dell'ira dei Cartaginesi, il cui oggetto sarebbe stato il castigo inflitto loro per terrorizzare tutti i loro soggetti libici.

        - Gli uomini furono presto stimolati da tali argomenti e, avvalendosi del sottile pretesto che Gesco mentre scaricava la loro retribuzione rimandò il risarcimento per i cavalli e il grano, tennero immediatamente una riunione. Quando Spendio e Mathos iniziarono a lamentarsi e accusare Gesco e i Cartaginesi, erano tutti orecchi e ascoltarono con grande attenzione, ma se qualcun altro si fece avanti per offrire un'opinione, non aspettarono nemmeno di scoprire se stava per parlare a favore di Spendio o contro di lui, ma subito lo lapidarono a morte.

        - I numeri degli ufficiali e dei privati ​​morirono così nei diversi incontri, e in effetti questa frase "Lapidatelo" fu l'unica che divenne comprensibile a tutte le diverse nazioni, a causa della frequenza dell'atto. Si comportavano così soprattutto quando tenevano le riunioni dopo il pasto mattutino in condizioni da ubriachi, così che nel momento in cui qualcuno chiamava "Lapidatelo", le pietre volavano da tutte le parti e così rapidamente che era impossibile per chiunque una volta si facesse avanti per affrontarli a fuggire. Poiché per questo motivo nessuno osò più esprimere un'opinione, nominarono Mathos e Spendius Generali.

        - Gesco vide quanto fosse completa la disorganizzazione e il pericolo, ma valorizzava più di ogni altra cosa l'interesse del suo paese e paventava che queste truppe diventassero completamente sorde a tutte le considerazioni sull'umanità, Cartagine sarebbe evidentemente in grave pericolo, ha insistito, con grande personale rischio, nei suoi sforzi concilianti, a volte conferendo privatamente con i loro ufficiali e altre volte convocando e rivolgendosi alle riunioni delle nazioni separate.



        GESCO PRIGIONIERO

        - I libici, tuttavia, non avevano ancora ricevuto la loro retribuzione e, ritenendola in ritardo, andarono da lui per chiederlo in modo molto insolente, quando Gesco, pensando di rimproverare la loro presunzione, disse loro di andare a chiedere a Mathos il loro "Generale" per esso. Ciò ha suscitato la loro rabbia a tal punto, che senza un attimo di ritardo hanno, prima di tutto, preso su quali soldi potevano mettere le mani e poi hanno arrestato Gesco e i Cartaginesi che erano con lui.

        - Per quanto riguarda Mathos e Spendius, pensando che il mezzo più rapido per dare alle fiamme la guerra sarebbe quello di commettere una violazione della legge o della buona fede, hanno cooperato agli eccessi del soldato, saccheggiando gli effetti personali e le casse del denaro dei Cartaginesi, e dopo aver sottoposto Gesco e quelli con lui allo sdegno di metterli in catene, li hanno affidati ai carcerieri.



        LA GUERRA LIBICA

        - Da quel momento in poi furono in guerra aperta con Cartagine, essendosi legati da alcuni giuramenti empi contrari ai principi riconosciuti da tutta l'umanità. Tale fu quindi l'origine e l'inizio della guerra contro i mercenari, generalmente nota come guerra libica. Mathos, avendo finora adempiuto al suo scopo, mandò immediatamente gli inviati alle città libiche esortandoli a colpire la libertà e implorando il loro sostegno e assistenza pratica. In seguito, quando quasi tutti i libici avevano accettato di unirsi alla rivolta contro Cartagine e avevano volontariamente contribuito alle truppe e ai rifornimenti, hanno diviso le loro forze in due e hanno intrapreso gli assedi di Utica e Hippacritae, poiché queste città avevano rifiutato di partecipare alla ribellione.

        - I Cartaginesi erano stati abituati a dipendere dalle loro forniture private dai prodotti del paese, le loro spese pubbliche per gli armamenti e il commissariato erano state coperte dalle entrate che derivavano dalla Libia e avevano sempre avuto l'abitudine di impiegare soldati assoldati. Al momento non solo si sono trovati privati ​​di tutte queste risorse in un colpo solo, ma le hanno effettivamente viste ritorte contro di loro.



        SCHIAVI DEI MERCENARI

        - Di conseguenza caddero in uno stato di totale depressione e sconforto, le cose si erano rivelate del tutto diverse da quanto si aspettavano. Perché erano stati molto consumati dalla lunga guerra continuata per la Sicilia, e avevano sperato che la pace avrebbe procurato loro un po' di riposo e un periodo di gratitudine di tranquillità, e ciò che accadde fu proprio il contrario, poiché ora erano minacciati dallo scoppio di un guerra più grande e più formidabile.

        - Nel primo caso stavano contestando il dominio della Sicilia con i romani, ma ora, con una guerra civile tra le mani, stavano per combattere per la propria esistenza e quella della loro città natale. Inoltre non avevano né una scorta sufficiente di armi, né una vera e propria marina, né il materiale rimasto per costruirne una, così tante erano state le battaglie in cui erano state impegnate in mare.

        - Non avevano nemmeno i mezzi per fornire rifornimenti e nemmeno una speranza di assistenza esterna da parte di amici o alleati. Così è stato ora che hanno capito fino in fondo quanto è grande la differenza tra una guerra contro uno stato straniero portato avanti dal mare e la discordia civile.

        - Dovevano principalmente ringraziare se stessi per tutte queste gravi sofferenze. Durante l'ex guerra si erano ritenuti ragionevolmente giustificati nel rendere il loro governo dei libici molto duro. Avevano preteso dai contadini, senza eccezioni, metà delle loro colture e avevano raddoppiato la tassazione dei cittadini senza consentire l'esenzione da qualsiasi imposta o addirittura un abbattimento parziale ai poveri.

        - Avevano applaudito e onorato non quei governatori che trattavano le persone con delicatezza e umanità, ma coloro che procurarono a Cartagine la maggior quantità di forniture e negozi e usarono le persone di campagna più duramente, ad esempio Hanno. La conseguenza fu che la popolazione maschile non aveva bisogno di incitamento alla rivolta - era sufficiente un semplice messaggero - mentre le donne, che erano state costantemente testimoni dell'arresto dei loro mariti e padri per mancato pagamento delle tasse, si legavano solennemente al giuramento in ogni città per non nascondere alcuno dei loro averi, e spogliarsi dei loro gioielli li ha aiutati a malincuore al fondo di guerra.

        - Mathos e Spendius erano così benestanti che non solo potevano pagare ai soldati i loro arretrati, poiché avevano promesso di incitarli all'ammutinamento, ma si trovavano dotati di ampi mezzi per una guerra protratta. Questo ci insegna che è la politica giusta non solo guardare al presente, ma guardare ancora più attentamente al futuro.



        IL GENERALE HANNO

        - Eppure, sebbene i Cartaginesi fossero in tali difficoltà, prima di tutto nominarono Hanno al comando, come aveva pensato, in una precedente occasione, portò a una conclusione soddisfacente le questioni relative a Ecatompylus in Libia; successivamente si occuparono di arruolare mercenari e di armare i cittadini di età militare.

        - Inoltre radunarono e prepararono la loro cavalleria civica e rimisero in sesto le navi che avevano lasciato, costituite da triremi, quinqueremes e il più grande dei loro navigatori. Nel frattempo Mathos, quando circa settantamila libici si erano uniti a lui, li divise in diverse forze con le quali mantenne senza molestie gli assedi di Utica e Hippacritae, assicurò il suo accampamento principale a Tunisi e quindi chiuse i cartaginesi da tutta la Libia.

        - Cartagine, dovrei spiegare, giace in un golfo, su un promontorio o in una penisola circondata principalmente dal mare e in parte da un lago. L'istmo che lo collega alla Libia ha una larghezza di circa venticinque stadi e sul lato di questo istmo che si affaccia sul mare, a poca distanza dalla capitale, si trova Utica, mentre Tunisi si trova sull'altro lato del lago. In modo che gli ammutinati, accampati ora come erano prima di entrambe queste città e quindi chiudendo Cartagine dalla terra, continuarono a minacciare la capitale stessa, comparendo davanti alle mura a volte di giorno e a volte di notte e creando il massimo terrore e confusione all'interno.



        LA GUERRA CONTRO I MERCENARI AMMUTINATI

        - Hanno agiva abbastanza bene in materia di allestimenti, il suo talento era in quella direzione, ma quando si trattava di scendere in campo con le sue forze, era un altro uomo. Non aveva idea di come avvalersi delle opportunità e generalmente mostrava un'intera mancanza di esperienza ed energia. Fu allora che, per quanto riguarda Utica, iniziò venendo in aiuto degli assediati e terrorizzando il nemico con la sua forte forza di elefanti, di cui non aveva meno di cento; ma quando, di conseguenza, ebbe la possibilità di ottenere un successo decisivo, fece un così scarso uso del suo vantaggio che portò quasi una catastrofe sugli assediati e su se stesso. 

        - Per aver portato da Cartagine catapulte, missili e tutti i requisiti per un assedio e accamparsi davanti alla città, ha intrapreso l'assalto del campo trincerato del nemico. Quando gli elefanti si fecero strada nell'accampamento, il nemico incapace di affrontare il peso del loro attacco lo evacuò. Molti di loro sono stati mutilati e uccisi dagli elefanti, ma quelli che sono fuggiti si sono radunati su una ripida collina ricoperta di sottobosco, facendo affidamento sulla sicurezza naturale della posizione. 

        - Annone era abituato a combattere con numidi e libici, che una volta perso continuano la fuga per due o tre giorni, cercando di allontanarsi il più possibile. Pensando poi, anche in questa occasione, che la guerra fosse finita e si fosse assicurato una vittoria completa, non prese alcuna precauzione per la sicurezza del suo esercito e campo, ma entrò in città e si occupò della cura della sua persona. 

        - I mercenari, che si erano radunati sulla collina, erano uomini istruiti nelle audaci tattiche di Barcas e abituati ai loro combattimenti in Sicilia per fare in un giorno ripetute soste seguite da nuovi attacchi. Al momento, vedendo che il generale era assente in città, mentre le truppe erano a loro agio a causa del loro successo e si allontanavano dal loro accampamento, si tirarono su e attaccarono il campo, mettendone molti alla spada e costringendo il resto per rifugiarsi ignominiosamente sotto le mura e alle porte. 

        - Catturarono tutto il bagaglio e tutta l'artiglieria degli assediati, che Annone aveva portato fuori città e aggiunto al proprio, mettendolo così nelle mani del nemico. Questa non fu l'unica occasione in cui agì in modo così negligente, ma pochi giorni dopo in un posto chiamato Gorza, quando il nemico si accampò di fronte a lui e, a causa della loro vicinanza, ebbe quattro occasioni di batterli, due volte in una battaglia campale e due volte in un attacco a sorpresa, si dice in ogni caso di averli buttati via per la sua incuria e mancanza di giudizio.



        IL RITORNO DI AMILCARE BARCA

        - I Cartaginesi, di conseguenza, vedendo che stava gestendo male le cose, di nuovo nominarono Amilcare Barcas al comando e lo mandarono in guerra immediatamente, dandogli settanta elefanti, tutti i mercenari aggiuntivi che erano stati in grado di raccogliere e i disertori dal nemico, oltre alle loro forze di cittadini, cavalieri e fanti, così che in tutto aveva circa diecimila uomini.

        - Amilcare, durante la sua prima spedizione, terrorizzò il nemico profittando dell'imprevisto dell'attacco, fiaccò il loro spirito, sollevando l'assedio di Utica e mostrandosi degno delle sue imprese passate e delle alte aspettative della popolazione. Ecco quello che realizzò in questa campagna. La striscia di terra che collega Cartagine con la Libia è una catena di colline di difficile accesso e con diversi passaggi verso il paese tagliata artificialmente da esso.

        - Mathos aveva posto delle guardie in tutti quei punti favorevoli al passaggio delle colline. Oltre a questo c'è un fiume chiamato Macaras che interrompe in alcuni punti l'accesso dalla città al paese. Questo fiume è per la maggior parte invalicabile a causa del volume d'acqua, e c'è solo un ponte, che anche Mathos aveva assicurato, costruendo una città alla sommità del ponte.

        - In modo che non solo fosse impossibile per i Cartaginesi raggiungere il paese con un esercito, ma non era nemmeno una cosa facile per le persone singole che desideravano superare per eludere la vigilanza del nemico. Amilcare, vedendo tutti questi ostacoli, dopo aver passato in rassegna ogni mezzo e ogni possibilità di superare questa difficoltà in un passaggio, pensò al seguente piano.

        - Aveva notato che quando il vento soffiava forte da alcune parti la foce del fiume si chiudeva e il passaggio divenne poco profondo proprio dove cade nel mare. Perciò preparò la sua forza a marciare fuori e, tenendo il suo progetto per sé, aspettò che ciò accadesse. Quando arrivò il momento giusto, partì da Cartagine di notte, e senza che nessuno se ne accorgesse, all'alba aveva portato il suo esercito nel luogo menzionato. Sia quelli in città che i nemici furono colti di sorpresa e Amilcare avanzò attraverso la pianura dirigendosi verso i guardiani del ponte.

        - Spendius, dopo aver appreso ciò che era accaduto, mise in moto le sue due forze per incontrarsi nella pianura e aiutarsi reciprocamente, quelle della città vicino al ponte erano non meno di diecimila e quelle di Utica di oltre quindicimila. Quando si sono visti l'un l'altro, pensando di aver catturato i Cartaginesi in una trappola tra loro, si sono esortati a vicenda con grida forti e hanno ingaggiato il nemico.



        LA VITTORIA DI AMILCARE

        - Amilcare stava avanzando nel seguente ordine. Di fronte c'erano gli elefanti, dopo di loro la cavalleria e le truppe armate leggere e infine le armate pesanti. Quando vide che il nemico lo stava attaccando in tali precipitazioni, ordinò a tutta la sua forza di affrontarsi. Ordinò a quelli davanti, dopo essersi guardati attorno, ritirarsi con tutta la velocità, e invertendo l'ordine di quelli che erano originariamente nella parte posteriore li dispiegò per attendere l'assalto del nemico.

        - I libici e i mercenari, pensando che i cartaginesi avessero paura di loro e si ritirassero, spezzarono i loro ranghi e si chiusero vigorosamente con loro. Ma quando la cavalleria, avvicinandosi alla linea degli opliti, si voltò di nuovo e affrontò i libici, mentre allo stesso tempo il resto dell'esercito cartaginese stava salendo, il nemico fu così sorpreso che si voltarono e fuggirono immediatamente dal panico- colpiti, nello stesso ordine e confusione in cui avevano avanzato.

        - Di conseguenza alcuni di loro entrarono in collisione con i loro compagni che avanzavano nella loro parte posteriore con effetto disastroso, causando la distruzione di se stessi e di quest'ultimo, ma il maggior numero fu calpestato a morte, la cavalleria e gli elefanti li attaccarono da vicino. Circa seimila libici e mercenari caddero e quasi duemila furono fatti prigionieri.

        - Il resto fuggì, alcuni in città vicino al ponte e altri nell'accampamento prima di Utica. Amilcare, con successo in questo modo, seguì da vicino il nemico in ritirata e prese d'assalto la città vicino al ponte, il nemico in essa disertò e volò a Tunisi. Successivamente attraversò il resto del paese, conquistando alcune città e prendendo altri per assalto. Ha così restituito un po' di fiducia e coraggio ai Cartaginesi, liberandoli in una misura dal loro precedente abbattimento.



        MATHOS E SPENDIO CAPI DEI RIBELLI

        - Mathos, da parte sua, continuò a perseguire l'assedio di Ippacrita, consigliando ad Autarito, il capo dei Galli e Spendio di molestare il nemico, tenendosi lontano dalle pianure a causa del numero della cavalleria e degli elefanti che si opponevano a loro ma che marciavano lungo il colline parallele ai Cartaginesi e discendenti su di loro ogni volta che si trovavano su un terreno difficile.

        - Mentre adottava questo piano, allo stesso tempo inviava messaggi ai Numidi e ai Libici, implorandoli di venire in suo aiuto e di non perdere la possibilità di ottenere la loro libertà. Spendio, portando con sé da Tunisi una forza di circa seimila uomini prelevati da tutte le tribù, avanzò lungo i pendii paralleli ai Cartaginesi. Aveva anche con sé Autaritus e i suoi Galli che contavano solo circa duemila, mentre il resto del corpo originale era stato abbandonato dai romani quando si era accampato vicino a Eryx.

        - Amilcare aveva stabilito il suo accampamento in una pianura circondata da montagne, e proprio in quel momento Spendio fu affiancato dai rinforzi numidi e libici. I Cartaginesi, trovando improvvisamente la forza aggiuntiva dei libici nella loro parte anteriore e quella dei Numidi nella loro parte posteriore, mentre Spendio era sul fianco, si trovavano in una situazione molto difficile, dalla quale non era facile districarsi.



        NARAVA IL NUMIDIO

        - C'era un certo Narava, un numidio di alto rango e pieno di spirito marziale. Aveva sempre avuto quell'attaccamento ai Cartaginesi che era tradizionale nella sua famiglia, e ora era rafforzato dalla sua ammirazione per Amilcare. Pensando che questa fosse un'opportunità favorevole per incontrare Hamilcar e presentarsi, salì al campo scortato da un centinaio di numidi. Avvicinandosi alla palizzata, rimase lì senza paura, facendo segnali con la mano.

        - Amilcare si chiese quale potesse essere il suo oggetto e mandò un cavaliere a incontrarlo, quando disse che desiderava un colloquio con il generale. Il leader cartaginese rimase ancora molto sorpreso e diffidente, Narava consegnò il suo cavallo e le lance ai suoi assistenti, e con grande audacia entrò nell'accampamento disarmato.

        - I Cartaginesi guardarono con ammirazione mista e stupore per la sua audacia, ma lo incontrarono e lo accolsero, e quando fu ammesso al colloquio, disse che desiderava il bene di tutti i Cartaginesi ma desiderava particolarmente l'amicizia di Barcas, e questo era il motivo era venuto per presentarsi e offrire la sua cordiale assistenza in tutte le azioni e le imprese. Amilcare, sentendo ciò, fu così felice del coraggio del giovane nel venire da lui e della sua semplice franchezza durante l'intervista che non solo acconsentì ad associarlo alle sue imprese, ma giurò di dargli sua figlia in matrimonio se fosse rimasto leale a Cartagine.



        AMILCARE E NAVARA ALLEATI

        - Dopo aver raggiunto l'accordo, Narava entrò con i Numidi al suo comando, circa duemila in numero, e Amilcare, così rafforzato, offrì battaglia a causa del nemico. Spendio, dopo aver effettuato un incrocio con i libici, scese nella pianura e attaccò i Cartaginesi. La battaglia fu ardua, ma si concluse con la vittoria di Amilcare, gli elefanti che combattevano bene e Narava che prestava servizio brillante.

        - Autarito e Spendio fuggirono, ma con la perdita di circa diecimila morti e quattromila prigionieri. Dopo la vittoria, Amilcare diede il permesso a quelli dei prigionieri che scelsero di unirsi al proprio esercito, armandoli con il bottino dei nemici caduti; quelli che non erano disposti a farlo, raccolse e si rivolse dicendo che fino a quel momento aveva perdonato i loro reati, e quindi erano liberi di andare per le loro vie, ovunque scelse ogni uomo, ma in futuro minacciò che se qualcuno di loro avesse portato armi contro Cartagine avrebbe se catturato incontra inevitabile punizione.

        - Più o meno nello stesso periodo i mercenari che presidiavano la Sardegna, emulata dalle gesta di Mathos e Spendio, attaccarono i Cartaginesi nell'isola. Cominciarono chiudendo la cittadella e mettendo a morte Bostar, il comandante del contingente straniero, e i suoi compatrioti.



        SARDEGNA LIBERA

        - Successivamente, quando i Cartaginesi mandarono Hanno al comando di una nuova forza, questa forza lo abbandonò e si unì agli ammutinati, che in seguito lo fecero prigioniero e immediatamente lo crocifissero. Dopo questo, escogitando i più raffinati tormenti, torturarono e uccisero tutti i Cartaginesi nell'isola, e quando avevano ottenuto tutte le città al loro potere continuarono a detenere il possesso forzato della Sardegna, fino a quando non litigarono con gli indigeni e furono cacciati da loro in Italia.

        - Così la Sardegna fu perduta dai Cartaginesi, un'isola di grande estensione, la più densamente popolata e la più fertile. La maggior parte degli autori lo ha descritto a lungo e non credo sia necessario ripetere dichiarazioni che nessuno contesta.



        L'INGANNO

        - Mathos e Spendius, così come la Gallia Autaritus, erano preoccupati dell'effetto della clemenza di Amilcare sui prigionieri, temendo che i libici e la maggior parte dei mercenari potessero così essere conquistati e affrettarsi a servirsi dell'immunità offerta. Si prefissero quindi di escogitare alcuni crimini infami che avrebbero reso più selvaggio l'odio delle truppe per Cartagine. Decisero di convocare un'assemblea generale e quindi presentarono un portatore di lettere che doveva essere stato inviato dai loro confederati in Sardegna. La lettera suggeriva loro di tenere attenta guardia su Gesco e su tutti gli altri che avevano, come sopra narrato, arrestati con tradimento a Tunisi, poiché alcune persone nel campo stavano negoziando con i Cartaginesi sulla loro liberazione.

        - Spendio, cogliendo questo pretesto, li implorò in primo luogo di non fare affidamento sulla clemenza segnalata dal generale cartaginese ai prigionieri. "Non è", ha detto, "con l'intenzione di salvare le loro vite che ha preso questo corso per quanto riguarda i suoi prigionieri, ma rilasciandoli progetta per portarci al suo potere, in modo che possa vendicarsi non su alcuni, ma su tutti noi che ci fidiamo di lui".

        - Inoltre, li ha avvertiti di prendersi cura di se stessi, rinunciando a Gesco e agli altri che incorrono nel disprezzo dei loro nemici e danneggiano gravemente la propria situazione, permettendo loro di sfuggire a un uomo così capace e un generale così buono, che sicuramente sarebbe diventato il loro nemico formidabile. Non aveva finito il suo discorso quando arrivò un altro posto che doveva essere di Tunisi con un messaggio simile a quello della Sardegna.

        - Autaritus il Gaul fu il prossimo oratore. Disse che l'unica speranza di salvezza per loro era abbandonare ogni dipendenza dai Cartaginesi. Chiunque continuasse a guardare avanti alla clemenza da parte loro non poteva essere un vero alleato per conto proprio. Pertanto ha chiesto loro di fidarsi di quelli, di dare ascolto a quelli, di occuparsi solo di coloro che portano le accuse più odiose e più aspre contro i Cartaginesi e di considerare i traduttori e nemici dall'altra parte.



        TORTURA E MORTE DI GESCO E ALTRI

        - Alla fine, raccomandò loro di torturare e di mettere a morte non solo Gesco e quelli arrestati con lui, ma tutti i Cartaginesi che in seguito avevano preso prigionieri. Era il più efficace oratore nei loro consigli, perché alcuni di loro potevano capirlo. Era da molto tempo al servizio e aveva imparato il fenicio, una lingua che era diventata più o meno gradevole alle loro orecchie a causa della lunghezza della guerra precedente. Il suo discorso ha quindi incontrato l'approvazione universale e si è ritirato dalla piattaforma in mezzo agli applausi.

        - Numerosi oratori di ogni nazionalità ora si sono fatti avanti tutti insieme, sostenendo che ai prigionieri dovrebbe essere risparmiata almeno l'inflizione della tortura in vista della precedente gentilezza di Gesco nei loro confronti. Nulla, tuttavia, hanno detto che fosse comprensibile, poiché stavano tutti parlando insieme e ciascuno affermando le proprie opinioni nella propria lingua.

        - Ma nel momento in cui è stato rivelato che stavano chiedendo la remissione della frase qualcuno tra il pubblico ha chiamato "Lapidateli", e hanno immediatamente lapidato tutti gli oratori a morte. Questi sfortunati, mutilati come da bestie selvagge, furono portati via per essere sepolti dai loro amici. Spendio e i suoi uomini uscirono quindi dal campo Gesco e dagli altri prigionieri, in tutto circa settecento.

        - Prendendoli a breve distanza, prima di tutto si tagliarono le mani, a cominciare da Gesco, proprio quel Gesco che poco tempo prima avevano selezionato da tutti i Cartaginesi, proclamandolo loro benefattore e riferendogli i punti controversi. Dopo aver tagliato le mani, tagliarono anche le altre estremità degli uomini miserabili, e dopo averle mutilate e spezzate le gambe, le gettarono ancora vive in una trincea.

        - I Cartaginesi, quando arrivarono le notizie di questo infelice evento, non poterono agire, ma la loro indignazione fu estrema, e nel calore di essa mandarono messaggeri ad Amilcare e il loro altro Generale Ann, implorandoli di venire e vendicare le sfortunate vittime. Agli assassini mandarono araldi chiedendo che i corpi potessero essere dati a loro. Non solo questa richiesta fu rifiutata, ma ai messaggeri fu detto di non mandare di nuovo né araldo né inviato, poiché chiunque fosse venuto avrebbe incontrato la stessa punizione che era appena caduta su Gesco.

        - Per quanto riguarda il trattamento dei prigionieri in futuro, gli ammutinati hanno approvato una risoluzione e si sono impegnati a torturare e uccidere tutti i Cartaginesi e rimandarli nella capitale con le mani tagliate via a ogni alleato di Cartagine, e questa pratica hanno continuato a osservare attentamente.



        LA MALVAGITA' UMANA

        Nessuno guardando questo avrebbe esitazione nel dire che non solo i corpi degli uomini e alcune delle ulcere e dei tumori che li affliggono diventano per così dire selvaggi e brutali e piuttosto incurabili, ma che ciò è vero in un grado molto più elevato delle loro anime. Nel caso delle ulcere, se le trattiamo, a volte sono infiammate dal trattamento stesso e si diffondono più rapidamente, mentre di nuovo se le trascuriamo continuano, in virtù della loro stessa natura, a mangiare nella carne e non riposano mai fino a quando non hanno completamente distrutto i tessuti sottostanti.

        - Allo stesso modo tali lignità maligne e ulcere putride spesso crescono nell'anima umana, che nessuna bestia diventa alla fine più malvagia o crudele dell'uomo. Nel caso di uomini in tale stato, se trattiamo la malattia con perdono e gentilezza, pensano che stiamo progettando di tradirli o ingannarli, e diventare più diffidenti e ostili ai loro potenziali benefattori, ma se al contrario, tentiamo di curare il male mediante ritorsioni che esercitano le loro passioni per sopravvivere alle nostre, fino a quando non c'è nulla di così abominevole o così atroce da non acconsentire a farlo, immaginando per tutto il tempo che stanno mostrando un bel coraggio.

        - Quindi alla fine sono completamente brutalizzati e non possono più essere chiamati esseri umani. Di tale condizione l'origine e la causa più potente risiedono nelle cattive maniere, nei costumi e nell'addestramento sbagliato fin dall'infanzia, ma ce ne sono diversi che contribuiscono, il principale dei quali è la violenza abituale e la mancanza di scrupoli da parte di coloro che detengono l'autorità su di essi. Tutte queste condizioni erano presenti in questa forza mercenaria nel suo insieme e specialmente nei loro capi.



        LITE TRA AMILCARE E HANNO

        - Questa disperazione del nemico rese ansioso Amilcare e supplicò Hanno di unirsi a lui, convinto che se entrambi gli eserciti si fossero uniti, una fine sarebbe stata messa prima all'intera guerra. Nel frattempo ha continuato a mettere alla spada quelli del nemico che erano stati conquistati sul campo, mentre quelli che gli avevano portato prigionieri, ha gettato agli elefanti per essere calpestato a morte, poiché gli era chiaro che la ribellione non sarebbe mai stata calpestata. fino a quando il nemico non fosse completamente sterminato.

        - Le prospettive dei Cartaginesi nella guerra ora sembravano molto più luminose, ma la marea degli eventi improvvisamente si voltò completamente contro di loro. Perché quando i due generali si incontrarono, litigarono così seriamente, che questa differenza li indusse non solo a trascurare molte opportunità di colpire un nemico, ma a permettersene molti di questi.

        - I Cartaginesi lo percepirono e ordinarono a uno dei due di lasciare il suo posto e l'altro di rimanere al comando esclusivo, lasciando la scelta alle truppe. Oltre a ciò subirono la totale perdita in mare in una tempesta, delle provviste che stavano trasportando dal luogo che chiamano Emporia, provviste su cui si affidavano interamente per il loro commissariato e altre necessità. E ancora, come ho detto sopra, avevano perso la Sardegna, un'isola che era sempre stata di grande aiuto per loro in circostanze difficili.



        NUOVO ECCIDIO DEI MERCENARI SUI CARTAGINESI

        - Il colpo più grave di tutti, tuttavia, fu la defezione di Ippacritae e Utica, le uniche due città in Libia che non solo avevano coraggiosamente affrontato la guerra attuale, ma avevano resistito eroicamente durante l'invasione di Agatocle e quella dei Romani; invero non avevano mai avuto il minimo segno di ostilità nei confronti di Cartagine. Ma ora, a parte la loro ingiustificabile defezione alla causa dei libici, le loro simpatie sono cambiate così all'improvviso, che hanno mostrato la più grande amicizia e lealtà ai ribelli, iniziando a mostrare ogni sintomo di odio appassionato e determinato di Cartagine.

        - Dopo aver massacrato le truppe che i Cartaginesi avevano inviato per aiutarli, circa cinquecento in numero, insieme al loro comandante, gettarono tutti i corpi dal muro e consegnarono la città ai libici. Non avrebbero nemmeno dato ai Cartaginesi il permesso di seppellire i loro sfortunati compatrioti. Nel frattempo, Mathos e Spendio, euforici di questi eventi, intrapresero l'assedio della stessa Cartagine.

        - A Barcas era stato ora unito il comando di Annibale, il generale che i cittadini avevano inviato all'esercito, con il voto dei soldati che Annone avrebbe dovuto ritirarsi, quando la decisione fu lasciata nelle mani dai Cartaginesi durante il due generali avevano litigato. Accompagnato poi da questo Annibale e da Naravas, Amilcare perlustrò il paese, intercettando le scorte di Mathos e Spendius, ricevendo la massima assistenza in questo e in tutte le altre questioni dal numida Narava.

        Queste erano le forze in campo.

        - I Cartaginesi, essendo rinchiusi da tutte le parti, furono costretti a ricorrere a un appello agli Stati in alleanza con loro. Hiero durante tutta la guerra attuale era stato il più rapido nel soddisfare le loro richieste, e ora era più compiacente che mai, essendo convinto che fosse nel suo interesse a garantire sia i suoi domini siciliani sia la sua amicizia con i romani, che Cartagine avrebbe dovuto essere preservato e che il potere più forte non dovrebbe essere in grado di raggiungere il suo ultimo oggetto senza sforzo.

        - In questo ragionò in modo molto saggio e ragionevole, poiché tali questioni non dovrebbero mai essere trascurate, e non dovremmo mai contribuire al raggiungimento da parte di uno stato di un potere così preponderante, che nessuno osa contestare neppure per i loro diritti riconosciuti. Ma ora i romani e Hiero osservavano lealmente gli impegni che il trattato imponeva loro. All'inizio c'era stata una leggera disputa tra i due stati per il seguente motivo.



        INTESA CON I ROMANI

        - I Cartaginesi quando catturarono in mare commercianti provenienti dall'Italia in Libia con rifornimenti per il nemico, li portarono a Cartagine, e ora ce n'erano nelle loro carceri ben cinquecento. I romani ne furono infastiditi, ma quando inviarono un'ambasciata, recuperarono tutti i prigionieri con mezzi diplomatici, furono così gratificati, che in cambio restituirono ai Cartaginesi tutti i rimanenti prigionieri della guerra siciliana e d'ora in poi diedero pronte e cortese attenzione a tutte le loro richieste.

        - Dettero il permesso ai loro commercianti di esportare tutti i requisiti per Cartagine, ma non per il nemico, e poco dopo, quando i mercenari in Sardegna in rivolta da Cartagine li invitarono ad occupare l'isola, rifiutarono. Ancora una volta i cittadini di Utica che si offrivano di arrendersi a loro non accettavano, ma si attenevano ai loro impegni di trattato. I Cartaginesi, quindi, ottenendo così assistenza dai loro amici continuarono a resistere all'assedio.

        - Ma Mathos e Spendio erano tanto nella posizione di assediati quanto di assedianti. Amilcare li aveva ridotti a tali stretti per rifornimenti che furono infine costretti a sollevare l'assedio. Poco tempo dopo, raccogliendo una forza selezionata di mercenari e libici al numero di circa cinquantamila e includendo Zarzas il libico e quelli sotto il suo comando, tentarono di nuovo il loro precedente piano di marciare in parallelo aperto con il nemico e sorvegliare su Amilcare.

        - Evitarono il terreno pianeggiante, poiché avevano paura degli elefanti e del cavallo di Narava, ma continuarono a cercare di anticipare il nemico occupando posizioni sulle colline e passaggi stretti. In questa campagna erano abbastanza uguali al nemico in termini di assalto e impresa, ma erano spesso penalizzati a causa della loro mancanza di abilità tattica.

        - Sembra che questa sia stata un'opportunità per vedere alla luce del fatto reale, quanto i metodi acquisiti dall'esperienza e l'abilità di un generale, differiscano dall'inesperienza di un soldato nell'arte della guerra e dalla semplice routine irragionevole. Infatti, in molti scontri parziali, Amilcare, come un buon tiratore, tagliando e circondando un gran numero di nemici, li distrusse senza resistere, mentre nelle battaglie più generali a volte infliggeva grandi perdite attirandoli in ambasciate insospettate e talvolta li gettano nel panico comparendo quando meno se l'aspettavano di giorno o di notte.



        I RIBELLI SI MANGIANO I CADAVERI

        - Tutti quelli che catturò furono gettati agli elefanti. Alla fine, cogliendoli di sorpresa e accampandosi di fronte a loro in una posizione sfavorevole all'azione da parte loro, ma favorendo il proprio punto di forza, la sua strategia li ha portati a un tale passaggio, che non osando rischiare una battaglia e incapace di fuggire, come erano interamente circondati da una trincea e da una palizzata, furono infine spinti dalla carestia a mangiarsi a vicenda, una giusta punizione da parte della Provvidenza per la loro violazione di tutta la legge umana e divina nel loro trattamento dei loro vicini.

        - Non si sono avventurati a marciare fuori e combattere, poiché si sono trovati di fronte alla certezza della sconfitta e condannati alla punizione per tutti i catturati, e non hanno nemmeno pensato di chiedere termini, poiché avevano le loro azioni malvagie sulla coscienza. Aspettandosi sempre il sollievo da Tunisi che i loro leader continuavano a promettere loro, non vi era alcun crimine contro se stessi che avessero scrupolo nel commettere.

        - Ma quando ebbero consumato i loro prigionieri in questo modo abominevole nutrendosi di loro, e avendo consumato i loro schiavi, e nessun aiuto veniva da Tunisi e i loro capi videro che le loro persone erano in evidente pericolo a causa della terribile estremità a cui i soldati comuni erano ridotti, Autaritus, Zarzas e Spendius decisero di arrendersi al nemico e discutere i termini con Amilcare.

        Mandarono quindi un araldo e quando ottennero il permesso di inviare gli inviati, andarono, dieci in tutto, ai Cartaginesi. I termini che Amilcare fece con loro erano che i Cartaginesi potevano scegliere dal nemico qualsiasi dieci desiderassero, il resto era libero di partire con una tunica a testa. Accetti questi termini, Amilcare disse subito che in virtù di essi aveva scelto i dieci inviati.



        LA SCELTA DEI DIECI

        In questo modo i Cartaginesi scelsero Autarito, Spendio e gli altri leader principali. I libici, quando vennero a sapere dell'arresto dei loro ufficiali, pensarono di essere stati traditi, poiché ignoravano il trattato e si precipitarono alle armi, più di quarantamila, ma Amilcare, che li circondava con i suoi elefanti e il resto di le sue forze, li fecero a pezzi. Ciò avvenne vicino al luogo chiamato Sega; ha preso questo nome dalla sua somiglianza con lo strumento così chiamato.

        - Grazie a questo risultato, Amilcare dette di nuovo speranza ai Cartaginesi di avere fortuna, anche se ormai si erano quasi arresi a perdere tutto. In collaborazione con Naravas e Annibale, fece irruzione nel paese e nelle sue città. I libici in generale cedettero e si avvicinarono a loro a causa della recente vittoria, e dopo aver ridotto la maggior parte delle città, i Cartaginesi raggiunsero Tunisi e iniziarono ad assediare Mathos.

        - Annibale si accampò sul lato della città accanto a Cartagine e Amilcare sul lato opposto. Il loro passo successivo fu di portare Spendio e gli altri prigionieri sulle pareti e crocifiggerli alla vista di tutti. Mathos notò che Annibale era colpevole di negligenza e eccessiva fiducia, e attaccando il suo accampamento, mise alla larga molti Cartaginesi e li portò fuori dal campo.



        TORTURA E MORTE DI ANNIBALE

        - Tutto il bagaglio cadde nelle mani dei ribelli e fecero prigioniero Annibale. Portandolo immediatamente alla croce di Spendio, lo torturarono crudelmente lì, e poi, portando Spendio giù dalla croce, crocifissero Annibale vivo su di esso e uccisero attorno al corpo di Spendio trenta Cartaginesi di alto rango.

        - Così la fortuna, come se fosse il suo disegno per confrontarli, ha dato sia ai belligeranti a loro volta la causa sia l'opportunità di infliggere reciprocamente le punizioni più crudeli. A causa della distanza tra i due accampamenti passò del tempo prima che Amilcare venisse a conoscenza della sortita e dell'attacco, e anche allora fu lento nel fornire assistenza a causa della difficile natura del terreno adiacente. Ha quindi rotto il suo accampamento prima di Tunisi e al raggiungimento del fiume Macaras, accampato alla sua foce dal mare.

        - L'improvvisa inversione di questo senso colse di sorpresa i Cartaginesi, che divennero di nuovo scoraggiati e di buon umore. Fu solo l'altro giorno che i loro spiriti avevano cominciato a rianimarsi, così caddero subito di nuovo. Eppure non hanno omesso di prendere provvedimenti per la loro sicurezza. 

        - Hanno nominato un comitato di trenta senatori e li hanno inviati ad Amilcare accompagnati da Hanno, il generale che in precedenza si era ritirato dal comando, ma ora lo hanno ripreso, e da tutti i restanti cittadini di età militare, che avevano armato come una sorta di speranza abbandonata. Hanno imposto a questi commissari di porre fine a tutti i mezzi in loro potere alla lunga disputa dei due generali, e di costringerli, alla luce delle circostanze, a riconciliarsi. 



        RICONCILIAZIONE TRA HANNO ED AMILCARE

        - I senatori, dopo aver riunito i generali, li sollecitarono con così tante e varie argomentazioni, che alla fine Annone e Barcas furono costretti a cedere e fare come avevano richiesto. Dopo la loro riconciliazione avevano una sola idea, e di conseguenza tutto andò come i Cartaginesi potevano desiderare, così che Mathos, senza successo nei numerosi impegni parziali che si svolsero intorno al luogo chiamato Leptis e in alcune altre città, alla fine decise di decidere per una battaglia generale, i Cartaginesi sono ugualmente ansiosi per questo. 

        - Entrambe le parti quindi, con questo scopo, invitarono tutti i loro alleati a unirsi a loro per la battaglia e convocarono nelle guarnigioni delle città, come se volessero mettere tutto in gioco sulla questione. Quando furono pronti ad attaccare, raddrizzarono gli eserciti uno di fronte all'altro e con un segnale preconcertato si chiusero. I Cartaginesi ottennero la vittoria, la maggior parte dei Libici cadde in battaglia, mentre il resto fuggì in una certa città e subito dopo si arrese, ma lo stesso Mathos fu preso dal nemico.

        - Il resto della Libia si sottomise subito a Cartagine dopo la battaglia, ma Hippacritae e Utica continuarono a resistere, sentendo di non avere ragionevoli motivi per aspettarsi condizioni in quanto erano state così prive di misericordia e umanità quando si ribellarono per la prima volta. Questo ci mostra che anche in tali reati è più vantaggioso essere moderati e astenersi volontariamente da eccessi imperdonabili. Tuttavia, Hanno assediando una città e Barcas l'altra presto li costrinsero ad accettare le condizioni e i termini che i Cartaginesi ritennero opportuno imporre.



        TORTURA E MORTE DI MATHOS

        - Questa guerra libica, che aveva portato Cartagine in tale pericolo, non solo ha portato i Cartaginesi a riguadagnare il possesso della Libia, ma alla loro capacità di infliggere una punizione esemplare agli autori della ribellione. L'ultima scena era una processione trionfale di giovani uomini che guidavano Mathos attraverso la città e gli infliggevano ogni tipo di tortura. Questa guerra durava da tre anni e quattro mesi e superava di gran lunga tutte le guerre che conosciamo per crudeltà e sfida ai principi

        - I romani più o meno nello stesso periodo, su invito dei mercenari che avevano abbandonato loro dalla Sardegna, intrapresero una spedizione su quell'isola. Quando i Cartaginesi obiettarono sul fatto che la sovranità della Sardegna era piuttosto propria di quella di Roma e iniziarono i preparativi per punire coloro che erano la causa della sua rivolta, i Romani fecero di questo il pretesto di dichiarare guerra a loro, sostenendo che i preparativi erano non contro la Sardegna, ma contro se stessi.



        LE OSTILITA' CON ROMA

        - I Cartaginesi, che erano riusciti a malapena a sfuggire alla distruzione in questa guerra mondiale, erano sotto tutti gli aspetti mal equipaggiati in quel momento per riprendere le ostilità con Roma.

        - Le truppe romane in Sicilia non fecero nulla di degno di nota durante l'anno successivo; ma alla sua fine, quando avevano ricevuto i loro nuovi comandanti, i Consoli del prossimo anno, Aulo Atilio e Gaio Sulpicio, iniziarono ad attaccare Panormo, perché le forze cartaginesi stavano svernando lì. I Consoli, quando si avvicinarono alla città, offrirono battaglia con tutte le loro forze, ma poiché il nemico non uscì per incontrarli, lasciarono Panormus e partirono per attaccare Ippana.

        - Questa città hanno preso d'assalto e hanno anche preso Myttistratum che ha resistito a lungo all'assedio a causa della sua forte situazione. Quindi occuparono Camarina che recentemente aveva abbandonato la loro causa, sollevando una batteria d'assedio e provocando una breccia nel muro. Allo stesso modo presero Enna e molti altri piccoli luoghi appartenenti ai Cartaginesi, e quando ebbero finito con queste operazioni intrapresero l'assedio di Lipara.

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